DON FERRUCCIO BOTTI Parola 18 gennaio 1905-Noceto 27 giugno 1983 Ordinato sacerdote il 30 ottobre 1927 dal vescovo Guido Maria Conforti, che il 9 aprile 1930 lo inviò priore a Talignano (di quella celebre pieve romanica in seguito curò, senza preparazione specifica ma tecnicamente in modo appropriato, i restauri, facendone uno dei monumenti più visitati del Parmense). Esercitò per mezzo secolo, fino all’ultimo quinquennio di forzato silenzio, il suo ufficio pastorale e un’infaticabile attività di raccoglitore e valorizzatore di documenti e notizie, che gli valse la nomina a corrispondente della Deputazione di Storia Patria per le Province Parmensi e ispettore onorario alle antichità e ai monumenti della Val Taro e della Val Baganza. Attività della quale sono prova le numerose pubblicazioni sui temi più disparati: dal Medioevo al Cinquecento e all’Ottocento, su Verdi… FERRUCCIO BOTTI (FERRUTIUS) Giuseppe Verdi 1941 ISTITUTO MISSIONARIO PIA SO LIETA' S. PAOLO PREFAZIONE Molto è stato scritto sul Cigno di Busseto, specialmente sulle sue opere, ma non ci sembra inutile riassumerne al pubblico « la mirabil vita » che è davvero un capolavoro di dolore, di ascesa, di onestà, di integrità morale, di patriottismo, di fecondità artistica fino agli ultimi anni in cui il Grande rendeva il mondo stupefatto con, il suo « Falstaff ». La sua vita è la estrinsecazione della sua anima, della quale Giuseppina Strepponi, moglie invidiabile per doti veramente degne del Maestro, diceva che era più grande del suo Genio. L'ottocento italico del Risorgimento, il secolo di Garibaldi, di Mazzini e di Cavour è ancora meglio definito e rappresentato col nome di Verdi, cantore e vate, aedo per i gridi della riscossa e gli inni delle vittorie. In lui era l'Italia tutta che si esaltava e cantava. Nel suo cuore erano le gioie e i dolori di tutti. Nel suo aspetto esteriore nulla che tradisse la immensità della sua anima, l'oceanica grandezza del suo genio, la tempra mirabile del suo cuore che si era formato attraverso tragedie, emozioni e tempeste abissali. Calma esteriore davanti ad ogni evento, passo saldo e incedere pacato, sguardo che solo a volte mandava lampi di fierezza, anche in mezzo ai trionfi e ai successi che forse nessun maestro potrà mai più avere eguali. Venuto da quell'Emilia che ha per base nella vita il sentimento ; da Parma che ha in tutti i suoi cittadini il gusto del canto come espressione di vita; avviatosi alla conquista dei cuori, egli ne fu veramente un dominatore, dopo che un conquistatore, per la veemenza della sua espressione, la forza della drammaticità, l'ardore delle sue creature dalla vita riprese e insublimate dall'arte. La sua universalità è la universalità dei sentimenti di ogni cuore di cui la sua arte è la voce erompente e pura. Con che venerazione si visitano i luoghi verdiani delle Roncole e di Sant'Agata presso Busseto, quando si ripensa alla infanzia campagnola di lui! ai primi faticosi passi nell'arte, alle trepidazioni sue e degli amici che avevano divinato in lui l'orma impareggiabile del genio! La casa bassa e nerastra; la chiesina dove è un organo, là dove il fanciullo estasiato sognò e n'ebbe le ispirazioni per i suoi sogni, insieme con le prime gioie musicali; la cittadina di Busseto dove compì i primi suoi studi e da cui spiccò il volo verso Milano e la gloria; la villa di Sant'Agata dove nacquero tanti capolavori... In questi luoghi c'è un'atmosfera verdiana che inonda l'anima, e che ci parla e ammonisce di un Verdi buono, benefico, dispensatore dei beni suoi a tutti i bisognosi. E questo in vita, in morte e dopo la morte. Questa umile gente ama ancora Verdi come se egli fosse ancora vivente in mezzo a loro, perchè su di essi sembra aleggiare ancora il palpito del suo grande cuore. Di quel cuore che imperturbabilmente sereno e benefico intessè il prodigio della vita di Verdi. Vita prodigiosa di artista e di uomo. * Queste pagine sulla Vita di Verdi hanno già vista la luce sul “ Corriere Emiliano » di Parma, dal gennaio al maggio, a puntate, durante le celebrazioni verdiane ch'ebbero risonanza nazionale. Questo spiega come non siasi potuto tenere una disposizione con note e richiami, come suol farsi nei libri, e non suole farsi nei giornali. Se verrà una seconda edizione tutto questo sarà fatto e di ogni autore sarà citato il libro da cui furono prese le righe che ora sono sempre segnate tra cediglie. Molti sono i libri che parlano di Verdi, ma in parte sono sorpassati o incompleti, ripetono vecchi errori o rilevano solamente un aspetto della vita del Grande: io ho cercato di consultare tutto quanto mi è stato possibile della produzione libraria su Verdi, tenendo conto anche degli articoli e studi suscitati dalla celebrazione del quarantesimo della morte, che portarono un contributo non indifferente alla bibliografia verdiana. Questo mi conforta nel dare alle stampe il mio studio, portato a termine in un periodo di intenso lavoro parrocchiale, che ha il privilegio di primato su tutto l'altro lavoro perchè per un sacerdote è più importante salvare un'anima che scrivere un poema. Ripeto che il mio lavoro è stato facilitato dalle precedenti pubblicazioni, specialmente da quella del Gatti che è sempre un capolavoro, seppure in qualche parte vorrebbe aggiornata; da quelle del Roncaglia, del Mondadori, del Checchi, del Monaldi, del Lancellotti, ecc... ma non avrei pubblicate queste pagine se qualche cosa di veramente nuovo non avessi avuto da aggiungere per quanto riguarda Verdi e la Religione, tema da me trattato in un volume a parte, ma tema non ancora esaurito, poichè fino a ieri si scriveva di Verdi non spassionatamente, e troppo di questa letteratura settaria è rimasto in giro. Ora Pizzetti, il Roncaglia, e altri si sono voltati alla tesi storicamente fondata di un Verdi profondamente religioso. Inutile ripetere che ogni volta che mi si presenta l'occasione io sostengo questa tesi, con la convinzione di chi ha studiato seriamente la cosa. Il lettore sia indulgente ricordando che queste pagine vengono da un quotidiano, che non è la palestra migliore per una trattazione importante e vastissima come la vita di Verdi, e che solo l'accoglienza gentile prestata a quelle colonne mi hanno condotto a cambiarle_ in pagine. PARTE PRIMA ALLE RONCOLE DI BUSSETO La città di Parma e tutto il suo contado è eminentemente « musicale ». Il suo teatro Regio è crogiolo di artisti, e tutto il suo popolo, dall'aristocrazia ai più umili bottegai o ciabattini, ama la musica e il canto. Si contano in tutta la provincia più di mille suonatori di fisarmonica, eredi di quel Migliavacca che deliziò Parma con le sue mazurche, delle quali una è a tutti nota. Popolo passionale e sentimentale, buono ed eccitabile, riconoscente e generoso, meritava davvero di dare all'Italia e al mondo il cantore sublime: Giuseppe Verdi. Il prof. Berri ha scritto che Verdi « esprime tipicamente il genio della stirpe, è genuino esponente di quella gente dell'Emilia, ove paiono confluire ed equilibrarsi, in una pacata ed armoniosa distensione, i caratteri etnici e geografici della Penisola ». Dalla terra irraggiata dai colori luminosi del Correggio estiva il cantore dalle note armoniose « arcangelo sublime dell'arte, bardo potente all'auspicata redenzione d'Italia ». La terra di Roncole fa parte di quella vecchia Marca Pallavicino ove fiorì sempre il culto del bello e specialmente della musica. Terra di lavoratori indefessi, che trovavano il loro svago nel canto, nei suoni e nelle danze, per le quali il nostro popolo raggiunge alle volte un grado di passione che rasenta la follia, non tanto per il ballo in sé quanto per la musica che accompagna la danza. A Busseto poi ogni avvenimento era stimato solenne solamente se allietato dai suoni e dai canti dei Filarmonici. Feste popolari o religiose attiravano moltitudini sterminate di curiosi e di fedeli quando era annunciata la presenza di questi suonatori. Già nell'incontro tra Carlo V e Papa Paolo III figuravano, come appare da un quadro raffigurante tale incontro, suonatori con molti strumenti. Il padre di Giuseppe, Carlo Verdi, era nato nel 1785, e nel 1812 si era sposato con Luigia Uttini di Saliceto. L'anno seguente il suo matrimonio era allietato dalla nascita di un bimbo che « doveva riempire della sua fama il mondo » ed al quale era imposto il nome del nonno paterno. Il padre viveva in una casa bassa e scura nella quale due stanze a pian terreno servivano da « bottega » e da osteriola. Era in un incrocio di strade, presso la chiesa parrocchiale e in essa si fermavano tutti i venditori ambulanti, i merciaioli del buon tempo antico vaganti col sacco sulle spalle, i carrettieri che andavano a prender ghiaia e sabbia nello Stirone, i vetturali che tornavano dal mercato di Busseto o di Soragna. Vino, liquori, sale e commestibili, col magro smercio di allora non davano il sufficiente a Carlo Verdi, che trafficava un poco in cento altre cose per conto suo e degli altri quasi sensale e commesso viaggiatore approfittando dei viaggi che doveva necessariamente fare per le sue compere. La famiglia Verdi abitava alle Roncole da molti anni: vuole una tradizione non confermata finora dalle ricerche, che tale famiglia provenisse dal Ponte Taro, avviata alle Roncole per Fontevivo e Soragna, per ragioni di professione, ch'era per tradizione quella di esercenti, come oggi suol dirsi. Il piccolo Giuseppe nacque il 10 ottobre 1813. La data della nascita ci è rivelata dall'Atto di Battesimo così redatto: « Io, Prevosto delle Roncole, Carlo Arcari, ho battezzato stamattina un bambino nato ieri sera alle ore otto da Carlo Verdi di fu Giuseppe, e da Luigia Uttini figlia di Carlo, coniugi di questa mia parrocchia, al quale furono imposti i nomi di Giuseppe, Fortunino, e Francesco. Funsero da padrini il Signor Pietro Casali, di Felice, e Barbara Barsani, di Angelo, tutti e due di questa parrocchia. In fede ecc... ». Anche la deposizione del padre e due testimoni fatta al Comune di Busseto secondo le leggi napoleoniche, e in lingua francese poichè allora imperava ancora Napoleone, ci testimonia di questa data precisa, mentre G. Verdi celebrò come giorno natalizio per tutta la vita il 9 ottobre 1813, per un lapsus mentis della madre che gli aveva asserito come certa tale data. Molto si è discusso su questo errore di cui si era accorto anche Verdi e ne parlò in varie sue lettere ma i due documenti non ammettono discussione e non sono soggetti ad amnesie come la memoria nostra. Forse la madre ricordava che il figlio Giuseppe era nato nella festa di San Donnino, che per tutti i paesi della Diocesi di Borgo San Donnino, oggi Fidenza, ha un carattere eccezionale, ed è fiera dei più svariati divertimenti nella cittadina di Fidenza, insieme che festa religiosa. Forse in quell'anno la festa ebbe il suo massimo svolgimento il giorno 10, o per pioggia nel giorno antecedente, o per ricorrenza di domenica il 10 stesso, in modo che il ricordo materno della coincidenza della nascita del suo primogenito con la festa del Protettore diocesano, non era per quell'anno nel giorno voluto dal Calendario, 9 di ottobre. La festa di San Donnino attirava anche allora la gente di tutti i paesi vicini e lontani della diocesi, e l'eco di antichi divertimenti e spettacoli durava ancora al tempo dei nostri padri. Forse anche il fanciullo Verdi che amò sempre Fidenza e vi si recava ai mercati quando comperò i fondi attorno alla villa di Sant'Agata, vi si recò fanciullo a piedi dalle Roncole. Giuseppe non ebbe fratelli. Ebbe una sorella. « povera creatura inferma, scemata delle facoltà mentali, e destinata a precoce morte ». Noi amiamo ritornare ai ricordi dell'infanzia. E anche dei Grandi amiamo sapere della loro formazione puerile fino all'adolescenza. Di Giuseppe Verdi abbiamo episodi leggendari ed episodi realmente accaduti. Intanto ricordiamo ch'egli cresceva nella casetta a lato della chiesa parrocchiale dove ben presto imparò a servire all'altare in cotta bianca, e a cantare i Vespri e le Messe nelle feste solenni. Il parroco Don Carlo Arcari, in ricambio gli faceva scuola, quella scuola parrocchiale che teneva allora luogo delle nostre scuole elementari, comparse molto tardi nelle nostre campagne; scuola che comprendeva anche i primi elementi di latino per il canto ed il servizio in Chiesa, giacchè allora tutto il popolo partecipava in massa alle funzioni sacre e in ogni parrocchia vi era un gruppo numerosissimo di cantori che allietava le funzioni domenicali. In certe occasioni si vuotavano le case. Nell'archivio parrocchiale delle Roncole è fatta memoria di feste con processioni solennissime, specialmente della processione del Venerdì. Santo, con partecipazione di seimila, e una volta anche di diecimila persone, numero che si spiega con la partecipazione dei fedeli e del clero delle parrocchie vicine. In territorio delle Roncole sorgeva allora il Santuario della Madonna dei Prati, che ora è eretto in parrocchia autonoma. Molte funzioni si tenevano durante l'anno in questo Santuario, funestato poi da una disgrazia terribile come vedremo. Sempre in territorio delle Roncole era un Oratorio detto della Bassa dei Mai, una Maestà detta dei Sette Dolori e una Cappellina della B. V. della Pietà. Nell'Oratorio della Bassa dei Mai si tenevano nel secolo scorso le funzioni serali del mese Mariano, quelle orazioni e canti alla Vergine in aperta campagna, nelle tepide serate di primavera, che sono ancora una delle cose poetiche non abbandonate dal nostro popolo. Il piccolo Verdi vi avrà provati i primi sussulti di gioia del suo cuore di bimbo, nel quale andava rivelandosi un gigantesco poema musicale. Quando poi la sera delle domeniche, davanti la bottega paterna, si fermavano a bere e a cantare gli anziani e i giovani della frazione in gara di canto; quando i Filarmonici che avevano fatto sfoggio di suoni e di voce nella chiesa parrocchiale si radunavano al pranzo o alla cena, e prima di lasciare il paese, erano invitati con modi che non ammettevano discussione, a dare l'ultima prova della loro bravura, che cosa non ha provato il piccolo Verdi? Egli estasiato e delirante avrà sentito palpitargli nelle vene il fremito di un desiderio, fermentare una passione dominante, bruciargli l'anima a volontà fatta voluttà di dare a tutti un canto sovra ogni altro poderoso. Gli episodi leggendari sulla fanciullezza di Verdi sono due. Uno lo racconta Italo Pizzi, il famoso glottologo orientalista che ebbe confidenza con Verdi e di lui scrisse due volumetti di ricordi e di impressioni. Vuole il Pizzi che un suonatore ambulante dicesse a Luigia Uttini: « Sentite Luigia: quando nascerà il vostro ragazzo noi verremo tutti a suonare sotto la vostra finestra ». Che sia nato proprio un maschietto, che i suonatori si siano immancabilmente recati sotto la finestra a strimpellare, e che Verdi abbia intrecciato i suoi primi vagiti alle più popolari note musicali, ha troppo sapore d'invenzione e di leggenda. Parrebbe di leggere la vita di un predestinato. Il secondo episodio che ha avuto l'onore di essere ricordato in una lapide nella chiesa delle Roncole, lapide muratavi però un secolo dopo, ricorda la calata dei russo-austriaci; strumenti dí riconquista aí monarchi della coalizione, risorti sulle rovine dell'impero napoleonico. Al passaggio di queste milizie o soldataglie, spintesi fino alle Roncole, gli abitanti del luogo, più vicini alle strade di passaggio, si rifugiarono in chiesa e vi fu chi si spinse fin sul campanile. Tra costoro sarebbe stata anche Luigia Uttini stringente tra le braccia il figlioletto Giuseppe. Anche se la cosa ebbe fondamento di verità, essa dovette assumere proporzioni meno tragiche, poichè il Maestro non ne fece mai cenno con alcuno. Egli accennò più volte invece ad un altro episodio, che però fu travisato e di molto esagerato. Ne parlò il Maestro col De Amicis a Genova e lo ricordò anche nel 1900 quando inaugurò l'organo rifatto alle Roncole, essendo parroco Don Antonio Chiàppari, che aveva il culto della musica verdiana, e che amava ed era ricambiato da grande benevolenza dal Maestro. Il fatto sostanzialmente si riduce a ciò: Verdi giovanetto serviva all'altare e si era talmente distratto al suono dell'organo o al canto di un intermezzo extru-Missam che non si accorgeva più di essere all'altare con le ampolle in mano per somministrare il vino al celebrante, il quale pensò di richiamarlo alla realtà, dopo averlo avvertito sottovoce, con uno scappellotto, tanto più ineducato per il luogo, il tempo, e il motivo. Il quale motivo per Verdi era la suprema delle attrattive: la musica. Forse gli caddero le ampolle, forse inciampò e cadde egli stesso, fatto sta che su lui si posò l'attenzione di tutti i fedeli e la brutta figura non poteva esser più solennemente in2 - F. Botti, G. Verdi oresciosa. Il sacerdote, come ho dimostrato in altre pagine, era Don Giacomo Marzini, di Rocca Sigillina, nel pontremolese, cappellano delle Roncole, di cui era parroco Don Montanari, per la sopravvenuta morte di Don Carlo Arcari. Don Montanari, amava il piccolo Giuseppe che già sapeva suonare e sedere all'organo nei giorni meno solenni. Tanta fu la umiliazione per Verdi che raccontando l'episodio aggiungeva scherzosamente: « Ma poi quel prete fu castigato severamente, perchè mori fulminato al Santuario della Madonna dei Prati pochi anni dopo ». Don Marzini infatti figurava nell'elenco delle persone colpite dal fulmine il giorno 14 settembre 1828, durante il canto dei Vesperi, per improvviso temporale che scatenò saette sulla pianura padana, una delle quali appunto uccise ben quattro sacerdoti officianti in coro, e due persone di Roncole, sarti ambedue. Strano! Proprio il parroco delle Roncole, Don Montanari, che era il celebrante, rimase miracolosamente illeso. Lo dice anche una lapide murata nel Santuario, a sinistra dell'altar maggiore per volontà del Vescovo di Fidenza, Mons. Sanvitale. Quando accadde questo terribile fatto Verdi aveva quindici anni; si era recato al mattino a cantare per la Messa solenne nel Santuario della Madonnina dei Prati, poi aveva pranzato presso la famiglia Michiara, ritardando provvidenzialmente il suo ritorno al Santuario per le funzioni del pomeriggio, anche perchè sorpreso lungo la strada dal temporale pauroso. Alle Roncole si dice che Verdi pranzò a casa sua, e che si rifugiò in casa Michiara perché sorpreso dal temporale. Ma nel racconto di questo episodio oltre che all'errore di attribuire lo scappellotto al Parroco, si fa ancora quello di parlare di un calcio. Come poteva un Sacerdote dare un calcio a un chierichetto che gli stava davanti con le ampolle in mano? Si è fatta confusione con un altro episodio già da me raccontato e ricavato nel Bussetano. Durante la S. Messa Verdi una volta aveva tratto dal campanello un motivo che gli piaceva immensamente, e non desisteva dal ripeterlo e completarlo, fin che il Parroco o altro sacerdote celebrante, lo fece smettere allungando un piede verso lui e verso il campanello suo complice. Il risentimento di Verdi si spiega ancor meglio se si pensa che egli doveva avere allora 12 o 13 anni, quando già era alle scuole di Busseto. Un episodio infine che è raccontato nella Rivi-vista Giubilare pubblicata a Busseto nel 1926 merita di essere riportato per esteso: « Nella chiesa di Roncole si trovavano un giorno a celebrare una funzione solenne i Filarmonici di Busseto, diretti da Antonio Barezzi, capo ed anima di quella Società. Nella tribuna dell'organo, certo trattovi dal suo inconsapevole istinto, ecco il piccolo Giuseppe, il quale, nel momento della sosta della musica e dei canti si divertiva ad abbassare qualche tasto dell'organo cavandone perfetti accordi con qualche nasale antifona dei preti celebranti. Lo rabbuffò più volte il buon Ba-rezzi ; ma ne rise in cuor suo da buon orecchiante per la perfetta intonazione e non nascose a Carlo Verdi la sua scoperta. Appassionato come egli era per la sua Filarmonica andava sempre cercando nuove reclute per la scuola di musica tenuta dal Provesi e per la sua Filarmonica che godeva fama secolare in tutto il Ducato di Parma ». Il padre di Verdi si riforniva a Busseto, per la sua bottega, da Antonio Barezzi. Anche questo fatto ci fa venire ad una supposizione probabile: a regalare al piccolo Giuseppe una spinetta a forma di tavolo deve essere stato il Barezzi, sia per la generosità del suo animo, avendo scoperto tanta attitudine alla musica nel fanciullo, sia per segno di amicizia verso un tanto assiduo cliente. In tal modo poi Verdi si preparava a diventare un discepolo del Provesi, Maestro di musica a Busseto. Altri pensano che sia stato l'organista delle Roncole Pietro Baistrocchi, il quale aveva notato che il fanciullo cavava dall'organo, motivi, canzonette, inni di chiesa con perizia insolita e sempre a memoria poichè nessuno gli aveva insegnato niente ancora di tasti e note musicali. Si è pure affermato che la spinetta sia stata comperata dal padre presso qualche prete di parrocchia vicina alle Roncole, per pochi soldi, in vista delle insistenze del figlio e delle sue attitudini straordinarie. Fatto sta che a Giuseppino Verdi giunse finalmente tra le mani uno strumento sul quale pestare le dita giorno e notte. I suoi compagni di scuola lo invidiavano. Al padre sorrideva la speranza che alla morte del Baistrocchi già vecchio assai, il figlio suo divenisse l'organista delle Roncole e cominciasse presto a guadagnare qualcosa per la famiglia. Ma intanto Verdi aveva già ridotto in pochi giorni a mal partito la povera spinetta. Forse avvenne che, come qualcuno affermò, non potendone avere una nota a suo piacimento, castigò la spinetta e il tasto irriducibile con una martellata. Fu chiamato allora Stefano Cavalletti a riparare lo strumento che forma ora prezioso cimelio della Casa di riposo per musicisti a Milano. Il Cavalletti fece le cose per bene, e volle sentire il ragazzo a suonare. Bravo! Ne fu tanto meravigliato che non volle essere pagato, e dimostrò grande gioia di aver potuto fare tale riparazione, a consolazione di un fanciullo che avrebbe fatta « molta strada nel mondo ». Rilasciò un cartellino da apporre nell'interno della spinetta, con questa scritta. « Da me Stefano Cavalletti fu fatto di nuovo questi saltarelli e impenati a corame, e vi adattai la pedaliera che ci ho regalato; come anche gratuitamente ci ho fatti li detti saltarelli vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi d'imparare a suonare questo strumento, che questo mi basta per essere del tutto pagato. Anno Domini 1821 ». Questa apposizione latina si spiega col fatto dell'insegnamento latino nel ginnasio a Busseto, per cui anche gli artieri sapevano biascicarne un poco? In quanto al giovinetto Verdi è da notare che aveva allora 8 anni. E se una testimonianza era necessaria per dirci la sua precoce inclinazione alla musica, nessuna come questa poteva essere significativa. A BUSSETO. IL BAREZZI, IL PROVESI E IL SELETTI Con la spinetta famosa Verdi si sbizzarriva nei cieli della musica. Ad aiutarlo si fece avanti il Maestro Baistrocchi, che gli insegnò i primi rudimenti musicali. C'era poi alle Roncole un fanciullo coetaneo di Verdi, certo Giovanni Biazzi, che studiava a Parma, era appassionato di musica e quando tornava da Parma portava le composizioni musicali di moda. Con Verdi si esercitava a impararle. Intanto moriva Don Carlo Arcari. Altri progressi nella musica non si potevano fare perchè il Baistrocchi era stato superato dal decenne discepolo. Era giunto il momento di mandare il fanciullo a Busseto. Il Barezzi insistette presso il padre di Verdi. E così fu trovata una modesta pensione per il fanciullo, presso un ciabattino detto Pugnatta, per trenta centesimi al giorno. Ma il cibo era poco e Verdi si portava da casa delle grosse fette di polenta che andava ad abbrustolire sullo scaldino di un fruttivendolo vicino, che vendeva anche le castagne arrostite. Intanto alle Roncole si gioiva al vederlo e sentirlo ,suonare l'organo ogni festa e domenica al posto del Baistrocchi, e gli era stata assegnata una paga di trenta lire all'anno, divenute poi quaranta, le quali compensavano le spesa per il ciabattino, ridotte per le vacanze e i giorni di assenza del fanciullo. Verdi però doveva fare a piedi i sette chilometri di strada che separano Busseto dalle Roncole, e rifarli al ritorno, spesso nel buio della sera o al primo spuntare dell'alba, tanto che una volta, si dice, cadde in un fossato pieno d'acqua da cui fu tratto salvo, ma tutto intirizzito. Ma tutto questo non è che il principio della via dolorosa percorsa dal fanciullo per arrivare alla meta agognata. Comprendeva che era necessario studiare e istruirsi, poichè a Busseto molti giovani facevano sfoggio di erudizione e gli studenti più avanzati nei corsi facevano lodate comparse nelle feste e nelle accademie. Il Maestro Provesi aveva perfino voluto creare in Busseto una scuola di recitazione e il Barezzi non mancava di preparare spesso trattenimenti, che riuscivano magnificamente e attiravano tutta la popolazione non tanto per quella concordia che era allora in tutti i cittadini, divisi da partiti non politici ma per questioni locali che servivano ad emulazione per superarsi, quanto perchè in tali trattenimenti figuravano i fanciulli del paese, dei quali si seguivano i successi e i progressi. Piccola capitale della Marca dei Pallavicino, ripetiamo, Busseto conservò sempre il desiderio di superare le antiche glorie e il Gatti enumera le scuole, da quella di pittura a quella di musica, che fiorivano al tempo in cui Verdi si iscrisse alla suola del Seletti. Una biblioteca ancora oggi fiorente prestava ai giovani libri fondamentali di cultura, ed i giovani non sviati dallo sport che, se dona energie, troppe volte ne disperde altre più preziose dello spirito, nè dalle letture di giornali o riviste, vi attingevano abbondantemente. Come non ricordare quante ore passò Giuseppe Verdi nella biblioteca di Busseto, o sui libri che da essa portava a casa, non esclusala Sacra Scrittura che apriva alla sua mente un mondo immenso e sterminato di cognizioni umane e divine? Come non ricordare che egli passava le notti insonni per formare la propria vita culturale ed essere il primo dei discepoli, poichè è stato tramandato che il suo temperamento di fanciullo serio e pensoso si era maggiormente acutizzato a Busseto e si era fatto anche scontroso, per sentimento di intima superiorità e volontà tenace di raggiungere un'altissima meta ? Era tanto noto a tu tti che egli passava le notti sui libri che la moglie del Barezzi lo volle in casa sua dopo un fattaccio di cui diremo più innanzi. Tre persone Verdi trovò in Busseto che lo formarono e prepararono degnamente alla futura grandezza. Il Barezzi che fu suo secondo padre, sia per affetto durato ininterrottamente e ricambiato da duraturo amore da Verdi, sia per l'aiuto finanziario cognito e incognito, quanto infine per l'aiuto morale a lui dato, e i consigli a lui e al padre suo, che ingolfato nei piccoli affari considerava la vita come qualcosa che debba servire a realizzare un miglioramento di condizione il più presto possibile. Egli poi aveva bisogno di aiuto essendo questo il suo primogenito, ed avendo una bottega alla quale non sempr'e la moglie poteva pienamente accudire. Ma il Barezzi seppe vincere e convincere sempre il padre di Verdi; il Barezzi ebbe fiducia sempre maggiore nel genio del giovinetto e lo condusse fino alla gloria, dandogli poi in isposa anche la propria figlia. Il Barezzi godeva di vedere in casa sua il fanciullo studioso, ne seguiva i progressi, lo aiutava nello studio della musica nella quale gli era maestro principale il Provesi. — Chi era questo Provesi, che nel film disgraziato su Giuseppe Verdi fu vestito da prete? Era il Maestro di musica di Busseto. Parmense di nascita aveva anche studiato a Parma sotto quel famoso maestro Ghiretti ch'ebbe tra i suoi scolari Ferdinando Paér e Nicolò Paganini. Dopo anni fortunosi da Milano ad Asola in Lombardia era stato chiamato a Busseto a reggere l'ufficio di organista della Cattedrale, Maestro di Cappella, direttore della Scuola comunale di musica, e istruttore dei Filarmonici. Impegni ch'egli assolvette degnamente con le sue non comuni qualità anche se molti cittadini non lo vedevano di buon occhio per le idee un po' giacobine e libertarie. Il Provesi intuì immediatamente le superiori doti del Verdi e lo curò amorosamente come un maestro che cura un suo successore, godendo di veder risorgere e in tali mani le antiche glorie musicali. Il Provesi dava lezioni di musica a Verdi, ma le lezioni letterarie gliele impartiva il Seletti, canonico della Cattedrale appartenente a quella nobile e distintissima famiglia dei Seletti che tanto onorò Busseto. Niente di più naturale che il Seletti, sacerdote, insegnante alle scuole comunali, conoscitore di musica e suonatore di violino per diletto, membro delle varie società bussetane, spirito superiore per cognizioni e sentimenti, covasse un poco di malfidenza verso il Provesi, adirato contro la Restaurazione e animo ribelle. Ma niente altro tra i due. Si è voluto drammatizzare il complesso di rapporti del Provesi con Seletti in riguardo a Verdi. Il primo aveva sul giovinetto i suoi disegni veramente onorevoli, il secondo ne voleva fare un prete, cui sí confacevano le qualità taciturne, senza malizia o bizzarrie mondane dell'allievo. Ma tutto si risolse un giorno quando venne a mancare l'organista in chiesa, certo Capitan Soncini. Si trattava forse di una funzione secondaria poichè nelle solenni non era lo stesso Provesi l'organista? e in queste funzioni feriali suona — (anche il suo nome era sonoro) — Capitan Soncini. Quasi senza accorgersene il Seletti si rivolse a Verdi e gli disse: « Ti senti di sedere all'organo? Del resto egli sapeva che alle Roncole suonava ogni domenica. Verdi andò. Il Seletti stette in ascolto e quasi non potè credere a se stesso. Il giovinetto pareva giocarsi e trastullarsi dell'organo dal quale traeva voci e suoni divini. Basta! La carriera ecclesiastica sarebbe un peso e un impedimento allo sviluppo delle meravigliose doti musicali del suo allievo. Basterebbe questa decisione onesta e senza prevenzione alcuna, decisione che il Seletti trasformò in consiglio immediatamente rivolto a Verdi, a dirci la nobiltà del Seletti stesso. Del resto Verdi amò per tutta la vita il Seletti non tanto per riconoscenza a chi lo aveva amorosamente istruito nelle lettere e nella storia, quanto per un certo spirito « liberale » e di comprensione del nuovo mondo in formazione per il quale si distingueva pur nella serietà di costumi e di vita sacerdotale. Si serviva del Canonico Seletti per la beneficenza dando ad ogni sua richiesta, e lo aveva a pranzo a Sant'Agata ogni settimana, al giovedì, immancabilmente, mandandolo a prendere col suo calesse. Quattro anni cli studi classici e musicali fanno di Verdi un agile e facile compositore di marce, di rondò, cli mottetti, ballabili e riduzioni di pezzi d'opera. Il Barezzi gli spalanca la sua casa e Verdi può suonare sul pianoforte, invece che sulla vecchia spinetta. Il Provesi è malaticcio, è stanco, la scuola lo affatica e si fa aiutare da Verdi nell'insegnamento. Sono i primi gradini dell'ascesa e della rivelazione del genio di cui si farà gran discorrere per Busseto e per i dintorni. Seguiamone anche noi le tappe luminose, trampolino per spiccare il salto verso la metropoli lombarda, dove lo attenderà il crogiolo del dolore per insublimarlo attraverso tenacia, forza, ardimento, e fede nel proprio avvenire. A quindici anni Verdi fa ai bussetani una sorpresa che li infiamma di entusiasmo per il quindicenne compositore. « Nel teatro di Busseto, racconta il Gatti, si rappresenta Il barbiere di Siviglia. Impossibile privare la popolazione di Busseto del piacere di udire i bravi Filormonici e togliere a questi l'occasione di avere uno dei soliti trionfi con una sinfonia nuova. Il giovine Verdi, all'insaputa del suo maestro Provesi, ne scrive una, ne copia le parti e la fa provare all'orchestra. Reputata « non ispregevole lavoro, fu quindi stabilito che fosse meritamente posta innanzi all'opera ». Le ovazioni che ebbero dal pubblico furono tanto e tanto clamorose ». Entusiasmatosi lui stesso, Verdi, si diede a comporre e vesti di note i deliri di Saul. Inoltrò domanda ai Fabbricieri di Soragna di essere scelto come Maestro di Cappella o organista della chiesa di S. Giacomo, anche per soddisfare ai desideri del padre e averne mezzi per le sue crescenti esigenze: ma la scelta cadde su altra persona. Raddoppiò la sua attività. « Si rimette allo studio e al lavoro di composizione, pronto a soddisfare i desideri di tutti ; diversi pezzi per flauto, per clarinetto, per fagotto, per corno, con accompagnamento e ripieno di orchestra » secondo la nota autografa del Barezzi, e pezzi per canto per pianoforte, per organo, in quantità strabocchevole. Verdi ormai a sedici anni è maestro compiuto. Scrive ogni genere di composizione e suona il pianoforte in modo che nessuno può competere con lui. Il Provesi lo considera suo pari e Antonio Barezzi sente che ora la sua vita si è fatta piena poichè ha contribuito a formare un così bell'ingegno musicale. Tanto il Barezzi che il Provesi si sentono un dovere di far conoscere le doti del loro protetto. Non possiamo tacere le accademie che si davano in casa Barezzi, il quale aveva una sala detta appunto accademica, e il testo della lettera-invito dettata dal Provesi per il Podestà locale: « Ill.mo Signore — le due Società, musicale e poetica, che nella sera di domani 10 corrente, offriranno per la prima volta un saggio delle loro produzioni nella sala Accademica del Signor Barezzi, si fanno un dovere per invitare per mezzo mio la S. V. Ill.ma unitamente alla sua rispettabile famiglia. Nulla potrà tornare di più caro e di più glorioso alle duo Società stesse del vedersi onorate della presenza di chi adempie le funzioni della Primaria autorità Comunale. Sarà essa la più efficace animatrice di quel genio che in oggi sorge e che diverrà ben presto il più bell'ornamento di questa patria. Nel presentare i sensi della più distinta stima, rispettosamente mi segno suo dev.mo F. Provesi D. Nessun documento come questa lettera ci dice quanta stima e quante speranze nutrissero per il giovinetto Barezzi e Provesi. Il Barezzi ora, lo teneva in casa sua il più possibile, e fra poco Verdi vi passerà anche le notti. Altro episodio che ha un suo sfondo popolare da non dimenticare è quello della Processione del Venerdì Santo a Busseto, avvenimento eccezionale per concorso di fedeli e di curiosi, nel quale Verdi potè far suonare alla Filarmonica quattro sue marcie, che attirarono le lodi e l'ammirazione di tutto il pubblico. Eravamo nel 1830. Ma intanto nel cuore giovanile di Verdi s'insinua dolcemente e insensibilmente la fiamma dell'amore, del primo amore. Egli frequenta la casa Barezzi, egli è amato e stimato da tutti in quella casa, egli siede con loro a mensa rispettato con venerazione amorosa per la sua serietà e per il suo genio, egli dà lezioni alla figlia di Antonio Barezzi', Margherita... Dolcemente, soavemente, i due giovanetti incominciano ad amarsi. Sentono la gioia luminosa all'amore, ma nello stesso tempo trepidano davanti alla severità del padre. Cercano di nascondere il loro amore. Ma come ogni fiamma si fa sentire di lontano con qualche scoppiettio, così la fiamma dell'amore si rivela ben presto, ed anche il Barezzi s'accorge di quanto sta avvenendo tra i due giovani. Niente di più naturale. Ma è troppo presto. E poi Verdi è così serio e tutto avvinto dal sogno della sua musica che non può sconfinare e perdersi nel sogno dell'amore. Queste sue doti morali, (che restarono in Verdi per tutta la vita) — e le speranze nel suo genio che stavano diventando realtà non ritennero il Barezzi dall'acconsentire a tale relazione, pur se la gente immancabilm ente maligna avrà pensato che la sua figliola, ricca, bella, e delle migliori famiglie di Busseto avrebbe potuto desiderare partito migliore che il figlio di un oste delle Roncole, sia pur dotato di genio ,musicale. Il Barezzi ha tale fiducia nel giovanetto pie lo prende in casa sua anche le notti, onde possa studiare con maggiore calma e assiduità, nel silenzio notturno, intanto che si sarebbe provveduto a inviarlo a qualche Conservatorio. Il fatto che diede la spinta a prendere il Verdi in casa anche la notte fu, come accennammo, un episodio di banditismo, ancora facili a capitare in quei tempi. Alcuni malandrini avevano tenuto d'occhio un certo Levi Isacco, ebreo, il quale aveva venduto un podere e ne doveva percepire la paga. Predisposto un gruppo sotto i portici della casa del Levi, essi salirono alle sue stanze,, lo imbavagliarono, lo portarono nel solaio e lo sgozzarono tranquillamente. Una sua nipote, Rina Muggia fu crivellata di colpi e semiviva buttata sotto il letto, mentre la moglie potè salvarsi miracolosamente per una porta da essa abbattuta con una forza che le circostanze tragiche resero sovrumana. Naturalmente gli assassini avevano convenuto segretamente col servitore di casa Levi detto Cantaben, che fu tra i pochi arrestati dopo il truce fatto. Casa Levi era vicinissima a Casa Barezzi e la moglie di Antonio Barezzi senti e comprese ciò che avveniva in casa Levi riportandone tale spavento da non poter più dormire la notte. Poichè il giovinetto Verdi vegliava la quasi intera notte per i suoi studi, essa pensò che in tal modo Verdi avrebbe reso loro il piacere fattogli ricevendolo in casa come persona di famiglia. Ma tanto Verdi, per la sua coscienziosità e conoscenza del pericolo, che il Barezzi per tale situazione e la necessità di avviare il giovane alle sognate mete escogitarono il modo di lasciare Busseto e perfezionarsi nell'arte musicale onde « il genio che sorgeva divenisse presto il più bell'ornamento della patria ». PARTENZA DI VERDI PER MILANO Antonio Barezzi comprende, dicemmo, la necessità di inviare il giovinetto Verdi a Milano, per completare gli studi. Il padre è riluttante perchè non arriva mai il giorno in cui questo figliolo possa essergli utile nelle molte faccende della sua osteriola, e non gli procura in nessun modo denaro ad alleggerire le sue fatiche. Altri figli non ha, se non quella povera fanciulla senza naturale discernimento, seppure dotata di bellezza angelica, e che morirà a diciannove anni alle Roncole, tanto amata dal fratello. Ma Barezzi sa che Verdi è destinato a qualche cosa di grande, ne è convinto come della luce del sole che rinasce ad ogni mattino. E si fa a parlarne con insistenza a Carlo Verdi. Escogita con lui i modi coi quali poter inviare il giovane a Milano, senza spesa da parte dei suoi genitori, le cui entrate sono tanto misere, da essere appena sufficienti a barcamenarsi giorno per giorno. Un mezzo è trovato. Il Monte di Pietà sovvenziona i giovanetti volenterosi del paese e dei dintorni che si dedicano agli studi e alle belle arti. Ma ecco subito un'altra difficoltà: i posti non sono disponibili e solo fra due anni due di essi saranno vacanti. Questi posti sono come tante Borse di studio come oggi amiamo chiamarle, e Verdi ha già diciotto anni, e non può quindi aspettare. Nella mente e dal cuore di Antonio Barezzi nasce ancora un'idea che ci dice del suo affetto e della sua fede incrollabile in Giuseppe Verdi. Egli è disposto ad anticipare la sovvenzione a Verdi, per i suoi studi a Milano, fino a che sia percepibile quella del Monte di Pietà, che gli sarà restituita a tempo debito. E perchè non si dica che egli dà soltanto appoggio morale al Verdi, il Barezzi anticiperà il doppio di quanto può dare il Monte di Pietà. E così. fa subito inoltrare una domanda a Carlo Verdi in favore del figliolo, nella quale è detto tra l'altro: «... Onde possa del tutto perfezionarsi nell'arte musicale, in cui ha fatto conoscere non ordinari talenti sì nell'eseguire che nel comporre ». Parole queste naturalmente stillate dallo stesso Barezzi, il quale non si scoraggiò davanti alla lenta risposta, e pensò di indirizzare una lettera del padre di Verdi direttamente alla Munificentissima Maria Luigia, duchessa di Parma e Piacenza ecc... Anche in questo documento vogliamo notare le frasi che parlano bellamente dell'amore e dei progressi di Verdi nella musica: « Vieta la modestia dell'umilissimo oratore l'esaltare i meriti del proprio figlio nella bell'arte a cui si è dedicato ormai da quattro anni. Egli ode soltanto con la più dolce espansione del cuore le pub3 - F. BOTTI, G. Verdi bliche plaudenti acclamazioni che vengono fatte allo stesso ovunque si fa sentire toccando il pianoforte o producendo le sue composizioni in ogni genere di musica sia vocale che istrumentale. Lo affligge soltanto la bisognevole sua situazione, vietandogli il poter continuare al figlio i mezzi onde approfondirsi del tutto nelle armoniche composizioni. Il qui unito attestato basterà a giustificare l'esposto, quando che non si richiedesse il comprovarlo con apposito esperimento; determinazione la più gradevole e desiderata sì per l'alunno che per l'istruente, non che per lui che la Sovrana Benefica contemplazione implora Dato alle Roncole di Busseto il 14 dicembre 1831. La petizione alla Sovrana passa dai Consiglieri al Presidente dell'Interno che era Francesco Cocchi, e da questi rispedita a Borgo San Donnino, donde il Commissario informa e domanda risposta dalla presidenza del Monte di Pietà di Busseto. A Busseto si tiene un'adunanza straordinaria del Presidente e consiglieri del detto Monte per prendere in esame la domanda e la proposta fatta dal Barezzi di anticipare le annualità fino alla loro maturazione, e dopo un verbale che sarebbe interessantissimo rileggere, viene deliberato affermativamente. Leggiamo piuttosto la chiusura della lettera del Podestà Accarini, presidente anche del Monte di Pietà, indirizzata a Carlo Verdi per annunciargli l'approvazione della concessione di sussidio al figlio suo Giuseppe: « Nel compiacermi di questo uffizio che con tanta soddisfazione sento al cuore, raccomando con, ogni calore che il rammentato di Lei figlio si dedichi con alacrità nell'Ardua Carriera da esso intrapresa, giacchè natura per questo non volle essergli avara, onde un giorno vederlo utile a se stesso, ai propri genitori, grato alla Amministrazione beneficante, e di lustro alla Patria e allo Stato ». Questa aspettativa del Signor Accarini, stillata il 13 febbraio 1832, era in tutti i bussetani, e Verdi la soddisfece ad esuberanza ogni giorno più in tutta la sua vita: « Lustro alla Patria e allo Stato ». La Patria era Busseto, lo Stato era il piccolo nostro Ducato di Parma e Piacenza... Nella lettera di ringraziamento del padre di Verdi a nome anche del figliolo, indirizzata al Podestà è detto che tale opera di beneficenza « porge i mezzi ad un povero giovane, onde progredire nella già intrapresa musicale carriera, con isperanze non dubbie di felice successo e di futura onorevole sussistenza... ». In quella invece del Barezzi, ugualmente di ringraziamento , è detto, in fine: « Così io pure avrò contribuito unitamente alla Sig. Vostra Ill.ma all'assistenza di un povero giovane, che, fornito da natura di un genio singolare nella musica, va a rendere pienamente compiute le sue non meno che le comuni speranze dei suoi sostenitori ». Chi è che non noti come in tutti questi documenti si accenni ogni volta e con la massima indifferenza insieme che con la più grande convinzione al genio straordinario e promettente di Verdi? Alla fine di maggio è pronto il passaporto. Il Barezzi e il Provesi accompagnano Verdi a Milano; quegli per raccomandare Verdi al suo amico Seletti, abitante vicino al Ginnasio, e questi per raccomandarlo a sua volta ad Alessandro Rolla, professore di violino e di viola al Conservatorio musicale di Milano, fondato proprio in quell'anno. Il Rolla veniva da Parma e si era trasferito a Milano nel 1802, come capo d'orchestra del Teatro della Scala. LA PRETESA « BOCCIATURA » DI VERDI PER « INETTITUDINE » Ci troviamo ora di fronte a uno dei fatti più dibattuti nella vita del Grande. Possiamo e dobbiamo veramente essere grati agli autori che hanno studiato ed esaminato coscienziosamente il fatto, per stabilire quanto noi andremo riassumendo, sulla scorta del Gatti, che è il principale e il migliore biografo del Maestro, e che ha maggiormente contribuito a sfatare la pretesa « bocciatura » di Verdi all'esame subito al Conservatorio di Milano. Verdi presentò una supplica al Governo per essere ammesso al Conservatorio, dove era censore e fu capo della Commissione esaminatrice Francesco Basily. A questo nome il lettore sente certamente un sussulto di disprezzo per quest'uomo che avrebbe bocciato Verdi, sia per la cattiva impressione che gli fece il suo apparire e comportarsi dimesso e volgare, come asserirono alcuni, sia per non avere Verdi sostenute con la necessaria competenza le prove alle quali venne sottoposto, come dissero e scrissero altri, sia infine per inettitudine alla composizione musicale dimostrata davanti agli esaminanti. Niente di tutto questo. Verdi chiede di essere ammesso al Conservatorio, dove sono accettati i ragazzi dell'età massima di 14 anni, e solamente se i richiedenti superiori a tale età dimostrano qualità eccezionali sono ugualmente ammessi. Egli subisce l'esame o prova. Dopo di essa il Basily trasmette il suo rapporto al Presidente del Conservatorio conte Sormani: « In quanto alle composizioni che presentò come sue sono perfettamente d'accordo col Signor Piantanida, maestro di contrappunto e Vicedirettore, che applicandosi esso con attenzione e pazienza alla cognizione delle regole del contrappunto potrà dirigere la propria fantasia che dimostra di avere e quindi di riesci-re presumibilmente nella composizione... Mi permetto di osservarle che il copioso numero degli allievi nella ristrettezza del locale mi fan sentire continui lamenti per le difficoltà di dover studiare insieme in una medesima scuola, e specialmente quelli del pianoforte, i quali debbono ripartirsi il tempo in un solo strumento ». Il rapporto deve ammettere le qualità eccezionali di Verdi « in quanto alle composizioni », ma per la paura che sia accettato fa subito presente la deficenza dei locali. Oltre il fatto che Verdi non diede buona prova nell'esperimento sul pianoforte, per la cattiva posizione delle mani. Il Conte Sormani, presidente del Conservatorio passa poi ad un Segretario del Governo a nome Giuseppe Corbari dopo che il Sormani ha rincarato la dose sul fatto della « ristrettezza del dormitorio » mentre il Corbari da parte sua fa notare che il richiedente è « estero » per soprappiù, come a dire che non c'è posto per richiedenti del regno Lombardoveneto e quindi tanto meno se ne potrà trovare per un « estero ». E aggiunge: « E' risultato dall'esame datogli nel suono del pianoforte che non ha disposizioni favorevoli ». Propone quindi di restituire l'istanza... Riepilogando : la Commissione è prevenuta dal fatto che non sarà possibile trovare posto nel Conservatorio data la ristrettezza dell'ambiente, e dal fatto che Verdi è « estero ». Si cerca quindi un appiglio, che viene trovato nella disposizione delle mani sul pianoforte. Il Governatore di Milano Conte Francesco di Hartig, ai 9 di luglio, prepara quindi il suo bravo responso definitivo in questi termini: « In vista di quanto venne esposto nel di lei rapporto 3 corrente, numero 198, intorno l'istanza di Giuseppe Verdi che ha oltrepassato di quattro anni l'età normale, chiedente di essere ammesso come alunno pagante in codesto Conservatorio; il Governo non ha trovato di assecondarla. Vorrà ella, signor Conte Direttore, restituirla al ricorrente con conforme dichiarazione ». Verdi non fu adunque « bocciato » in composizione, ma ritenuto mediocre pianista. L'esito è uguale, le conseguenze sono le medesime, ma il motivo è ben differente. Il Maestro Rolla, che si era preso a cuore il raccomandato del Provesi, non sa come dire a Verdi tutto quello che è avvenuto, e con un modo il più possibilmente garbato e velato gli dice: « Non pensate più al Conservatorio. Sceglietevi un Maestro in città ». Intanto ne dà comunicazione al Provesi, mentre il Seletti ne scrive al Barezzi. Il Segretario comunale di Busseto Giacomo Stefanelli vide queste due lettere nelle quali si diceva con troppa convinzione che il fatto dell'età e di essere « estero » furono le vere cause del rigetto della domanda: « Noi stessi visitando un giorno Villa Sant'Agata ed esaminando per gentile concessione del Dott. Carrara il carteggio del Grande Maestro potemmo vedere un fascicolo di carte ingiallite dal tempo, custodite gelosamente tra lettere di ammirazione e di amicizia indirizzate a Verdi da eminenti letterati, artisti, scienziati e uomini di Stato, italiani ed esteri. Quel fascicolo era costituito dalla sfortunata domanda di ammissione al Conservatorio, la quale racchiudeva una lettera del Prof. Seletti ed altra del Maestro Rolla che davano ragguaglio sull'infelice esito dell'esame. L'incarto era ravvolto da una fascetta su cui l'Immortale Maestro aveva scritto di suo pugno queste parole eloquenti nella loro melanconica semplicità: « Fu respinta.., ». GLI STUDI COL MAESTRO LAVIGNA Fu respinta con la scusa materiale della cattiva prova sul pianoforte, ma per il motivo formale e sottinteso della sua età avanzata, della appartenenza ad uno Stato Estero, quale era allora il nostro Ducato di fronte al Regno LombardoVeneto e per la insufficienza dei locali del Conservatorio. Quando si vuol far perire una persona si trova sempre una scusa, un motivo apparente, un pretesto qualsiasi sul quale forzare per nascondere la causa reale ma da non manifestarsi, perchè pericolosa o insussistente. In casa del Seletti, ove è alloggiato e amato Verdi studia con assiduità impareggiabile, rendendo contento di lui il Maestro Lavigna, indicatogli dal Rolla, per la mancata ammissione al Conservatorio. Egli, diremmo oggi, brucia le tappe. Un mondo di speranze è in lui e incomparabili speranze su lui nutrono i suoi compaesani, altre, fondate anche su un diritto, ne hanno il Barezzi, il Provesi, e il Monte di Pietà. Verdi ha diciannove anni, età di entusiasmi e di ideali. Una cosa che fa sorridere Verdi è che il suo dotto e intelligente Maestro Lavigna ha una passionaccia per Paisiello, e vede tutta la musica attraverso le doti del Paisiello che per il Lavigna sono il non plus ultra nell'arte musicale. Ma una notizia grave e gravida di future inimmaginabili conseguenze giunge a Verdi a Milano: il 26 luglio è morto il Maestro Provesi. Nella aspettativa dei Bussetani Verdi era già designato il successore (desiderato e degno), del Provesi nei posti di Direttore della cappella e organista della Cattedrale, ai quali andava unito quello di direttore dei Filarmonici, come vedremo. Ma la cosa non andrà piana come i più potevano onestamente sperare e darà luogo ad una sequela di avvenimenti paesani, lotte e acredini, piccoli tumulti o dissapori mortali, da sembrare che non avessero più fine, e dei quali converrà che diciamo parola precisa e documentata nelle pagine seguenti. Seguiamo intanto Verdi che è tanto benvoluto dal Lavigna, il quale gli rilascia questo certificato da mandare al Monte di Pietà a dimostrare il suo profitto nello studio e come non tradisce quindi i suoi benefattori: « Il Signor G. Verdi delle Roncole di Busseto dal mese di agosto p. p. anno 1832 — (vi è poi una correzione in giugno) — trovasi in Milano per studiare la musica, sia di contrappunto, sia della composizione ideale sotto la mia direzione. Confesso che sino a questo momento sono appieno soddisfatto della sua assiduità e sagacità in detto studio. Dal che, progredendo similmente per circa un anno ancora, esso Verdi sarà in grado di assumere l'incarico di Maestro compositore di Musica. Tanto attesto sotto questo giorno 11 Dic. 1833 ». Era una pedina avanzata dopo che gli erano giunte le notizie sulle prime schermaglie circa la successione al Maestro Provesi. Verdi non pensa di recarsi a Busseto dove sono molti quelli che pensano per lui, e deve aspettare fino ai 18 di giugno del 1834 prima di decidersi a fare ritorno in patria, a vedere come veramente vanno le cose e a far valere i suoi diritti. Intanto però, prima di questo ritorno temporaneo a Busseto avviene a Milano qualche cosa di importante e di significativo per Verdi e i suoi amici. Così racconta il Gatti: «Una sera del mese di aprile Verdi si reca alle prove dell'Oratorio « La Creazione » dell'Haydn che una Società di buoni Dilettanti, signori e signore, sta studiando per una Accademia di Beneficenza nel teatro dei Filodrammatici. Ed ecco vengono a mancare i Concertatori scelti da Pietro Massini, direttore della Società. Il Massini non è molto forte come musicista e non può sostituire gli assenti. Si guarda attorno: c'è il giovane Verdi che il Lavigna gli lia presentato, seduto in un angolo, modesto e attento. Sarebbe in grado di rimediare in qualche modo per quella volta? Il Massini lo prega di provarsi: basta che egli accompagni al cembalo col semplice basso. E il giovane Verdi incomincia. Aveva già fatte tante prove di concertazione a Busseto, in casa del suo protettore Barezzi e aveva sostituito così a lungo il Provesi, nella direzione della Filarmonical.. ». Ed ecco il Verdi che racconta egli stesso il sorprendente successo, in una lettera all'editore Ricordi: « Rammento benissimo alcuni sorrisetti ironici dei signori dilettanti, e pare che la mia figura giovanile, magra e non troppo azzimata nel vestire, fosse tale da ispirare poca fiducia. Insomma si principiò a provare, ed a poco a poco riscaldandomi ed eccitandomi non solo mi limitai ad accompagnare ma cominciai anche a dirigere con la mano destra, suonando con la sola sinistra: ebbi un vero successo tanto più grande quanto inaspettato. Finita la prova, complimenti, congratulazioni da ogni parte e specialmente dal Conte Pompeo Belgioioso e dal Conte Renato Borromeo. Infine, sia che i tre maestri suaccennati assenti avessero troppe occupazioni e non potessero quindi attendere all'incarico, sia per altre ragioni, si finì per affidare interamente a me il concerto: ebbe luogo l'esecuzione pubblica con tale successo, che si replicò poi nel gran salone del Casino dei Nobili alla presenza dell'Arciduca Raineri e di tutta la gran società d'allora ». Tornato adunque Verdi a Busseto il 18 giugno 1834, dopo questa sua brillante rivelazione a Milano, deve restare in patria dove lo reclamano necessario alla lotta — divenuta sempre più astiosa e ad armi corte — i suoi fautori ed i suoi benefattori. A Busseto resta fino al 15 dicembre dello stesso anno, quando riparte per Milano a riprendere e terminare i suoi studi col Lavigna. In casa di questo Maestro convengono ora tra gli altri il Piantanida e il Basily che avevano avuto un incarico occasionalmente felice per Verdi. Essi avevano esaminato il concorso a posto di organista della Cattedrale di Monza e non avevano trovato un solo idoneo tra i concorrenti. Il Lavigna nota la cosa e pensa in cuor suo che Verdi potrà ben concorrere all'occorrenza e vincere il concorso, nel caso in cui a Busseto abbia a finire negativamente la sua candidatura. Anche Verdi non era alieno dal concorrere a tale posto, ma gli giungevano continuamente voci da Busseto, donde lo si chiamava imperiosamente in patria; che se egli poteva far senza il posto colà atteso e sostituirlo degnamente con quello di Monza, non potevano far senza di lui tutti i suoi fautori, per non cadere sconfitti, a causa di un diversivo nella lotta accanita e giunta ai suoi più schioppettanti bagliori. Trovandosi adunque questa sua nomina a Organista del Duomo di Monza legata agli avvenimenti bussetani ne rimandiamo il racconto alle pagine in cui vogliamo minutamente dire di questa lotta lunghissima ed asprissima, notando per ora solamente come Verdi fece il suo ritorno definitivo a Busseto, dopo gli studi compiuti sotto il Maestro Lavigna, verso la metà del mese di luglio 1835, con questa dichiarazione o certificato del Lavigna stesso: « Dichiaro... che... Verdi dello Stato di Parma ecc... ha studiato il contrappunto sotto la mia direzione ed ha percorso gli studi lodevolmente delle fughe a due, a tre, e a quattro voci, come pure canone contrappunto doppio, ecc... credendolo perciò abilitato a disimpegnare la professione al pari di qualunque accreditato Maestro di Cappella. Aggiungo inoltre che la sua condotta meco tenuta in tale frattempo è stata docilissima, rispettosa e morigerata anche nel costume. Tanto dichiaro per la pura verità ». Ma, Verdi lascia che altri si arrabatti per lui nelle tumultuose e faziose vie in subbuglio... a Busseto, ove ogni giorno scene e scenette ravvivano la fiamma degli animi arroventati: egli ha qualche cosa di più grande, o di veramente grande a cui pensa, al di sopra della stessa voce dell'amore alla figlia del Barezzi che sta attendendolo con ansia trepidante e fiduciosa. Verdi ha nelle sue tasche un libretto d'opera dal titolo trecentesco: « Oberto, conte di San Bonifacio ». Ed egli è totus in illo. I DUE PARTITI BUSSETANI PER LA NOMINA DEL SUCCESSORE DEL PROVESI E' necessario ricostruire l'ambiente, e risalire all'origine prima per comprendere meglio questi lunghi mesi di vicende tumultuose nella piccola capitale della Marca dei Pallavicino. Piccola capitale che con le sue istituzioni artistiche e benefiche sapeva essere ancora degna della tradizione e del tempo in cui aveva anche potuto ospitare signorilmente un papa ed un imperatore. Autorità civili e autorità religiose ancora in buonissima armonia, dopo tutto quanto avevano portato silenziosamente e subdolamente la Rivoluzione francese con le sue illusioni libertarie e le guerre napoleoniche nelle nostre terre, dove specialmente il clero aveva a lamentarsi di spregiudicatezza nuova e non mai vista specialmente nei giovani anche nei riguardi della religione, e in quelli dei costumi avviati a rilassatezza. A Busseto non era come nelle piccole parrocchie dove il parroco era maestro, medico, consigliere, avvocato, ecc... e il clero teneva sì ancora scuola nel ginnasio e un ascendente alto sul popolo, ma vi erano in giro dei « liberi pensatori come quel Provesi... maestro di Cappella, organista della Cattedrale. Al Prevosto D. Gian Bernardo Ballarini non finiva per piacere completamente. Le sue punzecchiature, le sue novità liberali, quel suo spirito nuovo... Pare insomma che Don Ballarini mal tollerasse il Provesi, che gli fossero una spina in un occhio le solenni onoranze funebri tributategli per generosità di popolo e non gli parve vero di prendersi una piccola vendetta postuma, della quale il capro espiatorio fu il designato successore del Provesi, ossia Verdi. La piccola favilla cui gran fiamma seconda pare sia proprio stato questo gretto modo di pensare del Ballarini, ignaro certamente anch'egli delle conseguenze alle quali lo avrebbe portato questa sua presa di posizione e nelle quali avrebbe trascinato tutto il paese. Ma tant'è: quando si sposa un puntiglio e ci si mette a sostenerlo come se su quello riposasse tutto il nostro onore e la nostra reputazione, non si conoscono vie di ritorno o d'accomodamenti. Ci vuole la virtù dei santi, e il coraggio dei martiri a rinnegare se stessi, anche in questi casi. Ben dice il Manzoni che il diritto e il torto non si possono mai dividere con un taglio netto ; e diritti aveva il Prevosto nel scegliersi una persona di suo piacimento come organista e maestro di cappella, ma anche i Filarmonici, il Barezzi e le autorità avevano il diritto di sapere chi veniva nominato perchè il posto di organista andava unito con quello di direttore dei Filarmonici e maestro di musica di Busseto, e lo stipendio di organista era arrotondato da quello del Monte di Pietà per questi altri titoli che chiameremo civili, in contrapposto a quelli di servizio religioso. A tutto questo si aggiunse che al Prevosto era stato raccomandato dal Vescovo di Guastalla un tal Ferrari; che questo Ferrari era sovraccarico di famiglia, mentre Verdi stava per sposare la figlia del Barezzi; che la popolazione aveva male parole contro i sostenitori del Ferrari, e lo spirito di contraddizione che pare ai deboli segno di forza, portava il Prevosto a voler stroncare le mene avversarie credendo di avvantaggiarsene nel prestigio, che era, secondo lui, il prestigio del clero di Busseto e di tutto il mondo, come avviene di chi vuole coonestare le sue azioni con motivi superiori invocati post factum. Tutti i torti non erano i suoi, ma suo era quello di non misurare anche i diritti degli altri, e specialmente quello di non saper adattarsi anche a qualche situazione per lui un poco umiliante, quando ne veniva per lui e per tutti un bene supremo: la pace la concordia, per la quale parvae res crescunt, et maximae dilabuntur. Coloro che si sentissero nascere risentimento contro Don Ballarini , esaminino se stessi e vedano quante volte non gli avranno assomigliato... ricavandone frutti salutari da salutare esperienza. Ed ecco lo sviluppo della dolorosa vicenda, che a distanza di anni, è anche spassosa e divertente, come sono le piccole cose dei piccoli centri . Esami4 — F. BOTTI, G. Verdi niamola nel suo rossiniano — (e perché non verdiano?...) — crescendo... — Primo tempo: fino alla nomina del Ferrari da parte del Prevosto. — Alla morte del Provesi i Filarmonici riconfermano la unanime volontà di tener vacante il posto e la nomina del successore fino a che Verdi non abbia terminati i suoi studi a Milano, e mandano un loro rappresentante a proporre un « allievo del Provesi quale organista provvisorio, fintantochè si provveda alla nomina di un nuovo maestro di musica ». Si ricordi e si comprenda da questa frase che la nomina del maestro di musica spettava ai Filarmonici, quella di Organista ai Fabbriceri, e che una nomina era intimamente legata all'altra. I Filarmonici speravano di imporre il loro protetto, il Prevosto lavorava sott'acqua per nominare al più presto 1 'organista che sarebbe diventato anche maestro dei Filarmonici. Due autorità in contrasto... Mentre il Prevosto sembra acconsentire, si fanno avanti degli aspiranti, che inoltrano domanda e tra essi è il Ferrari di Guastalla raccomandato dal suo Vescovo. Il Prevosto è molto influenzato da questa raccomandazione, la quale era stata fatta in luogo dove certo non si potevano prevedere le conseguenze a cui avrebbe dato luogo la nomina del Ferrari. Il Prevosto avrebbe dovuto ricordarsi che per assomigliare a Cristo, di cui era ministro, avrebbe dovuto astenersi dall'accettazione di persone; infatti gli Ebrei, quando vollero fare una lode altissima a Cristo, gli dissero: e Sappiamo Maestro che tu sei verace, non fai parzialità, e non hai accettazione di persone... » Ma può darsi che sì sia fatto un dovere di as-• secondare il desiderio del Vescovo a pro del Ferrari povero e carico di figlioli, e che siamo noi ad errare nell'imputargli una colpa questa bua accettazione di persone, anche perchè « del senno di poi ne son piene le fosse » e tanti guai nascono dalla stessa bontà e troppa condiscendenza, figlie « di questo ga,zzabugli o che è il cuore umano ». L'inviato presso il Prevosto a pregarlo di tenere per ora un organista provvisorio era il Dernaldè, colui che scrisse poi la prima vita di Verdi, e non gli parve vero di potersi sfogare a piacimento contro il Prevosto Ballarini, ancora vivente, quando egli buttava giù le sue pagine verdiane, e in esse si faceva portavoce ed eco ancora suonante dei rumori del tempo che fu... Gli aspiranti al posto lasciato vacante dal Provesi inoltrano domanda alla amministrazione del Monte di Pietà; tra queste domande il Barezzi vorrebbe mettere anche quella di Verdi fattasi arrivare da Milano, con l'attestato del Lavigna sul suo profitto e buona condotta, ma ne è dissuaso da promesse dei Fabbriceri che prima di essere assegnato tale posto si sarebbe indetto un concorso, onde egli tiene in sospeso tale domanda. Intanto il Ferrari, protetto del Ballarini, va a Monticelli d'Ongina a suonare, per poter vivere. Improvvisamente il Prevosto lo richiama e si procede alla sua nomina alla chetichella, senza un motivo apparente ma per il fatto che Verdi stava tornando da Milano, e avrebbe potuto far pendere dalla sua parte le simpatie di tutti i bussetani. — Secondo tempo: sdegno dei Filarmonici fino a che ottengono la indizione del concorso. — In sedute rumorose i Filarmonici, al sentire della nomina del Ferrari preparano un piano di ostilità e di lotta ad oltranza. Non parteciperanno più a nessuna funzione civile e religiosa... fino a tanto che il ,,ostg assegnato al Ferrari non sia di nuovo reso vacante e assegnato per pubblico concorso. Gli amministratori del Monte di Pietà credono di sedare la rivolta stabilendo che il posto è definitivamente assegnato al Ferrari. Ma Verdi ed i Filarmonici presentano ricorso al Governo ducale. Due partiti, due fazioni: i coccardini e i codini, i Verdiani i Ferrariani. Nella Chiesa dove suona il Ferrari sono poche le persone che assistono e segnate a dito; dove suona Verdi è moltitudine osannante che cresce quale marea muggente. Per il 24 di agosto è festa patronale, e tutti i bussetani si aspettano di vedere anticipatamente una riconciliazione e i Filarmonici, come di uso, alle sacre cerimonie: niente di tutto questo. Essi si astengono e il Prevosto chiama « musici forestieri »; onta e vergogna per la musicale cittadina di Busseto che ha i migliori cantori di tutti i paesi circostanti. La mossa è così sbagliata e aumenta siffattamente i simpatizzanti o gli aderenti al partito verdiano, che anche le autorità tentennano e non riconoscono più come legittima la nomina del Ferrari, negandogli il sussidio come Maestro di Musica del paese. Grida e canti, voci e insulti, schiamazzi e urla si intrecciano per le vie... e portano molti ad accapigliarsi o a precipitosa fuga... I verdiani fanno leva a Parma su amicizie e specialmente su quella del Molossi, fin che tra le loro figlie si alzano grida di giubilo: il Molossi annuncia che il Governo propende per il concorso. Se viene il concorso, pensano, viene anche la vittoria di Verdi sul Ferrari, tanta è la distanza tra il Genio di lui e questo povero strimpellatore... Verdi riparte fiducioso per Milano. — Terzo tempo: intervento della superiore autorità nella lunga attesa del concorso. Un rapporto del Podestà al Presidente dell'Interno racconta lo svolgimento dei fatti e termina in questo modo: « Rispettando io le prese deliberazioni e sempre coerente a me stesso nel mostrarmi imparziale unicamente mi sono affaticato nell'ammansare gli spiriti irritati e nell'ammorzare destramente nel suo nascere le contraddizioni. Esortazioni quindi agli uni, ammonizioni e minacce agli altri; neppure ho esitato di presentarmi di notte laddove mostravasi il bisogno di sperdere gli assembramenti ed evitare scandali e litigi ». La notizia che il superiore Governo propende per il concorso è comunicata dalla Commesseria di Borgo San Donnino al Podestà di Busseto che la comunica al Barezzi, in attesa del Decreto ducale. Il Barezzi scrive una nobile lettera al Podestà: « L'eseguimento delle disposizioni (governative) potrà solo dissipare i dissidi, ridonare alle ecclesiastiche funzioni quel decoro che in addietro faceva l'ammirazione di tutti, e verrà conservata in Busseto la bell'arte musicale che con vero trasporto una scelta gioventù coltiva. Noi altro mai non ambimmo che di veder conservata in Busseto l'istruzione per la musica. Niun basso interesse ci mosse, niun livore ci incitò, niuna parzialità ci sedusse... ». Ma il Podestà, nel preparare il terreno a una conciliazione, in vista del concorso, si accorge che la sua opera è vana.Da parte della Fabbriceria non se ne vuole assolutamente e nemmeno sentir parlare... I Filarmoci si rivolgono ancora al Molossi a Parma. E finalmente arriva un Venerato Rescritto Governativo invitante a una convocazione strordinaria dell'Anzianato di Busseto « acciò deliberi sul concorso alla spesa di un maestro di musica, istruttore della gioventù, indipendente dall'organista... ». Soluzione che può dar luogo a dimostrazioni dall'una o dall'altra parte dei partiti Bussetani, e allora arriva contemporaneamente al Podestà una disposizione del Direttore generale della Polizia dello Stato dalla quale stralciamo queste frasi: « E' noto al Governo che i partiti i quali con tanto accanimento e pubblico danno tengono divisi codesti abitanti, sonosi date le qualificazioni odiose e sconvenientissime, se non altro, di codini e coccardini. Che v'ha anche tra i Sindaci e gli Anziani chi fomenta scandalosamente le discordie. Che sono promotori e seminatori di zizzania nel partito Ferrari i Signori Seletti Luigi e Giacomo Demaldè, e nel partito Verdi il caffettiere Guarnieri, e certo Machiavelli... E' decisa volontà del Superiore Governo che abbiano fine una volta e davvero i tanti dissidi che dividono i Bussetani in due fazioni nemiche e che possono un giorno o l'altro dar luogo a lagrime-voli scene... ». — Quarto tempo : Seduta dell'Anzianato e attesa dell'esame di concorso. La seduta è simile a Vulcano in eruzione. Angelo Galli ha preparata una arringa solenne e pomposa, piena di retorici sensi e sonanti invocazioni... della quale non vogliamo defraudare completamente i lettori: « Il pubblico vantaggio, essa dice, guidar deve la deliberazione che siamo per prendere, e guideralla spero... Si ponga fine una volta a tanto litigio con una risoluzione che può sola ridonare la calma, e far rivivere tra noi quella bella pace che — deh ! — non fosse pur mai stata turbata. Fiorivano tra noi non poche utili e belle istituzioni ; ed ahi! che per fato del tempo sparvero, tranne la bell'arte musicale che dalla gioventù nostra lodevomente si coltiva... Me felice se la causa che ho perorata trionfa, sarò orgoglioso di aver contribuito a spegnere la discordia, a terminare le liti, e ognuno di voi lo sarà al pari di me. Che se le mie speranze andassero errate potessimo aver tutti a condolerci chi sa quali funeste conseguenze... «. E la concione è della durata di una buona mezz'ora. « Messo ai voti, dice il Gatti, il concorso pecuniario continuativo, chiesto dai Filarmonici al Comune, affinchè unitamente alle quote del Monte di Pietà costituisca un congruo stipendio per il istituendo posto di Maestro di musica, sei anziani su sedici si rifiutano di votare, malgrado ogni suadente esortazione del Podestà. L'esito della votazione (dieci anziani per il sì), fa che i sei anziani contrari escano per protesto dalla sala senza nemmeno firmare il verbale », L'effervescenza giunge a tal punto che un Rescritto sovrano deve proibire tutte le musiche nelle chiese di Busseto. E quando Verdi sta per allontanarsi in vista del posto a Monza, nasce un subbuglio tale che ha aspetti di rivoluzione. E Verdi così scrive al Lavigna: « ... Nuovi tormenti e nuovi tormentati. Quand'io mi credeva al punto di sortire da tante mie contrarietà e procurarmi un pane onorato e comodo, mi trovo di bel nuovoprecipitato in un fondo, ove non vedo che buio. Sabbato passato era il giorno indicato per recarmi a Milano... quando, saputasi in Busseto la mia partenza, nacque un sussurro da non immaginarsi. Il partito contrario ai Filarmonici gioiva ed insultava l'altro, l'altro arrabbiava e scagliava ingiuriose parole contro di me e contro il Sig. Barezzi. Finalmente la cosa si ridusse al punto che il partito filarmonico dopo avermi fatto conoscere e gl'impegni fatti e le ingiurie cui soggiacevano... indispettiti dal mio rifiuto giunsero ad atterrirmi con le minacce, e perfino ad obbligarmi a restare in Busseto qualora io fossi visto partire... ». Questa è veramente ciò che il Barezzi chiama in una sua lettera: la « furente volontà degli amici ». — Quinto tempo : ricorso di Verdi alla Sovrana e decisione definitiva con l'esame. — Mentre i due partiti stanno, come si suol dire, sparando le ultime cartucce, Verdi pensa di rivolgersi alla Sovrana Maria Luigia, per avere una buona volta una risposta definitiva. E a questo scopo trova un amico che si fa suo potente intercessore: il dott. Pietro Frignani che rivolge questa preghiera documentata al conte Bianchi, Ciambellano di S. Maestà: « Sebbene paresse giusta la risposta da lei data da S. E. il Presidente dell'Interno, che .l'affare del Maestro Verdi fosse giunto al suo termine, pure si sa per mezzo del Sig. Molossi che la prefata E. S. sta tuttora titubando, nè si sa quando questa faccenda sarà ultimata. Ora però è necessario assolutamente, o in un modo o nell'altro, che se ne vegga il fine ; giacché il detto Verdi trovasi in pericolo di perdere il pane in Patria e in Monza, a cui egli viene chiamato, come già le dissi quando fui a Parma, e come dalle qui unite lettere potrà rilevare Sto attendendo, — chiude il Frignani dopo altre pagine di dilucidazioni, — un definitivo riscontro, e spero non sarà difficile l'ottenerlo, perchè non trattasi che di sapere se avrà o non avrà luogo l'impiego di Maestro di musica in Busseto ». La lettera è del 21 dicembre. Il 23 di gennaio il Podestà rende noto che è bandito il CONCORSO al posto di maestro di musica nel Comune di Busseto. Il 27 febbraio Verdi va a Parma, ed è esaminato dal Maestro Alinovi. Il Plenari non si presenta. Un tal Rossi di Guastalla, — (sobillato dal Ferrari?...) — è un debole competitore. L'esame segna il trionfo di Verdi. L'Alinovi ne è entusiasta. Verdi torna in Busseto dove la « popolazione lo salutò fino al delirio, ed il corpo Filarmonico di alloro lo inghirlandava », a inizio di quei trionfi che lo accompagnarono nella vita e che forse nessun altro maestro conobbe in tutto il mondo. La nomina da parte del Presidente dell'Interno giunge ai cinque di marzo, e ha un appunto per il Podestà perchè non sembrano state osservate pienamente le norme del concorso. Verdi, che durante tutto questo periodo aveva tenuto un contegno sereno o quasi di estraneo alla faccenda nella quale sapeva che c'era tutto l'interessamento del Barezzi, e che stava pensando al suo libretto, ai suoi amici, al posto di Monza, si sente ferito di questa osservazione, e risponde al Podestà: « La S. V. non ignorerà certamente come io sia stato impassibile spettatore di questa lunga lotta. Immerso nel mio prediletto studio della musica e quasi obliando le contese ho atteso dalla Giustizia ciò che finalmente giunge cioè un concorso da tanti desiderato, e nulla più; ho confidato nella saggezza dei magistrati, sulla integrità di un giudizio e sulle mie forze qualunque siansi. Tutti sanno che io non mi immischiai nei partiti, che io non ho niai fomentato o contrariato veruno di questi, che io non sono mai stato così cattivo da compiacermi di queste gare; le quali cose assaissimo m'importa che sappia il Superiore Governo ed è perciò che io la prego a volerlo di ciò disingannare, e spero che la S. V. vorrà farlo non tanto per essere cosa che mi riguarda, ma ben anche perchè lo esige la Verità e la Giustizia... ». E il 20 aprile 1836 il Podestà stipula la convenzione precisa e minuziosa con Verdi « Maestro di musica in Busseto stessa ». Un episodio che ci conduce in « più spirabil aere » in questa vicenda bussetana, è la nomina di Verdi a Maestro di Cappella a Monza. Il Verdi presenta domanda alla Fabbrica del Duomo 1'11 di ottobre, del 1835, di essere assunto come Maestro di Cappella, maestro di Canto ed organista del Duomo. Della sua capacità può ben testimoniare il Lavigna, e tra gli stessi fabbriceri vi è un amico del Barezzi. La nomina