Un ringraziamento sincero a tutti quelli che mi hanno
aiutato e sostenuto in queste mie avventure.
In primo luogo l’avventura di vivere questo viaggio e,
in secondo luogo, l’avventura di scrivere questo libro.
Ringrazio mia madre, mio padre e l’amica Emanuela
che si sono improvvisati correttori di bozze e hanno
permesso la prima uscita di questo libro.
Devo un grande grazie a Luisa Manfroi che ha curato
la prefazione e corretto ulteriormente le bozze e a Lara
Soppelsa che mi ha dedicato la poesia che trovate nelle
prime pagine del libro.
Un doveroso grazie a Erio Faè, che non solo ha realizzato la mappa finale del viaggio, ma che mi ha anche
aiutato a curare la mia pagina facebook durante il
viaggio.
Grazie anche alla mia amica cinese Vivi Wei per
l’autoscatto che ci ritrae nel deserto del Dasht-e Lut in
Iran (vedi fronte copertina).
Infine, come non dire grazie all’editore DBS Zanetti
che ha creduto in questa mia opera?
Per non sbagliare, ringrazio tutti. Anche e soprattutto
quelli che hanno letto la prima versione di questo libro. Grazie per l’entusiasmo che avete dimostrato. Mi
ha fatto veramente piacere!
Ciao e grazie ancora
Mike
Novembre 2014
Seconda ristampa
© DBS-DANILO ZANETTI EDITORE
Editore e Tipografo in Feltre e Montebelluna
www.dbszanetti.it – [email protected]
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Mike Soppelsa
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Alla mia famiglia e a
tutti quelli che ho incontrato
lungo la mia strada, perché sono stati
loro a fare di questo viaggio un Grande Viaggio.
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Un respiro...
un grande respiro di arie lontane...
sapori lontani dalla nostra mente...
menti lontane inaspettatamente vicine.
Quanti sguardi incrociati,
incontro fortuito di odori, sapori, occhi, mani.
Lettere solcano la carta, sotto la tela blu,
ad indicare la via.
Molti sensi, poche parole
colori… tramonti
la neve… il sole.
(Lara Soppelsa)
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Presentazione
In un articolo, parlando del viaggio di Michele (Mike), avevo
citato un aforisma attribuito a Sant’Agostino: “Il mondo è un libro
e chi non viaggia conosce solo la prima pagina”. Niente di più vero. Un’affermazione che, pur avendo alle spalle quasi duemila anni, si rivela sempre attuale.
Mike, pagine di questo libro immaginario ne ha sfogliate molte
percorrendo ventisettemila chilometri, passo dopo passo, rendendosi conto di persona dei cambiamenti, delle differenze che si prospettano muovendosi da un luogo all’altro e, in una proiezione più
ampia, da un continente all’altro, collegando l’Asia all’Europa.
Trasformazioni di ambienti, culture, storie e fisionomie. Solo un
viaggio via terra può consentire di cogliere queste caratteristiche.
Un volo aereo lo precluderebbe.
È banale affermare che sono mutati i mezzi per spostarsi. Si
potrebbe dire metaforicamente che la tecnologia ha in un certo
modo ridotto le dimensioni della sfera terrestre avvicinando distanze prima ragguardevoli. Su questo punto ci si potrebbe soffermare a lungo attribuendo dei giudizi molto più positivi che
negativi, ma non è questa la sede. La conseguenza più evidente è
che viaggiare è più alla portata di tutti, intensificando il desiderio
di muoversi.
Una riflessione mi ha particolarmente colpito leggendo un racconto di Mike: “Il turista ha molti soldi ma non ha il tempo di go6
derseli, il viaggiatore ha tutto il tempo che vuole ma finanze limitate”.
Proprio in queste righe si osserva la differenza semantica tra
“turista” e “viaggiatore”. Quando si pensa al viaggio vengono alla
mente figure storiche come quella di Marco Polo del quale Michele ha voluto ripercorrere le tappe. Ma il pensiero va pure ai viaggiatori di inizio Ottocento come lo scrittore tedesco Johann
Wolfang Goethe autore del suo "Viaggio in Italia". In esso la conoscenza di un luogo è più mirata agli aspetti artistici che non a
quelli umani. Si deve andare oltre, arrivando al contemporaneo
Claudio Magris che nel suo celebre saggio "Danubio", tratteggia e
ricostruisce la storia e la cultura nel variegato complesso delle civiltà stanziate lungo il fiume più lungo d’Europa. Popoli, persone
e quindi vita, relazioni, sguardi, comunicazione.
“Quello che rende meraviglioso un viaggio non sono le attrazioni turistiche, i musei e nemmeno i paesaggi. Quelli stanno fermi lì (…) A renderlo unico e irripetibile sono le persone che
incrociamo casualmente sul nostro percorso” scrive Mike. “È questo che fa di un viaggio un Grande Viaggio” come lui è solito dire,
quello in cui la gente vive la sua quotidianità ed è se stessa.
Un viaggio è fatto di curiosità, incontri, scambi, dialoghi e confronti. Ciò costituisce l’essenza più autentica del viaggiare. È impensabile percorrere strade che non si incrociano, vie prive di
polvere, di voci, suoni e odori che restituiscono sensazioni e quindi si trasformano in emozioni. Quelle stesse che lui ha riportato
giornalmente nel suo diario divenuto adesso un libro con il quale
può condividere il sogno e il desiderio di libertà che va oltre gli
schemi e le convenzioni. Le pagine non sono semplici appunti ma
racconti narrati in prima persona e dunque per questo autentici,
vivi.
Nei testi non mancano i pensieri, gli aneddoti, le riflessioni
spontanee, immediate e istintive ma per questo vere, come quelle
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che nascono dall’accostamento tra le proprie consuetudini e quelle
incontrate lungo le tappe del percorso.
Un reportage che propone spaccati di vita quotidiana, storie che
da Singapore conducono il lettore fino sulla soglia di casa, con il
suo arrivo in Italia.
Dalla lettura si intravede la maturità, il coraggio, l’intuizione,
l’altruismo e la capacità di ascoltare e capire chi si trova di fronte,
in una parola, “empatia”. Doti che unite ad una misurata dose di
ironia, quando serve, fanno di lui un “buon viaggiatore”.
“Quello che mi piace del viaggiare è tutto quello che si scopre,
tutto quello che si impara (...). In soli due anni ho imparato
un’altra lingua, ho conosciuto altre culture, altre religioni. Ora conosco meglio la geografia e la storia del mondo”.
