quaderni della facoltà di lingue e letterature straniere dell’università di cagliari / 13 Direttore: Maurizio Trifone Redazione: Angelo Antioco Deidda, Anna Saiu Deidda, Gianfranco Tore Comitato Scientifico: Francesco Asole, Emilio Biagini, Paola Boi, Nicoletta Dacrema, Gabriella Da Re, Ines Loi Corvetto, Marinella Lörinczi, Gianna Carla Marras, Irene Agnese Meloni, Laura Pisano, Maria Elena Ruggerini, Simonetta Salvestroni, Laura Sannia L’immagine in copertina è il risultato della rielaborazione di una xilografia apparsa nell’edizione londinese del 1618 del ritratto A New Orchard and Garden di William Lawson. Letterature Straniere & Quaderni della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Cagliari 13 Lingue e culture a confronto Copyright © MMXI ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 isbn 978–88–548–4378–3 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: novembre 2011 Indice Letteratura maltese in lingua italiana. Le disavventure marinaresche di Fabrizio Cagliola di Alessandro Aresti 7 Ignazio Pillito i un fals als Jocs Florals de Barcelona de 1864: «Discurs sobre l’origen del Consolat del Mar» de Joan Armangué i Herrero 23 Il dramma degli harkis nella produzione letteraria dei beurs di Francesco Asole 33 La novella al femminile nel Québec (1959–2009): metafora di mezzo secolo di malessere di Françoise Bayle 47 I parallel corpora come strumento di didattica della traduzione di Rino Bosso 67 Attribution Theory and Language Learners’ Maintenance or Loss of Motivation: phase 3 of a longitudinal study of undergraduate students at an Italian university by Steve Buckledee 87 Parole in croce: il linguaggio dei cruciverba di Francesca Cocco 101 La lingua del calcio nella stampa italiana di Francesco Cucinotta 135 Gli anglicismi nella stampa italiana del XXI secolo di Paola Deriu 165 indice Bytes versus Bites: Padding the news into tablet shapes by Maximillian Gold 191 Friedhof der bitteren Orangen und Natura morta oder existentieller Exorzismus und lakonische Befriedung. Zur Inszenierung italienischer Schauplätze im Werk des österreichischen Schriftstellers Josef Winkler von Elisabeth Loibner 201 I gli del popolo lavoratore secondo Sergej Prokof’ev: la drammaturgia musicale di Semën Kotko (Семён Котко) di Gianluigi Mattietti 213 Antonio Gramsci e la Grande Guerra di Maria Rita Murgia 233 La revisione meridiana di Mauro Pala 249 Tracce di dantismo ed antipetrarchismo nella poetica pasoliniana degli anni ’40 di Emanuela Patti 269 “La Società degli amici del cinema sovietico” (1925–1934): fra utopia “cine catrice” e rivoluzione culturale di Stefano Pisu 281 Una biblioteca chisciottesca in Sardegna di Marina Romero Frías 305 ELF communication at sea: The intercultural and linguistic challenges of berthing maneuvering by Claire Elizabeth Wallis 323 Abstracts 337 6 Letteratura maltese in lingua italiana. Le disavventure marinaresche di Fabrizio Cagliola di Alessandro Aresti 1 I Cavalieri Gerosolimitani a Malta. Ri essi sulla vita culturale (e non solo) maltese Il 1530 costituisce una data di grande importanza per la storia di Malta: è infatti a tale altezza cronologica che i Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni entrarono in possesso della piccola isola a sud della Sicilia che l’imperatore Carlo V aveva concesso loro nella forma di «feudo franco e perpetuo»1 , per ricompensarli della perdita di un’altra isola mediterranea, Rodi, per mano dell’impero ottomano. La cessione, per la quale fu prevista la sola corresponsione al sovrano «d’uno Sparviero, o sia Falcone, da presentarsi ogni anno»2 , ebbe il benefico effetto di trasportare Malta fuori del sistema feudale e di sospingerla nell’orbita rinascimentale. I primi segni tangibili del passaggio si resero manifesti in particolare dopo l’assedio turco del 1565, allorché venne avviata un’energica attività di fortificazione con lo scopo di irrobustire le difese dell’isola in vista di eventuali attacchi futuri: la fondazione della nuova capitale, La Valletta3 , fu uno dei frutti dell’imponente opera edificatrice che introdusse nell’isola — per il tramite, oltre che di architetti maltesi formatisi in Italia, di ingegneri italiani come il maceratese Pier Paolo Floriani e il cortonese Francesco Laparelli — gli stili architettonici della vicina penisola. Ma il nuovo paesaggio architettonico da solo non giustifica l’affermazione storiografica secondo cui è in quegli anni che si realizzò la proiezione dell’isola nel florido mondo culturale del Rinascimento, in fisiologico ritardo rispetto alla vicina penisola di cui costituiva appendice politica e culturale. Altri cambiamenti, relativi all’economia, all’immaginario collettivo, alla letteratura e alla lingua, intervennero. Vediamo di passarli rapsodicamente in rassegna. Per quanto riguarda il versante economico, che non può considerarsi disgiunto da quello culturale, anche stricto sensu4 , l’arrivo dei Cavalieri Ospitalieri comportò, in virtù degli stretti rapporti intrattenuti dall’Ordine con le principali potenze europee, un massiccio afflusso di capitali5 che traghettò l’isola da un’e- alessandro aresti conomia statica e agricola verso un’economia dinamica, di tipo commerciale e imprenditoriale. A questo seguì un processo di urbanizzazione e di crescita demografica6 che, nel consueto circolo virtuoso delle congiunture economiche favorevoli, spinse a sua volta la macchina economica verso una sempre maggiore prosperità. Quanto ai mutamenti relativi a ciò che abbiamo definito, con un’espressione forse un po’ vaga, “immaginario collettivo”, bisogna partire da quell’avvenimento del 1565 che la storiografia maltese ha definito “Grande Assedio”7 . I fatti sono noti: i valorosi Cavalieri riuscirono a contenere la possente offensiva del nemico turco e a impedire l’occupazione dell’isola. L’evento diffuse in tutta l’Europa cristiana un sentimento di fiducia sulla possibilità di porre un freno all’avanzata turca in Occidente, che era apparsa fino a quel momento inarrestabile8 . Non è difficile immaginare le conseguenze in termini di costume e di spirito (e quindi di immaginario collettivo) sulla popolazione locale. Fu posteriormente a quest’impresa che si forgiò il mito dei Cavalieri di Malta (che proprio questa nuova denominazione, da quella