Tariffa R.O.C.: “Poste Italiane S.p.a. - Sped. in A.P. - D.L. 353/2003, (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1, DCB Genova”- n° 209- Febbraio 2007 - Dir. resp.: Sergio Rassu - Editore: Medical Systems S.p.A. Genova - Contiene I.P. - Stampa: Nuova ATA - Genova
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ISSN 0394 3291
Caleidoscopio
Italiano
Maria Gabriella Mazzarello, Rinaldo Brunetti,
Mascja Perfumo, Angelo Michele Torriglia,
Giancarlo Montresor
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Cliniche e Microbiologiche
Direttore Responsabile
Sergio Rassu
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... il futuro ha il cuore antico
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1) Björklund B., Björklund V.: Proliferation marker concept with TPS as a model. A preliminary report. J. Nucl. Med.
Allied. Sci 1990 Oct-Dec, VOL: 34 (4 Suppl), P: 203.
2 Jeffcoate S.L. e Hutchinson J.S.M. (Eds): The Endocrine Hypothalamus. London. Academic Press, 1978.
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Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
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Introduzione
Il XX secolo testimonia la nascita e lo sviluppo della chimica clinica come
metodologia diagnostica e di prevenzione negli Ospedali (55). Nei secoli precedenti i Clinici erano in genere indifferenti all'idea che la chimica potesse
essere applicata allo studio funzionale in vivo, alla predizione delle malattie o
comunque al di fuori delle osservazioni post-mortem (16,17,18). Fisiologi e
Chimici come Fourcroy (1755-1809), Berzelius (1779-1848), Liebig (18031873), Prout (1785-1850), Rees (1813-1889) iniziarono a considerare i processi
fisiologici dell'organismo con le leggi note della chimica e della fisica arrivando a correlare gli stati patologici con anomalie nelle reazioni osservabili nei
campioni biologici (36,42). Solo successivamente Folin (1867-1934) e Van
Slyke (1883-1971) introdussero definitivamente l'analisi chimica di
Laboratorio come servizio diagnostico indispensabile per la clinica ospedaliera (38). Ancora a cavallo tra il XIX e il XX secolo Robert Koch identificò il batterio responsabile del carbonchio nel 1877 e stilò alcuni postulati ancora oggi
utilizzati nell'eziologia delle malattie infettive: nacque così la Microbiologia
come scienza. Con la scoperta degli anticorpi (Von Berhing-Kitasato,1890),
dei virus (Beijerinck, 1889), della penicillina (Fleming, 1929), dei primi metodi di coltura, delle colorazioni, anche le tecniche di diagnostica microbiologica furono introdotte come supporto alla clinica ospedaliera (31,60).
Nel 1944 O. Avery identificò il DNA la cui struttura venne descritta per la
prima volta da Watson e Crick nel 1953 (58). Con la messa a punto da parte
di Mullins nel 1983 della Polimerase Chain Reaction (PCR) (32) la diagnostica ospedaliera subì una svolta con l'introduzione delle tecniche di biologia
molecolare.
Attualmete le tecniche di Laboratorio si avvalgono delle più svariate proprietà chimiche, fisiche e sono state sviluppate a scopo diagnostico presentando caratteristiche di specificità e sensibilità. Esse vengono utilizzate nell'ambito della fisiologia, della patologia umana, animale e vegetale, nell'analisi ambientale, delle acque e degli alimenti per citarne solo alcuni. In campo
clinico tali metodiche vengono utilizzate sia a scopo qualitativo che quantitativo soprattutto per la determinazione di microrganismi patogeni o molecole come ormoni, proteine, oncoproteine, anticorpi, citochine e marcatori di
danno d'organo (26).
Esistono diverse tipologie di analisi la cui scelta dipende dalle caratteristiche sia dell'oggetto della procedura analitica cioè il campione che dalle
caratteristiche dell'analita, la molecola d'interesse nella determinazione
all'interno del campione che può essere naturale e presente in situazioni nor-
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mali (es. TSH), in situazioni patologiche (es. HIV Ab), o costituito da sostanze artificiali quali ad esempio farmaci, droghe d'abuso ed ormoni.
Il limite di rivelabilità è la minima quantità di analita determinabile per
mezzo di una tecnica analitica.
La sensibilità è la variazione di quantità di analita apprezzabile in funzione della tecnica impiegata.
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Scelta delle tecnologie
La metodica che viene scelta in ambito ospedaliero per effettuare una
determinata analisi si basa sulle caratteristiche analitiche del sistema, sugli
aspetti organizzativi ed economici; il risultato è in genere un compromesso.
La scelta viene effettuata dopo un accurato esame dei seguenti parametri:
- Linee guida-prestazioni analitiche: CLSI (The Clinical and Laboratory
Standards Institute): documenti EP5, EP6, EP7, EP9, EP10
- Caratteristiche del sistema: es. Modello di Stockmann
- Un protocollo di sperimentazione
- La disponibilità di campioni adeguati (livelli di analita, interferenti)
- Applicazione di metodi statistici per l'elaborazione dei dati
- Capitolato adeguato.
Modello di Stockmann
Prende in considerazione tutti gli attributi funzionali ed organizzativi che
influenzano o caratterizzano l'uso di un sistema analitico. Si tratta di 200
parametri, suddivisi in 14 gruppi, ripartiti in 4 capitoli:
o
INSTALLAZIONE
o
ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO
o
ASSICURAZIONE DI QUALITA'
o
MISCELLANEA (manutenzione, troubleshooting)
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Microscopia
Storia
Il microscopio semplice più antico era costituito soltanto da un tubo con
una piastra per l'oggetto da osservare ad un'estremità e, dall'altra, da una
lente “obiettivo”. Esso veniva usato per l'osservazione di piccoli esseri viventi come ad esempio le pulci.
Circa nel 1590, gli olandesi Zaccharias e Hans Janssen, sperimentarono
che più lenti montate in un singolo tubo permettevano un maggior ingrandimento e costruirono il precursore del microscopio composto. Nel 1609
Galileo studiò i principi del funzionamento delle lenti e costruì uno strumento di maggior qualità dotato di un dispositivo di focalizzazione.
Padre vero e proprio della microscopia è considerato l'olandese Anton
Van Leeuwenhoek (1632-1723) il quale inventò nuovi metodi per la molatura e la lucidatura delle lenti che gli consentì la costruzione di microscopi con
ingrandimenti fino a 270 diametri. Fu il primo ad osservare e descrivere i batteri, i lieviti, gli elementi del sangue (5,21,47).
Nel XVIII secolo innovazioni tecniche basate sullo studio delle lenti
migliorarono la visibilità e la risoluzione in microscopia. Vengono in seguito
sviluppati nuovi tipi di microscopio: l'ultramicroscopio nel 1902 (67), il
microscopio a contrasto di fase per osservare materiali biologici incolori nel
1942 (66), il microscopio elettronico nel 1931 (43) ed il microscopio a scansione nel 1981 (4).
Funzionamento e tipologie dei microscopi
Il microscopio è uno strumento capace di fornire un'immagine ingrandita di un piccolo oggetto osservato attraverso di esso. seconda della radiazione utilizzata per illuminare il campione si distinguono due tipi principali di
microscopio, quello ottico e quello elettronico: nel primo si impiega radiazione visibile (luce), nel secondo un fascio di elettroni accelerati.
I principali parametri che caratterizzano un microscopio sono il potere di
ingrandimento ed il potere di risoluzione. Il primo è definito come il rapporto tra la dimensione dell'immagine ingrandita e quella dell'oggetto osservato. Il secondo è il reciproco della distanza minima tra due punti del campio-
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ne che lo strumento è in grado di far apparire come distinti. Tale distanza,
secondo la formula empirica di Ernst Abbe, è data dal prodotto di una
costante opportuna per la lunghezza d'onda della radiazione utilizzata.
Quindi, per avere una risoluzione migliore è necessario impiegare radiazione con lunghezza d'onda piccola; in realtà, esiste un limite intrinseco al potere di risoluzione di un microscopio. Tale limite è posto dal fenomeno della
diffrazione che rende impossibile percepire distintamente un oggetto di
dimensioni paragonabili a quelle della lunghezza d'onda della radiazione
impiegata.
Si ricorda che anche per il microscopio elettronico si può parlare di lunghezza d'onda, in quanto, in accordo con i principi della meccanica ondulatoria, un fascio di particelle può essere visto come radiazione corpuscolare di
lunghezza d'onda pari al rapporto tra la costante di Planck h e la quantità di
moto p della particella (γ = h/p). È proprio per migliorare il potere di risoluzione che è stato ideato il principio della microscopia elettronica e, più tardi,
il metodo della scansione, applicato sia alla microscopia elettronica che a
quella ottica.
Microscopio ottico
Il nome completo del microscopio ottico è “microscopio ottico composto”
(MOC), denominazione che permette di distinguerlo dal cosiddetto microscopio semplice, lo strumento ottico meglio noto come lente di ingrandimento.
Nella sua forma più essenziale, il microscopio composto è costituito da
una combinazione di due lenti convergenti, l'obiettivo e l'oculare, montate a
distanza fissa alle estremità di un tubo chiuso. L'obiettivo raccoglie la luce
proveniente dal campione e ne fornisce un'immagine reale, capovolta e
ingrandita; l'oculare riceve questa immagine nel proprio fuoco e la trasforma
nell'immagine finale, che è virtuale, capovolta e ingrandita rispetto all'immagine reale. L'attrezzatura accessoria di un microscopio comprende inoltre
il piano portacampioni e alcuni dispositivi di regolazione della distanza dell'obiettivo dall'oggetto, per la messa a fuoco. In genere il campione da osservare viene posto fra due vetrini sottili e fissato al portacampioni. La luce che
lo illumina può provenire da una sorgente diretta o da uno specchio che la
indirizza sul campione. I modelli più sofisticati sono provvisti inoltre di un
sistema di viti micrometriche per la regolazione fine della posizione del campione e di tre o più obiettivi montati su una testa girevole, che consentono di
variare rapidamente il potere di ingrandimento dello strumento.
Esistono diversi sistemi di illuminazione del campione, a seconda delle
sue caratteristiche di trasparenza o opacità. I sistemi più utilizzati sono quello a trasmissione o a campo chiaro e a diffusione o a campo scuro. Nel primo
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caso, la luce proveniente da una lampada a incandescenza attraversa completamente il campione. Nel caso del sistema a campo scuro la luce colpisce
il campione e ne viene diffusa, più precisamente, il fascio incide sul preparato lungo una direzione quasi perpendicolare all'asse dello strumento, per cui
l'obiettivo raccoglie solo la luce diffratta dal campione. Il risultato è che le
parti libere del campione appaiono come un fondo scuro su cui risaltano i
particolari in esame. La tecnica è particolarmente utile per l'osservazione di
campioni biologici limpidi e trasparenti, e per oggetti talmente piccoli da
risultare invisibili con il sistema di illuminazione normale (7).
Il potere di ingrandimento di un microscopio ottico è dato dal prodotto di
quello dell'obiettivo per quello dell'oculare. I modelli più sofisticati sono in
grado di ingrandire l'immagine del campione fino a circa 1000 volte (1000x).
Il potere di risoluzione, invece, è limitato dal fenomeno della diffrazione e
dipende dalla lunghezza d'onda della radiazione impiegata; per la luce bianca, la minima distanza percettibile è di 0,2 micron (0,2 millesimi di millimetro), che equivale a un potere risolutivo 1000 volte migliore di quello dell'occhio umano.
La più alta risoluzione per un microscopio ottico è stata raggiunta da un
gruppo di ricercatori statunitensi che hanno perfezionato una tecnica nota
come “microscopia Raman a campo vicino”. La tecnica, applicata a campioni di nanotubi di carbonio, ha reso possibile l'osservazione di strutture delle
dimensioni di 30 nanometri. La tecnologia Raman consiste essenzialmente
nell'inviare sul campione luce laser e nell'osservare come questo la defletta,
misurando i modi vibrazionali delle molecole analizzate; per focalizzare il
fascio laser, in questo caso la luce è stata inviata sulla punta di un cavo d'argento di 10 nanometri, quindi utilizzata per esplorare il vetrino a 1 nanometro di distanza dalla sua superficie.
Il microscopio stereoscopico è costituito da due microscopi a basso potere di ingrandimento, affiancati e puntati sullo stesso campione. Con questo
impianto, sebbene l'ingrandimento non superi le 100 volte, è possibile ottenere immagini tridimensionali.
Il microscopio a ultravioletti utilizza radiazione con lunghezza d'onda
minore della luce visibile, cioè luce ultravioletta. L'accorgimento produce un
aumento del potere di risoluzione, ma impone alcune modifiche: poiché il
vetro non è trasparente agli ultravioletti, gli elementi ottici devono essere realizzati con altri materiali, quali quarzo, fluorite o specchi alluminizzati.
Essendo gli ultravioletti invisibili all'occhio umano, inoltre, per essere visualizzata, l'immagine deve essere resa per fosforescenza o per scansione elettronica.
Il microscopio polarizzatore emette un fascio di luce che attraversa il
corpo del preparato in modo da far visualizzare l'immagine in luce polarizzata. La microscopia in luce polarizzata è formata da onde ciascuna delle
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quali oscilla in un piano, detto piano di vibrazione o piano di polarizzazione
che è perpendicolare alla direzione di propagazione dell'onda stessa.
Il microscopio a raggi X è basato sull'emissione di radiazioni a raggi X.
Viene utilizzato per studiare le strutture di particolari molecole o ioni presenti all'interno della cellula. Quando i raggi emessi attraversano le strutture
cellulari subiscono delle diffrazioni che verranno impressionate su una lastra
fotografica, apparendo come delle sfocate bande concentriche. Dalla differente disposizione di tali bande si potrà determinare la distribuzione atomica delle molecole all'interno dei tessuti analizzati.
Il microscopio a contrasto di fase è un tipo particolare di microscopio che
analogamente al microscopio luce emana radiazioni luminose. La maggior
parte di componenti cellulari è trasparente alla luce visibile, anche a causa
dell'elevata presenza di acqua, tuttavia vediamo che le radiazioni luminose
una volta oltrepassata una componente o un organello cellulare, subiscono
dei cambiamenti di fase che dipendono sia dallo spessore, sia dal diverso
indice di rifrazione della struttura oltrepassata. Mediante il microscopio a
contrasto di fase è possibile andare a determinare tali cambiamenti e convertirli in differenze di densità così da ottenere dei dati, cioè delle informazioni
utili circa la composizione di cellule e tessuti analizzati. Questa tecnica di
microscopia è molto utilizzata per osservare le cellule mantenute in vita in
apposite colture in vitro: infatti tramite la microscopia a contrasto di fase si
evita l'utilizzo di coloranti e fissativi che spesso comportano notevoli alterazioni strutturali ottenendo così dei dati molto più reali di quella che è l'organizzazione cellulare (66).
Microscopio elettronico
Lo schema di un microscopio elettronico è analogo a quello di un microscopio ottico: una sorgente produce la radiazione che incide sul campione e,
passando attraverso specifici sistemi che fungono da lenti, va a comporre
l'immagine ingrandita. La radiazione, tuttavia, non è di natura elettromagnetica, ma corpuscolare: si tratta infatti di un fascio di elettroni accelerati nel
vuoto. Le lenti convergenti non sono di tipo ottico ma di tipo elettromagnetico, costituite da campi elettrici e magnetici che, come è noto, sono in grado
di modificare la traiettoria delle particelle cariche. Il tutto è protetto da un
contenitore, all'interno del quale è praticato il vuoto. L'immagine viene composta su uno schermo fluorescente o, in alternativa, mediante sistemi fotografici o televisivi (33).