Il libro contiene forse un ulteriore messaggio che emerge tra le
righe, quello secondo il quale la scoperta del vero senso del viaggiare, quello fatto di incontri e di dialogo, la conoscenza reciproca
resa possibile dalle relazioni umane e dallo scambio, contribuirebbe a rendere più solidi i rapporti tra le persone e ad erigere meno
barriere.
Agosto 2014
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Luisa Manfroi
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Si parte
Kuala Lumpur, Malesia
Agosto 2013, 13° giorno di viaggio
Finalmente questo progetto comincia a prendere forma. Un
viaggio di ritorno da Singapore alle Dolomiti bellunesi, viaggiando esclusivamente via terra, senza alcun volo, avvalendomi di soli
mezzi di trasporto terrestri.
Dopo aver lavorato cinque mesi in una fattoria australiana, nelle vicinanze di Perth, ho deciso di non tornare a casa nella maniera
che al giorno d’oggi è diventata la più convenzionale. Voglio vedere da vicino tutti quei posti che già più di una volta ho sorvolato.
Rinuncio al volo che avevo già comprato prima di partire
dall’Italia; rinuncio alle hostess che coccolano e viziano i loro
passeggeri; ai pasti pronti, alla fretta, alla comodità di poter chiamare casa e dire “guarda che domani arrivo”.
È già da un po’ di anni che viaggio, comincio a sentirmi un
viaggiatore e un vero viaggiatore disprezza le comodità.
In questi giorni a Kuala Lumpur ho ottenuto il visto cinese ed
ho raccolto informazioni su come ottenere tutti gli altri visti.
Ho dovuto lottare non poco per ottenere il visto cinese. Il funzionario, che stava allo sportello del consolato, continuava a chiedermi i biglietti aerei di entrata e uscita dalla Cina ed io
continuavo a dire che, con il loro permesso, avrei voluto entrare
ed uscire via terra.
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Il funzionario non era per niente convinto che sarebbe stato
possibile, così mi ha fissato un appuntamento per il giorno dopo.
Alle dieci del mattino avrei dovuto parlare con il console in persona. Quella sera mi sono informato, ho stampato mappe e stralci
di guide di viaggio.
Il giorno dopo ho incontrato il console, o meglio la console.
Era una donna acida e austera. Ho dovuto dimostrare a una cinese
che la Cina confina con il Vietnam e con il Kirghizistan e che
questi Paesi hanno delle dogane che gli stranieri possono attraversare. Ho dovuto dimostrare, per giunta, che la Cina ha un sistema
ferroviario in grado di portarmi da una parte all’altra del Paese, da
Hokuk a Kashgar.
La donna mi ha ascoltato attentamente senza perdere
l’espressione severa sul suo volto. Ha insistito sul perché stessi richiedendo il visto in Malesia e non nel mio Paese. Le ho risposto
che venivo dall’Australia e che avevo lasciato l’Italia da mesi. La
console ha accennato un sorriso e mi ha detto:
«Torna martedì a prendere il visto e la prossima volta chiedilo
nel tuo Paese».
Sono uscito dal consolato saltellando. Con il visto cinese e la
possibilità di entrare in Kirghizistan senza visto, ero già a metà
strada del mio viaggio. I visti per il Sud Est asiatico, infatti, sono
delle semplici formalità e sono facili da ottenere.
Martedì ho ritirato il visto al consolato e sono andato a farmi
un giro in centro. Mi sono seduto su di una panchina nel parchetto
di fronte alle Petronas Tower, ho preso il passaporto ed ho cominciato ad ammirare il visto come fosse la cosa più bella del mondo.
È incredibile quanto le cose risultino migliori quando devi lottare
per ottenerle. Donne comprese.
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Per ora so che arriverò senza problemi di visti fino al Kirghizistan, da lì troverò il modo di continuare verso la Turchia e quindi
verso i Paesi balcanici alla volta di casa.
Stanotte partirò in autobus verso le isole Pherentian. Dieci ore
di autobus notturno e un’ora di barca per raggiungere uno dei posti più belli della Malesia.
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Tonsai beach
Krabi, Tailandia
Settembre 2013, 23° giorno di viaggio
Ho appena passato cinque bellissimi giorni a Tonsai Beach in
compagnia di un ragazzo inglese e di una ragazza italiana che ho
conosciuto a Krabi.
Tonsai è sicuramente un posto particolare, un piccolo villaggio
dove si riuniscono appassionati di arrampicata e di subacquea e un
incredibile numero d’artisti di ogni sorta. Musicisti, acrobati, giocolieri, pittori, scultori, a Tonsai tutti si danno da fare. C’è chi pratica, chi cerca d’imparare e chi cerca d’insegnare.
Seduto in un pub nel bel mezzo della giungla, mentre ascoltavo
un superbo duetto di violino e chitarra, mi chiedevo se quel genere
d’artisti avesse mai concesso la propria arte al grande pubblico.
Probabilmente no, quella è un’arte che è nata e deve essere
consumata nella giungla, in un “pub” col tetto di foglie di banano
e il fondo di sabbia.
Per finire in bellezza, stamattina, alla piccola stazione delle
barche di Tonsai, ho casualmente incontrato un amico argentino
con il quale avevo viaggiato l’anno scorso in Australia. Ci siamo
abbracciati, entrambi increduli di esserci rincontrati dopo così tanto tempo in una maniera così casuale. Questo pomeriggio abbiamo
noleggiato un motorino, abbiamo girato un po’ per la città e siamo
andati al Tempio della Tigre. Abbiamo raggiunto la sommità della
montagna che alla base ospita il Tempio stesso, percorrendo più di
milleduecento scalini. Siamo arrivati in cima grondanti di sudore,
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ma devo dire che ne è valsa la pena, la vista dalla cima era spettacolare: un’immensa foresta di aree coltivate e vegetazione spontanea si perdeva all’orizzonte, lambita su di un lato dalle acque
chiare del mare tailandese.
Domani è prevista una giornata di relax nelle piscine termali di
Krabi e poi partenza in autobus verso Bangkok.
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La carbonara di Krabi
Bangkok, Tailandia
Settembre 2013, 28° giorno di viaggio
Questa è una storia di qualche giorno fa. Mi trovavo a Krabi, in
Tailandia, in un ristorantino locale. Mi ero appena seduto al tavolo
e, visto il cattivo stomaco di quel giorno, stavo cercando nel menù
qualcosa che non fosse maledettamente piccante. L’operazione ha
richiesto qualche minuto e un distinto signore inglese, seduto al
bancone del bar, vedendomi indeciso, mi fa:
«Perché non provi la pasta alla carbonara?».