precedente di Cavalieri Ospitalieri, assumeranno subito dopo), ancora oggi annoverati nel pantheon dei protagonisti dell’epopea nazionale. Non poté che conseguirne un rinsaldarsi dei già stretti vincoli culturali che legavano Malta alla penisola italiana e, più in generale, all’Occidente cristiano. In letteratura si registrarono, per le mutate condizioni socioeconomiche e culturali, fermenti nuovi; scrive Mangion: Della nuova e rigogliosa vita che si generò nell’Isola, e innanzitutto nel suo nuovo centro culturale [La Valletta], la letteratura maltese del Seicento reca ampia e fedele testimonianza. Mentre per i secoli precedenti non si hanno che dei nomi di poeti e qualche raro documento di valore soprattutto storico e linguistico, il Seicento invece ci ha tramandato un numero notevole di opere letterarie, che ci servono per ricostruire l’ambiente culturale in cui operava la piccola ma vivace comunità regionale maltese9 . Nel romanzo del Seicento è dunque lecito attendersi uno spesseggiare, «in un contesto d’idealità epico–religiosa»10 , del nome dei Cavalieri di Malta, presto assurti a principale referente ideologico dell’indole letteraria e umanistica dell’intellettualità autoctona, la quale identificò nei frati guerrieri gli importatori dello spirito nuovo, rinascimentale, permettendo un aggancio ai modelli italiani ed europei e stabilendo una volta per tutte che sarebbero stati tali modelli a fertilizzare, nei secoli successivi, il terreno culturale maltese; se è vero, come ha scritto Lanza, che «Malta come ordine si identificò con Malta come isola»11 , è altrettanto vero, per converso, che Malta come isola si identificò in Malta come ordine: le due tradizioni vennero a fondersi e insieme costituirono il motore della maturazione culturale maltese, che diede l’abbrivo a un processo di costituzione di un comune sentire intellettuale, il quale si sarebbe materializzato, fra l’altro, in una fioritura letteraria di cui punto focale è l’elemento romanzesco e apologetico cavalleresco–gerosolimitano. 8 letteratura maltese in lingua italiana Sul fronte puramente linguistico, l’arrivo dei Cavalieri è stato giustamente riconosciuto come uno dei «canali principali della penetrazione dell’italiano a Malta»12 . I Cavalieri avevano adottato il toscano come lingua veicolare13 verso la metà del Quattrocento durante la loro permanenza a Rodi: «la necessità del compromesso linguistico [fece] cadere la scelta sul toscano per le sue ben note qualità: la vicinanza al latino, la centralità strutturale rispetto agli altri dialetti e il prestigio letterario»14 . Il toscano divenne la lingua dell’amministrazione e della cultura alta. Ovviamente la sua diffusione era limitata agli spazi ristretti dell’ambiente dei Cavalieri. Tuttavia, come hanno dimostrato puntuali analisi lessicali15 , la sua posizione di adstrato nel quadro (socio)linguistico locale determinò un’immissione nella lingua maltese di un cospicuo contingente di elementi romanzi, i quali, superando nel numero quelli di origine semitica, modificarono significativamente, e per sempre, la fisionomia dell’idioma locale. Le prime testimonianze di composizioni letterarie nella lingua di Dante sono fornite dal padre domenicano Michele Fsadni, il quale informa dell’esistenza di due quaderni di versi in italiano e in maltese, scritti da un altro frate dello stesso ordine, Pasquale Vassallo, e risalenti al 1584 circa. A causa dell’intervento censorio dell’Inquisizione i quaderni purtroppo sono andati perduti. Il primo letterato maltese ad aver prodotto opere letterarie in italiano è additato da Cassola in «un certo Franceschino da Malta. Di questo autore si sa solamente che compose due sonetti in onore di D. Scipione de’ Monti, Marchese di Corigliano, intitolati rispettivamente Monti, tu sei del gran Parnasso il Monte e Nel regno di Plutone e di Caronte. Il manoscritto del Canzoniere del Monti [...] risale al 1583 ca.»16 . Ben più ricca, quantitativamente e qualitativamente, è la produzione seicentesca. E non solo puramente letteraria. Giovan Francesco Abela (1582–1655), per esempio, si distinse come storiografo autorevole con la sua Descrittione di Malta, isola nel Mare Siciliano. Di grande rilevanza è anche l’opera di Antonio Bosio (1555–1629) Roma Sotterranea. All’ambito della trattatistica scientifica di livello medio–alto è da ascrivere il Trattato circa l’origine delle Glossopietre del medico Giovanni Francesco Buonamico (1639–1680), la cui poliedricità intellettuale (e linguistica) è certificata da una produzione che spazia da opere letterarie in latino a un resoconto di viaggio in italiano fino a una poesia in vernacolo maltese. In campo letterario, e nello specifico poetico, è d’obbligo citare innanzitutto, se non altro per ragioni cronologiche, Salvatore Imbroll (1590–1650), autore di quattro sonetti, inseriti in una compilazione storiografica sull’Ordine Gerosomilitano. Un canzoniere vero e proprio è quello scritto, sull’esempio petrarchesco, dal sacerdote Marcello Attardo de Vagnoli (1605–1655). Un campione di poesia pastorale è offerto, stavolta sotto la scorta del magistero tassiano e guariniano, dalla Dafne di Enrico Magi (1630–?). Da non dimenticare poi il contributo degli autori teatrali: su tutte, sia bastevole ricordare le penne di Carlo Magri (1617–1693) e Giacomo Farrugia (1641–1716). 9 alessandro aresti Infine, volgiamo la nostra attenzione alla prosa, non trascurata dai letterati maltesi del Seicento, ancorché meno coltivata in confronto alla poesia. Da menzionare è l’Ismeria di Carlo Michallef (?