L'uso di elettroni in luogo di luce visibile porta notevoli vantaggi ai fini
delle prestazioni dello strumento. La lunghezza d'onda minima della luce
visibile, infatti, è di circa 400 nm (400 milionesimi di millimetro), mentre la
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lunghezza d'onda associata all'elettrone in questi strumenti può essere di soli
0,05 nm. Il potere di risoluzione del microscopio elettronico è pertanto notevolmente maggiore di quello dei microscopi ottici: si arrivano a percepire
dettagli di qualche decimo di nm.
Esistono essenzialmente due tipi di microscopio elettronico: quello a trasmissione (Transmission Electron Microscope, TEM) e quello a scansione
(Scanning Electron Microscope, SEM).
TEM
Nel TEM gli elettroni che costituiscono il fascio attraversano completamente il campione. Questo, dunque, deve avere uno spessore estremamente ridotto, compreso tra 5 e 500 nm. Il potere d'ingrandimento arriva fino a un milione di volte. La migliore prestazione di un microscopio elettronico a trasmissione è stata ottenuta nel giugno 2003 con l'OAM (One Angstrom Microscope) in
uso presso il Lawrence Berkeley National Laboratory negli Stati Uniti: lo strumento ha fornito un'immagine dei singoli atomi di litio di un campione di ossido di litio, l'elemento più leggero dopo l'idrogeno e l'elio (1).
SEM
A differenza del TEM, che può esaminare zone estese, un SEM analizza la
superficie del campione porzione per porzione, mediante un “pennello” elettronico di sezione paragonabile alla risoluzione del microscopio (dell'ordine
dei nm). Gli atomi della superficie, colpiti dagli elettroni del fascio, emettono
elettroni secondari che, insieme agli elettroni trasmessi, vengono raccolti da
un rivelatore e convertiti in segnali elettrici. Ogni punto del campione analizzato corrisponde a un pixel dello schermo televisivo, cosicché, man mano
che il fascio elettronico scorre sul campione, sullo schermo si costruisce
un'immagine completa. Un SEM ha fattore di ingrandimento pari a circa
100.000 e fornisce un'immagine tridimensionale molto dettagliata (61,20).
Con i modelli più recenti, è possibile anche seguire l'evolversi di un processo dinamico, come la reazione di un campione a una variazione di temperatura, a una trasformazione chimica o a una sollecitazione meccanica (12).
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Spettrofotometria
La fotometria è il processo che determina la quantità di luce assorbita da
atomi, molecole e viene usata per la stima quantitativa di composti. Le molecole sono quantizzate e quindi assorbono solo la luce che ha l'esatta energia
che causa transizioni da uno stato energetico all'altro. Ciascun composto chimico ha una serie propria di livelli di energia quindi assorbirà luce di lunghezze d'onda specifiche producendo qualità spettrali uniche che possono
essere usate anche per una analisi qualitativa che identifica e distingue
miscele di molecole non note.
Spettrofotometro
Lo spettrofotometro è uno strumento basilare nella chimica clinica in
quanto può rilevare l'effetto dell'energia raggiante su atomi e molecole su
lunghezze d'onda diverse da quelle rilevate dall'occhio umano ( da 400 a 700
nm) (17,18).
Gli spettrofotometri sono caratterizzati da quattro complessi fondamentali: sorgente, monocromatore, portacampioni e fotometro.
La sorgente consiste in una lampada a filamento di tugsteno o da una
lampada a scarica in idrogeno o deuterio.
Il monocromatore comunemente utilizzato è quello chiamato di Littrow
con prismi di quarzo alluminizzati su un lato o reticoli di diffrazione che permettono un'elevata dispersione e la correlazione della maggior parte delle
aberrazioni.Nei monocromatori destinati all'impiego nel visibile e nell'ultravioletto vengono usati prismi di quarzo che può essere sia naturale che sintetico.
Il fotometro è l'elemento più importante di uno spettrofotometro perché
ad esso è legata la precisione quantitativa, la riproducibilità di misura e la
risoluzione dell'intero apparecchio.
I sistemi fotometrici più comunemente usati sono di due tipi:
o Sistema a compensazione potenziometrica: il segnale prelevato ai capi
del rilevatore può essere messo in opposizione al segnale prelevato ai
capi di un potenziometro regolabile, alimentato da una tensione
costante; mentre un indicatore ad amplificazione indica il punto di
equilibrio tra i due segnali
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o Sistema ad amplificazione diretta: il segmento fotometrico viene
amplificato direttamente e comanda gli spostamenti dell'indice dello
strumento di misura.
Quantificazione
In chimica clinica per quantificare è necessario conoscere le lunghezze
d'onda assorbite dal composto in esame in modo massimale per generare la
migliore sensibilità d'analisi e conoscere l'entità dell'assorbimento della
molecola stessa a concentrazioni note.
La misura fotometrica viene fatta introducendo nel raggio monocromatico inizialmente una soluzione di riferimento ed in seguito la soluzione della
sostanza da esaminare; la differenza fra le due intensità determinate costituisce una misura della trasmittanza del composto, alla lunghezza d'onda alla
quale è stata effettuata la detenzione.
Lo spettro di assorbimento è la traslazione dei valori dell'intensità dell'energia radiante in funzione della lunghezza d'onda.
Gli spettrofotometri possono essere a singolo o doppio raggio, nel primo
caso vi è un solo fotorilevatore che riceve la luca trasmessa dalla cuvetta.
Nel secondo vi è un altro fotorivelatore colpito dalla luce prima che questa attraversi la soluzione come sistema di confronto al fine di eliminare le
limitazione del singolo raggio.
Per ottenere la concentrazione di una determinata sostanza in soluzione,
partendo dai valori di trasmittanza o di assorbanza si possono utilizzare tre
metodiche:
o Utilizzando la legge di Lamber-Beer I=Io 10abc I= luce che emerge dalla
soluzione; Io = luce che entra nella soluzione; a= una costante che
dipende dalla natura del campione e dalla lunghezza d'onda impiegata, b=lunghezza del cammino ottico; c= concentrazione del soluto nel
solvente
o Confrontando le letture dei campioni con letture di standard a concentrazioni note
o Estrapolando la concentrazione da curve di taratura ottenute con soluzioni di riferimento.
Le applicazioni di questo strumento sono le più comuni nei Laboratori di chimica clinica; ad esempio per la determinazione di substrati come glucosio, urea,
colesterolo con la metodica definita “end point” (che avvengono alla fine della
reazione) o per enzimi quali transaminasi, fosfatasi alcalina, LDH … con la metodica “rate” (che valuta le variazioni di assorbimento nell'unità di tempo).
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Cromatografia
La cromatografia, nata come tecnica separativa e sviluppatasi in seguito
anche come tecnica analitica, si basa sul fatto che i vari componenti di una
miscela tendono a ripartirsi in modo diverso tra due fasi, in funzione della
loro affinità con ciascuna di esse. Mentre una fase rimane fissa (la fase stazionaria) ed è generalmente un solido o un gel, un'altra fase, liquida o gassosa, (la
fase mobile) fluisce su di essa trascinando con sé in quantità maggiore i componenti della miscela che più risultano affini ad essa. Quando il rivelatore
posto in fondo all'apparecchio registra il passaggio di una sostanza eluita, elabora i dati su di un cromatogramma. Ogni volta che una sostanza viene rivelata, il cromatogramma registra un picco più o meno alto a seconda della sua
concentrazione. Perché un cromatogramma possa essere ritenuto accettabile
deve avere una buona risoluzione. Per risoluzione si intende un parametro
che mette in relazione l'efficienza, la selettività ed il fattore di ritenzione.
Selettività: per avere una buona selettività i picchi del cromatogramma
devono essere il più distanti possibili, ovvero sostanze di specie diversa
devono avere tempi di ritenzione diversi. Per tempo di ritenzione di una
sostanza si intende il tempo impiegato dall'eluente (ovvero la fase mobile)
per trascinarla via dalla fase fissa. E’ possibile migliorare la selettività diminuendo la temperatura di lavoro.
Efficienza: avere una buona selettività non basta infatti, anche se i picchi
sono ben distanziati, è possibile che siano talmente larghi che si sovrappongano fra loro. Per questo è necessario che particelle di una stessa specie vengano eluite con la stessa velocità in modo che la banda all'interno della colonna cromatografica sia il più stretta possibile. Esistono varie teorie su come sia
possibile migliorare l'efficienza; la più comune viene chiamata "Teoria dei
piatti teorici" e si rifà al metodo della distillazione frazionata, nel quale un
maggior numero di piatti permette una migliore separazione fra sostanze più
altobollenti con le sostanze più bassobollenti.
Fattore di ritenzione: è un parametro che mette in relazione il tempo di
ritenzione di un analita col "tempo morto", ovvero il tempo impiegato da una
sostanza non trattenuta dalla fase stazionaria per attraversare la colonna.
La cromatografia è una tecnica analitica piuttosto recente. Si tratta di
un'invenzione che la letteratura scientifica fa risalire ai primi anni del ventesimo secolo, precisamente al Marzo 1903, quando il botanico russo Mikhail
Tswett presentò al convegno della Società di Scienze Naturali di Varsavia
uno studio sull'analisi dei pigmenti vegetali mediante adsorbimento su
colonna. Degno di nota fu l'ottenimento della separazione della clorofilla
nelle due diverse tipologie a e b. Uno dei principali detrattori di questa tec-
Caleidoscopio
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nica, Willstätter, professore di chimica organica all'Università di Monaco di
Baviera, non riuscì ad ottenere, mediante cristallizzazione frazionata, gli stessi risultati di Tswett ed ipotizzò che la clorofilla subisse una decomposizione
durante il processo di adsorbimento. Il verdetto di Willstätter, convinto assertore della tecnica classica di purificazione, fu uno dei motivi per cui la cromatografia, come tecnica d'analisi, fu lasciata nel dimenticatoio per quasi
venticinque anni. Un'altra ragione è da attribuire al fatto che Tswett pubblicò
la maggior parte dei suoi lavori in russo, rendendo così meno disponibili alla
comunità scientifica i risultati delle sue ricerche.
Nel 1922 lo scienziato statunitense Palmer impiegò la tecnica di Tswett per
l'analisi di prodotti naturali, ma fu solo dal 1931 in poi che alla cromatografia,
grazie al lavoro di Richard Kuhn, venne riconosciuta dignità scientifica.
La tecnica di Tswett, oggi conosciuta come cromatografia di adsorbimento in fase normale, non poté essere impiegata con successo per la separazione di analiti solubili in acqua. Questo problema tecnico fu risolto da
Martin e Synge che, nel 1941, misero a punto la cromatografia di ripartizione (nota anche come cromatografia liquido - liquido o LLC). L'originalità dell'invenzione, che fruttò a Martin e Synge il premio Nobel nel 1952, riguardò
l'utilizzo di un supporto solido che rese possibile la creazione di una fase stazionaria liquida.
La LLC non ebbe un'ampia diffusione, probabilmente per mancanza di
affidabilità e robustezza, a causa della rimozione fisica della fase stazionaria
da parte della fase mobile. Nel 1944 Martin e collaboratori svilupparono la
cromatografia su carta che divenne la prima tecnica cromatografica microanalitica. (15)
A causa del lento processo di separazione, l'impiego della cromatografia
su carta subì una drastica riduzione con la nascita della cromatografia su
strato sottile (TLC), che ben presto divenne uno standard nei Laboratori di
chimica organica e farmaceutica per la sua semplicità, velocità e universalità
e che ancora oggi non è stata totalmente rimpiazzata da altre metodologie. La
TLC annovera, tra i vantaggi, la possibilità di svolgere analisi multiple e, tra
gli svantaggi (ora colmati dalla tecnica HPLC), la mancanza di automazione,
di riproducibilità e di accuratezza nella quantificazione. Recentemente la
TLC si è dimostrata particolarmente utile nella separazione degli enantiomeri, grazie all'adozione di speciali rivestimenti a base di ciclodestrine.
La cromatografia ionica fu sviluppata durante la seconda guerra mondiale per separare e concentrare gli elementi radioattivi necessari alla preparazione della bomba atomica.
La cromatografia di affinità, messa a punto negli anni '30, fu impiegata
per lo studio di enzimi ed altre proteine.
La cromatografia HPLC ebbe origine solo negli anni '70, quando la produzione di silice silanizzata portò alla realizzazione di un materiale di impaccamento che permise l'impiego di colonne più lunghe e di volume ridotto.
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Caleidoscopio
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La gascromatografia ha invece solo sessant'anni di storia.Il primo gascromatografo analitico ad adsorbimento gas - solido fu messo a punto da Fritz
Prior nel novembre 1945. Nel 1950 Martin e collaboratori svilupparono la
GLC (cromatografia di ripartizione gas - liquido).
Solo nel 1979, con l'introduzione delle colonne in silice fusa, la gascromatografia ebbe una decisiva espansione. Il primo rivelatore per gascromatografia, il catarometro, fu messo a punto da Ray nel 1954. (3)
Il rivelatore a ionizzazione di fiamma (FID), ancora oggi ampiamente utilizzato, fu realizzato quasi simultaneamente da due gruppi di ricerca capeggiati rispettivamente da Harley, McWilliam e Dewar nel 1958.
Tipi di cromatografia
Cromatografia su carta
Sostanzialmente si utilizza un foglio di carta da filtro (preparata appositamente e leggermente differente dalla carta per filtrare), su un bordo della
quale si deposita la soluzione da separare. Si sospende quindi il foglio di
carta in modo tale che il bordo inferiore peschi in una bacinella con la fase
mobile lasciando che per capillarità il liquido salga lungo il foglio di carta
(cromatografia in fase ascendente). Alternativamente si ripiega il bordo adiacente la sostanza da separare facendolo pescare nella bacinella (contenente la
fase mobile) posta in alto e facendo in modo che il resto del foglio scenda
verso il basso. La fase mobile fluirà lungo il foglio scendendo verso il basso
(cromatografia in fasce discendente).
La cromatografia su carta venne sviluppata soprattutto per le prime separazioni di aminoacidi, usando come fase mobile una miscela di 1-butanolo,
acido acetico ed acqua. Come fase mobile è possibile usare anche alcol etilico.
Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC)
Si tratta di una tecnica cromatografica che permette di separare due o più
composti presenti in un solvente sfruttando l'equilibrio di affinità tra una
"fase stazionaria" posta all'interno della colonna cromatografica ed una "fase
mobile" che fluisce attraverso essa. Una sostanza più affine alla fase stazionaria rispetto alla fase mobile impiega un tempo maggiore a percorrere la
colonna cromatografica (tempo di ritenzione) rispetto ad una sostanza con
bassa affinità per la fase stazionaria ed alta per la fase mobile.
Caleidoscopio
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Il campione da analizzare è iniettato all'inizio della colonna cromatografica dove è "spinto" attraverso la fase stazionaria dalla fase mobile applicando pressioni dell'ordine delle centinaia di atmosfere. Per ottenere un'elevata
efficienza nella separazione è necessario che le dimensioni delle particelle del
riempimento siano molto ridotte (di solito hanno diametri compresi da 3 a 10
µm), per questo motivo è indispensabile applicare un'elevata pressione se si
vuole mantenere una ragionevole velocità di flusso dell'eluente e quindi un
tempo di analisi adeguato.
Alla fine della colonna è applicato un rilevatore (IR, UV-VIS, spettrometro di massa) ed un calcolatore che permettono una analisi in continuo dell'uscita della colonna e quindi di poter quantificare e/o identificare le sostanze iniettate.