Appena l’ho sentito non ho potuto fare a meno di pensare alle
diverse “paste” che ho visto in giro per il mondo. Spaghetti incollati assieme a formare un blocco compatto, conditi con abbondante ketchup. “Paste” che lasciano un dito d’acqua di cottura in
fondo al piatto. “Paste” scotte, ridotte a poltiglia, annegate in
quintali di sugo. Il fatto poi che fosse una carbonara, mi faceva
pensare ai vasetti “carbonara sauce” che ero solito vedere nei supermercati australiani. Vasetti contenenti una crema giallognola
che avrebbe dovuto sostituire ingredienti freschi come uova, panna e parmigiano.
Ho esitato un attimo prima di rispondere:
«Non lo so amico, per la verità sono italiano e sono un po’ delicato su queste faccende...»
L’inglese non si è perso d’animo e ha insistito:
«Facciamo così: provi la carbonara e se mi dici che non ne è
valsa la pena, te la pago io.»
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Curioso di provare questa “specialità locale”, l’ho presa senza
pensarci due volte. Mi aspettavo una carbonara, magari buona, ma
completamente differente da quella alla quale siamo abituati.
Devo dire che ho notato subito che stavano prendendo la faccenda seriamente. Appena ricevuta la comanda, la signora tailandese che gestiva il locale, ha perso l’espressione spensierata che
aveva sul volto e si è diretta verso la cucina.
«Vedi – mi ha spiegato l’inglese – la carbonara è l’unico piatto
che la manager ci tiene a preparare personalmente, per tutti gli altri piatti si affida alla sua cuoca».
Ero sempre più impaziente e finalmente è arrivato il piatto.
La porzione era un po’ piccola; meglio così – ho pensato – se
non fosse stata buona avrei fatto meno fatica a finirla. L’aspetto
del piatto era invitante, la salsa leggermente abbondante, la pancetta – a quanto pare, importata appositamente dalla Norvegia e
rigorosamente affumicata – era perfettamente rosolata.
Ancora scettico, ne ho assaggiato una prima forchettata: gli
spaghetti erano perfettamente salati e al dente, la salsa era cremosa con un retrogusto di panna e la pancetta era semplicemente deliziosa. Mentre li divoravo avidamente, pensavo a tutte le
“carbonare” che ho mangiato e che ho cucinato in vita mia. Non
c’era niente da fare, la pasta che stavo mangiando era assolutamente la migliore che avessi mai provato.
Finito il piatto non ho potuto rinunciare a fare i miei più sinceri
complimenti alla cuoca ed ho cercato di farmi spiegare il segreto
della sua ricetta.
Il gentiluomo inglese se la rideva di gusto vedendo una tailandese, che – ahimè – aveva imparato la ricetta su youtube, insegnare ad un italiano come cucinare una carbonara.
Così anche quel giorno sono andato via, imparando una preziosa lezione: “anche quando credi di poter insegnare, se abbassi la
testa e ascolti, hai sempre da imparare.”
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Andando in Cambogia
Siem Reap, Cambogia
Settembre 2013, 30° giorno di viaggio
Ieri, ad una fermata del tram in Bangkok, è salita una coppia di
turisti francesi:
«È questo l’autobus per la Cambogia?»
Mi sono girato a guardare il tram, era evidentemente un tram
cittadino. Li ho guardati con compassione e gli ho risposto:
«Certo che no ragazzi!»
I francesi, delusi, hanno fatto cenno di scendere dal tram. Ho
afferrato uno dei ragazzi per un braccio.
«Questo è un tram, vi porterà alla stazione degli autobus e poi
potrete prendere la corriera per la Cambogia».
I ragazzi si sono tranquillizzati e hanno preso posto sul tram. Io
li ho guardati ancora incredulo.
È come se un turista, salendo su di un tram a Bologna, ad una
qualsiasi fermata, chiedesse:
«È questo l’autobus per l’Austria?»
Mi chiedo solamente come hanno fatto i francesi a conquistare
la Cambogia un tempo. Probabilmente i loro padri erano molto più
scaltri.
Comunque, francesi a parte, ieri sera ho raggiunto il confine fra
Tailandia e Cambogia. Ho abilmente evitato un posticcio ufficio
doganale dove cercano di far pagare il visto cambogiano più del
doppio del costo reale e sono finito per pagare la prima tangente
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della mia vita a degli ufficiali cambogiani. Ho cercato di fingere
di non capire, approfittando del fatto che non parlavano bene
l’inglese, ma l’ufficiale cambogiano, che fino a prima se ne stava
in panciolle a guardare una telenovela, è stato chiaro e limpido.
Ha scritto su di un foglio di carta “venti dollari” e mi fa indicando il numero:
«Costo del visto».
Poi ha aggiunto un più e ha scritto cento Bath (tre dollari circa)
e mi ha detto:
«Tassa di elaborazione».
Sapevo benissimo che era una tangente, ma ci abbiamo scherzato sopra e alla fine glieli ho dati, non volentieri, ma senza sforzo. Deve essere magra la vita nei posti di frontiera.
Così ora mi trovo in Cambogia, a Siem Reap, la città
dell’Angkor Wat.
Come prima impressione devo dire che non mi dispiace. I
cambogiani sono di una differente etnia rispetto ai tailandesi. Sono molto gentili (alcuni di loro troppo e cercano in tutti i modi di
“mungere” i turisti) e inaspettatamente molti parlano inglese, alcuni di loro veramente bene. Molto probabilmente questo è dovuto alla loro lingua d’origine, il Khmer, che a differenza del
thailandese, del laotiano e del vietnamita non è una lingua tonale.
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I magna-baguette
Siem Reap, Cambogia
Settembre 2013, 32° giorno di viaggio
La mia avversione verso i francesi è sempre più fondata. Stasera, cercando un posticino tranquillo dove mangiare qualcosa, mi
sono imbattuto in un ristorantino fuori via, semideserto. Quando
mi hanno passato il menù, ho notato con orrore che i nomi dei
piatti erano prima scritti in francese e poi poveramente tradotti in
inglese.
Mi sono guardato meglio attorno e ho realizzato che la coppia
di commensali vicino a me era francese, anche lo chef e il manager erano indubbiamente francesi, perfino la coppia seduta al bar
che da lontano sembravano brave persone, in realtà erano dei magna-baguette. Mi sembrava di essere in un incubo. Mia unica amica era la gentilissima cameriera cambogiana. Oramai la frittata era
fatta e mi è toccato ordinare. Al momento di pagare mi sono accorto di aver finito i contanti e ho detto al manager:
«Guarda, ti lascio il mio cellulare come garanzia e vado a prelevare i contanti».
Ovviamente – neanche a dirlo – il francese non capiva una parola d’inglese. Dopo aver probabilmente vissuto anni in un Paese
dove tutti i turisti parlano inglese, non era stato in grado di dire a
quanto ammontava il conto.