–1689), stampata nel 1648: si narra del tentativo da parte del Sultano d’Egitto di far convertire alla religione islamica, prima con le armi della tortura e poi con quelle della seduzione — quest’ultime affidate alla figlia Ismeria —, tre cavalieri cristiani: il tentativo non solo fallirà, ma otterrà l’inaspettato effetto della conversione della fanciulla alla religione cristiana. Uno dei topoi dominanti nella narrativa maltese dell’epoca è sicuramente quello del viaggio. Questo tema è presente già nell’Ismeria, anche se si tratta di un viaggio in un certo senso “mancato”, o comunque non descritto, visto che i tre cavalieri e la bella figlia del Sultano al termine del racconto dall’Africa si ritrovano improvvisamente e miracolosamente in Francia. Il motivo del viaggio è invece centrale in un veridico racconto di Domenico Magri (1604–1671) dato alle stampe nel 1655 a Roma. Al Magri, all’età di soli diciannove anni, venne affidata dal Pontefice un’importante e ardua ambasceria presso il Patriarca d’Antiochia, residente sul Monte Libano; il giovane legato, compiuta felicemente la missione, decise di consegnare il ricordo della sua esperienza alla scrittura: nacque così il Breve racconto del viaggio al Monte Libano. Una delle opere più interessanti della narrativa maltese in epoca barocca è il romanzo di Fabrizio Cagliola (1604–1665) Disavventure marinaresche, o sia Gabriello disavventurato, del 1660, che narra delle (dis)avventure occorse al popolano maltese Gabriello Pulis nei mari del Mediterraneo fra la Sicilia, Malta e la Barberia: tra naufragi e battaglie in mare, imprigionamenti e torture, incontri e scontri con gli individui più disparati, racconti del protagonista e degli altri personaggi e digressioni sulle questioni più varie (da quelle filosofiche a quelle sulle virtù del lupo e del cane), si rilevano alcuni elementi tematici e formali che sono rivelatori della temperie culturale della prima epoca gerosolimitana. Delle strutture portanti dell’impianto tematico dell’opera, oltreché di alcuni aspetti formali, è nostra intenzione fornire un breve resoconto nelle pagine che seguono. 2 Le (dis)avventure di Gabriello: tra eroicità, comicità e tragicità Il protagonista del romanzo, che, come si è detto, risponde al nome di Gabriello Pulis, si ritrova catapultato da una sorte poco indulgente nei suoi confronti in una vorticosa sequela di peripezie eroico–tragicomiche che si susseguono con un ritmo in certi momenti ubriacante. Gabriello, nato a Senglea, la Città Invicta, come venne battezzata dopo l’assedio ottomano del 1565, è il classico eroe di umili natali — figura non nuova nel campionario degli eroi di tutta la letteratura europea precedente — che si distingue per il coraggio, il valore e il senso del dovere dimostrati in battaglia e nelle diverse situazioni della vita quotidiana in cui vi sia occasione di farne mostra, tanto che in apertura del romanzo la voce narrante si 10 letteratura maltese in lingua italiana prende la libertà di dire, con accenti populistici, che se la stessa indole si ritrovasse in soggetti di nascita illustre, questi verrebbero incensati per molti secoli a seguire. E non bisogna attendere molto perché l’enunciazione narratoriale trovi conferma nei fatti concreti: a Gabriello — precocemente messo su una galea dal padre, deputato comito della Sacra Milizia Gerosolimitana, all’età di otto anni — viene offerto il destro di dimostrare le proprie doti per la prima volta in una battaglia in mare del 1606 (è questa l’unica datazione esplicita di tutto il romanzo), in cui la flotta gerosolimitana è contrapposta agli “infedeli”, i musulmani che contrastano i cristiani per il controllo del Mediterraneo; si racconta che: Gabriello, benchè fioccassero le moschettate, senza atterrirsi (che non seppe mai che cosa fosse paura) stava nelle mani di tutti, porgendo loro armi, palle ed altre munizioni (14)17 . E lo stesso vale nelle battaglie successive, nelle quali il popolano maltese, «che non seppe mai che cosa fosse paura», non dimostra minori sprezzo del pericolo e senso dell’onore, al pari dei più “nobili” Cavalieri: [Non] ci fu impresa, tentata dai Cavalieri, di periglio e d’onore, che in quella non si segnalasse, ed allora maggiormente quando passando da un grado all’altro fu in luogo del Padre Comito deputato (14–15). Le scelte lessicali (impresa, onore e il non casuale18 gallicismo periglio) sono sintomatiche di un contesto storico e culturale il cui perno centrale è rappresentato dalla civiltà cavalleresca gerosolimitana, che si sostanzia in imprese eroiche, devozione verso i superiori e osservanza dei precetti cristiani. Il lessico è quindi strumento privilegiato di rimando a un preciso universo di valori e ideali. In antitesi a questa componente celebrativa, qualche commentatore ha rinvenuto nelle Disavventure un tentativo di dissacrazione e contestazione nei confronti dell’ideale cavalleresco. Tale osservazione può risultare legittima, se si pensa che il Seicento è il secolo in cui la dissoluzione di quell’ideale, in atto già da tempo nella cultura europea (di cui Malta, seppur perifericamente, faceva parte), si porta a compimento. Tuttavia, secondo Lanza, [n]ulla c’è nel Gabriello che si possa avvicinare alla protesta o alla dissacrazione, e dove qualcosa appare che potrebbe gettare un’ombra sulla maestà o sulla vita della gerarchia ecclesiastico–militare, l’inclinatura è del tutto inconsapevole19 . Quel che è certo è che Gabriello, in varie occasioni, non lesina critiche, anche pungenti, nei confronti di una «società cavalleresca che alla concretezza dei problemi che si devono affrontare nella realtà quotidiana preferisce gli ozii artificiosi di una letteratura fantasiosa»20 ; come quando ad esempio il protagonista, dopo aver ascoltato un compagno carcerato leggere le leggendarie prodezze del cavaliere Amadi de Gaula, uccisore di «tre Giganti fierissimi» (48), manifesta tutto il suo disprezzo per la finzione, o — nella sua ottica — falsità, del romanzo 11 alessandro aresti cavalleresco, reo di ammaliare le menti di uomini ingegnosissimi e di distoglierli dalle cose pratiche e più importanti del mondo reale. E alla risposta divertita di alcuni compagni che quei «libri non si stampano che per ammirare l’invenzione o l’eleganza o la leggiadria del parlare» (ivi), Gabriello controreplica con l’ausilio di un’efficace metafora: [Questi libri] sono pillole che si inargentano per essere senza ripugnanza inghiottite e che nella digestione hanno fatto stranissime operazioni, perché vedendo alcuni poter far il simile si sono dati ad intendere di riuscire Orlandi, Amadisti ed Orondoti, e poi nel menar le mani si scopersero zerbinotti e vilissimi martani (ivi). Vedere per credere, dunque. D’altronde, non è forse il Seicento il secolo in cui il vedere si impone come mezzo privilegiato per indagare e interpretare la natura e la realtà? Sul senso della vista sono basate alcune delle manifestazioni tipiche del secolo: non solo gli sfarzosi e