non tarda a venire. Ma chi non viene è il Maestro, e se ne ricerca la cagione anche perchè con questa nomina generalmente va congiunta anche l'altra di professore nel Collegio dei Barnabiti. Ma Verdi doveva rispondere poi con quella sua lettera che comincia dantescamente: « Nuovi tormenti e nuovi tormentati... ». E il Lavigna, al quale toccava per giro di amicizie e dopo numerose lettere giunte da Busseto, declinare a nome di Verdi l'ambito incarico, che aveva tanto patrocinato, « arrossì di dover mancare, per colpa del suo raccomandato, agli impegni di Monza, formalmente assunti in nome di lui... ». MAESTRO DI MUSICA A BUSSETO E SUE NOZZE CON MARGHERITA BAREZZI Il 20 aprile 1836 si stipula adunque l'atto con tutte le condizioni poste e accettate dal Verdi, della sua nomina a Maestro di Musica a Busseto. Atto che termina così: «E queste cose tutte sono state così convenute stipulate e rispettivamente accettate ed accordate tanto dal Maestro Signor Verdi, quanto dal Sig. Podestà nella sua qualità superiormente accennata, e se ne è resa la presente scritta in quadrupla minuta sottoscritta ciascuna e dal Sig. Verdi e dal Podestà dopo lettura fattane )›. Non è il sogno di Verdi quello di stare a far il Maestro di musica in una piccola cittadina, ma vi si adatta per molti motivi: perchè quello è già un posto con una paga discreta, ed egli è stanco di essere sussidiato e di vedere quanti sacrifici fanno per lui il padre e il Barezzi; perchè in tal modo si può stabilire a Busseto accasandosi, e formandosi una famiglia con la figlia del Barezzi, che ha già passata la ventina, e sta per raggiungere i ventidue anni, età d'impazienza per la promessa sposa ; perché potrà attendere alla produzione di musica a suo genio e lavorare a quell'Oberto conte di San Bonifacio, che gli è fisso nella mente come sorgente di luce e aurora della sua vita d'artista; e in fine perché la sua nomina è stata di immensa soddisfazione per i suoi partigiani ed egli deve ben accontentarli. Infatti li accontenta con tutte le sue forze. Insegna, dà accademie nella sua casa ospitale, va coi Filarmonici nei paesi vicini, crea musica nuova, che interessa per la novità e per essere sua. Ma con tutto questo, ciò che più gli sta a cuore è quell'Oberto Egli intanto si è sposato con Margherita Barezzi il 5 di maggio. Grande giorno per gli abitanti delle Roncole, e per i « Verdiani », ma grande specialmente per lui, Verdi, e per il Barezzi, che intravedono e gioiscono di orizzonti lontani. La nomina a Maestro, le felici nozze, i successi di Verdi in patria, sono i primi gradini felici di una scala di ascesa immancabile, o che avrà la sua prima trionfale sosta nel successo della prima opera, dopo faticoso lavoro per la accettazione da parte di impresari. « Il sogno d'amore sorriso a Verdi nella triste adolescenza e nella laboriosa giovinezza » si avvera il 5 maggio, in cui la sposa compie i 22 anni, e nello stesso giorno gli sposi partono per Milano accompagnati dal Padre di Verdi. Creatura angelica per bontà e bellezza, cui « se scioglieva le chiome pareva scendesse lungo le spalle un fiume d'oro »; e serietà, studio, laboriosità e il bacio divino del Genio in Verdi, facevano di questi due novelli sposi sfavillante l'alba radiosa del matrimonio. Ma su loro non tarderà a comparire la asco-sa nube del dolore, dello schianto famigliare con la perdita della prima creatura, alla distanza di trenta giorni dalla nascita del secondo figliolo. Virginia era il nome della sorridente bimba a cui Verdi, traendosi dalle occupazioni o al ritorno dalle lezioni, cantava la ninna-nanna per lei composta: « Mia Virginia, sei tu sola... ». Icilio fu il nome imposto al bimbo, maschietto paffuto che nacque a Verdi 1'11 luglio 1838. Povera creaturina che seguirà quanto prima nella tomba la sorellina, fiore in boccia travolto da male improvviso. Verdi è cupo ; medita di allontanarsi da Busseto. Le gioie familiari di subito infrante si ripercuotono nella sua anima sdegnosa ed altera, e minacciano di travolgere tutti i suoi sogni, che lo portano a diventar qualche cosa di grande perché una voce interna lo chiama e lo invoca nei cieli dell'arte... A Busseto poi le lotte tra i Ferrariani e i Verdiani, non vogliono assolutamente cessare, e questa cocciutaggine proterva e insana, alimentata da vecchi figuri che credono di veder cadere tutto il loro onore allo spegnersi della lotta, e non vogliono dichiararsi favorevoli al Verdi a nessun costo, lo esaspera non poco. Egli non può prestare più oltre il suo nome a una lotta paesana che si inabissa nei gorghi delle malevolenze e delle astiosità. A Milano poi c'è qualche suo amico cbe lavora per lui, e sa per esperienza che solo la presenza può portare a termine una impresa. A Parma contava Molti amici, e specialmente il Conte Sanvitale, ma essi non riescono a fargli andare in scena l'opera che già ha terminato di comporre. Due volte egli tenta e tentano con lui gli amici di far dare il suo lavoro, ma chi manda tutto a monte è l'impresario Granci di Lucca, che non ne vuol sapere di arrischiare tanto, con un maestro sconosciuto a tutti. Lo disse anche Verdi in una sua lettera al Massini: « Amico carissimo: ero da qualche giorno a Parma per aspettare il nuovo impresario Granci di Lucca. Intanto io mi procuravo appoggi presso la Commissione del Teatro, presso l'orchestra, i quali tutti mi erano riusciti facilmente, perchè a dirtelo in amicizia, non per merito mio, io godo di qualche credito a Parma. Anzi io avevo trovate persone di vaglia che s'erano esibite per assistermi. L'altro ieri venne finalmente l'impresario, al quale mi presentai subito a nome della Commissione, e senza tanti preamboli mi rispose che non gli conveniva di esporsi con una opera di esito incerto. Io credeva a tutta prima che fossero ciarle per farsi, come si suol dire, incensare ; ma per quanto io abbia detto non l'ho mai potuto tirare a una trattativa, e mi ha dato sempre l'istessa risposta. S'io non fossi stato il primo a parlargli avrei pensato che qualche maligno gli avesse parlato di me svantaggiosamente, ma ciò non era possibile. Io sono ritornate a casa arrabbiato e dolentissimo senza avere la menoma speranza. Poveri giovani! Hanno un bel studiare. Sempre senza ricompensa! Dimmi; non ti sarebbe possibile parlare al Merelli per vedere se fosse possibile farla eseguire in qualche teatro di Milano? Digli prima di tutto che io vorrei che lo spartito fosse sottoposto all'esame di valenti Maestri, e quando il giudizio fosse sfavorevole, non vorrei che l'opera si eseguisse. Tu mi faresti un servigio grandissimo. Tu forse mi potresti trarre dal niente ed io te ne sarei obbligato eternamente. Unisciti col Piazza e parlane. Attendo risposta a Borgo San Donnino per Busseto, ti abbraccio di cuore e sono sempre: l'amico affezionatissimo G. Verdi ». Passa il 1837. Passa la primavera del 1838. Nessun spiraglio di luce per la rappresentazione della sua opera. A tempo perso compone sei romanze, che mancia all'editore Canti di Milano, il quale glie le pubblica. Ma è poca cosa, per chi vuole vedere aprirsi le porte del teatro, e da esso la gloria e la fiumana di suoni e di canti che gl'ingorgano l'animo, sprigionarsi per il mondo... Ma verso la metà di agosto del 1838, dicemmo, gli muore Virginia. Ed egli per dimenticare e aggrapparsi disperatamente al suo sogno di gloria, va a Milano. «OBERTO, CONTE DI S. BONIFACIO» Scrive questa lettera ad Antonio Barezzi, prima di partire: « Carissimo suocero, ho procurato sempre, dal tempo che sono a Busseto, di incomodarla nel minimo tempo possibile e credo di non esser mai riuscito indiscreto. Questa volta, mio malgrado conviene che il sia. Lei sa che io e la Ghita andiamo a Milano, e non per mero divertimento, ma per interessi di mia professione. Necessitandomi di stare colà per tutto il tempo delle vacanze — (intanto cioè che non era legato alla scuola a Busseto, come maestro di musica) il danaro che tengo non è sufficiente per il nostro mantenimento ed a conti fatti mi abbisognerebbero da 120 a 130 franchi. S'ei volesse favorirmi questa somma, al mio ritorno avrei i miei mensili da esigere, e gli consegnerei i mandati per tale somma, tenendo il resto per me. Ciò non sarebbe che una semplice prestazione e non un lungo imprestito. Se egli mi favorisce, la prego di valuta buona per colà, e di lacerare questo biglietto, tenendo la cosa segreta fra noi due. Anzi per maggior segreto può risparmiare di metter a li5 — F. BOTTI, G. Verdi bro questa somma, perché io sono premurosissimo per restituirla, ed al pari di me sua figlia... Da casa, 5 sett. 1838 ». Verdi si era fatto coraggioso, benché un poco di rossore lo spingesse a fare la domanda per iscritto, a chiedere tale somma perché finalmente il Monte di Pietà aveva deliberato di rimborsare al Ba-rezzi tutte le mensilità da lui spese, e quattro annualità anche se il Verdi se l'era cavata con meno tempo. Merito suo che aveva compiuto il corso studiando anche nelle vacanze, ma spendendo ugualmente col La-vigna. Questa lettera è molto eloquente. Ci dice ancora una volta come Verdi abbia sempre camminato, prima di giungere alla gloria — (mai vista e toccata a Maestro alcuno) — per un sentiero continuamente scabroso e doloroso. E' umiliante per lui rivolgersi allo suocero, ma necessario, ed egli sarà ancora un secondo padre. Quando Verdi giunge a Milano c'è gran baccano e feste per l'arrivo di Ferdinando imperatore e Re. Meglio di ogni nostra descrizione vale questa lettera di Verdi che tiene informato lo suocero di tutte le sue cose: « siamo arrivati felicemente a Milano la sera del giorno 8. Non trovavamo alloggio nè per noi nè per il cavallo ; ma fortunatamente noi abbiamo trovato un appartamento di molta libertà dal Prof. Seletti. Io non le parlerò della rivista delle truppe che fece l'Imperatore a cavallo... Sentirà la descrizione dai giornali. Fanno porta al teatro della Scala, e voglio andare. Presto le scriverò una lettera lunghissima... ». Al nominare La Scala, che è per lui speranza e martirio, posa la penna e tace. Forse un presentimento l'avvolse... Intanto — (aiutati che Dio t'aiuta) egli si incontra col librettista Piazza, che gli aveva composti i versi dell'Oberto, e si incontra con l'amico Massini, che però non è più direttore della Filarmonica a Milano. Piazza e Massini sperano in una cosa: ogni anno si dànno a Milano recite per beneficenze al Pio Istituto Teatrale. Chissà che l'impresario della Scala, che è il famoso Merelli, non accetti di dare l'opera di Verdi. Ma proprio quell'anno la recita benefica non ha luogo. Che fare? Verdi si scoraggia non poco e si decide a tornare a Busseto. Scrive allo suocero di andargli incontro a Piacenza. Ma dal lavorio del Massini e del Merighi presso il Merelli nasce questo: che il Merelli si è lasciato convincere a dare un'opera a scopo benefico subito nella primavera del 1839, non avendola data nel 1838. Ritorna a brillare una stella... Il Merelli vuole che sia non poco cambiato il libretto dell'Oberto. E Verdi lo rimaneggerà, tornando a Busseto dove giunge il 10 di ottobre dopo che aveva calmate le ansie e le aspettative degli amici con queste parole: « Che diavolo vi è saltato in mente che la mia opera debba andare in scena il 15 corrente?... Si potrebbe forse eseguire per il prossimo Carnevale; ma si tratta di un'opera nuova, scritta da un Maestro nuovo, da esporre nientemeno che nel primo teatro del mondo... ». E giunto a Busseto manifesta allo suocero le sue speranze fondate, la necessità di abbandonare il posto di Maestro di musica per essere libero a primavera, e di abbandonare il bene che ne verrebbe anche a Busseto ancora sossopra per le fazioni, simili a mare che non conosce mai calma. E scrive questa nobile lettera al podestà: « A codesto infelicissimo mio paese ben m'avveggo ch'io non posso essere di quella utilità ch'io avrei pur bramata, e mi duole che le circostanze non mi permettano di addimostrare gli effetti dei miei desideri ove furonmi dati i primi mezzi a progredire in quell'arte che professo. Il bisogno a procurarmi un sostentamento sufficiente a nutrire la mia famiglia mi determina cercare altrove ciò che non posso avere in patria. Egli è perciò che uniformandomi al disposto dell'articolo 8 della scritta di contratto tra questo comune e me, annunzio alla S. V. Ill.ma, innanzi che scadino li sei mesi, che io non continuerò più qui a servire in qualità di Maestro di musica oltre il 10 maggio 1839. Porterò meco e conserverò sempre tutta l'affezione per la mia patria e la riconoscente stima di quelli che mi amarono, m'incoraggiarono e mi giovarono... ». Come non rilevare quella frase « L'infelicissimo paese »? Essa non vuole offendere la sua patria, che dice di amare con la promessa di avere sempre nel cuore il ricordo di tutti coloro che lo aiutarono in Busseto a spianarsi la via verso altissime mete, ma vuole riferirsi alla lotta intestina che tiene ancora in vigore la proibizione del Governo di dare musica in chiesa, che ha visto fallire l'opera conciliatrice del nuovo podestà eletto anche a questo scopo, come persona al di fuori dei partitanti, e con vasto ascendente sui Bussetani. Si chiama Contardo Cavalli, e quando risponde a Verdi che il Sacro Monte di Pietà, dopo regolare seduta, ha accettato le dimissioni, aggiunge ed allega una sua lettera veramente nobile, la quale sarà scesa come balsamo nell'animo tanto sensibile del Maestro, e della quale è nostro dovere leggere la parte migliore: « ... L'Amministrazione — (del Monte di Pietà) — mi incaricherebbe di esternarle siccome fo, la sua dispiacenza ed il suo rincrescimento sia per la perdita di un ottimo cittadino fornito di rare qualità che lo distingueranno mai sempre, sia infine per l'egregia sua perizia nell'arte musicale, là dove all'Amministrazione non resta che il dolce ricordo di avere in parte contribuito a renderlo in ciò meritevole di essere annoverato fra i più distinti Maestri dell'arte sua. Nell'animo mio poi si scorgono due contrarietà d'affetti, l'uno che per averla ancora qui non lascierei intentata ogni pratica; l'altro, pensando seriamente, sarebbe pazzia e un cimentarlo a nuovi sacrifici là dove ne fece anche troppo nelli tre anni oramai decorsi, troncandole con ciò una carriera la quale un dì sarà, non dubito, onorifica solennemente a se stesso ed alla patria. Ovunque ella volgerà i suoi passi io sarò sempre ammiratore delle sue rare virtù, e mi riputerò fortunato ogni volta ch'ella vorrà valersi della mia pochezza, onde potermi dichiarare non colle opere ma coi fatti Con la nobilissima rinuncia di Verdi e con questa lettera che è un poema di gentilezza e di ammirazione devota al Maestro, termina in Busseto, dopo una vampata di paglia da parte dei Ferrariani, la lotta che per tanti anni divise anime e cuori, eccitò gli spiriti abbassandoli ad astiosità inconciliabili, ma in compenso produsse questo allontanamento di Verdi verso « più spirabil aere », almeno ne anticipò la rivelazione del Genio. Ancora una volta dobbiamo riconoscere che tutto il male non viene per nuocere. E Verdi parte prima ancora della scadenza dei sei mesi: il sei di febbraio è già in viaggio per Milano con Margherita e il piccolo Icilio. «Egli tornerà ancora a Busseto; vi tornerà e ripartirà tante altre volte. Margherita e la sua creatura non rivedranno più la loro terra » (Gatti). Verdi a Milano lavora per ottenere a mezzo di amici che sia rappresentata la sua opera. La stagione ha in quell'anno un avvenimento importantissimo: tra i cantanti alla Scala vi è la giovine Giuseppina Strepponi lodigiana, di fama superba e contesa tra gli impresari. Il Merelli l'ha potuta avere per questa stagione e la fa brillare maggiormente mettendole a fianco artiste di poco valore. Il Merelli si vantava non a torto di essere stato chiamato il Napoleone degli impresari e teneva un tono di vita sfarzoso, principesco, solenne. Verdi ha un'idea di quelle che si dicono luminose perchè servono a far luce o dare luce a situazioni oscure: Verdi va dalla Strepponi. Se ella, che tanto può sul Merelli e n'è, si dice, padrona di molte fibre del suo cuore, approverà la sua parte nell'opera « Oberto, conte di S. Bonifacio », il Merelli non si rifiuterà. E così infatti avviene. La Strepponi convince anche gli altri attori della Scala a cantare quest'opera con immensa consolazione di Verdi, il quale però poco dopo sa di una improvvisa malattia del tenore Moriani, e tutto sembra andare a monte... E' la disdetta, quella che non è di colpa nostra, è l'avversita immerita ta, e Verdi ne sembra talmente abbattuto che dubita un istante del proprio avvenire. Sta per decidersi a ritornare a Busseto, quando... Cediamo a lui stesso la parola, come parla nel racconto fatto al Ricordi: « Quand'ecco un mattino viene da me un servitore del Teatro alla Scala e brusco brusco mi dice: — E' lei quel maestro di Parma che doveva dare un'opera per il Pio Istituto?... Venga a teatro che l'impresario lo chiama ». — « Possibile? soggiunsi io ». E l'altro di rimando: — Sissignore, mi ha ordinato di chiamare il Maestro di Parma che doveva dare un'opera; se è lei, venga ... » Il Merelli aveva sentito dalla Strepponi quale valore avesse l'Oberto. Per l'autunno seguente gli abbisognavano opere nuove e non ne aveva che una del Ricci su libretto del Dall'Ongaro, del Somma e del Gazzoletti, valentissimi poeti presi a uno, a uno, ma tutti insieme autori di un indigesto pasticcio: Un duello sotto Rich.elieu; e un'opera, di Giacomo Panizza, maestro al cembalo alla Scala, succeduto al Lavigna: I ciarlatani. Mi presentai dunque al Merelli il quale mi disse che dietro le favorevoli informazioni avute circa la mia musica, avrebbe voluta rappresentarla nella prossima stagione ; se accettavo avrei dovuto però fare qualche accomodo alle tessiture, non avendo più tutt'e quattro gli artisti dell'altra volta. Era una bella offerta; giovine, sconosciuto m'imbattevo in un impresario che osava mettere in scena un nuovo lavoro senza domandarmi indennizzo di sorta, indennizzo del resto che sarei stato nell'impossibilità di dare. Merelli, arrischiando del suo tutte le spese di messa in scena, mi propose soltanto di dividere per metà quella somma che avrei preso, se in caso di successo avessi venduta l'opera. Nè si creda che con ciò mi facesse proposta onerosa; era l'opera di un principiante ». Il Merelli suggerisce il poeta, il Solera che può aiutare Verdi nei cambiamenti necessari. Si giunge al settembre, e tra il lavoro di rielaborazione dell'Oberto e le difficoltà domestiche, Verdi compone altra musica che gli è pubblicata ancora dal Canti: ossia un'aria, una romanza e un Notturno. Ho detto difficoltà domestiche, perchè avanza il San Michele, ch'è il San Martino delle nostre regioni, e Verdi deve pagare l'affitto anticipato della casa. Si decide ancora una volta a scrivere al Barezzi: « Incoraggiato dalle esibizioni che tante volte gentilmente gli fece, si fa ardito di esporgli quanto abbisogna ». Leggiamo con venerazione questa frase del Verdi nella lettera al Barezzi: « Lei sa a che siano rivolte le mie mire e le mie speranze. Non certamente la speranza di accumulare ricchezze, ma quella di esser qualche cosa fra gli uomini, e di non essere inutile arnese come tanti altri...». Gli inutili, gli affaristi, gli egoisti e tutti coloro insomma che sono i succhiatori della società gli faranno ribrezzo per tutta la vita, e di se stesso e delle immense ricchezze accumulate farà sempre dono agli umili e ai sofferenti. Ma altre amarezze, nel momento stesso in cui si va delineando la certezza della rappresentazione dell'Oberto, altri dolori colpiscono il cuore del grande: gli muore il figlioletto Icilio ai 22 di ottobre, all'età di quindici mesi, quando i bimbi sono fiori in boccia che si aprono soavemente alla vita... Verdi comprime il suo dolore infinito e attende con forza sovrumana alle prove dell'Oberto. La moglie non vuole rendere più grande il dolore dello sposo, e piange disperatamente nel silenzio delle ore del vespero, quando lui è lontano alle prove, e forza una serenità sul suo volto quando egli ricompare... Ma Oberto, conte di San. Bonifacio va finalmente in scena: il 17 novembre 1839. Non vi canta la Streppo-, ni. L'esito non è grandissimo « ma abbas tanza buo no così da avere un discreto numero di rappresentazioni alcune in più fissate dall'abbonamento ^). E' il primo bacio della gloria sulla fronte dell'aedo d'Italia. MORTE DI MARGHERITA BAREZZI-VERDI E' questo il capitolo più doloroso e più grande nella vita di Verdi. Chi non conosce il dolore non conosce la vita. Esso in sublima le anime e solo è capace di elevarle ad altezze umane e divine. Anche umanamente parlando, astrazion fatta dal valore divino e santificatore del dolore, esso è sempre « provvido » e le cose più belle e più vere sono nate dal pianto. Non le molli piume, al dire del Tasso, non le ricchezze, non i successi facili e labili hanno dato al mondo i Grandi della poesia e del canto, ma l'esilio, la povertà, e il dolore. Non per nulla Alfredo De-Musset al termine della sua vita riconosceva come vere solamente le ore nelle quali aveva versata una lacrima. « Provvida sventura » cantò il Manzoni e affermò nel suo capolavoro che « Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande », e a comprendere la sublimità di questa affermazione che forma la sostanza del romanzo fu particolarmente Verdi, il quale diceva che esso non è « soltanto il più gran libro dell'epoca nostra, uno dei più grandi libri che siano usciti da cervello umano, ma una consolazione per l'umanità ». Chi non sa comprendere questa missione umana e cristiana di elevazione del dolore, non sa comprendere e non sa far fruttare la vita. E dalle ore oscure e tetre di questo momento tragico della vita del Maestro che sente l'abbandono, la morte, la derisione d'attorno, la solitudine ghiacciata che gli fa udire i battiti del suo cuore schiantato, noi saliamo alle superbe altezze del Nabucco, canto vulcanico e possente di questo suo cuore che anela alla resurrezione e alla vita... Come nell'Incendio della miniera di Ada Negri il minatore respira fumo ed è avvolto e travolto dalle fiamme e dallo schianto della terra che sobbalza e crolla su di lui, così Verdi in questi mesi è sconvolto da una tempesta inimane di dolori e di angoscie, di delusioni e di miseria senza pane... Solo, con un turbine di ricordi e di speranze spente, incompreso, povero... e quella volontà tentatrice di distruzione e di vendetta, di andare in fondo al male e alla corruzione per dimenticare... Ma Dio è con lui e dall'orlo dell'abisso lo risolleva alle altezze dei cieli, dove la voce è canto e dove riempie l'anima il desiderio dell'infinito. Il successo della prima opera è di tale gioia a Verdi che, al calare del sipario dopo il primo atto, era corso a darne novella a Margherita sua impareggiabile consorte ; erano venuti poi da Busseto il Barezzi col figlio Giovanni, e molti amici. L'impresario Merelli fa « una proposizione lautissima » per quei tempi incaricandolo di scrivere tre opere da recitarsi a Milano o a Vienna. Quattromila lire per opera e la metà degli utili per la loro vendita. Ma intanto Verdi soffre ed è malaticcio ; le esigenze finanziarie sono ancora tante, e l'affitto di casa scade il 29 marzo senza che egli abbia pronta quella somma ; spera nel Merelli al quale fa parlare e chiedere di un anticipo sulle sue opere che verranno date, ma tale incarico non è assolto, e allora è la moglie buona e oculata che esce con tutto quello che ha di più caro, lo vende, ne mette insieme una somma che dà a Verdi, il quale commosso può pagare con puntualità non mai smentita l'affitto. — « Fui commosso, dice egli stesso, a questo tratto affettuoso, promettendomi di restituire il tutto a mia moglie, il che potevo fare in breve, visto il contratto che già avevo ». Ma mentre il Maestro sta attendendo a comporre la prima di tali opere, ossia Il finto Stanislao del Romani, gli si ammala la stessa moglie. E' un caso di violenta encefalite ; grave ! Pochi giorni dopo un'altra bara esce da quella casa ove il Maestro aveva invocati giorni sereni per lavorare indefessamente. « La consolatrice della sua gioventù, l'animatrice delle sue speranze, la consigliatrice, l'ispiratrice, non è più con lui, vicino a lui, stretta a lui... Composta la salma nella bara e datale sepoltura ne] cimitero suburbano di San Giovannino, Verdi riprende la via di Busseto con Antonio Barezzi », che era accorso trepidante a Milano e « appena aveva fatto in tempo a raccogliere l'ultimo respiro della figlia adorata... ». (G.) Vengono le lagrime agli occhi quando si vede questo uomo solido e imperterrito, benefattore instancabile di Verdi al quale aveva dato in isposa la stessa figlia prediletta, scrivere nel suo libro di casa queste parole: « Per terribile morbo, forse non conosciuto dai medici, cessò di vivere fra le braccia paterne la mia diletta figlia Margherita, in Milano, nel mezzogiorno del Corpus Domini, sul fiore di sua età e nel colmo di sua fortuna, perchè compagna fedele dell'ottimo giovane Giuseppe Verdi, maestro di musica. Pace imploro all'anima pura, mentre ne piango la dolorosa perdita ». Rileggiamole queste righe tristi e soavi ad un tempo: il Barezzi non sa capacitarsi di una morte quasi fulminea e dubitando che i medici non abbiano saputo salvarla, non ne fa loro rimprovero se non con quel « forse » delicato e mesto ; ne rimpiange la perdita all'alba di radioso avvenire, pur nella squallida casa non ancora allietata dalla mancanza di preoccupazioni finanziarie ; e implora pace eterna « all'anima pura » con quella fede cristiana dei padri nostri, fede di Dante e di Petrarca, fede medioevale che tutto vedeva in dipendenza della vita eterna, « ove l'amor s'insempra », in Dio Creatore. «UN GIORNO DI REGNO» Ritorniamo a Busseto dove Verdi ha la sola consolazione della compagnia e della parola del Barezzi. Non sa che cosa farà. Ora non può far nulla. Nella sua anima ogni speranza ed ogni desiderio è assopito ; egli li crede anzi svaniti e schiantati. Ma lo raggiunge lo svegliarino del Merelli che gli ricorda il contratto. Il Merelli va più innanzi, e nell'annuncio del Cartellone mette che due opere nuove saranno date « espressamente scritte dalli Signori Maestri Alessandro Nini e Giuseppe Verdi ». Verdi che ha tentato invano di sciogliere il contratto, riprende la strada per la Metropoli lombarda per portare a termine l'opera già portata prima a buon punto. Ma che cosa gli sia uscito dall'animo in quelle tragiche contingenze, che cosa egli abbia fatto, forse non lo sapeva nemmeno lui stesso. Ha lavorato per forza, ha terminato l'opera contro sua volontà, l'ha consegnata al Merelli confidando che il pubblico fosse benigno perchè conscio della sua situazione familiare e sociale. Anche il primo biografo Demaldè si chiede subito: « Ognuno può figurarsi che cosa poteva uscire da un animo esacerbato, avvilito, angustiato... » 5 Settembre 1840: va in scena l'opera di Verdi: Un giorno di regno. Essa non piace. Verdi questo se l'aspettava. Ma non si aspettava che il pubblico... « oh. se il pubblico avesse, non applaudito, ma sopportata in silenzio quell'opera... ». E commenta il Gatti: « Generosità, cortesia del pubblico? Illusioni pericolose. Il pubblico è di sua natura volubile... E' sempre felice quando può far scandalo. E' sempre disposto a dare una buona schioppettata ». « Oh se il pubblico... l'avesse sopportata in silenzio, io non avrei parole safficienti per ringraziarlo ». E queste parole scriveva Verdi nel 1859 a Tito Ricordi, ossia diciannove anni più tardi a dimostrazione che l'amarezza di quella sera non gli si era ancor spenta in cuore. Ma aveva una soddisfazione morale impareggiabile: di aver fatto il suo dovere. L'impegno e la parola data esigevano da lui, un lavoro contro volontà: non aveva potuto ottenere dal M3relli di esserne prosciolto. Ebbene: manterrà la parola. Ne vadano di mezzo la gloria, il successo, il trionfo... Scriverà poi asua immensa soddisfazione al Cammarano: « Sono solito fare il mio dovere a cui finora mai ho mancato... In un letto , quasi morente, diedi parola di finire l'Attila e lo finii ». « Io rammento, scriverà ancora in seguito, rammento sempre con gioia i miei primi tempi in cui senza quasi un amico, senza che alcun parlasse di me, senza preparativi, senza influenza di sorta io mi presentava al pubblico con le mie opere pronto a ricevere fucilate, e felicissimo se potevo destare qualche impressione favorevole ». Ma in questa occasione di Un giorno di regno egli non poteva ergersi contro la folla con le sue qualità e con tutte le sue forze leonine ; egli era uomo e l'urto contro la morte, tre volte formidabile, lo aveva atterrato. Ma poichè la difficoltà di un'impresa è per i forti stimolo a superarla, egli si rialzerà e manderà un ruggito di potenza: Il Nabucco. IL TRIONFO DEL « NABUCCO » Dopo l'insuccesso di « Un giorno di regno » che ebbe ...il regno di poche ore, e che si prestava col titolo ad ironie simili a frecciate, cui si univa il nome di Verdi facile a prestarsi ad ironie esso pure, Verdi si senti abbattuto fino al punto di non volere assolutamente più comporre, e mise in opera tutte le sue insistenze perché il Merelli lo sciogliesse dal contratto per le altre due opere ch'egli non voleva scrivere ad ogni costo. Ma il Merelli è uomo « navigato », sa quale sia il momento che Verdi sta attraversando per le sciagure domestiche, e lo tratta paternamente: « Capricci, capricci da ragazzo,... e non bisogna scoraggiarsi per un successo poco felice ». Ed alle parole aggiunge i fatti che valgano a risollevare l'animo prostrato del Maestro. Gli rimette in scena la prima opera che aveva avuto discreto successo, l'Oberto. Ma Verdi, che non ha nemmeno una salute eccellente, non vuol recedere dalla sua decisione, fino a che il Merelli gli restituisce il contratto, accompagnando ciò con parole amorevoli: « Senti, non posso obbligarti a scrivere per forza. La mia 6 — F. Botti, G. 'Verdi fiducia in te non è diminuita ; chissà che un giorno non ti decida a riprendere la penna. Basta avvertirmi due mesi prima di una Stagione e ti prometto che la tua opera sarà rappresentata ». E' rugiada sulle morte speranze di Verdi, che si è fatto più taciturno e più severo del solito, e il nove di novembre rispedisce tutti i suoi mobili a Busseto, a mezzo del conducente Noelli: « Sei materassi in sei involti ; sei cuscini in un involto, più due sofà di noce con nove assi e quattro guide, tre ciffoni di noce e diciotto sedie di noce, i cui diciotto cuscini sono contenuti in un involto, e questi sofà, ciffoni e sedie sono del valore di lire 105 austriache. Il peso della lana è di Rubbi 41 ». Si trattiene ancora a Milano, dove vive con frugalità « contadinesca » come per tutta la sua gioventù, alloggiando in un'osteria detta di San Romano, ove ha una camera ammobigliata a sua disposizione. Che cosa pensa egli in questi tetri giorni senza spiraglio di luce? Ed è qui che cediamo la parola a lui stesso che ci narra come nacque il Nabucco. « Fissai dimora in Milano presso la Corsia dei Servi; ero sfiduciato, nè più pensavo alla musica, quando, una sera d'inverno, nell'uscire dalla Galleria de Cristoforis, m'imbatto nel Merelli che si recava al teatro. Nevicava a larghe falde, ed egli, prendendomi sotto braccio, m'invita ad accompagnarlo al camerino della Scala. Strada facendo, chiacchieriamo, e mi racconta di trovarsi imbarazzato per l'opera nuova che doveva dare; ne aveva l'incarico il Nicolai, ma questi non era contento del libretto. — Figurati — dice il Merelli — un libretto del Solera, stupendo !... magnifico !... straordinario !... posizioni drammatiche efficaci, grandiose; bei versi !... ma quel caparbio di maestro non ne vuoi sapere, e dichiara che è un libretto impossibile ! Non so dove dar di capo per trovarne un altro subito. — Ti levo io dall'impiccio — soggiunsi, — non hai fatto fare per me il « Proscritto? » Non ne ho scritto una nota: lo metto a tua disposizione. — Oh! bravo... è una vera fortuna. Così dicendo, eravamo giunti al teatro ; il Merelli chiama il Bassi, poeta, direttore di scena, buttafuori, bibliotecario, eccetera, eccetera, e lo incarica di guardare subito nell'archivio se trova una copia del «Proscritto ». La copia c'è; ma in pari tempo, il Merelli prende in mano un altro manoscritto e, mostrandomelo, esclama: — Guarda: ecco qui il libretto del Solera! Un così bell'urgomento, e rifiutarlo !... Prendi... leggilo. — Che debbo farne?... no, no ; non ho voglia di legger libretti. — Eh... non ti farai male per questo !... Leggilo e poi me lo riporterai — e mi consegna il manoscritto. Era un copione a caratteri grandi, come s'usava allora; lo faccio in rotolo e, salutando il Merelli, mi avvio a casa. Strada facendo, mi sentivo in dosso una specie di malessere indefinibile, una tristezza somma, un'ambascia che mi gonfiava il cuore !... Rincasai e con un gesto quasi violento gettai il manoscritto sul tavolino, fermandomi ritto in piedi davanti ad esso. Il fascicolo, cadendo sul tavolino, si era aperto ; senza saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava a me innanzi, e mi si affaccia questo verso: « Va pensiero, sull'ali dorate ». Scorro i versi seguenti e ne ricevo una grande impressione, tanto più che erano quasi una parafrasi della Bibbia, della qui lettura mi dilettavo sempre. Leggo un brano, ne leggo due, poi, fermo nel proposito di non scrivere, faccio forza a me stesso, chiudo il fascicolo e me ne vado a letto. Ma si: « Nabucco » mi trottava per il capo !... Il sonno non veniva. Mi alzo e leggo il libretto, non una volta, ma due, ma tre, tanto che al mattino si può dire ch'io sapevo a memoria tutto quanto il libretto del Solera. Con tutto ciò, non mi sentivo di recedere dal mio proposito, e nella giornata ritorno al teatro e restituisco il manoscritto al Merelli. — Bello eh! — mi dice lui. — Bellissimo ! Eh!... dunque mettilo in musica !... — Neanche per sogno !... non ne voglio sapere. — Mettilo in musica, mettilo in musical... E così dicendo, prende il libretto, me lo ficca nella tasca del soprabito, mi piglia per le spalle e con un urto ne mi spinge fuor del camerino, non solo, ma mi chiude l'uscio in faccia con tanto di chiave. Che fare? Ritornai a casa col Nabucco in tasca. Un giorno un verso, un giorno l'altro, una volta una nota, un'altra volta una frase... a poco a poco l'opera fu composta. Eravamo nell'autunno del 1841 e, rammentandomi la promessa del Mcrelli, mi recai da lui, annunciandogli che il Nabucco era scritto e che quindi poteva rappresentarsi nella prossima stagione di carnevale ». Ho fatto notare nel mio libro « Verdi e la Religione » come il Ma estro si dilettava della lettura della Bibbia. che fin da fanciullo aveva imparato a conoscere ed amare dalle prime lezioni di storia sacra del parroco delle Roncole a quelle delle Scuole di Busseto, essendo allora nel programma scolastico tale materia. E fu certamente la lettura della Bibbia che gli confortò le ore più tragiche della sua vita, e gli inondò l'anima di insaziati desideri di bene, di bontà, di vita solitaria... Ed è una pagina di Sacra Scrittura che lo riporta alla musica e gli dà quell'ispirazione che si tramuterà nel canto meraviglioso nostalgico, mistico di: « Va, pensiero... ». E' il pianto, è il canto nostalgico dei prigionieri di Babilonia, terra straniera e nemica, ivi deportati dal re Nabucodonosor dopo la distruzione di Gerusalemme, la città santa. Nel salmo 136, che forse Verdi aveva musicato a Busseto in qualche festa religiosa, c'è la descrizione con la più alta poesia degli Ebrei sedenti e piangenti sulle rive dei fiumi di Babilonia: « Super flumina Babylonis, illi sedimus et flevimus cum recordaremur Sion ». Ai salici piangenti chinati in sulla riva stanno attaccate le cetre mute e all'invito di far udire le melodie sacre del tempio di Gerusalemme rispondono che in terra straniera non nasce e non sgorga dalle fauci riarse il cantico del Signore, che farebbe ricordare maggiormente il tempio distrutto e infranto. Molti anni dopo, nel 1891 Verdi ritorna ad un'altra pagina grandiosa della Bibbia, a quella di Giobbe, « per trovare la 'forza di sopportare ». Sono ben note le reazioni del Solera alle esigenze del Verdi per il libretto che vuol modificare a tutti i costi: Sono ancora note le insistenze di Verdi col Merelli perchè il Nabucco sia rappresentato quanto prima, ma è bene che le riandiamo brevemente chè tutto quanto riguarda il Nabucco interessa sommamente, essendo l'opera che ha rivelato il Verdi nella sua grandezza, l'ha collocato sul piedestallo, sul quale giganteggerà attraverso una lunga serie di anni. Il Merelli ha già tre opere nuove in cartello e non ne vuol sapere di dare il Nabucco nel prossimo carnevale del 1842 ; poi cede alle insistenze di Verdi il quale sa che in questa stagione cantano alla Scala Giuseppina Strepponi e il Ronconi, per i quali sembrano fatte apposta le due parti principali della sua opera. Cede ma a patto che la parte di Abigaille piaccia alla Strepponi. Verdi si reca dalla Strepponi che si dichiara entusiasta e va poi a convincere il Ronconi di accettare egli pure di cantare in quell'opera. Il Merelli è quindi vinto. Ma una nuova sorpresa colpisce amaramente Verdi, che nel Cartellone non vede annunciata la sua opera. Che cosa è successo? « Ero giovane, avevo il sangue bollente, e scrissi una lettera, dice Verdi, una letteraccia al Merelli nella quale lasciai sfogare tutti i miei risentimenti. Confesso che appena mandata ebbi una specie di rimorso... ». Ma il Merelli è ancora una volta uomo pacato, che contempera le esigenze degli affari con quelle degli artisti, e chiama Verdi: «E' questo il modo di scrivere ad un amico?... Ma, via, hai ragione ; daremo questo Nabucco ». Fa però osservare che per esso non potrà fare molte spese. Verdi accetta tutto. Egli stesso lo dice: « Acconsentii a tutto, poichè a me premeva che l'opera si desse. Uscì un nuovo cartellone sul quale finalmente lessi Nabucco ». Finalmente !... La Strepponi, che mieteva allori superbi sulle scene, comincia con gli altri artisti le prove del Nabucco alla fine di febbraio, e ai nove di marzo l'opera va in scena con un successo stupefacente. Verdi stesso dichiara che con quest'opera cominciò veramente la sua carriera artistica. Prima era stato il calvario della conquista dolorosa tra le gioie e gli sgomenti. Ma sentiamo come andò la cosa: « Durante il corso degli studi il teatro era per così dire, messo in rivoluzione da una musica di cui fino allora non si aveva alcuna idea. Il carattere dello spartito era talmente nuovo, talmente sconosciuto, lo stile così rapido, insolito che lo stupore era generale, e che i cantanti, cori e orchestra all'udire quella musica mostravano un entusiasmo straordinario. Ma v'ha di più: era impossibile lavorare in teatro al di fuori della scena, all'ora delle prove, giacche impiegati, operai, pittori, lampionai, macchinisti, elettrizzati da ciò che sentivano, lasciavano le loro incombenze per assistere a bocca aperta a ciò che si faceva sulla scena. Quando un pezzo era finito li avresti intesi scambiare fra loro impressioni e dirsi, il più spesso in dialetto milanese: Che folta noeuva... (che diavoleria nuova) » (Pongin). L'avvenimento del giorno per tutta la città era l'aspettativa di questa nuova diavoleria, e in tutti i ritrovi non si parlava che di essa. L'attesa aveva acuito ogni giorno più il desiderio di ascoltarla. Si attendeva davvero una rivelazione. Ed essa venne. E vennel'applauso, il trionfo, il delirio per essa. « Difatti la intera serata non fu che un lungo trionfo per il compositore. Il pubblico si mostrava meravigliato e ad ogni istante gli applausi scoppiavano con un calore indicibile ». Possiamo ora, al termine di questa prima parte della Vita del Verdi, così riassumerla brevemente: Egli nasce in un povero paesino di campagna, ma la Fortuna, che « è tanto posta in croce — pur da color che le dovrian dar lode » gli prepara vicino un organista di chiesa, e un parroco che lo istruisce nei primi elementi ; è figlio di poveri genitori, ma la generosità del Barezzi gli viene in aiuto e gli dona i mezzi per perfezionarsi a Busseto, ove ottiene i primi successi; non è accettato nel Conservatorio, ma in tal modo egli studia col Mastro Lavigna e percorre il corso di studio in minor numero di anni ; a Busseto è osteggiato nella nomina di Maestro di musica, ma in tal modo egli è stimolato a portarsi a Milano dove il campo per la sua rivelazione è vasto ; stenta a mantenere la sua famiglia, dopo aver avuta la gioia di sposare la figlia del suo benefattore, e gli muore il primo figlio, ma la sua prima opera ottiene un discreto successo nel primo teatro del mondo ; la sventura si abbatte ancora sulla sua famiglia e lo fa solo col vuoto intorno, e la caduta della sua seconda opera alla Scala, ma poi nell'animo suo matura e nasce l'opera veramente rivelatrice, nuova, stupefacente che lo innalza e lo rivela Grande. In questi giorni in cui il Nabucco trionfa con un successo incontenibile la Gloria eleva il Maestro in cospetto alle genti, e lo bacia nuovamente in fronte a premio e a certezza di più grandiosi trionfi. DOPO IL TRIONFO DEL « NABUCCO » Il successo dell'opera fu davvero grandioso. Non si era mai visto alla Scala un successo simile, e la cifra di 57 recite non era ancora stata raggiunta al teatro milanese. I motivi di tale entusiasmante trionfo, al quale vollero assistere anche il Barezzi col figlio, venuti a Milano a sentire le ultime esecuzioni, son molti e cercheremo di enumerarli brevemente. Si trattava di una musica nuova: di una musica il cui motivo conquista subito e permea l'anima degli asco) tatori. Nemmeno il popolo sapeva dire, e anche oggi non lo saprebbe dire con precisione, perchè lo affascini la musica verdiana. Ma una risposta egli diede sempre e sempre darà, come fece notare Pizzetti nella sua commemorazione verdiana a Parma: « Perchè Verdi ci commuove »Al famoso coro « Va, pensiero, sull'ali dorate », era la voce di Verdi immalinconito dalle sventure domestiche, e da quelle della patria, era la voce del suo anelito insopprimibile e dell'anelito della patria che stava per scuotere le catene di un giogo aborrito e soffocatore. Altro motivo: il romanticismo espresso italianamente a sfondo storico-religioso e non vestito di nebulosità paurose. Qui i due caratteri erano il religioso e patriottico. La grandiosità biblica degli eventi descritti portava in un mondo quasi fantastico, pur avendo tutti i caratteri di attualità, poichè nella visione degli ebrei reclinati piangendo sulle rive dei fiumi di Babilonia e anelanti a libertà, fuor della schiavitù e del pianto, era insita una speranza risorgente nei cuori degli ascoltatori. Ancora alla solennità di tutta l'opera si aggiunge il fatto che Verdi aveva creati dei tipi, ossia delle figure tipiche, dando vita e gagliarda vita alle persone del dramma, e noi sappiamo bene che il popolo italiano ama i protagonisti, l'eroe, l'individuo con una sua personalità spiccata. Qualità questa che andrà poi perfezionandosi nelle opere successive. Infine giovò al successo il fatto che a sostenere la parte di Abigaille fu la stessa Giuseppina Strepponi, che il pubblico milanese non si saziava di sentire alla Scala. E sebbene in questa opera verdiana non avesse potuto fare sfoggio di tutte le sue elette qualità vocali, pure ne diede una così appassionata interpretazione e naturalezza di espressione che da allora sarà sempre reclamata nei teatri d'Italia ogni volta che si darà il Nabucco, come a Parma nel 1843, in quello che era allora il teatro Ducale. Tra le persone che avevano udito il Nabucco e ne avevano riportata una sensazione nuova e incancellabile vi fu Donizetti, ed è noto come il giorno seguente a tale audizione egli, viaggiando per Bologna non facesse che ripetere a se stesso, quasi a conclusione dei ragionamenti interiori: «E' bello, è bello... ». Ed ecco il contadino, che ha un volto con la barba quasi incolta, e quei suoi capelli castani pure in-coltamente spioventi; un volto ruvido come il suo temperamento, e che con esso rimarrà tale fino alla più tarda vecchiaia, eccolo desiderato, invitato, ossequiato, circondato dai nobili e conteso dalle contesse che tengono salotto ed hanno il fior fiore della letteratura e dell'arte tra le loro pareti. Comincia subito di qui la relazione di Verdi con la contessa Maffei e la Appiani, relazione di stima altissima che porterà poi a conoscere Manzoni, tramite la Maffei, che venerava al sommo questi due grandi italiani. Il discepolo di Verdi, Emanuele Muzio, anch'egli sorretto nel cammino dell'arte dal sussidio del Monte di Pietà di Busseto. e amico vicino per tanti anni a Verdi in questo periodo di vita milanese, descriverà mirabilmente questa popolarità verdiana (che si estendeva fino alle pietanze e agl'intingoli alla Verdi.. ) con questa frase: «E' contornato da tanti satelliti di nobili che pare non possano stare senza di lui ». Ma non possiamo terminare queste riflessioni sul Nabucco senza aver riportato ciò che avvenne a Parma, quando Verdi vi diede tale opera nel 1843. Nella nostra e sua città fu lo stesso Verdi che pensò alla messa in scena del Nabucco. E come sempre avverrà quand'egli si occupa di persona con la perizia, l'accuratezza e la severità abituali, dell'allestimento dello spettacolo, il successo fu enorme. Egli tiene in pugno tutti. Ad un suo cenno, ad una sua occhiata, i cantanti, i cori, l'orchestra pare che siano tocchi da una scintilla elettrica, e allora sì che vanno bene. Tutti i giornali parlarono di questa esecuzione a Parma e il corrispondente del Figaro il 26 aprile scriveva: « Qui non v'ha luogo a dubbio. Gli applausi accordati all'opera, al Maestro Verdi, ai cantanti, furono troppo clamorosi, troppo concordi perchè un povero diavolo si metta in capo di volerla fare da critico. Bellissima adunque la musica, bravissimo il Maestro Verdi, bravissimi la Strepponi, la Colinie e Miral. Questi applausi fragorosi e interminabili furono i primi di tutta Parma al suo Maestro, e rimasero nel cuore di Verdi insieme con il ricordo delle dolci ore a Parma trascorse ; egli trovò in essi più gioia e soddisfazione perchè erano cosi vicini a Busseto, che l'eco vi giungeva sonora, perchè a Parma egli contava molti amici che si erano adoprati per farvi dare, ma inutilmente, la sua prima opera, ed ora lo rivedevano tornare trionfante e perchè infine nella nostra città ducale, queta e solenne, di quella sua solennità pacata che ne fa ancora una piccola capitale del bel canto e in ogni iniziativa sempre all'avanguardia, Verdi si sentì sempre più legato alla Strepponi, sua consigliera a Milano, sua interceditrice presso il Merelli, e magnifica ogni giorno più nella parte di Abigaille del Nabucco. Forse i primi sentimenti di riconoscenza e di stima verso di lei si andarono mutando in inconscio affetto ed amore proprio qui a Parma, e vedremo poi come essa diventerà sua seconda impareggiabile consorte, angelo di bontà e di comprensione. creatura veramente degna dell'artista sublime, che vicino a lui si ecclisserà nell'ombra, mentre lo aveva aiutato a salire all'alto quando ancora egli era oscuro ed essa contesa ed esaltata. Dal giorno del trionfo del Nabucco Verdi ha mille offerte di contratti per nuove opere, e gli editori ora gli offrono cifre elevatissime per i suoi lavori. Ma egli si accorderà subito col Merelli per un'opera il cui titolo sarà I lombardi alla prima Crociata. Quando Verdi aveva composto il Nabucco aveva 28 anni, usciva da un paesello tra i più umili di tutta la campagna parmense, era entrato tardi al Conservatorio dove non aveva potuto esser accolto perchè troppo adulto e precisamente perchè aveva quattro anni di più dell'età di ammissione, su di lui si erano abbattute tragedie immani, e la sua salute stessa ne aveva risentito per non pochi mesi. Tra i 29 anni e i 30 egli era quando Parma gli tributava un trionfo che non dimenticherà mai più per tutta la vita. PARTE SECONDA PREMESSA DAL NABUCCO AL FALSTAFF Dopo il trionfo spettacolare del Nabucco Verdi non se ne inorgoglisce e non ne mena vanto, ma si accorge che la polla nascosta del suo canto ha trovato il cammino vorticoso verso le valli di tutti i continenti, ovunque siano cuori in ascolto. Nessuna diga ne ostacola l'irrompere turgido e fragoroso, e come onda di fiume che scende e spumeggia, rimbalza e s'espande, così il suo canto raggiungerà la mirabile espansione in ben trenta opere, se in esse vogliamo includere Un giorno di regno che la sua mano tremante aveva stillatonell'ora più cupa del dolore e dell'abbandono... Dal trionfo del Nabucco in Verdi non c'è che il desiderio di comporre, di dare opere nuove. E subito cerca e trova un libretto che col Nabucco ha molta somiglianza. Poi verrà su lui e in lui quasi una febbre di lavoro. Poi qualche stasi apparente, la voluttà di risentirsi contadino tra i campi, lungi dal rumor degli uomini, infine ancora 7- F. BOTTI, G. Verdi una risorgente giovinezza che darà al mondo la vena zampillante e gioiosa del Falstaff. Noi lo seguiremo per questo cammino ascensionale, e ne studieremo le opere e i giorni, poichè non solo le sue opere sono interessanti, ma tutta la sua vita continua a essere varia e grandiosa, sotto la scorza ruvida e costante del contadino delle Roncole. I trionfi non lo corromperanno ; la gloria non lo farà vaneggiare ; il mondo non lo trasporterà nei gorghi dei piaceri e delle vanità; le ricchezze sopravvenute non gli faran mutar tenore di vita, e gli lasceranno raggiungere un'età avanzatissima in merito anche alla sua sobrietà esemplare; e se la sua personalità si andrà in un certo senso elevando, facendolo alle volte quasi sdegnoso, lo rivedremo poi più di prima umano e sereno, dolce nell'intimità della vita familiare, e sempre benefico e buono, generoso e caritatevole. La sua sensibilità che è la fanciullesca sensibilità del Genio, lo porterà a commuoversi davanti a tutto ciò che è bello, come un quadro del Morelli e le pitture del Correggio, o la pietà del Dupré, come davanti ad avvenimenti tristi come la morte di Cavour o del Manzoni, che lo faranno piangere veramente come un fanciullo. Noi non dobbiamo mai misurare i Grandi, ammoniva ancora una volta il Luzio, col metro della nostra pochezza o nullità: ma guardarli a distanza come i solenni e austeri monumenti della patria. I LOMBARDI ALLA PRIMA CROCIATA « L'entusiasmo con cui, dice A. D'Angeli, fu accolto il coro commovente degli ebrei che in uno slancio sublime chiedono all'arpa d'oro dei vati fatidici di riaccendere nei petti le memorie e favellare di un tempo che fu; quell'ardore che invase gli ascoltatori, così unanime come se fosse una intesa tra gli autori e il pubblico, come se la musica verdiana fosse destinata a divenire la voce dell'anima popolare, persuase il Solera e il Verdi a cercare un argomento per la nuova opera d'obbligo che desse occasione al patriottismo di manifestarsi senza destare sospetti e procurare le recriminazioni del governo austriaco. Il soggetto fu così tolto dai Lombardi alla prima Crociata di Tommaso Grossi. L'azione scenica è multiforme in questo libretto e dalla piazza di Sant'Ambrogio di Milano, « quello vecchio là fuori di mano », alla vista di Gerusalemme su cui sventola il vessillo crociato 'all'alba del sole nascente, è tutto un susseguirsi di visioni e luoghi, ma le ispirazioni veramente geniali che tanti petti hanno scossi e inebriati sono veramente due: quando l'Eremita versa l'acqua lustrale sul capo di Oronte morente, e la musica interpreta mirabilmente e soavemente la scena che è visione celeste e di celesti cose ; e quando nel campo dei Crociati sedenti mesti presso il sepolcro di Rachele, senza acqua e assetati, si alza il canto degli avviliti e dimessi, già guerrieri possenti e volontari, chiamati dalla voce di un pio, e nei loro occhi non più sfavillanti ripassa la visione dei laghi lombardi, delle fonti perenni, dei ruscelletti vaghi scorrenti... in contrasto con le aride sabbie desertiche, con l'arido suolo. L'll febbraio 1843 i Lombardi andarono in scena alla Scala, e il successo fu pari a quello del Nabucco. E' noto che la polizia e l'autorità religiosa tentarono di fare delle obiezioni alla recita dei Lombardi; ma tutto si risolse in un'inezia, nel cambiamento cioè dell'Ave in Salve nella preghiera di Giselda. La quale preghiera è « di una vaghissima e pura semplicità e scioltezza melodica, ricca di commozione per il movimento armonico e per il vario ed efficace strumentale ; la fede e l'agitazione della giovinetta vi sono espresse in una fusione e con una sincerità di ispirazione comunicative e convincenti ». Molto è stato scritto sui librettisti di Verdi, delle sue giuste esigenze, ma l'episodio più caratteristico è sempre quello riguardante I Lombardi. Non piacevano a Verdi due versi di una strofa che cominciava: « Avrai talamo l'arena del deserto interminato », e fu allora che con uno scatto liriCo ispirato egli vi aggiunse: «Sarà l'urlo della jena, la canzone dell'amor ». E proprio su questa strofa Verdi intesse una delle più tenere e « melodiose frasi dell'opera » (Roncaglia). Ma non voglio terminare il capitolo dei Lombardi senza aver prima riportato una pagina del Roncaglia nel suo recentissimo e interessantissimo, direi fondamentale libro sull'Ascensione creatrice di G. Verdi. In questa pagina il dottissimo autore esamina le due opere il Nabucco e I Lombardi, dichiarandole esplicitamente due soggetti eminentemente religiosi, e la musica essa pure prevalentemente religiosa. Nel Nabucco, « tutta l'atmosfera, le processioni, le conversioni, i battesimi, le preghiere e gl'inni dànno all'intero spartito l'impronta del melodramma sacro. E ciò appare tanto più importante in quanto ogni volta che il musicista si trova di fronte a situazioni o a versi di soggetto religioso, l'ispirazione si risolleva immediatamente e tocca spesso il sublime ». Questo libro del Roncaglia usciva quasi contemporaneamente al mio su Verdi e la religione, e ho la soddisfazione di trovarvi un esame serio e sensato su tale argomento, a conforto della mia tesi, da altri contrastata. Il Roncaglia dice che dall'esame della vita di Verdi « ce n'è abbastanza per non dubitare della sua fede religiosa, sia pure con qualche veduta personale sulle pratiche religiose. Può darsi che questo sembri una questione oziosa, in quanto, come si può benissimo dipingere ad esempio un criminale senza esserlo, così si può scrivere musica sacra essendo magari ateo ; la sincerità estetica non è la sincerità nzorale. Ora esaminando attentamente la musica di carattere religioso, che pervade e vivifica tanta parte della produzione verdiana — a parte i Pezzi sacri e la Messa di requiem -sembra di potervi riconoscere qualcosa di così intimo, fervido e pieno, da poter concludere ch'essa non sia solamente una oggettivazione di sentimenti altrui, ma un'espressione soggettiva ; non dunque una manifestazione di sincerità estetica soltanto, ma di sincerità morale ». Come del resto aveva affermato Boito, che aveva ritenuto un omaggio alla Fede la bellezza delle pagine religiose nella musica di Verdi, della quale pagine fondamentali sono queste dei Lombardi, come lo erano state quelle antecedenti del Nabucco, nelle quali, ove il soggetto è di carattere religioso (, l'ispirazione si risolleva immediatamente e tocca spesso il sublime Che Verdi sia stato sincero nella sua espressione musicale sarebbe oggetto facile per una più facile dimostrazione. Per il suo temperamento austero e rigido che ha nelle sue lettere espressioni forti specialmente quando si alzano dubbi sulla sua condotta, (come nella lettera al podestà in cui sdegnosamente respinge l'insinuazione ch'egli abbia armeggiato nelle contese per la sua nomina a Busseto), basta ricordare come sente musicalmente la frase che maledice all'empio « che infrange la santa promessa « L'ispirazione verdiana trova accenti di una forza travolgente e quasi selvaggia » (Roncaglia). L'OPERA «ERNANI» Parlando di quest'opera Verdi disse: « L'Ernani al quale ho un attaccamento da non dirsi maggiore ». Infatti esso rappresenta ancora un progresso sui Lombardi per maggiore abilità nell'usare gli stessi mezzi, sì che nell'insieme « appare più continuativamente e pateticamente ispirato e più omogeneo nello stile ›). Nel libretto dell'Eri/ami Verdi si stacca dal soggetto religioso e si avvicina più all'umano, alle passioni umane, alla passione di tre personaggi storici per Elvira, sì che Verdi comincia in questa opera a darci quei suoi personaggi violenti e stagliati come nel marino, quelle sue figure quasi viventi. L'idea di lasciare la Scala di Milano per altro teatro fu sua, per il fatto che già in esso aveva date tre opere nuove, più quel disgraziato Un giorno di regno; e non gli par vero di accettare l'invito del conte Carlo Mocenigo, direttore del teatro La Fenice di Venezia di scrivere un'opera per La Fenice stessa, senza per questo abbandonare la Scala alla, quale tornerà quanto prima, d'accordo col Merelli, il geniale e generoso impresario che sta intanto facendo quattrini col Nabucco e I Lombardi. Nella stessa città di Vienna, capitale dell'impero asburgico, che teneva asservita Milano col Lombardo-Veneto, il Merelli dà il Nabucco, e Verdi sente la tentazione di recarvisi a vedere la recita di quella sua opera. Ma essa non ha ivi il successo sperato, per mancanza di buoni cantanti. Di là Verdi passa a Parma, come vedemmo, dove canta la Strepponi, che ha ottenuto grande successo al Nabucco anche a Trieste. Ma il tempo di presentare il libretto al Mocenigo si avvicina e Verdi non ha ancora deciso la scelta. Lascia il Solera e intavola trattative col Cammarano, poi entra in trattative con Francesco Maria Piave indicatogli dallo stesso Mocenigo. Intanto è necessario ricordare che in Francia Victor Hugo trionfava con le sue teorie romantiche e aveva messo sulle scene Emani e il Cromwell, e a queste teorie romantiche aveva sottoscritto in pieno Verdi poichè la indole sua era naturalmente di romantico perchè appassionato e solitario. Il Piave propende per il Cromwell. mentre Verdi preferisce l'Emani. Anche il Mocenigo accetta « e Verdi, colmo il cuore e invasa la mente di tutte le passioni della gioventù, convinto di aver finalmente trovato e ben trovato la fonte dell'ispirazione in cui sazia la bramosia di esprimere tutto ciò che gli ferve nell'animo, si mette subito a stendere le scene che gli sembrano meglio appropriate per quel libretto che agogna: modifica, rimaneggia, cambia il dramma di Victor Hugo Preparata la trama dell'Emani, Verdi invita il Piave ad approntargli il libretto il più presto possibile, perchè quasi si sentiva già la musica nascergli travolgente dal cuore. Il Piave, che aveva già composta molta parte del Cromwell, insiste per questo ; Verdi sta quasi per adattarsi per non venir meno al contratto col Mocenigo, giacchè il tempo fugge e si avvicina il giorno in cui si dovrà dare l'opera nuova, quando riesce a convincere il Mocenigo e allora come onda che irrompe, superati gli ostacoli, la musica del l'Emani nasce fluente. Il poeta non ha ancora preparato i versi del quarto atto che Verdi ha già musicati i tre antecedenti e aspetta con impazienza il quarto. Quando l'opera è composta Verdi va alla stagione della Fenice, dove I Lombardi non hanno buon successo ; ce ne informa lo stesso Verdi in una lettera alla Appiani scrittale immediatamente dopo tale insuccesso: « Ella è impaziente di sentire le notizie de I Lombardi ed io glie le mando fresche: non è un quarto d'ora che è caduto il sipario. I Lombardi hanno fatto un gran fiasco ; uno di quei fiaschi veramente classici. Tutto è stato o disapprovato o tollerato, ad eccezione della cabaletta della Visione. Questa è la storia semplice ma vera che io le racconto nè con piacere nè con dolore. Sono di fretta e lascio pregandola di salutare tutta la sua bella famiglia e Sandrini. Sono sempre l'affezionatissimo amico Giuseppe Verdi ». Ma arriva presto il giorno dell'Emani, che è portato alle stelle dai veneziani. Qualche contrasto la prima sera, per sfasatura di qualche cantante, ma poi l'entusiasmo raggiunge il delirio, e quando La Fenice è chiusa si pensa di dare ancora l'Emani al teatro di San Benedetto, nel maggio successivo. « Quest'Ernani al quale ha un attaccamento da non dirsi maggiore » ha dei motivi così belli che il pubblico li ripete subito dopo la seconda rappresentazione, « privilegio questo della buona musica, che udita appena si stampa nella mente e si fa popolare ». Molte sono le lodi sulla Gazzetta privilegiata di Venezia, dove il critico nota come « pochi spartiti produssero più forte, più viva impressione di questo ». Dall'Italia all'estero i grandi e piccoli teatri vogliono l'Ernani; lo vuole il Donizetti per Vienna, lo invocano Londra e Parigi ; a Roma lo si dà con tale entusiasmo popolare che sulla Gazzeta musicale di Milano possiamo leggere: « L'Ernani ha fatto veramente qui un furore inaudito. Figuratevi che oggi e domani si danno due recite di più fuori d'abbonamento ; ebbene questa mattina alle nove la piazza del teatro e le contrade vicine erano talmente piene di gente che l'avvocato V... dovendo condursi da quelle parti in carrozza non vi potè passare, e fu obbligato di fare un giro diverso per la tanta gente che si era stipata in attenzione che si aprisse il botteghino della dispensa dei biglietti per questa sera e dovettero intromettersi le guardie e la Polizia, giacche diversamente sarebbe successo qualche grosso guaio... ». Ora qualche osservazione: ad un certo momento Ernani consegna un corno a Silva dicendogli: cc... Nel momento — in che Emani vorrai spento — se uno squillo intenderà — tosto Ernani morirà ›). E si sa che il Mocenigo, direttore de La Fenice, non ne voleva sapere di questo corno, perchè diceva che a La Fenice non se ne erano mai veduti, e pensava che diventasse ridicolo o suscitasse ilarità. Ma Verdi tenne duro anche in questo ; e potè poi chiedere al Mocenigo: « Ebbene chi ha riso al suono di quel corno? » Per cui Verdi fu un innovatore in molti sensi nel campo musicale, e contribuì a svecchiare il teatro italiano. Abbiamo dall'Emani l'incontro di Verdi con Francesco Maria Piave. Il Piave era figlio di un vetraio di Murano che si era ridotto quasi in miseria a causa della importazione Boema, che lo ridusse a portarsi a Roma in cerca di fortuna. Aveva messo il figlio in Seminario a Venezia, con l'intenzione di farne un prete, non ricordando che per diventar prete è necessaria la vocazione del Padre che è nei cieli, e non quella del padre terreno. Francesco Maria uscì di seminario e andò a Roma col padre, che vi morì povero, lasciando al figlio di trascinarsi in cento occupazioni per vivere, fino a che si ridusse a correttore di bozze dell'Antonelli. « Traduceva bene; poetava a tempo perso, componeva ballate e serenate per i barcaioli veneziani ; e a mezzo del segretario de La Fenice, Guglielmo Brenna fu indicato al Mocenigo quale librettista. Di qui i suoi primi contatti con Verdi di cui diventerà il maggiore librettista, fino a quando una paralisi lo ridurrà impotente e inconscio di ogni cosa circostante, per lunghi anni seduto in una poltrona ignaro della fama dei suoi libretti per l'ascendere vorticoso della fama di Verdi ». Abbiamo letto la lettera di Verdi alla Contessa Appiani. E' una figura di donna che teneva salotto in Milano, come faceva la Maffei. Verdi frequentava, come altra volta dicemmo, l'uno e l'altro salotto. Intanto era nato in Verdi e si era rinforzato a Parma nel 1843 un segreto amore per la Strepponi, che si farà più saldo nel 1847. Pare che egli non fosse indifferente anche per la giovanissima cantante la Frezzoliri, che ventunenne gli aveva procurato il trionfo de I Lombardi. Quando Verdi si accorse che la Appiani andava volgendosi a pretese di vero amore, fece capire che la pretesa d'imporsi sulle altre non era logica nell'Appiani, e che spettava a lui scegliersi la donna del suo cuore. « Sono arrabbiato, desolato, ma bisogna che rinunci alla sultanità. La ringrazio nonostante e le stringo le mani ». I rapporti tornarono ben presto nel loro alveo di cortese amicizia, anche se Donizetti parve ingelosirsi, e ben a torto. Verdi, come è stato fatto notare ripetutamente, non ha nulla nella sua vita di avventuroso nell'amore, anche negli anni giovanili, e invano i gazzettieri e gli scrittorucoli vi hanno cercato col lanternino qualche cosa che saziasse le loro penne. Egli era vedovo, di trent'anni e di fama che si poteva presagire ogni giorno più altissima: aveva diritto di scegliersi una compagna a fianco, e questa sarà la « impareggiabile, fedele, saggia, religiosa, virtuosissisima amica e materna consigliera, Giuseppina Strepponi ». E infine una nota sulle dediche delle opere di Verdi: l'Ernani fu dedicato « Alla Nobildonna Contessa Clementina Mocenigo Spaun, distinta cultrice dell'arte italiana », moglie di Carlo Alvise Mocenigo. direttore de La Fenice. Ma è più interessante vedere ccme egli abbia insistito presso il maggiordomo di Maria Luigia, conte di Bombelles, succeduto al Neipperg, in ogni sua mansione, per poter dedicare alla munifica duchessa di Parma l'opera sua I Lombardi. Due lettere egli scrisse al conte di Bombelles a chiedere « ch'egli interceda, presso l'Augustissima nostra Sovrana Maria Luigia il permesso di umiliarle con dedica questo prediletto lavoro. « Sarà eterna la mia gratitudine e immenso il beneficio se io potessi venire dalla generosità della venerata nostra sovrana onorato di un qualche distintivo il quale nulla più lascierebbe desiderare per la sicurezza di una splendida carriera ». Si stenta quasi a credere che l'ispido Verdi abbia scritto di pugno questa lettera, lui che negherà di suonare poi davanti alla Duchessa, che a Napoli non vorrà esser presentato al conte di Siracusa, fratello del Re di Napoli, nè a Londra alla Regina Vittoria: che rimanderà la Commenda al Ministro Broglio, e non vorrà saperne di titoli nobiliari; lui « che non si cava il cappello davanti a nessuno ». E bisogna pensare tre cose per spiegare questa lettera: che è stata scritta da Busseto, con ispirazione del Barezzi; che era necessaria a far carriera; e che infine Maria Luigia era amata da tutti i sudditi suoi. Solo questo, ripeto, può spiegare la lettera, tanto più che fra pochi mesi scriverà ancora di sè: « Si persuada che nessuno impera sulle mie intenzioni e che io non mi faccio schiavo di niente ». DALL'ERNANI AL RIGOLETTO: ANNI LABORIOSI Dal 1844 al 1851 sono sette anni di svariatissima e vastissima produzione verdiana ; ma la quantità nuoce alla qualità, Le opere sue meno felici sono di questo periodo. Sono anni nei quali Verdi non gode nemmeno buona salute, e deve rispondere agli impegni presi con quell'esattezza che è tutta sua propria. Noi possiamo in parte seguire l'attività e la vita di Verdi con l'epistolario di Emanuele Muzio allievo suo, che vive a Milano. Muzio era figlio di un povero calzolaio, di famiglia venuta a Busseto dal Genovese, e aiutato dal Barezzi e sovvenzionato dal Monte di Pietà per lo studio della musica, come già era avvenuto per Verdi. Il Muzio non diventò... un Verdi, ma fu buon compositore, e sue opere furono date sui. teatri italiani ed esteri; si ritirò poi a vita privata a dar lezioni di musica a Parigi, dopo viaggi anche in America, ed ebbe tra le sue allieve la famosissfina Adelina Patti ; mori in una casa di salute a 69 anni, dopo avere così scritto a Verdi: « Me ne partirò presto per l'altro mondo, pieno di affetto e di amicizia per voi e per la buona e cara vostra moglie ». Muzio è più giovane di otto anni, è povero, e ha poco da spendere. Fa a Milano un inverno freddo e riesce a comperarsi « un paletot e un gilet » solamente con i soldi che Verdi gli ha fatto guadagnare « lavorando per esso lui ». Egli scrive continuamente al Barezzi non tanto per sua riconoscenza quanto alle volte per ordine di Verdi che non ha tempo da buttar via. Lo stile del Muzio è singolare, un po' anche perchè è genovese e la Liguria, non ha mai avuti letterati bensì dei patrioti e dei marinai intrepidi. Sentiamo come descrive la smania che ha l'editore Lucca di pubblicare un'opera di Verdi: « Le dissi che il Signor Maestro fa diventar pazzi gli editori di musica, proprio, proprio. L'editore Lucca è a momenti pazzo del tutto, perchè non può avere la proprietà di un'opera del Signor Maestro, nella quale vede che Ricordi fa un gran guadagno, giacchè per le sole copie dello spartito del l'Ernani — non comprese le molteplici traduzioni ha già preso più di trenta mila lire austriache ; e se il Signor Maestro le prometterà uno spartito esso guarirà, del rimanente non credo. La moglie del detto Editore è venuta dal signor Maestro a piangere e a scongiurarlo perchè le dia la proprietà di una sua opera e per il prezzo le darà quello che vuole... ». Così poi descrive la faccenda del soprabito: « Mercè la bontà del signor Maestro sono coperto e, quel che più conta, senza aver speso niente. Egli stesso lunedì mattina mi ha vestito e così non sentirò il rigor del freddo. Non può immaginarsi quanto amore mi porti e quanto gli sto a cuore ». Ecco però di quanta devozione Muzio ricambia Verdi: « Il sig. Maestro è ammalato, è in letto con una doglia reumatica; però adesso la va un po' meglio ; ci faccio continuamente le freghe ». Verdi col suo discepolo è intransigente; gli dà lezioni ma prima di ogni lezione gli dice: «Ricordati che sono inesorabile »; non interrompe mai la lezione e fa fare anticamera a chiunque si presenti durante la stessa; vuole che scriva molto perchè altrimenti non si impara, e si avvede dei progressi del discepolo, chiedendogli con tma certa compiacenza: « Cosa te ne pare dopo che studi sotto di me? » Intanto Verdi deve lavorare: dal 9 di marzo in cui trionfa l'Ernani (1844), al 22 luglio 1847 sono sette opere con ventisei atti in tre anni. Sono anni che lo stesso Verdi definì. poi « di galera ». Lo aiuta anche il Muzio, come appare da una sua lettera dal dicembre 1846: « Sono due giorni che lavoriamo dalle 9 fino alle 12 della sera fuori delle ore di andare a pranzo, ed è forse un po' troppo, già, ma ancora per alcuni giorni e poi ripigliamo le nostre passeggiate e i nostri piccoli divertimenti. Io scrivo in casa sua sullo stesso suo tavolo ed ho sempre cosi i suoi consigli e ce ne stiamo assieme tanto bene ». Verdi che va e viene spesso da Busseto, dove passa ore di quiete in casa del suocero Barezzi, comincia di questi giorni a fare una cosa dal Barezzi imparata: a tener nota di tutto quanto scrive, come il Barezzi nel suo prezioso libro di Casa, e da Verdi abbiamo cosi i Copialettere, cinque preziosi quaderni pubblicati a cura del Comitato per le sue onoranze nel 1913. Da questi quaderni sappiamo i titoli di opere che egli aveva intenzione di musicare, e di cui aveva fatto nota per additarle ai librettisti. La nuova opera sarà I due Foscari. E' il titolo di un'opera che aveva letto e avuto intenzione di musicare prima ancora dell'Ernani; ora è la volta buona. Ma la salute è debole, anche se il suo tenore di vita, come notava il Muzio, è come quello di prima e si prende piccoli divertimenti che consistono poi in gioco alle bocce d'estate, e alle carte o al biliardo coi pochi amici fidati d'inverno. Da Busseto in una lettera alla Appiani scrive nell'agosto: « Presto sarò a Milano. Appena potrò star bene di salute m'imbarco per la capitale lombarda. L'aria nativa non mi fa bene... Sapesse cosa mi resta a fare dei Foscari!... Povero me !... » A Roma va il 30 di settembre, e l'opera va in scena il 3 di novembre. Per un complesso di circostanze l'opera che è accolta con qualche contrasto la prima sera >111P è poi applaudita così fragorosamente che il Maestro è una sera per trenta volte chiamato su la « scena in mezzo agli evviva entusiastici di una affollatissima udienza ». La musica però rispecchia molto della « tristezza dei tempi in cui vive il suo compositore, pur avendo squarci di bella ispirazione ». 