Vedendo che non era interessato al mio cellulare, l’ho ripreso.
Il conto era di sette dollari e mezzo e avevo tirato fuori la storia
del cellulare come gentilezza, pensando che in realtà si fidasse. Al
che il manager mi ha fatto capire che in realtà voleva il cellulare e
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anche la coppia seduta al bar si è intromessa dicendomi che avevo
appena detto di lasciare il cellulare (perché cavolo non sono capaci di farsi gli affari loro!). Me ne sono andato dal ristorante alterato, ma in fondo, ho pensato, la colpa è mia, non posso essere così
prevenuto con quella “razza”.
Trovato l’ATM, sono tornato ed ho pagato il conto. Durante la
mia assenza avevano studiato il mio apparecchio telefonico per
assicurarsi che non gli avessi lasciato una patacca.
Il francese della coppia mi ha detto (in inglese):
«Ci stavhamo sholo kiedendo ke cellulhare fhosse».
Sentito il suo accento non ho potuto fare a meno di ridergli in
faccia. Vedendo il suo cellulare sul bancone gli dico:
«È tre modelli prima del tuo, ha più di due anni».
«Ah e anchora funzhiona, impressiohnante».
Per non far vedere quanto ero seccato, ho cercato di scherzare:
«Eh sì, non mi sono mai preso cura delle mie donne, ma ci tengo alle mie cose».
Ho cercato di tagliare in fretta la conversazione e me ne sono
andato. Sulla strada del ritorno mi è sorto un dubbio. Come avevo
potuto pagare sette dollari e cinquanta per quel poco che avevo
mangiato?
Sono tornato indietro nella tana delle vipere e con una scusa ho
chiesto la ricevuta.
L’ho guardata: il bastardo, con la scusa che non era nel menù,
mi aveva fatto pagare quattro dollari e mezzo un pezzo di torta, in
un Paese dove una portata principale costa dai due ai quattro dollari. Ho fatto finta di nulla e me ne sono andato. Giuro che prima
di lasciare questa città torno in quel posto, mangio più che posso e
me ne vado senza pagare. Vi faccio vedere io razza di magnabaguette! Vi faccio vedere io! ;–)
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Il procacciatore d’alberghi
Phnom Penh, Cambogia
Settembre 2013, 34° giorno di viaggio
Ieri sera, non avendo niente di meglio da fare, mi sono fermato
a parlare con uno dei tanti procacciatori di alberghi e giri turistici
che si incontrano spesso per strada.
«Quant’è che paghi a notte nell’albergo dove stai?» – mi ha
chiesto.
Quando ho risposto quattro dollari, mi ha guardato stupito e mi
ha chiesto in che razza di posto stessi.
«È un ostello, condivido la mia camera con altre sette persone».
«Ok, per qualche dollaro in più ti posso trovare una camera
singola».
«Non è che mi interessi molto. Per la verità, di sette persone,
sei sono bellissime ragazze straniere».
L’ho messo un po’ alle strette ma, dopo averci pensato sopra,
mi fa:
«Con un piccolo extra possiamo metterci pure una ragazza nella camera».
«Non mi sembra un grande affare – ho risposto scherzando –
sto in una camera con sei ragazze e tu mi vuoi far pagare molto di
più per averne una sola, che magari non parla neanche la mia lingua. Tu potresti andare a vendere ghiaccio agli eschimesi!»
Ero stanco di quella conversazione; mi dà fastidio vedere che
persone intelligenti, quali sono i cambogiani, si abbassino umil23
mente e si fingano dei semplici bonaccioni solo per accattivarsi le
simpatie dei turisti. Mi stavo allontanando quando l’uomo mi ha
gridato dietro:
«Vedrai che una sola donna cambogiana è meglio di sei donne
straniere!».
Ieri sera pensavo avesse torto, ma stamattina, quando ho dovuto aspettare più di un’ora per andare in bagno, ho capito che
quell’uomo conosceva le donne di gran lunga meglio di me. Mannaggia alle donne! :–)
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L’arrivo in Vietnam
Chau Doc, Vietnam
Settembre 2013, 38° giorno di viaggio
Questa volta, il confine fra Cambogia e Vietnam l’ho passato
in stile. Sono sceso su di una barca lungo il fiume Mekong, fino a
giungere a Chau Doc in Vietnam.
Alla stazione delle barche di Phnom Penh, in Cambogia, stentavano a credere che un occidentale, fregandosene del tempo in
più che ci avrebbe messo, prediligesse un’economica barca “lenta” alla moderna e confortevole barca veloce.
La bellissima ragazza cambogiana che stava alla biglietteria,
dopo avermi chiesto più volte se ne ero sicuro, si è decisa a vendermi il biglietto. Vedendo che non aveva abbastanza soldi in cassa per darmi il resto, mi ha detto con sorriso suadente:
«Terrò il resto come mancia, che differenza possono fare per
un turista un paio di dollari?»
«Non so se posso permettermelo cara – le ho detto io scherzando – per la verità non sono un turista, sono un viaggiatore».
Lei mi ha guardato con i suoi occhi grandi da bambina.
«Che differenza c’è? Per me siete tutti uguali…»
«Vedi cara – ho cercato di spiegare – il turista ha molti soldi
ma non ha il tempo di goderseli. Il viaggiatore ha tutto il tempo
che vuole, ma finanze limitate.
Il turista sa che la sua vita cambierà durante il suo viaggio. Il
viaggiatore sa che il suo viaggio cambierà la sua vita. Per sempre».
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In giro con lo scooter per Saigon
Ho Chi Minh City, Vietnam
Settembre 2013, 39° giorno di viaggio
Se volete provare cos’è l’adrenalina senza spendere un capitale
per lo sky dive, salite su di uno scooter e fatevi portare in giro per
le strade di una città asiatica.
In questi ultimi due giorni, in giro sullo scooter della mia amica
vietnamita, penso di aver perso almeno dieci anni di vita.
Sembra che i simpatici abitanti del continente asiatico vedano
la cartellonistica e la segnaletica orizzontale come un semplice
abbellimento, come una ridondante convenzione del mondo occidentale. Divieti di accesso, sensi unici e divieti di inversione, hanno probabilmente per loro lo stesso significato mistico e
misterioso che noi attribuiamo agli arabeschi sull’insegna di un
ristorante cinese.
Tagliare la strada, fermarsi nel bel mezzo di una rotonda, guidare contromano e un’altra serie infinita di infrazioni
dell’ampolloso codice della strada, sono atti talmente frequenti
che viene da chiedersi se qui non siano la regola.
Mi è venuto da sorridere quando la mia amica mi ha parlato di
suo fratello maggiore, emigrato in Australia. A quanto pare, dopo
diversi tentativi, non è ancora riuscito a prendere la patente. Non
mi è difficile immaginare il perché.