complessi cerimoniali civili e religiosi, ma anche la vasta ed eccezionale produzione teatrale che si sviluppa in mezza Europa. Dall’evidenza visiva derivano poi, non si dimentichi, le scoperte celesti di Galileo. Il pragmatismo di Gabriello, che come nelle più classiche raffigurazioni dell’eroe popolano mira alla concretezza, alle cose pratiche, ed è alieno dalla vita oziosa e dalla mera speculazione, viene confermato in varie circostanze, come nel dialogo con il figlio filosofo venuto a liberarlo dal carcere (in cui è finito a causa dei debiti), quando Gabriello gli domanda che utilità possa mai ricavare «da quel rivolgimento di libri» che tiene aperti in casa, dallo «star col libro in mano e gli occhi alle sfere» (28). O ancora quando egli, dopo essere caduto nelle mani dei “barbari” ed essere stato condotto in prigione, avendo bisogno di cure, riceve un’offerta d’aiuto da parte di un giovane medico appena addottoratosi a Salerno, il quale, per dare attestazione delle proprie capacità al diffidente maltese, inizia a declamare alcuni aforismi di Ippocrate; in questo caso Gabriello, da uomo rotto a tutte le esperienze del mondo, rifiuta l’offerta del giovane medico inesperto; non è infatti sufficiente, dice, conoscere la sola teoria per poter esercitare la professione: È gran differenza, figlio, tra il dire e l’applicare, e nel medico si considera più l’applicazione che d’una lunga esperienza. Io vedo che sopra me vorresti provare, secondo il poco che leggesti, se ti riesca l’applicazione. Va prima a pigliar pratica con qualche medico vecchio e sperimentato, e poi metti in opra i tuoi aforismi (18). Per tornare all’eroicità del protagonista, dalla lettura del romanzo emerge che contro di essa congiurano spesso eventi che si collocano a metà strada fra il comico e il tragico. Ciò significa che alle gesta eroiche che innalzano Gabriello al livello dei Cavalieri si oppongono episodi in cui il nostro rischia, molto umanamente ma anche molto comicamente, di soccombere. Non ci sarebbe nulla di invalidante per quanto riguarda la sua eroicità — essa resta intatta o addirittura 12 letteratura maltese in lingua italiana risulta enfatizzata quando affronta con grande coraggio e forza d’animo le diverse prigionie moresche — se non fosse che a minarla sono, di volta in volta, una vecchia (quando Gabriello, caduto in mani nemiche, viene imprigionato per la prima volta: la megera, «dategli tutte le villanie e le ingiurie immaginabili per averle nel conflitto ucciso un figlio, gli empì la faccia di sputi, e con mille maledizioni ne partì, lasciandolo con tal rammarico e alterandogli sì il sangue che egli fu in necessità d’aver un medico per sollevarlo dalla febbre» [18]); un villano (il quale, dopo un diverbio, gli scaglia un sasso tra la fronte e il naso, rendendogli l’aspetto «simile a quello di una fiera» [19]; il fatto che sia stato un villano a sfigurarlo fa sì che ne riceva «moggior dispiacere che dalla percossa» [ivi]); un polpo («volendo Gabriello rinfrescarsi si snudò le gambe e le distese sul mare. Ed ecco che ad un tratto si sentì attaccare con tanta violenza che gridando a piena voce corsero i compagni ad aiutarlo, e trattolo a viva forza scoprirono che gli si era avventato un polpo di non ordinaria grandezza che coltolo all’improvviso lo ridusse ad aver paura, cosa a lui di rado accaduta. Tremava il poverello, vistosi quel mostro tra le gambe» [53]); e un branco di cani: [C]amminando verso la prima massaria che vide più vicina, s’avvisò che non c’erano altri che quattro cani corsi, dai quali fu all’improvviso assalito e investito. Nè mai in sua vita si vide in maggior pericolo perchè, circondato da quattro parti ed essendo egli storpio dalle braccia per le ferite avute, non sapea nè potea trovar modo di difendersi; pure datosi animo, s’accostò ad un albero che gli difendea le spalle, e preso da terra un pezzo di legno, che a caso gli venne in mano, procurava tenerli lontani. Gridava egli per qualche soccorso che stanco dubitava non essere assassinato, chè uno più degli altri animoso ed arrabbiato gli si era avventato al collo e lasciata nelle carni la stampa dei suoi denti. In questo stato, implorando l’aiuto del cielo, sopraggiunse un figlio dell’amico conosciuto dai veltri che, forzandoli ad allontanarsi, lo sbrigò dal pericolo, così stanco che appena respirava (55). L’eccezionalità eroica del protagonista subisce certamente in questi frangenti un forte ridimensionamento. La giustapposizione di quadri di pura eroicità, in cui il protagonista fa sfoggio di temerarietà e abnegazione, alle situazioni tragicomiche sopra descritte o citate al centro delle quali Gabriello viene a trovarsi, produce un effetto particolare, che dà al romanzo gran parte della sua vivacità. I brani riportati sopra ci consentono inoltre di introdurre uno dei motivi tematici su cui sono imperniate le Disavventure: il tema della Fortuna. Sin dalle prime pagine del romanzo Gabriello e gli altri personaggi appaiono essere in balìa di una forza imperscrutabile, al cui capriccio sembra essere sottomesso ogni accadimento mondano. Sembra cioè che sia il Caso nel senso più laicamente inteso a far girare la ruota dell’esistenza umana. Nel turbinio di battaglie, imprigionamenti, incontri, smacchi in cui il nostro protagonista, e con lui gli altri personaggi, finisce spesso per essere gettato, non si riesce a cogliere una granitica credenza nel disegno provvidenziale, nell’azione costante esercitata sul creato da parte dell’insondabile saggezza divina, nonostante che verso di essa si faccia, con accenti programmatici, professione di fede all’inizio del romanzo, quando si fa riferimento 13 alessandro aresti all’erroneità della credenza degli antichi nella dea Fortuna. Gli esempi non scarseggiano di certo. A tacere delle sventure occorse al protagonista, si pensi a uno dei tanti “racconti nel racconto”, quello del cavaliere perseguitato dalla sfortuna (34 sgg.) che in un breve volgere di tempo perde l’uso della mano; che rischia di essere «in più parti diviso» (34) mentre è intento al maneggio del proprio cavallo; che finisce ustionato a causa di un’esplosione innescata accidentalmente durante un giro in barca con una brigata di amici; e che, durante un naufragio, volendo mettersi in salvo e portarsi a terra prima degli altri, si ritrova, sempre a causa della sorte poco benevola, ad essere l’unico a cadere in mare. La storia, raccontata da Gabriello dopo l’ennesimo colpo mancino sferratogli dalla dea bendata, serve a creare un parallelo con la propria situazione individuale, o, più in generale, a indicare con un aneddoto venato da una comicità più che suggerita quanto il destino della condizione umana sia terribilmente precario e subordinato a una forza le cui leggi (se ve ne sono) è vano cercare di comprendere; la digressione è anticipata da un epifonema in cui si mescolano, conformemente allo spirito del romanzo, ironia e accettazione stoica: «sono pur io degli infortuni la calamita che dovunque influiscono è bisogno che sia il primo ad aver la parte» (34). 