Philipps-Universität Marburg
FB 10: Fremdsprachliche Philologie
Modul Fawi I6: Sprachmittlung, Argumentation, Diskussion: Fachsprachenkompetenz Italienisch
(Profilbereich)
Seminar: Interpretation und Wertung
Seminarleiter: Prof. Rainer Stillers
W.S. 2014-15
IL PIACERE D’ELEONORA
O COME FORSE LEI LO LESSE
Vera Angela Vogel
G.Kellerstr.20, 35059 Marburg
E-Mail: [email protected]
Martikelnummer: 2662892
Studiengang:B.A. Romanische Kulturen
1. Fachsemester
1 Inhaltsverzeichnis
1. Prefazione
2. Lettera 1
3. Lettera 2
4. Lettera 3
5. Lettera 4
6. Literaturverzeichnis
2 1. Prefazione
La prima volta che sentii parlare di D’Annunzio fu al liceo. La nostra professoressa di
Lettere ce lo presentò come “uno di quegli autori che piacciono a voi ragazzi” e
indubbiamente lei stessa, più incline al sapore piccante delle novelle di Boccaccio che al
pessimismo cosmico di Leopardi, apprezzava toni e contenuti delle opere del Vate.
Anziché però illuminarci sull’origine del fascino del poeta o sui ricorsi stilistici che
adottò per ottenerlo, l’unico suo commento che ricordo fu che D’Annunzio nutrì una
grande passione per i piedi femminili e li descriveva in quasi ogni sua opera. La lettura
in classe de La pioggia nel pineto mi convinse però che l’essenza di quest’autore non
poteva limitarsi ad tali descrizioni pedestri. Così decisi di leggere Il Piacere. Forse
all’epoca non capii a pieno il messaggio del romanzo ma ci pensai su abbastanza.
Quando poi ci fu data la consegna di questa tesina, che lasciava la libertà di scelta del
testo letterario da analizzare, pensai che poteva essere l’occasione per riprendere in
mano Il piacere e cercare di scovare, con un’analisi più approfondita e una lettura più
attenta, alcuni dei segreti che alla prima lettura forse mi erano sfuggiti. Scelsi di scrivere
la recensione in forma di lettere che la grande amante di D’Annunzio, Eleonora Duse,
immagino potrebbe aver redatto dopo aver letto il romanzo ma prima ancora di
conoscerne l’autore. Il destinatario è Arrigo Boito, conosciuto principalmente come
librettista di Giuseppe Verdi, che fu amante della Duse per molti anni. La loro
corrispondenza, caratterizzata dall’alternanza di periodi passionali ed altri di freddi
distacchi, durò fino alla morte di Boito che le scrisse l’ultima lettera due settimane
prima di spegnersi.1 Ho cercato di attenermi, per quanto possibile, a dati ed avvenimenti
reali delle biografie ispirandomi, almeno a tratti, al modo di scrivere della Duse, come
emerge dalle sue lettere. In questo mi basai principalmente in un libro pubblicato nel
2014, Come il mare io ti parlo, che raccoglie le lettere che l’attrice scrisse a
D’Annunzio. I contenuti sono ovviamente di pura immaginazione, anche se ho cercato
di renderli conformi alle sue idee, come espresse nelle lettere. È documentato che ella
lesse più volte Il Piacere tra il 1893 e il 1894 e ne rimase tanto colpita da scrivere a
1
V. WINWAR, Frances: Wings of fire. A biography of Gabriele D’Annunzio and Eleonora Duse. Alvin Redman Limited (London), 1957. P.136 e seguenti 3 Boito: “Preferirei morire in un cantone piuttosto che amare un’anima tale. D’Annunzio
lo detesto, ma lo adoro”.2
Spero di essere riuscita, per quanto oltre un secolo di distanza ci separino, a catturare un
po’dello spirito dell’epoca e che il testo risulti piacevole e interessate da leggere.