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Situazione del viaggio (dopo un mese e mezzo)
Hoi An, Vietnam
Settembre 2013, 43° giorno di viaggio
Dopo il primo mese e mezzo di viaggio è giunto il momento di
fare il punto della situazione.
Da Singapore sono arrivato ad Hoi An in Vietnam. La strada
più corta che collega le due città è lunga 3050 chilometri. Penso di
averne fatti molti di più. Sommando grossolanamente le ore di autobus, ne sono risultate ben 85, alle quali vanno a sommarsi otto
ore di barca.
Alla meta mancano solamente 13’200 chilometri (prendendo la
strada più corta).
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Viaggiare con l’autobus
Hoi An, Vietnam
Settembre 2013, 44° giorno di viaggio
Adoro viaggiare in autobus. Adoro la sensazione di libertà che
si sente scorrere nelle vene. Sembra di poterne sentire il profumo.
Adoro guardare la vita attraverso un finestrino; assistere da
semplice spettatore a quello spettacolo che va in onda tutti i giorni. Sempre lo stesso, eppure sempre diverso.
Ci si sente incredibilmente leggeri. La valigia, l’unico bene del
quale il viaggiatore è in possesso, è al sicuro nel bagagliaio. È curioso pensare che tutto quello che serve ad un viaggiatore, sia racchiuso in un contenitore così piccolo.
Ma non è la mancanza del bagaglio a far sentire più leggeri. È
piuttosto la mancanza di pensieri, di vincoli.
Quando si lascia una città, si vedono scorrere le immagini di
quel posto, che era ormai diventato familiare. Viene naturale pensare alle persone conosciute, alle amicizie, a quella vita breve ma
intensa che si è vissuta.
L’autobus è il simbolo del cambiamento. È quell’elemento –
spesso non citato – che sta all’inizio e alla fine di tanti capitoli del
mio viaggio.
E quando penserò di aver vissuto abbastanza in una città,
quando le sue vie mi diventeranno familiari, quando avrò conosciuto a sufficienza i posti e le genti, un altro autobus mi farà scoprire una nuova vita.
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La tartaruga dorata
Hanoi, Vietnam
Ottobre 2013, 48° giorno di viaggio
Questa storia me l’ha raccontata una guida turistica a Hanoi.
Al centro della capitale vietnamita, c’è un lago che è diventato
il simbolo della liberazione dall’oppressione del governo cinese.
La leggenda vuole che il lago sia popolato da una tartaruga.
Una fantastica tartaruga dorata che, sempre secondo la leggenda,
porterebbe una gran fortuna, un gran cambiamento di vita, al fortunato che riuscisse a scorgerla.
Un giorno, un caro amico della guida, passando nelle prossimità del lago con il suo motorino, vide una gran folla accalcarsi sulle
sponde del lago. Avendo subito intuito di cosa si trattava, l’amico
della guida lasciò il motorino a bordo strada e corse verso il lago.
Il ragazzo guardò nel lago e vide questa splendida tartaruga con
il guscio dorato. Era felicissimo ed ebbro di gioia, saltellava di
qua e di là, abbracciando le persone che incontrava.
Finalmente la sua vita sarebbe cambiata, finalmente la fortuna
sarebbe stata dalla sua parte. Non vedeva l’ora di andare a casa e
dirlo ai famigliari.
E fu quando decise di andare verso casa, che si accorse che la
sua vita aveva già subìto un sostanziale cambiamento. Erano bastati solo quei quindici minuti di magia per fare in modo che, da
quel giorno in poi, la sua vita non fosse più la stessa. Da quel
giorno, infatti, il ragazzo si diresse a casa e al lavoro a piedi.
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La “magia della tartaruga” aveva infatti fatto sparire il motorino che il ragazzo aveva frettolosamente abbandonato a bordo strada.
La mia guida ha provato a difendere la tartaruga ladra.
«Il mio amico – ha detto – sarebbe potuto essere vittima di un
incidente stradale, la tartaruga lo ha semplicemente voluto salvare».
Io invece penso che siamo noi gli unici artefici della nostra fortuna o della nostra sfortuna. Ogni giorno, attraverso una miriade
di piccole e grandi scelte, decidiamo il nostro destino.
Non esiste tartaruga dorata; non esiste gatto nero; non esistono
specchi rotti; non esiste nulla che riesca a frapporsi fra noi e le nostre scelte.
Le giornate di sole e le giornate di pioggia fanno parte della vita. È nostro compito sfruttare le giornate di sole ed accettare e cercare di rendere fruttuose anche le giornate di pioggia.
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Attraversamenti pedonali
Hanoi, Vietnam
Ottobre 2013, 49° giorno di viaggio
Tutti quelli che hanno viaggiato in Asia, si sono dovuti
confrontare con l’annoso problema di attraversare la strada. In
Vietnam, essendo la gran parte del traffico costituita da motorini,
la situazione è ancora più particolare e difficile.
Strisce pedonali e semafori non hanno nessuna utilità pratica e
l’unico modo di attraversare la strada è quello di buttarcisi in
mezzo e cercare di guadagnare terreno un po’ alla volta, con
motociclette che continuano a sfrecciare indisturbate davanti e
dietro all’intrepido attraversatore.
Avvalendomi di alcuni corsi di probabilistica che avevo seguito
quando ancora andavo all’asilo, ho elaborato un complesso
stratagemma per riuscire facilmente e in maniera sicura nella
nostra impresa di attraversare la strada. Ora ve lo esporrò in tre
semplici punti, cercando di non annoiarvi con i complessi termini
tecnici che noi studiosi siamo soliti usare:
Punto 1. Aspettare a lato strada che si formi un gruppetto di
persone, desiderose come noi di valicare l’apparentemente
insormontabile ostacolo.
Punto 2. Individuare i locali e avvicinarsi al più anziano del
gruppo.
Punto 3. Seguirlo in ogni fase dell’attraversamento come
fossimo la sua ombra.
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Nonostante questo metodo possa sembrare a prima vista
efficace ed infallibile, delle mie amiche inglesi a cui ho spiegato
la mia teoria, hanno trovato due grosse falle:
Falla numero 1. c’è la possibilità che quella persona che
identifichiamo come locale, sia in realtà un campagnolo, appena
arrivato in città, quindi, come noi, privo di esperienza in tali
situazioni.
Falla numero 2. (questa è la più grave e, da vero studioso, avrei
dovuto considerarla). Se una persona è veramente riuscita a
diventare anziana, attraversando la strada tutti i giorni, c’è una
gran probabilità che quel giorno, sia il giorno fatale. In pratica, se
la probabilistica fosse una scienza esatta, sarebbe impossibile
diventare anziani in Vietnam.