I vantaggi principali di questa tecnica sono: la dimensione ridotta della
colonna che evita problemi di deviazioni longitudinali (movimenti della fase
mobile longitudinali) e di percorsi alternativi; velocità di eluizione (passaggio della fase mobile attraverso la colonna) costante e regolabile; velocità di
esecuzione ridotta; piccole quantità di composto necessaria all'analisi (nell'ordine dei 5-10 microgrammi di campione solubilizzato in apposito solvente), tutto a favore di una maggiore accuratezza e precisione.
Lo svantaggio principale degli apparecchi per HPLC è il costo più elevato rispetto ad una cromatografia su colonna tradizionale, anche se non è possibile paragonare le due metodiche poiché presentano campi di applicazione
diversi.
Cromatografia su strato sottile (TLC)
La TLC è una tecnica cromatografica di semplice preparazione e rapida
esecuzione; questo la rende particolarmente adatta per l'esecuzione di valutazioni qualitative o semi-quantitative, nonché per seguire una reazione chimica durante il suo svolgersi.
La fase stazionaria è generalmente uno strato dallo spessore uniforme di
circa 1 mm di materiale adsorbente, depositato su una lastra di vetro. Il materiale adsorbente può essere gel di silice, allumina, cellulosa o polvere di diatomee (kieselguhr), a seconda dell'applicazione richiesta. La fase mobile è un
solvente opportunamente scelto (o una miscela di solventi), capace di separare i componenti della miscela da analizzare e poco affine per polarità alla
fase stazionaria scelta. Uno strato di fase mobile alto circa 1 cm viene posto
sul fondo di un contenitore nel quale si immerge l'estremità inferiore della
lastra di vetro preparata col materiale adsorbente, sulla quale è stata previamente posta una goccia del campione da separare o di una sua soluzione. Il
contenitore viene poi chiuso in modo da mantenere l'ambiente saturo di
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Caleidoscopio
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vapori di solvente. Per effetto di capillarità il solvente sale lungo la lastrina
trascinando con sé in maniera differente i componenti della miscela e separandoli. La corsa del solvente può durare da una decina di minuti ad oltre
un'ora. Se la separazione non è stata sufficiente, si può ricorrere ad una separazione bidimensionale: in questo caso la lastra è di forma quadrata ed in un
angolo di questa si deposita in un unico punto la soluzione da separare.
Dopo aver proceduto alla separazione si ruota la lastra in modo che le componenti separate siano lungo una linea orizzontale, quindi si procede ad una
nuova separazione con un differente solvente. Procedendo in questo modo si
riescono a separare sostanze molto affini fra loro e non altrimenti separabili.
Cromatografia a scambio ionico
Questo tipo di cromatografia si basa sul principio di attrazione di ioni di
carica opposta. Molti composti organici, come ad esempio gli amminoacidi,
possono avere parti della molecola polari favorendo quindi la loro separazione tramite questo metodo. La carica netta che questi composti presentano
dipende dal loro pKa e dal pH della soluzione. Come nella normale cromatografia si ha una colonna cromatografica impaccata con uno speciale tipo di
resina in grado di scambiare ioni. Esistono due tipi di resine: scambiatrici
anioniche e scambiatrici cationiche. Queste ultime possiedono gruppi carichi
negativamente ed attraggono quindi molecole cariche positivamente. Molti
scambiatori ionici sono costituiti da polimeri di stirene e di divinilbenzene
(polistirene). Il polistirene essendo un polimero lineare è solubile in numerosi solventi. Condensando invece stirene con divinilbenzene si ottengono polimeri con legami crociati e quindi insolubili; più è alto il numero di legami
crociati, maggiore sarà la capacità di trattenere composti ad alto peso molecolare.
E’ un metodo che permette di separare molto semplicemente ioni. E’ utile
per la purificazione di campioni analitici poiché, ad esempio, si potrebbe
avere bisogno di analizzare un anione in una matrice di cationi.
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Metodiche immunologiche
Molte tecniche di Laboratorio si avvalgono del legame specifico antigeneanticorpo. Dal momento che è possibile produrre anticorpi nei confronti di
qualunque tipo di macromolecola o sostanza chimica di piccole dimensioni,
le tecniche basate sul loro impiego sono utili per rilevare e purificare i composti.
Legame antigene-anticorpo
Le Immunoglobuline o Anticorpi (Ab) sono proteine nelle quali sono individuabili due regioni diverse per struttura e funzione:
- regione Fab: regione variabile che contiene la zona specifica per l'antigene
- regione Fc: regione a struttura costante presente all'interno della classe
e sottoclasse di Ab.
Gli anticorpi che vengono utilizzati nelle analisi di Laboratorio appartengono alla classe delle Immunoglobuline G.
Le forze che intervengono nel legame Ab-Ag sono: forze elettrostatiche,
forze idrofobiche, legami idrogeno e forze di Van der Waals.
Nei confronti di queste forze agiscono in senso positivo o negativo altre
componenti del campione: pH, temperatura, forza ionica, detergenti, proteine leganti, cross reagenti.
L'affinità è la forza di attrazione tra l'anticorpo ed un singolo sito antigenico (epitopo). E' misurata dalla costante di affinità o di equilibrio K= [AbAg] / [Ab] +[Ag]. Più elevata è K più forte è il legame.
L'avidità è la somma delle affinità tra un antigene (tutti i suoi epitopi) ed
un antisiero o un pool di Ab monoclonali. L'avidità è uno dei fattori principali che condizionano la sensibilità analitica cioè la capacità di discriminare
tra concentrazioni molto vicine.
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Tecniche per l’identificazione e la
quantificazione di proteine
Gli anticorpi possono essere impiegati per identificare, caratterizzare e
quantificare antigeni specifici da una soluzione. Il principio fondamentale
della maggior parte di tali metodiche è la precipitazione.
La precipitazione interviene quando l'antigene in soluzione acquosa
viene posto a contatto con l'anticorpo (cioè con un siero specifico) in presenza di elettroliti, ad esempio in soluzione fisiologica. Affinché la reazione
avvenga devono essere opportunamente scelte sia la concentrazione di ciascuno dei reagenti, che le altre condizioni sperimentali, quali temperatura ed
il tempo di incubazione.
In questa reazione l'antigene e l'anticorpo sono inizialmente in uno stato
di soluzione colloidale.
Si possono ottenere reazioni anche con antigeni chimicamente purificati
come ad esempio un polisaccaride batterico.
In questo modo si riesce ad eliminare la complessità reattiva, indotta dall'enorme molteplicità degli antigeni presenti sulla superficie di un batterio o
di un globulo rosso, come invece avviene nell'agglutinazione.
Il titolo precipitante di un siero può essere determinato valutando la più
piccola quantità di esso che sia in grado di precipitare una quantità standard
oppure si può, di fronte ad una quantità fissa di siero, porre quantità scalari
di antigene ed osservare fino a quale punto si ottenga ancora reazione. Il
grado di attività di un siero o di un antigene viene indicato dall'ultima diluizione che consente di evidenziare la reazione.
Dean e Webb nel 1926 definirono l'optimal ratio: la proporzione ottimale
antigene-anticorpo, che dà luogo alla maggiore reattività. Essi fecero diverse
miscele di egual volume e concentrazione di anticorpo ma con quantità
decrescenti di antigene. Osservarono poi il tempo richiesto per la flocculazione e definirono come optimal ratio la proporzione antigene - anticorpo in
cui la flocculazione avviene nel minor tempo (6). Optimal ratio corrisponde ad
una miscela equivalente, ove si ha l'utilizzazione reciproca e completa di
tutto l'antigene e di tutto l'anticorpo. Per “equivalenza” si intende che, nel
liquido surnatante della provetta, non rimangono residui né di antigene né
di anticorpo, in quanto completamente utilizzati per formare il precipitato.
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Precipitazione
La reazione di precipitazione può essere evidenziata mescolando anticorpi e antigeni solubili in provetta mediante il metodo delle diluizioni oppure
con la cosiddetta tecnica zonale ove il siero viene stratificato in provetta al di
sotto dell'antigene: in caso di positività si nota la comparsa, nella zona di contatto dei due reagenti, di un anello opalescente dovuto al fenomeno di precipitazione, assente in caso di reazione negativa.
La tecnica della precipitazione viene impiegata per diagnosticare diverse
malattie infettive o per differenziare specie microbiche appartenenti allo stesso genere come la reazione di Lancefield per gli Streptococchi.
La precipitazione può essere eseguita anche in substrati in gel o in agar
dove uno o entrambi i reagenti diffondono dando origine ad una reazione di
precipitazione nel punto in cui si incontrano in concentrazione ottimale.
Si formano così bande di precipitazione ben visibili e separate che permettono d'identificare i singoli componenti antigenici in una soluzione che li contenga contemporaneamente e nello stesso tempo stabilire le affinità esistenti.
Gel diffusione doppia bidimensionale
Questa metodica nota anche come metodo di Ouchtelony prevede la diffusione dell'antigene e dell'anticorpo da due pozzetti adiacenti ricavati in
uno strato di agar. I due reagenti diffondono e formano un precipitato visibile nella zona del gel ove si incontrano in proporzione ottimale permettendo
non solo di stabilire la presenza di più antigeni ma anche la loro eventuale
parziale o totale identità.
Gel diffusione radiale
Il metodo, noto anche come tecnica di Mancini, consente una valutazione
quantitativa della concentrazione dell'anticorpo o dell'antigene.
Uno dei due reagenti è incorporato nello strato di agar; dopo la solidificazione si preparano numerosi pozzetti che vengono riempiti con i diversi
campioni di antigene,di cui si vuole determinare la concentrazione.
L'antigene, diffondendo nel gel contenete l'anticorpo, dà origine ad anel-
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li di precipitazione il cui diametro è direttamente proporzionale alla concentrazione dello stesso.
Immunoelettroforesi
Prevede due stadi successivi: 1) elettroforesi della miscela antigenica in un
adatto gel in modo da separare i singoli costituenti in base alla loro mobilità
elettroforetica 2) deposito di un antisiero, specifico per alcune o tutte le componenti proteiche, in una scanalatura laterale parallela alla direzione della
migrazione elettroforetica. Diffondendo uno verso l'altro originano linee o
archi di precipitato nei punti in cui si incontrano in proporzioni ottimali.
Agglutinazione
La reazione di agglutinazione non differisce sostanzialmente nel meccanismo da quella di precipitazione.
Lo stesso anticorpo è in grado di esplicare azione precipitante o agglutinante in funzione solo dello stato fisico-chimico dell'antigene.
Se questo, anziché disciolto nel mezzo, è costituito da elementi corpuscolari (es. globuli rossi o batteri) si avrà reazione di agglutinazione.
La reazione di agglutinazione può essere eseguita, oltre in provetta, anche
su vetrino (prova rapida) diluendo per raddoppio l'anticorpo. Una metodica di
questo genere viene impiegata spesso nella diagnosi di molte malattie soprattutto nell'identificazione di varie specie batteriche e dei gruppi sanguigni.
E’ possibile fissare determinanti antigeni alla superficie di globuli rossi o
di particelle inerti (colloidi, lattice, bentonite) rendendoli così agglutinabili
da parte degli anticorpi specifici.
Se l'antigene viene legato ai globuli rossi, la sua reazione con l'anticorpo
omologo determina un'emoagglutinazione passiva. Antigeni provenienti dai
microrganismi più diversi possono venire fissati ai globuli rossi, in genere
previo trattamento di questi ultimi con acido tannico, gli eritrociti così sensibilizzati possono venire poi impiegati nella prova di emoagglutinazione passiva per la sierodiagnosi di malattie infettive ed infestive.
La reazione di Middlebrook-Dubos cioè l'agglutinazione da parte del
siero di soggetti con tubercolosi, di eritrociti sensibilizzati da antigeni tubercolari ha rappresentato il primo esempio di emoagglutinazione passiva.
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Inibizione dell’emoagglutinazione da virus
Alcuni virus sono capaci di legarsi ai globuli rossi in quanto dotati di
emoagglutinine facendoli agglutinare. Visto che questa reazione viene inibita dalla presenza di anticorpi virus-specifici è possibile titolare questi ultimi
con una tecnica nota come reazione di Hirst.
Il test presenta elevate sensibilità, specificità e misura la quantità di anticorpi che si legano direttamente all'emoagglutinina virale che è generalmente un antigene superficiale del virione.
La sua esecuzione consiste nell'aggiungere una sospensione di globuli
rossi ad una serie di miscele costituite da varie diluizioni, per raddoppio del
siero in esame e da una quantità standardizzata di virus: in genere quattro
unità emoagglutinanti (UEA). Il titolo degli anticorpi inibenti l'emoagglutinazione è rappresentata dalla più alta diluizione di siero capace di prevenire l'emoagglutinazione da virus. In presenza di agglutinazione gli eritrociti si
dispongono in un sottile strato granulare a margini irregolari che ricopre tutto
il fondo; al contrario, gli eritrociti normali si depositano sul fondo raccogliendosi nel centro a formare una specie di bottone a margini ben definiti.
Fissazione del complemento
A volte non è possibile evidenziare a occhio nudo una reazione antigeneanticorpo; essendo noto che tale complesso determina l'attrazione del complemento (C'). Aggiungendo quindi una quantità nota di C' questa viene fissata o consumata. Se dopo si aggiungono anche globuli rossi sensibilizzati
dal rispettivo anticorpo non si avrà emolisi perché manca il C'. In caso di
mancata reazione iniziale l'emolisi avverrà in quanto il C' è rimasto libero.
Quindi se non compare emolisi la reazione è positiva, cioè è precedentemente intervenuta una reazione antigene-anticorpo; quando si verifica emolisi la reazione è negativa.
Questa metodica può essere utilizzata sia per la ricerca di anticorpi sia per
individuare gli antigeni, uno dei due deve quindi esser noto e servire per
identificare l'altro.
La prova di fissazione del complemento implica l'uso di quantità molto
modeste di C' (2 unità) perché una parte potrebbe non fissarsi al complesso
antigene-anticorpo e potrebbe poi determinare l'emolisi generando una reazione falsamente negativa.
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Indispensabile è eliminare il complemento presente naturalmente nei sieri
in esame sottoponendoli ad un trattamento termico di 56 °C per 30 minuti.
Le IgG4, le IgA, le IgD e le IgE non sono in grado di fissare il complemento, quindi questa reazione diagnostica solo gli anticorpi di classe IgM e
le altre tre sottoclassi di IgG.
Sieroneutralizzazione
Con il termine prove di neutralizzazione si indicano tutte quelle procedure in cui un anticorpo specifico inibisce un effetto biologico che può essere provocato da un microrganismo o da una tossina.
Quando un antigene viene posto a contatto con il siero di un soggetto convalescente o immunizzato perde del tutto o in gran parte il suo potere infettante. La spiegazione è che gli anticorpi specifici rivestono la superficie dell'antigene impedendo stericamente la sua adesione alla cellula ospite. Il tasso
di anticorpi neutralizzanti nel siero può essere valutato mettendo a contatto
diluizioni seriali per raddoppio del siero con quantità standard di antigene
(nel caso dei virus di solito 100 DITC50) e lasciate reagire per un tempo appropriato ad una temperatura ottimale.
L'attività residua delle miscele antigene-siero viene valutata tramite una
titolazione detta al “punto-finale” sul substrato biologico più idoneo (colture
cellulari, uova embrionale, animali da Laboratorio).
Titolo finale degli anticorpi neutralizzanti viene considerata la più alta
diluizione del siero ancora capace di prevenire i fenomeni legati alle proprietà dell'antigene.