2. LETTERA 1
Caro Arrigo,
quanta solitudine in questa Roma! Non puoi neppure immaginare quanto la tua
mancanza mi fa soffrire. Questo misto di doveri e piaceri, di molto spettacolo e tante
chiacchiere che caratterizzano la città mi fanno sentire più lontana dal mondo che
Arianna a Nasso. Tu mi chiedi di raccontarti qualche novità dell’urbe; ebbene non v’è
gran che di spettacolare, eccezion fatta per un romanzo che continua a passare tra le
bocche di tutti. Mi raccontarono che già prima della pubblicazione la città intera era
colma di manifesti che ne ritraevano il protagonista e in un solo anno furono messe in
vendita quattro edizioni. L’intera Roma l’ha letto, se ne discute sottovoce, ha molti
ammiratori ma pochi che hanno il coraggio di dichiararlo apertamente. L’autore è un
giovanotto di Pescara, Gabriele D’Annunzio, che a soli sedici anni pubblicò la sua
prima raccolta di poesie. Io non la lessi, a quanto si dice, è una messa insieme di dettagli
erotici scritti con un patetismo da quattro soldi, di quelle poesiole che leggono i ragazzi
di oggi: molto fumo ma poca sostanza. Appena arrivato a Roma nel1881, sparse la voce
della propria morte sui giornali è così divenne una celebrità e questa città, assetata di
dicerie, lo accolse a braccia aperte. Ora egli stesso scrive cronache sui quotidiani in cui
si diverse a mettere a nudo relazioni ed affari della nobiltà locale. Una sera, dev’essere
stato ormai cinque anni fa, questo stesso giovanotto si presentò dopo uno spettacolo nel
mio camerino con un mazzo di rose e mi fece delle avance tanto esplicite da lasciarmi
senza parole. Puoi immaginarti lo sdegno e l’umiliazione che ho provato di fronte a
tanta sfacciataggine! Una altra volta, dopo la rappresentazione de “La signora delle
2
V. BRUNI, Emanuela. Tra i boschi tuscolani e sulle scene parigine con il Vate e la Divina, http://nuovaccademiatuscolana.blogspot.de 4 camelie”, ho sentito una voce esclamare nella penombra del corridoio che conduceva al
camerino :”Oh grande amatrice!”. Era lui, ancora una volta.3
Se dovessi descrivertelo in due parole direi che si tratta di un giovane esile ed elegante,
piccolo di statura con una barbetta a punta di un biondo pallido. Ha uno sguardo freddo,
un po’crudele ed anche la sua voce è nitida, quasi gelida. Ma ha un fascino
straordinario, questo non te lo nascondo, che ammalia qualsiasi essere femminile gli si
avvicini, un fuoco interiore che cerca di contenere dentro la compostezza esteriore ma
che traspare dagli occhi vispi ed ardenti, così forti e penetranti da creare uno sconcerto,
quasi una ferita, in chiunque gli stia di fronte. Non dimenticai mai quello sguardo e
quando lo sdegno fu placato iniziai a provare una strana curiosità. Così decisi di leggere
quel romanzo che fece tanto scalpore. Qui è una figura troppo nota e troppo criticata
perché qualcuno ne dia un giudizio sincero, perciò scrivo a te solo questi pensieri.
Infondo nessuno si interessa per il valore letterario dell’opera in sé, io invece voglio
capire da dove nasce il fascino di questo libro, quale sia il suo messaggio segreto che in
esso si nasconde. Perché il fascino c’è, l’ho sentito fin dalle prime pagine. Ha una forza
quasi diabolica, un’attrazione magnetica, uno stile ripugnante e allo stesso tempo
magnifico che ti costringe ad andare avanti, pagina dopo pagina; non te ne puoi più
separare, già ti ha avvolto ed incarcerato nel flusso delle parole. È una lotta continua tra
attrazione e ripulsione che invade il lettore e ne inonda lo spirito. Inizialmente il suo
stile risulta davvero un po’pesante: il patetismo esasperato e lascivo dei passaggi di più
profonda passione amorosa raggiunge quasi il ridicolo. Per darti un’idea, ecco un breve
passo di un discorso del protagonista: “ Io ti ricoprivo il petto, le braccia, la faccia, con i
fiori, opprimendoti. Tu risorgevi continuamente, porgendo la bocca, la gola, le palpebre
socchiuse. Fra la tua pelle e le mie labbra sentivo le foglie fredde e molli. Se io ti
baciavo il collo tu rabbrividivi in tutto il corpo, e tendevi per tenermi lontano. Oh,
allora… Avevi la testa affondata nei cuscini, il petto nascosto dalle rose, le braccia nude
fino al gomito; e nulla era più amoroso e più dolce che il piccolo tremito delle tue mani
pallide su le mie tempie…ti ricordi?”4. E’ davvero un po’esagerato, non trovi? Eppure,
non voglio negartelo, a questo kitsch, perlomeno noi donne, non sappiamo essere del
3
Per i riferimenti biografici v. WEISS, Giorgio: Boito‐Duse, il carteggio, http://www.giorgioweiss.it
4
D‘Annunzio, Gabriele: Il piacere. Newton Compoton editori (Roma), 1995. P.13 5 tutto immuni. Infondo siamo tutte delle gran romantiche… se solo esistessero in qualche
sperduto angolo del mondo passioni così forti come le descrivono queste parole!