Quindi, grande rispetto agli anziani vietnamiti che tutti i giorni
riescono ad attraversare la strada rimanendo illesi, e vi farò sapere
se mi verrà in mente qualche idea per migliorare il mio sistema.
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Con i Black H’mong
Sapa, Vietnam
Ottobre 2013, 52° giorno di viaggio
Nei pressi di Sapa, una piccola cittadina sulle montagne vietnamite, ad appena una quarantina di chilometri dal confine cinese,
ho passato due giorni nel villaggio della minoranza etnica dei
Black H’mong. A farmi compagnia in quest’avventura c’erano
due simpaticissime ragazze, una italiana e l’altra americana, che
avevo conosciuto pochi giorni prima nella baia di Halong.
Gli H’mong sono una famiglia di minoranze etniche che abitano il vasto bacino del fiume Mekong; dalla regione cinese dello
Yunnan, al Laos, al Vietnam e alla Cambogia arrivando fino alla
Tailandia. La minoranza etnica degli H’mong che abitano le montagne attorno a Sapa, sono detti Black H’mong e sono conosciuti
per la coltivazione di piante di indaco, dalle quali ricavano una
tintura naturale per colorare i loro abiti tradizionali. Le mani delle
donne locali sono pesantemente colorate e rovinate dalla tintura
della pianta.
Passando per questi villaggi arroccati sulle montagne, non si
può non rimanere a bocca aperta. I profili delle montagne scolpiti
dalle colture di riso donano al panorama un aspetto antropizzato,
ma comunque in armonia con il paesaggio, creando una perfetta
simbiosi fra uomo e natura.
Vivere a stretto contatto con le popolazioni locali è stata
un’esperienza interessante e singolare. Abbiamo mangiato con loro, abbiamo bevuto il vino di riso (il famoso sake) con loro, (forse
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abbiamo bevuto anche troppo vino di riso) e infine, esausti, abbiamo dormito nei loro capanni.
Quello che riesce sempre a stupire è la semplicità con la quale
riescono a vivere queste persone che noi chiamiamo “povere”. È
vero: loro non hanno nulla, eppure, vivendo assieme a loro, ci si
accorge che non gli manca niente.
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Una storia “romantica”
Sapa, Vietnam
Ottobre 2013, 52° giorno di viaggio
Quando si viaggia non è difficile trovarsi in mezzo a qualche
fugace storia d’amore.
Quello che stupisce è la velocità con la quale evolvono i fatti.
Quello che nella vita di tutti i giorni succede nel giro di settimane,
quando si viaggia, succede nel giro di poche ore. Queste brevi e
intense storie d’amore sono come grandi fuochi di paglia che bruciano velocemente, senza lasciare ceneri o cicatrici, ma lasciando
solo il bel ricordo della fiamma che è stata.
La storia che vi sto per raccontare risale ad una sera di qualche
giorno fa. Mi trovavo a Hanoi, in Vietnam. Ero intento a fotografare il laghetto che si trova nel centro città, con le luci notturne.
Lo stesso laghetto dove è ambientata la leggenda della tartaruga
dorata.
Sono stato avvicinato da una ragazza vietnamita che ha detto di
voler parlare con me per migliorare il suo inglese.
Ero piuttosto diffidente nei suoi confronti ed ho cercato di allontanarla dicendole che sono italiano e che non parlo inglese.
L’unico problema è che mi sono tradito e gliel’ho detto in inglese.
La ragazza ha insistito e, guardandola bene, era così carina che
non sono più riuscito a dirle di no. Mi sono ritrovato seduto su di
una panchina del parco a parlare con lei, mangiando un gelato che
ha voluto a tutti i costi offrirmi.
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Il livello d’inglese della ragazza era piuttosto scarso ed ho fatto
una grande fatica a comunicare con lei. Per un’ora ho parlato piano, scandendo le parole, ho scritto e fatto disegni sul suo quaderno
per aiutare a farmi capire.
Dopo un’ora di “lezione” ero esausto. Ho detto alla ragazza che
sarei tornato all’ostello. Lei si è offerta di accompagnarmi.
Arrivato all’ostello, l’ho salutata e sono andato a farmi una
doccia. Non vedevo l’ora di sprofondare nel mio letto.
Quando sono tornato nella camera del dormitorio, ho fatto conoscenza con una ragazza americana che era appena arrivata ad
Hanoi.
Arrivava dalla stessa città dalla quale ero partito io la sera precedente. L’autobus dell’americana, però, aveva avuto dei problemi e invece di impiegare quattordici ore come il mio, ne aveva
impiegate ben ventidue per giungere da Huè ad Hanoi.
Eravamo entrambi stanchi. Mi sono seduto sul mio letto ed ho
cominciato a parlare con la ragazza. Lei mi parlava stando distesa
sul suo letto con i gomiti appoggiati al cuscino e sorreggendo il
viso con i palmi delle mani.
Abbiamo parlato a lungo. Lei mi ha raccontato un po’ della sua
vita, io un po’ della mia. Ha provato ad insegnarmi qualcosa sullo
yoga e sulla meditazione.
Era senza dubbio una ragazza intelligente e sensibile, ma non
potevo fare a meno di notare un accenno di pazzia nei suoi grandi
occhi verdi.
Abbiamo continuato a parlare… ad un certo punto lei ha interrotto bruscamente la conversazione:
«Mike, ho voglia di fumare, andiamo fuori!»
Le ho risposto che andava bene, ho finito di vestirmi e l’ho
aspettata vicino alla porta.
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L’americana ha preso le sigarette che teneva sul comodino e,
invece di dirigersi verso la porta, si è diretta verso la finestra; l’ha
aperta ed è uscita sul cornicione dell’edificio.
Mi sono affrettato alla finestra:
«Che cazzo ti salta in mente! Torna subito dentro!»
Lei mi ha guardato, come se avesse appena fatto la cosa più naturale del mondo ed ha allungato la mano verso di me.
«Che fai Mike, non vieni?»
Ci ho pensato su un attimo, poi sono uscito con lei sul cornicione.
Era sabato sera e nella strada c’era parecchia confusione. Nella
via rimbombava la musica dei locali. La strada pullulava di ragazzi chiassosi, in buona parte ubriachi.
«Bene Mike – ha detto la texana – sapevo che saresti venuto.
Ora, se qualcuno si gira verso di noi, fingi di baciarmi, così ci lasceranno in pace».
Le ho chiesto se potevamo fare una prova, tanto per non farci
trovare impreparati.