3 Autore, narratore e protagonista In un’opera letteraria è spesso difficile stabilire il livello di divaricazione (o di convergenza) fra autore reale e autore implicito21 relativamente alla condivisione dei valori intellettuali e morali che soggiacciono agli interventi narratoriali nell’ordito del discorso letterario. È chiaro che per azzardare un tracciato sufficientemente affidabile delle corrispondenze fra l’autore del romanzo e l’autore nel romanzo è cosa irrinunciabile avere a disposizione un gran numero di informazioni non solo di tipo biografico (l’attività professionale, i rapporti familiari, le esperienze di vita, ecc.), ma anche — cosa non meno importante — sul contesto storico–culturale in cui egli vive o è vissuto. Chi scrive è parte di un mondo che per lui è essenziale, è calato in un contesto che esercita un’influenza determinante sulla sua esistenza di uomo e di scrittore. È quindi indispensabile avere in mente non solo gli eventi storici, le vicende politiche e militari, la condizione sociale, i rapporti con la cultura del suo tempo, ma anche quei piccoli fatti che determinano la sua esperienza quotidiana. Nel nostro caso, per quanto riguarda il quadro politico, socio–economico e culturale — sinteticamente tratteggiato all’inizio del contributo — in cui il Cagliola si trova a operare, il periodo dei Cavalieri è il primo, nella storia maltese, ad essere ampiamente documentato. Sulla biografia del Cagliola, invece, non disponiamo di una gran quantità di notizie, anche se quelle di cui siamo in possesso ci permettono in alcuni casi di capire, o perlomeno di ipotizzare, fino a che punto il letterato maltese, cappellano dell’Ordine e avvocato del foro maltese, coincida con l’autore implicito e il narratore delle Disavventure marinaresche. Indispensa- 14 letteratura maltese in lingua italiana bili a riguardo le poche pagine scritte dallo storico maltese del Settecento Ignazio Saverio Mifsud, contenute nella sua Biblioteca Maltese (1764), poste a prefazione nell’edizione del 1929 di Curmi22 . Fatta la tara delle punte esageratamente celebrative e retoriche, da imputare a un non celato patriottismo culturale, restano alcuni elementi oggettivi di stampo biografico che ci consentono di accedere al suo profilo culturale e intellettuale. In breve, il Cagliola, fratello dell’altrettanto (o forse più) celebre Filippo, altro protagonista della vita culturale maltese nel secolo del Barocco23 , entrò «nell’illustrissimo Ceto dell’Assemblea, nel grado di fra Cappellano del Sacro Ordine Gerosolimitano»24 , prima di essere consacrato sacerdote ed essere impiegato in una serie di ragguardevoli uffici che gli permisero di ottenere la «Commenda de Braux» e quella di «S. Maria Maddalena di Vignon»25 . Il Cagliola fu esperto uomo di lettere, «sì morali e teologiche, che legali»: dopo la laurea in diritto, si dedicò «alla difesa delle cause nel Foro», acquistando «un’acclamazione universale di eccellente legista e di ottimo avvocato»26 . L’erudito maltese si distinse anche in quanto autore di un importante commentario allo statuto dell’Ordine, oltre che di varie biografie e opere religiose. Nel romanzo, la narrazione — che si divide fra la terza persona del narratore extradiegetico e le prime persone dei diversi narratori intradiegetici, quando di volta in volta a parlare è uno dei tanti personaggi che popolano la storia — assume spesso un taglio cronachistico–storiografico (più cronachistico che storiografico, a dire il vero) per la puntualità e la scrupolosità — macchiate solo da un’enfasi patriottarda in genere estranea alla buona, ovvero obiettiva, storiografia — con cui si racconta di avvenimenti e personaggi della storia di Malta. Del resto, è lo stesso Mifsud che riconosce al Cagliola, dietro la «ben studiata invenzione» romanzesca, una capacità di «ottimo storico e zelante promulgatore delle glorie dei suoi Compatrioti»27 . Gli esempi si sprecano; ne basti uno, relativo a una delle tante battaglie fra cristiani e turchi: Né molto dopo essendo Generale il Principe d’Assia Langravio, e suo capitano il Comandante Macedonia, entrò la squadra nel porto della Goletta in Barberia, e non curando delle fortezze il cannone, prese sei vascelli, dei quali tre erano di 40 pezzi di notabile grandezza, e con ardire insolito se li rimorchiò a Malta. E succedendo nella carica il Gran Tesoriere Boisbodran, ebbe fortuna in un viaggio di Levante sul far del giorno di scoprire la carovana dei Turchi che di pochi giorni prima uscita era da Costantinopoli: e dividendosi le galee secondo la vicinanza degli scoperti legni, i due Capitani e Comandanti Demandolx e de Gregorio abbordarono un grosso pinco carico di sete con tal prova che rovesciatolo non colsero dalle onde che 70 Turchi. Ed intanto i Capitani Piancourt e Gioforest vollero fare il simile al più grosso galeone che di molto tempo non s’era veduto, e trovata resistenza da un Agà con 500 suoi difensori, fu il Piancourt ucciso e maltrattate le galee. Ma essendosi rinnovato l’attacco dalla Capitana e dal Comandante e Capitano Cottoner con la sua galea, e poi dalle altre due, si rinnovò il conflitto con mortalità grande e specialmente del Generale medesimo, del Conte Scotti, del Cav. Mombet ed altri, restando ferito il Capitano della Capitana ed il Pilota Narduccio, uomo prode e di grande esperienza nel suo mestiere (21–22). 