Nello stile del D’Annunzio mi parve di sentire fin dal primo istante una eco familiare,
un accento che associavo a te ma che non sapevo bene contestualizzare. Poi è tornato il
ricordo, come una nebbia che si disfa lentamente… era una musica! Ti ricordi quella
serata d’inverno in cui ci ritrovammo tutti insieme con Giacosa e gli altri amici vostri e
discutemmo fino a notte fonda sulla nuova opera del Puccini che tu tanto criticavi? E
come poi Luigi tolse il manoscritto dalla sua borsa e lo passò al giovane tenore, amico
suo, di cui ora mi sfugge il nome. Lui si sedette al piano e il ragazzo cantò…si rivolse a
me, mi afferrò la mano e cantò: “Che gelida manina, se la lasci riscaldar…”, ancora
ricordo come rabbrividii! E anche tu, so bene che non lo ammetteresti mai, anche tu ti
sei commosso. Ah, aspetto con impazienza che quell’opera appaia in teatro! Ricordi se
avevano già stabilito il titolo? Sarà un gran successo, ne sono sicura! 5
Ma non voglio irritarti con questi discorsi, non con razionali argomentazioni riuscirò a
convincerti, chissà forse quando la vedrai a teatro cambierai idea! Ritorniamo piuttosto
al romanzo di cui ti parlavo. Ecco appunto, quell’aria aveva lo stesso sapore delle lettere
del D’Annunzio: sapore di miele. Tanto dolce, quasi nauseante se consumato puro,
appiccicoso ed inebriante; eppure nei momenti di tristezza, di freddo, di malattia, cos’è
più benefico di un cucchiaino di miele? Mi ricordai delle parole di Lucrezio:
“Come i medici, quando cercano di dare ai fanciulli
il ripugnante assenzio, prima gli orli, tutt'attorno al bicchiere,
cospargono col dolce e biondo liquore del miele,
perché nell'imprevidenza della loro età i fanciulli siano ingannati,
non oltre le labbra, e intanto bevano interamente l'amara
bevanda dell'assenzio e dall'inganno non ricevano danno,
ma al contrario in tal modo risanati riacquistino vigore;
5
L’episodio sull’ascolto dell’aria della Bohème è fittizio, è però certificato che Boito e Giacosa furono molto legati e che lui e la Duse discussero controversamente lo stile di Puccini, che Boito criticava con veemenza mentre lei lo ammirava (v. WINWAR, Frances: Wings of fire. A biography of Grabriele D’Annunzio and Eleonora Duse. Alvin Redman Limited (London), 1957
6 così io ora, poiché questa dottrina per lo più pare
troppo ostica a coloro che non l'hanno coltivata,
e il volgo rifugge lontano da essa, ho voluto esporti
la nostra dottrina col canto delle Pieridi che suona soave,
e quasi cospargerla col dolce miele delle Muse,
per provare se per caso potessi in tal modo tenere
avvinto il tuo animo ai miei versi, finché comprendi tutta
la natura e senti a fondo il vantaggio. “6
Così nei momenti di sconforto, quando ci troviamo faccia a faccia con l’amarezza della
vita, dobbiamo trovare un miele che aiuti ad andare avanti, che allievi la sofferenza o
che almeno la nasconda. So che occultare la triste verità non è una soluzione ma se
l’illusione mi aiuta, perché non applicarla? Puccini, come D’Annunzio, sono miele
puro: provocano crisi di iperglicemia a chi è ben nutrito, possono salvare la vita a che ha
un calo di zuccheri.
Questa per oggi, è la novità! Se ti ha incuriosito, posso procurarti una copia del
romanzo…Ahi! quasi dimenticavo la cosa più importante: il titolo! Si chiama: Il Piacere
Un bacio,
la tua Eleonora
3. LETTERA 2
Mio carissimo Arrigo,
voglio parlarti ancora di quel libro. Mi fa piacere che abbia suscitato il tuo interesse ma
dalla tua lettera mi è parso di leggere quasi un tono di sospetto e di rimprovero. Non hai
motivo di preoccuparti, mio geloso! Questo Gabriele non potrà mai essere un tuo rivale!
Come potrei mai amare un uomo che mi ha così offeso? Dico solo che mi ha incuriosito,
come talora con un quadro in un museo fa venir desiderio di conoscere chi sia la
persona ritratta, senza che per questo si finisca per amare la modella. E poi, se dessi
retta a tutti i ragazzini che mi fanno la corte…per questo sono troppo ambiziosa e forse
troppo matura. Per me ci vuole un uomo speciale come soltanto tu sai essere. Per il resto
6
Tito Lucrezio Caro: De rerum natura, Einaudi editore, 2003, libro IV 7 non voglio nasconderti ciò che il libro suscita in me, anzi, proprio di questo voglio
parlarti. Ma non devi confondere i due piani: il libro è una cosa, l’autore un’altra.
Per riassumerti la trama in due parole direi che tratta di un nobile decaduto, Andrea
Sperelli, uno come se ne vedono tanti per strada, che vive a pieno la mondanità della
nostra Roma e tra tutte le donne che ha sedotto, finisce per rimanere diviso tra due, le
uniche di cui non si sazia: Elena Muti e Maria Ferres. Già questi due nomi tradiscono
quanta allegoria, quanti occulti simbolismi si nascondano dietro alle due figure. Non ci
vuole l’abilità di un critico per capire che Elena alluda alla grande figura mitologica
dell’Iliade e Maria alla Vergine. L’una incarna la seduzione, il fascino irresistibile e la
carnalità, l’altra la perfezione morale, la purezza, il divino. Più intrigante risulta invece
l’interpretazione dei due cognomi, certo non casuali. Perché Elena è “muta”? leggendo i
primi capitoli e la descrizione dei momenti di passione tra Andrea ed Elena ricorre
molte volte la frase: “ed Elena tacque”. Quando la passione raggiunge il culmine,
quando rivela tutto il suo fascino e lui le cade ai piedi, lei sempre tace. Da notare che
non compare mai la frase “e Maria tacque” nei capitoli successivi. Il silenzio di Elena è
sostanzialmente una qualità che la connotava già in Omero: lei, la causa della guerra,
non ricordo che dica una sola parola, è una figura senza carattere e senza voce. Usa il
fascino come unico mezzo per comunicare e trasmette con esso sentimenti più profondi
di quanto le parole del più gran oratore abbiano saputo fare. Così anche la forza
dell’Elena dannunziana non sta nelle sue parole ma nei suoi gesti. Sono infondo le sue
azioni che risultano determinanti: lei gli si cede, senza commento, lei lo lascia, senza
spiegazioni, lei ritorna, senza dire il perché per poi infine distaccarsi definitivamente
senza che nessuno di questi atti abbiano trovato una giustificazione verbale. Tuttavia
Andrea non sembra accorgersene. È solo nel momento della separazione che nasce in lui
il dubbio, originato dal fatto che infondo Elena non gli ebbe mai dato una conferma del
suo amore, ne una parola d’addio. Vede in lei d’improvviso una traditrice bugiarda e
questo senza alcuna difficoltà, dal momento che non c’erano neppure parole o lettere
d’amore che confermassero che lei un tempo l’aveva amato.