Così è cominciato tutto; seduti sul cornicione del secondo piano, con le mani aggrappate ai tubi dell’aria condizionata e con i
piedi a penzoloni sopra l’insegna al neon dell’ostello.
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La scalata al Fancipan
Sapa, Vietnam
Ottobre 2013, 54° giorno di viaggio
Appena sono venuto a sapere che la città di Sapa è distante appena una decina di chilometri dal Fancipan, la vetta più alta di tutta l’Indocina, mi è subito venuto il desiderio di scalarla.
Erano passate appena un paio d’ore dalla mia “scoperta” e già
mi trovavo in giro per le agenzie turistiche di Sapa a chiedere informazioni. Dopo avere visitato diverse agenzie, ho constatato che
la soluzione più economica era quella propostami da un simpatico
ragazzo locale. Si trattava di un giro di due giorni con pernottamento in quota e con una guida che non parlava inglese, accompagnato da altri tre vietnamiti.
A preoccuparmi, più che il problema della lingua, era piuttosto
il fatto che sarei stato solo con quattro vietnamiti. Per ovvie ragioni storiche, dire che un nord vietnamita odia gli occidentali, è cercare disperatamente di usare un eufemismo.
Comunque – ho pensato – viaggio anche per fare nuove esperienze e quella di stare solo con quattro vietnamiti sarebbe stata
un’esperienza singolare.
Alla mattina del giorno dopo siamo partiti con un furgoncino
alla volta della montagna. Ho salutato la guida e lui, per tutta risposta, si è girato dall’altra parte. Gli altri vietnamiti erano tre ragazzi; quando sono saliti sul furgone, mi hanno stranamente
salutato in maniera direi quasi amichevole.
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Arrivati al punto di partenza del trekking, la guida mi ha guardato da capo a piedi, con uno sguardo di estrema disapprovazione.
Il mio abbigliamento effettivamente c’entrava poco con la montagna: pantaloncini corti da spiaggia, scarpe tipo “All Star” tarocche, occhiali da sole e cappello stile turista americano.
Sicuramente non potevo competere con l’attrezzatura dei tre ragazzi: pantaloni tecnici, bandana, fascette anti–sudore e addirittura
guanti e occhialini di protezione anti-scheggia.
Eravamo tutti pronti per la partenza e dalla bocca della guida è
uscita l’unica parola che l’uomo mi ha rivolto in due giorni: un
languido “go”.
La guida è partita a piena velocità, voleva evidentemente mettermi in difficoltà, farmi vedere che lui era più bravo. Grande era
il suo stupore ogni volta che girava la testa e vedeva che ero in
grado di seguirlo senza alcuno sforzo. Ad un certo punto, vedendo
che il sentiero era ben tracciato e battuto, ho superato la guida e
ho continuato da solo. Non mi piace correre, soprattutto in montagna, ma volevo semplicemente dimostrare al comunistello di che
pasta è fatto un uomo nato in un Paese libero.
Quando i vietnamiti sono giunti al primo campo base e mi hanno trovato disteso a prendere il sole e a scarabocchiare sul mio
quaderno, avevo guadagnato tutto il loro rispetto. I tre ragazzi mi
hanno salutato, mi hanno chiesto il mio nome e si sono rivelati veramente amichevoli. Il perché si è spiegato ben presto: erano sì
vietnamiti, ma del Vietnam del Sud. Solamente il fatto che si ostinino a chiamare la loro città con il vecchio nome di Saigon e non
con il nome attuale del leader comunista Ho Chi Minh, la dice
lunga sul loro pensiero, che è molto più liberale.
I tre ragazzi erano dei “vespisti” e stavano attraversando il
Vietnam con le loro Vespe d’epoca. Uno dei tre aveva tatuato su
un avambraccio il logo della Vespa e sull’altro quello della Lambretta.
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Ero veramente contento di vedere che i miei compagni
d’avventura, che presumevo antipatici e ostili, fossero in realtà affabili e simpatici. La guida, comunque, è rimasta ostile per tutto il
giro. Ma questo è un problema suo.
Dopo il pranzo abbiamo continuato la nostra scalata e nel tardo
pomeriggio abbiamo raggiunto il secondo campo base, a 2800 metri di quota. Abbiamo cenato con gli altri scalatori. In tutto fra
guide, turisti e portantini saremo stati una ventina di persone. La
notte l’abbiamo passata nel bivacco. Raggomitolato nel mio sacco
a pelo, non sono riuscito a chiudere occhio a causa del freddo ed
ho passato la notte ad ascoltare il sibilare del vento tra le canne di
bambù, interrotto solamente dallo squittire dei ratti che stavano
banchettando con i nostri avanzi. Alle quattro del mattino, mentre
tutti nel campo stavano ancora dormendo, sono partito verso la
vetta, accompagnato da una ragazza tedesca che avevo conosciuto
la sera prima e dalla sua guida.
Ci siamo fatti strada con la torcia nell’oscurità della notte e
siamo riusciti a raggiungere la vetta, a più di 3100 metri di quota,
una quindicina di minuti prima dell’alba. Lo spettacolo che ho visto è stato incredibile. Ho visto questa meravigliosa palla infuocata far capolino da dietro le montagne e irradiare con i suoi caldi
raggi quello che fino ad un attimo prima giaceva nella gelida
oscurità. Ho sentito la mia pelle assorbire avidamente il calore di
quei raggi ed un’improvvisa sensazione di benessere ha pervaso il
mio corpo. È incredibile il potere benefico che esercita su noi uomini quella sfera dorata.
Dopo quasi un’ora passata a contemplare il paesaggio nella solitudine della vetta, abbiamo cominciato il nostro viaggio di ritorno e siamo giunti a Sapa nel tardo pomeriggio.
Così si è conclusa la scalata al Fancipan. Oggi ho passato una
giornata di tranquillità e riposo nel calmo paesino di Sapa e domani, alle nove del mattino, attraverserò la frontiera e, se tutto va
bene, arriverò nel paesino cinese di Hankok.
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Ritorno in Cina
Kungming, Cina
Ottobre 2013, 59° giorno di viaggio
Dopo un anno e mezzo dalla mia prima avventura in Cina eccomi ritornato in questo splendido Paese.
Nel primo viaggio, durato circa un mese, ero partito da Pechino
e, scendendo lungo la costa, ero arrivato ad Hong Kong. Questa
volta attraverserò la parte centrale della Cina ed entrerò in Kirghizistan passando per la città di Kashi. Visti permettendo attraverserò il Tibet, altrimenti lo aggirerò.
Appena entrato in Cina, sono rimasto colpito da come tutto sia
radicalmente diverso rispetto al Vietnam. A separare il paesino
vietnamita di Lao Cai da quello cinese di Hanok c’è solamente un
piccolo fiume. Mi è bastato attraversare il ponte sul fiume, passare
i due uffici doganali e mi sono trovato in un mondo completamente diverso.