Immunofluorescenza
E’ possibile rendere visibile una reazione antigene -anticorpo marcando
uno dei reagenti con sostanze chiamate fluorocromi (fluoresceina, rodamina)
che hanno la capacità di emettere fluorescenza se osservate con un microscopio a luce ultravioletta .
La tecnica è applicabile a sezioni di tessuto, colture cellulari o strisci di
sospensioni di cellule di animali, batteriche e protozoarie.
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Immunodosaggi
Le metodiche immunologiche per la quantificazione della concentrazione
di antigene presentano un straordinaria sensibilità e specificità e sono oggi
tecniche di comune utilizzo sia in campo clinico che nella ricerca. Tutti i
moderni metodi immunochimici quantitativi presuppongono la disponibilità
di una preparazione purificata di antigene o di anticorpo la cui quantità può
essere misurata grazie ad una molecola indicatrice dell'avvenuto legame
antigene-anticorpo. Costituenti degli immunodosaggi sono: l'antigene, il
reattivo anticorpale, il tracciante e la curva standard.
L'antigene è :
o
l'analita da misurare
o
il calibratore
o
l'analita marcato che compete con l'analita da dosare
o
la molecola utilizzata per produrre gli anticorpi.
Il reattivo anticorpale può essere costituito da un antisiero policlonale o
da anticorpi monoclonali.
Il tracciante è il costituente che segnala la reazione antigene-anticorpo grazie al suo legame con un marcatore (radioisotopo, enzima, fluoroforo) (23).
La curva standard è la componente necessaria per l'attribuzione di una
“quantità” al segnale emesso dal tracciante.
Immunodosaggi diretti e indiretti
Un immunodosaggio può essere impiegato per una misurazione, all'interno di un campione, della quantità sia di un anticorpo che di un antigene.
Si definisce metodo diretto una tecnica che mira alla quantificazione di un
antigene che può essere ad esempio una proteina presente nel plasma oppure una componente microbica. Un immunodosaggio di tipo indiretto, invece,
viene utilizzato con lo scopo di dimostrare l'avvenuto contatto di un antigene con un organismo attraverso la ricerca e la quantificazione degli anticorpi
specifici. Quest'ultimo viene adoperato soprattutto in microbiologia clinica
con tecniche di immunofluorescenza o di ELISA ad esempio per valutare la
sieroconversione o un'infezione pregressa.
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Immunodosaggi competitivi e non competitivi
Nei metodi competitivi l'analita (Ag) viene dosato grazie alla sua capacità
di competere con un tracciante costituito da un antigene marcato (Ag*) per
formare un immunocomplesso con un Ab specifico presente in quantità limitata. La misura del segnale (Ab-Ag*) è in genere inversamente proporzionale all'analita presente nel campione.
Nei metodi competitivi ad una fase l'analita (Ag) del campione e l'antigene marcato (Ag*) competono simultaneamente per una quantità limitata di
anticorpi (Ab).
Nei metodi competitivi a due fasi, in una prima fase l'anticorpo (Ab) è
incubato con il campione (Ag), mentre il tracciante (Ag*) viene aggiunto in
una seconda fase. Questi metodi possono essere usati per aumentare la pendenza iniziale della curva (sensibilità).
Tali metodiche sono quasi limitate al dosaggio di apteni, i quali, non avendo un numero di epitopi sufficienti ad essere legati da due Ab, presentano
difficoltà tecniche all'applicazione di metodi non competitivi.
Nei metodi non competitivi l'analita viene dosato mediante l'utilizzo di
due diversi anticorpi, presenti in eccesso, specifici per due diversi epitopi
dello stesso antigene. Un anticorpo è marcato (Ab*) e l'altro è legato ad una
“fase solida”. La misura del segnale (Ab*-Ag-Abfase solida) è direttamente
proporzionale all'analita presente nel campione.
Tali metodi sono anche chiamati “sandwich” perché l'antigene è legato fra
due anticorpi. Anche questi, come quelli competitivi, possono essere ad una
fase o a due fasi; questi ultimi migliorano la sensibilità e specificità.
I metodi non competitivi sono più sensibili dei metodi competitivi poiché
in prossimità dello zero un piccolo incremento di segnale è più rilevabile
rispetto ad un piccolo decremento.
Gli immunodosaggi sia competitivi che non competitivi possono essere
distinti in omogenei ed eterogenei.
Sono definiti omogenei gli immunodosaggi che per la lettura del segnale
non richiedono la separazione dell'immunocomplesso dalla frazione non
legata. Sono più semplici e veloci e vengono utilizzati in genere per il dosaggio di piccole molecole come: farmaci e droghe d'abuso.
Sono definiti eterogenei gli immunodosaggi che prima della lettura del
segnale richiedono la separazione dell'immunocomplesso che é in genere
ottenuta con un Ab o Ag adeso ad una fase solida.
Alla separazione segue nei metodi RIA (Radio Immuno Assay) il conteggio della radioattività, nei metodi alternativi, come nei metodi ELISA
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(Enzyme-Linked Immuno-Sorbent Assay), segue l'aggiunta del reagente
complementare → incubazione → blocco della reazione → lettura.
I marcatori non isotopici possono essere utilizzati nei dosaggi omogenei
(non richiedono la separazione dell'immunocomplesso dalla frazione non
legata) e nei dosaggi eterogenei (richiedono la separazione B/F).
I marcatori isotopici necessitano della separazione B/F (B= frazione; F=
frazione legata).
La separazione B/F si può ottenere mediante:
1) Cromatografia (carta, gel, resine)
2) Precipitazione di Bound (doppio Ab, salatura, PEG glicole polietilenico, solventi)
3) Adsorbimento di Free (carbone-destrano, resine)
4) Cattura su fase solida (attualmente più usata) (Ab o Ag legato a microparticelle magnetiche,a biglie, a provette, a micropiastre).
Nei metodi in fase omogenea la separazione dell'immunocomplesso non
è richiesta perché il segnale “aspecifico” viene neutralizzato,come:
EIA competitivo omogeneo: Ag*(con enzima), Ab che inibisce l'enzima,
Ag analita; il segnale sarà dato dal solo Ag* libero.
FIA competitivo a smorzamento diretto: Ag*(con fluoroforo), Ab che inibisce la fluorescenza, Ag analita; il segnale sarà dato dal solo Ag* libero.
Non competitivo omogeneo: Ab* (con attivatore), Ab*(con fluoroforo), Ag
analita, la reazione avviene solo se entrambi gli Ab sono legati a Ag (Ab*-AgAb*); il segnale sarà dato dall'immunocomplesso.
In questi casi il segnale è direttamente correlato all'Ag del campione.
Nei primi due casi è l'opposto di quanto avviene nei competitivi eterogenei, nei quali il segnale è inversamente proporzionale al'Ag del campione.
Altri esempi di neutralizzazione del segnale aspecifico sono:
FIA a smorzamento indiretto (competitivo): Ag*(con fluoroforo), Ag analita, Ab antifluoresceina e Ab che protegge la fluorescenza nei confronti di
quest'ultimo; il segnale sarà dato dal Ag* -Ab.
FPIA fluorescenza polarizzata (competitivo): Ag*(con fluoroforo), Ag analita, Ab solo le molecole più grandi emettono luce polarizzata; il segnale sarà
dato da Ag*-Ab.
In questi casi il segnale è inversamente proporzionale all'Ag del campione, come comunemente avviene nei metodi competitivi.
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FPIA
La Fluorescence Polarization Immunoassay (FPIA) è un immunodosaggio
competitivo in fase omogenea in fluorescenza.
L'antigene del campione (Ag) e l'antigene marcato con fluoresceina (AgF)
competono per i siti leganti dell'anticorpo. Essendo un immunodosaggio in
fase omogenea non è richiesto il lavaggio per separare l'immunocomplesso
Ab-AgF dall'AgF “free”.
La FPIA è una tecnica accurata e sensibile utilizzata per il dosaggio di farmaci, droghe d'abuso e di alcuni ormoni (estriolo, cortisolo).
I reagenti sono detti:
S: l'antisiero specifico per l'analita
T: il tracciante cioè l'analita marcato con fluoresceina
P: il pretrattante che serve per facilitare il rilascio dell'analita dalle proteine del siero.
La FPIA utilizza tre concetti chiave: la fluorescenza, la rotazione delle
molecole in soluzione e la luce polarizzata.
Fluorescenza: la fluoresceina è una sostanza che assorbe energia dalla luce
a 490nm e rilascia questa energia ad una lunghezza d'onda maggiore
(520nm) come luce fluorescente.
La rotazione delle molecole in soluzione: in una soluzione le molecole
grandi ruotano più lentamente rispetto alle molecole piccole.
Questo fatto permette di distinguere nella stessa soluzione le molecole
fluorescenti piccole (AgF) che ruotano rapidamente dalle molecole fluorescenti grandi (Ab-AgF) che ruotano più lentamente.
La luce polarizzata: l'energia emessa a 520nm come luce fluorescente
dagli immunocomplessi Ab-AgF passa attraverso il polarizzatore, perché la
molecola non fa in tempo a ruotare ed emette luce nello stesso piano della
luce assorbita; le piccole molecole AgF assorbono la luce polarizzata ma ruotano prima di emetterla come fluorescenza e quindi la stessa viene diretta in
altre direzioni e dispersa come luce non polarizzata.
La FPIA è un metodo competitivo perciò il segnale è inversamente correlato con l'analita nel campione.
MEIA
Microparticle Enzyme Immunoassay (MEIA) è un metodo di immunodosaggio che utilizza delle microparticelle come fase solida per la separazione
dell'immunocomplesso (Ab-Ag).
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Il metodo è automatizzato e viene utilizzato per il dosaggio di ormoni,
marcatori cardiaci, marcatori tumorali, test sierologici.
I reagenti sono costituiti da:
1) Fase solida anticorpo-microparticelle: microparticelle di latex coniugate con l'anticorpo specifico per l'analita
2) Coniugato anticorpo-enzima: anticorpo coniugato con fosfatasi alcalina
3) Substrato per l'enzima: 4-Metil Umbelliferone fosfato (MUP).
CMIA
Chemiluminescent Magnetic Immunoassay (CMIA) è metodo di immunodosaggo che utilizza un anticorpo clegato a microparticelle magnetiche, un
anticorpo coniugato con un composto chemiluminescente ed un reagente
attivatore (trigger).
CMIA e MEIA possono utilizzare il metodo non competitivo sandwich; la
quantità di segnale è direttamente proporzionale alla quantità di analita.
Gli immunodosaggi di routine risalgono agli anni '60 con lo sviluppo
della Radioimmunologia (RIA) la quale utilizza come traccianti degli isotopi
radioattivi legati all'Ag* (competitivi) o all'Ab* (non competitivi).
La concentrazione dell'analita è correlata direttamente o inversamente
alla radioattività misurata dal Gamma-counter (I 125,Co57) o Beta-counter
(H3) a seconda del tipo di isotopo.
La tecnologia RIA è ancora usata (aldosterone, testosterone libero, cortisolo), ma per le normative che regolano la gestione del materiale radioattivo,
l'instabilità del marcato e le difficoltà di automazione, è sempre più sostituita dalla tecnologia che utilizza traccianti alternativi al RIA .
La tecnologia RIA è applicata a metodi competitivi (RIA), non competitivi (IRMA), entrambi eterogenei.
Nei dosaggi alternativi vengono usati come marcatori degli enzimi (fosfatasi alcalina, perossidasi di rafano, beta-galattosidasi), molecole fluorescenti
o luminescenti.
La concentrazione dell'analita è direttamente (metodi non competitivi) o
inversamente (metodi competitivi) correlata alla variazione di colore o emissione di luce misurata dall'analizzatore.
ELISA
ELISA o Enzyme Linked Immunosorbant Assay è una tecnica alternativa
che ha avuto una maggior applicazione nella diagnostica di Laboratorio. Essa
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consiste in un immunodosaggio eterogeneo, sandwich o competitivo, in cui
un anticorpo o un antigene sono immobilizzati ad una fase solida (micropiastra). Attualmente è utilizzato soprattutto in sierologia infettiva ed autoimmunità (27, 28).
Presenta una sensibilità notevole per il fatto che una sola molecola di
enzima può reagire con un elevato numero di molecole di substrato, determinando, anche in presenza di titoli anticorpali modesti, una reazione colorimetrica amplificata.
A partire dagli anni '70 e negli anni '80 e '90 si sono ottenuti notevoli progressi nella sensibilità, specificità dei dosaggi, nella loro automazione e sono
state introdotte altre tecnologie come: FIA (Fluorescent ImmunoAssay) e
CLIA (ChemiLuminescent ImmunoAssay).
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Costituenti degli immunodosaggi
Antigeni marcati
Devono avere la reattività immunologica dell'analita ed il marcatore non
deve alterare la reattività immunologica.
Reagenti anticorpali
Anticorpi policlonali: sono miscele di Immunoglobuline (classe IgG)
diverse per struttura e capacità legante. Hanno una bassa riproducibilità,
un'elevata specificità (ottenuta anche con l'eventuale aggiunta di antigeni per
i siti aspecifici, per neutralizzare gli interferenti), sono stabili e si possono
ottenere in titoli elevati. Tali Immunoglobuline vengono prodotte immunizzando un animale di specie eterologa con l'analita, se immunogenico (PM
>4000), o con l'accoppiamento analita-proteina (nel caso di apteni: PM
<2000).
Si ottiene così l'antisiero e da questo gli anticorpi policlonali (cioè una
miscela di anticorpi prodotti da più cloni plasmacellulari). L'antisiero viene
valutato in base al titolo (reciproco della diluizione del reattivo anticorpale),
alla specificità cioè alle reazioni crociate (rapporto percentuale tra l'analita ed
interferenti che danno la stessa risposta), all'affinità (forza del legame Ab-Ag)
espressa dalla costante di associazione o di affinità-equilibrio.
Anticorpi monoclonali: hanno una specificità maggiore, ma non assoluta;
anche un Ab monoclonale può reagire con affinità diversa, con vari Ag (56).
Sono assolutamente riproducibili ed ottenibili in quantità illimitata.
La maggiore specificità pone problemi in caso di eterogenità o isoforme
dell'Ag (es.forme tumorali) a questo si ovvia con opportune miscele di Ab
monoclonali.
La tecnica di produzione più celebre è quella degli ibridomi, introdotta da
Kohler e Milstein nel 1975 (22). Gli ibridomi derivano dalla fusione di linfociti sensibilizzati con l'antigene (capacità di produrre Ab), con cellule mielomatose non secernenti (capacità di vita “illimitata”).
Queste cellule vengono poi diluite fino ad ottenere delle singole plasmacellule che moltiplicandosi danno origine a singoli cloni che vengono poi
selezionati in base alle caratteristiche di specificità ed affinità più adatte al
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sistema. Si ottiene così l'anticorpo monoclonale (Immunoglobuline prodotte
da un solo clone di plasmacellule).
Gli anticorpi monoclonali non sono necessari di solito nei dosaggi competitivi o con antigeni a struttura semplice come negli apteni. Sono vantaggiosi, per la maggiore specificità, in caso di antigeni che hanno epitopi simili ad altri (HCG, LH, TSH, marcatori neoplastici mucinici). Sono utili, per la
maggiore specificità, in genere nei dosaggi non competitivi sandwich, dove
due Ab si legano allo stesso Ag su epitopi diversi (24).
Questo tipo di immunoglobuline sono quelle maggiormente utilizzate nei
Laboratori clinici perché essendo più standardizzate agevolano la riproducibilità fra i lotti di reagenti.