Maria è l’opposto: vive nella parola e nella verità indiscussa che l’etica le impone di
mettervi. Innanzitutto lei scrive un diario e così facendo descrive a parole le azioni, le
giudica, le immobilizza così da non lasciare spazio ad interpretazioni, al “non detto” di
una situazione. Maria è la trasparenza, è l’etica ferrea che non conosce ambiguità e
questo si riflette nel suo cognome: Ferres.
8 L’amore del giovane artista per queste due creature è assolutamente antitetico. Da una si
sente attratto perché ha i suoi stessi doni, la sua stessa attitudine, le sue stesse armi;
dall’altra perché gli è opposta e la necessita per completare le qualità che egli non ha.
Come nell’Inferno dantesco le punizioni si dividono in pene per analogia e pene per
contrappasso, così sono le pene amorose del nostro eroe: un amore per analogia ed uno
per contrappasso.
Le due donne però non stanno a rappresentare solo due maniere differenti di attrazione
erotica ma hanno un significato allegorico molto più profondo. Mi viene alla mente il
quadro “Italia e Germania” di Friedrich Overbeck. Le due donne dipinte hanno una
portata simbolica così forte da mettere totalmente in ombra la loro bellezza immanente.
La loro essenza sta nel mondo che ritraggono, non nell’anima individuale che portano
dentro. Allo stesso modo le due figure dannunziane sembrano non avere spessore
psicologico, i caratteri sono perlopiù stabili e si evolvono poco. Il loro compito non è
l’essere una donna particolare ma quello di portavoce di due mondi inconciliabili, di due
epoche storiche: l’antica e la cristiana. Questi due mondi sono le realtà pregnanti della
città di Roma, la Roma degli imperatori e quella dei papi. La Roma di Elena è quella dei
grandi palazzi antichi, del Colosseo, delle grandi serate di gala. Così le corse dei cavalli
ricordano i ludi circensi, le cene i banchetti romani o i simposi greci. Tutto è teso a
ripristinare quell’antico splendore. Eppure D’Annunzio riesce a minarlo di una sottile
vena di corrosione che si insinua in ogni scena e ne macchia la grandiosità. Ad esempio,
le parole che mette in bocca ai convitati delle feste: sono discorsi banali, quasi volgari,
che raccontano scene di ubriachezza, di relazioni d’amore tutt’altro che poetiche, che
poco hanno a che vedere con le sagge riflessioni filosofiche di un simposio platonico.
Questa corrosione è ancora più evidente nel momento finale del primo libro: il duello tra
lo Sperelli e il Rùtolo che si contendono l’amore di Elena. Tutta la scena è impostata
come un tradizionale duello eroico come poteva essere quello tra Ettore ed Achille.
D’Annunzio descrive l’aspetto fisico dei corpi dei contendenti e poi le loro armi con un
tono di stampo omerico che mi ha fatto ripensare alle interminabili pagine dell’Iliade
che tradussi al liceo in cui si racconta minuziosamente la decorazione degli scudi dei
guerrieri. Ma l’eroicità classica sgretola poco a poco: i due combattenti non conservano
traccia del contegno degli antichi, non sanno dominare le loro passioni e le effusioni
esagerate dei loro sentimenti li rendono più simili a tori in una corrida che ad eroi
omerici: “il Rùtolo incalzava, furioso, con stoccate velocissime, quasi tutte basse (…).
Lo Sperelli, senza sconcertarsi a quella furia (…) rispondeva con tale acredine che ogni
9 sua botta avrebbe potuto passar fuor fuora il nemico”7. Alla fine del duello poi è persa
definitivamente ogni traccia di eroismo: Andrea pur possedendo l’aspetto più nobile e
valoroso viene ferito con un colpo quasi casuale che di certo non è indice dell’abilità
tecnica dell’avversario. Non c’è gloria nella ferita, come spesso accade nei Greci. Penso
ad esempio alla statua del Galata morente. Quanta grandezza evade da quel marmo!
Andrea non ne mostra neppure un soffio: “cadde tramortito su le braccia del Barbarisi. –
Ferita toracica, al quarto spazio intercostale destro, penetrante in cavità, con lesione
superficiale del polmone.”8. Con queste parole del chirurgo si chiude il primo libro.
Andrea va poi a farsi curare. Si affida totalmente alle premure della cugina, come un
bambino che dopo essersi sbucciato un ginocchio nasconde il volto in lacrime nel
grembo della madre. Lo Sperelli bambino rinasce in un nuovo mondo: l’euforia della
guarigione e la felicità di essere scampato alla morte dopo averla sentita così prossima
lo elevano al di là delle cose mondane. Egli sente placata la sua continua sete di piacere
e per un istante sa vivere l’attimo, essere sufficiente a se stesso, godere della propria
spiritualità e di quella che percepisce nell’armoniosa natura che lo circonda. I fiori, i
sassi, il mare, tutto ciò lo fa commuovere e gli fa intuire l’esistenza di un essere
superiore che creò e ancor protegge il suo creato. Andrea si è, per così dire, ritrovato
nell’Eden. Questo è l’altro mondo che Il Piacere ci presenta. In tutto e per tutto
antitetico a quello precedente, è la campagna di Schifanoia, non il corrotto lusso della
Roma papale, che incarna la cristianità. L’icona di questo mondo è Maria. Ella appare
proprio nel momento in cui lo Sperelli termina di comporre un sonetto in cui invoca la
Madonna. Lui, nella sua sostanziale debolezza d’animo, sente di continuo l’esigenza di
affidarsi a qualcuno, di trovare un essere che dia un significato alla sua esistenza.