15 alessandro aresti Si tratta di un vero e proprio resoconto cronachistico: vengono forniti i nomi dei protagonisti delle battaglie e le rispettive posizioni nella gerarchia militare o paramilitare (il principe d’Assia Langravio, il Comandante Macedonia, il Gran Tesoriere Boisbodran, i due Capitani e Comandanti Demandolx e de Gregorio, i Capitani Piancourt e Gioforest, il Comandante e Capitano Cottoner, il Conte Scotti, il Cav. Mombet, il Pilota Narduccio), i nomi dei luoghi teatro delle battaglie (il porto della Goletta in Barberia, Costantinopoli) e soprattutto i dettagli numerici relativi agli uomini e ai mezzi impiegati (sei vascelli, dei quali tre erano di 40 pezzi di notabile grandezza; 70 Turchi; un Agà con 500 suoi difensori). Come si è anticipato, alcune spie linguistiche si accendono a segnalare il coinvolgimento nazional–ideologico dell’autore in questa cronaca: ad esempio, l’ardire insolito con cui i due generali, non curando delle fortezze il cannone, si impossessano di alcuni vascelli nemici. In tutta l’opera si largheggia nei riferimenti alla realtà storica dell’epoca gerosolimitana: pensiamo alle carrellate di nomi di Cavalieri o di altri personaggi di spicco della società civile maltese del tempo (fra i quali lo stesso autore)28 che sfilano freneticamente sotto gli occhi del lettore o alle vere e proprie note storiche (citazioni di battaglie, di episodi di cronaca della vita maltese, ecc.)29 che fanno da cerniera fra un episodio e l’altro e servono a contestualizzare in senso storico il narrato. Tuttavia la mancanza di indicazioni cronologiche numeriche attenua il tenore storiografico che in alcuni casi, come in quelli citati, il dettato narrativo assume (non c’è infatti in tutto il romanzo, eccettuata quella dell’incipit cui si è già fatto riferimento, una sola datazione). Un altro trait d’union fra autore e narratore può essere ravvisato nelle parentesi di tipo giuridico disseminate nel romanzo. Il seguente brano è una delle principali: Certo che si dovria trovar modo di estirpare questa canaglia, e punir coloro che li proteggono senza eccezione di persone. Imperocché se non avessero protettori o ricettori, ci penserieno bene a menar una vita che non suole aver altro fine che d’una forca: e quando fossero in gran numero, imitar i Romani che, non bastando i Rettori a scoprire un nascondimento di schiavi banditi, vi mandarono i Consoli, e già i Pirati elessero Pompeo che, stringendoli dentro i porti, li sconfisse e punì come erano meritevoli. E credendo Gabriello col dare le sue querele al magistrato vendicarsi delle ingiurie, essendo rimesso da un Tribunale all’altro, non potendo regger la spesa, si contentò stare con la ricevuta, senza esigere il pagamento e la soddisfazione (30). La digressione prende spunto da una delle tante traversie che si abbattono a intervalli regolari su Gabriello, e più precisamente da un’imboscata ai suoi danni da parte di un manipolo di banditi mentre da Catania si reca a Messina: lo sfortunato protagonista, invece di lasciarsi spogliare dei suoi pochi averi ed evitare quindi l’impari colluttazione, si oppone orgogliosamente ai manigoldi, avendo però la peggio e finendo per essere caricato «di tanti colpi che si può dire: spoliaverunt eum, semivivo relicto»30 (30). Nel brano riportato pare evidente che a 16 letteratura maltese in lingua italiana parlare sia non il Cagliola uomo di lettere ma il Cagliola giurista, polemico nei confronti della macchina giudiziaria, evidentemente malfunzionante nella società maltese del tempo. Certo, il registro linguistico nel passo non ricalca la tradizionale formalità del linguaggio giuridico, che un avvocato come il Cagliola doveva, all’occasione, saper padroneggiare benissimo; è indubitabile però che in questo modo la condanna assume toni più incisivi, più emotivamente marcati: a parlare di “estirpazione della canaglia”, di briganti che conducono «una vita che non suole aver altro fine che d’una forca», sembra di trovarsi di fronte non a un pacato professionista del foro bensì a un comune e indignato rappresentante del ceto medio maltese. Arnold Cassola, a partire dallo stesso brano riportato sopra, ha formulato l’ipotesi che il Cagliola nutrisse una certa insoddisfazione per la vita forense: Questa insoddisfazione, forse, non era solo frutto delle osservazioni del nostro, che poteva aver registrato le frustanti delusioni patite da chi cercava inutilmente giustizia in tribunale, ma anche di una probabile costrizione da parte dei genitori ad intraprendere una carriera legale a scapito di studi più amati31 . In tal senso, secondo lo studioso le parole del personaggio filosofo pronunciate verso la fine del romanzo sarebbero da intendersi come autobiografiche: Io m’era appagato tanto della cognizione di queste scienze [Etica, Giustizia, Fortezze e Temperanza] che già mi risolvea non pensar altro che acquistarle ed al più poi darmi alla cognizione delle cose che insegna la Teologia, della quale avea gustato alcune parti, quando mio padre, per sollevar la casa, volle che allo studio delle Leggi Civili e Canoniche io m’applicassi. L’obbedii, per dirla, con qualche repugnanza, e postomi a studiare, tra pochi anni graduato mi diedi nei Tribunali a trattar le cause (104). Qui, a differenza del brano precedente, non abbiamo più un narratore esterno bensì un narratore interno, cioè un personaggio della vicenda narrata che prende la parola e racconta qualcosa. Non è un caso isolato. Tutt’altro: il romanzo, soprattutto nella sua seconda metà, è costruito in buona parte su questo schema del “racconto nel racconto”. È il caso della brigata di banditi rifugiatisi a Gozo, i quali, ingaggiati da Gabriello a formare un nuovo equipaggio, narrano a turno la storia della propria vita e dei propri “accidenti”, e in particolare le sventure che li hanno spinti a riparare nella piccola isola di Gozo32 . Il primo a parlare è un anonimo di Cagliari, al quale seguono Dioscoro e Lillo il biondo, e poi Giovita, Tonno Calabrese, Servilio e infine Martinotto. Ognuno di loro, quindi, indossando a turno la veste di narratore (non si può evitare che il pensiero vada, variatis variandis, alla brigata di novellatori di decameroniana memoria), dice “io”: quell’“io” che viene detto una sola volta lungo tutto il romanzo, e non a caso nell’incipit, dal narratore primario, quello extradiegetico: 17 alessandro aresti Ho [...] in tra l’ozio d’un’està