Marcatori
Il marcatore è un rivelatore della reazione Ag-Ab, che viene legato al tracciante (Ag o Ab) mediante procedimenti di tipo fisico o chimico.
Marcatori sotopici:
I 125 (γ emittente, T 1/2 60 gg)
H 3 (β emittente, T 1/2 12.26 anni)
Co 57 (γ emittente, T 1/2 267 gg)
Marcatori non isotopici:
Enzimi (fosfatasi alcalina, perossidasi di rafano, galattosidasi, G6PD,
glucosio ossidasi, lisozima).
Fluorofori (fluoresceina, europio, isotiocianato, umbelliferoni).
Chemiluminescenti (isoluminolo, luminolo, esteri di acridinio).
Il marcatore non deve compromettere l'immunoreattività del marcato:
l'Ag* dovrà essere “uguale” all'analita (dosaggi competitivi), l'Ab* dovrà
mantenere la maggiore reattività possibile (56).
Il marcatore deve possedere elevata attività specifica (segnale per massa
di tracciante): essa determina la sensibilità del sistema di rivelazione. Se il
marcatore è un enzima deve avere una elevata attività molare (elevato rapporto tra molecole di substrato attivato per molecola di enzima) e deve essere diverso dagli enzimi del campione. Il sistema meno sensibile è la
Perossidasi/Fotometria, il più sensibile è la Fosfatasi alcalina/Chemiluminescenza.
Il marcatore deve possedere inoltre elevata stabilità, durata del reagente e
non subire interferenze da fattori presenti nel campione o nei reagenti (44).
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Calibratori
Il calibratore è un materiale con caratteristiche ben conosciute: concentrazione, reattività antigenica, che viene utilizzato per calibrare una procedura,
ad esempio per correlare il segnale alla dose. Il calibratore dovrebbe avere le
stesse caratteristiche dei campioni anche se in realtà l'identità antigenica non
è assoluta (vari epitopi, isoforme, materiale degradato nel calibratore) ed
anche la matrice è diversa.
Testando un numero adeguato di calibratori il software dell'analizzatore
elabora una curva di calibrazione cioè una curva di segnale-dose che costituisce il codice per il dosaggio dei campioni.
I valori dei calibratori vengono assegnati utilizzando una delle seguenti
tre metodiche:
1) Standardizzazione con metodo di riferimento (es. GC-MS per testosterone, estradiolo); i calibratori master (pool di sieri, siero free addizionato) vengono dosati in Laboratori di riferimento.
2) Standardizzazione verso materiale di riferimento (standard internazionali): si preparano diluizioni dello standard di riferimento in siero
umano free ed i calibratori master vengono dosati contro questo standard con il “sistema” di routine.
3) Standardizzazione con metodo candidato come riferimento: quando
non è possibile si utilizzano le metodiche precedenti. Una volta assegnati i valori ai calibratori master questi vengono utilizzati come riferimento per il dosaggio, con i diversi lotti di reagenti, dei calibratori
che vengono distribuiti agli utilizzatori.
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Curve di calibrazione negli immunodosaggi
Mettendo in relazione il segnale ottenuto con la dose attribuita ai calibratori si ottiene un grafico che è la curva di calibrazione. Scopo della curva di
calibrazione è la stima del vero rapporto segnale-concentrazione che permette il dosaggio dei campioni.
I passaggi per ottenere una corretta curva di calibrazione sono:
1) Misura dei calibratori
2) Applicazione di un modello che permette una relazione continua
segnale-concentrazione
3) Assegnazione del valore ai campioni.
La qualità della calibrazione, cioè la capacità di stimare il vero rapporto
segnale-concentrazione, dipende soprattutto da:
1. Qualità del calibratore (“identità” immunologica con il campione)
2. Concentrazione dei calibratori usati
3. Qualità del reagente anticorpale
4. Modello di curva usata (algoritmo): la curva più frequentemente
usata è la Rodbard a quattro parametri.
Le Aziende produttrici dei sistemi analitici utilizzano simulazioni per scegliere l'algoritmo ed i livelli di standard adatti per ottimizzare la curva
soprattutto nella zona dove è richiesta la migliore precisione.
La curva di calibrazione deve essere ripetuta quando viene modificata la
correlazione tra segnale analitico e concentrazione dell'analita; questa correlazione può essere modificata da:
1. Variabili inerenti ai reagenti (radiolisi primaria o secondaria, instabilità dei reagenti, differenze tra i lotti)
2. Variabili della procedura (temperatura, incubazioni)
3. Variabili strumentali (temperatura, umidità, condizione del sistema di
rivelazione).
Se non si possono eliminare le variabili, come ad esempio nei dosaggi con
tracciante radioattivo (RIA, IRMA), o nei dosaggi manuali, i calibratori ed i
campioni devono essere processati insieme cioè eseguendo la curva ad ogni
seduta e verificandola con i controlli.
Con l'utilizzo dei traccianti non radioattivi (stabilità del tracciante) e
soprattutto con l'automazione dei dosaggi (standardizzazione delle procedure e delle condizioni ambientali, memorizzazione della curva) le variabili
sono state in parte eliminate o attenuate, permettendo di utilizzare la stessa
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curva per più sedute e per tempi più o meno lunghi a seconda dello strumento e degli analiti.
Tipologie di curve di calibrazione
Curva classica
Esistono sul mercato analizzatori che richiedono la classica curva a più
punti (5-7); altri che richiedono l'utilizzo della Master curve .
Nel caso della curva classica si possono avere due possibilità:
Esecuzione e memorizzazione della curva → utilizzo della curva nelle
sedute successive verificandola con i controlli.
Esecuzione e memorizzazione della curva → aggiornamento della curva
nelle sedute successive mediante utilizzo di 1-2 punti di calibrazione e verifica con i controlli. (41)
Master curve
La Master Curve è una curva fornita dall'Azienda produttrice del sistema
(reagente-strumento).
I più moderni strumenti richiedono da parte del produttore del sistema
una calibrazione multipoint (Master curve ) e da parte dell'utilizzatore delle
calibrazioni a due punti che servono ad allineare le variabili locali (strumentali) alla Master curve.
Ovviamente la scelta del livello dei due calibratori è ottimizzata allo
scopo di garantire la precisione, l'accuratezza e la linearità dichiarate per il
test (41).
Criticità teoriche della Master curve:
- Numero di analizzatori utilizzati: può essere utilizzato uno o più analizzatori
- Numero dei calibratori: in genere da 7 a 20, compresi i due punti (adjustors )che saranno utilizzati in periferia per gli allineamenti
- Numero dei replicati: vengono usati numerosi replicati in più sedute
Una adeguata gestione di queste criticità da parte del produttore del sistema permette ottimi livelli di precisione de accuratezza.
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Linee guida per i criteri di accettabilità della calibrazione a due punti:
- Tutti i livelli dei controlli devono rientrare nel range.
- La Slope dell'aggiustamento deve rientrare nel range definito
dall'Azienda (es. 20% del valore medio di slope ottenuto da almeno 10
aggiustamenti dello strumento in Laboratorio).
L'Intercetta dell'aggiustamento deve rientrare nel range di accettabilità ( diverso per metodi competitivi e sandwich).
Caleidoscopio
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Interferenze nel dosaggio immunometrico
Nella maggior parte dei casi le interferenze sono dovute a sostanze che
ostacolano il legame Ab-Ag o Ab-Ag* o entrambi in modo diverso. In altri
casi l'interferente ostacola l'attivazione del segnale o altera in modo aspecifico il legame con la fase solida.
Sono soprattutto gli immunodosaggi ad una fase i più sensibili agli interferenti; quelli a due fasi, grazie ai lavaggi, riescono meglio a ridurre le interferenze.
Tra gli interferenti ricordiamo: l' ”effetto matrice”, farmaci, autoanticorpi,
fattore reumatoide e gli anticorpi eterofili.
Autoanticorpi
Gli autoanticorpi legano l'antigene in maniera più o meno specifica.
Nei metodi competitivi interferiscono legandosi all' Ag competitivo (Ag*
o Ag in fase solida) ed all'Ag freddo e danno sovrastima o sottostima a seconda dell'affinità maggiore per l'uno o per l'altro.
Nei metodi non competitivi l'interferenza da autoanticorpi determina sottostima dell'Ag poiché legandosi ad esso vengono bloccati gli epitopi per
l'Ab* o per l'Ab della fase solida.
Un tipo particolare di interferenza è quella provocata da autoanticorpi
polispecifici nei confronti dei dosaggi di Ab. In questo caso si ha sempre
sovrastima perché gli autoanticorpi simulano gli Ab da dosare (legame con
Ag*, Ag, Ab*, Ab di cattura).
Anticorpi eterofili
Gli anticorpi eterofili legano gli Ab analitici (cioè il reattivo anticorpale).
Nei metodi competitivi l'interferenza è, in genere, meno importante perché viene disturbato in ugual misura sia il legame Ab-Ag* che Ab-Ag.
Nei metodi non competitivi si avrà sottostima o sovrastima a seconda del
loro meccanismo di azione, come si ha a proposito degli HAMA.
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Anticorpi umani anti-topo (HAMA)
Gli anticorpi anti-topo (HAMA) sono un interferente che può essere presente nel sangue umano come risposta immune all'esposizione con antigeni
del topo.
L'esposizione a questi antigeni può essere iatrogena (scintigrafia, immunochemioterapia ed immunoradioterapia), lavorativa (addetti agli stabulari)
o ambientale (agricoltori).
I campioni contenenti HAMA possono provocare falsi incrementi o falsi
decrementi in immunodosaggi che utilizzano Ab di topo.
I dosaggi sandwich sono i più suscettibili a questi interferenti.
Eccesso di antigene: Fenomeno Prozona o Effetto
Gancio
In caso di concentrazioni molto elevate di Ag può accadere che una parte
va a saturare l'Ab legato alla fase solida ed una parte satura l'Ab* impedendo la formazione del sandwich. Ne risulta un segnale corrispondente ad una
dose falsamente bassa, all'interno della linearità del metodo. I dosaggi
sandwich ad una fase sono potenzialmente esposti a questo fenomeno.
L'effetto Prozona può essere evitato con metodo sandwich a due fasi nel
quale l'Ag in eccesso viene eliminato mediante lavaggi.
Gli immunodosaggi sono inoltre influenzati da altri fattori quali temperatura, pH, tempo di incubazione, detergenti per i lavaggi. Tutte queste
variabili sono ottimizzate dalla strumentazione.
Gli immunodosaggi risentono dell'“effetto matrice”determinato dalla
componente proteica e lipidica.
L'“effetto matrice” può interferire col legame Ab-Ag, con l'attivazione del
segnale e con la fase di separazione della frazione libera da quella legata.
Anche l'effetto matrice contribuisce alla non identità campione-calibratore a
questo si compensa in parte aggiungendo proteine alla soluzione standard.
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Aspetti che caratterizzano la qualità
degli immunodosaggi
La specificità è data dalla capacità di distinguere l'analita in esame da altri
aventi struttura simile e dipende essenzialmente dal reagente anticorpale.
La sensibilità analitica di un metodo analitico è data dalla minima quantità di analita determinabile significativamente diversa da zero e discriminabile tra concentrazioni contigue: si è passati dai mg/ml della spettrofotometria, ai ºg/ml della fluorimetria, ai pg/ml dei metodi immunometrici.
La sensibilità dipende dalla avidità del reagente anticorpale e dal tracciante. I metodi non competitivi sono più sensibili perché gli Ab, il marcato
ed il legato alla fase solida, sono in eccesso e per la legge di azione di massa
anche bassissime concentrazioni di analita vengono legate dall'Ab*.
I traccianti chemiluminescenti sono i più sensibili.
La sensibilità funzionale è la più bassa concentrazione alla quale il
dosaggio mantiene un CV < 20% tra i saggi. Ricordiamo che quando si parla
di 1° , 2° o 3° generazione a proposito di un test ci si riferisce a diversi livelli
di sensibilità funzionale.
La precisione è l'inverso della varianza della misura di replicati dello
stesso campione e dipende dalla standardizzazione del sistema analitico.
L'accuratezza è la attribuzione della corretta concentrazione dell'analita
nel campione (media di consenso per il metodo). (29,63)
Dalla sensibilità, specificità, precisione, accuratezza analitiche e dalla corretta individuazione dei valori di riferimento dipendono la sensibilità e specificità cliniche.
Immunodosaggi e compatibilità tra metodi
La comparabilità tra i metodi è ancora un problema irrisolto per la maggior parte dei dosaggi immunometrici.
Lo standard utilizzato è uno dei fattori più importanti che condizionano
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la comparabilità tra i metodi; gli altri fattori sono gli anticorpi e la tecnologia
stessa.
Lo standard internazionale porta i vari sistemi analitici ad allinearsi tra di
loro per quanto riguarda il calibratore; rimane comunque la variabilità dovuta all'Ab (affinità diversa, reattività con epitopi diversi) e la variabilità della
tecnologia del test (effetto matrice, interferenza da farmaci, HAMA, autoanticorpi, marcatori).
Buoni risultati di comparabilità si sono ottenuti con vari analiti, come con
TSH, PSA , HCG, AFP.
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Metodiche di biologia molecolare
Molti progressi delle tecniche analitiche nel corso degli ultimi 30 anni
sono stati ottenuti grazie alla scoperta della struttura e della funzionalità
degli acidi nucleici con la conseguente introduzione della biologia molecolare nei Laboratori clinici. Il DNA e l'RNA rappresentano il genoma ed il trascrittoma degli organismi e la loro manipolazione permette una precisa e
rapida valutazione sia dei geni che della loro espressione.
Storia
Una delle prime scoperte che ha condotto alla realizzazione della tecnologia del DNA ricombinante furono, alla fine degli anni '60, le endonucleasi
di restrizione batteriche, enzimi in grado di tagliare il DNA in siti specifici
che furono il primo passo verso il clonaggio di geni all'interno di vettori (53).
Un successivo passo in avanti nello studio del trascrittoma si verificò con la
scoperta della trascrittasi inversa (54), enzima virale in grado di copiare le
molecole di RNA, che rappresentano la porzione espressa dei geni, in molecole di DNA più stabili. Poi ancora nel 1972 furono prodotte le prime molecole di DNA ricombinante ed i primi vettori plasmidici in grado di replicare
frammenti di menoma all'interno di cellule batteriche. Nel 1975 E.M.
Southern pubblicò la prima procedura che consentiva di riconoscere ed isolare un gene da una molecola di DNA complessa tramite ibridazione con
sonda radioattiva: il “Southern blotting” (51).
Successivamente, tra il 1983 e il 1985, Mullins (32) ideò la reazione a catena della polimerasi (PCR): una nuova tecnica che ha reso possibile sintetizzare grandi quantità di un frammento di DNA senza clonarlo. La PCR si è
dimostrata di eccezionale utilità in molti campi della Medicina e della
Biologia e costituisce ad oggi la base per la maggior parte delle tecniche diagnostiche molecolari (30). Negli ultimi anni le conoscenze in campo molecolare si sono ulteriormente arricchite attraverso la conclusione nel 2000 del
sequenziamento del genoma umano e grazie alla nascita di numerose tecniche supportate da sofisticati softwares (40) per lo studio del trascrittoma
quali i microarrays ed i microchip (10).