Questa inevitabile meta che egli deve continuamente prefiggere alla sua vita fu fino a
quel momento personificata da una donna; per questo lo attrassero solo le donne difficili
da conquistare, perché egli in verità non voleva possederle, quel che gli importava era
lottare per sottometterle. La lotta era il senso della sua esistenza. La malattia allontanò
per un istante questo “Streben”, come lo chiamano i romantici tedeschi, e per un
brevissimo istante, nelle prime pagine del secondo libro, egli raggiunge il superamento
di quest’anelito: “in questa temporanea morte del desiderio, in questa temporanea
assenza della memoria, in questa perfetta oggettività della contemplazione appunto era
7
8
D’Annunzio, Gabriele: Il piacere. P.101 D’Annunzio, Gabriele: Il piacere. P.101 10 la causa del non mai provato godimento”9. Ma questo stadio dura poco; già Andrea
persegue un nuovo oggetto da vagheggiare, una nuova meta a cui tendere che sia più
alta e più pura delle precedenti, che lo liberi da tutti i peccati della sua vita anteriore.
Dapprima lo cerca nell’arte che chiama “amante fedele”. Ma il suo talento e la sua
dedizione non sono sufficienti. Andrea non è un creatore ma un ladro. Egli non è fatto
per modellare qualcosa di nuovo, fino a renderlo perfetto, ma per appropriarsi di
qualcosa di prefabbricato che è già di per sé perfetto.
Si volge quindi alla fede, ma mai, in nessun momento, pensa a Dio Padre o al Figlio. Al
centro della sua spiritualità è sempre la Vergine. Fu così che incontrò Maria. Per caso?
La domanda è interessante. In realtà fu la cugina che presentò ad Andrea tanto Elena
quanto Maria ed entrambe le volte, insinuò in Andrea l’idea che quelle donne avrebbero
dovuto piacergli. La reazione dello Sperelli non è quindi del tutto spontanea ma quasi
premeditata, il sentimento non è autentico ma forgiato da un piano, un’aspettativa che
dirige non solo le sue azione ma anche i moti del suo animo. In effetti, per quanto
Andrea paia essere dominato dalle passioni e vittima dei suoi sentimenti, in realtà è un
freddo calcolatore. Nel primo capitolo del libro il protagonista, mentre attende l’arrivo
di Elena, pianifica nei più minuziosi dettagli parole e gesti che avrebbe eseguito durante
l’incontro. Già si immagina la passione che seguirà, sente i sentimenti che proverà: “La
ragione del suo potere stava in questo: che, nell’arte d’amare, egli non aveva ripugnanza
ad alcuna finzione, ad alcuna falsità, ad alcuna menzogna. Gran parte della sua forza era
nell’ipocrisia”10
Ma allora, nella successiva passione sentirà almeno un bricciolo di autanticità? C’è
ancora un fondo di verità in questo falso seduttore?
Il mio professore di filosofia al liceo ci ripeteva sempre: per capire un pensatore bisogna
innanzitutto chiedersi cosa sia per lui la Verità. Ricordo che ci fece l’esempio di
Socrate, che identificava la verità con la definizione, di Parmenide che vedeva come
verità l’Essere e Sant’Agostino, per il quale la verità è un dono di Dio. Qual è la verità
dello Sperelli? La svela il titolo: il piacere. In questo profondo godimento egli sa
abbandonare la sua falsità, le sue parole romantiche con cui ammalia tutte le donne, con
uno schema fisso che ricorda quello seguito da un chirurgo durante un’operazione,
cessano e si tramutano in sospiri e gemiti che davvero riflettono i moti del suo corpo.
9
D’Annunzio, Gabriele: Il piacere. P.104 D’Annunzio, Gabriele: Il piacere. P.17 10
11 Ma siamo poi così sicuri che siano sinceri? Infondo fu tutto una grande autosuggestione
attraverso cui egli stesso decise quale donna amare e quando raggiungere il piacere.
Nulla fu lasciato al caso. Ammettere che i nostri pensieri, le nostre relazioni, le nostra
azioni non siano dettate da una necessaria verità ma da quello che noi stessi vogliamo
sentire, che non amiamo per una freccia di Eros ma perché ci siamo auto convinti di
voler amare, equivale a dire che siamo attori, sempre e dovunque… e ogni attore è falso,
io lo so bene, questa è la qualità fondamentale che lo differenzia dal non-attore.
Nessuno vuole essere chiamato falso e la ragione per cui tutti criticano il romanzo è che
in fondo sentono di aver troppo in comune con il protagonista e vi leggono una subdola
accusa. Il libro intero è una critica alla falsità di questa vita. D’Annunzio stesso conduce
una vita che si riflette quasi specularmente in quella di Sperelli, questo egli lo sa, eppure
non la cambia. Resta ancorato alla corruzione morale solo in nome del piacere, l’unico
brandello di autenticità intatto che gli permette, durante quel breve attimo di godimento,
di saltare giù dal palco e vivere la verità.