8 — F. BOTTI, G. Verdi «GIOVANNA D'ARCO» Di ritorno da Roma, dopo il successo dell'Emani, Verdi si ricorda che ha un contratto con il Merelli per un'opera da darsi nel carnevale prossimo venturo, del 1845. Durante il viaggio in diligenza che a gli ha fracassate le ossa » egli pensa già all'opera e tra i dirupi compone l'introduzione istrumentale dell'opera nuova che non sa ancora come si chiamerà. In quanto al soggetto non si stanca di ripensare che alla Scala gli hanno procurato trionfo opere a sfondo religioso-patriottico, e che sarebbe bene ritentare la prova con un soggetto consimile: e lo trova col Solera nella tragedia di Schiller, La Vergine d'Orleans, che diventa La Giovanna d'Arco. Ma il libretto è raffazzonato alla meglio, la verità storica vi è svisata in modo che Re Carlo VII si innamora della Pulzella, e questa è fatta morire in battaglia anzichè sul rogo, e fatta morire due volte, polche nell'ultima scena essa risorge dalla bara per morire una seconda volta e salire al Cielo. Verdi cominciò la composizione alla metà di dicembre del 1844 e l'aveva terminata il 6 gennaio del 1845. Il 12 gennaio iniziò la istrumentazione, con un intermezzo di litigi col Merelli fino alla prima rappresentazione avvenuta in 15 marzo. Questo intermezzo di litigi ha molte origini: Verdi non ha una salute di ferro come prima; e si sa che chi è scosso nella salute è naturalmente nervoso, eccitato, irascibile più di quello che non comporti il suo temperamento o addirittura al di sopra di tale temperamento ; Verdi lavora molto perché l'opera deve andare in scena presto, e questo sovraccarico di lavoro quasi forzato non fa che eccitarlo maggiormente ; poi il Merelli vuol dare a inizio della stagione I Lombardi, precisamente la sera di Santo Stefano, e Verdi deve sobbarcarsi a questo lavoro imprevisto per le prove, lavoro che diventa fatica di Sisifo perché l'orchestra è insufficiente, i cori impacciati e goffi, i costumi, i vestiti e i scenari malamente allestiti, e l'impresario crede di aver fatto tutto quando si è accaparrata una prima donna, pagandola profumatamente, risparmiando con tutti gli altri. « Verdi in queste prove grida, batte tanto i piedi che pare che suoni l'organo con la pedaliera ; suda tanto che gli cadono le goccie sullo spartito... ». Ma a tutto questo si aggiunge, al dire di Muzio, « che la Frezzolini non canta più con quella forza ed energia di prima,.. e poi piange perché non ha i mezzi vocali come negli anni addietro ; il Collini è troppo melato nel suo canto, e nei pezzi concertati non si sente, essendo baritono e la parte è scritta per basso profondo ». Ma con tutto questo, forse per merito della fatica del Maestro, che però non ne vuol sapere di assistere alla rappresentazione, I Lombardi hanno buon esito e sono ripetuti per quindici sere. Ma i guai e i bisticci non si limitano a Verdi col Merelli, incominciano anche tra i cantanti e il Merelli; la cantante Marini, tanto apprezzata, rompe il contratto e lascia immediatamente la Scala; il tenore Poggi che è sposo della Frezzolini non piace più al pubblico e il Merelli non se la intende con lui; la moglie del Solera vuole cocciutamente avventurarsi contro il consiglio di tutti e dello stesso Verdi, in un'opera del Donizetti, e ottiene un tale insuccesso che dopo due sere l'opera è sospesa, l'artista licenziata, e non resta a La Scala che un solenne fiasco... Dopo le ripetute rappresentazioni del Nabucco va quasi subito in scena La Giovanna d'Arco, con artisti mediocri, ma in compenso con la Frezzolini, che è così descritta da un cronista del tempo: « E' la cantante impareggiabile, l'artista affascinante, la donna bellissima che sotto la candida veste di guerriera con lo stendardo a fiordalisi serrato sul petto, con quegli occhi profondi e nerissimi, che sapevano trovare così bene le vie del cuore, sembrava una visione celeste ». Ma sentiamo che cosa dice Emanuele Muzio: « Il Signor Maestro ha incominciato l'istrumentazione della Giovanna, di quell'operone che sbalordirà tutti i milanesi... Bisogna sentire la musica della Giovanna e poi restare lì a bocca aperta. Che meraviglie !... Se colle sue gesta non avesse eternata la sua memoria, la musica del Signor Maestro la renderebbe immortale ; nessuna Giovanna ha mai avuto musica più filosofica e più bella... In quell'opera vi saranno tutti i generi di musica: il teatrale, il religioso, il marziale... ». E dopo aver informato cosi bene anticipatamente il Barezzi della nuova opera di Verdi, il Muzio si precipita a descrivergli l'esito dell'opera stessa: « Il teatro è pieno zeppo come nelle prime sere e si contano mille e più biglietti di Platea - (fuori gli abbonati) - 500 e financo 600 nel loggione ; se non era quest'opera gli affari dell'impresa andavano malamente ». Ma non sono passati due mesi che il Muzio dice ancor più festante: « Abbiamo già, gli organetti che girano la Giovanna, e le bande che ne suonano sempre ». Se ne fecero 17 rappresentazioni, ma il trionfo fu contrastato e i critici del tempo non mancarono di fare giustamente molte riserve sul valore musicale dell'opera. Il Vitali scrisse: « Lodevole sopramodo e rispetto allo studio, non abbastanza irradiata dal genio rispetto all'invenzione ». Il Ronca-glia sintetizza: « Progresso tecnico, ma non adeguata potenza di ispirazione ». La stagione di quell'anno fu sostenuta veramente con le opere di Verdi perchè a chiusura si dettero i due ultimi atti dell'Ernani e i due ultimi della Giovanna d'Arco, preceduti dalla sinfonia. E il Muzio scrive gioioso: « Io non ho mai visto in vita mia gettar tanti fiori e corone; si dice che la Samoiloff abbia spesi tremila franchi in tanti fiori; e lo assicuro che essa e i suoi amici continuarono per una buona mezz'ora a gettar fiori, fiori e ghirlande. Povera Frezzolini! Non sapeva da qual parte sottrarsi a quella tempesta! Ne gettarono molti all'Essler ma molto più alla Frezzolini, alla quale dopo che muore nel finale della Giovanna le apparirono intorno una ventina di fanciulle tutte vestite di bianco con in mano diversi bochè — (così scrive Muzio) — a varie maniere; uno di questi lo chiamo bochè mostro, perchè era tanto colossale che lo portarono in due servi di teatro ». L'opera venne data poi a Firenze. A Roma prese il nome di Orietta di Lesbo; tornò alla Scala nel 1858 e poi nel 1865 con Teresa Stolz. Un episodio che merita di esser segnalato è quello della gelosia del tenore Poggi marito della Frezzolini, che Verdi stimava e lodava, mentre raramente lodava le interpreti o gli interpreti delle sue opere. La gelosia è una malattia o una passione come le altre, come l'avarizia, l'ira, l'accidia, ma più delle altre può repentinamente dar luogo a delitti, e quasi sempre senza ragione. Come tutte le passioni irrefrenate porta al delirio e al sangue; porta alla disperazione, alla ferocia, alla cecità assoluta, e Shakespeare nell'Otello in poche scene ha portato il suo protagonista nel vortice di una azione « che vibra, freme, si convella, s'ingorga, rompe in un irresistibile naufragio ». Il geloso è stato definito un ruminante psichico ed ecco il Poggi in questa situazione nei riguardi di Verdi. Ma non vi saranno altri motivi? Come spesso essi appaiono dopo, ma sicuri, e Verdi non ne aveva la minima colpa: Muzio ci fa sapere che Poggi si era invaghito della Samoiloff, quella delle tremila lire di fiori: « La Frezzolini è divisa finalmente dall'antipatico Poggi. Dicesi che egli l'avesse lasciata con la speranza di unirsi per sempre con la contessa Samoiloff ed invece gli tocca di stare a bocca asciutta. Il Signor Maestro è molto in collera col Poggi, perchè quando era a Napoli ha scritto due volte alla Frezzolini e Poggi ha aperto le lettere e ritenute. Stamattina la Frezzolini gli ha scritto così: Con tema mi accingo a scrivere la terza volta non avendo avuto riscontro nelle altre due che vi scrissi a Napoli... Il Maestro mi ha detto che le ha risposto di reclamare le due lettere dal marito ». La Samoiloff sposò il baritono Peri. Ma intanto che siamo in argomento vogliamo trascrivere una lettera di Verdi alla Appiani, di cui già, dicemmo e che si era fatta avanti con una sua lettera chiamandolo carissimo, con altre espressioni affettuose e annunciandole un piccolo dono: un paio di bretelle. « Io, risponde Verdi, non sono carissimo mai mai; non ci pretendo. Pretendo a molte cose, non all'amabilità e alla bellezza, no, no sicuramente; io sono nè più nè meno di uno stordito, eppure in fondo in fondo non sono tanto cattivo e penso molto a Lei e ai suoi, quantunque ella senza crederlo, mi voglia rimproverare il contrario... ». Più sinceri di così.,. Ancora: con la Giovanna d'Arco si crea una divergenza gravissima tra Verdi e il Merelli, meglio un odio di Verdi con La Scala, che fu già, sua prima e maliarda aspirazione. « Verdi non si reca nemmeno più alla Scala. Non solo non accetta le proposte del Merelli, che gli lascerebbe fissare a suo piacere il prezzo del suo spartito nuovo, come già fece per I Lombardi; ma dichiara apertamente che non vuol più scrivere per La Scala nè porre in scena o dirigere alcuna sua opera in codesto teatro e nemmeno metter piede sul palcoscenico. Troppo lo ha irritato la negligenza con cui a La Scala si rappresentano le opere, specie le sue. E s'adira anche contro 11 suo editore, Ricordi, che tollera l'abuso, Nei nuovi contratti col Ricordi si riserberà il diritto di decidere, soltanto lui, in quali teatri dovranno rappresentarsi le sue opere, ed escluderà sempre, nel modo più assoluto, La Scala ». Così dice il Gatti. Dio ci liberi dall'ira degli artisti e dei Geni; anche se non hanno il temperamento di Verdi, o non si trovino, come lui si trovava, in anni di poca salute. Il Monaldi nel suo libro su Verdi afferma: « Terminate però quelle poche rappresentazioni la Giovanna d'Arco si immerse di nuovo in un sonno profondo che dura tuttora e che nessuno oserà più turbare. Verdi stesso fini col perdere ogni illusione sul possibile risveglio di quest'opera e ne diede la prova spogliandola più tardi, nel 1885, di ciò che era il suo più bell'ornamento, cioè della magnifica sinfonia ch'ei pose in testa ai Vespri Siciliani, ai quali oggi è rimasta ». Ma quest'asserzione corrisponde a verità? Lo nega il Bragagnolo: « L'asserzione errata del Monaldi giustifica il dubbio che anche i biografi che vanno per la maggiore non si sian data mai la pena di ripassare, non foss'altro al pianoforte le opere meno note del Cigno di Busseto, per dare un giudizio più conforme alla verità storica ». Da tale esame risulta che le sinfonie sono del tutto diverse. Ma questa osservazione ci richiama a ricordare che su Verdi i biografi continuano a dire inesattezze e spropositi inconcepibili. In una delle più recenti, nella quale si descrivono luoghi come realmente veduti, si termina: « Sang'Agata è come Busseto una frazione del Comune di Villanova d'Arda ... « L'ALZIRA » OPERA INFELICE Tra le opere del Verdi l'Alzira è come la più sconosciuta, e agli appassionati fa l'effetto di Carneade per Don Abbondio. Del resto lo stesso Verdi riparlandone negli anni maturi dirà: « Quella è veramente brutta ». E' stata scritta di malavoglia ; incominciata nella primavera del 1844 rimase in sospeso per fare posto ai Due Foscari e Giovanna d'Arco; la salute di Verdi, come vedemmo non era buona in questo frattempo, e deve bisticciare con l'impresario del San Carlo di Napoli che non crede ai suoi mali, tanto che in una sua lettera al Cammarano si lamenta: « che ad un artista non è concesso di essere ammalato ». Dalle lettere del Muzio sappiamo che il Maestro dovette stare alcun tempo senza far niente, ma che poi in venti giorni « ha fatto tutto dell'Alzira, fuori dell'ultimo finale, perchè non ne aveva la poesia ». A fine giugno parte per Napoli, dove è accolto con entusiasmo perchè le sue opere precedenti sono ivi conosciutissime, e ad Zana rappresentazione dei Due, Foscari deve presentarsi sul palcoscenico a ricevere gli applausi dei napoletani. C'è a Napoli una vecchia scuola di musicisti che osteggia Verdi, l'astro nuovo, e con loro sono molti giornalisti, in questa povera città schiava dei Borboni, e tenuta nella peggiore delle abbiezioni. Ma altra cosa spiace a Verdi, più che la critica della quale ha sempre fatto poco conto: la curiosità degli sfaccendati, dei fannulloni, degli oziosi che vivono di susurrazioni, di malignità e trovano in esse divertimento o necessario passatempo. Si maligna subito sulla sua vita privata, come in una piccola città di provincia, e molti sono coloro che parlano di Verdi perché ha scelto la Tadolini per la sua nuova opera. Cose vecchie e sempre nuove, e che dureranno fin che mondo dura. Un episodio grazioso è quello dei professori d'orchestra che alle prove si sono entusiasmati specialmente per la sinfonia aggiunta dal Maestro all'opera ritenuta troppo breve, « tutti in coro lo hanno accompagnato a casa sua in mezzo ai plausi ed agli evviva ». L'opera è data il 12 agosto. Il libretto del Cammarano, da lui trascinato per mesi, è un delitto ricalcato sulla omonima tragedia del Voltaire. « Fermandoci un momento all'Alzira del Cammarano non si comprende davvero come quel guazzabuglio di peruvianifrancesi del Voltaire possa avere, non diremo ispirata, ma lusingata così la fantasia del compositore da indurlo a commettere uno dei suoi più gravi errori » (Monal di). « Io sono accusato di amare molto il fracasso, aveva scritto Verdi al Cammarano, e di trattar male il canto: non vi badi; metta pure della passione e vedrà che scriverò passabilmente ». Ma Verdi non fu degno di se stesso, e in tutta l'opera non vi è un solo punto in cui la vena verdiana zampilli serena e spumeggiante con nuove note ispirate. Prima della sua esecuzione Verdi stesso aveva detto: « L'ho fatta quasi senza accorgermi e senza fatica, per cui se anche cadesse me ne dorrebbe poco ». Contraddicendo se stesso dirà invece poi al poeta Ferretti di Roma: « Non potete immaginarvi quanto vi ho studiato, ma il male è nelle viscere e ritoccando non si farebbe che peggio ». Più probabilmente egli accenna qui a studi posteriori, in cerca di dare nuova vita alla povertà dell'A/zira, che ai suoi occhi appare insanabile. Durante l'esecuzione gli artisti ci si mettono di buon impegno, tanto che Verdi scrive alla Maffei: « Qualche cosa di tollerabile ci dev'essere, poichè i cantanti la cantano volentieri ». Ci de- . v'essere... ma non ne è convinto nemmeno lui... Pare che Verdi se ne indispettisse un poco anche col Cammarano, del quale aveva a mano a mano lodati i versi che gli inviava lentamente - (forse per spingerlo a scrivere con maggior lena?) - e la collaborazione con lui riprenderà solamente fra tre anni con La Battaglia di Legnano. Molti si domandano, davanti a un Verdi che musica un lavoro di Voltaire, se egli sia diventato un Voltairiano... e ne arguiscono che fin da questo momento Verdi profondamente religioso si scosti dalle forme di religione ordinate dalla chiesa cattolica ». C'è in lui un disagio fisico e spirituale « che si riflette in modo evidente, come dice il Roncaglia, non solo nella musica ma anche nella scelta di soggetti, tristi e cupi, di un romanticismo che tocca l'inverosimile per la complicazione e l'atrocità dei casi; soggetti avvolti di tinte fosche e imbevuti di un pessimismo disperato, solo temperato qua e là dalla fede in un mondo ultraterreno in cui la giustizia divina solleverà i buoni e deprimerà i malvagi. Questa specie di fato biblico è sensibile nella chiusa di tutte le opere di questo e dei periodi successivi e attesta la fede religiosa di Verdi, da tanti posta in dubbio ». La sua profonda religiosità è sentita in un modo tutto personale, ed è proprio in questo periodo di debolezza nella salute, di operosità intensissima, e di susseguenti viaggi a Parigi che avremo in lui l'ombra oscura degli anni di convivenza con la Strepponi, sanati cristianamente, come vedremo, dinnanzi all'altare, vincendo ogni sua ritrosia innata in parte, e in parte accresciuta dalle voci del secolo che innalzava « i liberi pensatori ». Diceva il Cardinale Alberoni, da buon politicante, che alle volte si indietreggia un poco per spiccare meglio il salto: Verdi si senti indietreggiato in questa sua Alzira, e se ne servirà per rialzarsi con l'Attila, e spiccare veramente il gran salto in avanti col Rigo-letto, il Trovatore e la Traviata, con una trilogia, se così possiamo dire, veramente immortale. Anche il Ricordi aveva scritto sulla Gazzetta musicale, quando l'Alzira fu data a Milano: « Il momento di una modificazione è solennemente giunto per Verdi ; ma la modificazione che l'arte domanda al Verdi è forse una delle più ardue a formare ; l'arte gli chiede più che una modificazione, una trasformazione ; non tanto vuole da lui il cangiamento della forma, quantO uno scopo nuovo, altre mire, meno illusorie, meno sensuali, più intellettuali, più estetiche e più vere ». Ma per fare tutto questo non basta un semplice atto di volontà, ma quella forma misteriosa e occulta che ha in sè imprigionata il genio. Nella bella famiglia delle opere verdiane è adunque l'Alzira « una figliola sfortunata ». In tutte le famiglie c'è un figliolo degenere o disgraziato... «L'ATTILA» Dall'Alzira all'Attila musicalmente il progresso non è grande, ma un complesso di circostanze lo fece apparire strepitoso, ottenendo un trionfo immenso alla nuova opera. Vi concorsero il soggetto, i tempi di fermento patriottico in cui ribolliva l'Italia, e l'ispirazione pure patriottica dell'opera. Per il soggetto Verdi si era ispirato in Vaticano, durante il suo soggiorno a Roma, al celebre dipinto dell'incontro di Leone I con Attila, « flagellum Dei », calato con le sue orde barbariche in Italia. E' un tema che lo avvince e lo fa pensare giorno e notte. Ne parla in molte sue lettere, ne discute spesso col librettista al quale non manca di dare suggerimenti, e dice: « Che bel soggetto! » Gl'italiani attendono e sospirano il giorno della italica indipendenza dallo straniero, passano dal carcere alle piazze, dalle insurrezioni al patibolo: «La nobile malinconia del genio verdiano, l'impeto quasi selvaggio dei suoi ritmi e il corrusco fiammeggiare delle sue melodie guerriere, avevano additato nel giovane compositore bussetano l'interprete ardente delle aspirazioni nazionali, il bardo del risorgimento. Pareva che Dio stesso lo avesse mandato per accompagnare coi suoi canti larghi ed ardenti la rivoluzione trionfante. Egli era fatto per dominare dalle scene la folla; il teatro era la sua arma. Non era il momento degli estetismi raffinati, della seduzione formale ». Queste parole del Monaldi ci dicono come l'ambiente favorisse il trionfo dell'Attila, e non è a dire che Verdi sia stato un profittatore del momento, che abbia saputo sfruttare l'ora per trarne profitto al trionfo delle sue opere, egli era la voce del popolo, era l'interprete dei suoi sentimenti, non era insomma uno speculatore oculato, tanto che egli stesso sentiva e amava assai l'opera Attila e non la riteneva inferiore a nessuna delle antecedenti, mentre in realtà ne è molto al di sotto. La amava e la riteneva grandiosa e bella perchè rispondeva ai suoi sentimenti patriottici, e questi gli facevano velo al giudizio estetico, come influirono sul popolo. C'è un proverbio genovese che dice: « Fatti un nome e coricati », come a dire che quando si è diventati celebri si può dormire tranquillamente che tutte le nostre cose saranno ritenute buone e belle: Verdi aveva ottenuto con Nabucco, Lombardi ed Ernani una celebrità incommensurabile, perchè le sue opere erano passate per ogni teatro d'Italia, tanto che Ermanno Picchi scriveva sulla Gazzetta musicale: « Chi scrive adesso con vero successo in Italia? Verdi, il solo Verdi. Sovrano maestro del momento attuale è il solo Verdi ». Da Parigi cala l'impresario Leone Escudier, e da Londra pure viene in Italia il Lumley. A Parigi il Nabucco ottiene un successo unanime per il pubblico e per i critici. A Londra il Lumley aveva dato con ottimo esito l'Emani e nessuna opera seria vi aveva prodotto tanta impressione dopo i Puritani. Verdi vorrebbe dare l'Attila per l'Opéra di Parigi, ma non si accorda col direttore che vorrebbe un'opera nuova e scritta in francese. Intanto si accosta al famoso editore Lucca che vorrebbe la nuova opera per il teatro di Madrid, mentre a Verdi giungono inviti anche per Pietroburgo. Che cosa poteva desiderare di più il Maestro? Egli intanto non gode di buona salute. Sta alcuni giorni a Busseto che gli pare un piccolissimo paese e scherza sulla sua patria in una lettera alla Maffei, forse perché tornando ad essa vi avrà sentito qualche eco delle interminabili lotte, che vi avevan fomentati rancori e astiosità? Passa alcuni giorni a elusone presso la contessa Maffei, e finalmente si avvia per Venezia, dove si darà l'Attila quanto prima. Il libretto è del Solera, ma lo ritocca il Piave. Mentre è a Venezia la stagione si inizia con la Giovanna d'Arco, in cui è innestata una cavatina per la prima donna che è la Loewe. La prima sera nessun applauso, silenzio assoluto. Perchè? Vi è in un palco l'Imperatore di Russia e il cerimoniale vuole silenzio assoluto. Ma la seconda sera scoppiano gli applausi davvero fragorosi alla Loewe, ma tutta l'opera, al dire di Verdi, è andata ancora una volta « fredda fredda ». Si attende l'Attila. Esso va in scena il 17 marzo 1846, dopo che Verdi l'ha portata a compimento con gran fretta perché « quasi morente » tanto che ci fu un momento in cui l'impresario temette che l'opera non arrivasse ad essere terminata per quella stagione. Gran successo adunque, specialmente la seconda sera, e si vede poi questo spettacolo singolare dei veneziani che « con corone, banda, torce, riaccompagnano a casa il Maestro ». I veneziani guardavano con occhi spalancati la scena degli Unni giungere presso la loro Laguna: un grido possente si elevava: « Italia, Italia! » Odabella e Foresto dalle rovine di Aquileia inneggiano alla nascita di Venezia; l'offerta di Ezio ad Attila dell'universo purchè resti l'Italia a lui; la celebre aria di Odabella: « Ma noi, noi donne italiche - cinte di ferro il sen sono momenti che suscitano ondate di rumori irrefrenabili, scene di frenetico amor di patria, che sono spina negli occhi alla polizia. Dice Eugenio Checchi: « Il volgare Attila, musica tempestosa che entrava difilato per le orecchie nelle anime, era l'opera che pienamente rispondeva alle febbrili esigenze di quei giorni; la popolarità sua fu tanta e così clamorosa e così diffusa che sopravvisse qualche anno dopo la morte delle speranze italiche ; come uno di quei canti che l'esule con accorata tenerezza ripete, perchè gli richiamano alla mente i ricordi della patria lontana ». Verdi aveva messo tanto impegno a preparare quest'opera che dallo scultore Luccardi aveva voluto un figurino di Attila ; che al Piave aveva dati suggerimenti particolareggiati, in un modo quasi pedante e poi gli capitò che fu la sua opera più strapazzata di tutte. Il pubblico andava in visibilio per Oda9 — F. BOTTI, G. Verdi bella, per le parole di Foresto, ma più di tutto per la figura di Ezio, e quando l'impresario aveva trovato un ottimo cantore che ne sostenesse la parte egregiamente, non gli importava degli altri, specialmente di chi doveva sostenere la parte di Attila: e se Attila era fischiato, era anche questo nei gusti e secondo i gusti del pubblico... Al pubblico bastava che un'artista cantasse bene la celebre strofa « Cara patria, già, madre e regina - di possenti magnanimi figli » in modo da applaudire e fare una mezza rivoluzione con la scusa dell'arte. Un episodio grazioso e significativo è quello capitato a Firenze dove si era preso un carrettiere che dall'Arno estraeva sabbia (rena, ed era appunto chiamato renaiolo) e lo si era portato sul palco a sostenere la parte di Ezio, giacchè aveva un timbro di voce fenomenale... Verdi ebbe a passare per Firenze e andò allo spettacolo sul quale fu richiesto il suo giudizio: «E' un Attila, disse, cantato come deve esserlo veramente; un Attila poi proprio in carattere: tutti sembrano veri Unni e Ostrogoti... ». Nel dare il suo giudizio di affetto a quest'opera Verdi era preso da un dubbio e terminava: « Il tempo deciderà. ». Ed ha deciso in suo sfavore perchè la musica è barocca, accenna varie volte ad innalzarsi e salire verso le vette cui giungerà con le altre opere, ma poi ricade: «La pagina veramente ispirata, dice il Ronc., altamente concepita e condotta in maniera magistrale è il terzetto: « Te sol, te sol quest'anima ». Al tempo in cui Verdi compose l'Attila si innesta l'episodio della separazione matrimoniale della Maffei con il marito Andrea Maffei. Poeta geniale e vero, ma libertino e spensierato, dedito al gioco e quindi sempre a tasche vuote, non era fatto per una creatura sensibile ed elevata in ogni suo sentire come la moglie: e senza produrre rotture biliose, senza odio dall'una o dall'altra parte Verdi aiutò a giungere ad una separazione legale, che venne stesa dal Grossi, essendo testimoni Verdi e il Carcano, che la Maffei e Verdi chiamavano santo, come facevano del Manzoni. Il Maffei serbò sempre amicizia con Verdi e gli preparò anche il libretto dei Masnadieri. Manzoni stesso approvò la separazione legale con cosl fine tatto preparata da Verdi. «IL MACBETH» Chiunque conosca la tragedia dello Shakespeare, ne ammiri la sublimità e la grandiosità, ne abbia impresse nella mente le figure poderose dei protagonisti, si domanda come mai Verdi si decise a musicare un soggetto tetro e pauroso come questo del Macbeth. L'ombra di Banco sembra restare con noi dopo la lettura della prodigiosa tragedia, che è imperniata sull'ambizione folle e poi sul terrificante rimorso di Macbeth, cui fa corona un'atmosfera demoniaca. Nessun amore, come sembra necessario all'opera per far colpo e conquistare le masse, nessun amore vi è descritto. Ma Verdi come il Manzoni ebbe una stima immensa per il grande tragediografo e ne fu conquistato, sentì la tentazione di cimentarsi con lui, vestendo di note le sue tragiche figure ; amò questa opera a « preferenza delle altre sue opere », la dedicò ad Antonio Barezzi come dono squisito e di cosa cara; e al Cammarano e al Flauto espresse l'interesse e l'amore che lo legavano al Macbeth. E benchè aborrisse dai rifacimenti, si adattò anche questa volta a rifare l'opera nel 1865 a Parigi. Dall'Attila al Macbeth passa precisamente un anno. Perchè? Verdi si sentì venir meno ancora una volta le forze fisiche. Molti certificati medici egli spedisce agli impresari che lo torturano per avere le promesse opere nuove. D'altra parte abbiamo il Muzio che ci informa che Verdi sta benissimo. Questa affermazione deve spiegarsi col fatto che Verdi stava benissimo, si, ma come un convalescente, come uno che è in cura, che non si sente mali propri e veri, ma che se si affatica, ne risente subito. Tanto è vero che esaminando bene questa lettera troviamo al termine di essa: « Conducendosi in questa guisa egli sarà presto rimesso del tutto ». Verdi intanto gode nel sentire i continui trionfi dell'Attila, che si dovrebbe o vorrebbe dare anche a Vienna ; il Torresani si interpone con lui per riconciliarlo col Merelli e dare l'Attila alla Scala, dove Verdi ha giurato che non lascierà più dare sue opere, mentre in realtà l'Attila viene data la sera di Santo Stefano del 1846, ma in un modo così orribile per le scene e i contrattempi che Verdi ancora una volta si sente indignato. Ma il Merelli era alla vigilia del suo tramonto e sovraccarico di debiti con le artiste scritturate. A Milano Verdi conduce una vita silenziosa; un poco di riposo gli è necessario all'animo e al corpo. Gli impresari gli sono imperturbabilmente intorno: Verdi non si decide per alcuno. Non resta indifferente solamente per quanto gli giunge da Firenze, prima di tutto perché là c'è il Lanari che è un impresario serio e amico ; perchè « lo strepitoso furore » suscitato dall'Attila continua ad ogni recita, e perchè le migliori famiglie fiorentine desiderano di averlo a Firenze, e gli inviano un album con firme per dire la loro ammirazione e il desiderio di conoscerlo. Va alle acque di Recoaro, torna a Milano, pensa che cosa dovrà musicare, discute col Lanari circa gli interpreti della nuova opera perchè naturalmente egli deve attenersi a questa premessa prima di scrivere l'opera nuova. Se il Lanari non gli trova un tenore, come potrà musicare un'opera dove la parte principale sia, come al solito, del tenore? Dopo molti consigli, discussioni e meditazioni Verdi si decide per il Macbeth; non più pensieri per i Masnadieri, il cui libretto era stato preparato dal Maffei, e nemmeno Re Lear, al quale Verdi aveva messo l'occhio addosso fin dal 1843. Ma come si può ridurre da poveri librettisti un capolavoro a libretto d'opera? Impresa ardua, e compiuta malissimo, non tanto perchè essa non si prestava a prendere le forme del melodramma italiano, quanto per alcuni versi che sono orrori ed errori di traduzione, che si abbassano al volgare. Anche Verdi non riesce a ritrarre con maestria le figure shakespeariane, e tutta l'opera non fu in sostanza che un esperimento, che avrà i suoi effetti nel Maestro, ma che non servi a « dare nuove tendenze alla nostra musica ed aprir nuove strade ai maestri presenti e avvenire » come diceva il Piave. Verdi per ottenere questo si era sobbarcato a fare molte prove (se non proprio 150 come fu affermato, contro la stessa possibilità materiale di farle per l'esiguità del tempo), e aveva stancati gli attori per la sua severità a voler ottenere gli effetti desiderati. A chi gli faceva osservare che non era un'opera per divertire il pubblico, come pare essere d'obbligo in teatro, Verdi rispondeva: « Parola odiosa per un autore! E' questa una parola che nella mia gioventù mi faceva montare il sangue alla testa e mi metteva in tutti i furori ». Andò in scena a Firenze al teatro della Pergola il 14 marzo 1847. Verdi aveva 34 anni. I] successo? Non completo. Il Basevi, testimonio onesto ed autorevole, dice: « Benevoli accoglienze ; ma più per riguardo all'autore presente che alla musica, la quale non piacque che per metà, ossia per quella parte che richiamava le precedenti opere di Verdi. Il posto della Lcewe che aveva perduto la voce, fu preso dalla Barb.r:1-1:ini che ancora negli ultimi anni di sua vita amava ricordare l'avvenimento e ne fece un lungo racconto al Checchi. Richiamando i momenti nei quali l'opera suscitò maggiori applausi: «E voi dovete sapere che quel duo, chi dicesse che destò entusiasmo e fanatismo non direbbe nulla, fu qualche cosa di incredibile, di nuovo, di non mai successo. Dappertutto ove ho cantato il Macbeth, e tutte le sere durante la stagione della Pergola, il duo bisognò ripeterlo due, tre e perfino quattro volte. La sera della prima rappresentazione non dimenticherò mai che, prima della scena del sonnambulismo, che è una delle ultime dell'opera, Verdi mi girava attorno inquieto senza dir nulla. Si vedeva benissimo che il successo non sarebbe stato definitivo per lui se non dopo quella scena. Mi feci adunque il segno della croce — (come è abitudine anche oggi sul palcoscenico quando vi sono momenti difficili) — andai avanti. I giornali di quel tempo vi diranno se iò interpretai giustamente il pensiero drammatico e musicale del grande Maestro nella scena del sonnambulismo. Io so questo: che appena calmata la furia degli applausi, rientrata tutta commossa, tremante e disfatta nel camerino vidi spalancarsi l'uscio e Verdi entrò, agitando le mani e movendo le labbra, come volesse fare un gran discorso... Ci stringemmo le mani forte forte... Quella scena di commozione mi compensò ad usura di tanti mesi di assiduo lavoro e di trepidazioni continue ». Avrebbe dovuto essere concertatore il giovane Angelo Mariani, astro nascente, che avanzò troppe pretese e fu sostituito dal Romani. Ma ben presto ci imbatteremo col Mariani, i cui rapporti con Verdi passeranno dall'amore all'odio. Dicemmo che Verdi dedicò l'opera al Barezzi, ed ecco la lettera con la quale egli spiega la sua soddisfazione di poter finalmente dedicargli una sua opera: « Mio caro suocero, - Ho pensato sempre di dedicare un'opera a voi che foste per me un padre, un amico, un benefattore ; ma circostanze imperiose me lo impedirono fino adesso. Oggi che posso vi dedico il mio Macbeth, che io amo tanto fra le mie opere. Il cuore l'offre: che il cuore l'accetti ». Tra le prime rappresentazioni del Macbeth dopo Firenze rimase famosa quella di Venezia, dove cantava il tenore spagnolo Palma, che alle parole di Macdubbo: « La patria tradita - piangendo ci invita; - fratelli, gli oppressi - corriamo a salvar n eccitava gli animi dei Veneziani, fino al punto da obbligare la polizia a farsi rinforzare da baionette dell'esercito austriaco oppressore. Tra coloro che più penavano al sentire cattive nuove sulla salute di Verdi era naturalmente il padre suo alle Roncole, che si recava spesso a Busseto dal Ba-rezzi, che più facilmente poteva averle. C'è una lettera del Muzio al Barezzi perché appunto: « Le dica e lo assicuri che il signor Maestro ha lasciato Milano in buona salute e che se fosse stato ammalato non avrebbe intrapreso quel viaggio, e che non badi alle ciarle degli oziosi ; ora lo vogliono morto di veleno, ora di gastrica, lo vogliono ammalato poi, in tante maniere ch'egli finisce per star bene e spero che sarà sempre così E Antonio Barezzi va a Firenze per la rappresentazione del Macbeth: trova il genero festeggiatissimo e tra un nugolo di grandi uomini da far soggezione. VERDI E FIRENZE Nella capitale delle Belle Arti, nella città di Michelangelo e di Dante, Verdi avrebbe dovuto trovarsi a disagio secondo le vedute di coloro che lo ritenevano un povero « contadino delle Roncole », come del resto egli stesso amò definirsi nelle più solenni occasioni della sua vita. Quel suo modo trasandato di vestire, con pantaloni larghi e fin a terra, quella giacca trascurata, la barba incolta e ispida da farlo denominare « ispido Giove », e i capelli spioventi con la maggiore delle trascuranze, gli diedero per tutta la vita le sembianze esteriori di un buon fattore di campagna: i suoi modi stessi ruvidi al tempo stesso che estremamente sinceri: le sue sfuriate specialmente contro gli importuni, gli adulatori o chiunque pretendesse di mettersi li per lì a parlar di musica con lui, ma ancor più alle prove nelle quali appariva sempre corrucciato e senza parole, e pestava i piedi come su una pedaliera; quella sua figura virile, da uomo sulla cinquantina anche quando ne aveva trenta o aveva sorpassati i settanta, tutto insomma concorreva a far apparire in lui a prima vista tutto meno che un Genio, che rimuginava in sè la musica di un'opera e poi la squadernava tutta di seguito, come da una fonte rigurgitante, velocissimo sui fogli a piccoli righi, fatti venire appositamente da Parigi: tutto meno che l'altissimo creatore, lo scrittore drastico e icastico, anche qui sotto le apparenze di uno stile primitivo: tutto meno che il raffinato e ipersensibile amatore delle belle arti, dalla pittura alla scultura, che riuscivano a immobilizzarlo o a fargli fare dei pellegrinaggi d'amore per anni ed anni di seguito per ritornare a vedere un quadro dalla cui bellezza era stato colpito: tutto meno che l'uomo umile davanti ai grandi e pronto al pianto per delle sventure della patria come era pronto al grido di riscossa o al peana di vittoria... Ebbene Firenze, la gentile Firenze, la raffinata città che era all'altezza delle sue tradizioni artistiche e letterarie col Giusti e il Duprè, che aveva una vita tranquilla e placida politicamente, anche se gli spiriti superiori la faranno entrare non ultima nei moti della Guerra d'indipendenza, Firenze ove era Gino Capponi, Gian Battista Nicolini, accolse Verdi con una voglia irrefrenata di tributargli onori e il Maestro vi passò forse le ore più artistiche e più serene della sua vita. Aveva alcune lettere di raccomandazione per Giusti nientemeno che da Alessandro Manzoni, tramite la Maffei, poichè Verdi non ancora conosceva personalmente il grande romanziere. Ebbe per guida nelle sue visite lo stesso Capponi, il Giusti, il Duprè, e Andrea Maffei, e si dice che non tacesse la sua meraviglia dinnanzi al dolce eloquio toscano: « Non solamente il si suona, ma tutte le note suonano e cantano ; è la più dolce meraviglia che potessi mai aspettarmi ». Per riconoscenza a tanta gentilezza nei suoi riguardi Verdi permetteva agli amici di assistere alle prove del Macbeth, cosa davvero insolita, ma dove gli amici lo vedevano diventare quasi un altro. Le feste dei Fiorentini avrebbero certo raggiunto il non plus ultra se invece dell'opera Macbeth, la tragedia dei terrori e dei rimorsi, vi avesse data un'altra opera; ma essi forse erano indicati più degli altri a comprendere quel tanto di bello che vi era in quest'opera, e l'Accademia degli Immobili — (che aveva per simbolo un mulino a vento con le parole dantesche: in sua movenza è fermo) — offri a Verdi una corona di lauro con foglie d'oro, nelle quali era scritto, in ciascuna, il nome di un'opera di Verdi. Verdi si ingentilisce talmente a Firenze che ad un invito del Granduca di andare a Palazzo accetta... cosa che non farà mai più per tutta la vita, sdegnoso per temperamento ed alieno dal voler credere di brillare di luce riflessa... Il Giusti si affezionò in modo particolare a Verdi e dopo averne ascoltato il Macbeth con trepida attenzione, senti forte il dispiacere di vedere il Maestro lasciare la sua aureola di aedo d'Italia, di cantore del sentimento italico, e accostarsi invece all'arte nordica. In una lettera gli espresse tutte queste sue impressioni: « Vorrei che gli ingegni italiani contraessero tutti un forte e pieno connubio coll'arte italiana e s'astenessero dalla vaga Venere dei congiungimenti forestieri». E, detto come ora l'Italia si trovi a passare un'ora dolorosa, in attesa di migliori destini, che stavano maturando, dice: « Accompagna, mio Verdi, colle tue nobili armonie questo dolore alto e solenne ; fa di nutrirlo, di fortificarlo, d'indirizzarlo al suo scopo. La musica è favella intesa da tutti e non v'è effetto grande che la musica non valga a produrre. Il fantastico è cosa che può provare l'ingegno, il vero prova l'ingegno e l'animo ». E questa è allusione allo Shakespeare, che era allora poco conosciuto in Italia, e che lo stesso Manzoni aveva definito « questo barbaro non privo di ingegno », e tanto più barbaro, estraneo cioè al bello italicamente inteso, lo riteneva Firenze... I tempi politicamente lasciavano sperare tanto per il Risorgimento italico e Pio IX aveva dato al popolo le famose riforme che avevano suscitato entusiasmo tra gli italiani e sospetti tra gli altri governanti. Dalle speranze alle delusioni un passo avanti però si era fatto verso l'Italia nuova, una e libera. Per i rapporti di Verdi col Duprè si racconta un episodio che merita di essere conosciuto: lo scultore aveva sentito molte cose sulla fierezza di Verdi che era stimato « il fierissimo orso di Busseto », e pensò di sincerarsene, mandandogli un biglietto per dire che desiderava fargli vedere il Caino prima di inviarlo a destinazione. Andò anzi egli stesso a portare il biglietto, fingendosi un inviato... di se stesso. Verdi gli rispose: « Dica al Professore che lo ringrazio molto e appena mi sarà possibile andrò a trovarlo, giacchè avevo in mente di conoscere un giovane scultore che... ». Duprè lo lasciò finire e poi disse al Maestro che se desiderava conoscere il Duprè poteva farlo subito, giacchè lo scultore in parola era lui: « Questa è proprio da artista », disse Verdi sorridendo, e gli strinse cordialmente la mano. « I MASNADIERI » E VERDI A LONDRA Dopo aver combinato col Maffei per alcune correzioni ai Masnadieri, Verdi si mette col Muzio in viaggio per Londra. Ha un contratto con Lumley, ne ha uno con l'editore Lucca che gli dà continuamente fastidio e ne ha altri ancora che vuol ben soddisfare: il Lumley sta dando nel suo teatro londinese i Due Foscari, tanto per aggraziarsi ancor di più il Maestro egli ha preparato quattro cantori d'eccezione che renderanno ancor più solenne il trionfo dei Masnadieri, la cui aspettazione si fa intensa. Molti erano i nemici di Giuseppe Verdi a Londra, sia per quel sentimento di odio a tutto ciò che viene dal Continente come sempre è stato nei londinesi, sia perchè vi è in essi un senso di tradizionalismo che raggiunge il colmo al ConventGarden, dove non se ne vuol sapere e si osteggia ogni opera nuova. Ma Verdi la spunterà su tutti. Egli si mette in viaggio per la Svizzera da Como, e attraverso Basilea passa per la Francia. Non avendo trovata la diligenza a Strasburgo, pensa di arrivare a Parigi per la via di Bruxelles, lungo le incantevoli rive del Reno, su cui viaggia in battello. A Parigi Verdi sì ferma alcuni giorni perché ha sentito dire che la Lind non vuole cantare per la sua opera: manda avanti il Muzio ad appurare la cosa, che è tutta al contrario di quanto si dice. Muzio allora prepara l'appartamento per il Maestro che attraversa la Manica il 5 di giugno. E' interessante oggi e di attualità sentire le descrizioni e le impressioni di Verdi e di Muzio su Londra. Cominciamo dal Maestro che non vi gode buona salute e ne incolpa il clima della nebbiosa e fumosa città: « Se porto via le ossa questa volta da Londra, difficilmente vi tornerò... Il clima è orrendo ». In una lettera alla Appiani: « Questa nebbia e questo fumo che mi soffoca e mi acceca lo spirito ». E così in altre lettere: « Questo clima paralizza qualunque bellezza... Non ho lena a far niente ; intenda niente... E' un gran piacere a fare quello che si vuole. Quando io penso che starò alcune settimane a Parigi senza essere imbrogliato in affari musicali, senza sentire o parlare di musica — (perchè metterò alla porta tutti gli editori e impresari) — vado in svenimento per la consolazione ». « Ma colpa è del fumo e della nebbia e di questo diavolo di clima che mi toglievano ogni volontà di lavorare ». Ma sentiamo il Muzio: « Gran città è Londra. Parigi è poca cosa al confronto. Londra è una Babilonia ; gente che gridano, poveri che piangono, vapori che volano, uomini a cavallo, in carrozza, a piedi, e tutti urlano come dannati... ». Parla di Verdi: « L'aria umida e pesante gli reagisce sul sistema nervoso e lo rende più lunatico e melanconico del solito. » Londra accentua quel pessimismo verdiano che esamineremo fra poco. Ma è ancora interessante sentire come il Muzio abbia preparato le stanze per il suo Maestro: « Di tre stanze che volevo prendere volevano cinque sterline per settimana e mia mezza lira per la serva. Ne ho preso invece due sole e nel salotto vi ho fatto mettere per me un letto che al giorno figura un bellissimo divano e alla notte si fa letto ; se a Verdi piacerà così, bene; se non piacerà ne prenderà tre e pagherà cinque lire (sterline) ». Verdi, che non è di origine genovese come il Muzio, ma che pure è stato tacciato varie volte o lo sarà in seguito di eccessiva parsimonia, prende tutte le stanze, e non bada alla spesa. Ma il Muzio non la manda giù: torna a lagnarsi, con un senso di odio ai londinesi: « Si pagano nientemeno che cinque sterline » e non sa di essere tra gli inglesi, buoni affaristi e unicamente affaristi... In mezzo alla gente dei cinque pasti, Verdi è circondato da Lords e Ambasciatori che gli stanno intorno « in dieci, tutti uomini, dalle sei alle undici a tavola, cinque ore a mangiare e a bere e a fare dei toast ». Tutte cose che annoiano, tanto in contrasto col nostro temperamento di latini, e forzano Verdi a darsi a una vita ritirata il più possibile. « Primo perchè perde troppo tempo, secondo perchè non si può mangiare quei cibi tanto pieni di droghe e pepe ; e poi tutti cibi freddi e spiritosissimo vino che sembra rhum ». Verdi lavora molto ai suoi Masnadieri che deve ancora finire, e che non sono finiti nemmeno alla fine di giugno, quando manca ancora tutta l'istrumentazione. Eppure l'opera deve andare in scena la sera del 22 luglio perchè la Regina vuole assistervi, e poi 10 — F . BOTTI, G. Verdi andrà a « sgravarsi » in Scozia. E' la prima volta che un Maestro italiano del tempo scrive un'opera appositamente per Londra, e si prega Verdi che diriga lui stesso contro ogni sua abitudine. Egli non ne vuol sapere, ma alla fine cede alle insistenze di un ambasciatore e dei Lords che gli mandano una petizione con tanto di firme. L'opera ha buon esito fin dalla prima rappresentazione, a cominciare dal preludio al terzetto che è veramente bello, anche se non è proprio come dice il Muzio: « Il capo d'or era di tutti i capi d'opera ». Si vide lo spettacolo delle folle che dalle quattro del pomeriggio stipavano l'atrio del teatro ; molti gli applausi al Maestro, molte chiamate, e i fiori. Per un popolo come i freddi inglesi, era molto. I giornali pure ebbero lodi per Verdi ad eccezione di qualcuno che adoperò « frasi poco rispettose, da cui trapelavano inconfessabili rancori ». Il Roncaglia afferma che le scene finali del 4.o atto sono le migliori. «Un atto che si può ancor oggi sentire con piacere, e che attesta del molto fuoco sempre vivo sotto le molte ceneri ». Osservazioni: Verdi aveva visto il Caino del Duprè, che lo scultore gli suggerì come soggetto di una sua opera, tanto più che il Maffei lo stava traducendo dal dramma del Byron, e il Maffei gli suggerì anche Re Lear, ma Verdi optò per i Masnadieri, tragedia di Schiller, che lo stesso autore definì mostruosa per l'eccessivo fantastico in essa contenuto, ciò che nocque anche all'opera verdiana non elevatasi ad altezza che la portasse alla posterità. Nocquero a Verdi il viaggio e il clima di Londra talmente che nel terminare l'opera si sentiva affaticato e una fatica « che assolutamente non può sopportare il mio fisico, e se potessi trovar modo di accomodarmi con Lucca e di riposarmi quest'inverno lo farei volentieri... ». Ha quasi in uggia il teatro, tanto che il Muzio, dopo aver data una descrizione minuziosa della Lind, la cantante celebre, dice di essa e di Verdi: « Odia il teatro e le scene; dice di essere infelice e che proveràla contentezza ed un po' di piacere quando non avrà più a che fare con gente di teatro e col teatro stesso. Su questo punto essa è molto d'accordo colle opinioni del Maestro il quale odia anch'esso il teatro e che non vede l'ora di ritirarsi ». La Lind diceva sul serio: nella pienezza della sua fama si ritirò dal teatro e non ne calcò mai più la soglia. Da buon italiano Muzio ha ribrezzo di questa gente nordica: « Se la Lind venisse in Italia abbandonerebbe quella mania che ha per gli abbellimenti e canterebbe semplice... La sua faccia è brutta, seria e vi è qualcosa di nordico che la rende ai miei occhi antipatica, ha un naso grossissimo, mani grossissime, e così i piedi... Essa fa una vita ritiratissima, non riceve persona, e così fa bene, che non avrà seccature... ». Il Lablache invece, che pure aveva cantato in quell'opera, era un napoletano che a 12 anni a Napoli aveva cantato con tanto sforzo una Messa da restarne afono per alcuni mesi, finchè una mattina si alzò « tossendo, parlando, cantando con una voce da basso, sonora, vibrata e straordinariamente robusta ». Quando Verdi pregò il Maffei di ritoccargli il secondo atto dei Masnadieri « assolutamente freddo per la scena » gli pagò per il libretto 50 napoleoni d'oro e un orologio d'oro in regalo per i rappezzi portati al Macbeth. Ma il Maffei se ne senti quasi umiliato e confuso, per tanta gentilezza, ringraziandolo con una lettera nella quale termina così: « Io sono poco felice. caro Verdi ; la solitudine in cui mi trovo sarebbe cara ad un egoista; ma non a me che ho bisogno dell'amicizia e della tua principalmente... Non parlar di sacrifici quando desideri alcuna cosa da me. La mia penna e il poco mio ingegno sono da gran tempo cose tue ». Abbiamo voluto riportar queste parole prima di dire come Verdi giudicò l'esito della sua opera a Londra: «E' andata bene, e senza aver fatto furore ha avuto un successo da potermi procurare molte migliaia di franchi ». Gli erano necessari, ne era generoso con gli amici e collaboratori, e poi quando si desidera il danaro non per sè ma come mezzo per fare cose belle e buone, non si può assolutamente parlare nè di avarizia, nè di attaccamento al denaro stesso. In Verdi troviamo sì, in questi anni, un fortissimo attaccamento al denaro, ma è l'attaccamento di chi era stato povero, bisognoso di tutto e di tutti, e vuol quindi ora posare sul sodo. Compra palazzi e terre, e quando si vedrà stabilmente e consistentemente dovizioso, si farà munifico, benefico, generoso come nessun altro. «JERUSALEM» E «IL CORSARO» Pagina grigia nella musica verdiana questa in cui compose Jérusalem e il Corsaro. La prima non è che un rifacimento dei Lombardi alla prima crociata, tanto per accontentare gli impresari di Parigi che lo hanno scovato nel suo rifugio parigino in cui si è chiuso, contento di trovarsi in una città dove nessuno lo conosce, lo cerchi, lo voglia festeggiare. Manda il Muzio a Milano per la stampa dei Masnadieri e sta pensando come accontentare il Lucca « quest'uomo sì seccante, sì poco riconoscente -. indicandogli intanto che scriverà l'opera pattuita quanto prima, su uno dei tre libretti dei quali gli fa i nomi, e chiedendogli se per caso ne avesse lui stesso uno da indicargli... E' ben lontano il tempo in cui Verdi si innamorava di un libretto e sentiva fervere tutta la musica che poi buttava vorticosamente sulla carta. Diversi i motivi, ma anzitutto la stanchezza, e la svogliatezza di dovere scrivere sotto pressione di quel Lucca, che gli manda una cambiale di mille lire, producendo questa scatto verdiano: « Cosa crede? Comprarmi? Imbecille !,.. ». Ma il Lucca aveva i suoi contratti coi teatri, e Verdi aveva promesso, e se ha fatto uno sbaglio in questi anni, è stato appunto quello di promettere a tutti, con troppa facilità,. Conosceva le sue forze e la sua vena meravigliosa, ma non si è ricordato che non gode troppa salute, e che il lavoro stanca anche le fibre più gagliarde. Ha giurato di non scrivere per l'Opéra di Parigi, perchè gli spettacoli vi si dànno in un modo orribile, ma poi si adatta a fare un pasticcio de I Lombardi cavandone Jérusalem, in cui la scena da Milano è portata a Tolosa, e I Lombardi diventano francesi. Le prove durano due mesi e Verdi ne è contento. Strano! Gli impresari ci mettono tutto il loro impegno, ma l'accoglienza è fredda, forse per gli avvenimenti politici assai gravi che vanno preparandosi e che poco dopo scoppieranno. .Pensa poi di scrivere il Corsaro per il Lucca, che gli era cordialmente antipatico e per il quale si era ripromesso « di non scrivere un'opera di molta importanza ». E ci riuscì magnificamente, con un aborto, un nato-morto, quale fu il Corsaro, che fra tutte le opere verdiane non fu mai data a Parma, insieme col Finto Stanislao, mentre da uno specchietto al riguardo sappiamo che l'Aida vi fu data ben 168 volte, 137 il Trovatore, e 128 il Rigoletto. Se in tutte le sue opere Verdi mise sempre desiderio di far bene, qui mise solamente desiderio di far presto e la « negligenza e irriflessione con la quale quella musica è buttata giù provano certo la volontà di far presto, non quella di far bene ». La Jérusalem tolta la scena della degradazione, in tutto il resto non è preferibile a I Lombardi; il Corsaro poi, ripetiamo « è opera fiacca, scolorita, trascurata, cosi da sembrare scritta per dispetto », ed è la peggiore di tutte le opere di Verdi, come brutto è il libretto preso dal Byron, senza prendere quanto di bello in quel dramma vi aveva messo l'autore. ANNI DI PESSIMISMO Come Verdi sapesse essere faceto e allegro con gli amici allegri e faceti basterebbe a dimostrarlo l'inizio di questa lettera all'amico Luccardi, professore dell'Accademia di San Luca a Roma, e che tra gli amici era, come si suoi dire, un bel tipo. Scrivendo a lui Verdi, in questi anni lo chiama t Caro matto, matto due volte... Mio caro matto, anzi primo fra tutti i matti... ». E la giovialità verdiana è tale, sapendo di scrivere a un mattacchione, che- termina altra lettera al Luccardi: « Se tu mi fai questo favore ti do la mia santa benedizione ». Molto umorismo troviamo nella vita di Verdi, ma in questo periodo esso è limitato a quelle poche lettere al Luccardi. I suoi ritratti di quest'epoca ce lo rappresentano più serio del solito. La sua salute procéde a sbalzi, e ha scatti di nervosismo troppo frequenti. Forse così era il suo genio, a sfondo pessimista, come avviene di tanti geni, ma a rinforzarne le radici sopravvennero le faticose ascese, i martorianti studi, le tragedie familiari e quella caduta di Un giorno di regno nel momento più triste della sua vita. E questi Masnadieri, e questo Corsaro sembrano fatti apposta per trascinarlo dalla fede biblica, nella quale si moveva con le sue prime opere, al fatalismo, alla concezione cioè della vita disperata, del male senza luce di redenzione. Egli ha pubblicate alcune Liriche da camera nel 1838 e in seguito, nelle quali « la tristezza pessimistica mette capo a un romanticismo funebre di cui fanno fede i soggetti delle poesie musicate: un morto che parla e impreca al tardivo pianto dell'amante; il doloroso saluto estremo di un'agonizzante ; uno spirito che vaga nel crepuscolo maledicendo colei che lo tradì, ecc. » soggetti cari al nostro popolo allora e per molto tempo ancora, ma ai quali Verdi attinse con naturalezza. Un altro genio molto buontempone e realista nella vita, il Rossini, aveva capito subito che Verdi dalle sue opere appariva un « carattere melanconicamente serio », per un « colorito fosco e mesto » tanto che non avrebbe mai potuto scrivere un'opera buffa, ciò che Verdi non smentì nemmeno col Falslaff, perchè essa non è opera buffa come la intendeva Rossini e come la si intendeva allora. Molto bene scrisse Michele Scherillo: « L'indole sua era schietta fino alla ruvidezza e schiva fino al disdegno; le sventure domestiche e i disinganni precoci gli avevano lasciata nel profondo del cuore una tristezza che la prosperità e la gloria non valsero mai a cancellare ». Come la salute cagionevole influisse su lui basterebbe questa frase che è indirizzata all'impresario di Londra, contro ogni abitudine di Verdi di mantenere scrupolosamente ogni impegno: « L'impresario si potrebbe lagnare — (del suo arrivo in ritardo), ma se mi dice una parola sola che non mi vada a verso, io glie ne risponderò dieci, poi ritornerò subito a Parigi, succeda ciò che vuole ». Con tutto il rispetto che si deve al Grande Uomo, ognuno vede che queste sono parole di persona che attraversa un momento critico fisico - morale, e non ha diritto di agire con tale prepotenza contro chi « potrebbe lagnarsi giustamente » di un arrivo troppo ritardato. Ed erano gli anni in cui « Il Maestro odiava il teatro e non vedeva l'ora di ritirarsi », a detta del Muzio. Di questa sua situazione fa un esame il Gatti: « Verdi è nel rigoglio della virilità. L'animo suo fervido sente il bisogno di un saldo affetto. Solo, legato ai ricordi della sua umile terra « esclusa fin dalla carta geografica » soffre il tedio degli anni passati nel lavorare senza tregua, per dimenticare, per formarsi uno stato che lo tolga per sempre dalle angustie in cui si è rattristato la sua più bella età. Denaro ne guadagna e molto; ma il cuore può accontentarsi? Può rassegnarsi a quel suo vivere fra amici portati ognuno per diversa via o fra potenti che lo adulano e non lo capiscono? Suo suocero e suo cognato, con cui ha strettissimi legami di affetto, vorrebbe vederseli accanto, per confortarsi nella sua solitudine. Ma essi non si muovono da Busseto. Sono sani e robusti... A lui tocca lavorare dalle otto fino alle dodici di notte e si consuma la vita, e deve andare per piani e per monti « venissero anche i fulmini e cadesse a montoni la neve, col pericolo di essere colpito da una qualche frana di monte » come gli è capitato. « Che destino perfido è il mio! — esclama. Sospira un luogo di riposo, di refrigerio. A Londra dopo due rappresentazioni dei Masnadieri, che pure hanno avuto gran successo la prima sera, scappa e lascia al Balfe di dirigere la terza recita: l'ultima, perchè vengono tolti dal repertorio. Prima del Macbeth « aveva fatto una brutta cena » e anche sulla sua salute temeva per l'inverno prossimo. Scatta contro il Lucca, contro l'Opéra di Parigi, contro Parigi stessa, ed « ha una antipatia mortale per i Boulevards, dove sono amici, nemici, preti, frati, soldati, spie, stoccatori, insomma un po' di tutto ». Anche quando a Parigi si dà la Jérusalein egli passa a provare maggior noia dopo alcune parole di entusiasmo e scrive alla Maffei: « Non voglio che ella partecipi della mia noia e del mio dispetto ». Mai più nella sua vita il Maestro commetterà un'azione come quella verso il Lucca, che sarebbe assai disonesta, se non avesse tutte le attenuanti esaminate, inviandogli un'opera scritta « nella noia e per dispetto », sì che quando egli l'ha inviata all'impresario non si interessa minimamente dell'esito, e non glie ne importa che sia disastroso. Questo pessimismo verdiano, che non assumerà però mai una forma di disperazione in atto, che non passerà nemmeno al desiderio di un tragico epilogo della vita, restando sempre in quella che è constatazione ed espressione rigurgitante dalla tristezza delle ore in cui è immerso, questo pessimismo ha il suo acume in questi anni e ancora nel 1853, dopo composto il Trovatore, scriverà alla Maffei, che gli aveva detto essere l'opera troppo triste: «E infine nella vita non è tutto morte? Cosa esiste? » E' qualche cosa di più della espressione corrente che due sole realtà ha la vita., amore e morte. Ma anche a 70 anni avrà espressioni desolanti, in occasione della morte di Carlo Tenca, e nel suo Otello musicherà il terribile e crudelissimo « Credo » a cancellare il quale, gli osservava il Boito, e a farglielo perdonare non era sufficiente l'« Ave Maria » tanto dolce contenuta nello stesso Otello. L'eccessivo lavoro e le occupazioni e preoccupazioni di questi anni, il viaggiare continuo e il contatto con Parigi e Londra « due Babilonie ), del Nuovo Testamento, gli hanno anche tolta la pratica religiosa, seppure lasciandogli una sorgente di fede, che avrà proprio in questi anni la sua più gentile espressione nelle parole da lui dettate per la iscrizione da apporre alla tomba della madre. La relazione con la Strepponi che si fa legame in questi anni non arresta che in parte questa tristezza ed in parte acuisce il dispetto del Maestro con gli uomini, tanto più che la Strepponi stessa era una povera vittima della vigliaccheria umana. Ma ciascuno di noi ha nella vita la sua crisi. Verdi ebbe la sua, in questi anni nei quali ci diede le espressioni sue meno elevate per la vita e per l'arte, di cui è segno sconfortante il disgraziatissimo e grigio Corsaro, grigio come i suoi giorni. Ciascuno di noi sa che il nostro animo è un prisma dalle molte sfaccettature, i filosofi ci insegnano a studiarle per conoscere noi stessi, ed anche i santi non si fidano mai di sè: « Gnosce te ipsum! » Nella vita mirabile di Verdi, nel prisma lucentissimo della sua vita, come ne abbiamo colto la faccia del pessimismo così con altrettanta facilità, e con molto più materiale documentario potremmo cogliere altri aspetti, per i quali ci appare come « seppe godere la vita e gli agi che l'arte gli procurava, con un palese realismo » come passava ore serene con gli amici invitati a mettere i piedi sotto la tavola in casa sua per mangiare un bel pavone ; come dalle lettere al Luccardi, al conte Opprandino Arrivabene, al Tebaldini, e da quell'episodio grazioso del cane ch'egli finge di far scrivere all'altro cane amico, per non citare altre fonti, appaia un Verdi spassoso, allegro, limpido come cielo lombardo « che è così bello quando è bello ». Non diamo adunque soverchia importanza a queste frasi pessimistiche, perchè le sventure « amareggiarono ma non inaridirono la fonte d'ogni godimento della sua laboriosa e gloriosa carriera ». La forte tempra del maestro era fatta non per soccombere, ma per vincere il pessimismo della sua vita, e ne è evidente segno questa frase alla Maffei: « Addio, mia cara Clarina. Schiviamo ed allontaniamo le cose tisti per quanto si può e vogliamoci bene finchè si potrà ». Che in questo tempo Verdi sia stato provato maggiormente dal dolore mi pare che lo provino le frasi e la ispirazione musicale di esse nella Battaglia di Legnano : « A me soltanto è retaggio il dolore... Il ciglio molle ho di pianto. Ho pieno il cor di lacrime », che anticipano le espressioni di dolore nella Trav2ata. Ma contemporaneamente l'opera non è « pessimista » e anche l'amor di patria vi è sentito gagliardamente, tanto che nessuna opera riuscì a far superare gli entusiasmi suscitati da questa. Crisi fisico-morale. Noia e dispetto. Nube grigia nelle relazioni col Barezzi. Irritazione con Busseto: « Forse altrove si ha un poco più di stima e di rispetto per il mio nome... Ma le riposanti ore di S. Agata e le tenerezze soavi, incessanti, serene della Strepponi ricondurranno « l'ispido Giove » a riconciliarsi con la vita, con gli uomini e le cose, quasi completamente. Ma per chiunque vorrà ancora trattare questo argomento del pessimismo verdiar.o invito a non dimenticare le parole di Verdi a Rimini, nel 1857: « Quasi tutti i giorni visitava la contessa Belmonte Cima, vedova Baldini... e le raccontava a lungo, melanconicamente, delle sue umili origini, dall'inizio della sua carriera, dimostrandole come da le sventure, nell'età giovanile, trasse il suo carattere. Disse un giorno alla contessa: « Ora sto leggendo la Bibbia; è uno studio che mi diletta e mi conforta assai ». Lettura che dall'infanzia lo accompagnò agli anni più tardi della sua vita, a diletto e conforto nelle ore di dolore. «LA BATTAGLIA DI LEGNANO» Le vicende politiche d'Italia si avviano a quelle epiche cinque giornate di Milano per la cacciata degli Austriaci, nelle quali vedremo il Muzio infiammarsi e salire sulle barricate col fucile, e Verdi fremere di amor di patria. A Parigi ha passato ore serene, ma più serene ne ha trascorse a Passy dove la Strepponi ha preso in affitto una casa in campagna, e ha tolto Verdi dalla metropoli, dove andava. perdendo un poco della sua selvatichezza, ma dove la vita è troppo frivola per lui. Intanto ha anche comperato un fondo detto il Plugare alle Roncole anche per dimostrare praticamente al padre che fa soldi e che risparmia; poi compera dalla famiglia Merli di Sant'Agata una villa, nella quale spera di passare ore di silenzio operoso. Ma i moti italici e gli avvenimenti incalzano. Mentre è tornato a Parigi da Sant'Agata appena comperata, si unisce a una deputazione milanese venuta colà per invocare l'aiuto della Repubblica perchè la metropoli lombarda sta per cadere ancora sotto il giogo straniero. Ma il Presidente della Repubblica, generale Cavignac, non dà alcun aiuto. Intanto può combinare per la sua nuova opera che sarà grandemente di ispirazione patriottica: potrà darla nientemeno che a Roma, all'Argentina, mentre a Napoli andrà in un secondo tempo secondo gli impegni presi. Il sentimento di amor patrio che agiterà ogni pagina della nuova opera ha la sua preparazione, per così dire, nell'inno che egli compone per Mazzini: un inno di Mameli che non è quello diventato popolare. Egli lo invia al Mazzini con una lettera che termina con le notissime parole: « Possa quest'inno, fra la musica del cannone, essere presto cantato nelle pianure lombarde ». Finite le trattative egli compone velocemente l'opera e si reca a Roma per la rappresentazione che è data il 27 di gennaio, con quell'esito clamoroso, strepitoso che è noto. E un giornale romano, Pallade, ne aveva annunciato l'avvenimento con parole di infuocato amor patrio, significando che il soggetto era stato preso dalla lega Lombarda: « Lombardo, quale il Maestro è, offre colla penna il tributo che non potrebbe con la spada alla sua patria infelicissima, affinchè dalle ricordanze delle glorie passate prenda ella ristoro delle sventure presenti, e presagio dei trionfi avvenire ». E il giorno seguente:« In tutte le altre opere, questo giovine Maestro è grande per ricchezza di imagini e per giuoco di fantasia: in questa egli è gigante e per forza di concetto e per vivacità di italico sentire ». La penna non può descrivere l'entusiasmo di quella sera. Fu un'esplosione, fu una rivoluzione in tutto il teatro, fu un tumulto... Delirio, furore, fanatismo. Verdi capisce che è il trionfo del patriottismo. L'opera ha bella musica, e non vale la calunnia che sia stata applaudita solamente per sentimenti nei quali si muoveva e commoveva. Ma segna anche un punto di arrivo. 11 Maestro, in questo '49 si arresta per un istante, per riprendere con più lena e rinnovata possa il suo cammino. 11 — F. BOTTI, G. V'erdi LUISA MILLER Anche i moti politici hanno una sosta; Verdi pensa quindi di musicare un'opera per il San Carlo di Napoli nella quale si parli piuttosto d'amore che di sommosse patriottiche ; egli passa questi mesi come quelli che verranno nel 1850, tra il lavoro e la solitudine, in attesa. Al Luccardi, il suo caro matto, scriverà infatti: « Godo che tu sia molto occupato a lavorare, e spero che farai cose degne di te, e farai onore al nostro povero paese. Nulla havvi da fare di meglio che lavorare ; io pure che non amo molto la fatica, mi occupo moltissimo: solitudine e studio: ecco la mia vita ». Di questa solitudine e lavoro silenzioso riflesso è l'opera ch'egli scrive, la Luisa Miller, con soggetto preso dallo Schiller, e che ha musica pacata, serena, dolcissima. Molti hanno voluto affermare che in Verdi vi furono tre periodi diversi, ossia tre sistemi di comporre, o che la Miller segna il trapasso dalla prima alla seconda maniera. Molto è stato detto su questa opinione, che non ha serio fondamento, poiché Verdi in musica fu come un poeta che segna quando amore detta, e compose sotto l'influsso degli avvenimenti, dell'ambiente, e dei sentimenti della sua anima: « In musica, come in amore, disse, bisogna essere innanzitutto sinceri per esser creduti ». In altra occasione scrive: « E' impossibile che io faccia della buona musica se io non ho capito bene il dramma, e di cui non ne sia persuaso ». Ancora una volta nella scelta del soggetto vi è molto armeggio col Piave e col Cammarano. Notevole che in una lettera al Piave, Verdi propone con grande calore un libretto su l'eroe ucciso da Maramaldo: « Ferruccio è personaggio gigantesco, uno dei più grandi martiri della libertà italiana. L'assedio di Firenze di Guerrazzi ti potrebbe somministrare delle grandi scene, ma vorrei che stessi attaccato alla storia... ». Ecco lo studio di cui parla Verdi al Luccardi: legge libri, romanzi storici, tragedie, ecc., per cavarne argomenti per le sue opere. Dopo la Battaglia di Legnano Verdi va a Venezia: « Cerco di aggiustare in qualche maniera gli affari imbrogliati che ho qui, poi volo in Italia ». E diceva di tornare in Italia da Venezia, la quale era sotto il giogo degli austriaci... ma che ad essi resistette lungamente dopo aver costituito un governo provvisorio meritandosi queste parole di Verdi: « Iddio vi benedica, miei buoni Veneziani, qualunque sia l'evento voi avrete certamente la benedizione e la gratitudine di ogni terra italiana ». Da Venezia va a Parigi, mentre ha dato ordini per lavori a Sant'Agata. Nel maggio gli arriva la tela della Miller, inviata dal Carnmarano. L'opera però gli arriva a spizzichi. E Verdi non può nemmeno musicarla con tranquillità perchè a Parigi scoppia il Cholera morbus e i genitori suoi lo chiamano con trepidazione a Busseto, tanto sono catastrofiche le notizie che si stampano su quel colera. I suoi genitori adesso sono a Vidalenzo, ivi allogati dal Ma estro, mentre Verdi si deve fermare a Busseto nel Palazzo Orlandi anch'esso di sua proprietà, e dove termina l'opera. A Roma deve fare la quarantena perchè viene dall'estero e potrebbe portare il male serpeggiante; altre noie gli nascono a Napoli, compresa quella del iettatore, maestro Capecelatro... E 1'8 di dicembre la Miller va in scena con successo non pieno la prima sera, nella quale i Napoletani si sono trovati disorientati, per la forma nuova e innovatrice, ma con trionfo clamoroso subito le sere seguenti. Pareva quasi che si volesse far perdonare ia cattiva accoglienza fatta a suo tempo alla Alzira. E da Napoli passò a Roma per un nuovo trionfo. LO STIFFELIO E' anche questa una delle opere cadute neli'oolio. Una delle figlie minori, alla quale nocquero due fatti: il riflesso in essa dell'anima di Verdi che in questo frattempo è in crisi religiosa, nel periodo delle « ombre » che vorrebbe esprimere nelle scene di Stiffelius, e la ricerca ch'egli va facendo di soggetti « nuovi, grandi, belli, variati, arditi... ed arditi all'estremo punto »; e nuoce a Stiffelio quanto lo stesso Verdi esprime in una lettera al Carcano: « Io ho dovuto per ora rinunciare a Re Lear, lasciando commissione al Cammarano di ridurre il dramma per altro momento più comodo... Stretto come sono da due impegni, ho dovuto scegliere argomenti più facili e brevi per poter adempiere ai miei obblighi ». Gli mulinava continuamente nella testa il soggetto di Re Lear, e un desiderio incessante di musicarlo, ma era argomento troppo tragico, vasto, e difficile a ridursi a melodramma; ne rimanda lo studio intanto che alla svelta accontenta gli impresari del Teatro Grande ai Trieste, per i quali prepara appunto lo Stiffelio, il cui libretto è del Piave, mentre col Cammarano discute, oltre che intorno a Re Lear, su El Trovador, dramma spagnolo, e su Le Roi s'amuse di Victor Hugo, che gli sembrano due argomenti molto adatti. Lo Stiffelio va in scena il 16 novembre 1850, dopo alcune noie subite dalle due censure, ecclesiastica e civile, e dopo che gli è stata tolta l'ultima scena, quella cioè per la quale era stato preparato tutto il resto dell'opera. Mancano in tutta l'opera quelle passioni e quelle passionalità potentemente rilevate che dànno al Maestro l'aire per le sue note spontanee e potenti: « Forse parve al Maestro che la lotta tra il sentimento religioso e le passioni terrene, che formano la situazione fondamentale del dramma che attraversa il protagonista, fossero sufficente esca alla sua fantasia e costituissero qualche cosa di nuovo nel teatro italiano. In realtà la sua vena si trovò impigliata in un soggetto grigio, in mezzo a caratteri e situazioni poco nitide di scarso interesse drammatico. E nonostante l'impegno con cui il Maestro lavorò, e di cui l'accuratezza della composizione offre prove sicure, l'opera non riuscì », e non piacque ai triestini. Verdi per ben due volte muta il nome dell'opera, che diventa Guglielmo Wellingrode a Roma e Napoli nei mesi successivi, e Aroldo sette anni dopo, quando il Maestro ancora pazientemente riprende il suo lavoro la cui atmosfera grigia pesa ancora sulla musica, che solo nell'ultima scena si eleverà verso quella, contemporanea, del Ballo in maschera. IL RIGOLETTO Dice E. Checchi: « Verdi scrisse altre opere altrettanto belle: ma secondo me non ne ha scritta nessuna che superi il Rigoletto ». Dice invece G. Gavazzeni: « Non son pochi a credere nel Trovatore, come nel capolavoro di Verdi ». E qualcuno dice la stessa cosa della Traviata. A parte i gusti personali, tutto questo ci dice che Verdi tocca i vertici della grandezza artistica con queste tre opere che noi abbiamo dinnanzi in questo periodo della sua vita, come li raggiungerà ancora e più con l'Aida, l'Otello, il Fa/staff. Il contratto con « La Fenice » di Venezia assillava Verdi, poichè egli aveva molti soggetti musicabili e già appare il nome del Trovatore nel suo corteggio. Ma si decise poi per Le Roi s'amuse di Victor Hugo, incominciato a musicare nel mese di aprile del 1850, continuato a Sant'Agata di Busseto nel gennaio del 1851, in cui scrive al Direttore del teatro di Venezia che già l'opera sarebbe compiuta se non avesse un mal di gola. Intanto si affaccia lo spettro della polizia. Piave, e Brenna avevano assicurato Verdi che essa non avrebbe frapposte difficoltà alla rappresentazione dell'opera, mentre poi tali difficoltà si affacciarono gravissime tanto che a Busseto dovettero venire il Piave e il Brenna stesso che avevano assistito a Venezia alle discussioni tra il Marzari e il funzionario di Pubblica Sicurezza. L'opera è promessa in cartellone senza che se ne dia il titolo, che Verdi avrebbe voluto fosse Maledizione, e poi Duca di Mantova, ma che infine diventò Rigoletto, buffone di Corte, da Triboulet, sempre secondo il suggerimento del Direttore della Polizia Carlo Martello. « La gente stupirà, allorchè verrà a sapere che abbiamo avuto a collaboratore un funzionario di polizia disse poi Verdi al Piave. L'll marzo 1851 l'opera va in scena, dopo alcune prove riuscite facili, mentre poco prima nel Fernando Cortez del Malipiero i cantanti non riescivano a imparar le parti. Il successo dell'opera fu clamoroso, e c'è da meravigliarsi che il popolo, di fronte ad un'opera nuova per molti aspetti abbia saputo comprenderla e amarla tributando al suo autore un trionfo di cui egli godeva come consapevole di avere messo in questo suo lavoro le sue migliori energie, e la spontaneità del suo genio da cui era zampillata in quaranta giorni ; non nel senso che in questi soli giorni egli l'abbia completata, ma che l'ossatura, per così dire, era stata apprestata e l'opera insomma esisteva già. Non vogliamo fare un esame delle bellezze musicali di quest'opera e delle innovazioni in essa e con essa portate al teatro italiano, poiché ci siamo assunti ben altro impegno ma non possiamo tacere le parole del Roncaglia: « La potenza creativa del genio di Verdi si palesa ormai nel Rigoletto con vigore abbagliante. Rigoletto è una fiumana di melodia, un torrente di luce. I più fulgidi tesori, celati a lungo nelle tenebre dell'incosciente, irrompono ora alla luce in tutta la loro bellezza... Rigoletto, Trovatore e Traviata rappresentano l'esplosione trionfale di un genio che il lavoro diuturno e assillante non stanca, ma conduce più in alto e gli permette di ritrovare più veracemente la parte più viva di sè ». Molti sogliono chiamare queste tre opere « Trilogia romantica », ma solo imperfettamente si meritano tale appellativo, poichè sono l'una indipendente dall'altra, a meno che si voglia ritrovare un vincolo comune nella rappresentazione di sentimenti di profonda umanità, nell'accostamento di Verdi alla vita vissuta, da cui trasse i tre protagonisti, cantandone amore, passioni e dolore « spinti fino allo spasimo ». Meglio la si chiamerebbe trilogia latina per i paesi latini nei quali si svolgono gli avvenimenti delle tre opere. Verdi aveva scritto: « La lunga esperienza mi ha confermato nelle idee che io ebbi sempre riguardo all'effetto teatrale, quantunque nei miei primordi non avessi il coraggio di manifestarli in parte. Per es. dieci anni fa non avrei arrischiato di fare il Rigoletto, rifiuterei oggi di scrivere soggetti sul genere del Nabucco, Foscari, ecc... Presentano punti di scena interessantissimi, ma senza varietà. E' una corda sola, elevata se volete, ma pur sempre la stessa ». Ed ecco il Maestro nel Rigoletto lasciare i cori, ritenuti indispensabili allora per qualsiasi opera, e metterne appena quel tanto, ma senza curarli nella musica, che proprio nei cori è scadente, quel tanto che non mettesse in pericolo l'esito stesso. Per quante sere fu ripetuta l'opera? Per ben ventun sere, e si attese con ansia l'anno nuovo per ripeterla, mentre andava trionfando in tutti i teatri in Italia e fuori cambiando, come al solito, nome, e diventando Lionello, Viscardello... Fu data anche nelle capitali dell'Ungheria e di Boemia, a Graz, ecc... Episodio caratteristico per la rappresentazione dell'opera è quello capitato in Francia all'impresario che si azzardò, dopo sei anni di aspettativa, a metterla sulle scene sapendo del divieto di Victor Hugo, che pensava gli avessero rovinato il suo Le roi s'amuse... Cento rappresentazioni con la Frezzolini, che mandava in visibilio il pubblico, lo convinsero a sentire il Rigoletto. Si dice che si sia alzato di scatto, dopo il quartetto dell'ultimo atto, dicendo: « Se potessi anch'io nei miei drammi far parlare contemporaneamente quattro personaggi in modo tale che il pubblico ne percepisse le parole ed i sentimenti, otterrei un effetto uguale a questo ». Sul quale quartetto Verdi aveva detto, durante le tergiversazioni con la polizia: « Fra gli altri, la scena del quartetto, quanto ad effetto sarà sempre uno dei migliori che vanti il nostro teatro ». In quanto alla fertilità della mente verdiana che componeva opere « in quaranta giorni » è necessario ricordare le parole di Verdi stesso: « Per scriver bene occorre poter scrivere rapidamente, quasi d'un fiato, riservandosi poi di accomodare, vestire, ripulire, l'abbozzo generale ; senza di che si corre il rischio di produrre a intervalli con musica a mosaico, priva di stile e di carattere ». Durante le discussioni per le mene della polizia Verdi scrisse al Marzari parole preziose circa il protagonista: «Un gobbo che canta? e perchè no?... farà effetto? non lo so ; ma se non lo so io, non lo sa, ripeto, neppure chi ha proposto questa modificazione », e aggiunge che « trova appunto bellissimo questo personaggio estremamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d'amore. » Sulla novità e bellezza della musica del Rigoletto dice il Della Corte: « Una gran luce si fa, verso il '50, nella mente, nella fantasia, nel gusto di Verdi, che ha circa quarant'anni ed è alla sua quattordicesima opera ». Si racconta che quando il Piave andò a Busseto a portare le richieste e le mutilazioni del Commissario di Polizia, Verdi lo investisse dicendo: «E tu approvi eh, miserabile? »... Il Piave avrebbe risposto: « Maestro mio, maestro mio... la necessità, la censura... » calmando per il tono sincero e paziente il Maestro che gli poneva bonariamente una mano sulla spalla e si metteva a discutere con lui le richieste modifiche allo spartito. Già nella prima discussione al riguardo erano calate sul Piave queste parole: « Vai al diavolo tu, i libretti più confacenti, e le polizie di tutto il mondo. O scriverò la musica della Maledizione, o non scriverò più una nota ». Notissima poi è la vicenda della melodia: « La donna è mobile », che il Roncaglia magistralmente definisce: « Gioiello di leggiadria e' di arguzia. Fresco iridescente zampillo, agile frullo di libere ali per il cielo, manifestazioni fra le più inattesamente gioiose del genio verdiano in pieno rinnovamento interiore, non solo formale ma soprattutto fantastico ». Avvenne adunque che il tenore Mirate, al quarto atto, trovò che c'era per lui segnata una parte, ma la parte non era scritta. Verdi lo assicurò che glie la avrebbe data quanto prima. Domande da parte del tenore e imperturbabilità di Verdi anche le sere seguenti che non dà la parte al Mirate, il quale alfine