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PCR
La reazione a catena della polimerasi o PCR (Polymerase Chain Reaction)
è un metodo semplice e rapido per copiare ed amplificare specifiche sequenze di DNA di peso molecolare variabile tra le 100 paia di basi fino a 1Kb. Per
effettuare tale reazione è necessario conoscere la sequenza di una breve regione di DNA a ciascuna delle estremità del tratto di interesse sulla base di cui
vengono sintetizzati due piccole molecole di DNA complementari dette primers. I primers ibridano le regioni adiacenti la sequenza da amplificare e funzionano come innesto per l'enzima DNA polimerasi che viene introdotto
nella miscela di reazione contenente quantità appropriate dei 4 deossinucleotidi trifosfati, i monomeri che costituiscono il DNA. Per effettuare la PCR
vengono utilizzate DNApolimerasi estratte da batteri termofili (45) in grado
di funzionare ad elevate temperature. La reazione di PCR avviene all'interno
di termociclatori e consiste nella successione di più cicli a 3 fasi regolate dalla
temperatura:
1. Denaturazione ad elevata temperatura
2. Appaiamento ai primers abbassando la temperatura
3. Sintesi di copie di DNA da parte della polimerasi che lega il DNA grazie ai primers a partire dai deossinucleotidi liberi nella miscela di reazione.
Una reazione di 30 cicli è in grado di produrre circa un miliardo di copie
del DNA oggetto di studio che può così essere identificato anche se presente
in concentrazioni minime nel campione di partenza. L'amplificato può essere rilevato tramite una separazione elettroforetica su gel oppure attraverso
sonde marcate nelle più recenti applicazioni (35,57).
La PCR si è dimostrata di eccezionale utilità nella diagnostica di
Laboratorio in particolare nei campi della Genetica medica e nella
Microbiologia (19). Negli ultimi anni si sono sviluppate diverse varianti di
PCR tra cui si possono ricordare:
Nested PCR: due reazioni successive dello stesso tratto DNA per ottenere
sensibilità maggiore. Viene utilizzata ad esempio nella Microbiologia per
dimostrare la presenza del genoma di virus presenti in bassa concentrazione
in un campione biologico.
Multiplex PCR: amplificazione contemporanea di più segmenti. E' estremamente utile ad esempio per lo studio delle varianti alleliche nella diagnosi di malattie genetiche.
PCR real time: amplificazione a scopo quantitativo. La miscela di reazione comprende sonde che sono in grado di emettere segnali di fluorescenza
dopo ciascuna amplificazione. Esistono sistemi omogenei che monitorano la
PCR ad ogni ciclo per la rilevazione in tempo reale dei prodotti di reazione
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pertanto non è necessaria alcuna manipolazione successiva come la separazione elettroforetica. Con la tecnologia Real time è anche possibile effettuare
PCR multiplex, utilizzando fluorofori diversi.
Alternative alla PCR
Il 90% della diagnostica molecolare si basa sulla PCR in quanto sono in
commercio kit di reagenti ed apparecchiature standardizzati in base a questa
tecnologia (39). Tuttavia esistono metodiche di amplificazione alternative
ugualmente sensibili:
LCR: è una reazione a cicli di calore simile alla PCR in cui la DNA polimerasi è sostituita dalla DNAligasi e sono presenti 4 primers, due per ciascun
filamento di templato. Il prodotto della reazione è il dimero che la ligasi
forma su ciascun filamento. Esiste anche in versione Real time ma è poco utilizzata in diagnostica a causa della difficoltà di reperire la DNA ligasi termostabile (25).
NASBA: è una reazione che ha come scopo l'amplificazione dell'RNA.
Anche questa tecnica è ciclica e per questo necessita, anziché di calore, di tre
enzimi quali una trascrittasi inversa che forma un ibrido DNA/RNA a doppia elica, una RnasiH che degrada in modo selettivo l'RNA che si trova in una
doppia elica ed una trascrittasi inversa che retrotrascrive il DNA a singola
elica in RNA (11). Tale tecnica è utile per l'amplificazione dei virus a RNA a
singolo filamento, è più rapida di una RT-PCR rapida e non necessita di termociclatore in quanto la reazione è isotermica (62).
BRANCH DNA: è una amplificazione del segnale anziché dell'acido
nucleico. Ciò avviene grazie a 2 sonde complementari al target delle quali
una è immobilizzata su un supporto solido e l'altra lega sonde di secondo
livello marcate con enzimi e rilevabili tramite ELISA (9).
Ibridizzazione degli acidi nucleici
Le molecole degli acidi nucleici formate da doppie eliche, se scaldate a
temperature elevate, sono in grado di dissociarsi in due filamenti separati:
tale processo è detto denaturazione. La denaturazione di un acido nucleico
non è irreversibile: infatti filamenti singoli di DNA o RNA sono in grado di
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ibridizzare con molecole ad essi complementari (50). Il processo di rinaturazione è correlato alla temperatura ed alla concentrazione delle molecole pertanto è possibile trovare delle condizioni cosiddette di “stringenza” per le
quali due filamenti di acido nucleico si appaiano tra loro solo se perfettamente complementari. L'estrema specificità dell'ibridizzazione degli acidi nucleici
permette che sequenze di DNA sintetico marcato possano essere usate come
sonde per l'identificazione di molecole complementari. Le sonde marcate vengono utilizzate nei Laboratori clinici per individuare acidi nucleici che corrispondono a sequenze specifiche, soprattutto per la ricerca di mutazioni nella
diagnosi prenatale e nello studio dell'espressione dei geni (59).
Southern e Northern Blot
La tecnica di Laboratorio più antica che si basa sull'ibridizzazione degli
acidi nucleici è il Southern blot. Lo scopo di tale tecnica è l'individuazione di
sequenze specifiche note di DNA, che possono essere gli alleli di un gene o
mutazioni, all'interno di un estratto. L'estratto di DNA viene tagliato con
enzimi di restrizione ed i frammenti separati mediante elettroforesi su gel. Il
DNA viene così trasferito dal gel ad una membrana di nitrocellulosa la quale
viene fatta reagire con una soluzione contenente sonde marcate con isotopi
radioattivi complementari alla sequenza da ricercare e la rivelazione avviene
tramite autoradiografia (51).
Un metodo analogo di ibridizzazione a bande trasferite da gel, chiamato
Northern blot, analizza l'RNA anziché il DNA. Tale metodo è utilizzato per
valutare l'espressione dei geni a partire da un estratto di RNA (2).
Il Southern e il Northern blot sono metodiche che ormai vengono utilizzate raramente nei Laboratori sia a causa dei rischi dal maneggiamento e
dallo smaltimento del materiale radioattivo che per merito del miglioramento e dell'evoluzione di altre tecniche come la PCR.
Ibridizzazione in situ
Gli acidi nucleici si trovano in posizioni precise all'interno di cellule e tessuti ed una grande quantità di informazioni viene perduta quando tali molecole vengono estratte. Per questa ragione sono state sviluppate tecniche in
cui sonde di acidi nucleici vengono utilizzate in modo simile agli anticorpi
marcati per la localizzazione di sequenze specifiche in situ (34).
Le sonde vengono generalmente marcate chimicamente con catene laterali riconoscibili a loro volta da anticorpi fluorescenti.
Nella diagnostica prenatale l'assetto cromosomico dell'embrione può
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essere determinato tramite la tecnica di ibridizzazione in situ. La
Fluorescente In-Situ (FISH) e' la tecnica più diffusa per la diagnosi di aneuoploidie su nuclei interfasici da singole cellule di origine embrionale. Esse
vengono fissate su vetrini da microscopia e fatte reagire con una soluzione
contenente una serie di sonde di DNA marcate con fluorocromi diversi, con
sequenza complementare specifica alle regioni cromosomiche che interessano la diagnosi. Tali sonde si legano alle regioni cromosomiche per cui presentano omologia, ed eccitate da lampade che emettono luce a diverse lunghezze d'onda, emettono un segnale osservabile al microscopio a fluorescenza, di colore diverso per ciascun marcatore (49). Attraverso la FISH è possibile ad esempio stabilire lo stato di ploidia di un blastomero utilizzando
sonde che differenziano i diversi cromosomi.
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Microarrays
La tecnologia dei microarray a cDNA, nata nel 1995 (48), rappresenta un
metodo semplice ed economico per lo studio dell'espressione genica. Con
questa tecnica vengono analizzati simultaneamente migliaia di geni:
- su un supporto solido vengono immobilizzate delle sonde costituite
da EST (frammenti amplificati di cDNA che derivano da mRNA retrotrascritti) ognuna delle quali rappresenta un determinato gene.
- Dal campione viene estratto l'RNA, che rappresenta la porzione trascritta del genoma. L'RNA viene retrotrascritto in cDNA, marcato e
fatto ibridare con le sonde immobilizzate.
- Il risultato è la marcatura di una parte delle sonde che rappresentano
così i geni espressi nel campione.
- L'analisi finale dei dati consiste nel trasformare le intensità della fluorescenza associata a ciascuna sonda in una misura dell'abbondanza
dei trascritti.
Tali metodi vengono generalmente utilizzati per confrontare simultaneamente l'espressione genica di due campioni diversi, ad esempio cellule trattate con farmaci diversi (65). Una differenza fondamentale tra i microarray e
gli altri metodi di analisi tradizionali consiste infatti nella dimensione dei
dati e nella loro gestione.L'analisi simultanea si ottiene facilmente marcando
con coloranti differenti i cDNA dei diversi campioni. La differenza fondamentale tra i microarray e gli altri metodi di analisi tradizionali consiste
infatti nella dimensione dei dati e nella loro gestione.
Produzione
I microarrays vengono prodotti e commercializzati attraverso differenti
metodiche che permettono di avere delle sonde immobilizzate su vetrini da
microscopio o supporti di silicio. Esistono principalmente due tecnologie per
tale produzione:
- Gli SPOTTED MICROARRAYS comprendono sonde di cDNA presintetizzate che vengono immobilizzate da macchinari automatici sui
supporti.
- Nei CHIP-ARRAYS (ARRAYS PER FOTOLITOGRAFIA) le sonde vengono sintetizzate in situ cioè direttamente sul supporto solido (37).
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Tale metodo permette la sintesi di oligonucleotidi di una lunghezza
massima di 25 basi.
Tipologie di analisi
I MICROARRAYS A DOPPIO CANALE sono sempre spotted microarrays
in cui l'ibridazione di due campioni avviene contemporaneamente su uno
stesso vetrino pertanto la valutazione finale dell'espressione è relativa: si analizza unicamente in quale dei due campioni prevale l'espressione di ciascun
gene valutando la colorazione della sonda.
I MICROARRAYS A SINGOLO CANALE possono essere prodotti sia per
fotolitografia che essere presintetizzati.
Vi sono sonde dette “perfect match” lunghe al massimo 25 nucleotidi e
perfettamente complementari ad una porzione genica. Per ciascuna “perfect
match” esiste una “miss match”, sonda che differisce dalla precedente per un
nucleotide e non essendo perfettamente complementare serve a valutare l'aspecificità (52). Con questo metodo è possibile ibridare un solo campione alla
volta e la valutazione finale dell'espressione è di tipo assoluto (64).
Marcatura dei campioni
I campioni da analizzare vengono marcati con coloranti fluorescenti, i più
utilizzati sono i fluorofori Cy3 e Cy5, oppure con basi biotinilate che vengono poi rivelate con streptoavidina.
La marcatura, solitamente, avviene contemporaneamente alla costruzione
delle sonde: durante la retrotrascrizione dell' mRNA in cDNA vengono inserite nella reazione basi azotate biotinilate o coniugate con fluorofori.
Applicazioni
La tecnologia dei microarrays viene utilizzata per studi comparativi dell'espressione genica in campioni come potrebbero essere cellule trattate con
farmaci o altre sostanze rispetto a materiale di controllo non trattato.
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I microarrays possono essere anche usati per lo studio di genotipi: gli SNP
microarrays vengono usati per identificare i polimorfismi di singolo nucleotide, ovvero gli SNPs, tratti di DNA ipervariabili nell'ambito della stessa specie, responsabili della variazione genetica (8) e della suscettibilità individuale a manifestare determinate malattie (13).Gli SNP microarrays trovano
impiego in genetica forense, in farmacogenetica, per lo studio di relazione tra
particolari genotipi e diverse risposte ai farmaci e per tracciare i profili di
mutazione somatica nelle cellule tumorali.
I Protein Microarrays si ottengono utilizzando proteine come sonde. Essi
sono usati per identificare le interazioni proteina-proteina o per identificare i
substrati degli enzimi o ancora per identificare i recettori di piccole molecole
biologicamente attive. Le proteine più comunemente nei protein microarrays
sono gli anticorpi, usati come sonde per rilevare proteine da lisati cellulari (14).
Analisi dei dati
I livelli diversi di fluorescenza di un microarray indicano livelli diversi di
ibridizzazione e quindi di espressione genica. Il segnale viene rilevato da uno
scanner ed in seguito sottoposto ad algoritmi di filtrazione e di pulizia del
segnale e convertito in valori numerici. Un esperimento di analisi dei profili
di espressione fornisce come risultato una matrice di dati, in cui le righe rappresentano i geni monitorati e le colonne corrispondono alle diverse condizioni sperimentali: punti temporali, condizioni fisiologiche, tessuti. Ogni elemento della matrice rappresenta quindi il livello di espressione di un particolare gene in uno specifico stato fisiologico. Ciascuna colonna è data da un
vettore che ha tante dimensioni quanti sono i geni o le sequenze immobilizzate sull'array. La gestione e l'interpretazione dell'enorme quantità di dati
generata dalle matrici ad alta densità rappresentano un aspetto fondamentale di questa tecnologia. Infatti, la loro applicazione nello studio dei profili
dell'espressione genica produce volumi di informazioni tali da limitare l'applicazione delle tecniche modellistiche classiche. Tali tecniche non sono generalmente applicabili in maniera soddisfacente in presenza di sistemi poco
caratterizzati e descritti da quantità grandissime di dati. E’ necessario, quindi, avere a disposizione i database mining: una serie di tecniche computazionali capaci di gestire ed interpretare questi enormi database nonché di interfacciarsi con gli strumenti bioinformatici per l'analisi funzionale. Si definiscono tecniche di database mining gli strumenti informatici utilizzabili per
l'esplorazione e l'analisi di grandi quantità di dati al fine di estrarre motivi
caratteristici e persistenti, i patterns (46). Gli algoritmi che costituiscono il
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database mining derivano da campi quali la statistica, la pattern recognition,
l'intelligenza artificiale e l'analisi dei segnali; essi sfruttano le informazioni
ricavate direttamente dai dati per creare dei modelli empirici in grado di
descrivere il comportamento di un sistema complesso. Nel caso dei profili di
espressione genica, le tecniche di database mining rappresentano un utile
strumento per identificare ed isolare particolari pattern di espressione che di
fatto rappresentano delle vere e proprie impronte digitali genetiche di un
determinato stato fisiologico. L'analisi dei dati degli array di cDNA è normalmente basata sull'uso sinergico di test di ipotesi e di sistemi per l'estrazione della conoscenza. I test di ipotesi sono sostanzialmente degli approcci
di tipo top-down con i quali si ricercano nei dati le conferme sperimentali ad
ipotesi precedentemente formulate. L'estrazione della conoscenza può essere
intesa invece come un approccio bottom-up nel quale sono i dati stessi che
forniscono le indicazioni necessarie alla formulazione di nuove ipotesi. Un
aspetto cruciale dell'applicazione di queste procedure è l'identificazione di
tutti quei geni che manifestano un'elevata attività in un determinato stato
fisiologico (37). Questi geni attivi e le loro relazioni possono essere identificati attraverso tecniche quali Mean Hypothesis Testing (MHT), Cluster
Analysis (CA), Principal Component Analysis (PCA) e Decision Tree (DT).