Spero di non averti rattristato con queste cupe riflessioni,
Un bacio con tanto amore,
Eleonora
4. LETTERA 3
Carissimo,
ho ancora tante riflessioni che ti voglio scrivere! Quel libro ha invaso il mio cervello e i
pensieri girano in tondo finché non li metto per iscritto. È terribile portarseli dentro,
quasi tremo dal capogiro e non sai quanto ti sono grata che mi ascolti, tu che sei l’unico
al mondo con cui posso parlare di tali cose, che non mi giudica, che non mi condanna.
Ho già chiesto al mio libraio di procurarmi una copia de Il Piacere e te la farò avere al
più presto. Se non vuoi farti condizionare dalle mie impressioni, nascondi queste lettere
per il momento. Io ho bisogno di scriverle ora, prima che altri pensieri le sovrastino e
12 che queste, come tante riflessioni che nella vita si fanno, finiscano perse nell’aria come
fumo di camini.
Torniamo dunque al tema:
Lo Sperelli è una delle tante figure letterarie che viene inserita dai critici nel cassetto
dello stereotipo “seduttore”. Mi pare incredibilmente interessante confrontare questi
grandi seduttori della storia della letteratura perché, a ben vedere, sono tra loro molto
diversi e rivelano molto più spessore psicologico di quanto non gli si attribuisca
convenzionalmente. Da poco ho letto, ad esempio, l’ Aut, Aut del filosofo danese
Kierkegaard. Non so se lo conosci, a mio avviso è un pensatore geniale. Il libro è
relativamente recente, pubblicato nel 1843. Una sezione del libro si intitola per
l'appunto Diario di un seduttore. In essa il filosofo si dedica interamente alla scoperta
del mondo interiore di questa figura, per lui emblematica per la vita estetica che
costituisce, insieme a quella etica, personificata dalla figura del marito e quella
religiosa, uno delle tre strade possibili nella vita dell’uomo. Ciascuno di noi, secondo
Kierkegaard deve vivere secondo uno di questi tre stadi e l’appartenenza all’uno
piuttosto che all’altro condizionano la nostra attitudine verso l’esistenza, le nostre
azioni, i pensieri, le speranze. L’uomo estetico è dunque il Don Giovanni: egli
sostanzialmente è un uomo senza scelte, giacché è talmente debole da non saper
neppure scegliere una donna in particolare. Egli vede bellezza in tutte loro, vuole
goderle tutte senza mai legarsi ad una. In fin dei conti però, nonostante la sua apparente
forza esteriore conferitagli dal fascino che esercita sul sesso femminile, è un
personaggio solitario e infelice: nulla gli appartiene, nulla lo caratterizza, nessuna
qualità e nessuno scopo nella vita gli danno solidità e costanza. È la scelta di una donna,
una sola, che vuole sposare, che dettar mina il passaggio allo stadio successivo: quello
del marito. L’uomo fa così una promessa di fedeltà e resterà coerente con questa scelta
per tutta la sua vita. Questa scelta gli da forza e determinazione, gli attribuisce un colore
inconfondibile: egli diventa un uomo etico. Superiore all’uomo etico e poi quello di
fede: i suoi principi sono talmente saldi da trascendere le norme immanenti e astrarsi
totalmente dalle contingenze. Chi raggiunge questo stadio è libero dall’infelicità in cui
l’immensità delle possibilità di scelta tra cui flottiamo quotidianamente ci immerge.
Questa è, in breve, una sintesi minima del suo pensiero, almeno così come l’ho inteso io
dei suoi scritti che ho letto e dalle discussioni che su di lui ho sentito in certi circoli
letterari che ho frequentato. Perché ti racconto tutto questo? Perché sono quasi sicura
13 che D’Annunzio ha studiato intensamente la figura tratteggiata dal filosofo danese.
Senz’altro anche il Don Giovanni di Mozart ha lasciato la sua orma, perlomeno in
maniera indiretta giacché Kierkegaard la studiò intensamente e pubblicò su di essa un
saggio, anch’esso contenuto in Aut-Aut: Gli stati erotici immediati, ovvero il musicaleerotico. Non voglio esser troppo pignola e decidere quale Don Giovanni ebbe più
influsso sul personaggio dannunziano, se quello di Mozart o quello di Kierkegaard,
credo inoltre di non essere all’altezza di commentare l’opera del genio austriaco. Quello
lo lascio a te che respiri musica come noi aria mentre io in confronto sono analfabeta.