si stanca e preoccupatissimo esige il pezzo mancante. Il Maestro glielo fece vedere, ma prima di darglielo nelle mani allungate per averlo subito, volle questo giuramento: « Mi devi prima giurare una cosa, mi devi giurare che studierai senza farti sentire da nessuno questo pezzo, che per impararlo non lo canterellerai per strada o per le scale, al caffè o in gondola, che ti guarderai bene di rifarlo fischiando, che insomma prima di domani a sera alla prova generale nessuno ne saprà nulla ». La sera seguente volle lo stesso giuramento da tutti i presenti. « Sicchè, dice il Checchi, alla prima rappresentazione del Rigoletto, quando l'orchestra al quarto atto, fece sentire con i violini lo spunto elegantissimo del motivo, e il pubblico intero previde qualche cosa di nuovo, e il tenore Mirate, seduto a cavalcioni di una seggiola attaccò con brio e disinvoltura quel pezzo, successe che appena terminata la prima strofa fu un tale urlo da tutte le parti del teatro, che .il tenore non trovava più il verso di attaccare la seconda strofa... ». Verdi aveva previsto tutto. Il popolo decretò ovunque l'osannà del trionfo a quest'opera, mentre la critica scrisse pagine che potrebbero servire di divertimento e parrebbero incredibili tanto esse strapazzano la musica del Rigoletto. Ne prendiamo due, una italiana ed una inglese. In Italia per il critico dell'Italia musicale che si scagliò contro la musica del Rigoletto : « Qui troviamo monotonia nel colorito, e non di rado, lungaggini e languori, tanto nelle forme come nei ritmi... V'ha in quest'opera dei difetti capitali: e primo il canto, ridotto a condizioni ancora più misere e disperate... e la mancanza assoluta e continua d'invenzione... non v'ha una cantilena, non una battuta che si possa dir nuova. Tutto è sentito e risentito, e, aggiungi, non tutto di ottimo gusto ». Considerazioni che furono ripetute in altri numeri della Gazzetta stessa in nuove puntate. A Londra 1' Athenaeum diceva che la musica di Verdi nel Rigoletto era «puerile e ridicola, piena di volgarità e di eccentricità, e povera di idee... nel cercare la semplicità Verdi è caduto nella frivolità. In altre opere ha spesso nascosto, con un certo successo la povertà dell'idea con pomposo sfoggio di strumenti, ma ora ha mostrato di avere poche idee che possano dirsi originali... Rigoletto è l'opera più debole del Signor Verdi, la più sfornita d'ogni ingegnoso contributo. Entrare in un'analisi sarebbe perdita di tempo e di spazio ». Ma il Montignani notava: « Gli sciocchi, gli invidiosi, i tristi, e specialmente certi pedanti stranieri che da mane a sera camminano per le vie di Londra hanno voluto far, credere agli Inglesi che Verdi è un Maestro da trivio, e la di lui musica degna appena di figurare in una bottega di pizzicagnolo. Ed è una cosa molto curiosa il vedere che mentre questi nemici della gloria musicale italiana addentano rabbiosamente Verdi, la musica di Verdi si vuole ovunque anche in Inghilterra ». Che cosa ne pensava Verdi del Rigoletto? All'amico Luccardi aveva detto semplicemente: « Del Rigoletto saprai l'esito che è stato felicissimo ». Ma nel 1855 tornava a rimirare questa sua opera, dopo i successi del Trovatore e della Traviata: « Rigoletto, la mia migliore opera ». Eravamo nel 1855, quando l'Otello era ancora da venire, e questo diciamo per tranquillizzare chi non crede che il Rigoletto sia davvero la migliore opera di Verdi. E' necessario ricordare una lettera del Maestro circa l'esecuzione dell'opera a Roma nell'autunno dello stesso anno 1851, indirizzata al suo caro matto: « Non verrò quest'anno a Roma, come tu speravi e come io sperava, ma un cumulo di circostanze contrarie mi priva del piacere di abbracciare te, gli amici e di vedere l'eterna città. Speriamo che un'altra volta le cose siano disposte un po' meglio!!! Ma io non voglio accusare nessuno !... La colpa è tutta mia!!! capisci?!... So che si è rovinato a Roma non solo Stiffelio, ma anche Riaoletto. Questi impresari non hanno ancora capito che quando le opere non si possono dare nella loro integrità, come sono state ideate dal• l'autore è meglio non darle ; non sanno che la trasposizione di un pezzo, di una scena è quasi sempre la causa del non successo di un'opera. Immaginati quando si tratta di cambiare argomenti!! E' molto se io non ho fatto pubblicare una dichiarazione che Stiffelio e Rigoletto, come sono state date a Roma, non erano musiche mie. Che diresti tu se ad una tua bella statua si mettesse una benda nera sul naso? !!! Mille cose a tutti gli amici. In particolare ad Angiolini, e tu ama sempre il tuo: G. Verdi». Tra i teatri italiani « La Fenice » è finora il più gradito a Verdi, il quale ha un bel dichiararsi insensibile ai successi ed agli insuccessi e alle gentilezze verso di lui, ma ricordando le premure usategli a Venezia per la esecuzione del Rigoletto e le manifestazioni cordiali, dirà: « Ciò mi fu più caro dell'esito stesso, benchè carissimo ». Mentre il contrapposto deve dire della Scala: « Per tutti i diavoli, io non scriverò mai più per un teatro dove si assassinano le opere in quel modo ». Erano le sue creature e aveva diritto di vederle ben trattate... Si dice che il Duca di Parma Carlo III, quando sentiva cantare: « Cortigiani, vil razza dannata... » sganasciasse una risata accompagnata da gesticolare furioso in faccia a tutti i suoi cortigiani presenti. Gesto che ci riconcilia un poco con la sua pazzesca figura di governante... IL TROVATORE Basta pronunciare questo nome: Il Trovatore, ed ecco nella mente di ognuno vagare le figure abbaglianti di Manrico, Leonora, Azucena, il Conte di Luna, Ferrando... ; si pensa e ripensa a folle entusiasmate, a teatri in follia di applausi, a cuori dominati dall'ultraromanticismo dell'opera nel romantico secolo XIX; si pensa a Cavour... Ci sarebbe da scrivere un libro solamente per parlare di quest'opera, della sua creazione, della sua musica, delle sue vicende teatrali dal 1852 ad oggi. Vediamo di scegliere da tutta questa materia quello che più ci interessa, lasciando, come al solito, ad altri la parte critica sull'arte della sua musica appassionata, con quell'impeto lirico che si sprigiona senza intermittenze dal principio alla fine, per quella fervida ribollente ispirazione verdiana che qui ci rivela pienamente l'anima del Maestro, impetuoso, straripante di fantasia e di forza, che in nessuna opera come questa si innalza e raggiunge una violenza canora e sonora che impressionò sempre artisti e popolo soffocando le imperfezioni del libretto. Le quali imperfezioni sono tante e così gravi che si possono spiegare solo co] fatto che il tema è preso dall'autore spagnolo Garcia Cutierrez, uomo di quella terra latina dove la dominazione araba ha lasciato tracce del fantasioso oriente per cui anche nella letteratura si avvicina il narratore all'immaginoso da Mille e una notte, e Verdi trova in questo Gutierrez descrizioni e racconti con « situazioni potenti », che si confanno col suo temperamento musicale... E sia detto una volta per sempre cl.e Verdi era un parmense al cento per cento; veniva cioè da questa nostra terra che ha un popolo «di eccezione, passionato, accessibile alle emozioni e al sentimento, ccn una fantasia vivisma ed infiammabile, con atteggiamenti da folla meridionale, - (come ebbe a scrivere G. Zib. quando assistette alle solenni onoranze tributate a Padre Lino) come in un contagio di nobile frenesia collettiva, con uno spettacolo splendido e commovente, strano e sublime... ». Il nostro è un popolo che ha nelle vene musica e canto, e musica e canto ne permeano la vita, e musica e canto del genio gigantesco di Verdi sono la ragione vera della vitalità del Trovatore, vecchio e sempre nuovo, vecchio e indimenticabile, che ci prende anima e cuore... Chiunque ancora alza cautamente la testa a dire una parolina perfida contro la musica del Trovatore e della Traviata, perchè molto si adatta agli organetti o è troppo fatta per il popolo, anche se non investe tutta la musica verdiana come si osò fare un tempo, ricordi queste parole scritte il 28 12 — F. BOTTI, G. Verdi gennaio 1855: « Se Rossini e Bellini resero popolare il sublime, intento di Verdi fu, se non andiamo errati, di rendere sublime il popolare », e che il Roncaglia cotnmenta dicendo che forse Verdi non aveva questo intento, perchè non fece che seguire la voce del suo genio « trasportandoci in una sfera di sentimenti più vasti e universali di quelli che in apparenza si propone di esprimere ». Amore e morte, che sono parti essenziali della lirica, stravaganze tragiche e bizzarrie, quadri foschi e scene impressionanti, che riportano Verdi un passo indietro dal Rigoletto, come concezione librettistica e musicale; improprietà e convenzionalismi, ma tutti superati e vinti dalla foga musicale verdiana. Verdi aveva sentito che questo argomento era « suo » e col Cammarano discusse e lavorò perchè il fiabesco del Gutierrez passasse nella riduzione a libretto: « Non vi offenderete se, io meschinissimo, mi prendo la libertà di dirvi che se questo soggetto non si può trattare per le nostre scene con tutta la novità e la bizzarria del dramma spagnolo è meglio rinunziare ». L'argomento lo ha preso e attende con ansia che il Cammarano « faccia presto », perchè egli ha già la musica che gli si sprigiona dall'animo, e la famosa lettera al Carnmarano in cui gli propone, per argomento El Trovador ha quella graziosa battuta che ci dice anche con una pennellata chi fosse il Cammarano, ossia un napoletanino furbo e intelligente con quella sua aria sorniona e buona: « Fate voi, che siete quell'ometto che siete... ma fate presto... ». Avrebbe voluto fai' presto anche nel dare l'opera, ma la morte della madre, la necessità morale di allontanarsi da Busseto ove aveva sognato sul suo Trovatore, la lentezza del Cammarano a preparargli il libretto, anche per lo schema datogli da Verdi e dal quale non si poteva decampare, poi la morte dello stesso Cammarano, sì che i versi furono compiuti da Leone Emanuele Bardare, un reuma che prende Verdi e lo obbliga a Roma ad assistere raramente alle prove, le trattative lunghe e complesse per far dare degnamente l'opera a Napoli ritardano l'esecuzione che finalmente avverrà a Roma, dopo che Verdi riannodò le trattative con l'impresario Jacovacci dell'Apollo. E questo perchè egli ha già quasi pronta l'opera per La Fenice di Venezia, ed urge dare il Trovatore, intanto che febbrilmente lavora alle ultime battute della Traviata, come vedremo. E' il 19 gennaio 1853, e il Trovatore compare per la prima volta col suo nero mantello a elettrizzare le folle. Giornata che meriterebbe la sua descrizione accurata perchè dalle otto del mattino la gente fece ressa davanti al botteghino dell'Impresa, e a mezzogiorno tutti i posti erano accaparrati. Eppure vi era stata una piena del Tevere così alta che io straripamento aveva obbligato la gente ad avviarsi verso il teatro sulle vetture per le vie impraticabili... E la esecuzione non tradì l'attesa. Il Boucardé, nella parte di Manrico, entusiasmò lo stesso Verdi, e la Penco e la Goggi portarono l'entusiasmo a tal punto che le repliche di pezzi furono innumerevoli, e le chiamato al Maestro interminabili, sì che non si credette adatta la parola entusiasmo ma si ricorse a « delirio, fanatismo, follia ». In Italia la si rappresenterà presto in quasi tutti i teatri: « Nel marzo del 1854 sarà posta in scena all'Opera imperiale di Vienna, e nel dicembre dello stesso anno al Teatro Italiano di Parigi. Nel maggio del 1855 al Con vent-Garden di Londra, e nel dicembre al teatro imperiale di Pietroburgo. Quindi nel mondo intero ». E all'Opera di Parigi si raggiunse in breve tempo la centesima rappresentazione. Tra gli episodi più caratteristici è quello che riguarda Cavour, questo sommo diplomatico che invece del suo italianissimo nome di Camillo Benso è passato a essere denominato gallicamente col nome di Cavour, di cui era Conte, sì dio stupidamente qualcuno lo ritiene di origine francese. Si riferisce adunque che Camillo Benso conte di Cavour, stonato come un cane, attendesse un giorno del 1859 nel suo gabinetto ove era anche il Prati, un dispaccio di importanza politica eccezionale, da cui dipendevano le sorti della guerra contro gli Austriaci; quando l'attesa interminabile e grave è rotta dalla comparsa del segretario che reca un dispaccio strappato quasi dalle sue mani e letto vorticosamente dal Cavcur. Silenzio?... Cavour spalanca una finestra e con il dispaccio agitato tra le mani si mette ad abbaiare: « Di quella pira, l'orrendo fuoco.... unico motivo musicale che fosse entrato discretamente nel suo orecchio... Il pubblico che a teatro è « il sovrano democratico 'i o meglio « il democratico sovrano • una volta a Firenze, al teatro Paglian o, esercitò talmente questa sua s wranità che poco mancò si cadesse in un episodio sanguinoso: il motivo era la replica della apostrofe: « Ah, quest'infame l'onore ha venduto », cantata dal Baucardé, e per tale replica il loggione che la esigeva e la platea che la rifiutava fecero rinascere in Firenze ricordi medioevali, come dice il 1VIc,naldi, di Guelfi e Ghibellini... Per spiegare come fossero frequenti gli applausi ai vari pezzi del Trovatore è necessario ricordare come le parole: «Squilli, echeggi la tromba guerriera », dovevano suscitare profondi palpiti nel cuore degli italiani nel 1853. Il quadro « di terribilità dantesca » del Miserere ci fa risovvenire una frase di Listz. Chi non ricorda la scena tetra e grave? «Il coro intona austero e tetro la prece degli agonizzanti sui rintocchi gravi della campana: l'orchestra sussulta e freme con un ritmo soffocato e tragico sotto il pianto e i singhiozzi di Leonora, mentre dalla torre la voce di Manrico manda a la sposa e al mondo il saluto estremo e già l'animo sciolto e pronto al sacrificio leva un canto sereno di liberazione... Mentre il quadro seguente ci reca innanzi una idillica e pur mesta visione di pace nell'aspettazione della morte, questa invece fa sorgere innanzi al nostro spirito l'immagine indefinibile di una forza tragica, smisurata e fatale » (Ronc.). Ed allora comprendiamo come Listz dicesse: « Quando si è composto il Miserere del Trovatore si è credenti », e come Berlioz la ritenesse una pagina grandissima: « Un dolore immenso magnificamente espresso ». Davvero Verdi provò alla morte della madre sua in quel frattempo un « dolore immenso » che è qui espresso nelle pagine del Trovatore. Ma non si può tacere quanto contro il Trovatore si scrisse a Londra da Wiliam Glover: «Gli italiani proclamano Verdi la speranza d'Italia; noi lo chiameremo invece la disperazione d'Italia; nel Trovatore come in tutte le altre opere di questo Maestro, noi non troviamo nè fantasia nè originalità; non canto, non affetto drammatico, non dottrina. Fracasso inutile, luoghi comuni, idee triviali, effetti convenzionali, canti antipopolari: ecco quel che troviamo nelle opere di Verdi. Insomma, ad onta dei suoi ripetuti successi, noi teniamo per fermo che l'autore di Ernani, di Rigoletto e del Trovatore non fu, non è e non sarà mai un buon compositore di musica ». Il Checchi racconta che un giorno Verdi, in grande vena, stava attendendo con ansia i versi del Cammarano, che gli giunsero puntualmente, ma non come li avrebbe voluti il Maestro, il quale fece una pallottola della lettera e dei versi: « Non è questo che io voglio... Azucena racconta, ma è un racconto concitato ; tutto passione, tutto spasimi, tutto rimembranze dolorosissime... ». E fermatosi un tratto in quel suo rapido passeggiar nella camera che era segno di grande impazienza, afferrò una penna e un foglio bianco e buttò, empiendo un foglio di carta, un paio di strofe; le lesse ad alta voce, poi le rilesse declamando e la declamazione pigliando a poco a poco ]e ferme ritmiche della musica, si svolse in quel canto che diventò in breve popolarissimo e che comincia con le parole: « Stride la vampa, la folla indomita... ». Nell'agosto del 1852, prima che si rappresenti il Trovatore Verdi è fatto Cavaliere della Legion d'Onore: « Luigi Bonaparte, l'antico cospiratore, il fuggiasco della fortezza di Harn, con cui Verdi si è incontrato a Londra durante le prove dei Masnadieri. divenuto presidente della Repubblica francese, lo nomina Cavaliere della Legion d'Onore. Il suo Ministro per l'interno invia in Italia Leone Escudier, affinché consegni al Maestro le insegne dell'Ordine » (Gatti). Così nei manifesti per le sue opere si dirà: « Opera del Cav. Giuseppe Verdi ». Avrà poi le insegne di Gran Croce della Legion d'Onore dopo il trionfo dell'Otello a Parigi, appuntata sul suo petto da Casimir Périer, non mai concessa prima a musicisti stranieri, mentre egli ne andava tanto orgoglioso da uscire in queste parole: « Penso che ccsa dirà la Peppina nel vedere che mi hanno bucato il frac!... ». Infatti la Peppina poteva scrivere queste righe al De Sanctis a proposito di onori e onorificenze verdiane: « Dite al vostro figlio Peppino che i titoli e le decorazioni di Verdi stanno tanto in fondo di un cassettino qualunque che io non saprei nè ritrovarli nè ricordarli... se non come giocattoli che vengono dai potenti della terra prodigati ai grandi uomini per dieci e ai piccoli per mille. Senonchè le persone di buon senso ne fanno quel caso che meritano. Abituate quindi i vostri figlioli a considerare quei ciondoli come li considera il nostro Verdi ». Dayan ^;-i. al pericolo di essere nominato Marchese di Busseto scongiurò Ferdinando Martini perchè la nomina non avvenisse, dicendogli: «La mia riconoscenza sarà ben maggiore se la nomina non verrà ». Non venne, e Giuseppina scherzando potè continuare a chiamarlo: «11 Professore delle Roncole... ». LA TRAVIATA D Gatti ha dimostrato come Trovatore e Traviala siano state composte contemporaneamente da Verdi e che la « precedenza dell'uno sull'altra dipendette dalla compagnia di canto che al Maestro si offerse Infatti nella lettera al Cammarano, nella quale dava una traccia vastissima del libretto del Trovatore Verdi terminava dicendo: « ...Vi prego di perdonarmi l'ardire: io avrò torto certamente, ma non potevo a a meno di dirvi tutto quello che sentivo. Del resto il primo sospetto che questo dramma non vi piacesse forse è vero. Se ciò è, siamo ancora a tempo a rimedia. re piuttosto che fare una cosa che non vi piace. Io tengo pronto un altro soggetto, semplice, affettuoso, e che si può dire quasi fatto: se voi lo volete io ve lo spedisco e non pensate più al Trovatore. Scrivetemi una parola, in proposito. E voi se avete un soggetto ditenielo... Scrivetemi subito e credetemi per la vita vostro: Verdi ». Questo soggetto semMice e affettuoso deve essere stato musicato da Verdi prima del 1854 in cui si lamenta di trovare can difficoltà. a un soggetto non a spettacolo ma di sentimento, una specie di Sonnambula o di Linda staccandosi però da quel genere perchè è già conosciuto ». Ora se ne deduce che Verdi aveva già musicato il soggetto semplice e affettuoso. il quale non poteva essere che la Traviata, ossia La signora delle camelie, che Verdi con tutta probabilità aveva sentito con la forma di dramma in Francia, come lo aveva ccmposto Alessandro Dumas figlio, dopo il clamoroso successo dello stesso in forma di romanzo Nel febbraio del 1852 il dramma Dutnasiano si dava a Parigi nel teatro del Vaudeville, e forse là Verdi lo ascoltò insieme con la Strepponi, che certamente ne aveva letto il romanzo, giacche essa era lettrice assidua di libri anche per ricavarne soggetti da additare a Verdi per le sue opere. In altre lettere si capisce che Verdi parla della prima donna così come la vuole la parte di Violetta, e vorrebbe la Cruvelli, che poi non tradì le aspettative del Maestro, e ancora trattando con la Fenice per• la nuova compagnia indica bene che ci dev'esser prima di tutto un'ottima prima donna che completi con il tenore e il baritono la triade », ossia; come dice il Gatti, « le tre parti della Traviata », di cui nessuno sa ancora niente, e mentre ancora a Roma non è stato dato il Trovatore. Il quale però è ben innanzi; tanto che quando Verdi va a Roma per tale esecuzione scrive questa lettera al Luccardi: a Sarò a Roma il 25 dic. (e la lettera porta la data del 14) dalla parte di Civitavecchia. Prego te, che sei sempre buono con me. ad aspettarmi e di fissare per quel giorno il mio appartamento. Ti disturbo troppo? Di più, va da Jacovacci che ti darà un pianoforte e fallo mettere nella mia stanza da studio onde, appena. arrivato possa scrivere l'opera per Venezia, senza perdere un minuto di tempo. Il Trovatore è completamente finito: non manca nemmeno una nota e ne sono contento. Basta che lo siano i Romani... Insomma mi raccomando a te onde tu sia in ordine e che io, appena arrivato, possa mettermi a scrivere nel mio studio. Bada che il pianoforte sia buono: o buono o niente. Scusa mille e mille volte. Addio, addio ». Commenta il Monaldi: « Ora, affinchè Verdi abbia potuto concepire e produrre nello stesso periodo queste due opere, tanto e così essenzialmente diverse, fa d'uopo ammettere una facoltà, intellettuale straordinariamente poderosa da non temere confronto. Nessun Maestro infatti dell'epoca antica e moderna ci offre esempio di una produzione così forte, rapida, differente, complessa al pari di questa fornitaci da Verdi, dal marzo 1851 al marzo 1853, e riassunta in questi tre nomi: < Rigoletto, Trovatore, Traviata ». Ciascuna di queste tre opere prese separatamente rappresenta un capolavoro, nel suo genere, abbracciate insieme esse costituiscono la gloria musicale di mezzo secolo. Se il Rigoletto è la più bella, il Trovatore la più popolare, la Traviata e certo la xiù originale e commovente... tanto che, ove qualche difetto non vi ponesse ostacolo, la si potrebbe dichiarare senza esitanza, la più bella fra le opere di Verdi ». E si ricorda che Verdi richiesto a quale delle sue opere desse la preferenza, rispondeva: « Se fossi un maestro preferirei il Rigoletto, se fossi un dilettante preferirei sopratutto la Traviata ». Dopo che a Roma Verdi ha lavorato alla Traviata, dolorante lui ancora ad un braccio, e dopo la terza rappresentazione di essa, ritorna a Busseto dove può rimanere pochi giorni perché Venezia lo attende. Ma anche Verdi attende... il libretto che il Piave non ha ancora « riveduto e corretto », e nel quale alla fine sono delle lungaggini, come scrive Verdi al Direttore de La Fenice, facendo questa osservazione preziosissima: « mentre sul fine deve essere rapido, se si vuole ottenere l'effetto ». « Negli abbozzi della Traviata che si custodiscono a Sant'Agata, dice il Gatti, il lavoro della composizione dell'opera si svela impetuoso, febbrile. Tra pensiero e pensiero musicale, mentre la penna tiene a fatica dietro all'immaginazione il Maestro annota parole, frasi, versi che farà cantare poi a questo o a quel personaggio. Il preludio istrumentale del terzo atto per esempio, è scritto d'un fiato nella sola linea melodica, senza un pentimento, senza una titubanza; ed è lo stesso, tale e quale, rimasto nello spartito ». Ma troppe cose congiurano contro Verdi: oltre il Piave che ritarda le correzioni, mentre il Maestro ha fretta grandissima perchè è in un momento musicale felice per ispirazione, le notizie riguardanti la prima donna che sono disastrose, e si risolvono poi nella accettazione da parte del Maestro, contro suo genio, della Salvini-Donatelli, che canta bene ma che è tanto grassa... per far da Violetta... Congiurano contro di lui i giorni contati: « L'opera di Venezia mi obbliga a fatica tanto grave che ho appena il tempo di mangiare e dormire qualche ora »; i cantanti, dal Graziani svociato, al Varesi svogliato ; 'e i pochi giorni, — dodici — di prove. E l'opera cade. Sentiamo Verdi: »La Traviata ieri sera, fiasco. La colpa è mia o dei cantanti? Il tempo giudicherà e. In altra lettera a Ricordi, mentre la prima è al Muzio: • Sono dolente doverti dare una triste notizia ma non pcsso nasconderti la verità. La Traviata ha fatto fiasco. Non indaghiamo le cause. La storia è così. Addio, addio. Partirò dopodomani. Scrivere a Bussato ». Ed infine al Luccardi: Non ti ho scritto dopo la prima recita della Traviata, ti scrivo dopo la seconda. L'esito è stato fiasco. Fiasco deciso. Non so di chi la colpa, meglio non parlarne. Non ti dirò nulla della musica e non ti dirò nulla degli esecutori. Darai queste notizie a Jacovacci e ciò gli servirà di risposta all'ultima sua nella quale mi chiedeva di alcuni di questi esecutori. Addio, mio caro matto, vogliami sempre bene. Parto domani per Busseto Addio, addio». La prima donna in veste di Violetta, fu causa principale della caduta dell'opera, e volse il dramma in commedia, quando il dottore accorda poche ore a Violetta, pallida e consunta dalla tisi, mentre la Salvini era carnosa e muscolosa e florida... A tutto questo si univa la svogliatezza degli altri ; la novità della musica verdiana, e delle scene prese dalla vita borghese. Ma non fu poi un fiasco solenne quale lascierebbe apparire l'epistolario verdiano. La cronaca ci fa sapere che il primo atto fu molto applaudito, non compresi gli altri due, nei quali l'applauso toccò solamente ai due cori e al preludio del terzo atto. Il • fiasco • diminuì di sera in sera e in complesso si poterono dare dieci rapresentazioni. I critici la compresero meglio del pubblico. che non è però nemmeno nominato nelle lettere del Verdi il quale lascierebbe quindi capire che l'opera non ha avuto cantanti convenienti. Quest'opera è nata contemporaneamente al Trovatore: anni dunque di dolore, di amarezze, di morte, e di una tragedia intima nel cuore di Verdi... che nel musicare un soggetto immorale per la trama di cui è intessuto il libretto ha la forza morale però di chiamare la protagonista: Traviata, pur sotto il dolce nome di Violetta. Ma niente di sensuale e di immorale nel senso che l'arte abbia voluto raggiungere uno scopo cattivo, perché Verdi ha voluto commuovere e non eccitare il pubblico sotto il palliativo della sensibilità o sensualità, come fanno i romanzieri venduti e vili, che sfruttano e rovinano le coscienze, con un danno morale che è sempre immensamente più grave di tutti i danni materiali. Verdi ha voluto commuovere cantando un amore in Violetta che era l'amore di una Traviata, come onestamente egli la chiama. Et desatis senza entrare nella vecchia e trita questione dell'arte per l'arte, della quale diciamo solamente che l'arte vera non è mai immorale per sè, ma deve tener conto che si rivolge a persoue non indifferenti e astratte come l'arte. intanto Verdi ritorna a Busseto dove passa l'estate del 1853. La primavera lo accoglie al suo ritorno da Venezia e i prati della pian.ur•a padana cha hanno una loro poesia pacata e promettente di frutti, lo accolgono con una fioritura sulle terre ancora umide con fiori dalle tinte di zafferano, e le acque scorrenti per i fossati e per i torrenti hanno per lui una canzone vivace. Da l3usseto va a Parigi, dove sa di dover dare presto un'opera, e di qui scrive al Luccardi una lettera chiamandolo più amichevolmente del solito « adorabile matto » e cercando a suo mezzo se si potesse dare a Roma la Traviata: « Perchè tutte queste domande? dirai... perchè potrebbe darsi che io venissi a Roma per mettere in scena la Traviata... scrivimi tosto perchè io possa prendere una decisione. Credimi che vicino o lontano io sono e sarò sempre il tuo affezionatissimo: G. Verdi ,,. Ma intanto invece che a Roma la Traviata è rimessa in scena a Venezia per volontà di un amico di Verdi, Antonio Gallo, che ha comprese le bellezze dell'opera, la necessità di riabilitarla con una buona prima donna, e che a tale scopo da editore si fa ipso I acto impresario. Verdi aveva già intenzione di rifare alcuni pezzi, e aveva a tal uopo ordinato al Ricordi di non stampare l'opera se non con la sua assistenza, sì che ora pone mano a tali rifacimenti, che si riducono a cinque pezzi nuovi o meglio rinnovati. «E così la sera del sei di maggio, del 1854, quattordici mesi dopo esser caduta la Traviata ottiene al Teatro Gallo a San Benedetto una rivincita trionfale ». Ogni sera tale entusiasmo aumenta e il Gallo ne dà esultante comunicazione a Verdi, che ne gode grandemente: « Vi ringrazio delle notizie della Traviata e ne sono contentissimo. M'imrnagino che baccano farà Gallo e la posizione del suo cappello, cui avrà messo una cordetta di dietro per farlo stare ben alto... ». Nella Gazzetta ufficiale di Venezia si scrive un articolo a commento del fatto, intitolandolo Una riparazione, e nel quale si afferma che ingiustamente si era fischiata la Traviata la prima volta, e ben giustamente la si è lodata oggi: « Le zucche restano zucche, e il tempo, prima o dopo, rende giustizia ai grandi ingegni ». E tra le zucche che restano zucche sono quelle che affermano essere la Traviata troppo adatta per gli organini... « La musica della Traviata non è punto invecchiata nè deteriorata, e la sua modernità, durerà eterna come la sua bellezza » (Monaldi). IL MANCATO «RE LEAR» E «I VESPRI SICILIANI» E' ben noto come più e più volte Verdi abbia espressa la intenzione di musicare a Re Lear • e come si sia interessato coi librettisti per averne un libretto a seconda dei suoi gusti. Alle volte egli parla con entusiasmo della cosa, poi l'abbandona ripreso da contratti urgenti, n.a del tutto non l'abbandona mai, nel periodo creativo del suo genio. C'è una graziosa lettera di Giuseppina Strepponi in cui si parla del Re Lear al tempo della creazione dell'Otello. a Cosa succederà di quest'utello? Se sa minga... Vorrei clie Verdi potesse lasciarlo dormire, per altri trent'anni come il Re Lear e poi si sentisse tanto vigore e coraggio da musicarlo a gloria dell'arte e sua ». La lettera è del '79. Uno degli inseparabili amici di Venezia è Antonio Somma « caro a Verdi, oltre che per l'amicizia, per la sua fede patriottica e per il suo carattere adamantino », e il Somma fa la proposta a Verdi di scrivere per lui un libretto, avendone questa i isposta: a Nulla per me di meglio, nulla di più caro che unire il mio al vostro gran nome; ma per musicare degnamente o il meglio che per me si possa, l'altissima poesia che certo voi non mancherete di creare, permettetemi che io vi accenni alcune mie opinioni, quali che esse siano... Siccome so di parlare ad un uomo di carattere leale e franco, così mi permetto dirvi che nei soggetti da voi proposti, quantunque eminentemente drammatici, non vi trovo tutta quella varietà che desidera il mio pazzo cervello ». Poiché il Somma gli aveva proposto un Sordello, che non piaceva a Verdi, questi gli accenna sornionamente, per non far sapere che egli ha già stesa la sceneggiatura di Re Lear, tale soggetto. Da questo momento ha inizio una corrispondenza varia e lunga tra Verdi e il Somma sull'argomento, che è nostro intento tralasciare, per udire solamente che in un momento buono, quando egli eccita il Somma a finirgli il libretto e questi crede quasi imminente la totale composizione dell'opera e la sua rappresentazione, Verdi si mette in cammino per Parigi, ricordandosi del suo contratto con l'Opera e scrive al Somma: « Il motivo che mi ha condotto qui è per soddisfare a un impegno contratto già da molti anni con l'Opera. Voi vedete che io non ho nulla a che fare col teatro italiano, e d'altronde il Re Lear sarebbe soggetto troppo vasto ed ha forme troppo nuove ed ardite per arrischiarlo qui, ove non si capiscono che melodie che si ripetono da vent'anni ». Ecco come F. Abbiati, nel visitare la Mostra dei Cimeli verdiani allestita in Parma per le feste del 400, ricorda le opere incompiute o appena abbozzate da Verdi, oltre al Re Lear: 13 — F. BOTTI, G. Verdi « Insoddisfatta curiosità ci fece indugiare nelle accoglienti sale stuccate. Credemmo d'aver trovato imbattendoci in due abbozzi d'un'opera, da nessuno ascoltata mai, il Re Lear. Il primo abbozzo, di pugno di Verdi, su poema manoscritto del Cammarano. Il secondo, sempre autografo del Maestro, su poema tracciato dal Somma. Progetti abbandonati, ma cose vecchie e risapute che il mondo avido degli studiosi aveva già fatte sue. Ci illudiamo ancora di scovare, chissà, dove, chissà come, progetti non abbandonati bensì portati segretamente a termine dal geloso lavoratore di Ron cole. Una vetrina è sorvegliata da Verdi in persona modellato nel bronzeo busto del Gemito. Vi sono allineati altri preziosi relitti, cari stracci di sogni, brandelli esanimi dell'intimidito o sospettoso spirito creativo. Ancora un manoscritto autografo. Ricorda sempre un progetto abbandonato. Sono sette fogli che tentavano L'avola di Griliparzer. L'avola ha, resistito. Un quarto abbozzo di pugno del Maestro: una quarta aspirazione lasciata cadere sul nascere. Qui è l'embrione di un'Uska, comprendente fra l'altro una ballata ritenuta del Maffei. Ed ecco un quinto e poi un sesto abbandono. Li testimoniano il sunto in francese, compiuto da Verdi stesso, del Tartufe di Molière e un manoscritto, anche autografo, d'un Assedio di Fir'enze. Fogli sparsi, parole senza pentagrammi... ». A Parigi si offre a Verdi un libretto dello Scribe « I Vespri Siciliani » che dovrebbe andare in scena nell'inverno del 1853-54 in occasione della Esposizione universale, in cui il Direttore del grande teatro vuole offrire agli spettatori una cosa nuova e « del più famoso compositore del tempo ». Ma nel febbraio del 1854 Verdi ha scritto ben poco dei Vespri, e quasi meno ha progredito nella composizione nel maggio successivo per un dolore a un braccio e per l'inverno freddissimo, sì che solo in settembre può mandare una parte dello spartito al Direttore del teatro parigino. Ma una serie di fatti contrasta la composizione e la rappresentazione di quest'opera: prima di tutto un complesso di contrasti finanziari con due teatri parigini, con Ricordi, con l'Escudier, e molto più il fatto della scomparsa improvvisa dalle scene della Cruvelli, prima donna dell'Opera., che si era lasciata vincere da un capriccio d'amore, e solamente un mese dopo tornava pentita e desiosa di riprendere il suo posto, acquetando il pubblico con l'arte di parole e facezie a lei abituali, fino a che non si sposò col barone Vigier ; ancora contrasta Verdi la cattiva verseggiatura del libretto, che lo Scribe non vuol assolutamente ritoccare; sono a lui di disgusto i modi di fare del Roqueplan, che tiranneggia all'Opera, e gioca di astuzia con Verdi, come aveva giocato col Berlioz, non riuscendo però questa volta nel suo intento ; gli appassionati e i lodatori della musica francese si lamentano in tutti i modi che per una occasione sì solenne come l'Esposizione, non si sia scelto un maestro francese, dimenticando i buoni nomi degli autori viventi ; e a tutto questo si aggiungono le dimissioni del Roqueplan dalla direzione del teatro, presa dal Crosnier, anch'esso lento nel muovere la gran macchina dell'Opéra. Se il libretto è tutto una lungaggine coi cinque atti di prammatica nel teatro francese, e se è ispirato ai famosi Vespri Siciliani del maggio 1272, che sonarono a scorno e rabbia dei francesi, è da notare però che il nome è tale ma che dei Vespri si parla il meno possibile e solamente la figura di Giovanni da Procida vi era tracciata « all'italiana », come la si intendeva dai francesi, ossia con figura da cospiratore, con pugnale in mano « senza di cui non c'è italiano possibile sulla scena, per cui Verdi, che non aveva ottenuto altro cambiamento dallo Scribe, ne esige immediatamente uno, « conditio sine qua non » si darà l'opera: che la figura di Giovanni da Procida sia presentata in altro modo: « Mio Dio ! Nella storia di ciascun popolo vi hanno virtù e delitti, e noi non siamo peggiori degli altri. Ma ad ogni modo io sono italiano, prima di tutto, e, coute qui coute, io non mi renderò mai complice di un insulto fatto al mio Paese ». Ma su questo libretto è a dire che esso era vecchio di molti anni, scritto prima dallo Scribe — (e fariseo...) — per Donizetti sotto il titolo di Duca d'Alba, e veramente musicato a metà dal Donizetti, colpito poi da infermità. Solamente quando Verdi vedrà data a Roma tale opera donizettiana, portata a termine da Matteo Salvi, comprenderà la vigliaccheria dello Scribe... Intanto la rappresentazione si è protratta ed ha luogo solamente il 13 giugno del 1855, con un successo buono, ma che non permette sian fatte molte rappresentazioni. Nella traduzione italiana I Vespri sono dati innanzitutto a Parma la sera di Santo Stefano 1855, mentre alla Scala vanno in scena il 4 febbraio 1856, con l'impresario Mazzuccato, che riconcilia Verdi col teatro milanese, ma l'opera prende diversi nomi da Giovanni di Braganza a Giovanna di Guzrnan, perché la censura oppone mille ostacoli ovunque, fino al 1861, fatidico all'indipendenza d'Italia, in cui essi ritornano a vestirsi del primitivo nome. I Vespri sono una delle opere poco felici di Verdi, ma non delle meno felici, perché pagine molte vi sono in cui si sente il ruggito del leone, e nessuno certo dimenticherà mai più, anche dopo averla ascoltata solamente una volta, la bellezza solenne e multiforme della sinfonia: cosa veramente superba tra le superbe create da Verdi. SIMON BOCCANEGRA I Vespri Siciliani e il Simon Boccanegra furono composti da Verdi in momenti di poca salute, che egli riacquisterà completamente fra poco, tra i campi della sua tenuta di Sant'Agata. Nel 1854 aveva detto: « Non scrivo perché non mi sento bene. Ho la testa come involta in un berretto di ferro. Cosa sia non so ! Sarà il freddo, il clima, la mancanza di sole? Chi sa! So, ripeto, che non posso occuparmi e ciò comincia ad inquietarmi ». Nel 1856 scriveva ancora: « Io mi trascino alla meglio. A forza di buona volontà vado avanti, e l'opera sarebbe finita se il mio stomaco mi lasciasse lavorare quando voglio ». Nel febbraio del 1857 diceva: « Ho lo stomaco in pezzi... Ti ripeto che son quattro giorni che non faccio una nota... ». In un primo tempo egli aveva quasi intenzione di musicare un libretto in prosa, ma l'armonia dei versi lo vinse e musicò il Simon Boccanegra, versi del Piave che questa volta gl'imbastì un pasticcio di libretto strano e involuto in modo che gli ascoltatori non potevano seguire la musica dovendo star bene attenti al senso e agli intrecci aggrovigliati in un'atmosfera cupa e inverosimile per troppi tradimenti, morti, odii, attentati, insidie, sì che anche questo fatto contribuirà grandemente a far cadere l'opera a La Fenice di Venezia il 12 marzo 1857. E tale pessima accoglienza è così descritta alla Maffei da Verdi: « Il Boccanegra ha fatto a Venezia un fiasco quasi altrettanto grande che quello della Traviata. Credevo d'aver fatto qualcosa di possibile, ma pare che mi sia ingannato ». Ma la cronistoria ci dice che l'opera resse anco: meno della Traviata ed ebbe contrasti continui nelle poche sere in cui restò sulle scene. Ma parti belle ha, tra le grige, il Boccanegra e Verdi, che non rifece I Vespri, rifarà e ritoccherà con pazienza tutta sua, come fece di altre opere, anche questa. Da notare come tra i teatri egli prediligesse La Fenice, e come forse questo gli rendeva più sentito l'amaro di quel fiasco, che appare dall'ultima frase: « Credevo di aver fatto qualcosa di possibile, ma pare che mi sia ingannato ». Amarezza che appena lo sfiora e gli lascia ben presto la sua olimpica serenità di dire: « Tutto il mondo può dir bene o male d'un'opera mia, resa di ragione pubblica, senza che vi sia pericolo che io me ne offenda ». Tra successi discreti o buoni il Roccanegra fu dato in altre città e solamente a Milano cadde tra grida del pubblico, facendo dire a Verdi: « Se più tardi gli si calmerà il sangue, allora forse potrà accorgersi che nel Boccanegra vi è almeno qualche intenzione che non è da disprezzarsi ». Ma in questo frattempo non solo il Simon Bocca-negra è un groviglio di cose, ma anche la vita di Verdi, che deve dare e subire processi per le sue opere in Francia e Inghilterra, dove per ragioni varie si vorrebbe non pagare i diritti d'autore. A Londra basterebbe ch'egli accettasse la cittadinanza inglese per aver i diritti d'autore, vietando la legge che si paghino ad autori stranieri, ma egli risponde sdegnosamente a tale proposta e avvia trattative col Ducato di Parma perchè compia un trattato al riguardo col governo inglese, sulla protezione dei diritti d'autore. Intanto, dopo aver passato il natale a S. Agata, come farà il più spesso possibile, seguendo la tradizione nostra con le sue usanze e i suoi cibi tradizionali in ogni famiglia, si pone a rifare Lo Stiffelio, mentre chiama il Piave per il Boccanegra, preso ancora da un libro spagnolo del Gutierrez, risponde ai Riminesi che non può più scrivere per loro una Francesca, perchè « tante opere se ne sono ricavate e altrettante non sono piaciute H; scrive al Piave da Parigi molte lettere sul Boccanegra che cura anche rei minimi particolari delle scene ; attende che si dia il Trovatore a Parigi, passando alcuni mesi a Compiégne ; torna col pensiero a Re Lear, per darlo a Napoli in una prossima stagione e infine, dopo altra sosta a Busseto per gli ultimi ritocchi al Boccanegra, va a Venezia, tornandone con la disillusione che dicemmo che lo porta ai campi e a dire: « Da mattina a sera sono sempre tra campi, boschi, e in mezzo a paesani e a bestie... alle migliori però, le quatrupedi H. Scherzo a parte, che si permette col Vigna in via confidenziale, egli chiede poco dopo: « Sono ora tranquilli i Veneziani? Chi avrebbe mai detto che questo povero Boccanegra, buona o cattiva opera che sia, dovesse sollevare tanto diavolezzo? Sta pur tranquillo che non mi formalizzo più di niente... ». Ma vediamo come Verdi rimaneggiò quest'opera, « buona o cattiva che sia »... certamente ritenuta non cattiva se non proprio buona, suscettibile insomma di diventare facilmente buona, come le altre. « Ragioni non d'interesse, dirà nel 1880, ma, dirò così, di professione m'impedirono di abbandonare l'idea di aggiustare il Boccanegra almeno senza aver tentato prima di farne qualcosa ». S'era perciò rivolto al Boito e, proprio per merito di quest'opera, per le rabberciature al libretto, avvenne l'incontro — auspice l'arguzia industre e sbrigativa di Giulio Ricordi — fra i due artisti: l'anagrammatico Boito (« Tobia Gorrio ») era venuto dopo la Gioconda, in gran fama presso casa Ricordi. Quell'incontro e la conseguente solidalità trilustre fra Verdi e Boito dovevano costituire un capitolo fondamentale nella storia della musica italiana. Esaminato ii libretto del Piave, Arrigo Boito francamente affermò che si trattava d'un tavolo zoppo. La frase fece -- come si dice — presa e Verdi, nella sua corrispondenza, se ne servì spesso per dire che avrebe raddrizzato « le molte gambe storte » del suo lavoro. Arrigo Boi.o — commenta in una sua acuta analisi il Panseri — rifece il libretto meglio che potè. Era nel momento di incubazione dell'Otello. A Verdi, in fondo, rincresceva distoglier il poeta da quell'argomento che stava a cuore a entrambi ; ma tant'è, aggiustar le gambe a quel tavolino e presentarlo sulle scene della Scala dove avevano finito Col rompergliele del tutto, era una di quelle sue ossessioni che doveva alla fine vincere con il suo volere. « Sicchè, fra la generale aspettativa, la nuova edizione del Sin2on Boccanegra andava in scena alla Scala la sera del 24 marzo 1881; successo entusiastico. L'opera verdiana, nella stagione, venne replicata dieci volte. Il giorno dopo la prima rappresentazione del suo melodramma, il Maestro comunicava all'Arrivabene le sue impressioni, scrivendo argutamente sembrargli « che fossero bene aggiustate le gambe rotte di questo vecchio Boccanegra ». Nelle repliche, il Siinon Boccanegra otteneva maggiore convincente successo, tanto che l'autore dichiarava fiducioso che l'opera avrebbe fatto il giro dei teatri, come tante altre sue sorelle, malgrado il soggetto sia triste assai... ma interessante ». Scrive il Perosio nei suoi « Ricordi verdiani »: « Più volte parlando del Boccanegra, Verdi mi espresse il dispiacere di vederla trascurata dalle imprese o non si diceva alieno dal ritoccarla, ove avesse trovato un migliore e più artistico svolgimento della seconda parte del primo atto. Avuta occasione di parlare con un mio carissimo amico, dotto cultore delle patrie Storie, questi sottopose per mio mezzo al Maestro una grandiosa scena che si sarebbe svolta nella gran Sala del Palazzo Ducale durante una festa caratteristica dedicata alla pace fra le varie fazioni ed alla cessazione delle lotte intestine. Verso la fine della festa un messaggio recava la notizia che Giorgio del Carretto aveva invase le terre della Repubblica, già teneva in suo potere Albenga, e marciava direttamente su Genova. Lo sdegno dei presenti veniva eccitato dal Doge, che faceva appello alle armi, e l'atto si sarebbe chiuso con un canto di guerra. Piacque al Maestro l'idea, ma osservò che con essa si ripeterebbe il difetto ch'egli lamentava nella prima edizione, cioè la chiassosità di quella seconda parte del primo atto ; mentr'egli avrebbe voluto alcunchè di severo e maestoso ». Ricordò allora che, trovandosi nel 1875 a Colonia, assistette alla rappresentazione della Congiura del Fiesco di Schiller, e lo aveva impressionato il contrasto fra la scena che si svolgeva di fronte al pubblico nella grande aula del palazzo fra il Doge ed il Consiglio, ed il rumoreggiare della rivolta nella piazza sottostante. Fu questo magnifico quadro che, dopo lunga ponderazione, lo decise a ritoccare l'opera in quella parte. VERDI E GENOVA I Genovesi amano scrivere che il Boccanegra fu atto di omaggio alla nostra città», non tanto per il fascino che su lui esercitò il racconto delle cronache della Superba alle quali si ispira il libretto dell'opera, ma specialmente perchè « un grande continuo amore Giuseppe Verdi ebbe per la nostra città, ». Genova fu a Verdi soggiorno prediletto per il luogo incantenole e per gli amici. Così G. Balestrieri nel Nuovo Cittadino riassume le relazioni di Verdi con Genova: « Per circa quarant'anni, il Grande compositore ebbe l'abitudine di trascorrere a Genova l'inverno e buona parte della primavera; nella nostra città, egli ebbe modo di avvicinare colei che divenne poi la sua compagna affettuosa, Giuseppina Strepponi, prima interprete della Lucrezia Borgia di Donizzetti e della Saffo del Pacini al nostro Massimo, durante la stagione di carnevale 1842;'a Genova egli ebbe occasione di contrarre amicizie non comuni, poiché rispondevano ai nomi di Giuseppe Mazzini, Stefano Canzio, Gandolin Antonio, Giulio Barrili, lo scultore Giulio Monteverde, l'ingegner Cesare Gamba, Giuseppe Perosio, Serafino Amedeo Deferrari, il notissimo, se non il più noto compositore melodrammatico genovese, il marchese Lorenzo Pareto, il prof. Daniele Morchio e molti altri. Tra i frequentatori di casa Verdi, a Genova, e gli amici, dobbiamo ricordare — fra i tanti Arrigo Boito, la cognata Barbara Strepponi, Edmondo De Amicis, il maestro Muzio Emanuele, che si può dire l'unico allievo dell'insigne musicista, il maestro Gaetano Ferrari, parmigiano di nascita ma genovese d'elezione, il maestro Lorenzo Mascheroni, che ebbe l'onore di essere prescelto dall'autore a concertare e dirigere il Falstaff alla Scala e al nostro Carlo Felice, il raffinato compositore di ballabili Marco Sala, Teresina Stolz e tanti altri artisti ed intellettuali. Le date essenziali della vita genovese di Giuseppe Verdi risultano le seguenti: nel gennaio del 1841, il compositore venne per la prima volta a Genova, in occasione della rappresentazione dell'Oberto conte di San Bonifacio al Carlo Felice. Le sei recite del primo melodramma verdiano (maestro direttore Niccolò Uccelli ; primo violino e direttore d'orchestra Giovanni Serra) ebbero, come si legge nella dotta cronistoria del nostro Massimo dovuta al G. B. Vallebona, mediocre esito. In quell'occasione l'artista., assai provato per la morte della prima moglie, Margherita Barezzi, alloggiò in un più che modesto albergo vicino a Porta Soprana, nella stretta viuzza di Borgo Sacco, da tempo demolita per la costruzione di Piazza Deferrari, e, come ricordano i biografi coscienziosi, le abitudini del compositore erano allora davvero... intonate a quelle che erano le sue entrate. Terminato lo spettacolo, il maestro si recava nella vicina via San Sebastiano e, in una osteria ove ora ha sede il ristorante Gambrinus, faceva onore alla cucina genovese sorbendo due scodelle del famoso « brodo di trippa », e poi andava a riposare. Sposata la Strepponi e date alle scene opere di grande incontrastato successo come il Nabucco, l'Ernadi, la Luisa Miller, Verdi, negli anni dal 1850 sino all'estate del 1866, trascorse non poche volte l'inverno a Genova, alloggiando all'albergo Croce di Malta, che, sito in un antico palazzo in via Carlo Alberto, si trovava nel tratto compreso tra la Porta dei Vacca e la Piazza del Banco di San Giorgio. Entusiasta, come la Strepponi, della Dominante, il Grande musicista decise, nel 1866, di prendersi un appartamento del palazzo Sauli in Carignano, la superba ammirata costruzione dell'Alessi: l'epoca della stipulazione dell'affitto, per essere precisi, è quella dell'estate del 1866. Nello stesso stabile abitava, insieme a Teresina Stolz e Angelo Mariani. Verdi vi abitò dieci anni e, nelle sue lettere, scrive entusiasticamente di questo caseggiato: « non lontano dal mare che azzurreggia luminoso in prospettiva, tra le radure dei cerri e delle magnolie ». Già nel '60 — ci piace notare — Verdi aveva del resto espresso il desiderio di poter disporre, a Genova, di « un alloggio particolare ». Ma a causa del vento che si faceva troppo sentire sul colle di Carignano (la tempesta dell'Otello, come molti altri ispiratissimi quadri dei' suoi melodrammi, sono stati — con assoluta certezza — evocati dagli aspetti vari, inconfondibili della « Domina Maris »), Verdi dopo l'autunno del 1874, si trasferì a Principe, nel Palazzo Doria Pamphily, occupandovi l'appartamento d'angolo che dà, sul terrazzo sovrastante l'ingresso munito della storica torretta: e quivi stette — si può dire — fino alla vigilia della morte. A differenza delle altre, è questa l'abitazione di Verdi a Genova veramente conosciuta: tanto che il palazzo Doria viene comunemente indicato come il « Palazzo dove abitò Verdi ». Nel settembre del 1900, l'illustre musicista, nel salutare alla stazione il fedelissimo amico ing. comm. Giuseppe De Amicis, zio del fu Monsignor Giacomo De Amicis, Vescovo di Sinope, disse tristemente: Addio ! — Arrivederci — corresse il De Amicis, che ebbe per il « Maestro » un'amicizia affettuosa e devota, quale raramente si riscontra nella vita. — No, addio, perchè sento che non ci rivedremo più. E fu profeta, perchè alle 2,50 del 27 gennaio 1901 moriva a Milano, nell'Hotel Milano dello Spatz: ma il 17 gennaio aveva ancora scritto al De Amicis una breve lettera malinconica, presaga. Il De Amicis sopravvisse qualche anno al suo grande amico e fino alla morte portò scolpito nel cuore 'un culto devoto per il Maestro, del quale sapeva narrare mille aneddoti interessanti, serbando però con grande fedeltà e prudenza il più assoluto riserbo su quanto potesse lontanamente esservi di intimo e di segreto. Così ricorda Lorenzo Alpino, che è fra i più dotti studiosi e raccoglitori di ricordi verdiani a Genova. A proposito, poi, del De Amicis, ci piace rilevare che Ferdinando Resasco, autore di un interessante studio su « Verdi cittadino genovese », dichiara che non si sarebbe mai deciso a trattare un tale argomento « senza una scorta efficace e sicura », quale appunto gli dettero Mons. De Amicis e suo fratello dott. Pietro, i quali gli misero a disposizione tutto l'epistolario intercorso fra il Grande musicista ed il nipote ing. De Amicis. Altre date interessanti la vita genovese di Giuseppe Verdi sono quelle del 24 aprile 1867, in cui gli fu conferita dal Consiglio Comunale la cittadinanza onoraria e quella del 17 novembre 1889. cui, dopo il successo dell'Otello, ricorrendo il giubileo artistico dell'insigne compositore, il Comune della « Domina Maris » deliberò di offrire una medaglia d'oro incisa da Francesco Speranza. Tali onorifici omaggi furono ben graditi dal Maestro, il cui carattere era così alieno da pompose solennità: per la circostanza si recò dal Sindaco per ringraziarlo e, nell'occasione, affermò di gradire sommamente il conferitogli onore. Ai poveri della sua dilettissima Genova, Verdi legò in testamento lire 50.000,,che furono così suddivise: ventimila agli asili infantili e trentamila agli istituti dei ciechi, dei rachitici e dei sordomuti. Ma eccoci agli episodi verdiani a Genova ; ecco il primo degli aneddoti di carattere — potremmo dire -casalingo. Narra Giovanni Monleone, pigliando lo spunto dai « Ricordi » di Giuseppe Perosio: « L'autore dell'Otello, che aveva l'abitudine di recarsi nelle sue passeggiate mattutine a comprare il pesce in Chiappa un giorno si avvicinò al banco del rivenditore Giacomo Origo, che fu apprezzato interprete di parti secondarie, dal 1874 all'86, al Carlo Felice. Il pescivendolo-cantante, riconosciuto il Maestro, lo servì del suo meglio e poi, consegnandogli il pesce avvolto accuratamente nella carta, osò aggiungere: — Maestro, mi permetto di dirvi ch'io sono un modesto cantante e che questa sera canterò la parte del Re nell'Aida. Verdi, dopo aver sorriso rispose: — Mi rallegro con voi ; ma scommetto che guadagnate di più a vendere questi bei pesci che a cingere la corona regale nella mia opera. E pagato il pesce, risali in carrozza. Il secondo aneddoto, quale ha raccontato Costanzo Carbone, potrebbe assai bene definirsi dolcissimo. « Grandissimo risultò, nella nostra città, il successo delle rappresentazioni del Falstaff, fatto eseguire mediante il concorso pecuniario del Comune — era allora sindaco il barone Andrea Podestà — e di alcuni privati il 6, 8, 9 ed 11 aprile 1893: interpreti Vittorio Maurel (Falstaff), A. Pini Corsi (Ford), Edoardo Garbin (Felton), Emma Zili (Alice), Adelaide Sthele (Nannetta); direttore d'orchestra Edoardo Mascheroni. 14 — F. BOTTI, G. Verdi Per Genova dunque — narra il Carbone — fu un avvenimento importantissimo e fu allora che Klainguti, per fare onore al Maestro, che era — come si dice — un affezionato cliente, lanciò i pasticcini Falstaff. Quando il pasticciere, in un vassoio, fece un presente della sua nuova... manipolazione al Maestro, questi la gustò assai. Klainguti spiegò: — Maestro, è una nostra nuova confezione. Mi sono permesso di chiamarli Falstaff. — Davvero? Li chiamate Falstaff? Ma sono assai migliori del mio ! E non contento, estrasse un suo biglietto da visita e glielo confermò per iscritto... ». E racconta Lorenzo Alpino: « In occasione del Natale del 1890, Verdi — d'accordo con l'ing. De Amicis, allora semplice cancelliere della Curia Vescovile, — fece celebrare la Santa Messa in una camera attigua alla Sala dei Giganti di Palazzo Doria. « La sera del 24 dicembre, verso le undici, entrò a Palazzo Doria il sacerdote celebrante don Colombara, che aveva portato con sè, per servire la messa, suoi allievi di quarta ginnasio: il sottoscritto, Giuseppe Fasce, e Giuseppe Gandolfo, ch'era un soprano dalla dolcissima voce e cantore appassionato. « Pochi minuti prima di mezzanotte, il celebrante, da noi preceduto, si recava all'altare, dinanzi al quale, in due ampie poltrone, avevano preso posto la signora Peppina, ch'era stata precedentemente indisposta, e Giuseppe Verdi, con a fianco il buon De Amicis. Dietro di essi, con le loro sedie, c'erano Claudine, la fedelissima cameriera della Strepponi, la Virginia, domestica, Giuseppe Farina, il cameriere di Verdi e Tagliarini, che doveva essere un contadino venuto da Sant'Agata. Terminata la Messa, passammo — il celebrante e noi tre accoliti — nella sala da pranzo, dove vennero anche la Peppina, Verdi e De Amicis: tutti sedemmo attorno alla tavola, dove Claudine e Giuseppe ci servirono il caffè-latte con delle grosse fette di pandolce. Verdi prese il caffè soltanto: la Peppina ci faceva dei complimenti, e ci incoraggiava a divorare un'altra fetta di panettone. Anche Verdi cominciò a parlare: ci lodò perchè avevamo cantato con bella intonazione (avevamo cantato la tradizionale canzone sacra: (‹ Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo... ») e con grazia ci domandò se andavamo a scuola di canto, interessandosi di ciò che imparavamo per eseguirlo nelle funzioni ». « AROLDO » E « UN BALLO IN MASCHERA» Aroldo non è, come dicemmo, che il rifacimento di Stiffelio, compiuto amorosamente dal Verdi, ma inutilmente, perchè nulla aggiunge alla musica del primo. Fin dal 1855 Verdi pensava a modificare lo Stiffelio e con l'aiuto del Piave verso l'ottobre del 1856 tale rifacimento era compiuto. Il Piave dovette andare a Sant'Agata munito di « tutti i materiali necessari per fare questo cangiamento », non potendo Verdi mettergli a disposizione « molti libri nè una grande biblioteca ». Ma quando il Piave propone a Verdi di fare di Stiffelio un Crociato, si sente rispondere: « Sono stanco un po' di questi crociati ! Qualche cosa di nuovo e di più piccante. Pensaci ». E' così che diventa non un crociato ma un guerriero dal nome Byroniano di Aroldo, togliendo alcune incongruenze del primo libro ma creandone delle nuove, come nota il Basevi. Si inaugurava a Rimini il nuovo Teatro Comunale e si bramava ardentemente di avere un'opera e la persona di Verdi, il quale non potè dare e non volle un'opera nuova, essendo legato con Napoli, ma vi diede lo Stiffelio rinnovato e andò in persona nella città di Francesca. L'invito a recarsi colà e il contratto per l'Aroldo venne stipulato a Venezia il 12 maggio, giorno della prima rappresentazione del Simon Boccanegra. Ecco come gli incaricati del Comune di Rimini ne hanno lasciata memoria nella relazione scritta per l'archivio. « Le moltissime occupazioni del Cav. Verdi, intento alle prove e alla buona riescita, della sua opera, non gli permisero di occuparsi subito del nostro affare, quantunque il giorno 19, appena giunti a Venezia, ci recassimo dal sig. Ercole Marzi a La Fenice alfine di essere presentati al Cavaliere, il quale per buona ventura ritrovammo nel teatro stesso. Dopo la nostra presentazione ebbero luogo alcuni discorsi fra il urelodato Signor Maestro, il Marzi ed il poeta Piave e fu tutto fra loro definitivamente combinato. Solo in questo momento potè dirsi veramente assicurato a Rimini l'alto onore che la prima celebrità musicale dell'Europa sarebbe venuta a rappresentarvi e mettervi in scena una sua nuova opera... Un fatto di tanta importanza, il più bello a nostro avviso dell'apertura del teatro di Rimini, è veramente degno dell'inaugurazione di un Patrio Monumento... E' divertente vedere come il Gonfaloniere scrive con parole dolcissime a Verdi in ringraziamento « per la sicura presenza di Verdi, gloria d'Italia e ammirazione di tutta Europa », avendo certezza che il Maestro accoglierà tali sentimenti con quella « benignità e quella gentilezza di cui il suo animo è sì adorno... e vedere come lo scontroso Verdi risponde pure dolcemente: nè sa come ringraziare delle tante lusinghiere espressioni prodigate e... prega gradire i suoi distinti ringraziamenti per la squisita gentilezza con la quale si domandò la sua presenza, col desiderio di ossequiarla personalmente e protestandosi con la più profonda stima... Dove è mai l'ugna dell'orso di Busseto?... Con Verdi va a Rimini la Strepponi, che esprime all'Escudier il rammarico di Verdi di lasciare la sua compagna proprio in quel momento per andare « in un paese dove, se qualche cosa mancherà, non sarà certamente il caldo... », e dove Verdi amò allogarsi all'albergo della Posta, più che nel palazzo del Battaglini, preferendo « due stanzone ammobigliate ». Il Piave invece era ospite del Conte Baldini, in una casa da gran signore. Ma il caldo non lo annoiò, avendo trovato a Rimini il mare, e i pescatori. « Prima di mettersi al lavoro andava al mare, trattenendosi a lungo, specialmente se era in burrasca; recavasi col Piave dal sartore per curare i figurini, che incontentabile, faceva fare e sfare, mentre il gaio librettista trattenevasi con le donne della sartoria raccontando storielle pepate, ad una delle quali Verdi, sempre cupo e arcigno, sorrise di cuore ». Per il Piave, (che fu bene non ci desse un suo Decamerone...) la Peppina aveva sempre dei timori quando lo sapeva vicino a Verdi: « Il Piave... Gran diavolo, allegrone e con spiccate tendenze a far deviare dal retto sentiero l'amico musicista... Capisco che egli abbia gran talento ed inclinazione per tal mestiere, ma esortalo da parte mia a spiegare il suo zelo érotique con degli amici che lo assomigliano ». Povero Piave che resterà poi immobilizzato per anni, soccorso da Verdi con denaro che egli avrebbe voluto fargli spendere in avventure amorose !... « Qualche giorno Verdi si recava al pomeriggio, con la Medori e il marito di lei, al confluente della Fossa Patara con l'Ansa, a veder pescare un certo Beltramelli che, in attesa di buona preda, cantuzzava con la Medori brani di opere verdiane. Il Maestro se ne compiaceva e una volta, ponendo le mani sulla spalla del pescatore gli disse: « Bravo! hai voce gentile ed orecchio fine; peccato che tu non abbia studiato; saresti riuscito un eccellente cantante! Un racconto dell'avvenimento artistico ci fa sapere che « la sera del 16 agosto Rimini rigurgitava di forestieri. Immensa era l'aspettativa. Ritratti di Verdi erano appesi alle vetrine dei negozi, ai muri, alle finestre, ovunque; epigrafi di occasione magnificavano il Genio italiano. Dello spartito piacque sopratutto la brillante sinfonia, ma il resto dell'opera lasciò freddo l'uditorio ». Ma i Riminesi furono gentili e cordialissimi ugualmente col Maestro chiamandolo ben 27 volte alla ribalta « mentre una pioggia d'oro pioveva sul suo capo augusto » e foglietti laudatori sfarfallarono durante la recita per la sala. E Verdi, ci chiediamo, Verdi cupo ed arcigno accettò tutto questo???... e si presentò 27 volte alla ribalta? Fu gentilissimo adunque, ma... quando si tentò di porre sul suo capo, in una serata solenne, una corona di alloro con le bacche dorate, egli « sdegnosamente ed energicamente la respinse rifiutandosi di ripresentarsi... ». Vi erano per lui « certi denique fines quos ultra citraque » non si poteva assolutamente andare, come pur nella confidenza che molti fra gli amici avevano con lui, a ricordo di Pascarella, nessuno permise mai di mettergli confidenzialmente la « mano sulla spalla ». Immaginarsi poi una corona di alloro sulla testal... Senza corona di alloro, Verdi torna a Busseto ai primi di settembre per lavorare « giorno e notte intorno al soggetto dell'opera nuova » che dovrà dare a Napoli, secondo il contratto stipulato. Molto lavorio per trovare il soggetto; scartato il Monaco del Somma, Verdi si pone a pensare al Tesoriere del Re don Pedro, opera spagnola, verso la quale ha simpatia, ma che viene poco dopo scartata; un'opera francese invece lo affascina: Gustavo III re di Svezia, libretto di Scribe: « E' grandioso e vasto; è bello, ma anche questo ha i modi convenzionali... » e non riesce poi a convincerlo che per metà. L'incarico del libretto è affidato al Somma, anche per consolarlo della mancata musica del suo Re Lear. Il Somma ha vena e lena tale che a fine novembre invia a Verdi il libretto e Verdi a fine dicembre ha già finita tutta la musica dello spartito. Molte sono le discussioni col poeta-librettista, pur con tutto il rispetto che Verdi ha del Somma. Il titolo sarà La Vendetta in domino, ma la Censura sembra questa volta più accanita del solito contro Verdi, giunto a Napoli con la Strepponi ai primi di gennaio. In nessuna città, e nessun'altra volta Verdi ebbe tanto a subire noie dalla Censura che in questa a Napoli: « Sono in un mare di guai! La Censura è quasi certo che proibirà, il nostro libretto. Il perchè non lo so! Avevo ben ragione io di dirvi che bisognava evitare qualunque frase, qualunque parola che potesse essere sospetta. Hanno cominciato per adombrarsi di alcune espressioni, di alcune parole, dalle parole sono venuti alle scene, dalle scene al soggetto. Mi hanno proposto queste modificazioni... Come supporrete, continua il Maestro dopo averle enumerate, questi cambiamenti non possono accettarsi; quindi non più l'opera ; quindi gli abbonati non pagano due rate ; quindi il Governo ritiene la dote, quindi l'Impresa che fa lite a tutti e minaccia a me un danno di 50 mila ducati... Quale inferno !... ». Il Direttore del teatro cita Verdi e pretende subito « l'arresto personale »... Verdi cita l'Impresa redigendo una Difesa a stampa... e solamente dopo molto tempo tutto si accomoda con la promessa di Verdi di dare a Napoli il Simon Boccanegra nell'autunno, mentre il Re lascia partire Verdi a causa delle dimostrazioni ostili al Re e alla Censura da parte del popolo. Verdi che aveva cercato con tutto l'ardore di dare a Roma l'opera non data a Napoli, per poter farne giungere l'eco nella città partenopea... (mentre da Milano, dove gli avevan proposto di darla alla Scala, tale eco non sarebbe giunta) Verdi si vede rifiutato il libretto anche a Roma che pure lasciava recitare il lavoro dello Scribe in prosa: « Ciò è ben singolare !... Ma rispetto i voleri superiori e non ho nulla a dirne ». Interessante è quanto il Verdi aveva scritto al Luccardi, il « caro matto più savio di tutti i Savi presenti e passati compresi anche i sette della Grecia », dandogli incarico di fare approcci col Jacovacci, impresario di Roma: « Che Jacovacci non si metta in mente di fare l'Ebreo ; allora mandalo al diavolo ». Sia detto ancora una volta anche per spiegar le parole di Verdi sui guai capitatigli a Napoli, dove si rammarica di vedersi in pericolo di dover pagare 50 mila ducati che egli aveva il senso del giusto in grado sommo e che le ricchezze vere e proprie vennero a lui solamente dopo la Forza del destino e l'Aida, mentre ora è solamente agiato e benestante. In mezzo a tutte queste contrarietà Verdi si ritira a Sant'Agata dove ha molte cose campestri allo quali pensare, mentre però Jacovacci tenta ancora di avere il permesso per l'opera di Verdi che da Vendetta in domino cambia nome in Ballo in maschera, dopo alcuni rimaneggiamenti ai versi fatti dal Somma e alla musica apportati pazientemente da Verdi, il quale a fine ottobre va a Napoli per il Simon Boccanegra e di là si avvia a Roma per dare ivi il 17 febbraio Un ballo in maschera. Serata indimenticabile! Applausi che salivano alle stelle! Grida di Viva Verdi fino a far tremare il teatro ! Questi applausi non erano tanto per la musica quanto per il Maestro della Rivoluzione italiana, e per l'occas5one in cui veniva data l'opera di Verdi. Si era a pochi giorni dalla rappresentazione della Norma di Beli ini a Milano durante la quale il pubblico aveva pe sao conto ripetuto in coro « Guerra, guerra », guarda .;o in faccia gli sgherri e gli ufficiali austriaci pruenti, i quali si erano fatti rossi in volto e avevano risposto: « L'avrete, cani ». Si era a pochi giorni dalle parole di Vittorio Emanuele II: « Non siamo insensibili al grido di dolore che da tantè parti d'Italia si leva verso di noi »; e così il popolo scrivendo sui muri e gridanado Viva VERDI, sottointendeva in queste lettere dei cognome del Maestro: Vittorio Emanuele Re D'Italia — V.E.R.D.I. Un ballo in maschera è poi rappresentato ancora nel carnevale del'59 e del '60 mentre il temporale purificatore della guerra di indipendenza era stata dichiarata il 23 di aprile, sì che Verdi aveva lasciato Roma spiacente di non poter passare molte ore di lieta compagnia col suo amico « matto » e beare la sua anima dei capolavori delle arti, che Roma racchiude, avendo a guida lo stesso Luccardi. Il 26 aprile gli Austriaci passano il Ticino ; il 29 Vittorio Emanuele lancia un proclama ai popoli d'Italia ; nello stesso giorno Verdi consacra la sua unione con la Strepponi, mentre la Savoia è ancora italiana, a Colianges-sous-Saliére, con gioia immensa dell'abate Mermillod, che amava e venerava Verdi e la Strepponi, coi quali sarà in affettuosi rapporti per tutta la vita, anche quando sarà fatto cardinale di Santa Romana Chiesa. Contro il libretto di Un ballo in maschera si sono divertiti sessant'anni di critica specialmente per i due versi: « Raggiante di pallore » e « L'Orma dei passi spietati ». Le prime parole erano state prima stese così: « La rivedrò e splendida — d'angelico pallore... ». Ma contro tale critica Silvio d'Amico è insorto e ha fatto l'elogio del libretto del Somma, che del resto aveva dovuto sudare quattro camicie per tutti gli adattamenti richiesti, e che dopo tali « trasformazioni, amputazioni e manipolazioni, non volle porre il suo nome su quel travagliatissimo libretto ». LA FORZA DEL DESTINO Dal Ballo in maschera alla Forza del destino passano quasi tre anni. Nel frattempo Verdi vive ritirato a Busseto, pensa ai campi, alla casa, a costruzioni nuove ; gode della quiete della campagna, dopo tutte le angherie e le noie subite per rappresentare l'ultima opera sua, tanto che la Strepponi scrive a un amico: « Verdi è così stanco, annoiato, schifato di palcoscenico, che v'è tutta probabilità ch'ei dica, riguardo al teatro quanto disse Rabelais nei suoi ultimi momenti, riguardo alla vita: Baissez le rideau, la farce est jouéè ». Ma a distrarlo dall'arte sua divina ci sono anche gli avvenimenti politici del '60, che Verdi vive con trepidazione, come vedremo: ed è eletto deputato, si incontra con Cavour, passa a Torino molte settimane. Sul principio del 1861 Verdi scrive al Mariani: « Forse sarò deputato (che il cielo no'l voglia, che sarebbe per me una disgrazia); ma non per molto, perchè fra pochi mesi darò la mia brava dimissione, e ciò dissi anche a Cavour e a Hudson. Ciò sia fra noi. Ho bisogno di sapere da te al più presto qual è il giorno di apertura del Parlamento. Informamene con sicurezza e scrivercene P. Da notare quel « bisogno di sapere al più presto »; perchè a Verdi è giunta da Pietroburgo la proposta di scrivere un'opera per quel teatro imperiale, intermediario il celebre tenore Tamberlik. Ecco dunque tutto lo sdegno di Verdi placarsi davanti a una proposta tanto lusinghiera. Ma in questo c'è di mezzo l'arte di Giuseppina, che ora è moglie coi suoi diritti, e su Verdi esercita una influenza meravigliosa per il modo e per le conseguenze. Infatti è essa stessa che lascia trapelare un inizio di buona volontà in Verdi, quando scrive al Corticelli, segretario di Adelaide Ristori, che recita appunto a Pietroburgo: « Verdi risponderà direttamente appena tornato (è a Torino ove s'incontra con Cavour); in quali termini lo ignoro,ma da certe parole sfuggite non parmi sia più tanto avverso a riprendere la penna ». Commenta il Gatti: La Strepponi sa bene che Verdi, così autoritario, in apparenza, a saperlo prendere per il suo verso si lascia ammansire ; ed ella riesce a ciò meglio di chicchessia. Verdi le è affezionato e la stima per il suo retto giudizio e per il suo sicuro intuito della realtà, insomma per il suo buon senso ». Ed ecco come si propone di vincere Verdi nel caso in cui avesse ad avanzare difficoltà: « In ogni modo, per quanto cattivo avvocato io mi sia, metterò insieme in questa occasione, i migliori squarci della mia eloquenza onde persuaderlo a esporre il suo naso al pericolo di gelare in Russia. Non riuscendo con l'eloquenza, metterò in opera un mezzo che, a quanto mi viene assicurato, riesce anche alle frontiere del Paradiso, con l'illustrissimo San Pietro, e cioè: insistere, seccare, finchè si ottenga. E' vero che Verdi è meno paziente di San Pietro ; ma infine se mi manderà a dormire non sarà la prima volta e bisognerà tacere ». Ma dalle parole si capisce che ha la quasi certezza di ottenere, come tutte le mogli che adoperano mille accorgimenti e astuzie e si attaccano alla fine alla insistenza più tenace e accorta: e vincono. Si consolino i mariti che temessero di essere tacciati di deboli! Verdi « ispido Giove » scrive subito a Pietroburgo che musicherà il Ruy-Blas di Hugo, in barba ai suoi propositi e al freddo di quella capitale quasi siberiana... Ma alcune difficoltà ostacolano la composizione dell'opera, perchè innanzitutto non piace il soggetto, e Verdi insiste dandosi alla politica piuttosto che cedere davanti a insistenze, che non siano quelle della moglie la quale « sa ridurlo ai suoi desideri, d'altra parte legittimi, pur lasciandogli la convinzione di essere solo a volere e deliberare... ». Sentiamo dalla Strepponi come il libretto del nuovo soggetto venne pescato a Milano: « ...Un certo dramma letto in altri tempi gli era piaciuto, ma non era possibile trovarlo... Basta, basta... e detto il titolo eccoci tutti in giro dai librai e dai bouquiner in Torino non lasciando nessun angolo inesplorato. Nulla! non si trova! Finalmente fu dato a Verdi... di prendere per i capegli un certo tale che andava a Milano, dove solo era possibile trovare il dramma e da dove infatti ebbe in ventiquattr'ore, alla gran consolazione di Tamberlik, che quantunque affermasse, colla maggior gioia del mondo, che si piacesse in Torino e vi sarebbe rimasto volentieri anche un mese, pure, appena sciolto il nodo gordiano, s'è messo a correre e non si sarà, credo, fermato che a Parigi. Ora dunque v'è il novanta per cento (di probabilità) che Verdi scriverà per Pietroburgo. In questa probabilità ho già cominciato a far sfoderare, adattare, impellicciare vesti, sottane, corpetti e camicie. Io non penso affatto che prima di arrivare in Russia deve passare il mese di luglio: l'idea del freddo che dovremo soffrire nel prossimo inverno, mi toglie l'idea del caldo che probabilmente dovremo soffrire nel prossimo estate ». Intanto è firmato il contratto per il teatro Imperiale di Pietroburgo, e la Strepponi pensa a molte cose, con una finezza che ci fa comprendere come Verdi a lei cedesse, se non proprio obbedisse... Non possiamo tacere alcuni tratti di sue lettere al Corticelli, segretario della Ristori a Pietroburgo, come dicemmo: Verdi dice che ha fatto una minchioneria a segnare questo contratto, perchè lo obbliga a lavorare e quindi a sudar troppo d'estate, per venire a rinfrescarsi poi troppo d'inverno... Io, intanto, per evitare ogni burrasca, mi sono proposta di dargli sempre ragione dalla metà di ottobre a tutto gennaio, prevedendo che durante le fatiche dello scrivere e delle prove non ci sarà modo di persuaderlo che possa aver torto una volta sola. Quando però il tempo mi parrà troppo scuro, andrò a prender aria... ». « Io, continua dopo aver detto quali bottiglie di vino deve preparare per il soggiorno di Verdi, io aggiusterò poi teco i conti, essendo salita dal grado di cantante a quello di massaia, grado a me molto più caro, nè tu che mi conosci avrai fatica a crederlo, sapendo quanto poco amassi le tavole del palcoscenico. Non mi tacciare di prosaicismo. Sappi che vi può essere tanta poesia nelle modeste e, per così dire, solitarie occupazioni domestiche, quanto in quella specie di delirio che si prova e talvolta si comunica dalle scene all'affollato uditorio ». Parole che bisognerebbe stampare a caratteri cubitali in molte case, perchè vi facessero sorgere un poco di pace e tranquillità, ritornando la donna alle sue occupazioni domestiche e rendendola nello stesso tempo degna regina della casa. La devozione femminile sta in queste cose, e il sacrificio che avvince tutto l'amore dell'uomo è questo, della vita silenziosa e spesa per le piccole case domestiche tanto moleste all'uomo se deve di esse occuparsi, togliendosi dalle sue occupazioni artistiche o di affari D. Verdi può adunque mettersi al lavoro de La forza del destino, libretto preso da un dramma di Angelo Saavedra, spagnolo. Ma il caldo di Sant'Agata lo soffoca. Si prende un mese di più di tempo e invece di partire in ottobre, partirà in novembre. Ancora la Strepponi scrivendo al Corticelli dice: « Verdi ha incominciato a scrivere. Nè la parola incominciato ti spaventi. Egli non potrebbe comporre sue opere a pezzi e bocconi, con pause in mezzo. Mastica ben bene il soggetto prima di dare mano alla musica. Rigoletto, Trovatore, Traviata ecc. furono scritte in poco tempo, tutte d'un fiato, sotto la sferza di un'attività febbrile. Così sarà di questa ». Composta quasi tutta la musica Verdi e la Strepponi partono per Pietroburgo, dove li accoglie la peggiore delle disdette: la prima donna si ammala, senza che si possa sostituirla. Niente di male. Verdi è in periodo di buona salute, è allegro, viaggia volentieri, e propone di rimandare l'opera all'autunno seguente. Così è. Intanto va a vedere Mosca e di tutto dà notizia all'Escudier a Farle o Nel ricevere questa mia voi scoppierete in una buona risata per il mio viaggio inutile a Pietroburgo... Verso la metà di febbraio e forse prima sarò a Parigi. Addio dunque e arrivederci presto. Preparate una bella storiella perchè possiamo farci una buona risata a crepa-pancia ». Da dedicarsi quest'ultima frase a tutti coloro che fecero di Verdi un « pessimista, un ipocondriaco incallito, un misantropo nato ». Tornato a Busseto, Verdi si interessa di trovare la prima donna per l'opera di Pietroburgo. Parte poi improvvisamente per Londra, per cui ha composto L'Inno delle Nazioni, ritorna a San t'Agata dove compone l'istrumentazione della Forza del destino, e in settembre riparte per Pietroburgo. L'opera va in scena il 10 di novembre. Già il 17 novembre Verdi può scrivere all'Escudier: « Si son fatte tre recite con teatro affollatissimo ed eccellente successo ». La Strepponi così ne parla il 3 dicembre: «. „Quanto io so è che l'opera è andata tenore... Figurati che della Forza del destino se ne sono già date otto recite, con teatro costantemente affollato. Bello spettacolo per un impresario. L'Imperatore, che assistette solo alla quarta rappresentazione, impedito di assistervi prima causa un violento mal d'occhi e mal di gola, chiamò fuori Verdi a nome, e volle anche averlo nel suo palco, dove gli fece, con l'Imperatrice un mondo di elogi ». 