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Indice
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
3
Scelta delle tecnologie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
5
Modello di Stockmann . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
5
Microscopia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
7
Storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
7
Funzionamento e tipologie dei microscopi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
7
Microscopio ottico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»
8
Microscopio elettronico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 10
TEM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 11
SEM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 11
Spettrofotometria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 13
Spettrofotometro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 13
Quantificazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 14
Cromatografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 15
Tipi di cromatografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 17
Cromatografia su carta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 17
Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 17
Cromatografia su strato sottile (TLC) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 18
Cromatografia a scambio ionico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 19
Metodiche immunologiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 21
Legame antigene-anticorpo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 21
Tecniche per l'identificazione e la quantificazione di proteine . . . . . . . .» 23
Caleidoscopio
63
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo,
A.M. Torriglia, G. Montresor
Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche
Precipitazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 24
Gel diffusione doppia bidimensionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 24
Gel diffusione radiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 24
Immunoelettroforesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 25
Agglutinazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 25
Inibizione dell'emoagglutinazione da virus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 26
Fissazione del complemento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 26
Sieroneutralizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 27
Immunofluorescenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 27
Immunodosaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 29
Immunodosaggi diretti e indiretti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 29
Immunodosaggi competitivi o non competitivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 29
FPIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 32
MEIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 32
CMIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 33
ELISA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 33
Costituenti degli immunodosaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 35
Antigeni marcati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 35
Reagenti anticorpali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 35
Marcatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 36
Calibratori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 37
Curve di calibrazione negli immunodosaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 39
Tipologie di curve di calibrazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 40
Interferenze nel dosaggio immunometrico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 43
Autoanticorpi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 43
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Caleidoscopio
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo,
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Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche
Anticorpi esterofili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 43
Anticorpi umani anti-topo (HAMA) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 44
Eccesso di antigene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 44
Aspetti che caratterizzano la qualità degli immunodosaggi . . . . . . . . . .» 45
Immunodosaggi e comparabilità tra metodi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 45
Metodiche di biologia molecolare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 47
Storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 47
PCR . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 48
Alternative alla PCR . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 49
Ibridizzazione degli acidi nucleici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 49
Southern e Northern blot . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 50
Ibridizzazione in situ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 50
Microarrays . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 53
Produzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 53
Tipologie di analisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 54
Marcatura dei campioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 54
Applicazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 54
Analisi dei dati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 55
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 57
Indice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 63
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di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche
Caleidoscopio
Italiano
... il futuro ha il cuore antico
MEDICAL SYSTEMS SpA
1. Rassu S.: Principi generali di endocrinologia. Gennaio ’83
2. Rassu S.: L’ipotalamo endocrino. Giugno ’83
3. Rassu S.: L’ipofisi. Dicembre ’83
4. Alagna., Masala A.: La prolattina. Aprile ’84
5. Rassu S.: Il pancreas endocrino. Giugno ’84
6. Fiorini I., Nardini A.: Citomegalovirus, Herpes virus, Rubella virus (in gravidanza). Luglio ’84.
7. Rassu S.: L’obesita’. Settembre ’84
8. Franceschetti F., Ferraretti A.P, Bolelli G.F., Bulletti C.:Aspetti morfofunzionali dell’ovaio.
Novembre ’84.
9. Kubasik N.P.: Il dosaggio radioimmunologico (1). Dicembre ’84.
10. Kubasik N.P.: Il dosaggio radioimmunologico (2) parte prima. Gennaio’85.
11. Kubasik N.P.: Il dosaggio radioimmunologico (2) parte seconda. Febbraio ’85.
12.Kubasik N.P.: Il dosaggio radioimmunologico (3) parte prima. Aprile ’85.
13. Nacamulli D, Girelli M.E, Zanatta G.P, Busnardo B.: Il TSH. Giugno ’85.
14. Facchinetti F. e Petraglia F.: La β-endorfina plasmatica e liquorale. Agosto ’85.
15. Baccini C.: Le droghe d’abuso (1). Ottobre ’85.
16. Kubasik N.P.: Il dosaggio radioimmunologico (3) parte seconda. Dicembre ’85.
17. Nuti R.: Fisiologia della vitamina D: Trattamento dell’osteoporosi post-menopausale.
Febbraio ’86
18. Cavallaro E.: Ipnosi: una introduzione psicofisiologica. Marzo ’86.
19. Fanetti G.: AIDS: trasfusione di sangue emoderivati ed emocomponenti. Maggio ’86.
20. Fiorini I., Nardini A.: Toxoplasmosi, immunologia e clinica. Luglio ’86.
21. Limone P.: Il feocromocitoma. Settembre ’86.
22. Bulletti C., Filicori M., Bolelli G.F., Flamigni C.: Il Testicolo. Aspetti morfo-funzionali e
clinici. Novembre ’86.
23. Bolcato A.: Allergia. Gennaio ’87.
24. Kubasik N.P.: Il dosaggio enzimoimmunologico e fluoroimmunologico. Febbraio ’87.
25. Carani C.: Patologie sessuali endocrino-metaboliche. Marzo ’87.
26. Sanna M., Carcassi R., Rassu S.: Le banche dati in medicina. Maggio ’87.
27. Bulletti C., Filicori M., Bolelli G.F., Jasonni V.M., Flamigni C.: L’amenorrea. Giugno ’87.
28. Zilli A., Pagni E., Piazza M.: Il paziente terminale. Luglio ’87.
29. Pisani E., Montanari E., Patelli E., Trinchieri A., Mandressi A.: Patologie prostatiche.
Settembre ’87.
30. Cingolani M.: Manuale di ematologia e citologia ematologica. Novembre ’87.
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Caleidoscopio
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo,
A.M. Torriglia, G. Montresor
Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche
31. Kubasik N.P.: Ibridomi ed anticorpi monoclonali. Gennaio ’88.
32. Andreoli C., Costa A., Di Maggio C.: Diagnostica del carcinoma mammario. Febbraio ’88.
33. Jannini E.A., Moretti C., Fabbri A., Gnessi L., Isidori A.: Neuroendocrinologia dello stress.
Marzo ’88.
34. Guastella G., Cefalù E., Carmina M.: La fecondazione in vitro. Maggio ‘88.
35. Runello F., Garofalo M.R., Sicurella C., Filetti S., Vigneri R.: Il gozzo nodulare. Giugno ’88.
36. Baccini C.: Le droghe d’abuso (2). Luglio ’88.
37. Piantino P., Pecchio F.: Markers tumorali in gastroenterologia. Novembre ’88.
38. Biddau P.F., Fiori G.M., Murgia G.: Le leucemie acute infantili. Gennaio ’89.
39. Sommariva D., Branchi A.: Le dislipidemie. Febbraio ‘89.
40. Butturini U., Butturini A.: Aspetti medici delle radiazioni. Marzo ‘89.
41. Cafiero F., Gipponi M., Paganuzzi M.: Diagnostica delle neoplasie colo-rettali. Aprile ‘89.
42. Palleschi G.: Biosensori in Medicina. Maggio ‘89.
43. Franciotta D.M., Melzi D’Eril G.V. e Martino G.V.: HTLV-I. Giugno ‘89.
44. Fanetti G.: Emostasi: fisiopatologia e diagnostica. Luglio ‘89.
45. Contu L., Arras M.: Le popolazioni e le sottopopolazioni linfocitarie. Settembre ‘89.
46. Santini G.F., De Paoli P., Basaglia G.: Immunologia dell’occhio. Ottobre ‘89.
47. Gargani G., Signorini L.F., Mandler F., Genchi C., Rigoli E., Faggi E.: Infezioni opportunistiche in corso di AIDS. Gennaio ‘90.
48. Banfi G., Casari E., Murone M., Bonini P.: La coriogonadotropina umana. Febbraio ‘90.
49. Pozzilli P., Buzzetti R., Procaccini E., Signore E.: L’immunologia del diabete mellito.
Marzo ‘90.
50. Cappi F.: La trasfusione di sangue: terapia a rischio. Aprile ‘90.
51. Tortoli E., Simonetti M.T.: I micobatteri. Maggio ‘90.
52. Montecucco C.M., Caporali R., De Gennaro F.: Anticorpi antinucleo. Giugno ‘90.
53. Manni C., Magalini S.I. e Proietti R.: Le macchine in terapia intensiva. Luglio ‘90.
54. Goracci E., Goracci G.: Gli allergo-acari. Agosto ‘90.
55. Rizzetto M.: L’epatite non A non B (tipo C). Settembre ‘90.
56. Filice G., Orsolini P., Soldini L., Razzini E. e Gulminetti R.: Infezione da HIV-1: patogenesi ed allestimento di modelli animali. Ottobre ‘90.
57. La Vecchia C. Epidemiologia e prevenzione del cancro (I). Gennaio ‘91.
58. La Vecchia C. Epidemiologia e prevenzione del cancro (II). Febbraio ‘91.
59. Santini G.F., De Paoli P., Mucignat G., e Basaglia G., Gennari D.: Le molecole dell’adesività nelle cellule immunocompetenti. Marzo ‘91.
60. Bedarida G., Lizioli A.: La neopterina nella pratica clinica. Aprile ‘91.
61. Romano L.: Valutazione dei kit immunochimici. Maggio ‘91.
62. Dondero F. e Lenzi A.: L’infertilità immunologica. Giugno ‘91.
63. Bologna M. Biordi L. Martinotti S.: Gli Oncogèni. Luglio ‘91.
64. Filice G., Orsolini P., Soldini L., Gulminetti R., Razzini E., Zambelli A. e Scevola D.: Infezione-malattia da HIV in Africa. Agosto ‘91.
65. Signore A., Chianelli M., Fiore V., Pozzilli P., Andreani D.: L’immunoscintigrafia nella diagnosi delle endocrinopatie autoimmuni. Settembre ‘91.
66. Gentilomi G.A.: Sonde genetiche in microbiologia. Ottobre ‘91.
67. Santini G.F., Fornasiero S., Mucignat G., Besaglia G., Tarabini-Castellani G. L., Pascoli
L.: Le sonde di DNA e la virulenza batterica. Gennaio ‘92.
68. Zilli A., Biondi T.: Il piede diabetico. Febbraio ‘92.
Caleidoscopio
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M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo,
A.M. Torriglia, G. Montresor
Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche
69. Rizzetto M.: L’epatite Delta. Marzo ‘92.
70. Bracco G., Dotti G., Pagliardini S., Fiorucci G.C.: Gli screening neonatali. Aprile ‘92.
71. Tavani A., La Vecchia C.: Epidemiologia delle patologie cardio e cerebrovascolari. Luglio ‘92.
72. Cordido F., Peñalva A., De la Cruz L. F., Casanueva F. F., Dieguez C.: L’ormone della crescita. Agosto ‘92.
73. Contu L., Arras M.: Molecole di membrana e funzione immunologica (I). Settembre ‘92.
74. Ferrara S.:Manuale di laboratorio I. Ottobre ‘92.
75. Gori S.: Diagnosi di laboratorio dei patogeni opportunisti. Novembre ‘92.
76. Ferrara S.: Manuale di laboratorio II. Gennaio ‘93.
77. Pinna G., Veglio F., Melchio R.: Ipertensione Arteriosa. Febbraio ‘93.
78. Alberti M., Fiori G.M., Biddau P.: I linfomi non Hodgkin. Marzo ‘93.
79. Arras M., Contu L.: Molecole di membrana e funzione immunologica (II). Aprile ‘93.
80. Amin R.M., Wells K.H., Poiesz B.J.: Terapia antiretrovirale. Maggio ‘93.
81. Rizzetto M.: L’epatite C. Settembre ‘93.
82. Andreoni S.: Diagnostica di laboratorio delle infezioni da lieviti. Ottobre ‘93.
83.Tarolo G.L., Bestetti A., Maioli C., Giovanella L.C., Castellani M.: Diagnostica con radionuclidi del Morbo di Graves-Basedow. Novembre ‘93.
84. Pinzani P., Messeri G., Pazzagli M.: Chemiluminescenza. Dicembre ‘93.
85. Hernandez L.R., Osorio A.V.: Applicazioni degli esami immunologici. Gennaio 94.
86. Arras M., Contu L.: Molecole di Membrana e funzione immunologica. Parte terza: I lnfociti B. Febbraio ‘94.
87. Rossetti R.: Gli streptoccocchi beta emolitici di gruppo B (SGB). Marzo ‘94.
88. Rosa F., Lanfranco E., Balleari E., Massa G., Ghio R.: Marcatori biochimici del rimodellamento osseo. Aprile ‘94.
89. Fanetti G.: Il sistema ABO: dalla sierologia alla genetica molecolare. Settembre ‘94.
90. Buzzetti R., Cavallo M.G., Giovannini C.: Citochine ed ormoni: Interazioni tra sistema
endocrino e sistema immunitario. Ottobre ‘94.
91. Negrini R., Ghielmi S., Savio A., Vaira D., Miglioli M.: Helicobacter pylori. Novembre ‘94.
92. Parazzini F.: L’epidemiologia della patologia ostetrica. Febbraio ‘95.
93. Proietti A., Lanzafame P.: Il virus di Epstein-Barr. Marzo ‘95.
94. Mazzarella G., Calabrese C., Mezzogiorno A., Peluso G.F., Micheli P, Romano L.: Immunoflogosi nell’asma bronchiale. Maggio ‘95.
95. Manduchi I.: Steroidi. Giugno ‘95.
96. Magalini S.I., Macaluso S., Sandroni C., Addario C.: Sindromi tossiche sostenute da principi di origine vegetale. Luglio ‘95.
97. Marin M.G., Bresciani S., Mazza C., Albertini A., Cariani E.: Le biotecnologie nella diagnosi delle infezioni da retrovirus umani. Ottobre ‘95.
98.La Vecchia C., D’Avanzo B., Parazzini F., Valsecchi M.G.: Metodologia epidemiologica e
sperimentazione clinica. Dicembre ‘95.
99.Zilli A., Biondi T., Conte M.: Diabete mellito e disfunzioni conoscitive. Gennaio ‘96.
100.Zazzeroni F., Muzi P., Bologna M.: Il gene oncosoppressore p53: un guardiano del genoma.
Marzo ‘96.
101.Cogato I. Montanari E.: La Sclerosi Multipla. Aprile ‘96.
102.Carosi G., Li Vigni R., Bergamasco A., Caligaris S., Casari S., Matteelli A., Tebaldi A.:
Malattie a trasmissione sessuale. Maggio ‘96.
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Caleidoscopio
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo,
A.M. Torriglia, G. Montresor
Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche
103.Fiori G. M., Alberti M., Murtas M. G., Casula L., Biddau P.: Il linfoma di Hodgkin. Giugno ‘96.
104.Marcante R., Dalla Via L.: Il virus respiratorio sinciziale. Luglio ‘96.
105.Giovanella L., Ceriani L., Roncari G.: Immunodosaggio dell’antigene polipeptidico tissutale specifico (TPS) in oncologia clinica: metodologie applicative. Ottobre ‘96.
106.Aiello V., Palazzi P., Calzolari E.: Tecniche per la visualizzazione degli scambi cromatici
(SCE): significato biologico e sperimentale. Novembre ‘96.
107.Morganti R.: Diagnostica molecolare rapida delle infezioni virali. Dicembre ‘96.
108.Andreoni S.: Patogenicità di Candida albicans e di altri lieviti. Gennaio ‘97.
109.Salemi A., Zoni R.: Il controllo di gestione nel laboratorio di analisi. Febbraio ‘97.
110.Meisner M.: Procalcitonina. Marzo ‘97.