risoluto di rappresentare uno, di cui, per la diversità degli accidenti, formar si potriano diverse scene di qualsivoglia della vita di lui comporre volesse una tragicommedia (12). È contenuta in questo lacerto, in quel riferimento alla possibilità di trarre materia, dagli eventi occorsi a Gabriello, per la realizzazione di una tragicommedia, un’anticipazione di ciò che il lettore deve aspettarsi dalla storia che verrà narrata: una fusione di tragico e comico che fermenta a un ritmo incalzante in una serie di mirabolanti avventure, secondo uno schema che ricorda senza dubbio il più tipico modello picaresco. Gli ingredienti di tale modello ci sono tutti: la trama a episodi, ciascuno spesso privo di connessione logico–causale con gli altri (molti episodi sono a sé: gli echi di quanto accaduto in uno raramente si fanno sentire negli altri); il ritmo vertiginoso con cui gli episodi, come si è osservato, si susseguono uno dopo l’altro; il tema della Fortuna, che si presenta come una dea volubile e bizzosa che dispensa grazie (poche) e disgrazie (molte), apparentemente senza un disegno prestabilito. Sennonché, a sgomberare il campo dalla taccia di paganismo filosofico e ad affermare la dimensione cristiana del “disegno provvidenziale” sembrerebbe diretto l’intervento del narratore in apertura del romanzo ad affermare che qualunque lettura in questo senso è bandita; vediamo concretamente i termini di questa dichiarazione indiretta: Credendo gli antichi che la Fortuna fosse un Nume, come Dea la riverivano, ed in molti luoghi sontuosissimi templi le eressero, per darle grazie, quando l’evento d’un fatto conforme ai loro disegni e volere riusciva. E perché Temistocle, famosissimo Capitano degli Ateniesi, dopo ottenuta una gran vittoria, disse che la fortuna in quella non avea avuto parte, notò Plutarco che mai più da allora gli riuscì cosa degna di lode, e che visse e morì infelicissimo. E benché noi, col lume della Fede, sappiamo non esserci altro nume che il nostro verace Dio, dal quale tutti gli avvenimenti derivano, nondimeno sogliamo chiamare infortunii o disavventura tutto ciò che fuori dell’intenzione e volere nostro ci succede (11). Il messaggio (o uno dei possibili messaggi) è questo: gli antichi, ovvero i Greci e i Latini, la cui cultura è alla base della nostra civiltà, ignoravano, poiché vissuti prima della discesa di Cristo sulla terra (come Virgilio e gli altri grandi maestri della classicità confinati nel limbo dantesco), l’unica e sola Verità, quella che è stata poi divulgata dal Cristianesimo; ignoravano cioè l’esistenza del disegno divino, alla luce del quale i fatti del mondo sensibile, incomprensibili e inspiegabili, trovano in un’ottica trascendente il vero significato, una collocazione nel piano provvidenziale33 . La lingua, dice la voce narrante, reca in sé cascami di quest’antica credenza: E questo modo di dire [chiamare infortunii o disavventura tutto ciò che fuori dell’intenzione e volere nostro ci succede] è assai ordinario a coloro che sono di professione marinaresca, avendola a che fare col vento e col mare, elementi instabilissimi, dai quali 18 letteratura maltese in lingua italiana sollevate in furia le onde, dire sogliono, «il Vascello o la Galea corse grandissima fortuna», e nell’entrare salvi in porto aggiungono «e noi abbiamo avuto fortuna di salvarci che gli altri si perdettero con dar a traverso in qualche scoglio». Ma quando s’incontra di patire più volte naufragio, o nel venir alle mani dei nemici, rimanendo loro preda o malamente trattati, s’ode per bocca di tutti, «il tale non ha fortuna, ed è del tutto disgraziato» [...] (11–12). La breve considerazione metalinguistica si sofferma sulla possibilità che la lingua in uso all’interno di una determinata comunità nasconda, nelle pieghe del proprio lessico e della propria fraseologia, tracce di antiche configurazioni culturali e mentali. Niente di più condivisibile. Se non si trattasse di un caso singolo, si potrebbe parlare di Cagliola (anche) linguista. Note 1. Mangion (1973, p. 311). 2. Bosio (16842 , p. 80). 3. La città prende il nome dal Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri in carica al momento della sua fondazione (nel 1566), Jean Parisot de la Valette. 4. La storia delle civiltà umane ci insegna che la produzione culturale, anche nei termini di mera realizzazione di prodotti culturali (opere letterarie, ma non solo), è strettamente connessa, in ogni tempo e ad ogni latitudine, alle condizioni socioeconomiche dell’entità geografica e/o politica in cui tale produzione si realizza. Un esempio su tutti: l’ascesa di Firenze nella seconda metà del Duecento a maggior centro economico dell’Occidente fu sicuramente uno dei presupposti della straordinaria fioritura letteraria e culturale del Trecento. 5. «L’Ordine di San Giovanni staccò Malta dalle condizioni che l’accomunavano a Pantelleria e Lampedusa (che sono ovviamente più piccole) e la elevarono al rango di una città europea con fortificazioni, palazzi, chiese imponenti, due cattedrali, un ospedale di fama internazionale, un collegio, un teatro, un’università degli studi e altre strutture che non sarebbero mai sorte senza gli ingenti fondi provenienti dall’estero» (Brincat, 2004, p. 192). 6. A parte le perdite in termini di vite umane dovute a calamità naturali o a eventi bellici, come il sacco di Gozo nel 1551 e il già ricordato Grande Assedio del 1565, che frenarono la crescita demografica, la popolazione passò dalle 20.000 unità del 1530, anno d’arrivo dei Cavalieri, alle 24.000 del 1565 e alle 35.000 del 1590 (tre quarti in più rispetto a sessant’anni prima). Si veda, per un quadro dettagliato sulla crescita demografica, Brincat (2004, p. 200 e sgg.). 7. Per un accurato quadro storico si rimanda a Attard (1992), Engel (1968) e Sire (1994). 8. La vittoria risultò giovevole per l’esistenza dell’Ordine stesso; infatti, «if they had lost two islands [Malta and Rhodes] in the space of half a century their reputation as the shield of Christian Europe could hardly have survived. The Order would doubtless have disintegrated into national fragments, an obsolete relic of the past. Instead La Valette and his band of knights had given Europe an exploit of such enduring resonance that two centuries later Voltaire could write, “Rien n’est plus connu que le siège de Malte”» (Sire, 1994, pp. 71–2). 