15 — F. BOTTI, G. Verdi Dalla « Gazzetta musicale » si ricava: « che gli applausi cominciarono al primo pezzo e non s'interruppero mai, cosicchè Verdi dovette comparire al proscenio dopo tutti i pezzi, dopo tutti gli atti, dopo tutta l'opera, cogli artisti che l'eseguirono mirabilmente ». La critica non è tutta concorde. Anche nella capitale russa vi è chi denigra Verdi per innalzare la musica patria, in realtà inesistente. Una minoranza tentò la seconda sera una dimostrazione che fu subito repressa dal pubblico con applausi al Verdi. Giuste le osservazioni che il libretto è un ibrido connubio di fatti reali e fantastici; che qualche pagina scadente nella musica c'è, ma, conclude il Roncaglia: « di fronte a pagine musicali come questa e tante altre ricordate (quelle che ognuno di noi ama e conosce) — ci si spiega benissimo, non ostante l'inutile e vuoto ciarpame, la forte e persistente vitalità de La forza del destino ». Lo Zar aveva messo a disposizione di Verdi i coristi dei suoi Reggimenti della Guardia, e la Direzione del teatro aveva spesi 200 mila franchi per la messa in scena, compensati dai colossali introiti delle recite. Si domanda di dare l'opera a Parigi, ma Verdi non se la fa molto con questa capitale di intriganti e di boriosi ; parte invece per Madrid, dove La forza del destino è rappresentata il 21 febbraio 1863, mentre anche a Roma va in scena per opera del Jacovacci. Il Luzio fa notare come in quest'opera Verdi abbia trasportato molto di quanto aveva già composto per Re Lear, ma specialmente la romanza: « Me pellegrina ed orfana ». Nel 1869 La forza del destino è data a Milano, con diverse modificazioni, prima delle quali la sinfonia di apertura, nella quale « riunì i principali motivi dell'opera... e il tema del destino... Lo strumentale vario, robusto, ricco di colore, illumina questa sinfonia che non è di carattere popolare come quella dei Vespri, ma la supera in perfezione di stile ». Dopo la rappresentazione a Milano Verdi scrive questa lettera al Luccardi: « ...Tu saprai de La forza del destino a Milano. E' andata bene e continua ad andar bene. L'anno venturo quel diavolo di Jacovacci ve la farà inghiottire per la quinta volta, come opera nuova perchè vi sono due o tre pezzi nuovi... »... ma il motivo si è che quest'opera è popolare, l'ultima delle opere popolari di Verdi: « Fenomeno del quale la critica cercherebbe invano le ragioni. Ragioni non ve ne sono. Il popolo ha i suoi istinti come la scienza ha le sue leggi » (Mon.). E per ultima una mia osservazione. Verdi si è sposato nel '59 con la Strepponi davanti l'altare, «poiché da molto tempo desiderava consacrare davanti a Dio il nodo che lo univa alla sua donna », come dice il Gatti. Ha ricevuto un Sacramento. E' sceso nella sua anima la grazia santificante e la grazia sacramentale. La nostra santa religione è religione soprannaturale non tanto perchè al di sopra del lume naturale della ragione conosciamo Iddio per divina rivelazione, ma anche perchè noi amiamo Iddio e lo serviamo con l'aiuto della sua grazia che è sole delle anime. La grazia divina che aveva dato a Verdi la forza di sopportare i terrificanti lutti famigliari al tempo del Nabucco, ora scenda nella sua anima a rinforzare le virtù teologali, espresse in modo insuperabile nelle pagine religiose de La fora, del destino. Diamo la parola al Roncaglia: « Da quanto tempo il M.o Verdi non aveva scritto una melodia religiosa così pura, così nobile, così angelica? — (La Vergine degli Angeli...) — Egli è ritornato con altro stile, e con più fine sensibilità, alla fonte che gli ispirò le preghiere del Nabucco e dei Lombardi. Il suo cuore, che invano gli detta nelle lettere o nei discorsi famigliari parole di scetticismo, è tutto imbevuto di una profonda, umana, altissima religiosità. La grande verità estetica di questa preghiera è tutt'una cosa con la verità morale da cui sgorga così spontanea e limpida ». Bene! L'OPERA «DON CARLOS» « Nelle ultime settimane di gennaio del 1568 una strabiliante notizia si sparse per tutta Europa: Filippo II aveva imprigionato suo figlio il principe ereditario Don Carlos, sotto accusa di atto di tradimento. Da tutte le Cancellerie europee, da Napoli a Stoccolma, da Londra a Vienna fu un febbrile incrociarsi di corrieri per vedere di sollevare un lembo del mistero, ma l'Escuriale non rispondeva, muto come una tomba. L'imperatore Massimiliano II, che aveva disegnato di dare in isposa la sua primogenita Anna al principe sfortunato , irritato di tanto silenzio, decise d'inviare una legazione a Madrid, ma quando i corrieri stavano per mettersi in viaggio, un'altra ben più grave notizia lo sorprese: il principe Don Carlos era morto misteriosamente dopo pochi mesi di prigionia. Ancora non eran cessati i commenti e le supposizioni a proposito di tale morte, quando da Madrid giunse un altro funebre messaggio; la regina Isabella di Valois, nel fiore dei suoi ventitre anni (l'età stessa di Don Carlos) era morta repentinamente senza che i medici avessero potuto accertare la causa della sua fine improvvisa. Queste coincidenze enigmatiche bastarono, perchè un grande poeta tedesco, Federico Schiller, creasse uno dei suoi capolavori immaginando un'appassionata storia d'amore, di gelosia e di vendetta, e il nostro Verdi ne rivestisse il racconto con le sue note immortali. Ma la verità storica è un'altra. Non si tratta di un romanzo sentimentale, ma di una pagina dolorosa delle malattie mentali. Don Carlos nacque 1'8 giugno 1545. Quand'egli nacque i suoi genitori erano, si può dire, ancora ragazzi: Filippo II non aveva compiuto i 18 anni, e la sposa, Maria di Portogallo era appena sedicenne. Quattro giorni dopo essa morì. Gracile e infermiccio, il bimbo crebbe affidato a dame di Corte. Tardo a comprendere, ostinato, e a volte violento, si ribellava ai maestri, i quali, secondo il costume di allora, talvolta lo picchiavano. A sedici anni fu mandato a seguire i colsi universitari ad Alcalà de Henares, nella celebre scuola fondata dal Cardinale Cisneros. Ebbe per condiscepoli due giovani che poi divennero famosi: Don Giovanni d'Austria, il vincitore di Lepanto, e l'espugnatore d'Anversa, Alessandro Farnese. Un giorno durante una delle sue scorribande inciampò e battè il capo nelle scale con tanta violenza che si spaccò il cranio. Fu in punto di morte ; scienziati e ciarlatani tentarono tutte le loro arti ma senza risultato; tra le celebrità accorse al suo capezzale fu anche il famoso chirurgo Vesalio, medico della Corte, lo scopritore della circolazione del sangue. Il giovane principe risanò per miracolo, per intercessione di un Santo di cui avevano posto una reliquia nel letto accanto a lui. Guarito, fu più strambo che mai. Il peggio fu quando Don Carlos volle intromettersi nelle faccende politiche. Credulo, fantastico, squilibrato, dava retta a tutti gli imbroglioni, accarezzava progetti assurdi e si esasperava contro il Re, suo padre che non lo teneva nella debita considerazione e non lo consultava negli affari di Stato. Ebbe rapporti con un emissario di Caterina de' Medici, Regina di Francia e mortale nemica di Filippo II. Pare che avesse relazione anche con gli insorti delle Fiandre e cbe tramasse di raggiungere i Paesi Bassi mettendosi a capo dell'insurrezione e proclamandosi signore indipendente delle Fiandre. Mise a parte del suo segreto Don Giovanni d'Austria, il quale lo trattò da demente. Ma non desistè per questo; mandò a impegnar gioie per racimolar denari, e fissò per una determinata notte tutti i cavalli di posta, che dovevano essere a sua disposizione. Filippo II, il Re prudente, sapeva tutto e vigilava in segreto. La notte della vigilia della fuga progettata, mentre Don Carlos dormiva, Filippo II con tre uomini armati di scorta, penetrava nella sua cdrnera, lo svegliava di soprassalto e lo dichiarava in arresto. Don Carlos cercò la pistola che abitualmente teneva sotto il capezzale, ma era scomparsa; scese dal letto per impadronirsi della sua spada, deposta su una seggiola insieme con gli abiti poche ore prima, ma anch'essa era scomparsa. Allora fece per gettarsi dalla finestra, ma due robuste braccia lo fermarono a tempo. Umiliato, si gettò ai piedi del Re, piangendo, invocando perdono, implorando misericordia. Filippo II, impassibile rispose soltanto: « Tornate, tornate in letto, tutto quello che accade è per vostro bene ». Queste furono le ultime parole ch'egli udì da suo padre. Tenuto nella più stretta custodia, guardato a vista notte e giorno, proibitogli fin l'uso delle posate a mensa, (la carne gli veniva servita già partita a bocconi), senza possibilità di comunicare con alcuno nè oralmente, nè per iscritto, Don Carlos visse p3 3o di più cinque mesi e morì misteriosamente alle quattro del mattino del 24 luglio 1568 «. Fin qui Guido Battelli sotto il titolo: « Storia e leggenda di Don Carlos ». Quando Verdi fu a Madrid per la esecuzione della Forza del destino aveva avuto modo di visitare l'Escuriale, del quale diceva: « Mi si perdoni la bestemmia; è un ammasso di marmi, vi sono cose ricchissime all'interno, ed alcune bellissime, fra le quali un affresco di Luca Giordano meravigliosamente bello, ma nell'insieme vi manca il buon gusto. E' severo, terribile, come il feroce Sovrano che l'ha costruito ». Queste parole ci portano involontariamente col pensiero a Don Carlos figlio di Filippo II, costruttore dell'Escuriale, e al Don Carlos di Verdi. Da Madrid Verdi dovette tornare a Parigi, dove andavano in scena i Vespri, ai quali doveva soprintendere per quanto riguarda le prove, toccandogli in tal modo di restare colà contro sua voglia, a causa della « sua pessima abitudine di mantenere la parola data... ». Ma le prove si trascinano, come fiume asiatico, lente e sonnolente... Un dispetto dell'orchestra che rallenta in un modo esagerato quando Verdi avrebbe voluto appena un affievolimento, gli fa capire che quei signori hanno l'aria di dire: « Non ne abbiamo voglia... » e Verdi esce dalla sala e non vi ritorna più. Ma sono quelli anni di lotta epicamente grande nel teatro, perchè è comparso Wagner e tutta Parigi osteggia selvaggiamente o ricopre di osanna l'opera del Grande musico del Nord. Tempo di lotta che si accalora e investe anche Verdi, con un tono, prima non visto. Meyerbeer è capobanda, perchè si crede un dio dell'olirnpo e l'idolo delle folle parigine, comprate dalle critiche dei giornali assoldati. Verdi lascia Parigi e va a Sant'Agata dove gli capita una di quelle cose banali e noiosissime, che danno sommamente ai nervi, quale la fuga del fattore... per cui egli stesso deve mettersi corpo ed anima a fare e rifare conti della sua azienda agricola... Non dimentica il teatro, e si tiene in comunicazione con i vari impresari; e il direttore dell'Opera scrive a lui che se gli prepara un'opera nuova per quel massimo teatro francese avrà quarantamila franchi. Sono i primi accenni all'opera che nascerà lentamente, subirà contraccolpi per le vicende politiche che toglieranno a Verdi le forze stesse creative, che sarà corpo di esperimento per il Maestro delle novità in musica. Al secondo accenno di una opera nuovaav eva risposto all'Escudier: « Scherzate?... Io avrei muso di affrontare tutte le idee e le maledizioni qualora avessi dalla mia un Direttore intelligente e di polso, quai'è certamente Perrin ». Poi dice che scriverebbe se avesse un libretto pronto e. bell'è fatto. Ecco adunque dal fondo dell'anima sgorgargli un desiderio già prorompente di creare ancora, in vista appunto delle idee nuove e dei contrasti da esse suscitati, giacchè per i forti la difficoltà di un'impresa è stimolo a superarla. C?..,zzan o però, ancora contro il nascere del Don Carlos molte difficoltà: la malattia del padre di Verdi, i desideri dei concittadini che lo vorrebbero ancora deputato, mentre Verdi desidera e vede con gioia l'elezione di Giuseppe Piroli, e una complicazione con impresari che gli fa uscire una di quella sue tipiche frasi: « Manderei al diavolo tutti i teatri ». Ma finalmente in una lettera alla Maffei, dopo alcuni mesi passati a Parigi con la Strepponi per una eseraizigne non avvenuta della Forza del destino, scrive: « Mi resta da vedere una parte di Parigi che si sta cristruendo da due anni, poi mi metterò a lavorare. Parer o il Don Carlos ». Il poeta fu il Mery, un francese onesto cbe aveva definito l'Italia « il Cc;neer vatorio di Dio », per l'ammirazione che aveva dei nostri musicisti. La lettera alla Maffei è ciel 365, dicembre. Combinato per il Don Carlos, Verdi vuole lasciare Parigi per Sant'Agata, dove « però l'opera non progredisce rapidamente » come vorrebbe il Maestro. Da Sant'Agata a Genova, Lissa, Custoza: amarezza nell'animo di Verdi, che chiede al Perrin di sciogliere il contratto, per non vedersi costretto ad andare a Parigi in un momento in cui la patria è umiliata. Va a malincuore a Parigi, ne riparte subito con la scusa di fare cure a Cauteretz, vi ritorna e di mese in mese la prima del Don Carlos si porta nientemeno che ai 9 di marzo del 1867. Alla prima rappresentazione assistono Imperatore e Imperatrice; le personalità dell'arte e della politica ci sono ugualmente tutte. Ma l'esito è freddo. » Ieri sera, scrive Verdi, il Don Carlos non ebbe il successo che io speravo. Potrebbe darsi che nell'avvenire le mie esigenze fossero appagate, ma io non ho tempo e parto stassera per Genova •. Angelo Mariani, che ora è inseparabilmente unito alla Stolz, va a Parigi per sentire il Don Carlos. Ne resta indispettito e giura in cuor suo: »Rappresenterò io, in autunno, il Don Carlos a Bologna e allora vedremo ». E' veramente lui, il mago della bacchetta, che crea le opere, che scapigliato e arruffato dirige e trascina i suonatori e il teatro tutto, a Bologna rivela un Don Carlos nuovo, che manda in visibilio il pubblico. Il Perrin chiede a Verdi che gli scriva un'altra opera nuova per la inaugurazione della nuovissima Opera, e ancora da Pietroburgo lo s'invita a musicare il Cid di Corneille. Ma Verdi vola a Sant'Agata. Troppe cose ribollono nella sua anima agitata, e il dolore vi ha una parte preponderante con l'avvenuta morte di suo padre. • Interessante è leggere una lettera delle Strepponi, dalla quale ricaviamo come Verdi fosse l'oggetto delle curiosità di tutti e le vicende della sua vita anche le più nascoste fossero grandi o ingrandite per la sua notorietà: « Caro Luccardi, - I giornalisti hanno l'arte di impossessarsi di una parola per formare un volume, trasformando la favola in storia, e la storia in favola finché possano riempire le pagine dei loro periodici. Così fecero della salute di Verdi. Egli, come ella deve ricordare, fu sempre soggetto ad incomodi di gola, e sentendo decantare le acque di Cauteretz come efficaci per tali indisposizioni, volle approfittare di alcuni giorni di libertà per recarvisi a fare una cura. Qui sta tutta la verità, e quanto siasi detto o possa dirsi di più o di meno va messo nel numero delle frottole... Frottola la malattia di Verdi ; frottola pur quella che io fossi spedita a quelle acque per tentar la guarigione di gravissima malattia... e Dio sa che, se vi è qualcosa di irregolare nel mio fisico, è l'aumento di peso e della circonferenza della mia rispettabile persona... A spiegare meglio i difetti del Don Curlos è bene riportare questa lettera di Verdi al Du-Locle nel 1869, quando rifiutò ancora una volta di scrivere altra opera nuova per la Capitale di Francia: « All'Opera ciascuno vuol dare un parere, vuol emettere un dubbio e l'autore vivendo per molto tempo, in quell'atmosfera di dubbi non può a meno, a lungo andare, di non essere scosso nelle sue opinioni e finire a correggerle, ad aggiustare, o per meglio dire, guastare il suo lavoro ; in questo modo si trova alla fine non. un'opera di getto, ma un mosaico, e, sia pur bello quanto si voglia, ma sempre un mosaico ». Verdi ritoccò il Don Carlos nel 1883, portandolo a maggiore snellezza con quattro atti, invece eZei cinque dell'edizione parigina, ma nel 1887 tornò alla forma antica, della quale aveva troppo acrificato nella riduzione. Scrive il Roncalia: « Non ostante tutte le avversità Don Carlos rasenta e in molti punti raggiunge l'altezza del capolavoro*. L' «AIDA» Per parlare degnamente di questa popolare e sublime opera di Verdi bisognerebbe scrivere un libro, nel quale dire della ispirazione, della composizione, della esecuzione, e della cronistoria del suo trionfo al Cairo, fino ai nostri giorni. Alla fine del 1869 Verdi aveva ritoccato e migliorato specialmente il finale della Forza del destino che nel febbraio dell'anno seguente ebbe a Milano una mirabile esecuzione. Questa volta Verdi era superbamente contento del teatro della Scala, di quel teatro cioè per il quale aveva giurato di non comporre e di non lasciar mai più rappresentare nulla di suo. Scriveva all'Arrivabene: Vi fu buona esecuzione e un buon successo! La Stolz e Tiberrini superbi! Gli altri bene. Le masse, cori e orchestra, hanno eseguito con una precisione un fuoco indescrivibile. Avevano il diavolo addosso. Bene, assai bene! Ho avuto notizie anche della seconda recita. Ancora bene, anzi meglio della prima ». In altre lettere continua a esprimere la sua gioia per tale successa dovuto all'ottima interpretazione, e non all'apparato che trovava all'Opera di Parigi. Intanto discute sulle qualità di un Direttore, il quale, secondo Verdi, può metter in risalto le qualità di un'opera ma non trarne effetti :ignoti all'autore dell'opera stessa, alludendo alle lodi che si facevano al Mariani, col quale i rapporti ormai sono volti all'abisso della più fredda distanza. Si ritira poi a Sant'Agata, dove gode di non sentire parlare di musica: « Da due mesi non mi si è parlato di altro! Non ne potevo pia! Ora è finita, e ne sono ben contento «. Ma chi ci crede ? Mentre egli ritorna alle sue occupazioni campagnole il pensiero, dopo le riposanti ore tra i contadini e le distrazioni della caccia e dei lavori alle case e ai campi, il pensiero torna alla musica, il desiderio rinasce e gli ferve nel cuore. E' in corrispondenza con il Du-Locle il quale insiste per una seconda e una terza volta con Verdi per averne un'opera nuova, con la quale fare soldi all'Opéra-Comique della quale egli desiderava diventare il Direttore. Verdi molto difficilmente dimentica, e molti anni devono trascorrere prima che un suo corruccio si dissolva: inutile quindi parlargli di Parigi, e dei suoi teatri che gli hanno giocato dei tiri birboni... Passa ore e ore a esaminare la musica di Wagner, piange la morte del Berlioz ch'egli stima grandemente, rimugina nell'anima forme nuove « per piegare sempre meglio la nota ai suoi desideri ». Durante un viaggio a Parigi il Du-Locle che è stato nominato direttore dell'Opéra-Comique torna alla carica, e gli nasce una speranza quando Verdi gli dice, dopo aver rifiutati tutti gli altri libretti: « Cherchez cherchez encore avan t que nous nous revoyons et nous finirons pour trouver ». Ecco il colpo di scena: il Du-Locle manda a Verdi un dramma d'Ajala e insien-.e con esso un » programma egiziano » anonimo, un abbozzo, poche paginette a stampa... Euret.a! «E' ben fatto: con magnifica messa in scena; e due o tre situazioni, se non nuovissime, molto belle davvero «. Parole rivelatrici. Il racconto egiziano ha preso l'animo del Maestro che ha bisogno di qualche cosa di nuovo, di patetico e di grandioso: a Aida, con la sua rievocazione di un mondo esotico e remoto, con il cozzo delle sue passioni umane ed universali, con l'elemento pittorico e coreografico dei suoi quadri, veniva incontro in modo mirabile alle ripetute aspirazioni del musicista, di avere un soggetto nuovo, vario, pieno di contrasti e ardito. Il soggetto offertogli conteneva tutto ciò che di insolito, di poetico e di drammatico da tanto tempo vivamente cercava: il mondo misterioso dei Faraoni, riti religiosi strani e fantasiosi, costumi inusitati, paesaggi bagnati dal vasto Nilo coi suoi templi meravigliosi, le foreste profumate dell'Etiopia, un urto tremendo di passioni individuali e di popolo. Ce n'era d'avanzo per commuovere la far tasia musicale di Verdi ; che rispose in pieno con un balzo tra i più audaci e sublimi n - (Ronc). Con la consapevolezza del Genio Verdi comprende che farà opera degna, farà la sua opera, quale da tempo desidera, l'opera che gli sta racchiusa in seno, e che a contatto del libretto da tanto tempo agcgnato sprigionei à come polla che irrompe gioiosa alle valli... Per essa egli chiede 150 mila lire, delle quali le prime 50 mila da pagarsi all'atto della firma del contratto. Verdi pone al Du-Locle, che deve alla sua volta sottoporle al Vicerè dell'Egitto, le sue condizioni, accettate incondizionatamente dal Vicerè stesso. Tanto è l'amore a questo libretto che Verdi stesso ne è un secondo creatore, poichè non si contenta di lasciare al Ghislanzoni la riduzione in versi di quanto è stato preparato in prosa francese dal Du-Locle da Verdi modificato, ma gli suggerisce parole, frasi, pensieri. Si tiene in contatto anche col Mariette oltre che col Du-Locle per avere spiegazioni e informazioni sugli usi e costumi degli antichi egiziani, per poter meglio determinare scene, fatti, situazioni dell'opera che va musicando: « Egli modifica sempre più il libretto del Du-Locle, prescrivendo al Ghislanzoni i modi, i metri, gli accenti della poesia che gli abbisogna, fin le parole, quando non gli sembrano quelle da lui sentite, cercate, volute ». La vena musicale travolge il Maestro stesso il quale giunto alla seconda parte del rrimo atto non la trova di suo gusto, ma passa immediatamente avanti a musicare le altre parti per correre alla fine, sì che in tre mesi dovrebbe essere comcompletata la parte « inventiva ». La famosa scena della « consacrazione » che il Ghislanzoni non ha ancora messa in versi è completata da Verdi, in modo che sarà la parola ad adattarsi alla musica e non la musica al verso. Ma in Francia gli avvenimenti politici sono paurosi. Disastro di Sédan e assedio di Parigi. Guglielmo di Prussia ha detto: « Abbiamo vinto con l'aiuto della 16 - F.BOTTI , G. Verdi Provvidenza. Il nemico si è reso ; Iddio ci aiuti anche per l'avvenire », parole che servono al Ghislanzoni da mettere sulle labbra dei sacerdoti egiziani. Verdi pensa che l'opera si darà ugualmente nel tempo stabilito e continua a lavorare mandando versi già fatti a Ghislanzoni il quale li lascia tali e quali, e che ci rivelano come Verdi senta con grande poesia la musicalità della strofa e la leggerezza del verso: « Ella non può immaginare sotto quella forma sì strana che bella melodia si può fare, e quanto garbo le dà il quinario dopo i tre settenari e quanta varietà danno i due endecasillabi ». Ma ecco il colosso parlare ancora: « Qui avrei amato il gran verso, il verso di Dante ed anche la terzina ». E' davvero questo un Verdi dapprima sconosciuto, è il titano che sente la immensa grandezza della poesia e la forza immane che ad essa dona la musica. In altra lettera dice che amerebbe « sentir l'odor d'Egitto », per significare che il verso dovrebbe esprimere meglio la scena egiziana. Ai primi di luglio Ricordi e Ghislanzoni erano andati a Sant'Agata ; e verso la metà di novembre l'Aida - è compiuta. L'opera però deve subire un ritardo per la esecuzione perchè Parigi è ancora assediata e di là devono venire vestiti e scenari. E' nell'assedio lo stesso Mariette autore della prima stesura del « racconto egiziano ». Ma Verdi non lo sa e desiderando ardentemente di vedere la sua opera sul palco, inizia trattative con la Scala. Quando il Vicerè viene a sapere ciò, dà incarico a Draneth bey di scrivere a Verdi: « scegliendovi per scrivere la partitura di un'opera nuova la cui azione avviene nei suoi Stati, Sua Altezza volle creare un'opera nazionale che sarebbe riuscita uno dei ricordi più preziosi del suo regno. Dovrà soffrire di un danno non dipendente da avvenimenti di cui non ha colpa?... Voi vorrete certo risparmiarlo all'Augusto Sovrano, che ha pensato di onorarsi, onorando il genio ». Verdi risponde che « Non certamente lui avrebbe accampato diritti, in tale momento, anche se ne avesse avuti ». Ma in attesa della esecuzione al Cairo prepara anche quella successiva alla Scala. Per chi voglia comprendere la forza titanica di Verdi in questo periodo nel quale in Italia si accende la lotta tra arte del nord e arte nostra, in cui si discute accanitamente esaltando e distruggendo, e in cui è venuto a Milano Von Btilow, legga queste parole al Morelli, nelle quali non nega le grandezze degli altri, ma vuole che ogni nazione abbia la sua arte nazionale, che sarà nello stesso tempo universale: « ... Non posso dare addio ai miei studi, alle mie tendenze, alla mia indipendenza che è stata il desiderio di tutta la mia vita. Non dubitate però: l'ora del risveglio verrà, se dimenticheremo la frase fatale Noi siamo stati e ci ricorderemo che siamo di una razza, che abbiamo un sole, non voglio sapere se più bello o più brutto, ma diverso da quello che risplende di là dai monti. Diverso! Voi mi capite? !!! Con questa parola voglio dire arte non forestiera, ma nostra, dell'epoca nostra. L'artista che rappresenta il suo paese e la sua epoca diventa necessariamente universale, del presento e dell'avvenire Commenta il Gatti: Ecco Verdi al suo posto di comando nei nuovi destini della musica italiana. Egli è sicuro della meta alla quale avviarla. Il suo sguardo contempla il movimento prossimo e lontano che spinge avanti l'arte sua, e vede e misura i mezzi per disciplinarla e guidarla ». E per chi ancora volesse sapere quale fosse l'animo di Verdi in questo momento lo desuma dal fatto che nel dare ordine al Du-Locle di ritirare le prime 50 mila lire del contratto per l'Aida dispone che due mila le rilasci per i feriti e i prigionieri della guerra in corso. Qualcuno obietterà che sono pochi in confronto del ricavato dell'Aida ma si può dire che a fare questa osservazione saranno generalmente quelli che non dànno nulla a nessuno ; che Verdi era generoso verso un popolo che non era il suo; infine, egli stava facendo lavori grandiosi a Sant'Agata che gli importavano spese altissime. Del resto i più ricchi sono spesso i meno generosi, poichè l'ingordigia del danaro è come quella delle altre passioni: « Dopo il pasto ha più fame che pria », tanto che su un campanile del Trentino furono scritte queste parole: a Fu fatto col consiglio dei ricchi e col denaro dei poveri ». Generosità di animo quella di Verdi che si andò affinando col crescere delle sue possibilità, ma che gli fu sempre in cuore, mentre qualche autore, come il Grassi, vorrebbe sminuirla per il fatto ch'egli ebbe grandi fortune e grandi possedimenti. Non disse egli che la sua opera più bella sarebbe stata la Casa di Riposo per Musicisti vecchi in Milano? Non è questo il tempo in cui egli chiama ad associarsi a lui altri artisti onde comporre insieme alcuni pezzi musicali con la cui vendita sovvenire alle tristissime condizioni del Piave? Perchè avrebbe dovuto dare tutto lui? che pure aveva dato già tanto, e che solamente dopo la Forza del destino si era assicurato una condizione di agiatezza buona, e solamente dopo l'Aida una agiatezza superiore? Ma torniamo all'Egitto, da cui Draneth bey è in corrispondenza con Verdi per trovare il Direttore del Teatro Italiano di colà. Egli vorrebbe che fosse il Mariani, e deve mettersi in viaggio per l'Italia per vedere di sostituirlo giacchè questi è impegnato a Bologna e sta proprio ora rimuginando il suo progetto di portare ai più alti trionfi in Italia le opere di Wagner, per dispetto a Verdi. E' scelto il Bottesini. Intanto c'è una cosa ridicola da notare: avevano detto a Verdi che nel Museo egiziano di Firenze, (ora diretto da un Parmigiano) c'era un flauto egiziano antico, il cui uso e suono avrebbe prodotto un immenso effetto nella musica dell'Aida. Se Verdi avesse potuto innestarlo... nella sua musica... Egli non disprezza il consiglio del Fétis, e corre a Firenze. a Pregai il direttore di farmi entrare, dice, un'ora prima del pubblico per evitare i curiosi e per avere tutto il comodo di esaminare il famoso flauto egiziano. Il Direttore me lo porta, io lo esamino attentamente, e indovini cosa era? Un sibieu da Famè — (Uno zufolo da famiglio, comunemente detto nel parmense Sibiòl) con cinque buchi. Io allora lasciai stare e non ne feci nulla ». Il Maestro Gallignani, quando era direttore del Conservatorio di Parma, chiese a Verdi come aveva fatto a R dare un così efficace color locale all'opera Verdi rispose che non aveva fatto particolari studi: « Mi sono immaginato che dovesse essere così ». E così l'Aida è rappresentata al Cairo il 24 dicembre 1871. Verdi chiede al Bottesini notizie, non del successo, ma dell'effetto di alcuni pezzi, dei quali non poteva giudicare l'impressione sul pubblico perché appartenenti al genere « Vaporoso ». Più che quella del Cairo interessava a Verdi l'esecuzione alla Scala, per la quale comincia le prove in casa sua a Genova, nel dicembre stesso in cui l'opera è data al Cairo. Poi si reca a Milano per proseguire ivi le prove, componendo nello stesso tempo una sinfonia da mettere al posto del preludio, ma che fu tolta dopo le prove dell'orchestra. Poiché è la Stolz che canta alla Scala, Verdi compone la romanza « O cieli azzurri che fa risplendere lo spartito « di un'altra fulgida gemma ». Trentadue volte è chiamato Verdi dall'applauso altisonante del pubblico. Verdi vuole associare al suo trionfo il Ghislanzoni, che però è uscito per lasciare solo Verdi, non reputandosi degno di stargli a fianco. Verdi è il Re del teatro italiano, e una commissione di cittadini gli fa omaggio di uno scettro di avorio e oro. Ma Verdi sa quanta bellezza sia ascosa in questa sua Aida e non sdegna questa volta le lodi, quasi anzi le sembra cercare, forse quale conferma del suo giudizio su la immensa grandezza dell'opera, e per sentirsi dire che il suo modo di fare musica è ben all'altezza dell'altro di cui tanto si discute... Quando lascia Milano per tornare a Genova, verso la fine di febbraio, ha un'aria corrucciata perché i giornali sono stati astiosi, acidi o infidi nel giudicare. Gli spiace anzi che le autorità non lo abbiano ringraziato... « Critiche stupide, ed elogi più stupidi ancora: non un'idea elevata, artistica; non uno che abbia voluto rilevare i miei intendimenti ; spropositi e sciocchezze sempre, e in fondo a tutto un certo non so che di astioso, come se avessi commesso un delitto scrivendo e facendo eseguir bene Aida. Nessuno, infine, che abbia rilevato almeno il fatto materiale d'una esecuzione e di una mise en scene insolite. Non uno che abbia detto: Cane, ti ringrazio... ». Quest'espressione è forte, è verdiana, e ci dice la pienezza del corruccio del Maestro, che nella sua consapevolezza è sdegnato di vedere tanta freddezza intorno e tanta incomprensione. E chi, oggi, dopo i trionfi dell'Aida e le simpatie del pubblico per essa, non gli darà ragione? Un giornale aveva proposto che il sommo teatro milanese, dopo tale trionfo, si intitolasse a Verdi ; ma non se ne fece nulla, nè questi soliti ripieghi piacevano al Maestro il quale voleva la comprensione delle bellezze interiori della sua opera, e che i critici le sapessero rivelare, dopo averle intuite. A temperargli l'amarezza di quella incomprensione si fece avanti Parma, che nella .persona del suo sindaco aveva subito chiesto a Verdi l'onore di avere l'Aida per il teatro Regio, dopo la Scala. « Verdi acconsente, dice il Gatti, a patto di avere a Parma i principali cantanti della Scala, i cori e il direttore Faccio: l'orchestra parmense è buona e può bastare. Il 2 di aprile Verdi se ne va a Parma per le prove: il 20 avviene la rappresentazione. Grande successo e maggiore contentezza di Verdi che si riserba, di più in più, una parte preponderante nel modo di mettere in scena le sue opere ». Si ripeterono allora i trionfi tributati a Verdi al tempo del Nabucco, in quel modo e in quelle forme che solo il popolo di Parma sa tributare. Fu creato cittadino onorario, lui che era già della nostra terra, e fu coniata una medaglia d'oro. Dice Mario Ferrarini: « Verdi se ne andò entusiasta della nostra orchestra, e in particolar modo degli archi; lo disse e lo ripetè a quanti lo vollero sapere e in proposito c'è tutta una corrispondenza ben nota ». La simpatia di Verdi per la città di Parma verrà documentata altrove, ma ora vogliamo rilevare la parte che in essa ebbe la Regia Scuola di Musica, per la quale Verdi darà poi tutto il suo interessamento quando diventerà Regio Conservatorio. Il manifesto delle rappresentazioni dell'Aida a Parma dice che « Si rappresenterà la grandiosa opera-ballo in 4 atti del Cav. G. Verdi, Aida, eseguita dagli artisti T. Stolz, M. Waldmen, G. Capponi, A. Pantaleoni, L. Vecchi, ecc. ». Nei prezzi dei biglietti d'ingresso: « Platea e palchi, lire 3; fanciulli, sott'uffiziali e militi in uniforme, 1,50; posti riservati, oltre l'ingresso 5,00; e loggione L. 1 P. Vi è un'altra città nella quale il trionfo dell'Aida è degno dell'opera e del suo compositore: Napoli. Egli non ne aveva voluto sapere di Padova, di Roma e di Parigi. A Roma specialmente si vorrebbe l'Aida e ne nasce una polemica, nella quale interviene Verdi, chiamato dall'amico Luccardi: « Mi spiace che tu t'interessi troppo di quest'Aida da darsi a Roma... Jacovacci crede, quando ha messo sul cartellone due o tre nomi conosciuti, d'aver fatto tutto. Ma egli non sa che i successi di Milano e di Parma sono dovuti principalmente alle imponenti masse corali e orchestrali, alla perfetta esecuzione dell'insieme ed alla splendida mise en scène. Datemi per es. le masse corali di Milano, l'orchestra in parte di Parma, il vestiario di Milano, scenario e macchinario di Parma, ed allora sarei facilissimo ad accontentare sugli esecutori cantanti... Addio, mio caro Luccardi — termina Verdi dopo molte altre osservazioni — e dimmi se ho ragione o torto. Del resto poi, perché questa mania di sentire Aida? E se non l'avessi scritta? E poi perché non devo essere io il padrone di farne secondo ciò che mi detta il mio criterio? E che! Siamo forse artisti per servire al capriccio degli impresarii?... A Padova però l'opera va sulle scene col maestro Faccio. A Napoli andrà quanto prima. Intanto Verdi si ritira a Sant'Agata, prova dolori immensi per le vicende di Chiarina Maffei col Tenca (tanto dolorose alla Maffei che se ne era ammalata), e per la malattia di Alessandro Manzoni. Mentre la Strepponi ha in più una sorella ammalata che declina verso la tomba, e ne soffre in modo che « ha una disposizione al pianto, direi quasi alla disperazione... i. E poi c'è sempre Mariani che lavora a Bologna, si ammala, e si avvia pur esso a morte inevitabile, solo, senza amicizie vere, all'infuori di quella di Teodorico Landoni. La rappresentazione di Napoli aveva subito un brutto contraccolpo per una improvvisa malattia della Stolz. Quando essa finalmente riprese salute e vigore Verdi si incamminò una seconda volta per Napoli, dove passò ore invidiabili con gli amici, fino a quando l'Aida andò in scena, il 31 di marzo. Prima quante prove, e che pena, che pena... «E' indescrivibile l'ignoranza, l'inerzia, l'apatia, il disordine, l'abbandono in tutti di tutto e per tutto. Non è credibile: mi vien fin da ridere quando penso a mente riposata a tutte le pene che mi dò, a tutte le agitazioni che provo, alla mia ostinazione di volere e volere ad ogni costo. Mi pare che tutti mi guardino, ridano e dicano: «E' matto costui? » Raccontando poi la sua intenzione di fare il meglio possibile per risollevare i teatri, dopo che il governo aveva tolte le doti ai teatri stessi, dice: « Oh la mia vanità fu ben punita... Andai a Parma e l'esito fu pure eccellente: sempre teatro brillante e forte incasso. Venni a Napoli con la speranza di riescire egualmente... ». Solamente l'esito lo riconcilia con la capitale partenopea. L'entusiasmo dei nostri amici meridionali, la cui affinità con Parma per la esuberanza di sentimento fu fatta notare altre volte, ebbe una manifestazione fantastica. Il Maestro fu chiamato ben 37 volte al proscenio. Dopo lo spettacolo fu portato in trionfo, dal San Carlo all'albergo, nel bagliore di migliaia di fiaccole... Le trombe egiziane ripeterono sotto la sua finestra la marcia del secondo atto, nel panorama fatato di Napoli sotto il chiaro di luna: « Notte di luna dolce come l'estate: chi giunge dal mare s'illude che la Sirena del golfo, risuscitata, ritessa gl'incanti e inviti le Ninfe a intonare un inno di gloria al grande Maestro ». Da un mio documento verdiano inedito, riguardante questa rappresentazione dell'Aida a Napoli, ricavo che la somma delle mance che Verdi volle concedere in questa memorabile occasione, risulta di lire 1044,50! Ce n'era da star bene per tutti: uomini, donne, sacerdoti egiziani, trombe, illuminatori, comparse, suggeritori, inservienti, buttafuori, portantinai, direttore di palcoscenico, ecc... La paziente preparazione di Verdi, che alle volte era stata tale da fargli nascere in cuore la voglia matta di « andarsene a vangare, anche di notte a Sant'Agata », era stata ripagata ad usura. E partendo scrive una lettera al Sindaco per ringraziarlo, per dirsi spiacente di non aver potuto stringergli la mano, e per dare suggerimenti affinché il San Carlo ritorni « agli antichi splendori ». Vorremmo qui ricordare quel Prospero Bertani di Reggio che assistette all'Aida a Parma e non ne rimase soddisfatto, scrivendo al Maestro per chiedere il rimborso delle spese, compresa la cena a Parma; e l'altro episodio di Pàita, venditore ambulante, che vendeva le pere cotte a Parma, ed il cui grido, affermava il Sivelli, servì di ispirazione alla invocazione delle sacerdotesse a Osiride, ma non crediamo troppo al secondo episodio, e temiamo di dar lavoro... ai barbieri, rievocandoli con esattezza; preferiamo col Rancaglia riesumare alcuni degni compagni del Bertani, che lo superano nel giudicare la grande opera verdiana come scadente e indegna di Verdi... Il Perelli, nella Gazzetta musicale di Milano: « E' incontestabile che Aida segna la massima decadenza. di Verdi In quanto riguarda la sua individualità... E' con profondo dolore che noi abbiamo assistito all'annebbiarsi graduale della ubertosa fantasia di Verdi... ». Zappert sul Cosmorama pittorico: « Diremo senz'ambagi all'autore di Aida che il nuovo lavoro non è ultimo soltanto nella scala cronologica delle sue opere, ma in quella altresì del l'arte... ». Vi si aggiunge il Monitore di Bologna: « Aida dopo aver fatto un giro di curiosità per i principali teatri, finirà, come i Vespri Siciliani, agli archivi ». Non sappiamo quanto ricevessero di compenso questi sputasentenze alteri e vanitosi. A tanta distanza di tempo ottengono uno scopo imprevisto: ci divertono. LA MESSA DI REQUIEM Noi amiamo soffermarci a meditare come i grandi uomini si sono comportati dinnanzi alla morte: prima che alla loro morte, a quella delle persone care che li attorniavano. E' questo un momento solenne nel quale anche i geni più si rivelano e meglio ci fanno conoscere le recondite facce della loro umanità. E' doppiamente interessante vedere come Verdi si comportò davanti alla morte eh.; in troppe circostanze lo circondò nella vita. La morte avvenuta quando egli aveva 9 anni del parroco suo benefattore e secondo padre; la morte della figlioletta Virginia alla distanza di 32 giorni dalla nascita di Icilio Romano; e alla distanza di poco più di un anno (ora a Milano e non più a Busseto, e in un momento di ristrettezze finanziarie) muore anche Icilio Romano; dal 22 ottobre al 18 giugno i mesi sono pochi e questa seconda data segna la morte della stessa Margherita Barezzi, prima moglie del Verdi, creatura adorata e primo amore della sua giovinezza oscura e affaticata... Tanto fu il dolore di Verdi che nel ricordare tali lutti li accumulava come accaduti tutti nello spazio di due o tre mesi, come intimamente congiunti erano nel suo cuore. Dopo circa vent'anni muore a Verdi la madre; nel 1867 gli muore il padre, e l'anno seguente Antonio Barezzi, di cui raccolse l'estrema parola e l'ultimo anelito... Ma grandemente nel suo animo scavarono un solco la morte degli amici e delle persone da lui ammirate, come quella del Cavour, di Rossini e più ancora quella di Alessandro Manzoni. Troppe volte la morte gli si parò dinnanzi con aspetto e forme rudemente tragiche, perchè egli la potesse sentire altrimenti; quella di Manzoni poi gli fece sentire un « arcano e tremendo sgomento » come bene esprime Pizzetti, derivato da quella venerazione altissima e sterminata che aveva per Manzoni; quella stima che saliva al grado di venerazione e quasi adorazione se si « potessero adorare gli uomini e buttarglisi in ginocchio davanti ». Nel capitolo su Verdi e Manzoni documenteremo il dolore di Verdi alla morte del grande romanziere, dolore immensamente píù grande di quello provato per la morte di Rossini, di cui pure aveva rimpianto la morte, perchè era stato un musico che aveva altamente onorato l'Italia e il mondo. Ma un desiderio di fare qualche cosa di serio, invece cioè di un'opera solita, c'era stato in Verdi ogni volta che il teatro lo aveva disgustato e gli aveva fatto dire in mille modi differenti che avrebbe preferito andare a Sant'Agata a vangare anche di notte », e che poi gli fece esclamare, dopo aver composto la Messa : « Mi sembra di essere diventato una persona seria, e di non comparire più come un pagliaccio davanti al pubblico, gridando: Avanti, avanti, favorite... e battendo il tamburo e la grancassa... ». Quando lo prendeva il pensiero di comporre una Messa di requiem in tutte le sue parti, diceva: << E' una tentazione che passerà come tante altre. Io non amo le cose inutili. Messe da morto ve ne sono tante, tante e tante !... E' inutile aggiungerne una di più ,. Ma intanto aveva già composto alcune parti; il Libera per la morte del Rossini, il Requiem e il Dies irae già abbozzati, che abbisognavano di « qualche maggior sviluppo ». Fu appunto la morte di Manzoni che lo fece decidere desiderando di onorare il Sommo Uomo, e di onorarlo come egli meritava per la sua santità: con una composizione sacra, con un avvicinamento a Dio, con la composizione di una Messa, poichè proprio il Manzoni inciampò e cadde sui gradini di San Fedele a Milano, mentre usciva dopo avere ascoltata la Santa Messa, quale soddisfacimento al precetto festivo, senza riguardo alla sua età avanzata e alle sue condizioni di salute minorate dalla morte del figlio. Omaggio a Manzoni deve riconoscersi anche poi la costante abitudine di Verdi ogni giorno festivo di recarsi alla S. Messa immancabilmente e devotamente a come la più bella ora della sua giornata », oltre che un sentimento di dovere come cristiano. Ma, — si domanda il Pizzetti, — questa Messa alla memoria di Manzoni, fu soltanto un altissimo tributo di devozione e venerazione di un grande artista al genio e all'altezza morale di un altro artista sovrano? No; fu anche altro. Offerta alla memoria di A. Manzoni, poeta cristianissimo, del quale Verdi non solo sentiva a l'altissima mente, ma sentiva pur tanto la purezza dell'anima da chiamarlo Santo ; la Messa di Requiem fu un atto di sincera religiosità, e di quella religiosa umiltà che soltanto dei grandi artisti di genio è virtù propria e sublime. Il Manzoni era, per Verdi, un Santo, il solo Santo, che egli sentiva di avere nel'a vita conosciuto. A chi, se non a lui, poteva confidare le aspirazioni religiose e i dubbi e i tormenti del suo animo? E direi che dedicando e offrendo allo spirito di lui la sua Messa, a lui si confessò. Per sommo gelosissimo pudore di se medesimo, gli si confessò in musica ed in latino. Se il primo pensiero di una Messa era nato da un sentimento di orgoglio nello stesso tempo che di tributo alla memoria del Rossini, orgoglio personale rilevato dal Gatti in Verdi « quale rappresentante massimo della musica italiana » e orgoglio nazionale che arriva a non accettare a nessuna mano straniera » fosse pur potente quanto si voglia, nella composizione della Messa, questa volta invece il desiderio di completare la Messa iniziata nasce da un sentimento di sincera e devota umiltà. La lettera di Verdi all'editore Ricordi, in occasione della morte di Rossini diceva: « Ad onorare la memoria di Rossini vorrei che i più distinti maestri (Mercadante a capo e foss'anche per poche battute) componessero una Messa di Requiem, da eseguirsi all'anniversario della sua morte. Vorrei che non solo i compositori, ma tutti gli artisti esecutori, oltre al prestare l'opera loro, offrissero altresì l'obolo per pagare le spese occorrenti. Vorrei che nessuna mano straniera nè estranea all'arte, e fosse pur potente quanto si voglia, ci porgesse aiuto. In questo caso io mi ritirerei subito dall'associazione. La Messa dovrebbe essere eseguita nel San Petronio di Bologna, che fa vera patria musicale del Rossini. Questa Messa dovrebbe essere suggellata, e posta negli archivi del Liceo musicale di quella città, da cui non dovrebbe essere levata giammai. Forse potrebbe essere fatta eccezione per gli anniversari di lui... ». Seguono alcuni suggerimenti per la istituzione di una commissione per la distribuzione delle parti. Dal sorteggio della Commissione risultò assegnato al Verdi il Libera, come dicemmo. Ma l'aver affidato al Mariani l'esecuzione della Messa, a Pesaro eccitò maggiormente il contrasto tra lui e Verdi. Mariani è un dominatore e non vuol ossei e dominato. Verdi ha fatto la proposta della Messa e continua a stabilire modi e luogo. Mariani a Pesaro dirige la Messa in re minore del Cherubini. Orgoglio e amore lo tormentano in questo frattempo e nasce quell'abisso con la Stolz e con Verdi che esamineremo a suo tempo. Dopo la lettera al Sindaco di Milano, nella quale Verdi annunzia che è disposto a comporre per intiero una Messa da far eseguire nel primo anniversario della morte del Manzoni, il Maestro va a Sant'Agata, a Parigi, e .7.uovamente a Sant'Agata. Sceglie per interpreti la Stolz e la Waldman, Capponi e il Maini; come luogo per l'esecuzione il Cantù gli propone la chiesa delle Grazie, anche per promuoverne i restauri; ma Verdi preferisce quella di S. Marco. La Messa è compiuta il — F. BOTTI, G. Verdi 10 aprile e il 22 maggio avviene la prima esecuzione nel tempio severo per arte e per gli ascoltatori. Le prove erano state fatte a Milano, ad eccezione di quelle dei solisti, compresa naturalmente la Stolz, che avevano provata in casa Verdi a Genova. E fu poi la prima e l'unica volta che la Strepponi sentì o espresse una gelosia per la presenza della cantante boema, confidandone alla Maffei, dichiarandosi disgustata della vita, scoraggiata, travolta « nel cammino spinoso dei disinganni » senza i suoi entusiasmi religiosi, e « appena crede in Dio, guardando alle meraviglie del creato ». Ma è una pausa breve ; la Stolz entrerà poi tranquilla in casa Verdi amata dalla stessa Strepponi, e assisterà anche alla morte del Grande. Ed ora ci sia permesso di dilungarci in alcune osservazioni storiche e critiche che ci verranno sulla penna. Che cosa è la S. Messa? E' il Sacrificio del Corpo e Sangue di Cristo offerto dal sacerdote in memoria e rinnovazione del Sacrificio della Croce. E' adunque una vera e santa rappresentazione che assume nelle Messe specialmente pontificali o da morto una solennità austera e drammaticamente forte da commuovere. Verdi medesimo disse: « Quale soggetto più passionale della Messa, del Credo, dove in brevi cenni si descrivono nascita, vita, agonia, morte e resurrezione di Dio? Si vorrebbe della musica mite? » Nella Messa da morto poi le parti liturgiche ci portano a meditare la visione terribile del Giudizio delle anime dinanzi a Dio Creatore, l'incubo della condanna, la gioia della chiamata degli eletti. A molte parti tolte dall'Antico Testamento la liturgia di tale Messa accoppia altre medioevali quali il Dies Irae, con quel drammaticismo che fu tutto proprio del medioevo e di Jacopone nel rappresentare i sentimenti umani dinanzi a Dio Onnipotente. Tutto questo, oltre l'osservazione iniziale che Verdi si trovò sempre di fronte a lutti tragicamente sopravvenuti, e, in più, il modo di sentire del Maestro, ossia il suo temperamento amante dei contrasti e delle situazioni potenti, deve sempre essere tenuto p/ esente da chi vuole comprendere lo spirito della Messa di Requiem. « Non è dunque, dice il Roncaglia, una composizione sacra secondo i canoni della liturgia nè secondo lo stile dell'arte cinquecentesca, e non dobbiamo dolercene. Essa è ugualmente una potente opera Disse l'Hanslik: «E' di certo uno dei lavori più santi ». Continua il Roncaglia: « Tra le composizioni di Verdi questa è una delle più ricche di melodia commossa, calda, patetica, e mostra pure un raro equilibrio tra l'ispirazione e la tecnica... Poche volte poesia e suono, significato interiore delle parole ed espressione musicale, religione ed estetica, furono, come in quest'opera, così intimamente e altamente congiunte Non vi sono soltanto le pagine tragiche e rabbrividenti, che tolgono il respiro come il giudizio di Michelangelo, ma vi sono anche quelle dolci e serene che significano pace e desiderio soddisfatto delle anime. « Accanto alle grida di terrore e alle lagrime d'angoscia fioriscono oasi di serena fede e di fervida adorazione Anche il Bellaigue aveva notato come al di sopra del terrore si scorge una triste supplicante dolcezza. Anche l'arcigno e acido von Bulow che era sempre stato ostile a Verdi, e alla prima esecuzione della Messa aveva dimostrato come non mai piccineria di sentire, fu piegato e commosso dal Requiem di Verdi e gli scrisse: « Ora come vi ammiro, come vi amo !... » Ma Giovanni Brahrns, altro tedesco, aveva già rimproverato von Bulow: « Ha preso una cantonata: un'opera simile non la può scrivere che un genio. Massimo Bontempelli ha scritto recentemente su Verdi il Terrestre, cercando di dimostrare come nelle opere di Verdi il dolore e la sofferenza non spingano mai i suoi protagonisti a quello stato di grazia, che solo il dolore può dare, di ascesi e contemplazione: « L'uomo di Verdi non anela mai ad assorbirsi in Dio... ». Ma Bontempelli nega subito il modo reciso che in Verdi ci fosse inerzia di fronte al mistero e cita il Miserere del Trovatore, che tanta impressione aveva fatta anche a Listz: « Ove i mezzi musicali più semplici, l'insistenza sul ritmo del rintocco, un raro salire o scendere di qualche intervallo breve, bastano a creare un senso di superiore rassegnazione che è il principio della pace suprema dell'anima ». Tutto bene, ma nella dotta dissertazione non troviamo un cenno della Messa di Requiem come se in essa Verdi non abbia espresso il senso religioso più che nelle altre opere... mentre è proprio in essa che Verdi ci rivela il suo modo di sentire davanti a Dio, partendo dalla tragedia della morte. « In essa c'è l'elevazione dell'umano sino a quella massima altezza oltre la quale l'uomo, perdendo di sè coscienza e dominio, non avrebbe neppure più il potere di parlare ad altri uomini, e di farsi da essi intendere e di commuoverli ed esaltarli ». Nella Messa Verdi guarda verso l'alto dei cieli, come se parlasse egli solo per le moltitudini dei fedeli a lui vicine e adoranti, gementi, imploranti... ». La sua formazione religiosa Verdi se l'era completata negli anni maturi con la lettura della Bibbia, lettura assidua e amica nelle ore più esulceranti... Ma non per questo egli prega dinanzi a Dio come davanti a Jehova onnipotente e « Dio degli eserciti »: egli sta atterrito ma non esterrefatto dal pensiero della morte, sta supplice ma non schiavo, sta uomo redento in adorazione e speranza, come nota ancora il Pizzetti. La Riforma. della Musica sacra era ancora di là era ancora di là da venire, nè egli volle imitare servilmente Palestrina: creò un'opera personale. Fu sincero, e per questo grande. A dare un senso di maggiore tragicità o « teatralità » alla Messa sono state sempre le esecuzioni quali spettacolo o audizione musicale, e non quale esecuzione sacra, possibilmente in chiesa, dove non perderebbe la sua forma di intensità drammatica, ma acquisterebbe quel colorito più severo se non proprio melanconico che si vuole in una tale composizione. Filippo Filippi disse: « Il distintivo che metterà il Requiem di Verdi in un posto a parte nella storia dell'arte è il suo carattere tutto individuale, quello sopratutto di averne fatta una produzione non già mistica, ma umana, drammatica., che va dritta, al cuore ». Gino Monaldi la definì senz'altro, dal lato musicale: « Il capolavoro più forte e completo del genio di Verdi ». Oggi si può dire che tutti i critici esaltano la Messa di Requiem come opera d'arte, ma notano come davanti alla morte, che è dramma umano e divino. Verdi non potè avere — per il suo temperamento, le vicende della sua vita, la consuetudine al drammatismo, — una elevazione mistica. Nella morte è il conflitto tra la perdita della vita, l'addio alle cose terrene, e la conquista di un bene eterno additato dalla fede: la prima parte è espressa insuperabilmente da Verdi, come nelle sue opere di teatro, sia pure con maggiore pacatezza che annuncia l'Otello, mentre la seconda parte ha il senso del patetico abbandono che ricorda alcuni atteggiamenti melodici di Aida e Desdemona ma non ha « tutto » il senso dell'umanità e dell'abbandono che Dante espresse nel verso: « In la sua volontade è nostra pace ». Rassegnazione cristiana in Dio misericordioso e Redentore, che nella vita eterna diventa pace imperitura. Molte furono le esecuzioni della Messa nei teatri d'Europa; pochissime auelle nelle chiese. Da ricordarsi quella nel Duomo di Orvieto nel 1892: « L'impressione della musica verdiana in quella bella e austera casa del Signore, assunse un aspetto nuovo, imponente, inatteso. Meglio ancora che al San Marco di Milano le trombe di Giosafat echeggiarono per le ampie volte e le mistiche melodie dell'Offertorio e dell'Agnus apparvero meravigliosamente belle e diffonditrici di una celestiale serenità Le lodi del Maestro all'astro della musica religiosa, Lorenzo Perosi, sono note, gli incoraggiamenti furono espressi da Verdi stesso al Perosi quando gli fu presentato a Milano dai Conti Lurani, dopo la esecuzione della Resurrezione di Cristo, come ricordava ultimamente il Porosi stesso. Ma è interessante sentire come Licinio Refice invochi un ritorno a Verdi: « Seguendolo appassionatamente — senza per altro sdegnare le odierne conquiste — in quella sua rude, maschia sincerità, in quel suo divino abbandono — leva per moltissimi voli -- nella evocazione profonda dei più nobili sentimenti nascosti nel cuore della sua stirpe, si ritroverà con certezza la via diritta perchè l'arte nostra torni alla sublime missione di illuminare e commuovere moltitudini di anime, tanto assetate di bontà, di amore, di bellezza ». Ma torniamo alla Messa, che dal San Marco passa alla Scala, iniziando ivi quella serie di trionfi gloriosi e clamorosi che ebbe nel giro per tutta Europa. A Parigi andò subito dopo la Scala. Al principio del 1875 ancora è data a Parigi, dove il Maestro riceve la Commenda della Legion d'Onore; poi è data a Londra e 1'11 giugno a Vienna. Ritornerà a Parigi ancora l'anno seguente. Questi successi e trionfi ci portano a una osservazione: anche i più grandi uomini non sfuggono alle noie, ai malvagi, alle banalità della vita cui troppo spesso si deve sottostare e amareggiano anche le più belle soddisfazioni e più pure. Infatti Verdi, in mezzo a questi trionfi ha dei bisticci con l'editore Ricordi al quale è legato da cordiale amicizia; desiderava andare a Berlino con la Messa di Requiem e non ci riesce per colpa in parte del Ricordi stesso; i giornali criticano l'aver portato la Messa nei teatri, invece che nelle chiese; un libello esce a Firenze, città del suo cuore pei dolci ricordi, a dire e sparlare di Teresina Stolz legata a Verdi da amicizia che proverebbe dalle suo debolezze senili; un certo Vincenzo Sassaroli sfida nientemeno che Verdi a lasciargli musicare il libretto dell'Aida, per trarne un'opera al cui confronto quella di Verdi sarà abbominevole o poco meno ;... quell'Aida che intanto l'Escudier a Parigi gli maltratta « prostituendola ad esperimento di tutti i debuttanti »... E le morti si susseguono: muore il Piave, muore il Luccardi; non molto dopo il Solera, e la contessa Gina della Somaglia: « Tutti muoiono. Tutti! ». Lui stesso è indisposto per una bronchite, onde va a Monte Carlo, ove gioca, ma gioca per perdere: « Ho perduto perchè ho voluto perdere per disgustarmi sempre di quell'orribile cosa che si chiama gioco ». Una consolazione grande però prova in questo frattempo: un viaggio in Germania dove partecipa invitato, al Festival musicale di Colonia. In un grandissimo concerto dirige il suo Requiem, che suscita entusiasmi altissimi. Dirige ancora il quartetto. Appena giunto gli avevano fatta una serenata; in un banchetto gli cantano un coro in suo onore, con quella plasticità che hanno i tedeschi per le canzoni corali; gli regalano un Album colossale con preziose vedute simboliche; gli donano una bacchetta d'avorio e argento per dirigere; infine gli offrono in segno di stima una corona di argento e oro. « Ferdinando Hiller fa un discorso in francese, bene augurando all'unione artistica e politica dell'Italia con la Germania », e Verdi ne gode e resta entusirrato, t enchè prima non fosse molto entusiasta dei tedeschi e avesse avuto qualche frase di critica verso di loro. Che le feste a lui tributate fossero sincere e sentite ce ne rassicura, senza che del resto ce ne sia bisogno, Emanuele Muzio, che scrisse al fratello Giulio a Busseto: « Ho avuto immenso piacere di essermi trovato qui, perchè tutti gli onori e le feste che fecero a Verdi erano così spontanei, naturali e cordiali da inornorgoglire qualunque Italiano ». Noi sappiamo del resto che questo entusiasmo dura ancora e che le opere di Verdi eseguite a Berlino superano quelle dello stesso Wagner. L'«OTELLO» Le gloriose note della Messa di Requiem avevano entusiasmato tutti gli amici di Verdi e si desiderava ch'egli si cimentasse ancora in un'opera nuova, nella quale avrebbe detta al mondo una parola pure nuova in mezzo alle invadenti e incessanti discussioni sull'arte nordica e nostra. Sono meravigliosi gli artifici che adoperano il Ricordi, il Perosio, il Comitato per la Esposizione di Parigi per indurre Verdi a scrivere. Si fa avanti anche la Maffei: « Voi, proprio voi, mi consigliate a scrivere! risponde Verdi... Ma parliamo sul serio: per qual motivo scriverei? A cosa riescirei? e cosa ci guadagnerei io? Il risultato sarebbe ben meschino. Sentirei da capo dirmi che non ho saputo scrivere e che son diventato un seguace di Wagner. Bella gloria! Dopo quasi quarant'anni di carriera finire imitatore! » Ma un avvenimento di somma importanza nella vita di Verdi è il riavvicinamento con Boito, procurato dal Ricordi. Tatto, finezza, intelligenza da parte del Ricordi, hanno potuto ottenere che Verdi si accosti al poeta che prima parve avesse sdegnosamente insultato all'arte verdiana... E nel riaccostamento c'è già un pensiero per l'opera nuova, uno schizzo dell'Otello che Verdi loda: Fatene la poesia; sarà sempre buona per voi, per me, per un altro ». Il Ricordi tenta subito di portare Boito a Sant'Agata, ma il Maestro capisce la mossa e si guarda bene dal cadere nella rete, che però sarà a mano a mano così bene intessuta dal Ricordi e da Boito che ad un certo punto la Peppina scriverà: « Si può dire che Verdi C'entrato alla cieca e senza volerlo in questa specie di rete. Una cosa ne ha chiamata un'altra, e da un niente, da una semplice parola lanciata col bicchiere dell'allegria alla mano, è nato un libretto. Verdi lo ha preso e benchè senza impegno, l'ho più volte sentito dire: Io mi lego troppo... Le cose vanno troppo avanti ed assolutamente io non mi voglio trovar costretto a far quello che non vorrei...». Ricordi non vuole e non può lasciar inerte il Maestro, per ragione di affari più che per arte, e vedendo inutile il tentativo dell'Otello a breve scadenza, gli propone di ritoccare il Simon Boccanegra. Verdi si adatta, come vedemmo, a « raddrizzare le gambe a questo tavolo zoppo ». Quando il Maurel gli recita magnificamente la parte nel Simon Boccanegra Verdi lo loda e gli dice « Se Dio mi dà salute, scriverò per voi Jago ». E con questo primo appellativo si parlò per molto tempo di Otello, e anche quando il Maestro già aveva denominato così la nuova opera, i giornalisti parlavano ancora di Jago, come di titolo definitivo. Sarebbe interessantissimo riportare le molte volte in cui Verdi parla di Jago con Domenico Morelli, dal quale desiderava l'abbozzo di questo figuro, e col quale discute sulle forme più acconce perchè appaia in tutta la sua perfida arte di ingannatore mistificatore, in tutto il suo « gesuitismo » come si usò per tanto tempo dire per significare finzione, con un termine che non intaccò mai le glorie purissime della Compagnia"di Gesù, artiglieria in campo nelle battaglie della Chiesa cattolica. Questa parola la troviamo anche nel carteggio Verdi-Morelli ; Verdi però dice Prete, quasi a ricordo dei raggiri e dei tranelli tesigli a Busseto quando si trattava della nomina a Maestro di Cappella: « Bene, benone, benissimo! Jago con la faccia da galantuomo. Hai colpito! Mi par di vederlo questo prete, cioè questo Jago con la faccia di uomo giusto... ». In altra occasione: « E Jago, l'hai trovato questo brigante con la faccia dell'uomo giusto? Ma forse a spiegazione di questa parola, per parlare di un impostore, è necessario ricordare che Jago doveva essere vestito di nero, mentre Otello alla veneziana con colori chiari, come amano i Mori. Che se Verdi, come diremo in altro capitolo, ebbe per tutta la vita amicizia con moltissimi sacerdoti, non fu esente però completamente dallo spirito settario del secolo e la sua italianità e il suo patriottismo lo avevano portato ad amare solamente quei sacerdoti che guardavano con comprensione all'unità d'Italia, o che facevano del bene senza immischiarsi in politica. Tutto questo il lettore mi permetta di dire poichè proprio ultimamente un convinto assertore della religiosità di Verdi quale il senatore Innocenzo Cappa, mi chiedeva come si spiegava questa parola di Verdi a proposito di Jago, ossia in colui che è l'incarnazione della perfidia e dell'impostura. Del resto a fare un'incisione ad acquaforte di Jago, prima di Morelli, fu proprio Giuseppe De Sanctis, che Verdi aveva tenuto a battesimo, per amicizia col padre suo Cesare De Sanctis, e al quale aveva desiderato fosse imposto al fonte battesimale il suo nome: Giuseppe. Uno dei sotterfugi adoperati dal Ricordi per mantenere viva in Verdi la fiamma d'amore per l'Otello fu quello dei panettoni, come è ben risaputo, inviati in dono in occasione di feste, con disegni di zucchero e cioccolato raffiguranti un Moro... dei quali uno giunse, una volta, con le gambe stroncate per il lungo viaggio... Avvenne che Blaze de Bury, critico musicale della Revue de deux inondes, facesse scrivere a Boito perchè ottenesse da Verdi la facoltà di tradurre in francese l'opera nuova Jago, giacchè, egli diceva: « Un jour au l'autre Jago existéra... ». Ma Verdi rispose a Boito: « Io sono sorpreso di questa sicurezza del Barone, perchè io... io in persona non so se Jago existéra... ». Periodo adunque di lunga incubazione, di desideri, di scoraggiamenti, di riprese, di lavoro intenso, e infine di trionfo. E' questo un periodo critico nella vita di Verdi, e chi ne soffri e ne guadagnò fu appunto Otello; « In quEsnto a quell'altro che non ha... ancora nome di battesimo, non vi ho pensato, non vi penso, e non so se vi penserò in avvenire ». Vi fu anzi un momento in cui Verdi irritabile assai in quegli anni, letta una frase in un giornale nella quale si affermava che ai Boito spiaceva veder Verdi musicare Otello, poichè l'avrebbe musicato anch'egli volentieri, scrisse a Ricordi perchè facesse riavere al librettista il libretto di Otello, che Verdi gli ridava « senza ombra di risentimento, senza rancore di sorta... ». Ma era stata una di quelle invenzioni o male interpretazioni dei giornalisti, che tanto davano noia a Verdi. I dubbi di Verdi si rivelano anche in queste pa role a Faccio: » Dunque, secondo voi, devo proprio finire quest'Otello? Ma per chi? per chi? Per me è indifferente. Per il pubblico ancor meno ». Egli sta intrepido tra le parole che a fiumane si scrivono sempre più sull'arte e sui suoi progressi, specialmente dai giornalisti, « altro flagello dei nostri tempi », e in uno scatto tutto suo dice: « O presto o un po' tardi sorgerà ben qualche ragazzaccio di genio che spazzerà via tutto questo, e ci ridarà la musica dei nostri bei tempi, eliminandone i difetti e servendosi dei trovati moderni. Intendiamoci..., i trovati buoni ». Parole queste che si possono mettere a commento della musica dell'Otello, in cui Verdi usa dei trovati moderni pur restando nella strada luminosa della tradizione italiana. Attorno a lui preme la curiosità del pubblico e degli impresari. Quando si fa avanti il Gailhard per una traduzione in francese da dare all'Opéra, Verdi dice ancora una volta: « Bisogna che per la prima volta Otello sia dato in italiano... Ma, ripeto, parlarne ora, sarebbe intempestivo... ». La presenza di Boito, che va a Sant'Agata col Giacosa, lo riporta al lavoro con lena, e quando ha deciso di chiamare l'opera « Otello » dice: « Preferisco che si dica: ha voluto lottare col gigante ed è rimasto schiacciato, piuttosto che: si è voluto nascondere sotto il titolo, di lago », alludendo all'opera omonima del Rossini, che è il gigante in parola. Il 1855 era stato l'anno di composizione, e il 1886 è l'anno della rifinitura di Otello. Nel momento stesso in cui Verdi si chiede ancora una volta se lo finirà, se lo completerà, si mette in viaggio per Parigi per sentire il Maurel, per decidere poi quale scegliere tra lui e Tamagno: « Sono sulle mosse per Parigi... L'Otello va lentamente, ma va... Lo finirò? Forse sì. Lo darò? La risposta è difficile anche per me! Intanto tiriamo via ed amen ». Però il pittore Edel è incaricato di fare i disegni, e Ferrarlo gli scenari. Si stampa pure il libretto. Notissimo il telegramma a Boito: « E' finito !.. Salute a non.. (ed anche a lui). Addio ». Era il 1.o (li novembre, festa di tutti i Santi, dell'anno 1886. Quando a Genova, in dicembre, consegna le ultime parti all'inviato dell'editore, lo si sente mormorare: « Povero Otello! Non tornerà più qui !... » Come Giacobbe amava sommamente Beniamino nato negli anni suoi avanzati, così Verdi amava con tenerezza quest'opera che tanto gli era costata di meditazione... al contrario di tutte o quasi le altre opere sgorgate con eruzione vulcanica dal suo cuore e dalla sua mente... Prima ancora di pensare lontanamente all'Otello aveva scritto alla Maffei: i Dunque a che giova scrivere? Del resto, se vorrò, potrò farlo per piacer mio, ma col pubblico e con gli impresari... Parliamo d'altro... Non fu raccontato che dopo la rappresentazione egli ne restasse muto e mesto perchè « Otello non era più suo », e glie l'avevano rubato?... La prima rappresentazione ebbe luogo il 5 febbraio 1887. La Pantaleoni sostenne la parte di Desdemona: Tamagno e Maurel le altre due parti principali. Lasciamo la parola al Gatti: « Dei due attori il più difficile da ridurre al giusto accento e all'efficace giuoco drammatico è il Tamagno, con la sua strapotente voce, la quale talvolta eccede la situazione e l'azione del personaggio scenico, cosa che è fatica per Verdi smorzare gl'impeti e il vigore. Il Maurel invece è perfetto cantante ed attore.... L'aspettazione del pubblico è enorme: compaiono sui giornali notizie sbalorditive di prezzi altissimi per i tempi, per poter assistere allo spettacolo ; un palco costa un piccolo patrimonio. Si propaga confidenze sulle paghe favolose dei cantanti, sul nolo preteso dall'editore, (si parla di 30 mila lire e c'è chi assicura 300 mila...); si susseguono conferme e smentite... Arrivano da tutte le parti del mondo a Milano, per questo avvenimento, i critici, i compositori, gli editori, gl'impresari, gli uomini più autorevoli nel campo delle arti e delle lettere: il Reyer, il Massenet, il Marchetti, il Sivori, il Martucci, il Tosti, il Carvahlo, il Du-Locle, il Gahilard, il Bellaigue, il Clemenceau, il Giacosa, il Panzacchi, il Pascarella, il Torelli, il Depanis, il Turco, il D'Arcais, il Cecchi, la Serao, il Boldini, il Michetti: nè mancava il senatore Piroli, di Busseto, il vecchio amico del Maestro. E' presente anche l'affezionatissimo Emanuele Muzio. Il giovedì 3 febbraio c'è la prova generale. Nessuno può assistere: l'ordine di Verdi è categorico. Se ne lagnano i critici, specialmente dei giornali stranieri. Ma è loro d'uopo sottomettersi alle disposizioni del Maestro. Il 5 febbraio puntualmente si apre la Scala. Le accoglienze sono entusiastiche: ad ogni pezzo si acclama Verdi. Ma bisogna subito avvertire che la meraviglia supera il convincimento. Si parla di « trasformazione del genio verdiano » cui si riconosce una non diminuita potenza di invenzione ; ma nell'Otello c'è tale e tanta novità d'ideazione e di fattura, da lasciare perplessa la parte di pubblico meno abituàta a cogliere le analogie e le differenze fra i modi di esprimersi di quest'opera e le altre opere di Verdi stesso o dei compositori più celebri del tempo... ». Sorpresa, stupore, ammirazione... Il dramma e l'umanità dell'Otello superano quelli di tutte le altre opere. La lunga esperienza e la cooperazione di Boito portarono Verdi sulla strada luminosa di questa creazione. Verdi sapeva la preziosità della cooperazione di Boito: « Amici miei, disse a chi lo applaudiva nell'entusiastica serata della prima, se avessi trent'anni di meno vorrei incominciar subito, domani stesso un'altra opera, a patto che Boito me ne fornisse il libretto ». Il Grande tragico del nord potè finalmente vedersi di fronte un colosso che lo intèrpretò musicalmente. Il dramma della gelosia dissennata e la figura della infelice e dolcissima Desdemona fecero dare un balzo, un volo d'aquila a Verdi superiore a quello nell'Aida. Amore e morte ancora una volta hanno preso mente 18 — F. BOTTI, G. Verdi e cuore del Maestro: egli ne ha fatta una esaltazione e una purificazione che nel quarto atto ha la sublime catarsi di tutto il dramma. « Non furono smentite le origini del melodramma italiano, furono perfezionate nello stesso tempo le forme del teatro d'opera nostro, e fu doppiato, nel mare magnum della musica, da impareggiabile pilota Wagner ». Facendo presentire Falstaff, in Otello tutto è ordine e chiarezza, tutto cade a suo posto, tutto è spontaneo, senza troppo lirismo. Ora ci sia permesso ricordare qualche cosa di inedito: il modo col quale Verdi diresse le prove dell'Ote/- lo. Ce ne ha fatto testimonianza nell'occasione delle feste del quarantennio il Maestro Luigi Silva, di 83 anni, ancora vivente, e che ha rivelate ai giornalisti le sue memorie inedite. Alle prove al piano Verdi presentò Boito: a Desidero, disse, che innanzi di cominciare le prove il mio amico Boito legga il libretto agli artisti. Ciò gioverà alla interpretazione che devono dare alle rispettive parti ». Per le prove alla Scala la direzione aveva messo a disposizione di Verdi, oltre la solita stanza, uno stanzino, che serviva a lui per ritirarsi a provare al piano alcuni pezzi importanti con le « prime parti ». Alla prima prova d'insieme fu messa, tra palcoscenico e orchestra, una scaletta, per la quale Verdi andava su e giù, alle spalle di Faccio, « per accordarsi sopra un movimento, in platea per giudicare l'effetto della sala, ma più spesso e più volentieri in palcoscenico ». « Tamagno, riporta A. Fiaccaroli dal Silva, Ta-magno, trentacinque anni allora, fenomenale tenore tarchiato bello e tirchio da non credere, non sapeva morir bene » al finale. Verdi gli insegna come ha da cadere, poi, dopo una diecina di prove, dice: Per questa sera basta, è stanco il nostro Otello. E va ad accarezzare la bambina del tenore che è venuta a prendere papà. Pure il secondo tenore Paroli, non sa muoversi come si conviene, nella scena della ebrezza al primo atto. Verdi impugna il bicchiere e fa il gesto di bere, e poi comincia a traballare, lievemente, con una successione piena di verità, e alla fine si accascia tentennando e dicendo: « Si fa così a ubriacarsi e a cadere ». Quando Tamagno raffreddato non potè partecipare alle ultime prove, prima fu temporaneamente sostituito da Ricordi, ma poi anche da Verdi che nella scena dell'abbraccio con Desdemona, ossia la Pantaleoni, non era soddisfatto del modo col quale questa lo ricambiava, certamente in soggezione per dover abbracciare Verdi. Allora il Maestro invertì le parti e insegnò a Desdemona: « Si abbraccia così... ». E per terminare diciamo che le nostre generazioni non possono comprendere che cosa sia stato il successo dell'Otello: fu un avvenimento che forse nel campo dell'arte non si ripeterà mai più. L'aspettativa era acuita dal lungo silenzio verdiano, dalle discussioni