111.Carosi A., Li Vigni R., Bergamasco A.: Malattie a trasmissione sessuale (2). Aprile ‘97.
112.Palleschi G. Moscone D., Compagnone D.: Biosensori elettrochimici in Biomedicina.
Maggio ‘97.
113.Valtriani C., Hurle C.: Citofluorimetria a flusso. Giugno ‘97.
114.Ruggenini Moiraghi A., Gerbi V., Ceccanti M., Barcucci P.: Alcol e problemi correlati.
Settembre ‘97.
115.Piccinelli M.: Depressione Maggiore Unipolare. Ottobre ‘97.
116.Pepe M., Di Gregorio A.: Le Tiroiditi. Novembre ‘97.
117.Cairo G.: La Ferritina. Dicembre ‘97.
118.Bartoli E.: Le glomerulonefriti acute. Gennaio ‘98.
119.Bufi C., Tracanna M.: Computerizzazione della gara di Laboratorio. Febbraio ‘98.
120.National Academy of Clinical Biochemistry: Il supporto del laboratorio per la diagnosi ed
il monitoraggio delle malattie della tiroide. Marzo ‘98.
121.Fava G., Rafanelli C., Savron G.: L’ansia. Aprile ‘98.
122.Cinco M.: La Borreliosi di Lyme. Maggio ‘98.
123.Giudice G.C.: Agopuntura Cinese. Giugno ‘98.
124.Baccini C.: Allucinogeni e nuove droghe (1). Luglio ‘98.
125.Rossi R.E., Monasterolo G.: Basofili. Settembre ‘98.
126. Arcari R., Grosso N., Lezo A., Boscolo D., Cavallo Perin P.: Eziopatogenesi del diabete
mellito di tipo 1. Novembre ‘98.
127.Baccini C.: Allucinogeni e nuove droghe (1I). Dicembre ‘98.
128.Muzi P., Bologna M.: Tecniche di immunoistochimica. Gennaio ‘99.
129.Morganti R., Pistello M., Vatteroni M.L.: Monitoraggio dell’efficacia dei farmaci antivirali. Febbraio ‘99.
130.Castello G., Silvestri I.:Il linfocita quale dosimetro biologico. Marzo ‘99.
131.AielloV., Caselli M., Chiamenti C.M.: Tumorigenesi gastrica Helicobacter pylori - correlata. Aprile ‘99.
132.Messina B., Tirri G., Fraioli A., Grassi M., De Bernardi Di Valserra M.: Medicina
Termale e Malattie Reumatiche. Maggio ‘99.
133.Rossi R.E., Monasterolo G.: Eosinofili. Giugno ‘99.
134.Fusco A., Somma M.C.: NSE (Enolasi Neurono-Specifica). Luglio ‘99.
135.Chieffi O., Bonfirraro G., Fimiani R.: La menopausa. Settembre ‘99.
136.Giglio G., Aprea E., Romano A.: Il Sistema Qualità nel Laboratorio di Analisi. Ottobre
‘99.
Caleidoscopio
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M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo,
A.M. Torriglia, G. Montresor
Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche
137.Crotti D., Luzzi I., Piersimoni C.: Infezioni intestinali da Campylobacter e microrganismi
correlati. Novembre ‘99.
138.Giovanella L.: Tumori Neuroendocrini: Diagnosi e fisiopatologia clinica. Dicembre ‘99.
139.Paladino M., Cerizza Tosoni T.: Umanizzazione dei Servizi Sanitari: il Case Management.
Gennaio 2000.
140.La Vecchia C.: Come evitare la malattia. Febbraio 2000.
141.Rossi R.E., Monasterolo G.: Cellule dendritiche. Marzo 2000.
142.Dammacco F.: Il trattamento integrato del Diabete tipo 1 nel bambino e adolescente (I).
Aprile 2000.
143.Dammacco F.: Il trattamento integrato del Diabete tipo 1 nel bambino e adolescente (II).
Maggio 2000.
144.Croce E., Olmi S.: Videolaparoscopia. Giugno 2000.
145.Martelli M., Ferraguti M.: AllergoGest. Settembre 2000.
146.Giannini G., De Luigi M.C., Bo A., Valbonesi M.: TTP e sindromi correlate: nuovi orizzonti diagnostici e terapeutici. Gennaio 2001.
147.Rassu S., Manca M.G., Pintus S., Cigni A.: L’umanizzazione dei servizi sanitari. Febbraio
2001.
148. Giovanella L.: I tumori della tiroide. Marzo 2001.
149.Dessì-Fulgheri P., Rappelli A.: L’ipertensione arteriosa. Aprile 2001.
150. The National Academy of Clinical Biochemistry: Linee guida di laboratorio per lo screening, la diagnosi e il monitoraggio del danno epatico. Settembre 2001.
151.Dominici R.: Riflessioni su Scienza ed Etica. Ottobre 2001.
152.Lenziardi M., Fiorini I.: Linee guida per le malattie della tiroide. Novembre 2001.
153.Fazii P.: Dermatofiti e dermatofitosi. Gennaio 2002.
154.Suriani R., Zanella D., Orso Giacone G., Ceretta M., Caruso M.: Le malattie infiammatorie intestinali (IBD) Eziopatogenesi e Diagnostica Sierologica. Febbraio 2002.
155. Trombetta C.: Il Varicocele. Marzo 2002.
156.Bologna M., Colorizio V., Meccia A., Paponetti B.: Ambiente e polmone. Aprile 2002.
157. Correale M., Paradiso A., Quaranta M.: I Markers tumorali. Maggio 2002.
158. Loviselli A., Mariotti S.: La Sindrome da bassa T3. Giugno 2002.
159. Suriani R., Mazzucco D., Venturini I., Mazzarello G., Zanella D., Orso Giacone G.:
Helicobacter Pylori: stato dell’arte. Ottobre 2002.
160. Canini S.: Gli screening prenatali: marcatori biochimici, screening nel 1° e 2° trimestre di
gravidanza e test integrato. Novembre 2002.
161. Atzeni M.M., Masala A.: La β-talassemia omozigote. Dicembre 2002.
162. Di Serio F.: Sindromi coronariche acute. Gennaio 2003.
163. Muzi P., Bologna M.: Il rischio di contaminazione biologica nel laboratorio biosanitario.
Febbraio 2003.
164. Magni P., Ruscica M., Verna R., Corsi M.M.: Obesità: fisiopatologia e nuove prospettive
diagnostiche. Marzo 2003.
165. Magrì G.: Aspetti biochimici e legali nell’abuso alcolico. Aprile 2003.
166. Rapporto dello Hastings Center: Gli scopi della medicina: nuove priorità. Maggio 2003.
167. Beelke M., Canovaro P., Ferrillo F.: Il sonno e le sue alterazioni. Giugno 2003.
168. Macchia V., Mariano A.: Marcatori tumorali nel cancro della vescica. Luglio 2003.
169. Miragliotta G., Barra Parisi G., De Sanctis A., Vinci E.: La Turbercolosi Polmonare:
Diagnostica di Laboratorio. Agosto 2003.
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Caleidoscopio
M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo,
A.M. Torriglia, G. Montresor
Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche
170. Aebischer T.: Il Comitato Internazionale della Croce Rossa ed il Diritto Internazionale
Umanitario. Settembre 2003.
171. Martino R., Frallicciardi A., Tortoriello R.: Il manuale della sicurezza. Ottobre 2003.
172. Canigiani S. e Volpini M.: Infarto acuto del miocardio: biochimica del danno cellulare e
marcatori di lesione. Novembre 2003.
173. La Brocca A. Orso Giacone G. Zanella D. Ceretta M.: Laboratorio e clinica delle principali affezioni tiroidee. Dicembre 2003.
174. Savron G.: Le Fobie. Gennaio 2004.
175. Paganetto G.: Evoluzione storica del rischio di patologie umane per contaminazione chimica ambientale. Febbraio 2004.
176. Giovanella L.: Iperparatiroidismo e tumori paratiroidei. Marzo 2004.
177. Severino G., Del Zompo M.: Farmacogenomica: realtà e prospettive per una “Medicina
Personalizzata”. Aprile 2004.
178 Arigliano P.L.: Strategie di prevenzione dell’allergia al lattice nelle strutture sanitarie.
Maggio 2004.
179. Bruni A.: Malattia di Alzheimer e Demenza Frototemporale. Giugno 2004.
180. Perdelli F., Mazzarello G., Bassi A.M., Perfumo M., Dallera M.: Eziopatogenesi e diagnostica allergologica. Luglio 2004.
181. Franzoni E., Gualandi P. Pellegrini G.: I disturbi del comportamento alimentare. Agosto
2004.
182. Grandi G., Peyron F.: La toxoplasmosi congenita. Settembre 2004.
183. Rocca D.L., Repetto B., Marchese A., Debbia E.A: Patogeni emergenti e resistenze batteriche. Ottobre 2004.
184. Tosello F., Marsano H.: Scientific English Handout. Novembre 2004.
185. La Brocca A., Orso Giacone G., Zanella D.: Ipertensione arteriosa secondaria: clinica e
laboratorio. Dicembre 2004.
186. Paganetto G.: Malattie Neoplastiche: dalla Paleopatologia alle Fonti Storiche. Gennaio
2005.
187. Savron G.: La sindrome dai mille tic: il disturbo di Gilles de la Tourette. Febbraio 2005.
188. Magrì G., Baghino E., Floridia M., Ghiara F.: Leishmania. Marzo 2005.
189. Lucca U., Forloni G., Tiraboschi P., Quadri P., Tettamanti M., PasinaL.: Invecchiamento, deterioramento cognitivo e malattia di Alzheimer. Aprile 2005.
190. Volpe G., Delibato E., Orefice L., Palleschi G.: Tossinfezioni alimentari e metodiche
recenti ed innovative per la ricerca dei batteri patogeni responsabili. Maggio 2005.
191. Mazzarello M.G., Albalustri G., Audisio M., Perfumo M., L. Cremonte G.: Aerobiologia
ed allergopatie. Giugno 2005.
192. Scalabrino G., Veber D., Mutti E.:Nuovi orizzonti biologici per la vitamina B12. Luglio
2005.
193. Zepponi E.: Guida pratica per gli utenti del laboratorio analisi. Settembre 2005.
194. Faricelli R., Esposito S., Martinotti S.: La sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi. Ottobre
2005.
195. Baccini C., Bezzi F., Conti M., Tazzari V.: Doping e antidoping nello sport. Novembre
2005.
196. Lozzi M.: La Mediazione pacifica dei conflitti. Una risorsa socio-relazionale in ambito
medico-sanitario. Dicembre 2005.
Caleidoscopio
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M.G. Mazzarello, R. Brunetti, M. Perfumo,
A.M. Torriglia, G. Montresor
Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori
di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologiche
197. Bracco G.: Progettare un Laboratorio di Analisi. Gennaio 2006.
198. Angelucci A.: Apoptosi e sistema immunitario: regolazione e patologie associate.
Febbraio 2006.
199. Commissione Tecnica sul Rischio Clinico: Risk management in Sanità. Il problema
degli errori. Marzo 2006
200. Casati G., Marchese E., Roberti V., Vichi M.C.: La gestione dei processi clinico
assistenziali per il miglioramento delle prassi. Aprile 2006.
201. Zanella D., Ceretta M., Orso Giacone G.: Peptidi natriuretici: nuove frontiere in
cardiologia? Maggio 2006.
202. Cicala M., Dal Lago U., Vinci P., Maggiorotti M.: L’accusa di malpractice in ambito medico. Giugno 2006.
203. Martino R.: Manuale Qualità UNI EN ISO 9001. Luglio 2006.
204. Mazzarello M.G., Arata M., Perfumo M., Marchese A., Debbia E.A.: Tubercolosi
e micobatteri. Settembre 2006.
205. Matrullo R.: Anoressia: la negazione della sessualità come difesa narcisistica.
Ottobre 2006.
206. Crotti D.: Le parassitosi intestinali ed uro-genitali. Novembre 2006.
207. Orso Giacone G., Zanella D., Ceretta M.: Il referto interpretativo in infettivologia.
Dicembre 2006.
208. Baghino E., Magrì G., Nicoletti L., Novaro G., Vignale C., Mazzei C.: Stato dell’arte delle aneuploidie fetali, dall’indagine clinica prenatale alla diagnosi anatomopatologica. Gennaio 2007.
209. Mazzarello M.G., Brunetti R., Perfumo M., Torriglia A.M., Montresor G.:
Principali Tecniche Analitiche in uso nei Laboratori di Analisi Chimico Cliniche e
Microbiologiche. Febbraio 2007.
I volumi disponibili su Internet nel sito www.medicalsystems.it
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Inoltre sono disponibili un limitato numero di copie di alcuni
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sono: Caleidoscopio 14, 18, 33, 40, 48, 49, 50, 54, 65, 68, 84, 100,
106, 118, 121, 126, 129, 130, 131, 132, 133, 134. I volumi verranno distribuiti sino ad esaurimento e non verranno ristampati se
non in nuove edizioni.
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Caleidoscopio
Caleidoscopio
Rivista mensile di Medicina
anno 25, numero 209
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21-06-2007
21-06-2007
21-06-2007
20-06-2007
Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite 2000 Genova
Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 4000 Genova
Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso della workcell Trinity Genova
Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso della workcell Trinity Genova
Miglioramento delle competenze professionali nell’uso del Konelab 30/60 Genova
Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite 2000 Genova
Metodologie di impostazione dei lavori scientifici Genova
Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 2000 (corso avanzato) Genova
Miglioramento delle competenze professionali nell’uso del PathFinder (corso avanzato). Genova
Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite Genova
Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 4000 Genova
Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso della workcell Trinity Genova
Metodiche di trasformazione dei dati Genova
Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite 2000 Genova
Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso del PathFinder Genova
Comunicazione efficace in sanità: dinamiche di relazione (Direzione - Staff - Paziente) Caltagirone (CT)
Comunicazione efficace in sanità: dinamiche di relazione (Direzione - Staff - Paziente) Caltagirone (CT)
Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 2000 (corso avanzato) Genova
Miglioramento delle competenze professionali nell’uso del Konelab 30/60 Genova
Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 4000 Genova
Utilizzo di curve ROC nell’analisi di dati di microarrays Genova
Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite 2000 Genova
Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 4000 Genova
Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite 2000 Genova
La Qualità nel Laboratorio Analisi. La Gestione del rischio nel Laboratorio Analisi Lecce
Comunicazione efficace in sanità: dinamiche di relazione (Direzione - Staff - Paziente) Caltagirone (CT)
Miglioramento delle competenze professionali nel dosaggio dei marcatori tumorali con l’Immulite 2000 Milano
Miglioramento delle competenze professionali nell’uso del Konelab 30/60 Genova
Comunicazione efficace in sanità: dinamiche di relazione (Direzione - Staff - Paziente) Caltagirone (CT)
Miglioramento delle competenze professionali di base nell’uso dell’Immulite Genova
Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 2000 (corso avanzato) Genova
Linee Guida sugli screening pre e post natali e valutazione diagnostica della gravidanza Tricase (LE)
Tecniche di Comunicazione efficace e gestione gruppi in sanità Pizzo (Vibo Valentia)
Patologia cromosomica in epoca prenatale e neonatale Lagonegro (PZ)
Miglioramento delle competenze professionali nell’uso dell’Immulite 4000 Genova
Miglioramento delle competenze professionali nell’uso del CQI Online Montecchio Maggiore (VI)
Omocisteina, linee guida per l’utilizzo come fattore predittivo di eventi tromboembolici Nizza Monferrato (AT)
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