9. Mangion (1973, p. 313). 10. Lanza (1981, p. 79). 11. Ivi, p. 81. 12. Brincat (2004, p. 184). Gli altri veicoli principali furono la Chiesa e le professioni (specialmente i notai e gli insegnanti). 19 alessandro aresti 13. Ricordiamo che l’Ordine era strutturato in diverse “Lingue”: la Lingua d’Italia, la Lingua di Francia, la Lingua di Spagna, ecc., ciascuna delle quali raggruppava i Cavalieri della medesima nazionalità. 14. Ivi, p. 185. 15. Soprattutto Brincat (2004, p. 312 e sgg.). 16. Cassola (1991, p. 60). 17. Tra parentesi si indica, e si indicherà successivamente, il numero della pagina (o i numeri delle pagine) da cui è tratta la citazione. L’edizione su cui ci basiamo è quella a cura di Curmi (Cagliola, 1929). 18. Non casuale perché il codice cortese–cavalleresco ha avuto la sua originaria formulazione nella prima grande esperienza letteraria in un volgare romanzo, quella francese, dalla quale poi hanno attinto, contenutisticamente e formalmente (e quindi anche linguisticamente), le diverse esperienze letterarie europee. 19. Lanza (1981, p. 113). Sempre Lanza osserva acutamente come Gabriello «sociologicamente potrebbe benissimo rispecchiare l’epica gerosolimitana nel controluce del dissenso e delle frustrazioni indigene (i maltesi, non dimentichiamolo, erano esclusi dalle altre [sic] cariche dello stato e di norma non venivano accolti nei ruoli delle sette Lingue; nel migliore dei casi spettava ad essi il grado di serviens armorum o di cappellano, magari fino al conferimento di onori e di commende)» (ivi, p. 112). 20. Cassola (1991, p. 70). 21. Con il primo si intende l’autore storico, concreto, che ha foggiato l’opera letteraria; il secondo è l’autore come viene percepito nel contesto della costruzione letteraria, spesso depurato di tutta una serie di tratti culturali e intellettuali che definiscono il primo: di questo — dell’autore reale — può rappresentare una parte o una sublimazione (cfr. Segre, 1985, pp. 27–8). 22. La prima a stampa (ricordiamo che il romanzo è del 1660). 23. Nel romanzo di lui tesse un elogio Padre Bartolomeo Stellini, incontrato da Gabriello durante uno dei suoi numerosi viaggi. Il fratello dell’autore viene citato come esempio di uomo di grande valore intellettuale, culturale e morale, che però, non assistito dalla Fortuna, non è riuscito a «salire ai [gradi] maggiori» (31). 24. Mifsud (1764/1929, p. III). 25. Ivi, p. III. 26. Ivi, p. III. 27. Ivi, p. V. 28. A pag. 66. 29. Come a pag. 26, in cui si fa riferimento a un evento avulso dalla trama narrativa del romanzo e che al limite può essere visto come un atto di cronologizzazione implicita: «fu in quel viaggio che la squadra di Malta sotto il comando del Sig. Balì Demandolx prese la galea del famoso corsaro Calapatà [...]». 30. L’inserto latino è citazione dal Nuovo Testamento, dalla parabola del buon samaritano raccontata da Gesù nel Vangelo di Luca (10, 25–37). 31. Cassola (1991, p. 72). 32. Intervallati da alcuni eventi occorsi mentre solcano i mari del Mediterraneo e dagli interventi di Gabriello, coi quali egli introduce diversi aneddoti, il proprio punto di vista e le proprie riflessioni sulle storie narrate e le questioni sollevate (interviene per elogiare un cavaliere, tale Fra Opizzo Guidotti, citato da Lillo il biondo; commenta la notizia dell’elezione del nuovo Gran Maestro; da uomo pragmatico qual è, manifesta le proprie perplessità sull’effettiva possibilità, postulata dalla scienza alchemica, ai segreti della quale Dioscoro è stato introdotto dallo zio in tenera età, di trasformare la pietra in oro; ecc.). 33. La dissonanza tra questa concezione della Fortuna e quella laica e areligiosa (si veda il paragrafo precedente) di cui in diverse occasioni sembrano portatori Gabriello e molti dei suoi compagni di avventura, si mostra nel passo citato con una certa evidenza. Forse è da ravvisare in questa contrapposizione fra visione laica e visione religiosa una contrapposizione fra l’autore/narratore (legato a una 20 letteratura maltese in lingua italiana religiosità “alta”, ufficiale) e il protagonista (più incline a forme “basse”, non proprio convenzionali, e popolari, di religiosità)? Non crediamo. In primo luogo perché non mancano esempi contrari, con il narratore che abbiamo definito primario che sembra tendere a una idea classica (in senso storico) di Fortuna e il protagonista che, viceversa, riconduce al disegno divino i capricci della dea bendata. Può darsi, al limite, che il Cagliola condivida la posizione machiavelliana secondo cui la Fortuna è solo arbitra della metà delle cose terrene, mentre l’altra metà cade sotto il dominio dell’uomo. Bibliogra a attard j. (1992), The Knights of Malta, PEG, San Gwann (Malta). bosio g. (16842 ), Dell’Istoria della Sacra Religione et Ill.ma Militia di San Giovanni Gierosomilitano, vol. III, Domenico Antonio Parrino, Napoli (prima ed.: 1602). brincat g. (2004), Malta. Una storia linguistica, Centro internazionale sul plurilinguismo, Università di Udine, Le Mani, Recco (Ge). cagliola f. (1929), Disavventure marinaresche, o sia Gabriello disavventurato, a cura di G. Curmi, Malta letteraria, La Valletta (Malta). cassola a. (1991), La letteratura maltese in lingua italiana dalle origini a tutto il secolo diciassettesimo, in “I Quaderni di Gaia”, 2, n. 1, pp. 57–82. engel c.–é. (1968), Histoire de l’Ordre de Malte, Les Éditions Nagel, Genève/Paris/Munich. lanza f. (1981), La narrativa dei cavalieri gerosomilitani, in M. Santoro (a cura di), “La più stupenda e gloriosa macchina”. Il romanzo italiano del sec. XVII, Società editrice napoletana, Napoli, pp. 79–118. mangion g. (1973), Un contributo di letteratura regionale: la letteratura barocca a Malta, in Culture regionali e letteratura nazionale, Atti del VII Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura Italiana, Adriatica Editrice, Bari, pp. 307–50. mifsud i. s. (1764/1929), Prefazione a Cagliola (1929), pp. III–VII. segre c. (1985), Testo letterario, interpretazione, storia, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. L’interpretazione, IV vol., Einaudi, Torino, 1985, pp. 21–140. sire h.j.a. (1994), The Knights of Malta, Yale University Press, New Haven and London. 21