sull'arte nostra e di Wagner, dalla potenza vocale di Tamagno e di Maurel, dalle indiscrezioni che preannunciavano al mondo una musica « nuova » verdiana. E il mondo artistico ne fu veramento sbalordito. Forse lo stesso Maestro non ebbe mai giubilo festoso di popolo e un evviva come quello che segui nella notte, alla rappresentazione dell'Otello. Davanti al suo albergo, Milanesi e forestieri ivi convenuti per il grande avvenimento, vollero tributare a Verdi un omaggio che parve scena delirante quando Tamagno con la sua voce poderosa cantò il saluto di Otello nella prima scena dell'opera: « Esultate... ». Milano, l'Italia, il mondo esultavano veramente ed ancor oggi esulta di Verdi, delle sue opere, e del suo beniamino e capolavoro: Otello. IL PESSIMISMO DI VERDI E IL CREDO DELL'«OTELLO» Ci permetta il lettore di sostare per una indagine storico-critica sul Credo di Jago nell'Otello, prima di passare a dire del Falstaff, del quale però alcune di queste righe saranno come una necessaria prefazione, per chi vorrà comprendere il grido: «Tutto nel mondo è burla ». Affermiamo subito che musicalmente questo Credo ci impressiona sempre, ma non ugualmente ci impressiona per la sua terribile forma di ribellione a Dio e alla sua Provvidenza, di bestemmia e negazione dell'immortalità dell'anima. Sono parole poste sulla bocca d'un'anima che ha il « cinico ateismo d'un criminale » quale è Jago: il figuro dal sogghigno beffardo, « dalla volontà diabolica, dalla perversione congenita, per quella sua cavernosa anima d'averno ». Subdolo, ipocrita, impostore, mefistofelico, serpentino... satanico, sinistramente malvagio, adescatore, « personificatore dell'oscura ed eterna forza del male », come poteva parlare altrimenti Jago? Veramente « verme dell'avel »... Insulta il Cielo, e spavaldo parla di « un Dio crudel, che l'ha creato... ». A chi volesse affermare per insipienza o settarismo che Verdi sentiva questo « Credo » come consono alla sua anima, basterebbe dire che vicino c'è l'« Ave Maria », ugualmente bella, seppure in forma eterea o implorante, in cui l'invocazione sembra nelle ultime note salire al Cielo, non certo come a « vecchia fola »... Basterebbe rispondere che anche musicalmente il Credo » ha dei precedenti nel Simon Boccanegra, precisamente nel monologo di Paolo, che ha contatti con quello di Barnaba della Gioconda del Ponchielli, fa prevedere il « Credo » dell'Otello che pure è un monologo. Basterebbe rispondere che le parole di questo « Credo » sono di Boito, di quel Boito cioè che può certamente averle scritte secondo il pensiero dell'anima sua, anche se egli non credeva di avere un'anima immortale, di quel Boito massone e spregiudicato in quegli anni, e massone fino alla morte, sì che lasciò disposizione testamentaria di essere cremato, secondo una disposizione che aveva carattere anticristiano sotto apparenze di igiene sociale; di quel Boito che fu rimpicciolito per il suo settarismo temperato da Verdi, che lo condusse verso Dio, portandolo a cantare le bellezze cristiane dell'Orto nel Nerone, ma che non riesci mai a capire bene la fede di Verdi. Se l'amicizia del Manzoni fu benefica a Verdi e ci ottenne la Messa di Requiem, l'amicizia di Boito con Verdi fu deleteria nel senso religioso quanto fu utile nel campo dell'arte; e questo per alcuni anni, fino a quando Verdi ritornò a influenzare, come dicemmo, Boito, che lo seguiva, per rispetto all'uomo, dovunque anche nelle chiese ad ascoltare la Messa. Boito in questo senso va annoverato (pur con tutto il rispetto alla sua anima in lotta dolorosa tra l'ateismo e la fede) tra coloro che negli ultimi decenni del secolo defunto e nei primi del ventesimo credettero di schierarsi fra gli immortali ignorando ostentatamente quella religione alla quale si deve se il mondo non è ancora piombato in degradanti barbarie, e se Roma è ancora doppiamente faro di luce al mondo intero. Camuffati sotto il manto della scienza, della civiltà e del progresso... e dell'umanitarismo internazionale... La grandezza di Boito ne scapita da questo suo atteggiamento, anche se attenuato assai negli ultimi anni di vita. Con tutto questo però quel « Credo non finisce per farsi coonestare completamente. Maggiore delicatezza cristiana lo avrebbe soppresso. Verdi lo lasciò, purificandolo con quell'« Ave Maria », che non raggiunge tutto lo scopo... E allora diciamo subito che questa delicatezza in Verdi in quegli anni non c'era. Non l'aveva. Aveva anzi una crisi insondabile. Aveva una tempesta in cuore che lo inclinava ancora una volta verso quel pessimismo che era nel fondo della sua natura. Vogliamo sentire l'eco di questa tempesta nera nelle sue parole? « Non potete immaginare come sono inquieto, stizzoso, rabbioso. Non ne so la causa, ma è così. Che tempi! Dove andremo a finire?... » Prova a scacciare questi tristi presagi, anche quando i Ministeri gli sembrano funesti all'Italia, l'uno più dell'altro: « Ma non parliamone perché è troppo triste! Ed oltre a tutti questi mali, miseria dappertutto, morto il commercio, sfiducia negli onesti, speranza nei bricconi... Evviva adunque e stiamo allegri... ». Ma non gli riesce: « Leggo giornali, e, cosa singolare, moltissimi; di più qualche libro pessimo, perché quando sono di cattivo umore leggo i libri più scellerati ». Che però finiscono col farlo ridere, a fior di labbra. Tra questi libri c'era quella storia dei Papi del barone Mistrali, tanto set-tarda che fu riprovata perfino dal Carducci, il quale per il Pontificato Romano non aveva certo grandiose simpatie. Le frasi intercalate o messe per finire nelle sue lettere sono spessissimo: « Chi sal... Mah!... e poi?... ». E quanti punti esclamativi dopo quei « Mah », che sono proprii di chi « cor contento non ha ». Il Morelli gli scrive che: « Quando sono nello studio e non so come fare a dipingere, non so come dirigere la niente, non vedo nulla, mi basta a bassa voce la « Vergine degli angeli » e mi rinnovo, mi esalto, veggo i colori, quel mistero dell'intonazione che è tutta l'espressione della pittura; io veggo come una cosa reale, soggetto, tutto, mi sorride la speranza di fare qualche cosa, e allora, benedetto Verdi! » Ma Verdi « inquieto, stizzoso, rabbioso » gli risponde: « Quelle note sono una cosa e io un'altra... Cosa importa che tu pensi alla « Vergine degli Angeli... ». Accompagna il Carcano a Messa ma si ferma sulla soglia; accompagna pure a Messa la moglie e va a riprenderla a funzione finita, ma lui cerca di distrarsi tra i mercati, « in mezzo alla folla che traffica », forse per calmare coi tumulti dei mercati il tumulto che gli agita la vita, in questa crisi fisico-morale. La morte di Wagner lo fa esclamare: « Triste ! Triste! Triste !... ». Non tanto per quella morte che lo « atterrisce » poichè « è una grande individualità che sparisce, un nome che lascia un'impronta potentissima nella storia dell'arte », come egli si esprime, ma anche perchè egli stesso è terrorizzato dal pensiero della morte. Abbiamo detto terrorizzato: è il cozzo poderoso della sua fibra gagliarda e possente che urta contro i settant'anni, e teme di essere abbattuto, sommerso nella tomba, nella inerzia, nel nulla... Così pensa umanamente, come umanamente siamo portati a pensare quando sulla notte tetra di questi pensieri non risplende il raggio della fede. Anche S. Paolo ha provato il taedium vitae, e i Santi anche più forti e dominatori hanno qualche volta avuto paura della morte, vincendo poi questo terrore con la fede vivificata dalla grazia. La fede in Dio e nella vita eterna è meritoria appunto perchè è frutto di volontà che vede la verità e vuole: « Video meliora proboque... di volontà che vince le debolezze della natura. Lo atterrisce adunque il pensiero della morte: « Ah, la salute, la salute !... Io non ci pensavo più da molti anni, ma non so cosa sarà dell'avvenire. Gli anni cominciano proprio ad esser troppi e penso... penso che la vita è la cosa più stupida, e quello che ancor è peggio, inutile. Cosa si fa? Cosa abbiamo fatto? Cosa faremo? Stringendo ben tutto, la risposta è umiliante e tristissima: Nulla! Addio, mia cara Clarina. Schiviamo ed allontaniamo le cose tristi per quanto si può e vogliamoci bene fin che si potrà... ». Gli resta l'amicizia, di cui i grandi hanno sempre avuto un culto. Non gli regge l'animo di finire l'Otello: per chi? e poi? « Si nasce, si sciupa la vita il più delle volte inutilmente, si arriva all'epoca degli acciacchi e delle malattie, e poi... Amen Aveva avuto « una leggera bronchite, con tosse asciutta, insistente, indiavolata... », al tempo in cui aveva finito di girare per la Messa di Requiem; ma poi c'era stato in lui quel presentimento della morte che prende l'uomo verso i settanta; qualcuno resta schiantato quasi d'un subito, altri declina lentamente, qualcuno rifiorisce inaspettatamente. Così avverrà di Verdi la cui potenza fisica e intellettuale raggiunse l'apogeo a ottant'anni. Il suo temperamento si equilibrò, si ingentilì, si aristocraticizzò; ed egli fu l'uomo superiore in tutto il senso della parola. Ebbe virilità che pareva eterna. Ma intanto, prima dell'Otello andava ripetendo: « Lavorar tanto, e poi dover morire! » lasciandoci comprendere che la sua malinconia, la sua crisi non era solamente fisica, ma anche spirituale, morale, per la brama ardente di rinnovare se stesso, e sentirsi venir meno le forze, quando più possente gli urge nel fondo dello spirito una volontà creatrice, che si affloscia per il peso degli anni. Quando muore Giulio Carcano scrive alla Clarina dell'ultimo incontro con lui: « Lo accompagnai fino alla porta della chiesa. Arrivederci... e non lo vedrò più. Ahimè, ahimè !... Arrivati alla nostra età ogni giorno abbiamo un vuoto attorno a noi, e per quanto rassegnati non si ha sempre la forza che aveva appunto questo nostro ultimo Santo (proprio ultimo) per sopportare senza mormorare... Non vi scandalizzate mia cara Clarina ». Anche i poderi di Sant'Agata non lo distraggono ; li vuole tutti affittare per non aver pensieri: « Ora e per sempre addio, sante memorie », sembra dire con il suo Otello...: « Giornate queste laboriose, antipatiche, senza poesia,... giornate di cifre,... cose prosaiche, prosaicissime ; ma purtroppo senza di queste non si mangia. Povera natura umana! E noi che ci crediamo gran cosa, spiriti superiori e... Mah!... Ecco un altro dei suoi Mah: «Pare impossibile e pure è vero... Mah! M'occupo e scrivo... Scrivo, perché scrivo, senza scopo, senza preoccupazioni, senza pensare al poi... anzi con decisa avversione al poi ». Sfiducia che riguarda la musica e si riverbera su tutto. Nel giorno onomastico scrive: «E' proprio oggi il giorno terribile. Sono 72!... E come sono passati presto malgrado tante vicende e tristi e liete e tanti strapazzi e fatiche. - (Da notare tutti quegli « e » incalzanti...). - Ma abbandoniamo questi pensieri, che approfonditi troppo portano allo sconforto... alla disperazione. E voi come ve la passate, mia cara Clarina?... Alla nostra età si sente il bisogno come di appoggiarsi. Ancora pochi anni sono mi pareva di bastare a me stesso e di non aver bisogno di nulla. Presuntuoso ! Adesso capisco che... sono vecchio assai... ». Bello quel presuntuoso, che tanti sono obbligati a dirsi al termine della loro vita quando debbono piegare agli anni e alla verità eterna... Lui presuntuoso? lui « il villanello delle Roncole? » « Egli è che malgrado sia al mondo da tanto tempo e che n'abbia visto di tutte le sorte, ho imparato poco, e la scorza del contadino è rimasta sempre, e tante volte l'antico villanello delle Roncole appare in tutta la sua grandezza. Mah!... ». Passeranno questi giorni grigi. Su di essi si sono buttati scrittori e scrittorucoli, giornalisti e pennaioli, e si sono fermati lì, si sono impuntati lì, si sono imbizzarriti lì... Per loro non esiste che un Verdi di questo pessimismo cupo, e di questi anni grigi, di queste ore di tristezza e di crisi, ripetiamo, fisico-morale. Quando rispunterà la senzazione di « poter ancora robustamente lavorare », come dice il Roncaglia, che è tra gli spassionati conoscitori e indagatori della vita e opere verdiane, quando sentirà in coscienza di avere qualche cosa di nuovo e di alto da dire, tornerà all'ottimismo, al lavoro, alla fatica, e ci darà il Falstaff tanto lontano da quella eterna malinconia che « su tutto, attorno a tutto, per tutto è nell'Otello, malinconia che viene diritto dal cuore di Verdi ». Noi non ci fermeremo qui a dire, col Grassi: « Questo è Verdi! » Noi procederemo con il Maestro e lo troveremo nei cieli non più burrascosi del pessimismo ma della serenità sicura e creatrice, che guarda il mondo sorridendo, che non teme la morte vicina o imminente e canta il Te Deum del ringraziamento e della speranza. A questo punto diamo la parola al Gatti, che è certamente il migliore biografo di Verdi: « Ma non bisogna credere in tutto e sempre alle dichiarazioni di Verdi: sono sentite sì e confidate agli amici più intimi, con sincerità schietta, ma sono espressione del suo animo malinconico, chiuso, scontento piuttotosto per inappagato desiderio di bene che per coni finzione ». Con le parole vanno esaminati anche i fatti e noi li esamineremo. Intanto, eccolo, quale Farinata degli Uberti, ritto dinnanzi al mondo: « Che gioia! — scrive a Boito, durante la preparazione del Falstaff — Che gioia poter dire al mondo: Siamo qua ancora!!! A noi! » Quale velame di tristezza tornerà ancora: « Non poter far nulla... » che vincerà parlando a Dio e alla Vergine in note caste e rasserenanti. Dal cinico-tragico « Credo » di Jago — (se si vuol dargli significazione indiretta) — al comico-tragico monologo sull'onore di Falstaff, alle composizioni sacre, il cammino è sterminato e diciamo: « Questo è Verdi! » che sorge e si innalza nell'arte e nello spirito: è nostro dovere salire con lui! LA CONQUISTA PIU' ALTA: « FALSTAFF » Nelle memorie storiche del Seletti su Busseto stampate nel 1882, si scriveva che il « genere buffo non poteva accordarsi con la sua natura e a melodrammi completi di simile carattere non attese mai più dopo il Finto Stanislao... ». Ma Verdi doveva ancora scrivere l'Otello e il Falstaff, che non è precisamente un'opera buffa, ma un'opera umoristica. Di scrivere un'opera buffa o comica Verdi aveva sempre desiderato, ma sempre gli era mancato il libretto. Quando il Sindaco di Milano, Gaetano Negri salutò Verdi, mentre stava per lasciare la metropoli dopo il successo di Otello, ebbe un accenno che toccò il più intimo desiderio del cuore di lui, chiedendo che tornasse ancora una volta alla Scala con un'opera nuova: « Un'opera buffa... ». Forse in qualche conversazione privata, così di sfuggita Verdi aveva detto al Ricordi e a Boito che nel 1849 aveva gustato assai Le allegre Comari di Windsor del Niccolai? Forse aveva detto che aveva sempre desiderato di smentire l'affermazione del Rossini a suo riguardo? Fatto sta che Boito e Ricordi sembrano accordarsi nello spingere il Maestro a comporre ancora e lo stuzzicano con l'opera buffa... « Bisogna pensare a fare un altro lavoro insieme, gli scrive Boito, perchè altrimenti noi, che non amiamo le lettere oziose, finiremo a scriverci ad ogni morte di Vescovo ». Ma intanto la sua vita è quella « del borghese benestante » e benefico giacchè il 6 novembre 1888 si inaugura l'ospedale di Villanova d'Arda con la sola cerimonia del ricovero dei primi dodici ammalati. Intanto si prepara a Milano e in tutta Italia la celebrazione del giubileo artistico di Verdi, nel 50.o anniversario dell'Oberto, conte di S. Bonifacio: cosa che spiace immensamente a Verdi: « Ahimè ! Ahimè! Non ho più nulla da aggiungere dopo quanto scrissi ripetutamente a Giulio ed a voi: solo dico ancora che fui, sono e sarò sempre contrario alla celebrazione di questo giubileo ». Ma Boito sta all'erta: sa che Verdi sta per partire per i bagni di Montecatini, e quasi distrattamente, con noncuranza, alla sorniona, manda un libretto a Verdi da leggere, quale passatempo... E Verdi ne è preso! Il libretto... lo invoglia e sforza a rileggere. Le allegre comari, e lo Arrigo IV, da cui è preso. Poi scrive: « Dico cosi per dire... e non badate a quel che dico... » dando il suo giudizio del libretto ; poi ancora legge rilegge, sogna, desidera... Quésto Falstaff, o Comari, che era due giorni fa nel mondo dei sogni, ora va prendendo corpo e può diventare una realtà. Quando? come? Chissà!!! e ne scriverò domani o dopo ». C'è dunque in lui quel « Fervor seu furor » di lavorare « mentre amore spira e detta » e sente che ha bisogno, — pensando agli anni — che gliene siano tolti una diecina: «E allora che gioia! poter dire al pubblico: Siamo qua ancora!! A noi! » E poichè Boito assicura Verdi che lo scrivere il libretto del Falstaff gli è un divertimento e non comporta danni al suo Nerone, Verdi scrive: « Amen e così sia. Facciamo adunque Falstaff ». Quando Boito gli manda molti versi già pronti a Sant'Agata poche settimane dopo: « Evviva!, dice Verdi, mi sembraun sogno !...» A tutto il mondo sembrò un sogno quando si seppe della nuova opera verdiana... Non gli spiace nemmeno che sia lungo il libretto, come gli annuncia Boito, nè fa ritocco alcuno alla poesia stessa, e nemmeno al terzo atto pensa a dare forbiciate alle parole: la musica segue e insegue le parole, e la mente vegeta, giovanile, esuberante dell'ottantenne Verdi compone fresca e serena. Una sosta al principio del 1890, in cui Verdi cura gli interessi di Sant'Agata, e si sente scomparire anche una ripresa di estro musicale per il suo Falstaff per la morte del Muzio e del Senatore Piroli: « Lascio considerare a voi il dolore che ho provato e che provo: scrive alla Waldman. E così ho ben poca volontà per scrivere un'opera che ho incominciata, ma poco avanzata. Non badate alle darle dei giornali. La finirò? Non la finirò? Chi sa! Scrivo senza progetti, senza scopo, unicamente per passare alcune ore al giorno Nell'inverno Verdi va a Genova ma la morte di Faccio lo rattrista ancora talmente che « non può riscaldare la macchina » e « Il Pancione non va avanti... ». Ma ad un certo punto Verdi ritrova la serenità l'umore necessario per comporre l'opera buffa: « Il Pancione? Poveretto! Dopo quella tal malattia di quattro mesi è smilzo smilzo ! Speriamo di ritrovare qualche buon cappone per rigonfiargli l'epa! Tutto dipende dal medico !... Chi sal... Chi sal... Chi sal... Il Pancione è sulla strada che conduce alla pazzia. Vi sono dei giorni che non si muove, dorme ed è di cattivo umore: altre volte grida, corre, salta, fa il diavolo a quattro!... Io lo lascio un po' sbizzarrire; ma se continua gli metterò la museruola e la camicia di forza ». Inutile dire che Boito dà un balzo di gioia a queste parole doppiamente falstaffiane. Il 10 di settembre 1891 Boito crede di poter congratularsi con Verdi perchè crede finito il Falstaff. « Sto lavorando a mettere in partitura tutto quello che ho fatto, perchè temo di dimenticare alcuni squarci ed impasti d'istrumenti A. Ma nell'inverno del 1891-92 Verdi si ammala, dopo che si era ammalata la Peppina, e lo stesso Boito aveva avuto un'influenza fortissima. Forse anche in quell'inverno Verdi dovette chiedere il permesso alla Curia Arcivescovile di Genova di avere la S. Messa di Natale in casa, come aveva fatto nel 1890, secondo il racconto di Lorenzo Alpino, sopravvivente e che servi la S. Messa in casa Verdi in quella stessa notte. Nel febbraio non si era ancora rimesso: « Ne risentiamo ancora; io per una debolezzza grandissima che mi impedisce qualunque lavoro phe duri più di mezz'ora; e la Peppina per assoluta mancanza di appetito ». Partecipa alle onoranze rese a Rossini alla Scala, dirigendo la Preghiera del Mosè, ritorna al suo Falstaff, 19 — F. BOTTI, G. Verdi incontentabile anche nei più minuti particolari, e s'arrabbia quando sa che Boito e Ricordi stanno già pensando alla messa in scena, mentre egli non soffre imposizioni palesi o larvate. Ha qualcuno dei suoi scatti di vent'anni prima, e solamente quando egli lo crede comincia a dare suggerimenti per le scene e per i personaggi. I protagonisti, dopo il Maurel, li sceglie con cautela. E al principio del 1893 lascia Genova per le prove a Milano, che cominciano il 4 di gennaio. E' instancabile, non dimostra spossatezza alcuna, lavora, si riposa tranquillamente, torna al lavoro sereno e calmo. La Strepponi informa di tutto la sorella: « E' incredibile il lavoro che Verdi ha fatto e fa tuttavia e farà dopo la rappresentazione del Falstaff, che, se ostacoli di malattie od altro non vengono a frapporsi, andrà, se Dio vuole, in scena la ventura settimana. Aggiungi il numero infinito di lettere, di domande d'ogni sorta, che in mezzo a questa complicazione di lavoro assiduo, materiale e morale, vengono ad assediarlo, ad opprimerlo ed avrai così un'idea della vita di Verdi in questi giorni! I seccatori, gli ammiratori, gli amici e i nemici, i veri musicisti, quelli che vorrebbero far credere di esserlo, i critici veri, i parolai maldicenti sbucheranno a frotte da tutte le parti del mondo. Le domande di posti continuano come se il teatro dovesse essere grande come la piazza d'armi! Sono andata ieri sera la prima volta alle prove e, se devo giudicare con la mia testa e dalla mia impressione, mi pare l'avvenimento di un genere nuovo, anzi la data di un'arte nuova, musica e poesia! Vedremo cosa dirà il Gran Consesso, il rispettabile pubblico D. E il pubblico, il 9 febbraio 1893, resta ammutolito più che entusiasta per il nuovo genere di musica verdiana. La ressa era cominciata alle otto del mattino, e si era pranzato sulla strada anche se la giornata era freddissima ; i ricchi sborsarono somme altissime per i palchi ; assistè anche il Ministro della Pubblica Istruzione, alcuni Principi, e lo stesso Carducci. Gli applausi dànno l'impressione di una ammirazione e di uno stupore senza misura. Il popolo dopo lo spettacolo, ne prepara uno per suo intuito e stacca i cavalli dalla carrozza di Verdi che esce dalla Scala, lo accompagna così fino all'albergo, mentre tutti gli illustri personaggi presenti alla rappresentazione fanno omaggio ai lati dell'ingresso dell'albergo, dove il suo appartamento è inondato di fiori, tra i quali spicca una corona di alloro con foglie che portano ognuna, il nome di un'opera di Verdi, e qualcuna è senza iscrizione come ad accennare che il nome di qualche altra opera è atteso. Sono gli onori a un Sovrano, e se gli onori rendessero felice un uomo, Verdi avrebbe dovuto conoscere le più alte vette della felicità. A Roma tali onori hanno una forma più eletta con la partecipazione alla rappresentazione di Falstaff di Re Umberto e della Regina Margherita. Re Umberto lo prende per mano e lo presenta al pubblico. Due Sovrani incomparabili stanno vicino. Uno della millenaria stirpe italica dei Savoia, cui bontà irradia la fronte, l'altro il figlio della terra e della itala gente « dalle molte vite » che è salito indomito e dominatore nel regno dell'arte per allietare il mondo. Un mese fa moriva Edoardo Mascheroni, la cui scomparsa fece ricordare a tutti la prima rappresentazione del Falstaff e quella di Roma, le sue più luminose vittorie di tutta una brillante carriera. «Era stato Verdi, a imporlo alla Scala, a volerlo al suo fianco, a valido collaboratore nella prima rappresentazione dell'opera alla quale tutto il mondo guardava con la più trepida e commossa aspettazione ». Verdi lo chiamò poì il terzo autore della sua opera, essendo Boito il secondo, e gli donò lo spartito del Falstaff con queste parole: « Dieci con lode al direttore d'orchestra ». Aveva 35 anni. Di Roma il Mascheroni ricordava quando Re Umberto, rompendo le regole di etichetta presentò a Verdi l'attuale nostro Sovrano, dicendo: « Permetta che le presenti mio figlio ». Dopo la recita, l'orchestra si raccolse sotto le finestre dell'albergo dove alloggiava Verdi e dove si era adunata una folla immensa di ammiratori: « Mascheroni dà il segno di attacco ed ecco, nella notte primaverile tutta colma di stelle e di sottili fragranze — (15 aprile 1893) — salire dall'orchestra ammassata nella strada le accese note della sinfonia Lombardi. Le prime note sono quasi sommerse dall'urlo fremente della folla: « Viva Verdi!... » Altri pezzi seguirono tra applausi e grida della folla fremente: « E' facile immaginare quello che avvenne quando si vide aprirsi lentamente una cìcP2. finestre dell'albergo e una testa bianca protende quasi, per ringraziare la folla acclamante. L'indomani, quando Mascheroni si recò all'albergo per ossequiare il Maestro questi gli venne incontro sorridendo e battendogli una a mano sulla spalla gli disse: « Pare adunque che anche qui il nostro Falstaff non sia dispiaciuto. Meglio così Poi Verdi, che aveva dato ordine al suo Falstaff, con poche righe scritte nella partitura originale e ritrovate da Toscanini, di andare in giro per il mondo: (« Divertente tipo di briccone, eternamente vero, sotto maschera diversa, in ogni tempo e ín ogni luogo. Va... Va... cammina, cammina... Addio »), Verdi si ritira a Genova e lascia che Falstaff vada in giro per il mondo. Egli compie 80 anni e ricevendo gli auguri di Re Umberto risponde: « Sono orgoglioso che Vostra Maestà, nostro amatissimo Sovrano si sia degnato di ricordare il mio ottantesimo anniversario. Il vecchio artista riconoscente s'inchina e ringrazia ». Sì, il vecchio artista pensa ai suoi ottant'anni suonati, e riafferma anche al Carvahlo che non potrà andare a Parigi perchè « questo piccolo particolare » dell'età non gli permette lavoro, fatiche e noie... ma poi dimentica anche gli anni e va a Parigi dove gli onori si rinnovano e i critici definiscono Falstaff « opera perfetta di un perfetto artista, opera latina... ». Nel 1895 torna ancora a Parigi per la rappresentazione dell 'Otello, ed è allora che il Presidente della Repubblica lo trattiene nel suo palco, lo presenta al Pubblico e gli conferisce la Gran Croce della Legion d'Onore ; poi gli offre una colazione, in suo onore, all'Eliseo. COMPOSIZIONI MINORI E PEZZI SACRI Abbiamo già accennato a qualche composizione minore, come alle sei romanze edite dal Canti. Riepiloghiamo. Le sei romanze hanno questi titoli: Non t'accostare all'urna; More, Elisa, lo stanco poeta; In solitaria stanza; Nell'orrore di notte oscura; Perduta ho la pace...; Deh, pietoso... Altre due composizioni su poesia, la prima di Solera, e la seconda del Balestra, furono: L'esule e La seduzione. Abbiamo poi un notturno a tre voci (Guarda che bianca luna...) con accompagnamento di flauto obbligato. Da poesie del Maffei, Maggioni e Romani trasse altre sei romanze: Il tramonto ; La zingara; Ad una stella; Lo spazzacamino; Il mistero ; Brindisi. Seguono una Romanza e uno Stornello. Ma su di esse non è il caso di fermare la nostra attenzione. Verdi ordinò che fossero date alle fiamme alcune casse di sua musica giovanile, e non diede certamente grande importanza a queste composizioni minori. Scrisse poi l'Inno delle Nazioni. Poco da dire su questa composizione verdiana, che il grande Maestro si adattò a musicare solamente perchè anche l'Italia figurasse tra le nazioni il cui rappresentante era stato chiamato a musicare qualche cosa per l'esposizione Internazionale di Londra. Prima si era dato incarico al Rossini, giacchè Verdi aveva troppi oppositori colà, ma questi aveva rifiutato per seri motivi di salute. E' una composizione d'occasione, ma è da lodare Verdi che si adatta anche a questo per amore di Patria. I versi sono di un certo... Arrigo Boito ventenne, che lascia tanto sperare per le sue precoci doti artistiche. Il Boito frequenta il salotto di Clarina Maffei, ed è essa che lo raccomanda a Verdi, il quale si incammina verso Londra quando ha finito di comporre la musica dell'Inno boitiano. A Londra c'è il maestro Costa, membro del Comitato per la esposizione, che osteggia Verdi e con la scusa che il Maestro aveva aggiunto il canto alla musica puramente strumentale richiesta, vuole assolutamente che si neghi a Verdi l'esecuzione dell'Inno. Vendetta quella del Costa e frutto d'invidia, perchè non era stato scelto lui per tale composizione. Se l'invidia fosse febbre... Quasi ne gode il Maestro, che ha con sè la Strepponi desiosa di girare e conoscere uomini e costumi della perfida Albione. Ma il Times pubblica una nota nella quale si dice che la esecuzione non ha luogo perché Verdi ha inviato in ritardo il lavoro promesso, ed è qui che Verdi insorge con una lettera tagliente a mettere le cose a posto, ma che però gli procura una tale serqua di lettere richiedenti due righe autografe da sentirsene travolto... Mentre si eseguono le altre composizioni, Verdi ascolta e annota, si ritira in una piccola villa al largo per allontanarsi dalla curiosità e per fare viaggi con la Strepponi, e scrive infine all'Escudier: « L'azzardo che è un Dio al quale innalzerò d'ora innanzi altari, mi ha favorito bene questa volta ed io non darò la mia cantata all'Esposizione. Voi potete ben dire alto e basso e in tutti i toni possibili e impossibili che io ne sono felice. Io che non ho mai scritto Cantate, nè Inni, nè Marce: io che detesto e disprezzo tutti i pezzi di circostanza, immaginatevi come io sia contento di essermela cavata così a buon mercato... ». Ma molti sono quelli che si rammaricano che la Cantata non venga eseguita, e poichè Verdi l'ha venduta è a immaginarsi che qualcuno vorrà tentare il colpo. Il Musical World scrive un articolo in proposito e annuncia che al momento di andare in macchina gli veniva riferito che la esecuzione ci sarebbe stata e la sera medesima... Fu eseguita al Teatro della Regina ed ecco cosa ne scrisse la Gazzetta musicale : ‹( La Cantata si dovette replicare e si replicherà nelle molte esecuzioni che avrà... Nè l'ammirazione era punto scemata per essersi la Cantata rifiutata dai Commissari Regi dell'Esposizione Internazionale. Al contrario il pubblico sdegnato e frustato dall'udir la Cantata in quella solenne occasione per la quale fu composta mostrò tanto omaggio e reverenza al grande compositore quasi per vendicarlo dell'usatagli villania ». Ed avuta questa soddisfazione non chiesta e nemmeno desiderata, Verdi lasciò Londra per tornare a Busseto. Da non dimenticare l'inno: Suona la tromba, intrepido, e il Quartetto per archi in Mi minore, composto a Napoli, durante alcuni giorni di soggiorno ivi trascorsi per la rappresentazione dell'Aida. Egli non credeva nella vitalità dei quartetti in Italia. Aveva una sua opinione sui quartetti a voce, ma volle ugualmente provarsi a comporre un Quartetto d'archi. Naturalmente non ne uscì un capolavoro ma, nemmeno una cosa disprezzabile, giacchè molti pregi in esso trovano i competenti, sì che da esso a emana un certo fascino ». Durante i 13 anni di silenzio dall'Aida all'Otello compose un Pater Noster e una Ave Maria prendendo le parole dal testo volgarizzato da Dante. Nella prima composizione la ispirazione è soave, e nella seconda si trova il preannuncio della più nota Ave Maria di Desdemona nell'Otello. Ancora nel 1890 compose un'altra Ave Maria a quattro voci, sopra una scala bizzarra, che aveva attirato la sua attenzione, per la difficoltà della impresa. Ma chiamava questa composizione uno scherzo, una sciarada e non permise che si eseguisse a Parigi insieme con il Te Deum e lo Stabat Mater. Fu eseguita però a Parma nel 1895. Quando il Mascheroni gli accennò di aver visto qualche cosa di « intenzionale » sul suo tavolo, Verdi finse di scherzarci sopra come su cosa di nessuna importanza: « Voi dite di aver sorpreso sul mio scrittoio qualche foglio di partitura... Forse è vero. Volevo fare un Te Deum... Un rendimento di grazie, non per me, ma per il pubblico, per esser liberato dopo tanti anni di sentire altre opere mie ». Invece egli lo sta scrivendo, pensa di fare opera molto seria, consulta antifonari, libri liturgici, è indispettito per le varie forme di Te Deum trovate, si rivolge al Tebaldini col quale sta in lunga corrispondenza, e pensa di fare opera non per il pubblico ma proprio per sè, come vedremo. Aveva già composto le Laudi alla Vergine Maria subito dopo l'Otello, togliendo le parole dall'ultimo canto del Paradiso di Dante, come a finale del suo poema musicale, invocando la Vergine, e riallacciandosi in tal modo alla sua infanzia in cui aveva cantato chierichetto le laudi alla Vergine nelle funzioni del Mese Mariano che tanta solennità campagnola ha nella nostra pianura parmense. Vogliamo riportare le parole di Verdi scritte al Tebaldini: « Ella parla a lungo (in un libro ricevuto in omaggio), del padre Vallotti di cui io sono ammiratore anzi... riconoscente per alcuni studi fatti sui suoi temi, nella mia gioventù, ed a pag. 45 vedo citato un Te Deum del padre Vallotti. E' stata una sorpresa per me che cerco da tanto tempo questa Cantica musicata, senza trovarla nè in Palestrina nè in altri suoi contemporanei ». In una seconda lettera dà una interpretazione esatta del Te Deum, esaminandolo versetto per versetto. La musica che ne venne poi fu a sua volta la interpretazione di... questa interpretazione. Ma ancora si volge alla Vergine e compone lo Stabat Mater che è il vero canto del Cigno, e « testimonia della perenne ascendente giovinezza del suo genio ». Boito chiamava Le Laudi (alle quali diede Verdi un ritocco nello stesso tempo in cui componeva lo Stabat) il Te Deum e lo Stabat « le tre cupole del Correggio ». Questa composizione termina riconducendo l'ascoltatore al punto di partenza, al dolore della Vergine ai piedi della Croce, da cui pende il Figlio Divino come Verdi era ricondotto agli anni dolorosi della morte di Margherita e dei figli. Se ha parlato, cantato, pianto per le genti, ora « è solo col proprio cuore dinnanzi a Dio » mentre la morte sta giungendo una seconda volta nella sua casa, da cui parte Giuseppina Strepponi, nel novembre del 1898 lasciando il suo Verdi con queste parole: « Ed ora addio, mio Verdi, come fummo uniti in vita ricongiunga Iddio i nostri spiriti in cielo ». Tutta la vita di Verdi, dai primi anni dell'infanzia a quelli presso i novanta, fu un canto ascensionale... Al mondo ha fatto udire continuamente la sua voce nel canto. E un canto sacro ha preparato. Alla soglia della eternità, insieme con altri pure religiosi per musica e parole, sia la sua parola innalzata a Dio: « A Dio egli tornerà, col canto della sua gloria, invocando clemenza ». Confida ai famigliari il desiderio che quelle pagine riposino con lui nella tomba sotto il suo capo e non vedano mai « la luce del sole ». PARTE TERZA VERDI E I GENITORI La madre di Verdi era nata a Saliceto di Cadeo (Piacenza), il 29 sett. 1787, da Carlo Uttini e da Angela Villa ; sette fratellini vennero poi a farle corona e rallegrare i genitori che erano « osti » come i genitori di Carlo Verdi, che sposerà la Uttini, madre del Grande Maestro. Ancora oggi si riconosce facilmente la casa degli Uttini, segnata col n. 25 C lungo la strada comunale, e che ha ancora gli anelli che servivano a trattenere per le catene i cavalli di coloro che sostavano all'osteria. Vogliamo qui inserire una notizia circa il padre di Giuseppe Verdi, quando non ancora aveva sposata la Uttini. Siamo nel 1804: e Carlo Verdi tieno l'osteria delle Roncole, come titolare, per la prematura morte del padre giacchè egli non ha che diciannove anni, essendo nato nel 1785. Vive con la madre e con un fratello minore, mentre una sua sorella si è sposata ed è fuori di casa. Il giorno 9 di sett. 1804 si celebrava in parrocchia, e precisamente nel Santuario della Madonna dei Prati, la sagra con grande concorso di popolo. Carlo Verdi vi ci recò con la madre, lasciando alla sorella sposata la cura dell'osteria, nella quale però era minimo il concorso, a causa della sagra vicina. Ma avvenne che quattro giovinastri approfittarono della assenza del titolare per mettersi a giocare alle carte, senza badare alle rimostranze della sorella di Carlo Verdi. Furono scoperti e denunciati, mentre pene maggiori, dopo eguale denuncia, sarebbero state inflitte all'oste perchè il gioco delle carte allora era severamente proibito, e solo col cambiamento di regime lo si andò pian piano permettendo. I giovani giocavano a tressette, e per scolparsi affermarono di aver trovato le carte sul tavolo dell'osteria. La Pretura di Busseto condannò Carlo Verdi, che ricorse con un memoriale, corredato di testimonianze ineccepibili sulla sua buona condotta e sua morigeratezza. Banche in simili casi si sia molto proclivi in abbondare di lodi a discolpa, pur tuttavia le parole e il complesso delle testimonianze è tale che ci sembrano qualche cosa di più di una lode occasionale: « Attesto io sottoscritto, dichiara il Parroco Prevosto D. Giuseppe Mezzadri, essere la verità che Carlo Verdi mio parrocchiano, oste di questa villa è povero di beni di fortuna, nulla affatto possiede, ma è però giovane di ottimi costumi. D'una assai morigerata coscienza, costantemente assiduo alla chiesa, alla Dottrina Cristiana, ai Sacramenti, alieno affatto dai bagordi, nemico dei giochi, delle pericolose compagnie, da quanto può offuscare quel buon nome e quella buona estimazione che ha sempre goduto e gode tuttora presso li buoni, presso questa villa non solo, ma le limitrofe ancora, in conferma delle quali cose genuine tutte si rilascia da me sottoscritto il presente certificato in contestazione della verità P. Ma anche i deputati delle Roncole dichiararono con entusiasmo che: « è sicuramente giovane dotato di lodevoli costumi, presso di tutti di buon nome e fama, non mai stato inquisito, religioso, pio, esemplare e nemico affatto di qualunque sorta di gioco... va guadagnando nelle più oneste maniere a se stesso ed alla propria madre vedova, e a un fratello ancora in età pupillare il vitto ». Notiamo che il Presidente del Consiglio di Giustizia Criminale non tenne nessun conto di tante buone testimonianze, perchè la contravvenzione inflitta dalla Pretura era già passata in atto, e molto facile gli riusciva dire che «La legge è santissima ; sono necessari gli esempi di rigore, e non si crede quindi conveniente accordare l'implorata condonazione di pena ». Questo era adunque il giovane che, il 30 gennaio 1805, domandò la mano di Luigia Uttini, che dava alla luce nell'ottobre del 1813 il figlio Giuseppe, al quale seguiva nel 1816 una sorella omonima, come notammo già bellissima, ma inferma e senza uso completo di ragione, morta nel 1833, a 17 anni. Quando Verdi si avviava nei campi luminosi della gloria i suoi genitori lo seguivano con trepidazione dalla piccola osteria delle Roncole, nella quale continuavano ad esercitare il loro mestiere, fino ad alcuni anni prima del 1850, in cui Verdi comprò per loro una casa a Vidalenzo, presso Sant'Agata, dove egli stava trattando per la compera della Villa Merli, nella quale si recò poi ad abitare nel 1849. I motivi per cui non al20 - F. BOTTI, G. Verdi logò i suoi genitori in detta Villa sono a ricercarsi nella sua convivenza con la Strepponi, ch'egli non voleva far conoscere loro, per non amareggiarli, ma che forse conobbero, derivandone non poco amarezza specialmente alla madre, che nel giugno del 1851 moriva, mentre non molto dopo si ammalava gravemente anche il padre che sopravviveva però fino al 1865, morendo a 80 anni. Vediamo come racconta la morte di Luigia Uttini-Verdi, il Gatti: « Si ammala la vecchia madre del Maestro — aveva 64 anni — e il 30 giugno del 1851 muore. L'affetto portato da Verdi alla buona donna, che gli aveva col sangue trasmessa la fierezza dell'animo e la volontà indomabile è immenso. Verdi dà esequie onorate alla spoglia materna e la fa seppellire nel piccolo cimitero di Vidalenzo... Vuole lasciare Busseto, fuggire lontano per qualche tempo, togliersi dai luoghi che gli son dolorosi... ». Ma solo alla fin d'anno parte per Parigi. Ci piace pensare che la lapide fatta apporre da Verdi sulla tomba della sua mamma sia stata dettata da lui stesso come lascia capire il testo sobrio e mesto: « Pregate — per l'anima di Luigia Uttini — Madre — Al Maestro Giuseppe Verdi — morta in Vidalenzo — il 30 giugno 1851 ». Non molti anni dopo si costruiva a Vidalenzo il nuovo cimitero, a sostituire il primo piccolo e senza più posti disponibili: il padre di Verdi fu inumato in questo secondo camposanto, e il Maestro pensò di fare riunire i resti dei suoi genitori asportando dal vecchio camposanto le ossa della madre. La nuova lapide dice: « Qui riposano - Carlo Verdi e Luigia Uttini Dai quali nacque - Giuseppe Verdi - Onore della musica italiana ». E questo ci fa capire che le parole furono dettate da Don Avanzi, il quale non aveva voluto però distruggere la prima lapide ma bensì murarla nella cappella, per rispetto a chi l'aveva dettata che era « onore della musica italiana » e onorava grandemente lui, della sua amicizia. Non abbiamo altri documenti circa la morte della madre di Verdi, ma mi pare che più di tutti sia da ricordare il Trovatore, l'opera dove la malinconia domina su tutte le note spettacolose e fantastiche. Il 17 luglio del 1852 muore a Verdi un amico di tante speranze, e verso il quale aveva sen:- pre usato tanta deferenza e rispetto: il Cammarano. Nell'anno seguente, in aprile, morirà Luigi Toccagni « caro compagno della sua giovinezza ». Anni di lutto e di mestizia. Tutto questo ci spiega ancor meglio la frase a proposito del Trovatore: «Dicono che quest'opera sia troppo triste e che vi siano troppe morti; ma infine nella vita non è tutto morte? Cosa esiste? » E chi è che per tali circostanze dalla morte della mamma a quella del Cammarano non gli darà ragione? Dopo che Verdi aveva cantato l'amore e le virtù di Gilda, a due mesi di distanza si vide morire la « madre », per cui aveva forse dettate le note amorose e di tenerezza nel Rigoletto, che ci rivelano ancor meglio come egli rimanesse tanto addolorato da tale perdita da restare due anni o quasi senza dare opere nuove. E anche nel Trovatore passa un accento sincero e soave per il santo nome di madre, mentre in tante altre delle sue opere è cantato l'amor paterno. Altri due cenni storici: la tomba dei genitori di Verdi si trova ora nel cimitero di Vidalenzo, nella chiesa-cappella mortuaria, ed è costituita da un cosidetto forno, nel quale sta una cassetta di zinco, contenente le ossa esumate nel 1935, con religiosa pietà, e nella quale occasione si tenne in Vidalenzo, dove vivono moltissimi ancora che ricordano il Maestro e la sua pietà filiale verso le spoglie mortali dei genitori, una solenne celebrazione religiosa e patriottica. La lapide primitiva che ricordava i « genitori di G. Verdi, onore della musica italiana è stata conservata e riposta sulla attuale tomba. A Vidalenzo fu parroco per più di trent'anni il Canonico Avanzi, e più precisamente dal 1857 al 1888, che assistette il padre morente di Verdi e dettò la lapide anzi ricordata. Don Avanzi fu uno dei sacerdoti che più intimamente conobbero Verdi, sia perchè lo aveva avvicinato a Busseto in ancor giovane età, sia perché passava per un prete di... sentimenti liberali, come si diceva allora di un sacerdote che nel trambusto politico del secolo condivideva le idee dei patrioti italiani per Roma capitale, tanto che per liberale passò anche don Alberto Catena, e per un certo tempo lo Stoppani, che per non destar sospetti si chiuse ermeticamente nei suoi studi di geologia. Ma si ricorda che Don Avanzi, oltre che fervente patriota era sacerdote di specchiata morigeratezza e altissimo spirito sacerdotale, e meritava bene l'amicizia del Maestro che lo invitava a pranzo mandandolo a prendere dal suo cocchiere quasi ogni giovedì, come ancora ci dice Basilio Pizzola, ultimo servo di Verdi sopravvissuto a Sant'Agata e come ci conferma la tradizione locale di Vidalenzo, dove anzi si afferma che « Don Avanzi fu amico intimo di Verdi, il quale quasi giornalmente faceva visita a Don Avanzi in Canonica, ove si tratteneva in lunga conversazione »; la quale assiduità vogliamo noi congiungere col ricordo del Maestro e le sue visite alla tomba dei suoi genitori. Verdi nel marzo del 1852, a pochi mesi dalla morte della madre, vede ammalarsi gravemente il padre, che si riavrà poi dal male lentamente: « Le disgrazie e i dispiaceri si succedono da qualche tempo con rapidità spaventosa ; io che darei tutto per un po' di pace e che faccio tutto per tenerla, non posso riescirvi: ho un bel girare di paese in paese, dalle città rumorose alle campagne quasi disabitate, tutto riesce inutile ». Dal che appare come anche Verdi sia ricorso al diversivo di girare per il mondo con la speranza di lasciare ovunque qualche brandello del suo dolore, e ritrovare un poco di pace ma senza riescire a trovarla... poichè il dolore ci accompagna come l'ombra, più o meno visibile, per tutta la vita, e troppo spesso ci prende in modo che solamente la fede può dar refrigerio e conforto per continuare la vita stessa. La morte del padre di Verdi, che da alcuni anni lasciava presagire la sua dipartita, avvenne il 14 gennaio 1887, quando il Maestro era a Parigi per il Don Carlos che andava in scena a giorni. Carlo Verdi era figlio di Giuseppe Verdi e Bianchi Francesca, ed era il quarto di sette figli dei quali ecco i nomi: Rosa, Domenica, Marc'Antonio, Carlo Gius., Maria Maddalena, Anna Maria, e ancora Marc'Antonio, a rinnovare il nome del l'altro omonimo premorto. Carlo Verdi morì di ottantadue anni, lasciando pravvivente solamente una sorella di lui più anziana, e una nipotina in tenerissima età, che Verdi ordina di far venire da Vidalenzo a Sant'Agata, perché siano curati dai domestici, due domestici che aveva lasciato a Sant'Agata, senza avere molta fiducia in loro dopo la fuga del fattore. Per essi scriveva alla Maffei: « Immaginate, io che credo così poco, se posso credere alle virtù di due domestici che sono ora, si può dire, padroni in casa mia... ». Ma aveva le sue ragioni per diffidare. Ma torniamo alla morte del padre. Sempre dal carteggio con Clarina Maffei abbiamo questa lettera: « E' questo un anno per me maledetto, come lo fu il 1840. Da due mesi non sento che morti e disgrazie d'ogni sorta ; e mi sono tanto più dolorose in questo che, è ben vero, è il più grande paese del mondo, ma che non posso sopportare a lungo. Non vedo l'ora di partire, di arrivare a casa... ». Ed ecco una lettera della Strepponi al Corticelli: « Le tue lettere giungono sempre gradite, ma in questo momento di tristezza sono una goccia di rugiada sul cuore afflitto. Il padre di Verdi, ottuagenario ed ammalato da quattro anni, fini di penare e rese l'anima a Dio il 14 del mese corrente. Per quanto l'età e la malattia facessero prevedere prossima la fine, pure il peggioramento e la morte furono così rapidi da aumentare, se è possibile, il dolore di questa perdita. Verdi ne è addoloratissimo, ed io, ad onta che abbia vissuto pochissimo con lui e fossimo agli antipodi nel modo di pensare, ne sento vivissimo rammarico e forse tanto vivo quanto quello di Verdi. Povero vecchio !... Dio abbia misericordia di lui e lo benedica con noi nell'eternità ». Questo rude lavoratore della Bassa Parmense aveva un senso innato di rispetto alle leggi divine e della Chiesa, per cui non aveva provato che amarezza insieme con la consorte sua, per la unione illegale di Verdi, nei primi anni con la Strepponi, imputandone la colpa alla Strepponi stessa... Ecco gli antipodi ai quali accenna la Strepponi. Ma sono « antipodi » che onorano l'anima del padre del Maestro e che fanno esclamare a pentimento alla Strepponi stessa, e a desiderio di unione nella vita eterna: « Dio lo benedica con noi nell'eternità. ». VERDI E LA STREPPONI Dobbiamo ora parlare della Strepponi, nata a Lodi 1'8 ottobre 1815, due anni dopo la nascita di Verdi. Le furono imposti tre nomi, l'ultimo dei quali, - Giuseppina, - passò al posto del primo sì che per tutta la vita così la chiamarono, con gioia della stessa Strepponi la quale si compiaceva di avere con Verdi « un comune Santo Protettore »: San Giuseppe, che si potrebbe chiamare il Santo del Risorgimento italiano, giacchè i più grandi fattori di esso, da Garibaldi a Mazzini, portavano quel nome. Nacque da famiglia di suonatori e di cantanti ; il padre le morì a Trieste nel 1832, dove aveva portata la famiglia nel 1828, lasciandone alla giovane figliola tutto il peso mentre vedeva spalancarsi innanzi la più terribile miseria, come già prima il padre era passato « tra i fantasmi della gloria e le limitazioni della realtà ». Essa si avvia verso la carriera del teatro, con un senso di malinconia e di trepidazione che la fanno quasi presaga dei trionfi e delle amarezze grandi che l'attendono. La scrittrice Mercede Mundula, la impareggiabile biografa della Strepponi, dice: « Il teatro verso cui è spinta inesorabilmente è un insaziabile divoratore che distrugge non solo la vita, ma qualche cosa di più caro della vita: la sua fragranza... Questa giovinetta che sta per calcare le scene, ha una educazione, una delicatezza d'animo, una qualità d'ingegno che sono l'opposto di quelle occorrenti nel mondo, violento, subdolo, tempestoso del teatro ». A Trieste si rivela il 31 ottobre 1834, in una esibizione a carattere familiare in cui affascina per la sua voce gli uditori. Non tardano a saperlo gli impresari che sono in quel frattempo i tiranni del teatro, e sono i padroni degli artisti. Tra questi abbiamo avuto modo di conoscere Bartolomeo Merelli, « aquila e Napoleone degli impresari », che con un mezzo canagliesco era riu:.c:to a farsi nominare Ispettore generale degli Imperiali e Regi teatri. Dapprima la Strepponi è scritturata dal Lanari, ma è richiesta dappoi dal « lussuoso, sagace, fastoso Merelli ; anno 1835 ». La Strepponi ha vent'anni e il Merelli il doppio; « la giovanissima cantante entra in « possesso » del Merelli e per fatalità di cose la parola acquista un significato totale ». Lo scaltrissimo impresario non è uomo di scrupoli e l'arte teatrale e « il tramenio che l'accompagna » non son fatti per gl'ingenui, e « virtuosa canaglia, bench'è applaudita e brava » è definita dal Barbiera la gente che del teatro vive. Il rispetto al dolore e al rimorso che durò tutta la vita in questa creatura d'eccezione, ci impone poche parole e delicate. « L'incauta non perdonerà mai a se stessa la propria colpa, che pure ha tutte le attenuanti ; colpa che alla cantante aprì le porte della gloria, alla donna quella del dolore. L'esperienza è tragica per la sua anima; non impunemente si passa per certi sentieri... Per questo non accennerà mai nel futuro ai suoi trionfi di cantante: vi era in ciò il segno della sua naturale modestia, ma vi era per gran parte l'impulso di un accorato dolore. Un figlio è nato da quel legame, che il padre legalmente sposato, non può legittimare: a quel figlio della colpa l'esistenza di Giuseppina resterà inchiodata come ad una croce... Ma essa nè abbandona il figlio nè si abbandona. Cerca di trovare in se stessa la forza per riprendersi. Disgustata di quel mondo in cui si aggira, vittima di quel mondo, lascia trapelare ben poco delle sue sofferenze... esce dall'amara esperienza dolente ma non stroncata, perchè dopo la caduta si fanno manifeste le potenze dell'anima: gli esseri non temprati precipitano come massi inerti, gli altri si risollevano con disperata energia che ne centuplica le forze ». Inutile ricordare i suoi trionfi che furono veloci da un teatro all'altro: Vienna, Trieste, La Scala, Roma... che sono un poco anche la fortuna del Merelli e del Lanari. Ma giorno presto verrà che il Merelli vedrà precipitare le sue sorti nel baratro del nulla: le sue ricchezze sfumate come nebbia al vento, solo fino a tarda età, a 80 e più anni vedrà in sè l'ombra di se stesso e « nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria » mentre a Giuseppina saranno date ore di conforto e di bene, ore di opere sante che la faranno chiamare « madre degli orfani, benefattrice di tutti i bimbi poveri » amata e benedetta. Tenne il legame col teatro per la sua famiglia: « Colta ed amabile in società, figlia e sorella si era incaricata generosamente di tutta la famiglia, e i suoi fratelli crebbero educati a sue spese nelle migliori scuole... Al pari di Beethoven riconosceva alla bontà il più alto segno di preminenza umana, e per questo subirà il fascino del carattere di Verdi così fortemente come quello del suo genio ». Ed è nell'ora del dolore sconsolato, quando la morte ha spezzato ogni legame di Verdi con la vita, che vicino a lui appare la Strepponi, e lo risolleva col Nabucco ai cieli della speranza e dell'arte. Intanto durante le prove si sono conosciuti i loro animi d'eccezione: lei, tradita dagli uomini e di essi infida, trova in Verdi qualità morali che la sorprendono e la avvincono; lui è estasiato delle qualità della cantante, ma ancor più dalla grazia e da una dolcezza arcana dell'anima, generosa e mesta... Tanto che il dominatore non dominato, Verdi, si lascia inconsciamente dare consigli da lei, che diventa presto « sua saggia consigliera, genio benefico e buona fata ». E da questo giorno si invertono le parti tra loro, ella scende dal piedestallo della gloria, e si nasconde nell'ombra, lui dall'ombra sale e conquista le vette più eccelse. Nel 1843 a Parma hanno modo di rivedersi ber la stagione del Carnevale, e la simpatia si avvia a desiderio. Poi nel momento della crisi verdiana, quando si ritira a Parigi, dove lo dominano « noia e dispetto » Verdi e la Strepponi si ritrovano. Giuseppina aveva girato ancora per qualche teatro della Penisola, ma nel Carnevale del 1846 a Modena, con l'opera I Lombardi, e sotto le vesti di Abigaille, lascia definitivamente il teatro. Come tanti cantanti di allora essa sente il fascino di Parigi e là essa riesce a comporsi una vita elegante e appartata che molto le piace. Ha una modesta fortuna che le permette di vivere con signorile decoro... ». Ed è in questo anno che Verdi ritorna da Londra e si ferma a Parigi, dove gli giunge notizia della vita condotta ivi dalla Strepponi, verso la quale non era spenta la simpatia e il debito di riconoscenza per il primo trionfo col Nabucco. E' il momento della maggior noia nella sua vita e del dispetto »: la creatura che lo ha sollevato nell'ora del dolore sconsolato e lo ha portato a riaccostarsi serenamente alla vita e al lavoro, lo risolleverà ora, da questa crisi fisico-spirituale nella quale egli è avvolto, e adempirà a quella che è missione sua per quanto umanamente possibile, di renderlo felice. Nessun documento d'importanza ci aiuta a distinguere quali furono i rapporti precisi di Verdi con Giuseppina Strepponi da questo momento ; ma è certo che fra pochi anni egli vorrà per lei quel rispetto che esige per se stesso, e in una lettera al suocero Barezzi, padre della prima moglie, scritta nel 1852 e datata da Parigi, lascerà capire chiaramente che le loro esistenze si sono legate dal più forte degli affetti, e l'amore è amore coniugale. Non è a dire come corrano voci dovunque; e come a Busseto si storcano le labbra di molti e al povero Barezzi appaia di essere un dimenticato, un trascurato, non più rispettato dal suo Verdi che era legato a lui anche da un vincolo che la morte aveva solamente allentato. Egli sente fieramente la sua posizione, e con la forza e la consapevolezza degli onesti scrive a Verdi. Il quale anche davanti al Barezzi ha un moto di ribelione, e sente il sangue ribollirgli nelle vene ; poi si placa e prende la penna e risponde alla lettera di cui non avrebbe fatto nessun conto se non fosse stata di lui, il suo « benefattore ». « Non credo che per propria ispirazione mi avrebbe scritto una lettera che sa non poteva che farmi dispiacere ; ma ella vive in un paese che ha il malvezzo d'intricarsi spesso negli affari degli altri e disapprovare tutto quello che non è conforme alle sue idee ; io ho per abitudine di non immischiarmi, se non chiesto, negli affari degli altri perchè appunto esigo che nessuno s'intrighi nei miei ». Quel « se non chiesto » pare alludere alla sua opera tra Chiarina e Andrea Maffei ; e dopo aver rivendicato a sè libertà d'azione per la vita isolata che conduce, lontana da Busseto, senza più il fedele amico Ma-zio, (per cui aveva sospettato dissenso il Barezzi), per il suo modo di comportarsi senza far visite a chi porta titoli e se non prende parte alle feste degli altri, passa quasi repentinamente e con dispetto a dire: « E poichè siamo in via di rivelazioni non ho difficoltà alcuna ad alzare la cortina che rivela i misteri racchiusi fra quattro pareti e dirle della mia vita di casa. Io non ho nulla da nascondere. In casa mia vive una signora libera, indipendente, come me amante della vita solitaria, e con una fortuna che la mette al riparo da ogni bisogno. Nè io nè lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni ; ma d'altronde chi sa quali rapporti esistano fra di noi? Quali affari? Quali i diritti che io ho su di lei ed ella su di me? Chi sa se ella è o non è mia moglie? Ed in questo caso chi sa quali sono i motivi particolari, quali le idee da tacerne la pubblicazione? Chi sa se ciò sia un bene o un male? Perchè non potrebbe essere anche un bene e fosse anche un male, chi ha diritto di scagliare l'anatema? Bensì io dirò che a lei in mia casa, si deve pari anzi maggior riguardo che non si deve a me, e che a nessuno è permesso mancarvi sotto qualsiasi titolo, e che infine ella ne ha tutto il diritto, e pel suo contegno, e pel suo spirito, e pei riguardi speciali a cui non manca mai verso gli altri ». C'è adunque un legame more uxorio tra Verdi e la Strepponi, che circcstanze particolari impediscono ora di fare santo ai piedi dell'altare. Ma non vi è unione adultera, bensì tra libero e libera, e il peccato è contro le leggi della Chiesa, e per lo scandalo che ne può derivare. E' una pagina dolorosa nella vita di Verdi, è un'ombra sulla quale tanti hanno voluto calcare la penna, ma non sarò proprio io a volerla esagerare, quando la Strepponi conosce la sua situazione e scrive: « Poiché forse Iddio mi punisce dei miei peccati nel far ch'io non goda prima di morire nessuna gioia legittima », e sembra addossare in gran parte a se stessa questa situazione, come nessuno ha mai fatto risaltare, e la difficoltà a consacrare tale unione era principalmente nella particolare situazione sua « legata alla sua croce materna ». Poi con la morte della sua creatura si sentirà libera e Verdi vincerà, quella sua naturale ritrosia ch'ebbe la sua parte nella illegalità della unione. Il matrimonio cristiano sarà celebrato a Collanges-sous-Saliéres « in un poetico angolo, della Savoia ancora italiana. Nessuno, nemmeno i più intimi, seppe qualcosa dell'avvenuto matrimonio, perchè nessuno sapeva con certezza quali í rapporti esistenti fra i due, e nulla ne lasciò certo trapelare l'abate Marmillod che aveva stretto il sacro legame. Magnifica figura di sacerdote, dovette compiere con esultanza l'atto del suo ministero che univa per sempre due vite così degne di esserlo. Grande prelato e grande oratore fu insignito della porpora cardinalizia nel '90, e serbò sempre con i due coniugi le più affettuose relazioni. Ai piedi dell'altare, in raccolto silenzio, Giuseppina Verdi accolse il superbo dono di quel nome ». Così Mercede Mundula, che nel suo libro « La moglie di Verdi » ci fa brillare dinanzi agli occhi le grandi virtù cristiane di cui andò sempre più adornandosi quest'anima gentile aiutando il suo Verdi a pensare a Dio, anche quando meno ci pensava, e che visse nel silenzio e nel nascondimento per lui, sorreggendolo col suo amore nella ascesa del genio, consolandolo quando la celebrità gli lasciava nel cuore quelle amarezze che sono immense come immenso è il genio che le prova. Quest'episodio naturalmente mi porta a molte riflessioni, ma una non posso tacere e la prendo dal commento di un Padre al peccato di Davide Re: « Peccavit David, quod solent reges, sed p2enitentiam egit, quod non solent reges: Davide peccò, come è nelle abitudini del potenti, ma ne fece penitenza, ciò che non è nella abitudine dei potenti ». E così avvenne della Strepponi e di Verdi; rimediarono al male, fecero del bene per tutta la vita, e questo non è certo nelle abitudini degli artisti e di chi vive tra i teatri ove fu sempre abitudine il male, ma non fu certamente abitudine la penitenza. Quando i maligni parlano del matrimonio lo ciliaInano la tomba dell'amore, e non sanno che è la tomba degli amori, e la culla dell'amore vero e santo, o, come diceva lo Sthendal, in esso nasce l'amour-tendresse mentre muore l'amourpassion. Ed ecco in Giuseppina un amore-tenerezza che le fa dire a Verdi: « Io non ho nulla al mondo, te eccettuato, che mi consoli. Per quanto grandi, numerosi e costanti siano i miei mali, l'amor tuo è per me tale bene che basta a darmi coraggio a sopportare tutte le amarezze che mi travagliano ». Poi dirà: « La nostra giovinezza è passata, nondimeno noi per noi siamo sempre tutto il mondo ». E umilmente chiede a Dio una grazia, una sola per i suoi desideri semplici e modesti: « Quando Iddio lasci a noi la salute, e i nostri piaceri semplici e modesti, ci rallegreremo anche nella grave età ». E a lei che fino ai più tardi anni portò sul volto i segni della giovanile bellezza, e a Verdi, che senti ringiovanirsi come l'aquila, in cui nei molti anni gioventù si rinnova, Dio concesse questa grazia. * Una lettera di G. Strepponi a Verdi, ci dipinge meglio che ogni altra parola i sentimenti che legavano le due anime grandi e generose. In essa è detto: « ... quello che obbliga il mondo a levarsi il cappello è la qualità alla quale io non penso mai o quasi. Ti giuro, e tu non avrai difficoltà a crederlo, che io molte volte sono quasi sorpresa che tu sappia la musica. Per quanto quest'arte sia divina, ed il tuo genio degno dell'arte che professi, pure il talismano che mi affascina e che io adoro in te, è il tuo carattere, il tuo cuore, la tua indulgenza per gli errori degli altri, mentre sei tanto severo a te stesso. La tua carità piena di pudore e di mistero, la tua altera indipendenza e la tua semplicità di fanciullo, qualità proprie di quella tua natura che seppe conservare una selvaggia verginità di idee e di sentimenti in mezzo alla cloaca umana. Oh, mio Verdi, io non sono degna di te, e l'amore che mi porti è una carità, un balsamo ad un cuore t:: nte volte ben triste, sotto le apparenze della allegria. Continua ad amarmi, amami anche dopo morta, m: d'io mi presenti alla Divina Giustizia ricca del tuo amore e delle tue preghiere, o mio redentore ». « Il modo adunque col quale desidera di essere ricordata da Verdi, se la morte invocata alle sue tristezze verrà, è quello della preghiera di suffragio e di ricordo, che è preghiera di amore che « spezza la pietra del sepolcro e vive - come l'anima, eterno ed infinito ». Abbiamo detto come Giuseppina godesse di avere con Verdi « un comune Santo protettore e vogliamo ricordare con quale solennità intima e speciale si festeggiasse in casa Verdi il giorno 19 di Marzo. Ma a proposito, in quella casa tutti o quasi si chiamavano Giuseppe: Verdi, la Strepponi, l'amico De Amicis, ingegnere e cugino dell'autore del Cuore, il domestico Farina, ecc. Lorenzo Alpino ha rievocato, quale testimone oculare, il modo di tale festeggiamento familiare, che al dire di Ferdinando Resasco era « il giorno della vera e cordiale felicità domestica, certo ben più gradito della ricorrenza genetliaca ». Il Maestro e la Strepponi ascoltavano immancabilmente, come di abitu21 - F. BOTTI, G. Verdi dine la S. Messa, e mandavano regali agli orfani di Don Montebruno, ossia panettoni o un camoscio, doni che D. Montebruno passava loro invitandoli tutti a pregare per Verdi e la sua consorte. Il 16 marzo 1892 Verdi scriveva da Milano questa lettera al De-Amicis: « Caro De-Amicis, sono arrivato ieri da Sant'Agata e se non sono idrofobo è un miracolo. Immaginatevi tutta la giornata di domenica e tutta l'intera giornata di lunedì imprigionato in casa per l'abbondanza di neve caduta. Auff... E così non potremo essere a Genova per San Giuseppe. E' vero che un'altra volta abbiamo passato quel giorno a Savona, ma là eravamo insieme. Ciò vuol dire che festeggeremo un secondo San Giuseppe a Genova, due o tre giorni dopo il nostro arrivo, che sarà lunedì sera verso le sei ». « La volta che andarono a festeggiare insieme il giorno di San Giuseppe a Savona, ricorda L. A., fu nel 1882: c'erano Verdi, la Giuseppina, e l'ingegnere De-Amicis. Si recarono al mattino al Santuario di N. S. della Misericordia, che De-Amicis illustrò agli ospiti: poi a mezzodì andarono in una trattoria per il pranzo. Mentre si trattenevano a mensa, la voce che Verdi era in Savona si diffuse rapidamente e molta gente accorse, improvvisando una clamorosa dimostrazione al Maestro, il quale ne fu non poco contrarialo: credo che abbia allora fatto il proposito di non recarsi più fuori di casa a festeggiare San Giuseppe. I giornali parlarono della cosa e Edmondo De-Amicis scrisse al cugino Giuseppe la seguente lettera: « Ti scrivo per dirti che ti ho invidiato amaramente come un nemico, leggendo sui giornali che tu eri in compagnia di Verdi e della sua Signora, il giorno che gli fecero la dimostrazione a Savona. Si chiama essere fortunati! Basta, me ne rallegro con te e coi Savonesi ». Una volta Verdi con la, comitiva solita si recò a passare la giornata onomastica a Sant'Eusebio, sulla collina a oriente del Bisagno, località, molto frequentata d'estate dai genovesi per scampagnate e merende: ma lassù era sicuro che non lo avrebbero disturbato con dimostrazioni, perchè non c'erano allora che tre o quattro case rustiche in tutto: però sotto i pergolati si mangiava e beveva molto bene. Verdi era moderato in tutto, ma un bicchiere di vino eccellente gli piaceva. Una volta, credo sia stata però l'unica, Verdi con la Signora si recò in occasione della festa di S. Giuseppe, all'Istituto Artigianelli di Don Montebruno ed assistette al saggio degli allievi, con relativo concerto della loro banda diretta dal maestro Zambelli col quale si felicitò cordialmente, poichè in realtà lo Zambelli era un musicista, di molto valore. Dopo il saggio tutti passammo nella cappella per la benedizione: Verdi e la Peppina erano davanti a tutti noi, nel presbiterio, ed i ragazzi rimasero molto impressionati del contegno del gran Maestro. Il quale, lasciando l'Istituto, disse a Don Montebruno ch'era stato felicissimo d'aver festeggiato il suo patrono con gli artigianelli ch'erano i diretti suoi protetti. E parecchi ragazzi alludendo alla folta e bella barba che il maestro aveva, lo chiamavano San Giuseppe Verdi, ridendo lietamente. Alla sera, in onore di Verdi, s'ebbe in refettorio una solenne castagnata, era il segno tangibile della sua venuta al collegio. Ma abbiamo lettere inedite delle quali alcune pubblicate recentemente sul Corr. della Sera — (13 ott. 1939) — nelle quali si parla del caso Mariani-Stolz e di cose assai delicate per la Strepponi, che rimpiangeva col suo confessore e beneficato Don Montebruno, di non avere avuta la gioia della maternità con Verdi. Ecco il testo delle due lettere al Montebruno, l'eroe del colera a Genova, di cui si sta preparando il processo di beatifcazione: “ Rev.mo Padre - Sono profondamente triste e scoraggiata, e ricorro a lei per sfogarmi e averne conforto. E' forse il vuoto dell'anima che mi si fa sentire o è la vecchiaia che incombe e mi toglie la vista della realtà delle cose? Ma io sono triste perchè giunta vicina all'ora in cui dovrò rendere conto della mia vita a Dio, trovo che l'esistenza mia è stata vuota e sterile. Non dico inutile perchè io penso che qualche poco di bene al mio Verdi l'ho fatto : e che cosa sarebbe stato di lui se io non fossi stata al suo fianco a consolarlo sino dai giorni della sua grande disgrazia, accompagnandolo per tutta la sua esistenza lunga e laboriosissima? E' forse superbia la mia nel constatare che io l'ho aiutato e sostenuto, incoraggiato, anche nel volgere il suo pensiero a Dio quando talora meno vi pensava? Ma poi che cosa ho fatto io? Dove sono i miei figli e le mie opere buone? Non sono mai stata madre e non ho vissuto che per Verdi, per la sua casa, per la sua fortuna, per la sua gloria. E questo che cosa conta per meritarmi nell'e ternità la pace e la visione di Dio? Andrò davanti a Lu a mani vuote e quel poco che ho fatto negli ultimi ann avrà un valore, dopo tanto tempo perduto nelle opere de mondo? Non ho amato che il mio Verdi, non ho avuto ma un pensiero per un altro uomo che non fosse Verdi, mi sono dedicata tutta alla sua ascensione. Così ho dimenticato qualunque altra opera buona. E forse per questo Dio non mi ha ritenuta degna di esser madre? avrò una risposta a queste mie domande che mi tormentano da tanti giorni e non mi lasciano requie? Sono certa di ricevere la sua buona parola che mi ridoni pace allo spirito turbato profondamente. Anche Verdi se n'accorge e se pure sorride a me pare che sia impressionato del mio stato d'animo: la mia serenità ridarà tranquillità a lui, il mio caro vecchietto che ha lo stesso difetto mio, di aver sempre pensato e voluto bene solamente a me, povera vecchietta. Attendo, attendo, e confido nelle sue preghiere, ecc. ecc.”