Gli odori, le scritte, ed i colori che caratterizzavano il Vietnam
erano scomparsi in quei cento metri di strada per lasciar spazio ad
uno scenario molto più cinese.
Ma quello che più mi ha sorpreso è che in quei cento metri, mi
sono lasciato alle spalle i nordvietnamiti con la loro scortesia, la
loro diffidenza e la loro maleducazione e ho rincontrato i cinesi
con la loro simpatia, il loro sorriso e la loro accoglienza.
L’idea che abbiamo noi italiani dei cinesi è abbastanza distorta.
Pensiamo che siano tipi noiosi e introversi; in realtà quando sono
nella loro terra sono persone simpaticissime e cordiali. Mi viene
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da pensare che sia anche un po’ per colpa nostra che i cinesi emigrati nel nostro Paese non riescano a integrarsi.
Nonostante tutto, anche qui, non tutti i cinesi sono aperti e cordiali, certi fanno i duri e quando si sbaglia, sbraitano qualcosa nel
loro strano idioma. Il più delle volte basta dirgli “wo ting bu
dong” (non capisco), fargli un gran sorriso, un paio di moine e diventano teneri come il burro.
Per farvi capire un po’ com’è trattato lo straniero in Cina vi
racconterò la mia “grande” entrata nel Paese.
Già alla dogana, il poliziotto, incurante della lunga fila che
avevo alle spalle, si è preso il tempo di scrivere su un pezzo di
carta le indicazioni in cinese per raggiungere la stazione degli autobus e da lì la città di Kunming. Per fortuna che l’ha fatto; è stata
la prima e l’ultima persona che ho trovato in quella città che parlasse un po’ d’inglese.
Sono uscito dalla dogana ed ho cominciato a girare per la città
tirando la mia valigia. Mi sembrava di essere un divo, la gente mi
salutava, le persone vociferavano fra loro al mio passaggio, tanta
gente mi sorrideva, certi bambini mi venivano incontro; altri, impauriti, si portavano il più vicino possibile ai genitori e mi guardavano curiosi.
Quando sono entrato in una banca per prelevare al bancomat,
uno degli impiegati è subito corso fuori. Pensavo di aver sbagliato
qualcosa; in realtà era venuto ad offrirmi un bicchiere d’acqua.
Sono entrato in un ristorante e, non riuscendo a ordinare nulla
per problemi di lingua, ho preso del cibo che avevo in valigia ed
ho praticamente mangiato al sacco nel ristorante, pagando solo
una birra. Nonostante ciò, la padrona del ristorante, appena ha capito che dovevo andare alla stazione degli autobus, ha ordinato alla figlia di accompagnarmi e di chiamarmi un taxi.
Questa è l’Asia che mi piace!
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Across the bridge rice noodles
Kungming, Cina
Ottobre 2013, 60° giorno di viaggio
Questi spaghetti di riso, chiamati con lo strano nome di “attraverso il ponte”, sono il piatto tipico dello Yunnan.
In Cina ogni montagna, ogni lago, persino ogni pietra ha alle
spalle una fantastica storia o leggenda e questi noodles non potevano certo essere da meno.
La storia di questi noodles me l’ha raccontata un anziano signore cinese che stava facendo pratica con i pattini a rotelle nel
parco centrale di Kungming. Esausto dal gironzolare con i pattini,
l’uomo ha allentato le chiusure dei roller-skate e si è seduto accanto a me. Ha cominciato a parlarmi in inglese e mi ha raccontato un
po’ di lui. Era un professore di letteratura cinese e maestro
d’inglese ed era in pensione da appena un paio di mesi. Abbiamo
chiacchierato per diverso tempo e, quando mi ha parlato di questo
piatto tipico, ho chiesto il perché di questo strano nome. L’uomo
ha iniziato a raccontare…
La storia risale a circa trecento anni fa. Un povero mugnaio,
desideroso di riscattarsi, decise di ottenere un ambito lavoro governativo e si mise a studiare duramente per passare gli esami statali.
Finito il lavoro, l’uomo si metteva sui libri e studiava tutta la
sera nella pace del mulino. La notte dormiva nel mulino e la mat49
tina ricominciava tutto il ciclo. La storia andò avanti per mesi e
per mesi l’uomo non tornò a casa dalla famiglia. La brava moglie
portava al mulino tutti i giorni il pranzo e la cena.
Finalmente venne il giorno prima dell’esame e la moglie pensò
di preparare una cena speciale per il marito. Fu in quel momento
che la donna realizzò di non conoscere per niente i gusti del consorte. L’uomo aveva sempre mangiato tutto senza lamentarsi, ma
anche senza esprimere particolari apprezzamenti.
La donna decise allora di preparare una cena molto varia. Tagliò a cubetti e strisce una gran varietà di verdura, affettò finemente tutti i tipi di carne che aveva in casa e preparò un brodo nel
quale mise i noodles. Per far sì che il brodo si mantenesse caldo,
versò dell’olio sulla superficie e lo mise in una ciotola calda.
Nel tragitto dalla casa al mulino la donna doveva attraversare
un ripido ponte ad arco. Quel giorno inciampò. Il cesto nel quale
aveva riposto le vivande si scosse e la carne e le verdure scivolarono nel brodo.
La donna costernata andò dal consorte e spiegò quello che era
successo. Il marito, che non era certo una persona delicata, mangiò ugualmente la zuppa e la trovò deliziosa. La carne e le verdure
infatti si erano cotte nel brodo bollente, donando alla zuppa un sapore delizioso.
Da quel giorno in poi, quella sorta di zuppa, diventò il piatto
speciale della famiglia e presto si diffuse, fino a diventare il piatto
tipico dello Yunnan.
Ancora oggi, nella catena di ristoranti che offrono come specialità gli “across the bridge rice noodles”, la cucina è divisa dalla
sala da pranzo da un finto fossato e da un piccolo ponte. Il cameriere attraversa il ponte cercando di non inciampare e, arrivato al
tavolo, ripete quello che la donna aveva accidentalmente combinato: svuota il contenuto di una miriade di piattini in un brodo di
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noodles e raccomanda al cliente di fare molta attenzione. Il brodo,
infatti, è incredibilmente bollente.
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Ti ringrazio per aver scaricato la versione gratuita del
libro. Per acquistare la versione completa su formato
elettronico o cartaceo, ti rimando al sito:
www.mikesoppelsa.com
un saluto e grazie ancora!!
Mike :-)
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Visto viaggiare – Mike Soppelsa – versione dimostrativa