Sul Johannes danese vorrei invece spendere ancora qualche parola, perché il caso volle
che li conobbi quasi consecutivamente e così non potei non paragonarli. Come son
diversi tra loro persino i seduttori! Entrambi strumentalizzano le donne, vedono in esse
un mezzo per raggiungere l’unico e perpetuo fine della loro esistenza: il piacere. Ma
mentre Johannes è tattico, in ogni circostanza calmo nell’animo e calcolatore delle sue
mosse, come un abile scacchista, Andrea è volubile “qual piuma al vento”! Si, intendo
sul serio! Sperelli ha molto di femminile. Sentine la descrizione: “ La sua vanità di
giovine viziato ed effeminato non trascurava mai nell’amore alcun effetto di grazia o di
forma. Egli sapeva, nell’esercizio dell’amore, trarre dalla sua bellezza il maggior
possibile godimento. Questa felice attitudine del corpo e questa acuta ricerca del piacere
appunto gli cattivavano l’animo delle donna. Egli aveva in sé qualche cosa di Don
Giovanni e di Cherubino: sapeva essere l’uomo di una notte erculea e l’amante timido,
candido, quasi verginale.”11. Johannes invece è puro virilismo, ogni donna trema di
fronte all’autorità e la determinazione di quest’uomo. Ed egli persegue il suo scopo con
un occhio direi quasi clinico, come se sentisse un intrinseco obbligo a sedurre una
ragazza, una missione che culmina con l’atto d’amore che ne rappresenta l’apice ma al
momento stesso il termine, giacché una tale passione non può essere superata. Il vero
godimento di Johannes sta nell’aspettativa di questo momento, nel legare la ragazza a
lui con un vincolo così forte che la costringerà ad amarlo per sempre, per quanto egli la
ferisca e l’abbandoni. La sua massima aspirazione è per così dire l’eternità: con
l’immortale freccia di Eros che egli stresso infilza piano piano nel cuore della fanciulla
innocente fino a trapassarlo brutalmente egli si innalza al livello di un semi-dio. Non è
avido di godimento, anzi, sembra quasi scorgere una leggera malinconia nelle pagine
del diario, quando si accorge che il momento culminante si appressa e la vittoria non gli
risulta dolce. Andrea non ha questa superiorità nei confronti delle donne amate; egli ne
11
D’Annunzio, Gabriele: Il piacere. P.17 14 è vittima. Non domina le sue passioni, ne è dominato. In fondo non è lui di fronte al
quale le donne si prostrano ma viceversa, egli cerca in loro conforto e protezione. Maria
è per lui come una madre, soffre per la sua sofferenza, per il suo passato, proprio come
una madre ha compassione per il proprio figlio influenzato: “ La povera creatura
(Maria) credeva di salvare un’anima, di redimere un’intelligenza, di purificare con la
sua purità un uomo macchiato”12. Alla fine del libro, che non voglio svelarti per non
turbare la tua curiosità, resteranno entrambi sconfitti: Maria ed Andrea. Egli non esce di
scena orgoglioso come un Don Giovanni ma come un folle: “ Ella (Maria) non udiva
più altro; ella non udiva più nulla. Andrea gridava, supplicava, si disperava invano. Ella
non udiva. Una specie d’istinto la guidò negli atti. Ella trovò gli abiti; si vestì. Andrea
singhiozzava sul letto, demente. S’accorse che ella usciva dalla stanza. –Maria! Maria!-.
Ascoltò. –Maria!. Gli giunse il romore della porta che si richiuse.”13
Il suo ultimo incontro con Elena Muti non è meno umiliante: “Quando Lord Heathfield
si levò ed uscì, egli proruppe con la voce roca, afferrandole un polso, avvicinandosi a lei
così da sfiorarla con l’alito veemente: -Io perdo la ragione…Io divento folle… Ho
bisogno di te Elena, Ti voglio…
Ella liberò il polso, con un gesto superbo. Poi disse, con una terribile freddezza: -Vi farò
dare da mio marito venti franchi. Uscendo di qui, potrete soddisfarvi.”14
Alla fine è Elena la grande vincitrice nel romanzo. Lei che non ha mai espresso i suoi
sentimenti, che è parsa invulnerabile. Maria perde tutta la sua forza quando si trasferisce
a Roma: entrando nel mondo di Elena, ne diventa una rivale. Si trasforma in una donna
terrena e perde la sua aura divina. Andrea percepisce immediatamente che ora può
conquistarla: “Nell’uscire ella camminava con sovrana eleganza, mentre qualcuna delle
signore sedute si volgevano a guardarla. E per la prima volta Andrea vide in lei, nella
donna spirituale, nella pura madonna senese, la dama di mondo”15. Egli perde
l’interesse come i fanciulli che sognano per tutto l’anno un giocattolo e quando poi
finalmente arriva Natale e i genitori glielo donano, gioca per un po’e poi si stanca. Il
sogno e l’attesa erano tutta l’emozione! Così accade con Dio: il suo regno è nei cieli e
sta a noi sognarlo non trovarlo in terra. Maria si trasforma così in una figura pallida e
banale, un’amante come tutte le altre. Perché Elena, che pure gli ha ceduto, preserva la
12
D’Annunzio, Gabriele: Il piacere. P.219 D’Annunzio, Gabriele: Il piacere. P.265 14
D’Annunzio, Gabriele: Il piacere. P.244 15
D’Annunzio, Gabriele: Il piacere. P.215 13
15 sua superiorità? Il suo segreto sta nell’impassibilità. Lei sa cedere ma anche rinunciare,
sa amarlo e odiarlo. È lei a comandare i suoi sentimenti e in questa battaglia che in ogni
coppia di amanti si instaura per la supremazia, perché c’è sempre uno che comanda e
l’altro che gli cede, lei è sempre vincitrice. Come nell’antica guerra di Troia: i soldati di
entrambi i fronti lottano e soffrono, si sacrificano e muoiono. Tutti sono vittime: uomini
come Ettore ed Achille, donne come Andromaca o Cassandra, bimbi come Astianatte.