. La lettera seguente è il frutto delle parole che il nobilissimo Don Montebruno ha fatto sentire alla signora Strepponi, che ne ha tratto grande conforto. « Rev.mo Padre. - Ho ripensato lungamente alla sua parola e ne ho tratto grande consolazione. Posso dunque pensare che se Dio non mi ha dato la grande gioia della maternità non è perchè io me ne sia resa indegna con le mie colpe. E i suoi divini disegni debbono essere adorati e non scrutati. Padre, io ho sempre desiderato di rendere felice Verdi dandogli un figlio: non abbiamo mai pensato di non volerne, non abbiamo mai fatto nulla, assolutamente, glielo giuro sull'anima mia, perchè il gran mistero non si compisse. Ho sempre desiderato di essere madre, ho tanto sofferto e soffro ancora dolorosamente perchè nulla si è attuato del nostro desiderio. « Non sono indegna, adunque, di essere madre e il mio passato non vi ha colpa? Grazie della buona consolante parola. Anch'io ora comprendo, Padre, ciò che mi dice. Già: che cosa dovrebbe essere il figlio di Verdi per non portare indegnamente questo gran nome? Si sentirebbe soffocato sotto il suo peso enorme: anche a me pare che gli recherebbe tristezza, malinconia sentirsi chiamare figlio di Verdi e non essere altro che figlio di suo padre: a meno che facesse qualche cosa più di suo padre, ma questo non e possibile. Più di Verdi chi lo potrà essere? « E' anche vero quello che mi dice, che non tutte le maternità sono secondo la carne. Io mi consolerò di quello che mi manca, volendo bene ai figli degli altri, aiutando i figli dei poveri, i bambini senza madre. I suoi poveri bravi ragazzi sfortunati avranno sempre il mio amore e il mio appoggio. Per questo conto sulla parola sua, perchè mi insegni ciò che debbo fare. E intanto preghi per noi, per me specialmente, ecc. ecc. ». Riportate queste lettere, sconosciute ai biografi finora, dovremmo dire di tutta l'attività di Giuseppina vicino a Verdi, sua consigliera e collaboratrice. Preferiamo ricordare come essa era la speranza di chi si recava da lui, e temeva l'incontro per le voci che ne facevano un « ispido Giove », ed essa sapeva incoraggiare i timidi, aiutare i discorsi preparati e... arenati, disporre Verdi verso le loro richieste. Questo avveniva anche per lettera, da parte di chi non osava indirizzarsi al Maestro, come ricorda M. Mundula. Essa procurò a Verdi amicizie. Gli visse accanto in silenzio nelle ore della più intensa creazione. Lo amò arrivando a godere e a soffrire di tutto ciò che piaceva o spiaceva al suo Verdi. Nel suo testamento terminò le sue disposizioni così: «Ed ora addio mio Verdi ; come fummo uniti in vita, ricongiunga Iddio i nostri spiriti in Cielo ». Da quel giorno Verdi parve e fu vera-monte solo: « Io sono solo, diceva. Triste, triste, triste ». Ed al Cielo s'innalzò ancor più la sua anima coi canti sacri, ultime sue composizioni, che furono aneliti alla soglia dell'eternità. VERDI E ANTONIO BARE ZZI Jules Claretie, che aveva assistito alle prove del Don Carlos, ci lasciò questo ritratto di Verdi: «E' di alta statura, d'una magrezza nervosa, con delle spalle di Atlante che sembrano sorreggere delle montagne. I capelli lunghi, grossi, folti, cadenti sulle tempia in ciocche massicce, la barba di un nero lucido lievemente incanutita sotto il mento. Due rughe profonde lungo le guance, un viso affossato, sopracciglie spesse, ciglia mobilissime, la bocca larga, amara, sdegnosa, l'aspetto maschio e fiero, gli atteggiamenti severi e dispettosi ». Questi è Verdi quando una serie di gravissimi dolori lo colpisce, tra i quali specialmente la morte del padre, di Antonio Barezzi, e, nel maggio 1873, di Alessandro Manzoni. Che cosa fu per Verdi Antonio Barezzi ognuno lo sa assai bene. Fu suo secondo padre, ammiratore cieco del Genio e suo sostenitore, generoso in ogni circostanza e amoroso verso di lui fino a darle con gioia in isposa la sua figlia Margherita, amico gaudioso per i successi di, lui, quando la gloria lo circondò del suo abbraccio universale... Egli era un modesto negoziante di coloniali, che curava l'azienda con quella passione meticolosa che è propria della sana e silenziosa gente del bussetano. I libri o registri della sua casa sono un materiale prezioso per gli studi verdiani e sono un documento dal quale rileviamo che molto in Verdi si trasfuse del modo di tenere i conti che era naturale nel Barezzi. Anche quando Verdi pareva non dovesse avere altro pensiero che la musica, amava curare la sua casa di Sant'Agata, fare spese e pagare operai, tenere i registri bene in ordine, anche nei minimi particolari: e questo che fa impressione a molti i quali lo tacciano di avarizia, non era che la continuazione di quanto egli aveva appreso dal Barezzi ed era anche un omaggio alla saggezza del suo benefattore. Il Barezzi era un innamorato della sua terra gloriosa, un difensore delle tradizioni bussetane, e in modo particolare era l'anima della antichissima istituzione della Filarmonica. Verdi era nella sua mente il continuatore della sua opera per la Filarmonica, alla quale era assicurato per anni un maestro degnissimo... Ma Verdi invece era nato per più vasti voli. E il Barezzi stupefatto e trepidante seguiva i voli dell'aquilotto che aveva riposato e sognato nel nido della sua casa. Una epigrafe dettata da Arrigo Boito dice di lui: « Antonio Barezzi — di Busseto comprese il Genio incoraggiò i cimenti — presagi la gloria — di Giuseppe Verdi — benedisse il connubio — della propria figliola Margherita — coll'artista povero e ignoto — Il fiero Maestro lo venerò come padre — lo riconobbe sempre con devota umiltà — suo benefattore ». Il dolore di Verdi per la morte del suo benefattore ci appare da molti documenti. Ma, intanto, come e quando era avvenuta la morte del Barezzi? Nel mese di gennaio in cui era morto il padre di Verdi, il Barezzi era così colpito da infermità che lasciava molto a dubitare sulle condizioni di salute per il prossimo avvenire. Infatti di mese in mese il malato ottantenne andava peggiorando. Verdi e la Strepponi accorrono presso il letto dell'infermo, e si accorgono che le speranze di un miglioramento sono svanite tutte. Il 22 di giugno la Strepponi scrive al Corticelli: « Il signor Antonio che amiamo tutti e due moltissimo peggiora tutti i giorni ». E ancora: « Non anticipiamo che l'annata fu per noi troppo infelice... L'idea: quantunque abbia ottant'anni passati, l'idea, dico, di non veder più-quel buon vecchione, ch'era così felice quando veniva a Sant'Agata, ci chiude il cuore ». Questa frase della Strepponi ci descrive il Barezzi, alto di statura, quadrato, solenne, serio come un barone o austero come un Alberto da Giussano, e ci fa vedere quasi il cavallo trotterellante da Busseto a Sant'Agata, che porta il Barezzi dal suo Verdi, che l'accoglie con rispetto filiale. Muore il 21 luglio del 1867. Quando Verdi seppe dell'imminente decesso del Barezzi, accorse da Milano. Lo trovò morente, e nel cuore suo si riversò un turbine vorticoso di ricordi rivestiti da immenso amore, quale solamente può suscitare la morte. Il morente non ha più voce e Verdi ha un nodo alla gola e lo schianto nel cuore: l'unica voce soave e immutata può essere la voce misteriosa delle note che furono vita e legame per tutta la vita... Gli occhi esterrefatti di Verdi, che si volgono inconsciamente per la stanza ove sta per entrare la Divina messaggera dei giorni eterni, vedono il pianoforte; « il memore piano su cui aveva suonato le prime volte... Spinto da un interiore sentimento indefinibile scattò in piedi, mise le mani sui tasti, e quelle stanze silenziose, risuonarono a un tratto del canto degli ebrei piangenti in schiavitù, la patria perduta... ». Era il canto del suo dolore, era il pianto del suo cuore nei dì della morte dei figli e della madre dei suoi figliuoletti, che risorgeva ombra benigna e richiamante in quella stanza: Margherita Barezzi... Quelle note sono un richiamo d'amore e di dolore e certamente negli istanti che annunciano il silenzio eterno il morente le sente nell'anima, viatico per il viaggio infinito, le sente e si scuote — è l'anima, lo spirito che vince la morte e la materia inerte — e una parola odono gli astanti: « Oh, el me Verdi, el me Verdi... ». Furono le ultime parole, nate dall'ultimo palpito del cuore di Antonio Barezzi, nell'ora suprema confortata dal ricordo del bene compiuto per il « suo » Verdi, e dalla presenza di lui a testimonianza di riconoscente amore. A quelle parole Verdi si avvicina, quasi chiamato dalla stessa voce dei giorni della sua ansiosa adolescenza, si avvicina al morente, si china su di lui in un abbraccio che ha in sè tutta la forza misteriosa e sovrumana dell'amore che Dio pose nel cuore delle sue creature mortali. Si china su di lui, e Antonio Barezzi muore « fra le sue braccia ». Al Luccardi scrive: «Una grande disgrazia ci colpisce! Il povero signor Antonio è morto. E' morto nelle nostre braccia, riconoscendoci fin quasi all'ultimo momento!!! Tu sai chi era, cos'era per me e cosa io per lui. Lascio a te considerare quanto il mio dolore sia grande! Non ho cuore di andare avanti. Addio, Addio ». Chi non capisce che questa lettera è interrotta dalle lacrime che obnubilano gli occhi del Maestro? Ugualmente angosciate, sono le parole di Verdi all'Arrivabene: « I dolori si succedono ai dolori con una rapidità spaventevole. Il povero signor Antonio, il mio benefattore, il mio amico, colui che mi ha amato tanto, non è più. La sua tarda età non vale a mitigare il dolore che è per me grandissimo. Povero signor Antonio! Se vi è una seconda vita, egli vedrà se io l'ho amato, e se io gli son grato di quello che ha fatto per me. E' morto nelle mie braccia ed io ho la consolazione di non avergli mai dato un dispiacere ». I dolori che si succedono con rapidità spaventevole nella vita di Verdi in questi mesi, gli affievoliscono la fede, ma gli lasciano sempre speranza. Non dice infatti: « Se ci fosse.... » ma dice: «Se c'è un'altra vita » come è sua speranza e nella quale gli animi conosceranno gli intimi segreti delle coscienze. La Strepponi a sua volta scrive: «E' morto quel buono, quell'eccellente vecchio che fu padre, amico, protettore di Verdi. E' morto dopo lunga malattia, rassegnato, paziente e sereno nelle nostre braccia, bagnato dalle nostre dolorosissime e sincerissime lagrime ! Verdi fu l'ultima persona a cui si sforzò, morendo, di parlare... Verdi fu l'ultima sua consolazione, con sua moglie ed io che fui amata come figlia... Pace, creatura benefica, all'anima tua; e noi ti benediremo finchè giunga il momento di raggiungerti ». Commoventi parole che hanno uno strano riscontro con quelle del Barezzi stesso alla morte di Margherita sua figliola, poichè la fede ha una uguale voce di rassegnazione e di speranza per chi la sa intendere nell'intimo del cuore. Forse qualcuno noterà che Verdi non ebbe sì forte dolore per la morte del padre. Ma a quella morte egli si era preparato vedendolo per quasi quattro anni dolorante nell'impotenza, e i documenti e le sue visito continue alla tomba dei suoi genitori, oltre le parole piene di afflizione da noi riportate, ci dicono come avesse pianto anche alla morte del padre. Altre parole di Verdi per il Barezzi sono queste: « Voi sapete che a lui devo tutto, tutto, tutto. Ed a lui solo, non ad altri, come l'han voluto far credere... Io ne ho ben conosciuto degli uomini, ma giammai uno migliore. Egli mi ha amato quanto i suoi figli, ed io l'ho amato quanto mio padre ». Aggiunge Merc. Mundula: « Di questo suo affetto e di averlo considerato come benefattore, Verdi si fece sempre un onore e un vanto. Volle, anzi, che il suo culto non morisse con lui. Desiderò che nella Casa di riposo per musicisti fosse trasportato, dopo la propria morte, il ritratto del Barezzi. Nell'edificio eretto dal suo cuore per i musicisti vecchi, è giusto che troneggi l'effige di colui che per puro slancio di cuore aveva protetto un musicista fanciullo. Sul quadro sono tracciate queste lapidarie parole: « Ad Antonio Barezzi mio benefattore. Giuseppe Verdi riconoscente ». Busseto ha dedicato al Barezzi una via, ed ha fatto bene, ma il ricordo di lui è in tutti i visitatori che vanno per la bella cittadina della Marca Pallavicino in ricerca dell'aura verdiana, e non hanno bisogno di farsi ricordare il Barezzi dalle parole della lapide, chè pare anzi di vederlo tra noi in qualcuna delle maestose figure di bussetani che ancor oggi si aggirano per quelle strade... Nel Don Carlos abbiamo molte pagine dedicate all'amicizia « leale, fedele fino all'eroismo », a quell'amicizia che dà il suo frutto nel sacrificio di Rodrigo, che mormora: « Di me... non ti scordare ». E dell'amicizia Verdi ebbe veramente un culto, di cui le pagine più belle sono queste, nell'amore al Barezzi, nella riconoscenza imperitura per l'opera verso il Maestro compiuta, nel doloré tragico e sublime per la sua morte. Davvero che la morte, staccandoci dalle piccole cose mortali, porta tutti noi d'un balzo alla soglia e alla meditazione dell'infinito. E in quell'istante, amore, riconoscenza, e pietà filiale sembrano sorpassare le nostre povere forze umane, e giungere colà « dove l'amor s'india ». VERDI E LE RONCOLE La terra ha una voce misteriosa, che chiama, che grida, che invoca... Chi è nato tra i campi sente come una voce maliarda che lo spinge al ritorno tra essi, e tra essi egli ritrova se stesso, la sua natura primigenia, il suo essere vero e sincero. Anche il fanciullo silente e pensoso delle Roncole, che la lunga vita tra gli uomini ha reso ancor più triste e assorto, quasi Farinata sdegnoso alle volte, anche il Maestro sommo che gli allori sommergono e gli applausi delle folle assordano da Londra a Pietrogrado, sente spesso un desiderio « feroce » di ritornare alla terra, alla pianura virente e uniforme, solo variata dai rigagnoli e dalla multiforme vita degli uomini e delle cose. « Finisco adunque col dirle, è sua voce fin dal 1854, che ho una smania feroce di tornare a casa. Lo dico a Lei sottovoce perchè sono certo che mi crederà ». J Soffermiamoci anche noi un poco in questo paesino delle Roncole, dove il Grande visse la sua serena giornata d'infanzia, dove rimasero i suoi genitori ancora lungamente dopo la partenza di lui, nella piccola osteria, dove il Maestro tornava anche nei più tardi anni sovente, dalla vicina Sant'Agata, rispondendo al richiamo delle voci del passato doloroso e oscuro, e ritrovando refrigerio al suo spirito fatto sempre più desioso di solitudine, più cresceva attorno a lui l'esaltazione e la gloria. Una strada a forma quadrangolare, detta della Processione, perchè in essa si svolge la tradizionale processione del Venerdì Santo ; un'altra che porta alla Bassa de' Mai, e quella che porta al Santuario della Madonna dei Prati; alcune cappelline campagnole dette « Maestà »; una chiesa secentesca con l'altare maggiore dedicato al patrono Arcangelo San Michele; un organo provvidenziale sul quale è incisa ancora la firma di un fanciullo, che poco più che decenne era l'organista delle Roncole, dove tornava da Busseto ogni giorno festivo lasciando la scuola per guadagnarsi qualcosa che fosse di sollievo a chi lo aiutava nella via scabrosa per la quale si avviava al raggiungimento di un sogno ch'era sangue e vita della sua vita... Una casetta umile, bassa, con poche stanze nella quale si entra con venerazione ripensando al « giovane di esemplare saviezza e di diligenza costante » quale fu definito dal podestà di Busseto nella commendatizia per il Conservatorio; una casa che non fu mai sua nè dei suoi, perchè essi vi entrarono prendendola in affitto per continuare in essa la tradizione familiare di osti, e dovettero lasciarla quando il maestro li mandò a Sant'Agata, e poi a Vidalenzo; una casa che nel '75 la Strepponi voleva comperare perchè « decentemente restaurata restasse memoria storica di un 22 _ F. BOTTI, G. Verdi uomo che dalla più modesta condizione seppe col suo genio e con ogni privata e pubblica virtù onorare l'Italia »; ma che noi amiamo meglio vedere così senza restauri « decenti »; così « con poverissime scale strette, erte, sbocconcellate, dove la cameretta del Maestro ha il soffitto così basso da potersi toccare con le mani; la camera dove egli nacque rozzamente ammattonata, ha finestrine da piccionaia e vetri non più grandi di un fazzoletto »; una casa la cui visione ci commuove nell'intimo dell'anima... Presso questa chiesa, fino a nove anni, ebbe Verdi la fortuna di avere una guida paterna (come la troverà poi generosa e amorosa a Busseto nel Barezzi), in colui che gli aveva amministrato il battesimo il 10 di ottobre 1813: Don Carlo Arcari, prevosto de Le Roncole fino al 23 dicembre 1824. Da lui imparò a leggere e scrivere, da lui i primi rudimenti del latino, da lui l'esercizio delle funzioni di chierichetto all'altare, mentre l'organista del luogo gli insegnava la musica scritta e sull'organo. Mistero ancora regna sulla spinetta pestata da Verdi e riattata gratuitamente perciò la sapeva suonare in modo superiore alla sua età, mistero sulla sua provenienza ; e perchè non è lecito pensare che glie l'abbia comprata o regalata Don Carlo Arcari, che passava le sue ore libere nella vicina casa di Verdi come Carlo Verdi le passava in chiesa? Perchè: « Giovane di ottimi costumi, d'una assai morigerata coscienza, costantemente assiduo alla Chiesa, alla Dottrina cristiana e ai sacramenti ». Certo possiamo facilmente immaginare il dolore di Verdi e l'impressione terribile nel suo cuore, per la morte di Don Carlo Arcari, il 23 dicembre 1824, alla vigilia del Natale ; possiamo immaginarcelo esterrefatto, in veste di chierichetto che regge il turibolo intorno al catafalco ove è la salma del suo parroco amoroso, attento al canto dei sacerdoti, che per le assoluzioni e la Messa avranno intonato quelle note caratteristiche come si usava allora e si usò nelle chiese fino alla riforma del canto ecclesiastico da parte di Pio IX, nel 1871 con la costituzione « Multum ad movendos animos »; e forse è lecito dedurre che se ancora qualcuno nella Messa di Requiem trova troppa umanità e teatralità, è forse perchè Verdi sentiva il mistero della morte come gli si era impresso fanciullo nella mente in quelle esequie nella Chiesa di Roncole nel 1824, la sentiva come terribile mistero che sconvolge il cuore e porta a pensare tragicamente a Dio, nel cui pensiero si placa solamente il brivido del subitaneo terrore. Ma soffermiamoci un istante ancora alle Roncole. In questa parrocchia avemmo dopo l'Arcari per tre anni Don Leopoldo Botti, e subito dopo Don Pietro Montanari, che fu presente all'eccidio spaventoso procurato dal fulmine nel Santuario della Madonna dei Prati, il 14 sett. 1828, unico sacerdote superstite tra i cinque presenti, che insieme con due giovani ventiduenni « ictu fulminis omnes uno examinati sunt ». Don Pietro Montanari rimase alle Roncole fino all'ottobre 1851; quando fu traslato alla parrocchia di Santa Margherita di Fidenza ; per dieci anni vi fu poi Don Giovanni De Mattei, cui successero come Economi spirituali Don Giovanni Righetti e Don Marco Conti, fino a quando abbiamo Don Antonio Chiàppari nell'ottobre del 1865, una figura di sacerdote che fu molto e variamente a contatto con Verdi, sì che se Don Pietro Seletti e Don Avanzi si potevano chiamare i confidenti del Maestro e gli amici inseparabili tra gli amici dei dintorni, Don Chiàppari era l'ammiratore fanatico e cieco. Parola quest'ultima che ha un senso tragico quando si pensa che negli ultimi anni di sua vita parrocchiale alle Roncole Don Antonio Chiàppari, — (che mori nel 1902, sopravvivendo di un solo anno al Maestro) — fu completamente cieco. Abbiamo su questo una parola di Ildebrando Pizzetti, che nella Gazzetta Musicale scriveva 1'8 dicembre 1900, dopo una visita alle Roncole: «Un prete vecchio, cieco, ci ascoltava in mezzo alla chiesa con le mani giunte; sul suo viso raggiava una contentezza insolita. Parlò: e la sua voce tremante, profonda risuonò stranamente suggestiva per la volta angusta del modesto tempio ». Per Don Antonio Chiàppari Verdi inaugurò l'organo nuovo regalato dalla Ditta Tronci di Pistoia in omaggio al Maestro nel 1900 e quella fu forse l'ultima volta che il Maestro si recò alle Roncole, dove una volta fu visto far visita a Don Chiàppari già privo della vista, e con lui uscire nel sagrato ; scena suggestiva, come riportammo in Verdi e la Religione: «Verdi amava il Prevosto delle Roncole D. A. Chiàppari, vecchio energico di corpo e di mente, entusiasta fino al limite del possibile del Grande Maestro. E Verdi andava spesso a trovarlo. a fargli visita amichevole, e poichè Don Chiàppari era cieco, lo prendeva sotto braccio, passeggiava con lui nel sagrato della chiesa e sorrideva mentre il Prevosto voleva far sentire al Maestro la sua voce baritonale, mandando al vento le note: Va, pensiero, sull'ali dorate...”. Ma dalle parole del Pizzetti vogliamo togliere quanto riguarda le Roncole: « A Roncole scendemmo ; alcune donne in abito festivo, dei ragazzi dagli occhi sgranati, ci guardavano curiosamente, meravigliati. Vicino a me sentivo le voci dei miei compagni di viaggio: Ma è proprio quella la casa dove è nato lui ! — Proprio quella. — Alcuni signori venuti ad incontrarci ci condussero nella casa nera, umida, dal tetto spiovente ;... Io uscii di là un poco attonito, quasi incredulo e ogni volta che mi avviene di pensare a Lui mi pare quasi favolosa la storia della sua adolescenza... ». Andiamoci insieme col Mestro, in un pomeriggio domenicale, quando i nostri paesini assumono quel tono di gioia sentita e vera che solamente può essere nell'anima dei popolani che vivono di poco, e di poco si contentano, in pace con Dio e con se stessi; un pomeriggio domenicale sul piazzale della Chiesa delle Roncole, mentre i fedeli escono a frotte dai Vespri cantati a squarciagola dai giovani e dagli anziani come un tempo si usava nelle nostre chiese di campagna; un pomeriggio domenicale tra la Chiesa e la casa nativa di Lui, in mezzo a strade campestri profumate di frutti e di fiori... Quante strade, monti, città tentacolari, teatri rigurgitanti e osannanti, uomini celebri e celebrati ha conosciuto Verdi per il mondo ?... Ma la stradina sulla quale viaggia ora con gli amici che lo hanno vinto e lo portano alle Roncole è la strada del suo cuore, del suo dolore e degli anni della sua infanzia, tanto più bella quanto più stentata e vissuta « a frusto a frusto »... guadagnandosi il diritto di camminare verso gli orizzonti lontani. « Era domenica all'ora dei Vespri, racconta Camillo Bellaigue, l'acuto critico musicale che con Arrigo Boito pregò Verdi di andare tutti insieme alle Roncole, e noi entrammo in chiesa. I fedeli che erano tutti contadini e contadine con la testa coperta con fazzoletti di vivo colore, vi si accavalcavano. Si sentiva la voce dell'organo, un piccolo organo dalla voce stanca. Ma quell'organo era stato il suo. Al posto del giovane di cui vedevo errare sulla tastiera le mani, vi erano state le sue già melodiose mani predestinate. Lo sapevo ! E bruscamente egli se ne ricordò. Lo guardai: era diventato pallido, e nei suoi occhi brillavano delle lagrime. Mi toccò la spalla: « Usciamo, usciamo », disse piano. Lo avevano riconosciuto. Il popolo, il suo popolo uscì dietro di noi e lo circondò. Mentre salivamo in vettura scoppiarono delle acclamazioni: Viva il Maestro ! Viva Verdi L-Il ritorno fu più silenzioso dell'andata. La sera, dopo cena, il Maestro ci rimproverò, dolcemente di averlo trascinato, di averlo in qualche modo costretto a ritrovare, dopo tanto tempo la memoria e la visione del suo passato ». E il Bellaigue concludeva: « Nell'umile chiesa di Roncole io avevo compreso una sera che quell'uomo fra gli uomini, che viveva di vita sì piena e ricca non era di quelli che si compiacciono a guardarsi vivere ». Ma davanti ad estranei, davanti a Boito e Bellaigue Verdi, nel pomeriggio domenicale, tra quelle folle ch'erano come quelle della sua infanzia, non resse alla veemenza del ricordo. Meglio essere soli, in certe occasioni. E pianse. Il fierissimo orso di Busseto, come dirà di se stesso per la morte del Manzoni scrivendo alla Maffei, (« non lo dite a nessuno »): pianse. La terra ha una voce misteriosa che chiama, che grida, che invoca, e il paese natio ha una voce maliarda che ci spinge al ritorno, per ritrovare noi stessi, del tempo passato, il tempo delle speranze e dei sogni, degli occhi volti all'avvenire in attesa trepida e fedele... E come non ricordare qui l'amicizia che legò Verdi ad un suo condiscepolo di scuola, Carlo Musini, venuto da Samboseto, dopo aver anch'egli imparato un po' di latino da uno zio prete: compagno e coetaneo e a distanza di due mesi morti a 87 anni ambedue? Si conobbero sui banchi della scuola, si amarono per tutta la vita, pur nella distanza di luoghi e di condizione sociale. Noi riporteremo una lettera di Verdi al condiscepolo, una delle tante dalle quali traspare la malinconia del grande e la tristezza all'incalzare dell'onda dei ricordi: « Sono ben lieto di ricevere anche quest'anno gli auguri dell'antico condiscepolo, il solo che rimane degli amici di quel tempo. Quanti anni e quanti capod'anni ! Ne resteranno ancora???... ». Pochi anni prima gli aveva così risposto: « E' gentile, è bello quel che dici; ma è altresì vero che gli anni ci forzano all'ozio... e l'ozio non rende lieta la vita: ma bisogna rassegnarsi. Rammentiamo piuttosto gli anni della nostra gioventù ». Ancora un poco restiamo presso l'organo provvidenziale. Dicemmo che è della Ditta Tronci di Pistoia e non di Cremona, come erroneamente affermammo altra volta. La Ditta Tronci di Pistoia successe alla Agati che ivi aveva una fabbrica di organi fin dal 1700. Ultimo rappresentante dei Tronci fu il Cav. Filippo che dopo la guerra mondiale emigrò a Lucca dove morì, e con lui cessò la. Ditta. Più che organo regalato dalla Ditta si deve parlare di organo restaurato dalla Ditta, la quale aveva avuto ordine di non adoperare assolutamente materiale nuovo, tanto che, come amava ricordare il Cav. Filippo Tronci, per fermare un'assicella si cercò un chiodo vecchio e arrugginito... Verdi ebbe parole di gratitudine per lui e le espresse con firma sua sotto la fotografia dell'organo riprodotta in cartolina e diffusa dal Tronci. Giornata adunque gioiosa e indimenticabile quella dell'inaugurazione nel 1900, col Maestro festeggiato dal popolo e dai sacerdoti che gli facevan corona... Ed egli ebbe una parola per tutti, ricordò lo scappellotto in tempo di Messa, e in vena di scherzare disse: « Ma poi Don Marzini fu castigato severamente dal fulmine al Santuario della Madonna dei Prati... ». E da questa gente, cui lascerà nel testamento sovvenzioni cospicue perchè in esse era ancora la povertà che fu sua e dei suoi, si ebbe un saluto gaudioso e riconoscente...: L'ultimo. VERDI E BUSSETO Abbiamo veduti alcuni rapporti tra Verdi e Busseto. Solo una città musicale come questa poteva essere campo aperto di esercitazione ai primordi musicali di Verdi. Disgrazia volle che una serie di avvenimenti locali, quali la nomina del Maestro di cappella e capo della Filarmonica, un prevosto coi suoi diritti legati alle sue idee, un Barezzi e altri che hanno in Verdi « l'uomo del cuore », ecc... abbiano impregnato di assenzio i rapporti di Verdi con Busseto « croce e delizia del suo cuore ». Quando dalla cittadinanza bussetana il Maestro si allontana per le vie del mondo e per le sue capitali sfarzose, ognuno osserva in lui un amore e una nostalgia immensa e irresistibile per la sua città. Ma ecco a turbare questo attaccamento forte e naturale, quando aveva già comprato Palazzo Orlandi, nel quale compose Stiffelio, Rigoletto e Trovatore, l'episodio della Strepponi, alla cui vista molti storcono perfino la bocca, rifuggono dall'accostarsi a lei in chiesa, mentre è tra i banchi in preghiera, sparlano di lei, e i maligni inventano tutte le cose peggiori sul passato della sua vita di artista. Allora Verdi cerca di lasciare Busseto, ma non se ne allontana di molto, si ferma a Sant'Agata. La Strepponi ha una sua avversione tutta particolare per Busseto e i Bussetani: « Io non ho mai desiderato tanto di andarmene fra i contadini come questa volta... Intendi bene: i contadini, non Busseto ». Basta questa frase sua al Corticelli, mentre gli scrive da Parigi dove va in scena il Don Carlos, e scritta quando tutto era stato santamente legalizzato della sua convivenza con Verdi, per dirci come la Strepponi abbia certamente influito a distanziare Verdi e il suo animo dai Bussetani, senza però riuscirci. Ma a questa sua avversione a scatti, temporanea, e sempre mitigata nel tempo stesso che risuscitata, molto apportò la noncuranza di Verdi per gli onori e i festeggiamenti, mentre Busseto aveva sempre una fregola addosso di festeggiarlo per dimostrargli un amore sempre vivo e forte e una gioia smisurata per averlo dato al mondo... Quando, prima del 1850, si era pensato di costruire a Busseto un teatro intitolato al grande cittadino, con la speranza che Verdi scrivesse un'opera per la sua inaugurazione, e portasse a Busseto i tre più celebri cantanti del tempo, dapprima sembrò accettare, ma poi scrisse al Barezzi negativamente, e lagnandosi che « lo avessero fatto comparire alle Autorità come un ambizioso di avere un teatro intitolato e un busto, mentre la maggior parte degli Italiani sapeva per prova com'egli si opponesse, quando poteva, a questa pubblicità ». Tale progetto però venne ripreso in esame nel 1857 circa e condotto a termine in cinque anni, dal 1859 in avanti. Tre pittori lo avevano decorato... Architetto era stato P. L. Montacchini di Parma, e costruttore Giovanni Sivelli di Busseto. Era avvenuto che l'Ongina aveva straripato e asportato il ponte che da Villa Verdi conduce a Busseto ; Verdi aveva fatto un prestito al Comune per il ripristino del ponte stesso ; ma il pagamento del prestito non avveniva mai, e questo sembrava una presa in giro a Verdi, il quale sbarrò nientemeno che il ponte con una catena... Si voleva costruire un teatro a lui non gradito, e non si pagava il debito antecedente... Per un Verdi sembra questa una piccolezza, e non lo neghiamo, ma sappiamo che le cose più meschine si trovano negli individui quando sono divisi da astiosità, da persone e da luoghi. Un'altra cosa nella quale Verdi ebbe a irritarsi molto e in gran parte a torto fu quando propose al posto di Maestro di musica della città Emmanuele Muzio, essendo stato pregato dal Municipio e dai Filarmonici di tale suggerimento. La lettera sua pubblicata nell'Aurea Parma del genn.-febbraio 1941, è così piena di irritazione che non sembra di Giuseppe Verdi, se non si pensa che siamo nel 1852-53, gli anni della malignità riguardo alla Strepponi, gli anni di sua massima produzione musicale e quindi di sensibilità accentuata: « Ora vi prego di tenermi esonerato dai miei impegni verso di Voi, e duolmi dire che io non mi immischierò mai più in Busseto di cose musicali. In qualunque altro paese, trattandosi di musica, io sarei riescito ad ottenere quanto Voi ed io desideravamo ; in qualunque altro paese avrei avuto l'appoggio delle autorità civili ed ecclesiastiche; nel mio non mi è stato possibile. Forse altrove si ha un poco più di stima e di rispetto per il mio nome. Sta bene ; ciò è in perfetta regola, nè io me ne lagno ». Tanto è vero che non se ne lagna che poi continua per un'altra pagina a dire: « Nulla dirò delle mene praticate per attraversare quanto si voleva fare... Nulla dirò del Capitolato che si è rifatto nello scorso agosto... Dirò solo che mi spiace sinceramente di non aver potuto che in parte appagare i vostri desideri. Altrove, ripeto, sarei riescito, a Busseto — (è cosa fin da ridere) — non ho potuto. E' vecchio il proverbio: Nemo propheta in patria sua!!! » Con ancora tre punti esclamativi... Ma anche qui c'era un equivoco: il Capitolato non era stato nient'affatto cambiato in vista del musicista proposto da Verdi. E' vero piuttosto che Verdi non era uomo da sopportare e sottostare alle scrupolose pedanterie delle autorità, le quali non potevano lì per lì cambiare tutte le norme tradizionali per un Concorso di tanta importanza. Al quale fu chiamato Ferdinando Savazzini, e fu poi vinto da Antonio Rusca. Ma torniamo all'affare del teatro. Verdi scrisse all'autorità comunale facendo sapere che era « meglio ristorare le patrie finanze... ». E quando seppe che il sindaco dichiarava di aver fatto il teatro unicamente per lui, disse con molta profondità: « Il sindaco ha avuto la vanità di lasciare una memoria dopo il suo regno: s'è servito dei denari del Comune e del mio nome ed ha fatto il teatro. Ha avuto torto... ». Parole meravigliose e valide per tutti o quasi i monumenti eretti agli scomparsi, ma atti a onorare i vivi, a servire di vanità a chi li fa erigere, a far brillare alla loro luce qualcuno di luce riflessa... Nel 1865, nella seduta consigliare dell'agosto, Verdi torna a miti consigli, dopo l'intromissione di amici, e fa dichiarare dal dottor Angiolo Carrara Verdi che dava il suo benestare a che il teatro a lui si intitolasse, e in segno di gratitudine per il dono del palco abbonava al Comune le diecimila lire imprestate per il ponte sull'Ongina. L'apertura del teatro avvenne il 15 agosto: « Lo spettacolo verrà inaugurato con la esecuzione della sinfonia La Capricciosa composta dal M. Cav. Giuseppe Verdi in età di 12 anni. Dopo la sinfonia si daranno il Rigoletto e il ballo comico Un casino all'incanto ». « Alle otto e mezzo si alzò il sipario, e il busto del Maestro circondato di fiori e di veli, coronato di alloro che fu regalato da Roma, apparve agli occhi del pubblico, il quale uscì in uno scoppio di applausi, omaggio spontaneo all'eroe della festa », come ricorda la Gazzetta di Parma del 17, concludendo: « Le signore erano vestite di verde, gli uomini in cravatta verde... Insomma il verde era all'ordine del giorno, anzi della sera... Mancava soltanto G. Verdi ». Torniamo molti anni indietro, quando il Maestro vota per il plebiscito dell'annessione al Piemonte: « Il sindaco e il prevosto di S. Maria degli Angeli presiedevano. Io ricordo — dice P. Dotti — come il canonico Cavallini, benchè aggravato da quei malanni che lo condussero alla tomba, si facesse portare in seggiolone a dare il suo voto. Ma il momento più solenne, il momento inenarrabile fu quando Verdi, aspettato dalla immensa folla di popolo, giunse da Sant'Agata, preceduto dalla banda che era andata ad incontrarlo. Era aspettato da qualche ora, e quando comparve per entrare nella chiesa per andare a deporre il voto, scoppiò un applauso che parve un urlo, un delirio, ed io so che mi par d'esser ancora là, in mezzo a quella folla, battendo le mani e gridando « Viva Verdi », e mi si riempiono ancora gli occhi di lacrime. Il genio, la gloria, la patria, Dio, l'Italia libera, la nostra Italia, della quale era prima delitto il solo pronunciare il nome... Tutti questi affetti si univano nel nostro cuore e si risolvevano in un grido che non si udrà mai più ». Sappiamo che i Bussetani elessero poi Verdi come lo-lo rappresentante. Nei giorni di sua maggiore irritazione con Busseto e i Bussetani, Verdi evitava perfino di passare per la graziosa cittadina con la sua carrozza: « Ora accadde, dice il Lancellotti, che a Busseto, nel 1892, festeggiassero il cinquantenario della prima trionfale rappresentazione del Nabucco alla Scala. I Bussetani si afferrarono alla speranza suprema che il Maestro sarebbe intervenuto alla grande rappresentazione del melodramma, annunziata col concorso di artisti celeberrimi. Ma egli rimase fermo nel proposito pur lasciandosi commuovere. Il teatro di Busseto si erge sul limitare del paese, i finestrini dei camerini si aprono sulla campagna; una strada ampia fiancheggiata da due filari di gelsi, conduce alla porta del palcoscenico. Cantava, fra gli altri, Elena Bianchini Cappelli, una Abigaille superba. Mentre essa sulla scena lanciava il grido: Salgo già dal trono aurato, lo sgabello insanguinato... una carrozza chiusa si fermava sulla strada sotto il finestrone del palcoscenico, lo sportello si apriva e Giuseppe Verdi ne scendeva rimanendo immobile ad ascoltare... ». Fascino adunque del malioso ricordo del primo trionfo, gentilezza doverosa verso coloro che in Busseto ininterrottamente furono orgogliosi del loro Cigno, e poesia notturna della pianura padana richiamarono il Grande tra le case della cittadina cui è indelebilmente legato il suo nome. Che però Verdi, nel profondo dell'animo suo amasse Busseto e non dimenticasse mai la cittadina degli anni della sua adolescenza, lo dimostra il fatto che nel 1869, quando venne nominato Cavaliere dell'Ordine civile di Savoia con diritto a un assegno, volle che tale assegno fosse erogato in Busseto a vantaggio di due giovani tra i più diligenti nello studio ; come pure il fatto che nel 1876 ha voluto ancora una volta istituire in Busseto una borsa perpetua a vantaggio ancora di un giovane meritevole. Circa queste pensioni scrive il Seletti: « Mi è debito ricordare una pensione perpetua di lire 600 annue a titolo di studio eretta dal Maestro G. Verdi che così scriveva il 17 novembre 1876 al sindaco di Busseto: « E' mia intenzione di fondare al Monte di Pietà di Busseto un'annua pensione in favore di un giovane, che mostri speciale attitudine per le scienze, le lettere o le arti... vorrei quindi fissarla in lire 50 mensili, cioè lire 600 annue per la durata di anni quattro. Il capitale consterebbe di lire 800 di rendita italiana ». Non contento di questa generosa e savia donazione, ultimamente nel 1882, disponeva per un'annua rendita di lire 300 in sussidio ad un giovine che si fosse applicato allo studio dell'agraria, e in difetto di questo, da ripartirsi fra i due migliori studenti delle scuole pubbliche di Busseto ». Falsa e ridicola la leggenda che circola tra gli abitanti di Villanova i quali affermano che Verdi costruì in tale Villa un ospedale per fare dispetto ai Bussetani. Busseto aveva già le sue istituzioni ospedaliere, mentre gli ammalati del villanovese dovevano recarsi o essere recati fino a Piacenza, distante 35 chilometri. «Un disgraziato giaceva su un carretto tirato a mano, col quale lo si conduceva a Piacenza perchè aveva una gamba spezzata per una caduta da un albero. Gli urti del carretto, sul fondo stradale spessissimo faceva mandare all'infelice lamenti altissimi, e furono salutari, poichè attirarono la compassione di Verdi che decise appunto di far sorgere l'ospedale di Villanova, in provincia di Piacenza, motivo per cui gli ammalati del luogo non potevano essere trasportati a Busseto, meno distante ». Dal testamento ricaviamo: « Lascio al Monte di Pietà di Busseto tre fondi in Sant'Agata denominati Cipella, Scandolara, Casanuova, salvo sempre il condotto che porta le acque alla Cavitella, con l'onere: 1.o di sussidiare l'Ospedale di Busseto di lire duemila annue... 2.o di sussidiare con mille lire in due rate l'Istituto degli Asili Infantili di Busseto ; 3.o di distribuire in perpetuo l'elemosina di lire trenta per ciascuno a cinquanta poveri del mio villaggio nativo, Le Roncole, il giorno 10 Novembre di ogni anno ; 4.o di assegnare una pensione di lire settanta mensili per quattro anni per ciascuno a due giovani appartenenti l'uno al Comune di Busseto e l'altro al Comune di Villanova d'Arda, i quali si diano allo studio teoricopratico dell'agricoltura ed effettivamente vadino in una scuola od Istituto speciale per compiere i corsi ». In caso di mancata elargizione le somme andranno in altre elemosine per i poveri degli anzidetti Comuni. L'ultima volta in cui Busseto tributò a Verdi vivente un omaggio fu certamente nel 28 ottobre 1900, quando il Tebaldini condusse i suoi alunni e Professori a dare in quella cittadina un Concerto di beneficenza, in segno di omaggio al Grande. Prima del Concerto si recarono a Sant'Agata insieme con il Prefetto di Parma e il Sindaco di Busseto. La serata fu un trionfo: « Fu un susseguirsi di applausi insistenti, calorosi, unanimi; di tutti i numeri si chiese la replica e di tre si dovette concederla. A metà. del concerto il direttore tenne un discorso e le sue parole furono un inno al Maestro, un augurio fervido al glorioso Uomo ». Molti ancora ricordano quella sera meravigliosa: Verdi non aveva nemmeno più l'ombra dei suoi corrucci con Busseto e i Bussetani lo amavano e gli volevano bene quasi « adorandolo se si potessero adorare gli uomini ». Quando nel teatro gremito, stipato si levava un « Viva Verdi » risvegliava un'eco poderosa che ancora non sembra spenta in chi nel teatro che porta il suo nome. Quando si voleva festeggiare il suo giubileo artistico scrisse: «E dire che mi si minaccia anche una pro23 — F. Botti, G. Verdi cessione, venuta con relativi stendardi e discorsi, a Busseto... Dio mio, Dio mio !... » Schivo d'onori e di comparse accademiche, Verdi accettò però con slancio la Presidenza onoraria di una Società operaia di Busseto. Nel maggio 1865 egli scrisse: « Accetto con grato animo, l'onore di essere presidente onorario della Società di Mutuo soccorso degli operai di Busseto. Queste istituzioni sono santissime quando si mantengono nella integrità dei loro principi. Ammetto la politica in parlamento, ma abborro la politica in piazza. Amo la libertà, anzi le libertà tutte nella loro più larga estensione, ma detesto ciò che è illegale e fuor di posto. Non dubito punto che questa istituzione saprà mantenersi scevra da ogni idea politica ed è a questa condizione esplicita che io accetto l'onorevole titolo che mi viene offerto dalla Società Bussetana. Con sentimento di profonda stima... ». Alla... minaccia di essere creato Marchese di Busseto fece di tutto per evitarla, come se si fosse trattato di una gravissima disgrazia. Sarebbe stato infatti un insulto alla sua modestia e riservatezza. Marchese di Busseto?... Egli è il « Nume tutelare di Busseto ». Egli ne è il figlio illustre. Egli è « il Cigno di Busseto». VERDI, SANT'AGATA E LA CACCIA La villa di Sant'Agata fu l'eremo, il deserto, l'angolo solitario del Cigno. Dapprima Verdi la comperò per rendere redditizie le sue prime ricchezze, dopo che aveva già comperato un fondo alle Roncole, e per allogarvi i suoi genitori; ma poi venne ad abitarvi lui stesso, portando con sè la Strepponi, e mettendo i genitori nella vicinissima frazione di Vidalenzo. Altre compere di poderi circostanti alla Villa, alcuni iniziali lavori di abbellimento e di dissodamento, lo portarono infine ad amare questa casa e queste terre con passione, sì da dedicare ad esse alle volte dei mesi interi di sorveglianza, di spese, di rifacimenti, di costruzioni nuove. E' inutile che noi insistiamo su questo argomento quando sappiamo che è uno di quelli più conosciuti della vita di Verdi, e tutti coloro che vanno a Sant'Agata ne parlano poi con commozione sui quotidiani. Ci piace solamente ristare un poco a rimirare il Maestro che si interessa della piantagione di un filare di gelsi, vederlo tra i campi di frumento a sorveglia- re la mietitura e poi sul palmo della mano osservare se il frumento ha i chicchi rotondi o « magri », scrutare i buoi comperati al mercato di Fidenza, o i puledri da addomesticare... Tra gli operai egli passa ore e ore, dando ordini, segnando limiti, suggerendo cambiamenti; coi muratori si sente un architetto e mette sossopra la casa, sorveglia la costruzione dell'Ospedale di Villanova, tenta impianti arditi di pozzi per irrigazione... Gioiva nel suo cuore quando le note nascevano vorticosamente, ma anche gioiva grandemente quando la terra gli offriva le messi « ondeggiar come fa il mare ». « Ho fatto nello stesso tempo il giardino e il Rigoletto », scrive egli tranquillamente. E dice ancora: « Io amo troppo il mio deserto e il mio cielo ». Sembra quasi che, come ogni pianta fruttifica solamente nel suo terreno, così Verdi dal '50 in poi non abbia a comporre velocemente che in questa sua villa di Sant'Agata, nella quale trovava calma, serenità, distrazione, nei lavori dei campi e di costruzioni, e dove i pochi amici dei dintorni ascedevano al suo santuario per ore di lieto conversare. Ma una cosa noi vogliamo documentare: la passione di Verdi per la caccia, nei primi anni di soggiorno a Sant'Agata, in quel sito che, scrivendo al Mariani, dice: « non potrebbe essere più orribile ». « Mandami il fucile colla tracolla », gli aveva raccomandato in una sua lettera, e in altra lo invita a Sant'Agata cacciare negli acquitrini del Po, mandandogli in regalo un fucile, perchè cominci ad addomesticarsi con esso: « Vi mando quest'arma. Guardatela, palpatela, addomesticatevi con lei, e poi sparate; alla fine non morde, ammazza soltanto! » Quando si deve dare la Forza del destino a Pietroburgo, e nell'intermezzo Verdi va a Londra per l'Inno delle nazioni, sappiamo che non dimentica Sant'Agata e il desiderio di andare a caccia sulle sponde del gran fiume che dà il suo nome alla pianura padana. E' vero che la caccia allora dava soddisfazioni reali, mentre ora non è che una esercitazione di spari a salve, e il cacciatore deve al suo ritorno, passare dal fotografo per alcuni ingrandimenti... ma bisogna sentire come Verdi si interessa di fucili e di beccacce: « Sono da diversi giorni in Italia, — ancora al Mariani è rivolta la lettera, — e non ti ho ancora scritto. Tu me ne scuserai, non è vero? Sono sulla ferrovia che da Torino va a Piacenza. Porto con me due belle armi comprate a Londra da uno dei primi armaioli. Una carabina come quella di Sir Hudson, ma forse più fina, e una piccola a due canne... Quando verrai a provarle? » La Strepponi che non aveva la distrazione della caccia e nemmeno quella dei lavori tra gli operai, (doveva però continuamente spostare le masserizie, e preparare sale da pranzo ogni giorno in luogo diverso, meno che nella stalla e nella cantina...; doveva fare i bauli e rifarli ogni volta che Verdi si metteva in viaggio...) — la Strepponi scriveva all'Escuder: « Fate in modo di persuadere Verdi di venire a Parigi senza lasciare me a Sant'Agata dove mi annoio très ro"alment ». Ed ancora alla Maffei: « Almeno avessi lì vicino ima famiglia con cui scambiare una parola, ma no, nessuno per parecchi chilometri all'ingiro!!! Quando la neve copre quell'immensa pianura e gli alberi coi loro nudi rami sembrano scheletri desolati, io non posso alzare gli occhi per guardare fuori: copro le finestre con cortine fiorate fino all'altezza di un uomo, e mi sento una tristezza infinita, un desiderio di fuggir la campagna, e sentir che vivo fra viventi e non fra gli spettri e il silenzio di un vasto cimitero ». Per questi motivi Giuseppina convincerà Verdi a scegliersi Genova come dimora invernale, lontano dalle quaglie... « Son qui fra mattoni e calce e muratori. Mangio e non faccio nulla. Ah sì, vado a caccia! Tra poco si comincerà con le quaglie e sarà un divertimento. Ma con le quaglie bisogna tirar diritto! Intanto tutte le mattine torno a casa con dieci o dodici uccelli tra piccini e grossi, senza allontanarsi gran che! Domani con un amico andrò, per la prima volta, al bosco e torneremo carichi di tortore, di merli, di storni, di Gallus petri e anche di pernici. Quando vieni qua comprami una ventina di cartucce numero 15 e 16... ». E ce n'è a sufficienza per far venire l'acquolina in bocca ai seguaci di Nembrot del nostro tempo... E Verdi non era cacciatore da sballarle grosse... Questa continua strage di innocenti bestiole non piaceva alla Peppina, e Verdi smise il diporto della caccia senza avvedersene. Come non ricordare che anche il Pascoli ebbe un tempo il desiderio di diventar cacciatore? — « O montanin e belle, — lo vedrete il maestro di latino, — sì, lo vedrete il pedagogo imbelle »... ma giunto dalla Casa di Barga al Rio dell'Orso non si ricordò più del suo fucile che gli aveva regalato Adolfo De-Bosis, non si ricordò del suo desiderio di diventar cacciatore, nè delle montanine belle che lo avrebbero ammirato... Ascoltò la voce degli uccelli cinguettanti e gli piacque come la più dolce parola nel silenzio del bosco e dell'anima... Ma raccogliamo dai campi e dall'onesto diporto della caccia una lezione di Verdi. Ne ha parlato magistralmente l'amico Prof. Pietro Berri, in occasione di una visita di medici a Sant'Agata. Le sue riflessioni sulla duplice lezione, d'arte e di vita, che Verdi ci ha dato e ci dona, sono apparse in Nicia nell'agosto del 1939: « Verdi, anche per questo lato, impartisce una grande lezione, eccelso esempio di sanità morale, di saggezza veramente romana in un mondo come quello artistico dove il disordine di vita e lo squilibrio nervoso, sono o un appannaggio fatale o una posa. Verdi non fu affatto uomo eccezionale. Vanamente cercheremmo nelle biografie e nei carteggi particolari erotico sentimentali o accenni a complessi freudiani. Dal suo carteggio intimo si manifesta in pieno il buon senso di un saggio uomo normalissimo e equilibratissimo, di un lavoratore metodico e sistematico, premiato da una longevità miracolosa e feconda. E il non esser stato (fisiologicamente) — un uomo eccezionale gli permise, — (accanto all'esempio di Leonardo da Vinci) di essere un artista eccezionale ». Aveva scritto lo Zibordi: « Oltre che nella fibra nativa nell'esistenza sobria, sana, semplice, metodica, condotta il più possibile all'aria aperta dei campi », era il segreto della forza indomita di Verdi che pareva immortale. Egli fu una smentita vivente alla teoria, pur tanto vera per altri versi e in altri casi, che il genio si accompagni alla pazzia o perlomeno ad uno squilibrio di funzioni di vita; e che l'ingegno sovrano ed il lavoro artistico escludano la sanità fisica dell'esistenza materiale ». Verdi « è l'uomo equilibrato che attende al suo lavoro artistico ed ai suoi affari di proprietario di terre ; che sa scegliere un buon soggetto per una sua opera e un paio di buoi per i suoi campi al mercato di Borgo San Donnino (ora Fidenza), dove si recava col suo fattore; che coltiva la musica, i fiori, le piantagioni e alleva cavalli e bestiame con orgoglio di competente e diligenza di ottimo amministratore, che non si lascia nè sfruttare dagli editori, nè ingannare dai negozianti, che fugge i convegni mondani e le veglie snervanti dei cabarets, cari ai musicisti nottambuli e nevrastenici, e si compiace del suo giardino e dei suoi terreni: si alza alle 5, si corica alle 10, preciso come un orologio, e cura la propria salute senza fiducia nelle medicine ma devoto osservante dell'igiene ». Amava le acque di Tabiano e quelle di Montecatini, come cura e come riposo e rispettava e onorava i medici quali il Vigna, il Grocco. Riassume il Berri: « Il luogo comune del musicista e del letterato scapigliato, squattrinato, disordinato, agitato fra amori, avventure e debiti, eccessi alcoolici e sessuali, viene negato dal suo esempio ». Il Lumbroso cercava l'anormale nella vita di Verdi e si arrabbiava quasi di non trovarlo ; ne chiedeva al Pizzi di Parma, il quale avrebbe potuto rispondere che di eccezionale in Verdi era il fatto che in lui tutto era normale, come disse Boito in altra occasione. Esempio tipico di sanità morale della razza, del genio italico, dell'amor di patria, e di equilibrio morale: Verdi! VERDI E PARMA Il Senatore Innocenzo Corza mi narra quest'episodio grazioso: « A Parma io fui candidato politico ai tempi delle più romantiche speranze e ricordo che Giuseppe Verdi mi salvò dall'ira dei Nocetani. Ero andato là per tenere un discorso, ma il mio presentatore volle apostrofare gli elettori con queste parole: « Pellirosse di Noceto... ». Fu un finimondo ed io non potei ottenere tregua se non promettendo che non avrei parlato di politica ma di musica verdiana. Per celia o per sfida quella buona gente accettò ed il mio discorso, in cui la politica riaffiorava tra insidia e insidia dei ricordi verdiani, divertì gli ascoltatori che cessarono di farmi vedere troppo da vicino la magnificenza dei loro bastoni campestri... E mi rimase in cuore sempre un senso di gratitudine per la cortesia musicale della gente parmense ». C. F. Cavalcabò ama ricordare una frase del defunto Generale Cantore, il quale diceva che « tutti i suoi soldati, compresi quelli che provenivano dalle più solitarie bicocche alpine, sapevano chi era Verdi, ma non sempre sapevano chi fossero stati Colombo, Napoleone, Manzoni ». A me capitò or non è molto, tra soldati, di chiedere a uno di quale città fosse, e, sentendomi rispondere che era di Mantova, dissi: « La città di Virgilio »; ma quegli corresse: « No, sono mica di Virgilio, sono di... » e qui nominò un paese, lasciandomi l'impressione che le glorie patrie non sono sempre da tutti conosciute. Ma Verdi a Parma non solo è ben conosciuto come da tutti gli Italiani anche da quelli delle bicocche alpine, ma è amato, ammirato, gelosamente difeso col più sacro degli entusiasmi. Verdi è il nume tutelare degli amanti di musica, e i luoghi ove egli nacque sono mèta di visite da parte di tutti i Parmensi. Bruno Barilli chiamò Parma la roccaforte di Verdi, con una definizione che non è soltanto un'immagine della sua doviziosa fantasia, ma una assiomatica e indistruttibile verità. Parma chiese sempre l'onore di poter dare le opere di Verdi quasi subito, o il più presto possibile dopo le « prime » nei più celebrati teatri e nel nostro Regio le opere verdiane ebbero successi memorabili, ad eccezione del Finto Stanislao e del Corsaro che sono le due meno felici del Maestro. Verdi contava molte amicizie a Parma e lo dice egli stesso in una lettera scritta al tempo in cui doveva subire l'esame per il posto a Busseto. Ma l'amicizia più gradita era quella di Jacopo Sanvitale col quale andò a portare a Re Vittorio Emanuele i voti del plebiscito per l'annessione al Piemonte, e dal quale fu presentato a Milano alle folle acclamanti come « Prence dell'itala armonia ». La rappresentazione del Nabucco per ventidue sere, dal 17 aprile al 22 maggio del 1843, restò doppiamente cara a Verdi, per l'entusiasmo dei Parmensi e per lo sbocciare dell'amore con la Strepponi che gli procurava trionfi quale insuperata Abigaille e lo accompagnava in gita per ore serene sui colli come intime erano quelle dalle quali nacque l'amore, che diventò desiderio in seguito e fiori nella sacra unione del matrimonio formando nella vita del Maestro « il più bell'accordo della sua vita di musicista», secondo la sua espressione. Ma in Parma Verdi trovò preziosi collaboratori: « A Carlo Bosoni, riassume Mario Ferrarini, affida la concertazione della Traviata al teatro Gallo a S. Benedetto che dovrà portarla al trionfo dopo il fiasco alla Fenice ; per il tenore Gardoni scrive i Masnadieri; per il baritono Ferri l'Aroldo; per Antonio Superchi l'Ernani; per il basso Arati l'Alzira e la Miller. Adalgisa Gabbi è la sua Desdemona prediletta; mentre Enrico Barbacini eccelle nel Don Carlo, nell'Aida, nella Messa. E ancora: Verdi affida a Emmanuele Muzio l'Aida all'Opera di Parigi; a Giovanni Rossi l'Aida a Parma, e lo proteggerà poi perchè abbia il posto del Mariani a Genova; a Emilio Usiglio l'Aida a Roma. Ed è sempre Verdi che impone a Torino, dove si rivela il magnifico direttore dell'orchestra e del liceo, Giovanni Bolzoni, e a Bologna quale Maestro di contrabbasso, Eustacchio Pinetti, la cui scuola diviene in breve la prima d'Italia. E' Verdi che pensa ai funerali di Costantino Dall'Argine, l'autore del Brahama morto nell'indigenza. Anche i compositori parmigiani del suo tempo non imitano che lui ». Nelle pagine che parlano dell'Aida troviamo lodi sperticate per Girolamo Magnani parmense, « il primo scenografo d'Italia » e per Gaetano Mastellari « il primo macchinista d'Europa » e sappiamo quanto profondamente abbia scavato nel suo cuore e quanto rimpianga in altre città il modo superbo della esecuzione dell'Aida, la seconda dopo Milano, per la quale si era accordato colà con le autorità parmensi che chiedevano tale onore, da Verdi subito concesso. A Verdi piaceva anche l'ambiente cittadino di Parma, tutto inteso negli affari, nei giorni di mercato e non sdegnava trattarvi gli affari suoi. Negli ultimi anni di vita ebbe rapperti di amicizia con Mariotti e l'opera di Verdi a pro del nostro Conservatorio fu grandissima e immensamente benefica, innanzitutto suggerendo la nomina dal Direttore in Gicvanni Bottesini e intervenendo persanalmente con una sua raccomandazione sì che Bottesini deve accettare ed è Direttore del Conservatorio e della stagione teatrale del 1888-89, anno della sua morte. Al Paganini del contrabasso Parma tributò onoranze funebri spettacolari. Sempre per interessamento di Verdi a succedere venne nominato Faccio, con scambio di lettere tra Verdi e Mariotti custodite nell'Archivio Micheli e pubblicate in Aurea Parma, dalle quali appare il continuo interessamento del Maestro anche dopo la morte di Faccio, can le lodi a Boito che aveva accettato di essere Direttore onorario, sia con la cooperazione col Gailgnani e il Tebaldini in tutta ciò che fu riforma e miglioramento del Conservatorio stesso. Il Conservatorio aveva inaugurato la Sala dei Concerti nel 1893 dedicandola al Maestro, il quale telegrafava: « Sono riconoscente della dimostrazione che il Conservatorio di Parma ha creduto fare in mio onore. Ringrazio ed auguro prosperità al Conservatorio per il bene dell'arte nostra ». Nel 1891 Verdi si dimostrò lietissimo per le esecuzioni del Gallignani, lodando l'inclusione del Palestrina: «Il Vera principe della musica sacra ed il Padre Eterno della musica italiana ». Il Maestro Tebaldini ha rievocato recentemente i suoi rapporti con Verdi e da queste pagine appare un interessamento continuo, affettuoso per quanto avveniva nel nostro Conservatorio. Godeva nel sapere che in esso vi era qualche speranza per l'avvenire dell'arte, e al nome di Pizzettí disse: « Ditegli che guardi sempre innanzi e sempre piu in alto: soprattutto che ricordi di essere italiano ». Proprio in questi giorni entra nella Casa di riposo a Milano il figlio di Costantino Dall'Argine, passato « dall'ago ai milione, e dal milione all'ago ». Suo nonno era stato Maestro di Cappella di Maria Luigia di Parma e suo padre ebbe i funerali per generosità di Verdi, come dicemmo, non tanto perchè musico, quanto perché parmigiano adottivo, giacchè era oriundo romagnolo. La corrispondenza con Caterina Pigorini-Beri è nota: la lettera più conosciuta è quella nella quale diceva: « Se sapessi scrivere le direi chissà quante belle cose, ma ahimè, nato povero, in un povero villaggio, non ho avuto mezzi di istruirmi in nulla: mi hanno messo sottomano una certa meschina spinetta e qualche tempo dopo mi son messo a scrivere note sopra note e nient'altro. Ecco tutto! Il peggio si è che ora a 82 anni, dubito forte del valore di quelle tante note! E' un rimorso per me, una desolazione! Fortunatamente a 82 anni c'è più poco tempo per desolarsi ». Modestia grande e umiltà davanti alla Pigorini Beri, illustre scienziata. In occasione delle feste Verdiane a Parma comparvero nella Mostra alcune lettere inedite di Verdi al Rossi circa l'allestimento dell'Aida a Parma, dopo la rappresentazione a Milano. Fu ricordato allora sui giornali il famoso episodio Pinetti. I contrabassi non riuscivano a eseguire un pezzo di estrema difficoltà nelle prove dell'Otello alla Scala. Qualcuno disse a Verdi che l'esecuzione era impossibile. « Impossibile? », chiese Verdi quasi sorridendo. Pochi giorni dopo comparve alla Scala un omone grosso e tozzo: il Pinetti, famoso contrabbassista. Messosi nell'orchestra con gli altri, egli esegui con la massima disinvoltura il pezzo impossibile... « Un momento! disse Verdi: Così signori, si suona a Parma ». Nel 1913, primo centenario della nascita di Verdi, Parma ne tenne una commemorazione superba con pubblicazioni, una esposizione, e stagioni d'opera. Pochi anni dopo inaugurava un monumento grandioso che sgraziatamente sente già le ingiurie del tempo, meno che nei bassorilievi in bronzo, i quali sono opera d'arte squisita e finissima. Dalle feste commemorative del quarantennio della morte è nata la speranza di avere presto in Parma il CENTRO VERDIANO, che sarà meritatissimo e utilissimo. 24 — F. BOTTI, G. Verdi VERDI E MONTECATINI Emidio Frati nel suo volume su « Montecatini e i suoi bagni » ha scritto lungamente su G. Verdi e la Locanda Maggiore e in « Nicia » dell'ottobre 1932 è ritornato sull'argomento il Dott. Carmelo Gustinelli, che conobbe il Maestro, per il quale serba incondizionata ammirazione. Carlo Paladini così scriveva nella Rassegna Nazionale a venti giorni di distanza dalla morte di Verdi: « A Montecatini, al Tettuccio, me ne rammento bene come cosa d'adesso... Arrivava Verdi, la testa diritta, la gamba lesta, il piè fermo, il solito cappellaccio dei Carbonari, il cappellone italico della tradizione classica del nostro risorgimento nazionale; la giacchetta, anzi il giacchettone nero a due petti, e l'ombrello di cotone dal rozzo manico di legno ritorto... Al Tettuccio c'era gente di tutti i paesi, di tutte le qualità, celebri e ignoti; una folla composta di elementi così diversi, che, ripensandoci un po' torna a mente quello che di simili confusioni umane diceva Heine, principe dello scherno: I nomi gridano, quando si mettono gli uni accanto agli altri ; ma gli uomini vivono in pace come una collezione di oggetti antichi... Arrivava Verdi... Non vi erano più nè scienziati, nè letterati, nè nababbi, nè uomini politici in attività di servizio o a disposizione del Parlamento, nè grandi scultori, miliardari o virtuosi del pennello... Non c'era nessuno all'infuori del Maestro. Tutti gli sguardi si volgevano verso di lui. Quando c'era Verdi c'era soltanto lui, o meglio, Verdi assorbiva da solo la curiosità e l'interessamento del pubblico... ». A Montecatini Verdi andò la prima volta, dopo aver visitato l'Esposizione di Torino. Aveva dei piccoli disturbi al cuore, e ricordava che suo padre era morto di crisi cardiaca... L'ingegnere De-Amicis che da anni frequenta Montecatini consiglia Verdi a provare. Il Medico delle Terme, dott. Fedeli lo visita e lo rasserena. Nelle stanze da lui abitate tutto è ancora come al tempo di lui, con mobili all'antica, che una volta il padrone della Locanda aveva rinnovati, credendo di fare una sorpresa a Verdi, dovendo poi rimetterli all'antico. Una lapide ricorda il soggiorno di Verdi « quando quasi stanco di gloria — fra il verde dei campi e lo splendore del cielo — cercò la quiete serena dello spirito — che sempre antepose a tutti gli strepiti del mondo ». « E fu qui, dice E. Frati, proprio in questo modesto quartiere di due stanze, che G. Verdi strumentò l'atto IV dell'Otello, e scrisse quasi interamente il suo Stabat Mater, sentendosi credente fino all'ultimo istante di sua vita ; fu qui dove nella quiete serena dello spirito trovò dolcemente riposo dopo tanto lavoro, dopo tante battaglie artistiche, e lo trovò nel numero ristretto di quegli amici che avevano per lui affetto fraterno e ammirazione devota ». Dopo il Fedeli il suo medico fu il Grocco « capotavola » immancabilmente ad ogni pranzo o cena. Verdi lo chiamava il suo tiranno, poichè esigeva che anche lui seguisse l'osservanza della lista dei cibi indicata ai frequentatori di Montecatini. Diceva poi qualche volta: « Non credo molto alla medicina, ma credo a Grocco », quel Grocco che senti gli ultimi battiti di quel grande cuore sul letto di morte, e che abbandonata la mano inerte del Maestro all'ultima pulsazione, stette una ttimo in angoscioso silenzio e poi eruppe in un pianto strozzato. Fu con Antonio Mordini che Verdi parlò di Puccini e Catalani dando questo giudizio: « Il primo ha maggiore ingegno, il secondo è molto superiore per coltura. Faranno molta strada ambedue, se però non si lasceranno sedurre dai primi successi e dalle arti calcolatrici degli impresari ». Su Catalani si pretese poi raccontarne di grosse come dette da Verdi. Tra le persone che Verdi intratteneva volentieri con sè era Don Montebruno la cui amicizia e stima si era iniziata a Genova, nel suo orfanatrofio. La notizia della morte di Re Umberto gli giunse a Montecatini, quando vi fu per l'ultima volta e tale fu il dolore che non gli resse il cuore di restare nella cittadina in cui le ore passavano sempre serene. Le finestre dell'appartamento del Maestro davano sul giardino del Teatro di Varietà, nel quale si eseguivano musiche e si recitavano prose, che Verdi seguiva attentamente nascosto dalle persiane. Una volta gli capitò di sentire una certa canzonetta del Cuculo che tanto gli piacque da fargli aprire le persiane ed esclamare: «VogliaMo il bis, vogliamo il Cuculo... ». La visione inaspettata di Verdi che batteva le mani sorridente dalla finestra, suscitò una dimostrazione di simpatia verso di lui, spontanea e gioiosa. Un'altra iscrizione dice: « G. Verdi — negli ultimi 25 anni — cercò a queste acque — il segreto - di far lunga la giovinezza — e confidò a queste aure — quelle indefinite note dell'anima — che il genio divina — sulla soglia dell'eternità ». Corrado Ricci scrisse pure di Verdi a Montecatini, e ricordò le frasi sulla eccessiva autocritica di Boito per il Nerone: «Non bisogna esagerare nella smania della perfezione, perchè è il vero modo di non concluder nulla. La natura, la sincerità di un artista si mostrano meglio mantenendo intatto ciò che esce dal suo cervello, dalla sua ispirazione, che col ritornar sempre sui proprii passi ». Gli accennarono che solo il Tiziano forse fu in tarda età fiorente di salute, e lavorò giovenilmente come Verdi aveva lavorato al Falstaff: « Il Maestro sorrise e disse: « Tiziano negli ultimi anni non ci vedeva più. Ma è curioso che morì di peste. Se non l'uccideva la peste forse vivrebbe ancora... A. E qui si abbandonò a una risata. Poi parlò di Michelangelo, altro longevo vegeto e forte, con vera compiacenza ». Anche Renato Fucini ricorda Verdi nel suo soggiorno in Val di Nievole. Tutti lo ricordano a Montecatini sorridente e faceto, meno che coi fotografi. « Sembra, dice il Gatti, che Verdi sdegni di meno in meno la vicinanza di tanta gente che gli si raccoglie intorno, come s'egli volesse ora tenersi vicino alla vita ». Quando gli si presentò un giorno un direttore di piccola orchestra che suonava a quattro passi di distanza, a chiedere qual pezzo verdiano avesse potuto suonare: « Tutto, meno musica di Verdi » rispose il Maestro, ma non per modestia o per cattiveria: « Gli è che quando mi riesce, cerco di risparmiarmi il dolore di sentire maltrattata la mia musica » osservò agli astanti. Quella musica che interpretata da Adelina Patti sembrava divina, e che al Verdi faceva dire: « Penso che l'ho proprio scritta così ». VERDI E MANZONI Una delle pagine più belle di tutta la vita del Maestro è quella dei rapporti col Manzoni. Altri ne scrissero lungamente ammirando l'affetto che si portarono questi due uomini. Cediamo la parola ai fatti e ai documenti. Nel maggio del 1867 Giuseppina Strepponi si recò a Milano, e, tramite la Maffei vide e ossequiò il Manzoni. Così descrisse l'impressione dell'avvenimento nell'animo di Verdi: Io aggiunsi con un'affettata indifferenza: « Se poi andrai a Milano ti presenterai al Manzoni. Egli ti aspetta ed io vi fui con lei l'altro giorno. Ponf!... ». Qui la bomba fu così forte ed inaspettata che non sapevo più se dovevo aprire gli sportelli della carrozza per dargli aria, o se dovessi chiuderli, temendo che nel parossismo della sorpresa e dalla gioia non mi saltasse fuori. E' venuto rosso, smorto, sudato, si levò il cappello, lo stropicciò in modo che per poco non lo ridusse in una focaccia. Più (e questo resti tra noi) il severissimo e fierissimo orso di Busseto, n'ebbe pieno gli occhi di lagrime e tutti e due commossi e convulsi siamo rimasti dieci minuti in un completo silenzio. Potenza del genio, della virtù dell'amicizial... Da domenica in poi in questa solitudine i nomi del santo e tuo sono ripetuti ogni momento e con qual concerto di lodi e di affettuose parole te le lascio immaginare !... Abbiamo detto che Verdi amava il Manzoni per la sua figura dominante e per il suo capolavoro I Promessi Sposi. Ciò che insomma esercitava su lui tanta influenza era la « potenza » del genio, della virtù e della amicizia stessa che egli riteneva immeritata, dalla stima che Verdi aveva delle virtù cristiane di Manzoni, e di « Santo ». Ecco un giudizio di Verdi secondo ]a sua immensa genialità spontanea e sublime, indipendente da qualsiasi formazione di scuola e di lunghi studi. In una lettera alla Maffei: « Quanto invidio mia moglie di aver visto quel grande! ma io non so se anche venendo a Milano avrò il coraggio di presentarmi a lui. Voi ben sapete quanta e quale sia la mia venerazione per quell'uomo, che secondo me, ha scritto non solo il più gran libro dell'epoca nostra, ma uno dei più grandi libri che siano usciti dal cervello umano. « E non è solo un libro, ma una consolazione per l'umanità. Io avevo sedici anni quando lo lessi per la prima volta. Da quell'epoca ne lessi molti altri, su cui, letti, l'età avanzata ha modificato e cancellato i giudizi degli anni giovanili, ma per quel libro il mio entusiamo dura ancora grande. Anzi conoscendo meglio gli uomini si è fatto maggiore... ». Giudizio questo che si legge e si rilegge con sorpresa e stupore, per la sua limpidezza, la sua genialità e la sua profondità. In uno scambio di fotografie fra i due grandi, furono messe queste dediche: « A Giuseppe Verdi, gloria d'Italia, un decrepito scrittore lombardo ». « Vi stimo e venero quanto si può stimare e venerare su questa terra e come uomo e come onore di questa nostra Patria, sempre travagliata. Voi siete un santo, Don Alessandro ». Il trenta giugno 1868 Verdi si recò da Manzoni, e così ne scriveva alla Maffei il 7 luglio: « Cosa potrei dirvi di Manzoni? come spiegarvi la sensazione dolcissima, indefinibile, nuova prodotta in me alla presenza di quel santo, come voi lo chiamate? Io mi gli sarei posto in ginocchio dinnanzi se si potessero adorare gli uomini ». Altre parole profondissime sono queste: « Quando andate da Manzoni baciategli la mano per me e ditegli tutto quello che la più profonda ammirazione vi può suggerire e che io non saprò mai dire. E' strano ; io timidissimo un giorno, ora non lo sono più, ma avanti a Manzoni mi sento così piccolo, — (e notate bene che sono orgoglioso quanto Lucifero) — che non trovo mai o quasi mai la parola ». Sapendolo infermo e triste riscrive il 25 giugno del 1872: « Sento nuovamente quanto mi dite di Manzoni. La descrizione che ne fate mi commosse fino alle lagrime, che, quantunque indurito della sozzure di questo mondo, mi resta ancora un po' di cuore, e... piango ancora. Non lo dite a nessuno, ma qualche volta piango... ». Dice M.le Scherillo: « Verdi tanto stimò questo grande come scrittore e lo venerò come uomo, modello di virtù e di patriottismo>. Quando Verdi e Manzoni furono ugualmente a Torino, quando in Parlamento si votò la legge della proclamazione del Regno d'Italia, non ebbero l'ardire di avvicinarsi: « Verdi aveva così profonda venerazione per le virtù dell'uomo che senti timore di avvicinarsi a lui; e il Manzoni, nella sua discrezione, non volle disturbare il musicista che sapeva alieno da vani complimenti convenzionali,. A queste finezze arrivano i veramente grandi. nella cui vita ogni cosa è spontanea e naturale, aliena da finzioni e ricercatezze occultate. Da una lettera all'Escudier, scritta due giorni dopo la visita fatta da Verdi al Manzoni, abbiamo rilevate queste parole: « Ho visitato il nostro grande Poeta che è anche un gran cittadino e un sant'uomo. Assolutamente nei nostri grandi vi è un certo non so che di naturale, che non ritrovo in quelli degli altri paesi ». Ma ecco che in una terza lettera, dopo quelle alla Maffei e all'Escudier, Verdi scrive al Du-Locle: « Ho reso visita al nostro grande poeta. Povero vecchio! Se voi vedeste qual semplicità, qual naturalezza. Io mi gli si sarei gittato in ginocchio dinnanzi, giacchè quegli è veramente uno scrittore serio, che passerà alla storia non solo come il primo scrittore dei tempi nostri, ma primo davanti ai grandi di tutti i tempi. Egli lascia un libro, ma un libro vero, e le più belle delle nostre poesie liriche e degli Inni sacri, quali i Profeti non hanno scritto di meglio. E tutto è perfetto. Che volete? quando io trovo qualche cosa di bello e di buono — (ne abbiamo così poco) — io resto in estasi a contemplarlo ». Dal fatto che Verdi a tutti sente il bisogno di dire che ha visto il Manzoni, e che a tutti dice di aver trovato in lui il più grande uomo dei tempi nostri, come dalle parole in francese, che io ho tradotto un po' liberamente, indirizzate ad un francese al quale poco importava di Manzoni, giacchè in Francia il suo grande romanzo non è mai stato tenuto in degna considerazione, si ricava ancora una volta l'importanza dell'avvenimento e dell'amicizia ancor più profonda dopo l'incontro tra Verdi e Manzoni. Da parte sua così dice Paolo Bellezza, al termine di uno studio sui rapporti tra Manzoni e Verdi: « L'uomo fu, nell'uno e nell'altro, sano: sano nella compagine, come nelle varie facoltà e nell'esplicazione di ciascuna di queste. La legge della misura governò sentimenti ed azioni, e vi mantenne un equilibrio costante. Ebbero modestia vera ma decorosa, e non disgiunta dalla coscienza del merito proprio. La semplicità del costume non ismentirono mai, chè anzi, parve in loro rifulgere di più vivida luce, quanto maggiore era la gloria, che, quasi loro malgrado, andava circondandoli. Ma che tesori di bontà sotto la scorza della burbera ruvidezza! Io non so se altri grandi abbiano mai raccolto insieme con il plauso della pubblica ammirazione, più gran tributo di simpatia ed affetto ». « Che bontà la quale dovunque trabocca da un cuore ricolmo... », lasciò scritto di A. Manzoni il più virtuoso ed il più grande dei suoi amici, il Rosmini. Ed è il grido che tante volte è uscito anche dalla bocca di coloro che da vicino conobbero Giuseppe Verdi: Egli ha santo il cuore quanto altissima la mente ». Sono le parole che la contessa Maffei soleva ripetere di lui e che sembrano il ritratto anche del Manzoni. « L'infinito avvivò ed animò il loro genio, senza il quale non si sarebbero cantate le immortali speranze dello spirito ». Le analogie tra Manzoni e Verdi possiamo così riassumerle con P. Bellezza: si formano ambedue da sè più che nelle scuole; vissero fino a tardi età con limpidezza di mente ; ebbero normali manifestazioni del loro genio in età non precoce, ebbero mogli esemplari e ambedue passarono a seconde nozze; furono benefici coi poveri e coi dipendenti, contribuirono con la loro opera al patrio riscatto ; disdegnarono la « politica parlamentare »; amarono e onorarono Cavour ; tutti e due morirono con un ultimo pensiero alla dinastia sabauda, il primo invitando alla preghiera per l'Italia e Casa Savoia e Verdi mentre stava musicando la preghiera di Re Umberto ; vissero e lavorarono in ville e campagne dai nomi sacri di Brusuglio e S. Agata; ammirarono Shakespeare ambedue sommamente e furono antesignati e alfieri gloriosi del romanticismo in Italia; furono contadini e di Manzoni agronomo fu stampata una monografia del prof. A. Galanti, mentre Verdi amò chiamarsi il « contadino di Roncole »; ebbero dal popolo onori plebiscitari e il fine umorismo manzoniano si può bene riscontrare in Verdi umorista come è il titolo di un libro di L. Alpino. Il 2 maggio 1873, il giorno dopo la morte di A. Manzoni, Verdi scrisse a Giulio Ricordi: « Sono profondamente addolorato della morte dei nostro grande. Ma io non verrò domani a Milano, chè non avrei cuore di assistere ai suoi funerali. Verrò fra breve per visitare solo e senza essere visto e forse (dopo ulteriori riflessioni e dopo aver pesato le mie forze), per proporre cosa ad onorarne la memoria. Per ora tenete il segreto... ». Il 2 giugno Verdi assolse il voto fatto di visitare da solo la tomba di Alessandro Manzoni nel cimitero monumentale di Milano. Egli rimase lungamente assorto in religiosa contemplazione davanti al tuniolo del Manzoni. Da quel momento egli ha deciso di scrivere la Messa di Requiem, monumento « aere perennius ». Verdi, scrivendo al Sindaco di Milano, dal quale aveva avuti ringraziamenti per il pensiero di onorare Manzoni con una Messa di Requiem, diceva: « Ill.mo Signor Sindaco, — Non mi si devono ringraziamenti nè da lei nè dalla Giunta, per l'offerta di scrivere una Messa funebre per l'anniversario di Manzoni. E' un impulso, o dirò meglio, un bisogno del cuore che mi spinge ad onorare, per quanto posso, questo Grande che ho tanto stimato come scrittore, e venerato come un uomo, modello di virtù e di patriottismo... ». Modello di virtù, e le virtù del Manzoni erano virtù che ne facevano un santo, ed erano queste le virtù che Verdi ammirava in Manzoni, nel momento stesso che ne avevano fatto un grande cittadino e patriota. La Strepponi è soggiogata dalla grandezza del Manzoni e dalla stima che ne ha Verdi, per cui all'annunzio della malattia dell'autore de I Promessi Sposi scrive alla Maffei: « ... Potenza di Dio, come sei grande e terribile ! Immaginati che proprio in questo momento sto leggendo i suoi Promessi Sposi, quel libro divino... ». Ma Verdi scrive pure alla Maffei, esterrefatto per la morte del figlio del Manzoni e per la malattia che gli oscura la mente: « Povero Manzoni! La morte del figlio, il sostegno della famiglia e quell'altissima mente che si spegne !... Ciò è tremendo ! La mente di Manzoni spenta! E la Provvidenza? Oh se vi fosse una Provvidenza credete voi che si catenerebbero tante sventure sulla testa di quel Santo?!... » A parte la frase sulla Provvidenza che Pizzetti dice « potrà forse parere blasfematoria ai bigotti » ma che ci dice invece, per chi conosce lo stile verdiano, come « è piena di tragica angoscia », non ci resta che meditare su quel: « Ciò è tremendo ! », per ricavarne lo schianto nel cuore di Verdi per la malattia del Manzoni, che non si stanca di chiamare il « Santo », come quando, alla sua morte, prima di visitarne la tomba, chiede alla Maffei: « Dov'è sepolto il nostro Santo? » Il 29 Maggio avvengono a Milano i funerali del Manzoni con partecipazione totalitaria delle autorità e della cittadinanza, e Verdi è silenzioso e meditabondo nel suo romitaggio di Sant'Agata: « Io non ero presente, ma pochi saranno stati in quella mattina più tristi e commossi di quello che ero io, benchè lontano. Ora tutto è finito ! e con lui finisce la più pura, la più santa, la più alta delle glorie nostre. Molti giornali ho letto ! Nessuno ne parla come si dovrebbe! Molte parole, ma non profondamente sentite. Non mancano però i morsi. Persino a lui !... Oh! la brutta razza che noi siamo! » Ecco un'altra frase verdiana... che ancora una volta non bisogna prendere alla lettera, ma comprendere che è segno del dispetto di chi la scrive. Non aveva scritto al Ricordi: « Sono profondamente addolorato per la morte del nostro Grande », chiamandolo nostro come espressione « la più pura, la più santa, a più alta » delle glorie d'Italia, della razza nostra ?... Due geni, due sommi, due grandi italiani, e due coscienze intemerate che le più nobili e generose aspirazioni hanno portato differentemente ma sempre molto in alto. E la voce più bella di Verdi verso Iddio e la più grande è quella della Messa, canto e poema, pianto e preghiera, supremo anelito dello spirito verdiano, scosso ed elevato dalla morte del Manzoni. Ancora una volta la morte ha generato la vita. VERDI E CAVOUR Due uomini ammirò sommamente Verdi, e li amò segretamente prima di conoscerli, piangendone poi come un fanciullo la morte, dopo aver avuto con loro amicizia, ch'egli ritenne immeritata. Quando Verdi si era recato col Sanvitale a Torino per portare a Vittorio Emanuele i voti del plebiscito emiliano, si incontrò con Sir Hudson, che procurò a Verdi l'esaudimento di un suo ardente quanto antico desiderio: conoscere in persona Camillo Benso, conte di Cavour, per protestargli la sua ammirazione. Il 17 di Settembre, sulle prime ore del mattino, racconta il Gatti, Verdi e Hudson giungono in ferrovia alla piccola stazione di Livorno vercellese, distante alcuni chilometri da Leri. Il Cavour manda loro incontro il suo fattore, con cavalli e carrozza, e accoglie « a braccia aperte » i due visitatori. Intanto la Deputazione va a Superga, per deporre una corona sulla tomba di Carlo Alberto. L'impressione lasciata in Verdi dal colloquio è vivissima. Se l'ammirazione di Verdi per Cavour si manifesta piena, altrettanto piena ammirazione dimostra Cavour per Verdi. Il grande Ministro, non sa di musica, ma la melodia Verdiana gli tocca le corde più sensibili dell'anima. Egli considera il Maestro uno dei più potenti fattori della volontà di riscossa accesa negli Italiani » e se lo vuole associare ». Ammirabile la lettera che Verdi scrive a Cavour al suo ritorno a Busseto: « L'Eccellenza vostra voglia scusare l'ardire e la noia che forse Le arreco con queste poche righe. Io desideravo da molto tempo conoscere personalmente il Prometeo della nostra nazionalità, nè disperava di trovare occasione per soddisfare questo mio vivo desiderio. Quanto però non avrei osato sperare è la franca e benigna accoglienza con la quale l'Eccellenza vostra degnossi onorarmi. Io ne partii commosso. Non iscorderò mai quel suo Leri, dov'io ebbi l'onore di stringere la mano al grande uomo di Stato, al sommo cittadino, a colui che ogni italiano dovrà chiamare il Padre della Patria. Accolga con bontà, Eccellenza, queste sincere parole del povero artista che non ha altro merito se non quello di amare e di aver amato sempre il proprio paese ». Cavour, da buon diplomatico che sa trarre profitto da ogni occasione, capisce già da questa lettera che un giorno potrà far entrare Verdi tra i deputati, come in Senato entrerà Alessandro Manzoni, a profitto della causa da lui propugnata. Tanto è vero che quando i Bussetani devono scegliere i loro rappresentanti nelle Assemblee del Parmense, dopo la fuga di Luisa Maria di Borbone, reggente