Solo Elena non soffre. Sta lì avvolta nel suo silenzio e guarda tutto con distacco. Perché
lei non piange? Forse tanta bellezza non può convivere in un cuore, forse ogni moto
dell’animo causa una smorfia e un essere così soave non conosce smorfie. Non conosce
sentimenti. Elena non ha cuore.
Un saluto con tanto affetto,
la tua Eleonora
5. LETTERA 4
Caro Arrigo,
Oggi l’ho visto. Passava sotto la mia finestra avvolto in un mantello nero con le scarpe
lucide e il passo un po’troppo lungo per quell’esile figura. Io stavo seduta lì col libro
aperto. D’un tratto le pagine si fusero coi vetri della finestra, Andrea vi balzò fuori e
camminava lì…col mantello nero e le scarpe lucide. Andrea divenne l’ombra di
Gabriele, anzi divenne Gabriele stesso. O forse fu Gabriele che diventò Andrea, che si
tuffò nella pagine e divenne cartaceo. Da quell’istante non riesco più a separare le due
figure; mai un pittore ha saputo dipingere un autoritratto più perfetto. Il paradosso della
situazione sta ora nella feroce invettiva che l’autore scaglia contro il personaggio. Con
quale distacco emotivo, direi quasi spazio-temporale, fa ironia su di lui, come se il
personaggio appartenesse ad un altro secolo, ad un altro continente. Eppure vive fra noi,
in questa Roma degli anni ’80 e quel personaggio non è altri che l’autore stesso. Questo
strano rapporto tra verità e finzione che confonde il lettore è assai difficile da spiegare a
uno che non è parte di questo contesto, a uno straniero, sì, persino a te che, pur
conoscendo a pieno Roma non ci vivi, non la respiri, non ci cammini mentre leggi il
romanzo. L’incredibile straniamento che mi ha colto quando le due figure si sono
sovrapposte, è molto difficile afferrarlo a parole. Ma vale un tentativo: proverò con una
16 metafora. È come, al guardarsi allo specchio una mattina, un uomo pensa :” caspita,
sono grasso!”. Porta quel grasso con se tutti i giorni, potrebbe rendersene conto in ogni
istante, eppure ha bisogno di quel riflesso, che sia quell’immagine a dirglielo perché
egli lo veda. E ora che lo sa? Non per questo inizierà una dieta ma reserà grasso com’è e
finirà per dimenticarlo finché la mattina seguente lo specchio gli ripeterà: “sono
grasso!”. Così fa D’Annunzio: riflette la sua figura, la sua città, il suo tempo sulla carta
bianca, ne fa un’impronta digitale, poi la guarda e descrive ciò che vede. Sono le pagine
a parlare, lui solo riporta le loro parole. Resta lì il riflesso con tutti i suoi deformi
attributi. Ora si potrebbe cambiare ciò che sta di fronte allo specchio, migliorarlo,
sgrassarlo per rendere il riflesso più bello me è assai più facile fare un passo al lato così
da non vedersi più e andare avanti come prima. Come dice il proverbio: occhio non
vede, cuore non duole.
Credo che il più grande errore commesso dai critici nell’interpretazione del romanzo, è
che hanno visto in Andrea un prototipo. Per loro è il dandy, il seduttore, come fosse un
personaggio stereotipato della commedia dell’arte. Ma Sperelli non è una classe di
uomini, egli è tutti noi. Ho dovuto riflettere molto prima di capire quale fosse il
significato allegorico del suo nome. Se identificare Elena e Maria risulta quasi ovvio,
non ho riscontrato nessuna figura mitologica, storica o religiosa di paragonabile
importanza che porti il nome di Andrea. In effetti non esiste: Andrea è semplicemente
uno degli (androi). Andrea è un uomo, tutto qua. È l’uomo di oggi, come lo siamo io e
te, e tutte le sue caratteristiche germinano anche dentro di noi. Anche il cognome parla
chiaro: Sperelli, colui che spera. Se poi si congiungono nome e cognome, si intravvede
un’altra parola: Ander aSper elli. L’aspero, che è il sapore della sua vita. In conclusione
dunque, Andrea è un uomo amareggiato che spera. Non c’è parafrasi migliore che lo
descriva. E non c’è parafrasi migliore per l’uomo dei nostri tempi: abbiamo perso la
fede incondizionata dei medievali, il valore guerriero e morale degli antichi, la fiducia
nel pragmatismo dei rinascimentali, la fantasia dei romantici. Che è rimasto? Un
esercito di uomini senza qualità, amareggiati dalla ricerca di un senso che non trovano
nella vita ma che pure vanno avanti perché l’uomo è fatto così: spera.
Così ti saluta,
Eleonora
17 Literaturangaben
D’ANNUNZIO, Gabriele: Il piacere. Newton Compton editori (Roma), 1995
SHEEHY, Helen: Eleonora Duse: A Biography. Alfred A. Knopf (New York City),
2003
WINWAR, Frances: Wings of fire. A biography of Grabriele D’Annunzio and Eleonora
Duse. Alvin Redman Limited (London), 1957
WEISS, Giorgio: Boito-Duse, il carteggio, http://www.giorgioweiss.it
BRUNI, Emanuela. Tra i boschi tuscolani e sulle scene parigine con il Vate e la Divina,
http://nuovaccademiatuscolana.blogspot.de
KIERKEGAARD, Sören: Tagebuch eines Verführers. Insel Verlag (Frankfurt am
Main), 1983
TITO LUCREZIO CARO: De rerum natura, Einaudi editore, 2003
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