in nome di Roberto, pensano 25 — F. BOTTI, G. Verdi a Verdi, e a Verdi che rifiuta risolutamente arriva poi una lettera di Cavour: « Pregiatissimo Signor Cavaliere, - I comizi elettorali stanno per riunirsi dall'Alpi all'Etna. Da essi dipende non già la sorte del Ministero, ma bensì il fato dell'Italia. Guai a noi se dalle loro operazioni fosse per uscire una Camera in cui prevalessero le opinioni superlative, le idee avventate, i propositi rivoluzionari. L'opera mirabile del nostro Risorgimento, vicina a compiersi, rovinerebbe e forse per secoli. Io reputo quindi dovere di ogni buon cittadino, in queste circostanze, il fare sacrificio di ogni particolare riguardo, l'andare incontro a maggiori sacrifici per cooperare alla comune salvezza. Egli è da questi riflessi confortato che io mi fo lecito rivolgermi direttamente alla S. V. quantunque non abbia titoli particolari per farlo, onde animarla a voler accettare il mandato che i suoi cittadini intendono conferirle. So che io chiedo cosa per lei gravosa e molesta. Se ciò malgrado insisto si è perchè reputo la sua presenza alla Camera utilissima. Essa contribuirà al decoro del Parlamento dentro e fuori d'Italia, essa darà gran credito al gran partito nazionale che vuole costituire la nazione sulle solide basi della libertà e dell'ordine, ne imporrà ai nostri immaginosi colleghi della parte meridionale d'Italia, suscettibili di subire l'influenza del genio artistico più assai di noi abitatori della fredda valle del Po. Nella speranza ch'ella s'arrenderà alle mie preghiere e che perciò potrò fra breve stringerle la mano a Torino, me le professo con simpatica stima: Suo dev.mo C. Cavour ». Verdi che non ne vuol sapere di essere eletto deputato, ma d'altra parte non vuol essere scortese con Cavour; pensa di andare personalmente a convincere il grande statista di non insistere e di accogliere le sue buone ragioni. Il 16 gennaio va a Torino e di là scrive al Mariani: « Non ti sorprendere se mi vedi a Torino. Sai perchè son qui? Per non essere Deputato! Altri brigano per esserlo, io faccio tutto il possibile per non esserlo! Ma zitto, veh!... ». A Torino Verdi si incontra con Cavour, e così parla egli stesso di tale incontro: « Mi presentai a lui alle sette del mattino, con dodici o quattordici gradi di freddo. Avevo preparato il mio speak che mi pareva un capo d'opera, e glie lo spiattellai là tutto disteso. Egli mi guardava attentamente quando gli descrissi la mia inettitudine ad essere deputato e i miei impeti d'impazienza a lunghi discorsi che bisogna talvolta inghiottire alla Camera, lo feci in un modo così bizzarro ch'egli diede in un gran scoppio di risa. Bene, dissi fra me, son riuscito. Allora egli cominciò a ribattere una per una tutte le mie ragioni, e ne aggiunse alcune che mi fecero un certo senso. Io soggiunsi: ebbene, signor conte, accetto; ma alla condizione che dopo qualche mese io darò le mie dimissioni. Sia, rispose, ma me ne farete prima cenno ». E anche a Verdi capitò che una delle soluzioni da lui accettata come provvisoria, diventò, come vuole il proverbio, una delle più durature. La sua elezione è da lui accettata, non procurata. Vi sono altri che desiderano, bramano, agognano la glorietta di diventar deputati, e tra questi il Minghelli-Vaini, che si era messo in corrispondenza col Verdi per dire a lui come e qualmente non si convenisse ad un Maestro, mentre conveniva ed era cosa naturale, allo scrivente... E quando Verdi gli fece sapere che per un dovere mo• rale, e per un dovere di affetto a Cavour avrebbe ac• cettata una elezione, il MinghelliVaini non ebbe più placidi i suoi sonni, e scrisse e riscrisse a Verdi proponendogli molti modi di salvare la desiata candidatura... Ma Verdi taglia corto a tutto questo armeggio con una lettera tutta sua per lo stile, e in fondo alla quale mancano perfino gli abituali saluti: « ... Mi presenterei per essere eletto, ma ripeto per la centesima volta: Sono costretto ad accettare, ma non mi presento nè mi offro ad alcun collegio. Se tu riesci a farmi avere la minorità dei voti, a farti nominare e liberarmi da questo impegno, io non troverò parole sufficienti per ringraziarti di sì segnalato servigio. Farai un piacere alla Camera, uno a te e un piacere grandissimo a G. Verdi ». Il 27 gennaio si vota a Borgo San Donnino: Verdi e Vaini sono i due in lotta, per così dire: a Verdi 298 voti, 185 al Vaini. Maggioranza di voti, ma non quella, necessaria per essere eletto. Ancora il Vaini scrive a Verdi, adoperando una parola che dà ai nervi grandemente al Maestro, il quale risponde: « La parola intrigo non esiste nel mio dizionario, e sfido il mondo intero a provare il contrario... Ho detto e ripeto per la centesima volta: accetterò mio malgrado, e sarò nominato, ma non farò mai atto e non dirò mai parola per esserlo... Ciò valga a chiudere un carteggio che non avrebbe mai dovuto essere aperto fra noi ». Così chiude la lettera senza saluti, dopo molte altre spiegazioni che noi tralasciammo, e con saluti alla Signora, il che è ancor più mortificante... come fu mortificante per il Vaini vedersi escluso dal Parlamento anche dal ballottaggio seguito ai primi voti. A elezione avvenuta Verdi scrive questa lettera al Presidente dei seggi: ic L'onore che spontaneo mi offre il collegio di Borgo San Donnino, mi commuove altamente. Esso mi prova che io godo la stima d'uomo onesto ed indipendente, a me più cara della poca gloria della fortuna fornitami dall'arte. Io La ringrazio, dunque, Sig. Presidente, e la prego caldamente di ringraziare per me gli elettori che mi affidarono l'onorevole mandato. Si accerti in pari tempo che, se non mi è dato portare in Parlamento lo splendore di una parola eloquente vi poiterò la indipendenza di carattere, scrupolosa coscienza, e ferma volontà, di cooperare con tutte le mie forze al bene, al decoro, ed all'unificazione di questa nostra patria, per sì lungo tempo bersagliata e divisa dalle discordie civili. Ora per appagare quel lungo e finora sterile desiderio di vedere la patria una, la fortuna ci manda un Re che ama il suo popolo. Stringiamoci adunque intorno a lui, poichè se egli sarà acclamato fra breve primo Re d'Italia, sarà anche forse il solo che più del trono abbia veramente amato gli italiani ». Verdi va a Torino con la Strepponi, e Lulù, il cagnolino fedele. Lo tormenta il pensiero di dover forse star colà lungamente. Parte prima del tempo per riposarsi un poco prima dell'apertura del Parlamento « e far passar la bile prima di mettersi in cravatta bianca. Chi l'avrebbe mai detto? Tant'è! non c'è rimedio ». A Torino deve stare quattro mesi... Ma con Cavour discute anche il modo di aiutare l'arte; si incontra spesso col conte Opprandino Arrivabene, che è suo grande amico; ha compagno e vicino di scanno, Quintino Sella; vota come vota Cavour, per non sbagliarsi... Verdi si è preso un impegno e lo mantiene forzando la sua volontà, fa il deputato nel modo più serio che gli è possibile, ma quando ha dato il voto col quale si dichiara costituito il Regno d'Italia, e Vittorio Emanuele Re, crede che si possa andare da Cavour ad avvertirlo, come d'accordo, che egli darà le sue dimissioni. Ecco il dialogo tra i due: « Aspettate, disse Cavour, fin che andremo a Roma. — Ci andremo? — Si. — Quando? — Oh, quando, quando?!!! — Intanto me ne vado in campagna. — Addio, state bene, addio ». Anche Verdi va poco dopo in campagna, e quando sta per fare qualche scappatina a Torino per qualche seduta importante della Camera, gli giunge la notizia della morte di Cavour. Dolore immenso in Verdi, rammarico per tanta perdita e perchè avvenuta proprio in un momento in cui la sua abilità avrebbe potuto salvare la situazione critica del parlamento. La sua esclamazione all'annuncio della morte era stata: « Quale sventura, quale abisso di guai! » Dirà ancora che « Cavour ha portato con sè la fortuna e il senno d'Italia ». A Busseto ordina che si facciano esequie solenni il più possibile, alle quali accorre gente da tutti i villaggi circostanti, ed alle quali assiste Verdi: « Io ho assistito alla funebre cerimonia in pieno lutto, ma il lutto straziante era nel cuore. Inter nos, io non potei trattenere le lacrime, e piansi come un ragas zii... Povero Cavour !... e poveri noi! » La funzione esequiale fu celebrata « con tutta la pompa che poteva aspettarsi da questo piccolo paese », e, cosa singolare, nota Verdi, « il Clero celebrò gratis, e non è poco ». Non fu poco solamente perchè il clero rinunciò a un suo diritto, che importava un lucro cessante e un danno emergente, ma perchè nei riguardi di Cavour liberale che aveva appena votato Roma prossima capitale d'Italia, e che aveva per formula libera Chiesa in libero Stato, nessuno si aspettava un gesto di sì grande simpatia dei preti bussetani, i quali hanno sempre, saputo cattivarsi l'animo della loro popolazione con la più bella e necessaria delle doti sacerdotali, ossia la generosità.. Con la morte di Cavour languisce anche la partecipazione di Verdi alla vita parlamentare, e per soprappiù « vi moriva di noia ». In una lettera al Piave nel '65 dice: « Più volte volli dare le mie dimissioni, ma ora perchè non era bene promuovere nuove elezioni, ora per una cosa ora per un'altra, io sono ancora deputato, contro il mio desiderio e il mio gusto, senza avervi neppure attitudine, nessun talento e mancante completamente di quella pazienza, tanto necessaria in quel recinto ». Fu cosi che l'ultimo anno della legislatura non lo vide mai o quasi mai in Parlamento, in modo che: « Volendo o dovendo fare la mia biografia, come membro del Parlamento, non vi sarebbe altro che imprimere nel bel mezzo di un foglio di carta: « I 450 non sono che 449 perchè Verdi come deputato non esiste ». E tutte le volte che ripensiamo a Verdi deputato ci risovvengono quelle sue parole atte a definire ogni aula parlamentare del bel tempo che fu: « Quante cose vi si dicono, ma qual perditempo! » Un episodio inedito, accaduto quando il Tebaldini coi suoi alunni, tra i quali era il Pizzetti, diede un Concerto di Beneficenza nel teatro di Busseto: 28 ott. 1900. Il Tebaldini così me lo racconta: « Quando andammo a Busseto e a Sant'Agata con l'orchestra del Conservatorio, non con noi perchè non voleva confondersi egli coi codini, ma per suo conto venne alla sola serata in teatro l'Onorevole Berenini, allora deputato di Borgo San Donnino. Verdi mi domandò: — E quegli che cosa è venuto a fare? — Io di rimando: — E' venuto quale di lei successore. — Come sarebbe a dire? chiese Verdi attento. — « Non fu Lei, Maestro, deputo di Borgo San Donnino? » E Verdi si mise a ridere ». Verdi aveva scritto da poco una lettera di questo tenore alla Maffei: « Di me non posso dirvi altro che sono nei campi dalla mattina alla sera. Sapete? Qualche volta m'auguro i primi anni della mia carriera, quando non avevo che quattro camicie, un vestito e con questo giravo mezzo il mondo... Ma no, vi sono altri compensi, ma è certo che se la vita diviene troppo agiata diventa più noiosa ». ... E quando il Ministro Minghetti lo include nella lista dei nuovi Senatori... vi è incluso... per censo, ossia per le sue ricchezze: « risultando dai certificati autentici che il Commendatore Giuseppe Verdi, nel solo Comune di Villanova, paga da tre anni lire 13.331,90 d'imposizioni dirette »... Avvenne poi che la Commissione per la convalidazione delle nomine ritenesse Verdi meritevole di entrare in Senato anche per « la stupenda eccellenza nelle arti geniali, merito di per sè eminente e gloria vera della Nazione, da recare al Consesso accrescimento di decoro e di autorità n... Non per questa posposizione di meriti, ma per quella sua innata natura ritrosa e fatta per il nascondi-mento, per i campi più che per il Senato, Verdi scrisse alla Maffei: « A dirla qui fra noi, non era meglio che andasse un altro ad occupare quel posto? cosa ho fatto io? e cosa potrò far io? non so che dire ; o per dir meglio, dirò che è un grande imbarazzo per me e non giova a nessuno. Tutto questo dico a voi, a voi sola, perchè se altri mi sentissero direbbero che sono scortese e ingrato. Dunque passi per il senatore e non ne parliamo più ». Poi celia con quel suo umorismo fine e ripullulante anche nelle circostanze più impensate, e parlando di Peppina la chiama: « La signora Senatora... ». Grande gioia provò Verdi quando seppe che avrebbe avuto compagno in Senato Giulio Carcano, il secondo Santo che egli aveva conosciuto, ma poi dubitava di incontrarlo colà: « Perchè io sono un certo senatore..., povero me, sarebbe meglio che io non lo fossi ». Prestò giuramento un anno preciso dopo la sua nomina il 15 nov. 1875. Fu introdotto nell'aula da Mamiani e Chiesi. Ottenne un congedo e non si fece più vedere. Nemmeno quando mori il suo amico Luccardi volle recarsi a Roma per timore di dovere andare in Senato. VERDI, MORELLI E GEMITO Verdi e Morelli si conobbero a Napoli al tempo del Ballo in maschera, nel 1858. Per comprendere bene la profondità e affettuosità di questa amicizia bisogna ricordare due cose: l'intuito verdiano e l'amore per la pittura che gli fa subito riconoscere in Morelli un grande del pennello, e l'amore del Morelli alle opere verdiane, per cui, ancora prima di conoscere personalmente Verdi, aveva tratto argomento per uno dei suoi quadri dai Foscari, come poi lo trarrà dai Vespri Siciliani. A presentare a Verdi il pittore a cui si schiudeva fama europea dal 1855 per Gli Iconoclasti, fu il Torelli, il quale ottenne anche da Verdi che posasse per un ritratto davanti al Morelli. Il quadro non riuscì un capolavoro, e varie furono le vicende a cominciare dall'alloro col quale il Palizzi incoronò la tela, come segno di ammirazione a Verdi. Molte sono le analogie tra i due Grandi: vediamone qualcuna. Anche del Morelli si voleva fare un prete, ma le sue inclinazioni alla pittura ne lo distolgono e i mecenati lo fanno entrare giovanissimo nell'Istituto delle Belle Arti di Napoli. Molte avversità gli contrariarono la carriera, vinte solamente da una volontà ferrea di vittoria e di conquiste, che lo portarono a invidiati trionfi. Fu nominato senatore. Fu fervente patriota e nei suoi quadri osò ascondere pensieri politici, tanto che Ferdinando II davanti agli Iconoclasti disse: « Belle Piccirì. Lli dinto ce sta nu pinziero... ». Ebbe in moglie Virginia Villari, donna di eccezionali virtù familiari, alla cui morte sentì immensa tristezza, raccogliendosi in un isolamento pensoso. Lavorò ugualmente fino alla morte, ispirandosi e traendo conforto dalla Sacra Scrittura. Ebbe malinconica ma vegeta vecchiezza e morì l'anno stesso in cui mori l'amico amatissimo Giuseppe Verdi. Morelli capi che nelle opere di Verdi vi erano « vibrazioni e suggestioni pittoresche », vi era il colore e traeva ispirazione dalle note verdiane. Al tempo in cui Verdi a Napoli compose il Quartetto per archi si vide comparire dinanzi un giovanetto « sparuto e lacero, ma col fuoco dell'intelligenza negli occhi », il quale vuole far conoscere a Verdi la sua arte di modellatore di statue e statuette: lo raccomanda a Verdi il Morelli. Il giovane dovrà quanto prima andare sotto le armi per leva, e potrebbe così avere una interruzione fatale nelle sue occupazioni artistiche, mentre, se avesse il danaro per riscattare l'obbligo di leva, potrebbe continuare a lavorare e sostenere in tal modo anche il peso della famiglia che su lui completamente grava. Verdi acconsente a farsi fare il ritratto e fa fare anche quello della Strepponi, e il giovane Vincenzo Gemito modella un busto verdiano che sarà per tutti i secoli il più bel ritratto del Maestro. Verdi nell'attesa di vedere i due busti era ansioso, forse perchè aveva intuito l'animo di artista sotto le spoglie del giovane come lui selvaggio e fiero: « Non vedo l'ora di vedere scultore e scultura, sperando cho tutto arrivi in buona salute, compreso Gemito sempre selvaggio e senza denari ». E' noto che Gemito fece i due busti di terracotta e ne fuse poi uno in bronzo che ora sta all'ingresso del Museo della Scala. L'anno della composizione era il 1873. Nel 1926 il Gemito svisò alcuni particolari di questa commissione dei busti, che però sono smascherati dalle lettere del Morelli apparse in luce. Dalla corrispondenza di Verdi col Morelli appare quanta confidenza il Maestro in lui avesse: in molte occasioni parla dell'avvenire dell'arte musicale, del bello in arte, e dei suoi gusti personali; gli indica i motivi per i quali non vuole assumere la direzione del Conservatorio di Napoli; lo ringrazia per l'invio di un libretto che leggerà attentamente; attende da lui, e da lui solo, un bozzetto di lago, che vuole vedere raffigurato nelle sue sembianze losche... e incita più e più volte il Morelli ad accontentarlo il più presto possibile. 17- er il quadro de Gli Ossessi Verdi è entusiasta al sommo. Prima, nell'attesa impaziente, aveva scritto al Morelli: « Sono venuto venti volte da te. Dove stai? cosa fai? e dove vivi?... Certamente non lavorerai al mio quadro! Oh di questo ne son sicuro L.. Dimmi dunque quando potrò vederti, e s'io posso sperare di avere sì o no questo quadro. Non vieni fuori a parlare con me di lena, d'ispirazione ecc...; tutte storie ch'io conosco molto bene e che vengono sempre a proposito quando non si vuol fare... ». Altra lettera per sollecitare il quadro dice quanta confidenza scherzosa e arguta adoperasse Verdi, il quale aveva ricevute le fotografie di due quadri e così scriveva: « Sei un grande infame, ma sei un gran poeta! Che stupende composizioni! Due quadri meravigliosi senza dubbio ?... Per questo te ne voglio maggiormente, perchè se fai dei capi-d'opera, non capisco perchè tu non ne faccia uno per me... Tu l'hai promesso. Credi tu che sia cosa da nulla mancar di parola a un Maestro di musica? non sai tu che io son capace perfino di un delitto? Non sai tu che io potrei presto o tardi venire a Napoli (non ti ammazzerei perchè tanto fa, non avrei più il mio quadro) a rubarti o un quadro, o un abbozzo, o uno schizzo, ecc... e non riuscendoci potrei dar fuoco allo studio abbruciando tempio e Dio... Andrei così alla posterità come Erostrato... Uomo avvisato mezzo salvato ». Il Morelli gode di queste parole scherzose: « Che bella cosa la vostra lettera di male parole... ». Ma poichè Morelli si è firmato: « Domenico Morelli che sta ai vostri ordini », nel momento stesso che gli offre in dono il quadro Gli Ossessi, Verdi vuole pagare questo quadro e intromette nella faccenda Cesarino De-Sanctis, nel caso in cui a Morelli spiaccia parlare di cifre. Quando il quadro arriva, Verdi telegrafa subito: « Bellissimo, stupendo, terribile, sublime come tu solo sai fare. E' una pittura che è poesia; è poesia che è verità; è verità che è verità... ». E i due amici, dalla barba ispida e dal cappello alla carbonara, che tanta poesia avevano in cuore, — Verdi tragico e drammatico, l'altro elegiaco e idilliaco, — saranno associati ad ogni evento commemorativo, per la morte nello stesso anno 1901, come uniti intimamente furono in vita. VERDI, MARIANI E LA STOLZ Pagine dolorose quelle che riguardano Mariani e i suoi rapporti con la Stolz, prima che essa si rivolga mente e cuore a Verdi e con lui e la Strepponi stringa amicizia durata fino alla morte. La Stolz era nata a Elbekostelez in Boemia, ma era creduta triestina da molti per aver compiuti a Trieste i suoi studi. Venne in Italia nel 1865, in un momento in cui altre artiste, come la Waldman, discendevano tra noi con una calata che fu chiamata « La cavalcata delle Walkirie ». I suoi successi artistici furono ben presto legati alle opere verdiane. Il primo successo l'ebbe nella Giovanna d'Arco. Nel 1868 comparve alla Scala in veste di Leonora nella Forza del Destino, e nel 1872 fu Aida nella rappresentazione pure alla Scala. Nella Messa di requiem componeva il quartetto con la Waldman, Maino, e Capponi. Gli entusiasmi da essa suscitati nel pezzo: a O patria mia, non ti vedrò mai più », erano frenetici. Il Mariani la volle nel Don Carlos a Bologna, dove contribuì al buon successo dell'opera, che era mancato a Parigi. Si erano però conosciuti molto prima. Mariani era « una testa calda », facile agli entusiasmi come alle ire, da buon romagnolo di Ravenna. Fervente patriota, millantatore, orgoglioso della sua supremazia di direttore, dissipatore di ricchezze, amaro e amareggiato negli ultimi anni. Tra le sue conquiste amorose, rese facili dalla sua posizione di direttoredominatore, non gli parve vero di aggiungere la Stolz, affascinante per bellezza e doti vocali, maliarda principessa del Nord calata in Italia. Ma non riuscì a conquistare completamente il suo cuore di donna amante delle persone forti e serie, sì che le dicerie ritornanti di un suo matrimonio col Mariani sfumarono ben presto, e portarono poi Mariani a cercare un colpevole, trovato, secondo lui, in Verdi col quale quasi gli piacque di misurarsi, credendo di abbassarlo e detronizzarlo innalzando alle stelle Wagner, le cui opere portò a veri successi trionfali: « Gli farò vedere che non c'è solamente lui », avrebbe detto, riferendosi a Verdi. Vent'anni di amicizia si infransero come onda contro uno scoglio. Parve un mistero per tant'anni questa rottura, a cui molti attribuirono quale causa una relazione amorosa di Verdi con la Stolz. Verdi era un uomo e poteva cadere o rompere gli argini familiari, ma la Strepponi vigilava, avendo una sola volta una frase amara, un dubbio, presto scomparso, che la fece volgere con accanimento femminile contro il Mariani. Mercede Mundula, il Luzio e altri hanno trattato esaurientemente questo capitolo doloroso nella vita di Verdi, e pare che argomenti ormai probativi siano quelli portati da questi scrittori sulle cause della rottura dei rapporti della Stolz con Mariani: le sue millanterie, i suoi debiti, e l'ira della Strepponi che era stata toccata da una frase del Mariani: e le donne non perdonano... La questione di danaro, raccontata dal Perosio alla Signora Mancinelli, si può riassumere così: la Stolz aveva affidati al Mariani i suoi guadagni, in vista del prossimo matrimonio ; ma questi denari sfumarono e la Stolz ricorse a Verdi il quale rimproverò Mariani, che si scusò accennando a speculazioni sbagliate. L'episodio più interessante per Mariani e la Stolz è quello della celebrazione rossiniana a Pesaro. Mariani per dissenso con Verdi aveva mutato il programma da questi indicatogli, e lo aveva preparato in modo che segnasse un completo trionfo suo e della donna del suo cuore. Infatti nello Stabat la Stolz poteva adoperare tutte le sue potenze vocali. Così ci descrisse l'avvenimento il D'Arcais: « La voce prepotente della Stolz, la tromba del Brizzi, che getta squilli di forza inaudita, il nerbo della massa, fanno rizzare in piedi come un sol uomo gli spettatori che paiono invasi da una specie di delirio. Ricorderò per tutta la vita il grido di entusiasmo che ad un certo punto quell'inflammatus strappò da tutti i petti, e l'improvviso agitarsi di fazzoletti e le parole di uno spettatore che dal proprio palco cominciò come una specie di discorso ed il gesto supplice del Mariani che pregò si lasciasse continuare il pezzo, e l'insistenza con la quale, appena fu terminato, se ne volle la replica ». Il Gatti com26 — F. BOTTI, G. Verdi menta: Il trionfo di Pesaro inebbria nel più profonda dell'anima il Mariani. Più che per sè egli esulta per quella giovane donna plasmata all'arte da lui, e giudicata « cantante ispirata, che ad una delle voci più straordinarie che si conoscano accoppia il più alto sentimento drammatico ». Un incidente però turba la serata, perchè il Brizzi si adonta di non essere stato chiamato all'applauso dal Mariani che volle solamente la Stolz a lui associata. Brizzi allora non fece più sentire lo squillo di forza della sua tromba e il Mariani lo investi con parole roventi, minacce e improperi. Davanti a questi gesti, che si ripetevano spesso la Stolz si sentiva ammorzare il suo amore per il Mariani, tanto più che nel suo temperamento strano non abbandonava altri amoruzzi che l'arte e il fascino di essa gli procuravano ad esuberanza. E' appunto a Pesaro che Verdi non va, e scrive in tono sferzante al Mariani: « Dormi tranquilli i tuoi sonni, chè ho già disposto di non poter venire a Pesaro ». In altra lettera si parla « della boria del tal esecutore »... Forse con nessun'altro Verdi si è messo in cattedra come contro il Mariani. Più di lui lo sferza la Strepponi, che scrivendo a Ricordi dice: « Le parole di questo uomo sono fango come l'anima sua, e con la pretesa di passare per il più casto ». Due lettere prima sconosciute ha pubblicato Lorenzo Alpino sul Corriere della sera nel 1939 a conforto della tesi che esclude qualsiasi rapporto men che corrotto di Verdi con la Stolz, e le lettere sono della Strepponi « azzannante leonessa » contro tutti i nemici del marito. Quando il male rose la vita al Mariani, come gli aveva roso il cuore la gelosia, ci sono lettere desolanti di lui che ci fanno compassione. Perchè in fondo era di animo buono, pur nelle millanterie stravaganti come quella dell'incontro con Napoleone III a Parigi, che gli avrebbe promesso nientemeno che la calata di 100 mila francesi in Italia per far piacere a lui... Chi commemorò Mariani nel cinquantenario della morte mi assicurava di aver lette lettere impressionanti nell'archivio della città ove avveniva la commemorazione. E' sempre una pagina dolorosa, è sempre una nube, è pur sempre un episodio che rattrista questo del Mariani, morto povero, solo, abbandonato, lui il dominatore, il trascinatore delle folle... morto solo e con amarezza in cuore che sarebbe stata infinita per lui se avesse saputo che in quel momento la Stolz trionfava sulle scene, inebriando il pubblico... VERDI, L'ARIOSTO E IL CORREGGIO Tre geni, tre sommi, tre artisti. Della musica, della parola, del pennello. Una triade emiliana, tutta emiliana. E' un accostamento che viene spontaneo non solamente per sentimento d'amor patrio, essendo i tre sommi espressione della nostra terra, nella quale nacquero e dalla quale ebbero il germe fecondo dell'arte che li condusse ad altezze sublimi, ma per un complesso di analogie che sarà bene esaminare. Il primo ad additarla fu Alberto Ròndani, che la fece notare allo stesso Verdi in un album a lui presentato in occasione del cinquantesimo della sua prima opera, Oberto, Conte di San Bonifacio. In questa lettera scritta per l'album citato troviamo per la prima volta, ripeto, questo accostamento ; ma esso è spontaneo. Tanto è vero che anche l'Albini commemorando V erdi a Bologna e descrivendone l'ambiente e la terra natia dice: « Che se Parma, — (Parma d'ingegni altri-ce, inclita d'armi) — che se Parma gioisce del suo gran cittadino ; se la regione emiliana letificata un tempo dalle fantasie feconde e gioconde di un Bojardo e di un Ariosto ; irraggiata dai colori luminosi di un Allegri, aggiunge ai suoi massimi vanti la potente ricchezza verdiana... ». Ripetiamo adunque: Tre sommi, tre geni, tre massimi vanti, fioriti in questa « terra d'Emilia ove paiono confluire ed equilibrarsi, in una pacata ed armoniosa distensione, i caratteri etnici e geografici della Penisola. In quella terra d'Emilia che diede all'Italia il fenomeno di quel longevo che esprime così tipicamente il Genio della stirpe ». E colui che scrive queste parole è Pietro Berri, scrittore geniale e fecondo, medico e musico, che in una lettera a me indirizzata ampliava questo suo pensiero e magnificava maggiormente questa nostra terra d'Emilia che diede all'Italia Ariosto, Correggio e Verdi.. Ma uno dei primi biografi del Verdi, Oreste Boni, che buttò giù currenti calamo una biografia sull'uomo, l'artista, e le suo opere, a pochi giorni di distanza dalla morte del Grande musico, ha un capitolo quasi tutto dedicato a far conoscere le analogie e le rassomiglianze artistiche tra Verdi, Correggio ed Ariosto. Ma prima di seguirlo nella sua paziente indagine, vogliamo ricordare una pagina di Verdi stesso, il quale, senza accorgersene, rivela di essersi trovato affine al Correggio, di sentirlo, capirlo, amarlo come un fratello. Scrive ad un amico che se va a Parma non manchi di fermarsi a beare l'animo suo alla fonte divina del Correggio, che è il pittore che più si fa amare dopo che ammirare: « Meraviglioso e seducente pittore, semplice, naturale, e quando lo vedo mi immagino che non abbia mai avuto maestro. Grandioso talvolta come Michelangelo, con la differenza che gli Apostoli e i Profeti del Correggio li amo ; quelli di Michelangelo mi fanno paura ». Se togliamo e scambiamo la parola « Pittore » con quella di Maestro di musica, possiamo applicare a Verdi le sue parole sul Correggio: « Meraviglioso e seducente Maestro, semplice, naturale, e quando lo si ascolta si pensa che non abbia mai avuto maestro... La grandiosità di altri musici ci fa quasi soggezione, quella di Verdi si fa amare... ». Gabriele d'Annunzio pone Verdi tra i giganti del Genio, e s'immagina che sulla sua tomba si pieghino Dante, Leonardo e Michelangelo. Già il Méry, quando si collocò il busto di Verdi all'Opera di Parigi, scrisse un'ode nella quale disse che « In Italia alfine la mu•sica ha il suo Dante ». Ma questi accostamenti ne vogliono significare la grandezza, non altre somiglianze nella espressione della loro arte, che passa quasi a cognazione • per il vigore della immaginazione e un senso ardente e a volte esuberante di vita, congiunto a un sano equilibrio di tutte le altre facoltà del pensiero ». Analogie, affinità, cognazione che non si arrestano al temperamento artistico: « Si estendono al carattere e alle abitudini della vita, nelle quali ultime specialmente, la rassomiglianza non saprebbe essere nè più grande nè più evidente. I due sommi artisti del cinquecento ebbero comune col Verdi l'inclinazione alla vita solitaria e casalinga, l'avversione agli onori intemperanti ed importuni del mondo, e quella specie di scontrosità che fu scambiata nel Verdi per selvatichezza inurbana ». Pochi non rammenta noia famosa iscrizione latta apporre dall'Ariosto sulla casa che fu sua e fu, com'egli dice, il suo piccolo nido. Una dichiarazione più estesa e più esplicita dell'umor suo e in alcuni versi della satira quarta, nella quale dice che non brama onori di re, duca, cardinali o papa ; che preferisce una rapa cotta da lui stesso in casa sua a tordo, starna o porco, e la sua quiete a viaggi in lontane regioni tra Sciti, Indi od Etiòpi... Nè fu diversamente del Correggio, benchè si abbiano scarse notizie della sua vita privata. « Non vorrò negare, dice uno dei suoi biografi, che pensando al secolo di lui, una dolorosa meraviglia sa destarsi al non vederlo dai contemporanei sì celebrato come avrebbero chiesto ragione e giustizia, ma la sua medesima indole contrastava al dilatarsi la nominanza dei meriti ». Morì quasi oscuro, egli che fu, a giudizio, oggi di molti, forse il più grande dei pittori del suo secolo. Nè perchè gli siano mancate le occasioni d'una celebrità meno tarda, ma perchè non curò di cercarla, o piuttosto di farla nascere con quelle arti ingegnose, di cui è maestra l'ambizione incontinente. Ritornando all'affinità d'ordine superiore, è facile avvertire, nella attività intellettuale del Verdi, i caratteri dominanti che accusano in quella del poeta e del pittore la stessa conformazione organica dello spirito in rapporto alle facoltà, che concorrono a generare l'opera d'arte. L'immaginazione, che inforca la sella dell'Ippogrifo, e si lancia, esultante e spensierata, nelle regioni fantastiche del poema cavalleresco, e getta la bellezza immortale del suo riso agli amori di Angelica ed Olimpia, e quelle delle sue lacrime alle tragiche avventure d'Isabella e di Ginevra ; quell'immaginazione stessa, dopo avere con la medesima foga istoriate le cupole e infusa la vita alle cento tavole del Correggio, si risveglia, a distanza di tre secoli, per versare nell'anima umana le appassionate melodie del Nabucco o del Rigoletto. Nel Verdi, come nell'Ariosto e nell'Allegri l'emozione dell'artista è subitanea e intollerante di freni. Essa ha bisogno di effondersi tutta intera nella liquida armonia dell'ottava, nei colori scintillanti, nella lingua dei suoni. L'ordine, l'esattezza, la misura, elementi valutabili della perfezione, ma elementi secondari, non esistono per lei, o 3, erranno più tardi. I fantasmi s'incalzano e vogliono, aquile del pensiero, stendere il volo nella luce e lanciare per il mondo il grido tripudiante della loro giovinezza e della loro forza. «Un quadro del Correggio è una specie di giardino incantato di Alcina, dove la seduzione della luce congiunta alla luce, la grazia capricciosa e carezzevole delle linee ondeggianti o spezzate, il candore abbagliante e le molli curve dei corpi femminili, l'irregolarità, stuzzicante delle figure, la vivacità„ la tenerezza, il languore delle espressioni e degli atteggiamenti, si compongono insieme per formare quel sogno di felicità soave e delicata, che la magia d'una fata o l'affetto di una donna crebbe per l'oggetto dell'amor suo ». Queste parole, se io non m'inganno, descrivono l'identica impressione che fa un canto dell'Ariosto o uno squarcio melodico del Verdi. « Le ottave dell'Ariosto, dense di immagini, colorite, ridenti di freschezza perseguentisi per la gaia e fantasiosa trama del poema, come lucide farfalle nella floreale dolcezza della primavera, hanno la vivacità tenera e luminora delle pennellate correggesche. Trasferite il sentimento umano, la ricchezza vitale, il calore e il colore, che costituisce l'anima di quella incomparabile forma poetica all'espressione melodica del pensiero, voi avrete la poesia musicale della ispirazione verdiana. In questa, come in quella del pittore e del poeta l'immaginazione sovrabbonda; essa toglie spesso la mano all'artista, come l'Ippogrifo la toglie a Ruggero, e i tre grandi emiliani, ma più il Verdi degli altri due, peccano qualche volta per eccesso di vita. Il disordine e le distrazioni del Furioso, le rare ma reali negligenze del Correggio, la violenza intempestiva delle sonorità e dei contrasti in alcuna delle prime opere del Verdi, sono difetti che nascono dalla medesima radice; un sentimento intenso o febbrile, che, nella tensione dello spirito, nell'atto creativo del genio, non ha il tempo di sorvegliarsi, o la mansuetudine necessaria a porgere il collo ai gioghi, che non riescono sempre a regolare il volo della fantasia senza rallentarlo. Uno dei caratteri del genio è appunto questo di sdegnare, per un impulso interiore che mira più in alto, le schiavitù create dai metodi e dagli esemplari. A ogni modo artisti grandissimi tutti e tre perchè è la passione che agita le loro anime e sprigiona come l'ugna ferrata dalla selce, le scintille che attendono l'immaginazione, e la fanno capace di quel fenomeno meraviglioso, inesplicabile nelle sue fonti primitive, misterioso, complicato e affascinante, che è il capolavoro ». La passione dell'Ariosto, non è quella del Correggi°, nè le due sono quella del Verdi. « Qualunque essa sia, nessuno ha il diritto di chiederne conto all'artista a patto ch'egli ce la comunichi; a patto che faccia cantare in noi più o meno modificata dalla natura intima delle nostre corde e delle nostre fibre, la sua canzone lieta o dolorosa: a patto che egli ci trascini con sè in qualcuna delle commozioni proprie di ogni passione profonda: la rassegnazione, l'allegrezza, l'abbandono o la quiete ». Verdi stesso parlando della musica diceva che è necessario il « colore »: e questo lo troviamo in modo particolare nel Trovatore che « meglio contraddistingue le qualità peculiari dell'animo e dell'ingegno del Maestro. Forza, irruenza, concisione musicale drammatica, ma soprattutto verdiano è il colore di quest'opera: romantico, fantastico, spettacoloso, popolaresco, incurante di freni allo sfogo della passione, acceso negli accenti, con tratti di dolcezza che scendono nell'anima e l'accarezzano ». Tale un quadro del Correggia, tale un canto del poema dell'Ariosto. I più appasionati entusiasti del Maestro amano appunto sentirlo nel Trovatore, e in proposito non posso tacere quanto mi diceva il Maestro Perosi il 19 settembre 1941 a Salsomaggiore: « A Vienna una volta trovai un ungherese che aveva fatto dieci ore di treno per venire ad ascoltare il Trovatore, e mi assicurava che era quella la ottocentesima volta che nella sua vita di ottantenne ascoltava il Trovatere... ». Boito scriveva a Verdi nel 1899, accennando allo Stabat, alle Laudi, e al Te Deum: « Per me sono le tre cupole del Correggia, e tali resteranno nella storia ». Isidoro Del Lungo riconobbe nelle ispirate armonie di Verdi « le dovizie fantastiche e i sereni splendori dell'Ariosto ». Aggiungiamo: « ... e del Correggio ! » Il Gatti riporta le parole di Verdi sul Correggio. In un'altra parte scrive: « Verdi predilige in arte tutto ciò che è immagine viva, ben formata, luminosa. In letteratura, dopo le pagine della Bibbia, ammira i drammi dello Shakespeare e ì poemi dell'Ariosto. Amico ed estimatore dei più eminenti scultori e pittori contemporanei sta volentieri in loro compagnia, visita i loro laboratori e acquista le loro opere ». Non ritorna a Roma e Firenze, senza recarsi in Vaticano o agli Uffizi... ma dove maggiormente si sofferma a riguardare è davanti alle cupole del Correggio, le cui pitture corrispondono al suo ideale artistico. VERDI, «AEDO D'ITALIA» Verdi, che fu per tutta la vita degno dei tempi in cui visse, degno degli uomini che gli furono coetanei, e tanto oprarono per il Risorgimento italico ; fu simbolo d'italianità e d'arte italiana; « Italiano di fronte agli stranieri, di fronte agli italiani, e -- nella sua coscienza — di fronte a se stesso ». E' bene che ci fermiamo col Gatti a considerare i tempi o gli effetti delle sue prime opere che lo rivelarono voce ispirata della patria. Erano quelli anni di cospirazioni e di insurrezioni patriottiche che preparavano e attuavano il Risorgimento italico. L'apparizione di Napoleone, folgore scatenata sull'Europa a svellere e a creare, aveva suscitate tante speranze anche nel cuore degli Italiani, ma poi tutto era tornato come prima, e i principi ricorrevano alla forza per comprimere le rinascenti speranze. A Parma il governo mite della Duchessa Maria Luigia non aveva impedito che nel 1831 si avessero moti insurrezionali. Giuseppe Mazzini andava dall'esilio rinforzando e sostenendo la coscienza del patrio riscatto; e se non si potevano fare manifestazioni esteriori perchè la sorveglianza era estrema, si aveva l'astuzia di ricoprire le manifestazioni patriottiche del manto dell'arte, poichè essa era adoprata a divertire e distrarre i popoli. Cosi il coro della Donna di Caritea: « Chi per la Patria muor vissuto è assai » era su tutte le bocche e i fratelli Bandiera lo cantarono nel 1844 avviandosi al supplizio. A quest'epoca compare Verdi che si innesterà tanto felicemente tra gli autori che lavorano per la resurrezione d'Italia, da meritarsi il titolo di Maestro della rivoluzione d'Italia. (Il coro de I Lombardi, dice il Gatti, ricalcato su quello del Nabucco, è anello di congiunzione con tutte le altre allocuzioni patriottiche corali, che Verdi comporrà sino al conseguimento dell'indipendenza nazionale ». Questi cori facevano fremere le platee, mentre si levavano alte le acclamazioni, il cui significato non sfuggiva alla polizia, onde Verdi dovette sempre aver a che fare con quella « cosa tenebrosa che è la polizia », come la definì la Strepponi. Dopo questi cori verranno le pagine dell'Emani, ancora più pieno di patriottismo, quelle dell'Attila, e del Macbeth. La musica stessa era intonata ai sentimenti rivoluzionari dell'ora. « Il sussulto violento e febbrile che agita le prime opere di Verdi, i ritmi energici, lo strumentale clamoroso, quel certo non so che di aspro e di selvaggio, quasi, che oggi ci dispiace, rappresentava al vivo lo stato degli animi di allora. Quella musica traeva il popolo all'entusiasmo e ne scuoteva la fibra addormentata ». Fu già osservato come tutte le rivoluzioni patriottiche abbiano avuto il loro inno di riscossa, mentre il nostro risorgimento non ne ebbe un vero e proprio, e forse questo perchè la musica di Verdi era tutta impregnata di amor patrio ed era e dava il canto dell'occasione, a cominciare dai cori anzidetti. « Il popolo, sentendo l'espressione della propria coscienza nazionale in parecchi canti delle opere verdiane, li aveva assunti come inni; nel '48 infatti i Milanesi andarono all'assalto delle barricate cantando il coro de I Lombardi. Sono ben note le parole che a Verdi diresse Vittorio Emanuele: « So di non intendermi di musica, ma so come i suoi canti sublimi abbiano fatto esultare i cuori degli Italiani dal '48 ad oggi ». Noi abbiamo riportato molte frasi di Verdi dalle quali appare come la sua salute sia stata spesso poco buona, e alle volte assolutamente cattiva, per tutto il tempo della sua maggiore produzione ; motivo questo per cui egli non potè soddisfare il suo desiderio di correre sui campi di battaglia coi volontari che nel '59 accorsero con Garibaldi e Vittorio Em. II a scacciare l'invasore. La mole immensa di lavoro musicale elaborato nell'animo e poi riversato sulle pagine, lo fa dimagrire in modo che la Strepponi lo riconosce bisognoso di riposo dopo le sue fatiche « per rifare un po' di carne » e Verdi stesso scriveva al De-Bassini: « Ti scrivo in fretta e furia e corro al mio martirio ». E martirio era, seppure dolce come in chi dà la vita per un ideale, il coni-. porre. Ciò era necessario ridire per spiegarci le sue frasi di invidia per il Montanelli, l'illustre professore di Diritto, che era stato volontario a Curtatone, e che ancora semplice soldato volontario combatteva nel '59, come a Verdi riferiva un povero prete di campagna, portandogli i saluti del Montanelli stesso: « Ciò è bello, è sublime. Io non posso che ammirarlo e invidiarlo ». E alla Maffei scrive: « Oh, avessi altra salute e sarei con lui anch'io. Ciò lo dico a voi, e in segreto, non lo direi ad altri, che non vorrei si credesse vana millanteria. Ma che potrei io fare, che non son capace di fare una marcia di tre miglia, la testa non mi regge a cinque minuti di sole, e un po' di vento o un po' di umidità mi produce dei mal di gola da cacciarmi in letto qualche volta per settimane? Meschina natura la mia! Buona a nulla... ». Ma qualche cosa può fare e lo fa. Nel '48 aveva sfidati i rigori dell'Austria chiedendo aiuti alla Francia ed ora apre una sottoscrizione per i feriti e le famiglie dei caduti, mettendo in capo alla lista il suo nome o quello di tutti i familiari e amici di Busseto. Gli entusiasmi suscitati dal terzo Napoleone diventano presto amarezze, ma le popolazioni dei Ducati eleggono i loro dittatori, e coi plebisciti chiedono l'annessione al Piemonte. Commovente l'accesso alle urne a Busseto quando Verdi arrivò da Sant'Agata festeggiato da tutto il popolo. Poi Verdi fu eletto rappresentante di Busseto nell'Assemblea delle Province Parmensi e insieme col Conte Jacopo Sanvitale e altri patrioti si recò a Torino a portare i voti del plebiscito emiliano a Vittorio Emanuele. La popolazione accorse a festeggiare il Maestro che sedeva vicino al Sanvitale, sul medesimo cocchio. Pochi giorni dopo il Consiglio Municipale di Torino eleggeva Verdi a cittadino onorario. Al ritorno si fermarono a Milano, dove si ebbe il grazioso episodio a tutti noto, dei tessitori lombardi che offrirono ai due ospiti una bandiera tricolore, chiamandoli alla finestra alla quale comparvero con trepidazione. Qui Verdi voleva ritirarsi per lasciare gli applausi per il Sanvitale, il quale invece spinse dolcemente in avanti Verdi a gran voce dicendo: • Questi è il Legato della Patria mia, - Questi è il prence dell'Itala armonia ». Quando i Governi provvisori costituiscono le locali Guardie Nazionali e il Comune di Busseto non ha i fondi per comperare i fucili, Verdi anticipa il danaro occorrente comperando i fucili a mezzo del Mariani, che è a Genova e li può avere dalla casa Danovaro. Quando Vittorio Emanuele si accinge a visitare le province annesse e sarà a Parma, la Rappresentazione di Busseto delibera di offrire al Re un cannone rigato, con carro e cavalli: « Il Municipio di Busseto, scrive allora Verdi agli Assessori, fece opera lodevolissima votando e donando un cannone al Re, il quale lo preferirà certamente a qualunque altro dono. Vorrei che ogni paese ne imitasse l'esempio, chè, non con le feste e le illuminazioni, ma con le armi e coi soldati potremo divenire forti, rispettati e padroni in casa nostra... ». Conosciutissima la sua lettera al Mariani: • ...Ma dimmi di altra musica, la quale mi interessa assai. Oh, scusate, scusate. Come vanno le crome e le semi-crome di Cialdini, Garibaldi, ecc.?... Tu mi avevi promesso di scrivermene, e, testaccia, te ne sei dimenticato. Quelli sono maestri, e che opere. Che finali. A colpi di cannone... ». A Sant'Agata Verdi lavorava nei campi, e faceva lavorare. Invitava gli amici, ammonendoli che la casa era sossopra; ma ciò che più gli dispiaceva era il non aver molte notizie o nulle sugli avvenimenti politici, fino a quando Cavour lo vuole deputato e allora deve muoversi da Busseto e andare a Torino. Ma rileggiamo le parole sue che forse più delle altre ci rivelano la sua ansia nei giorni del riscatto. Gli chiedono di comporre un inno per Garibaldi, che egli rifiuta, come rifiutò e rifiuterà di comporre un'altra diecina di inni o quasi, non tanto perchè non è nel suo temperamento musicale, quanto perché l'eroe dei due mondi ha ancora qualche tappa « sulla veneta laguna, a Napoli, sulle Alpi... ». « Ho rifiutato e rifiuterò fino a quel momento di scrivere (l'inno), e se pure Iddio ci aiuti a spezzare le nostre catene ed io viva tanto da vedere quel giorno sarà il primo ed ultimo inno di Giuseppe Verdi ». Dopo Custoza Verdi è accasciato. La Strepponi, scrivendo a Parigi al Corticelli, dice: « Verdi è di umore nerissimo ed io altrettanto. Ogni italiano di cuore non deve certamente essere, in questo momento, con spirito gaio e tranquillo, ma in particolare quelli che sono obbligati di venire nella capitale dei Fanfaroni. ...In verità dall'umore di Verdi non sarei sorpresa che mandasse al diavolo, l'Opéra, Perin, Parigi e tutti quanti per tornare a Sant'Agata... ». Si racconta che a Milano al tempo della domina27 — F. Botti, G. Verdi zione austriaca il Governatore avesse ordinato a Verdi di comporre una marcia per le sue truppe, e che Verdi abbia risposto: « Non ho che arie di ritirate. Ne volete? = A Re Umberto diceva: « Se i meriti nell'arte che professo sono piccoli e scarsi è sempre stato grande in me l'amor di Patria, ed ardente il desiderio di onorarla, per quanto mi consentivano le mie forze ». L'arte, la Patria, l'amicizia furono i tre amori di Verdi. E il suo nome ebbe la fortuna di prestarsi anche a significare un grido patriottico in Viva Vittorio Emanuele, Re D'Italia, per le iniziali di queste parole racchiuse nel nome stesso: Viva V.E.R.D.I. Di lui disse Francesco Crispi che fece la migliore delle politiche: quella con l'arte. E Carducci chiamò « vanti indimenticabili e sacri quelli, per chi visse prima del '48, quelli di Verdi ». Ma sono sacri e sempre li saranno per tutti gli italiani. Concludiamo con la Mundula: « In Verdi il patriota come l'artista è destinato ad ingrandirsi col passare del tempo. Durante tutta la vita, e per così lunghi anni e tra così tumultuose vicende, non l'ha mai abbandonato la limpidezza delle sue intuizioni di grande veggente ; senza tentennamenti ha scorto per quali vie e per quali porti dovranno volgersi e schiudersi le vele delle nuove fortune della Patria. Al suo cuore tu buona guida lo sguardo d'aquila ^. E mentre stiamo battendo le ultime righe di questo capitolo leggiamo su un quotidiano queste parole di Mons. Costa, che ricorda il suo primo incontro con Verdi a Sant'Agata, e la conversazione tenta col Maestro, dopo la celebrazione della S. Messa: «Era il periodo in cui purtroppo non lieto volgeva il destino per la nostra Patria, ed il discorso cadde sugli infausti eventi africani, che non poco avevano fatto dolorare l'animo del Maestro... Fervente patriota, nel suo spirito, malgrado l'imperante rinunciatarismo dei tempi, era rimasto integro ed indomabile l'ardore del vecchio garibaldino ». Pennellata finale di un grande quadro. VERDI RISPARMIATORE BENEFICO Nella lunga, quasi nonagenaria vita di Giuseppe Verdi noi troviamo molti episodi, fatti, testimonianze che ci parlano della sua parsimonia e del suo costante senso del risparmio, trasmessogli nel sangue dai padre suo, povero venditore di « generi diversi » e dalla madre, modesta filatrice. Dalla più bassa ed oscura casa di campagna, da un paesino in cui avrebbe potuto diventare un garzone o un contadinello, se la Provvidenza non avesse preparato le persone che ne divinarono l'orma del genio fin dai primi anni d'età, egli ascese alle metropoli ed ai più vasti trionfi che genio della musica abbia potuto avere, ma non perdette mai l'amore al risparmio, alla precisione dei conti, alla cura solerte di ogni sua cosa, al pagamento decoroso delle moltitudini di operai ch'egli metteva al lavoro a Sant'Agata, alla revisione delle spese dell'Ospedale di Villanova d'Arda da lui fondato e dotato di beni per il futuro. Verdi aveva conosciuto la povertà, il bisogno del danaro dai benefattori, le ristrettezze anche quando aveva il magro sussidio del Monte di Pietà di Busseto e le sovvenzioni del Barezzi. Comprendeva allora la preziosità del danaro, la necessità del risparmio, l'immenso bene che ne può venire usandolo sapientemente. E così per tutta la sua vita egli usò del denaro con precisione metodica, lo investì nella terra per assicurarlo nel tempo dai suoi beneficati, lo usò per opere di beneficenza, case coloniche, ospedali da lui eretti, e per la famosa Casa di riposo per i musicisti poveri, sovvenzionandola in modo che dai suoi lasciti e dagli interessi sulle sue opere avesse a perennizzarsi il bene negli anni a venire. Vediamo come dalle sue lettere al Conte Arriva-bene, per esempio traspiri il senso della sua operosità, quotidiana e dell'amore ai campi per trarne da essi beneficio per i poveri del suo paese, nel momento stesso in cui ne traeva pace per la sua anima. Io sto qui, scriveva in una lettera al predetto Conte, respirando aria fin che voglio... e facendo il contadino, il falegname, il muratore, il facchino se occorre... Mi spiego. Ho molte case coloniche in rovina, come lo sono tutte da queste parti. Mi sono messo in mente, tanto che ne ho tempo, di ripararle, di fabbricarne, onde non abbia ad accopparsi qualcuno o diversi. Così io faccio l'architetto, il mastro-muratore, il fabbro-ferraio, un po' di tutto )›. Sentita preoccupazione era di fare del bene ai poveri, di aiutarli a guadagnarsi dignitosamente il pane, venire in soccorso di chi ne abbisognava, mettendoli al lavoro sapendo che il denaro guadagnato dà soddisfazione, e lo si riceve dignitosamente e senza abbassare il capo come avviene per ciò che è donato. Sentite come egli parla dei suoi operai e quanti essi erano: « Tu dirai: Ma cosa, diavolo, va a fare in campagna? Tu sai però che io sono in fabbriche ; che l'anno scorso ho fabbricato una cascina, e quest'anno due ancor più grosse e che sono là circa duecento operai che hanno lavorato fino ad oggi ed ai quali ho dovuto dare disposizioni per lavorare in avvenire appena il gelo lo permetterà ». Par quasi che gli giunga all'orecchio un'obbiezione dell'Arrivabene ed egli vi risponde anticipatamente: « Sono forse lavori inutili per me, perchè queste fabbriche non fanno che i fondi mi diano ora un centesimo di più di rendita, ma intanto la gente guadagna, e nel mio villaggio la gente non emigra ». Amò chiamarsi, anche al più alto fastigio della gloria, « il contadino delle Roncole: Io sono e sarò sempre il contadino delle Roncole ». Non mancarono storici che, davanti a carte nelle quali si vedevano note di pagamenti, di mance, di mensilità ai servi, pensarono ad un senso di avarizia. Ma quando si lessero le pagine sue nelle quali rivelò come avrebbe potuto fare « i biglietti da mille » a dozzine abbandonando Busseto, si comprese che la sua non era tirchieria, ma che in tutte le cose amava inettere quella precisione che tutte le cose adduce a buon fine. Come nella musica ogni nota deve essere al suo posto, così negli affari le cifre devono essere al loro posto. Egli dice sempre all'Arrivabene: « Se avessi voluto divenire parigino avrei accettato quaranta mila franchi — (e se avessi voluto anche cinquantamila) — ed un quarto sugli utili del teatro italiano... Ho rifiutato tutto ». Esigeva che operai e contadini iacessero le cose per bene attendendo al lavoro con serietà ed assiduità, e non abusando di lui perchè faceva i soldi con facilità con la sua bacchetta veramente magica. Amava sorvegliarli nel lavoro; trovava naturale passare dal treno di Genova ad un 'pozzo in costruzione a Sant'Agata. Son sue parole quando spiega come gli sia venuto in testa: « di far costruire una macchina a vapore per estrarre acqua da un torrentello che scorre presso la sua casa; ma per ottenere l'intento gli è duopo di un condotto sotto terra alla profondità di quasi sette metri. A quella profondità si trova una massa abbondante di acqua e sabbia che rende il lavoro murario estremamente difficile. Il prelodato Maestro continua egli parlando scherzosamente in terza persona — si trova tutto il giorno là in fondo un po' per incoraggiare i lavoranti, un po' per strapazzarli, e soprattutto per dirigerli. Dirigerli? !... E' questo il debole del Signor Maestro. Se tu gli dici che il Don Carlos non vaf niente non glie ne importa un fico, ma se tu gli contrasti la sua abilità nel far il magut se ne ha a male «. Quando ancor più sopraggiunsero gloria e quattrini, Verdi fu ugualmente parsimonioso; non più per sè, perchè poteva vivere signorilmente anche nelle lunghe soste della sua operosità creatrice, ma per gli umili dai quali era venuto ; per i bisognosi e i poveri ai quali pensò in ogni giorno di sua vita, fino al suo nobile testamento, ch'è documento di amore benefico, segnato da quel compassato e misurato modo di fare ogni cosa, che fu distintivo di tutta la sua vita. • Ci fu chi osò chiamare « beneficenza » e non « carità» questa generosità di Verdi verso i poveri. Ma il Gatti afferma: « Alle opere di carità e solidarietà umana si dedica con rinnovato fervore (nel 1890). Sul chiudersi della vita sembra ch'egli senta di sè, ancora più come uomo che come artista. Ha già destinato nel 1869 l'assegno a lui spettante quale Cavaliere dell'ordine civile di Savoia, a vantaggio di due giovani bussetani premiati nello studio ; poi nel 1876, ha costituito, presso il Monte di Pietà di Busseto, una borsa perpetua, a vantaggio di un altro giovane bussetano meritevole. Ha fondato un Ospedale per i poveri nel Comune in cui risiede. Ha costruito case coloniche sane e comode per i contadini, e fornito loro moderni e perfezionati istrumenti agricoli per aumentare il frutto della terra: così che nel suo villaggio non ci sono più emigranti... Verdi si era congratulato alcuni anni addietro con la Contessa Giuseppina Negroni Prato dopo aver letto nel Fanfulla ch'essa aveva convocato i proprietari, gli agenti di campagna e ai contadini allo scopo di studiare il modo di migliorare le loro condizioni economiche: « Brava! — le aveva scritto subito — Bravissima e glie ne faccio le mie più sincere e sentite congratulazioni. Ah, le buone azioni fanno tanto bene ! » E passando dalle parole ai fatti, aveva ribassato in misura abbastanza larga, gli affitti. Ma davanti al sopravvenire della morte e al pensiero di non aver figli eredi delle sue ricchezze, pensa di fare ancora una volta del bene, un bene continuativo, a coloro che lo aiutarono nel campo dell'arte, che gli ottennero forse qualche successo nelle sue opere in modo a lui gradito, e che troppe volte la miseria, o una condizione di vita umiliata al confronto del tempo che fu, riduce a mestizia e disperazione. E nacque la Casa di riposo per musicisti vecchi. « Ricovero per vecchi artisti » la voleva chiamare !'architetto Camillo Boito: « Ah no, disse Verdi; essi non saranno ricoverati ma saranno miei ospiti; e la Casa è data loro: si chiamerà Casa di riposo ». Questa non è beneficenza, questa è carità nata da senso di fraternità umana. Prima di iniziarla andò a Sant'Agata, e così ne avverti il notaio: « Verrò fra pochi giorni... I miei affari e i miei impegni esigono che io sappia su che cosa posso contare sulle mie rendite sino all'ultimo centesimo... Ora non ho più e non avrò in avvenire i grossi proventi straordinari delle opere nuove... ». Da questo inventario si accorse che le rendite non erano pingui, poichè tutti sanno come poco rendevano i campi allora, mentre oggi, dati i progressi agricoli rendono sei-sette volte in più: « I conti di cassa non sono brillanti; stante le cattive annate e le spese mie in questi ultimi tempi... ». Verdi conosceva così bene le opere di misericordia insegnate dalla Chiesa che scrivendo a Boito il quale annunciava una sua visita a Sant'Agata aggiungeva: « ... Capirete adunque che se Sant'Agata era noiosa in passato ora è tristissima. Se voi venite ed avete il coraggio d'affrontare tanti malanni sarete sempre il benvenuto, e farete un atto di Misericordia: Sesto : visitare gli ammalati... ». Al suo fattore Corticelli aveva detto, per quanto riguarda amministrazione: «Bada bene che io stimo quelli che sanno spendere a tempo e luogo mille franchi e che sanno economizzare il centesimo. E' teoria questa che non conosci, ma hai torto, molto torto... ». Anche la Strepponi era grandemente benefica e in punto di morte legò molta parte delle sue rendite a 50 famiglie povere di Sant'Agata. Scrive Lorenzo Alpino: « Rivedo ancora certe alte colonne di mezze lire d'argento, allineate sul davanzale del caminetto in camera del Maestro: — Colleziona monete? — io gli chiesi una volta. Ed egli: -Preparo le mance di San Giuseppe per i telegrafisti, i quali con tenacia furbesca affollavano l'atrio e le scale del palazzo in quel giorno, con fasci di telegrammi che portavano su uno alla volta e le argentee colonne dileguavano alle scampanellate... “. Così Giuseppe Perosio racconta di un tale che si presentò in casa Verdi a Genova con una lunga lista di firme di persone ben note a Verdi, attestanti le necessità del richiedente, il quale doveva imbarcarsi per l'America del Sud e necessitava ancora di poche lire per poter compiere il viaggio. Verdi andò in persona alla porta a chiedere quante lire occorressero ancora, e invece delle novanta occorrenti ne diede cento, con giubilo del preteso emigrante. Poco dopo comparve De-Amicis, presunto firmatario della supplica anzidetta, dal quale però si scoprì che il richiedente era un farabutto. Verdi commentò: « A vederlo non si sarebbe detto ». La Strepponi soggiunse: « Per te non è certo il primo e non sarà l'ultimo... ». Dal che si ricava che Verdi, circospetto in tutto e preciso fino al centesimo, non lo era affatto quando si trattava di fare elemosine e atti di carità. Dalle lettere poco conosciute scritte da Verdi allo Spatz, e pubblicate nel Corriere della Sera' a fine di gennaio 1901, si rileva questo grazioso episodio: Verdi aveva scritto nel 1893 una lettera al medesimo terminando con questa curiosa ordinazione: « Prego dare un biscottino a Mr. Cesar, per conto mio... ». Quando il Maestro tornò a Milano lo Spatz presentò l'abituale conto a Verdi, aggiungendo nell'ultima riga: Per un biscotto dato a Cesar per conto del Sig. Maestro: L. 0,05... Verdi gustò assai lo scherzo e disse sorridendo: « Eh, chi ordina paga... ». Per non danneggiare il suo librettista Camrnarano accettò nel 1848 una imposizione della quale avrebbe potuto ridersene: « Voi, uomo onesto, padre di famiglia, artista distinto, sareste la vittima di tutti questi ignobili intrighi. Io forte della mia scrittura, potrei sprezzare le minacce dell'Impresa e lasciarla; ma a riguardo vostro, a solo vostro riguardo, scriverò l'opera per Na poli l'anno venturo, dovessi rubare due ore al giorno al mio riposo, alla mia salute ». Graziosissimo l'episodio del Ghislanzoni a Sant'Agata, il quale trovò tutto bene e tutto bello, meno un mucchio di letame... « Intanto, disse Verdi, deve star lì perchè non c'è altro luogo più adatto: e poi è... inodoro, o, credimi pure, ha il profumo della campagna, che è sano e fa bene ai polmoni; in fine quella che tu chiami una porcheria vale cinquemila lire... ». Il Ghislanzoni azzardò un paragone: « Se vale duemila lire più del mio libretto dell'Aida, deve essere davvero una cosa fina... ». Verdi ordinò immediatamente a Ricordi di computare al Ghislanzoni un diritto fisso del 10 per cento su tutti i diritti d'autore dell'Aida, arretrati e futuri e fu così che il libretto superò di molto il prezzo del letame... e fruttò al Ghislanzoni alcune migliaia di lire immediate... Fortuna che venne dal fatto che il letame « era lì, in quel posto... » Ora anche il Ghislanzoni ammetteva convinto: « Ci voleva... ». Noto l'episodio di Verdi che al passaggio del controllore sul treno mostra il suo regolare biglietto, tra lo stupore degli astanti, che sanno come egli abbia diritto a viaggiare gratuitamente su tutti i treni come Senatore. « Ma io sono un Senatore che non fa nulla in Senato ; lo sono di nome, e quindi non mi credo in diritto di godermi questi privilegi ». Verdi contadino delle Roncole, figlio di un oste, assiduo del Barezzi, venditore di coloniali, si è fatto un abito mentale di precisione nelle cifre, in tutte le cose. A lui non rincresceva parlare di cifre, quando aveva capito che il miglior modo di andar d'accordo è quello di essere precisi anche in questo. Al Morelli, che gli offriva in dono Gli Ossessi, aveva scritto: « Ordino che tu mi spedisca subito il quadro. Ma non in dono. Nient'affatto. Arte, poesia, bellissime cose, ma tu pure, grande artista e poeta fin che vuoi, mangi e dormi. Perchè mangi? Posso capire, ma hai torto, che ti rincresca parlare di cifre. Allora parlane a Ce-sanino De-Sanctis, cui scrivo oggi stesso... ». In quella frase c'è tutto il modo verdiano di comportarsi in cose finanziarie: « Ma hai torto », e chi direbbe che Morelli non ne sia stato contento? — Giusto e generoso anche questa volta, Verdi. Ultimo episodio: «Un pomeriggio della metà di marzo Don Montebruno mi disse: Andiamo a fare gli auguri al Maestro Verdi, chè è ormai San Giuseppe. Andammo a Palazzo Doria dove ci ricevettero Verdi e la Signora Peppina che furono lietissimi della visita. Il discorso cadde, più che sul trionfo dell'Otello rappresentato alla Scala, sul terribile terremoto del 23 febbraio poichè si era nel 1887. La Liguria occidentale era stata devastata: Bussana e Diano Marina erano completamente distrutte e parecchi altri paesi rovinati, con diecine e diecine di morti e di feriti. Verdi ascoltava con molto interesse e viva commozione quel che gli diceva Don Montebruno specialmente a proposito dei molti ragazzi che erano rimasti orfani e non si sapeva come ricoverare. Ad un certo momento Verdi chiese: « Quanto può costare un ragazzo per un anno di collegio? — Don Montebruno rispose che con 300 lire all'anno egli manteneva ed istruiva ogni giovane. Verdi si ritirò qualche istante nel suo studio, poi tornò e porse a Don Montebruno una busta dicendo: «Ritiri un orfano del terremoto e lo tenga per í cinque anni necessari ad imparare un'arte. Solo mi raccomando di non dir nulla a nessuno. Congedandoci disse poi a Don Montebruno: «Mi ricordi a San Giuseppe mio protettore ». VERDI FACETO E UMORISTA Dal fondo amaro della sua vita e del suo temperamento affiorarono, molte volte, giornate, mesi e anche anni di lieta esistenza, di soddisfatto operare, che portavano Verdi a ridere volentieri con gli amici, a conversare allegramente con essi, a dire battute spiritose rimaste celebri tra gli amici stessi. Come sulla immensa sua produzione giunse e campeggiò il Falstaff, per cui « tutto il mondo è burla ^ cosi su tante vicende e fatti Verdi sapeva stendere un velo tenue e sincero di simpatica indulgenza, di compatimento, di signorilità. A tavola specialmente sapeva esser faceto, come quando scriveva sul fiasco di Chianti al Ristorante Concordia: «Gino me l'ha dato, guai a chi lo tocca ». Al tempo dell'Aida a Roma Verdi non pareva contento della prima-donna Pozzoni Anastasi, da lui scelta nel resto per la prima al Cairo. Ricordi gli osservò che difficilmente era contento delle prime donne: « Non è facile accontentarsi, rispose, a cominciare da Eva che poco dopo la creazione fu cacciata dal Paradiso terrestre. Si vede che questo è il destino delle p rime donne... ». Quando Ferravilla recitava il Maester Pastizza al Teatro milanese sentì Sbodio nella sua parte enumerare tutti i grandi maestri di musica italiani, compreso Verdi, al cui nome Ferravilla esclamò: « Ah, il nostro caro Peppino, il nostro caro Peppino... » con tono confidenziale e quasi rivolgendosi al Maestro che assisteva allo spettacolo da un palco, sì che il pubblico scoppiò in una dimostrazione a Verdi. Il quale sorrise della frase spontanea di Ferravilla andando a presentarsi a lui nel palco: «Eccovelo qui il nostro caro Peppino, che è venuto a salutarvi... ». A Genova tutti lo conoscevano o quasi. Un tale che non ancor aveva potuto salutarlo almeno in lontananza, glì corse una volta incontro esclamando: « Vedo finalmente il Maestro Verdi... ». Ma questi assunse un'aria così indifferente, come di chi cade dalle nuvole, nel momento in cui si chiedeva: « Io Verdi? », puntando l'indice sul petto, si che l'altro restò mortificato, e si mise ancora in cerca di Verdi... Notissimo l'avvertimento dato a Verdi dal Maurel, quando era terminato lo spettacolo del Falstaff al Carlo Felice, e le quattro comari se la facevano allegramente tra le quinte: « In guardia, Maestro, da questi folletti. A me l'hanno già fatta. State attento a non cascarci anche voi ». Verdi sorrise al Maurel: «Eh, caro mio, a quest'ora è più facile scrivere un'opera ». Tra le due cantanti Stolz, Rosin a e Teresina, non si sapeva un tempo quale preferire. La Teresina, doro un successo brillante, azzardò chiederlo al Maestro, certa di un giudizio favorevole. Ma Verdi, che non mancava di dare rabbuffi a Teresa Stolz, che se ne impermaliva solo per pochi minuti, rispose: « Quale preferisco? Nessuna delle due... ». Quel Prospero Bertani di Reggio che non fu contento dell'Aida a Parma, e scrisse a Verdi per essere rimborsato delle spese, includendo in esse anche la cena pagata a Parma, non pensava che Verdi avrebbe risposto e dato ordine al Ricordi di pagare tali spese. detraendone però la cena: « Pagargli anche la cena, questo poi no! Poteva ben cenare a casa sua ». Quando il Presidente della Repubblica gli appuntò sul petto la Croce della Legion d'onore, fu sentito esclamare: « Penso che cosa dirà la Peppina nel vedere questo strappo nella giaccal... » Nello stesso giorno gli era stato offerto un pranzo d'onore al quale assistevano tutte le personalità più illustri di Parigi. Al termine del pranzo Verdi si alzò lasciando credere agli astanti che facesse un discorso di ringraziamento: invece chiese venia per alcuni impegni che lo obbligavano a ritirarsi immediatamente al suo albergo, dove fece una bella risata arrivando nel raccontare l'avvenuto, e dicendo che gli era necessario un buon caffè: « Un buon caffè mi fa digerire il pranzo; i discorsi me lo avrebbero fatto restare sullo stomaco ». Sempre dal libro « Verdi umorista » di Lorenzo Alpino prendo altri episodi, come quello della sua bénigna accondiscendenza all'invito del direttore di un Circo il quale aveva visto passar Verdi e si era fatto ardito di chiederne « l'ambita presenza al grande spettacolo ». Fu la salvezza del povero direttore, perchè da quella sera tutta Genova credeva che Verdi tornasse allo spettacolo... del Circo. Bottesini era famoso per la sua generosità, senza riflessione alcuna, per cui i debiti erano al... disordine del giorno. Anche Verdi, interrogato quale fosse la finanza del Bottesini rispose: « I debiti... ». Quando, nel 1887, il 19 Marzo, festa di S. Giuseppe e onomastico di Verdi, una commissione di giornalisti liguri gli offri un Album con 30 mila firme e un sacco di lodi per l'Otello, si sentirono dire, con calma olimpica « Del resto che cosa ho fatto? Ho fatto una opera: Si tratta del mio mestiere. Un mestiere come un altro ». Mandando un proprio ritratto alla contessa Maffei scriveva: «Unisco al ritratto grande, sei altri piccoli, chè una volta che il fotografo m'ha avuto nelle grinfie non m'ha lasciato partire senza avermi prima messo allesso, arrosto, in tutte le salse. Voi vedrete in alcune sembro un parrucchiere, in altre un imbecille e in altre un brigante ». Quando scriveva il Don Carlos aveva sempre vicino il suo cane: « In teatro, diceva, sono sempre circondato da cani della peggiore razza. Me ne tengo vicino uno che almeno non ha la pretesa di saper abbaiare bene...». Nelle sue lettere le più facete sono quelle allo scultore Luccardi, allegrissime e spassose per i modi col quale chiama l'amico, il suo « matto, il più savio di tutti i savi »; e quelle al conte Arrivabene alle quali andavano unite alcune lettere immagina28 — F. BOTTI, G. Verdi rie scritte dal cane Blach di Verdi al cane del ccnte Arrivabene, nelle quali il padrone è chiamato « quello dei rampini », e che terminano con un fraterno canino amplesso ; inoltre sono a ricordarsi le lettere al Morelli in alcune delle quali la spassosità, assomiglia a quelle scritte al Luccardi. Un tenore era arrivato a conversare con Verdi a Montecatini, ed orgogliosamente gli magnificava le sette interpretazioni con le quali replicava « La donna è mobile » alle richieste del pubblico. Verdi stava zitto, ma quando colui si offrì di far sentire le sette interpretazioni, scattò: « Ah, questo poi no, caro mio... ». Davanti al Governatore che lo invitava a comporre una marcia per l'esercito austriaco a Milano rispondeva: « Non ho che arie di ritirate... Ne volete? » Davanti al bilancio delle spese per la Casa di riposo a Milano diceva: « Non vorrei essere io il primo ad esservi ricoverato... ». Arnaldo Fraccaroli disse che in Verdi « l'umorismo, la voglia di ridere, il gusto della frase spiritosa, della definizione comica, del rilievo burlesco, rappresentavano una valvola di sfogo alla sua vita di lavoro ». Al Luccardi scriveva: « Rivediamoci presto, chè dobbiamo ridere insieme, e ancor più dell'ultima volta... ». All'Arrivabene: « Io pago sempre i miei debiti, sempre: se ne avessi qualcuno verso di te, tu devi startene zitto e non rovinarmi la mia buona reputazione ». Ancora: « Tu diventi sempre più bello di anno in anno. Se continui così da qui a 50 anni sarai il più bel barbone d'Italia. Intendiamoci, avrai la più bella barba d'Italia... ». E l'accenno al barbone faceva rispondere all'Arrivabene che lo prendeva per un complimento data la sua grande stima dei cani... Ecco una descrizione graziosissima dell'Esposizione di Londra: « Finora le cose più interessanti dell'Esposizione sono casse rotte, rotoli, massi di paglia, facchini da cui bisogna ben guardarsene per non farsi rompere le costole e gocce d'acqua che cadono dai tetti per rinfrescare il naso ai curiosi ». Vedemmo come alla nomina a Senatore diceva di Peppina: « La Signora Senatora... » che nei momenti della creazione artistica e in questi di buon umore, stimava il suo Verdi adorabile come non mai... VERDI E L A RELIGIONE Abbiamo detto qualcosa sull'argomento ogni qualvolta ce se ne presentava l'occasione, ma vogliamo aggiungere una pagina, non più sulle opere e la loro ispirazione sincera, quando in esse c'è il sentimento religioso, ma su fatti ed episodi volutamente occultati da molti scrittori di cose verdiane. Abbiamo visto come solennizzava il giorno di S. Giuseppe; come la Strepponi parlava della religiosità di luí a Carlo Nasi, ricordando il periodo delle ombre, ch'ebbe il suo massimo grigiore nel periodo di convivenza con la Strepponi stessa, fino al loro matri:nonio cristiano ; come nelle sue composizioni sacre e specialmente nella Messa di Requiem si elevasse verso Dio ; ora veniamo agli episodi e alle testimonianze. Suor Maria Broli ricordava spesso l'episodio di Verdi che tolse il cappello a Boito, entrando nell'oratorio dell'Ospedale di Villanova, facendogli osservare: « C'è il Sacramento ! » Quando si aggirava nelle parrocchie dei dintorni di Sant'Agata e amava visitare le chiese anche o sia pure per scovare pitture o cornici artistiche da comperare, teneva un contegno devoto da fare invidia a tanti cristiani di oggi; e quando si recava annualmente in pellegrinaggio a Cortemaggiore a rimirare il celebre quadro dello Scaramuzza, prima si inginocchiava devotamente in un banco, e poi avanzava verso il quadro stesso, come ricordano ancora gli anziani del paese. La chiesa che egli preferiva a Genova era quella dell'Annunziata, ricca di ori, di dipinti, ben ornata. Quando assistette in detta chiesa alle nozze della figlia di un amico fedelissimo e suo amministratore: « Si inginocchiò all'elevazione e stette così fino alla benedizione. Com'era bello Verdi alto, severo, composto! » Ma egli stesso si fece costruttore di chiese e volle la cappella nella sua villa di Sant'Agata, dove ascoltassero la S. Messa anche i domestici e i suoi ospiti: la volle nell'ospedale di Villanova, costruito e mantenuto a sue spese ; la volle espressamente nella Casa di riposo per musicisti a Milano, dove obbligò il progettista Camillo Boito a portare mutamenti al progetto primitivo nel quale era stata dimenticata la cappella interna. Si ricorda ancora come nei paesi circostanti a Sant'Agata e Busseto egli incitasse i sacerdoti a costruire chiese belle e ampie, promettendo e dando il suo aiuto finanziario. E scelse infine di essere sepolto in chiesa, nella bella chiesina della Casa di riposo, mentre già molti anni prima aveva ottenuto il permesso dal Prefetto di Piacenza di poter essere sepolto in quella di Sant'Agata, per la quale aveva apprestate due tombe in marmo, per sè e per la Strepponi. Che se Verdi costruì cappelle e amò la casa di Dio e della preghiera, sappiamo anche quale importanza egli assegnasse alla preghiera. Egli infatti scriveva nel 1876 alla contessa Giuseppina Negroni-Prato-Morosini: « S'ella va alla tomba della sua povera madre, dica una preghiera per me ». Ed appunto sulla tomba della madre sua a Vidalenzo, Verdi aveva apposta questa lapide: « Pregate - per l'anima di Luigia Uttini Madre al Maestro Verdi - morta in Vidalenzo il 30 giugno 1851 ». Al suddetto architetto della Casa di riposo chiedeva: « E chi volesse pregare dove andrà? Non solo invitava a preghiera di suffragio per i suoi defunti, ma anche per i giovani morti nella guerra d'Africa del 1896 inviava generosa offerta al parroco di S. Agata, con queste parole autografe: « Quattro Messe per i poveri morti d'Africa. - G. Verdi ». E ancora Lorenzo Alpino dice che a lui fanciullo Verdi chiese se gli orfani di Don Montebruno pregavano anche per lui e la Strepponi, e si raccomandò al fanciullo che glielo ricordasse. E altra volta: « Dai retta a quel che ti dice Don Montebruno? Stai buono in chiesa davanti al Signore? Lui vede tutto, sai... ». Un giorno venne al fanciullo un'idea, passando davanti alla chiesa dell'Annunziata: « Che vi sia il Maestro? » Entrò, e « Verdi era proprio lì, seduto su una panca che pensava col capo appoggiato alle mani ». Tamagno che incontrò Verdi sulla soglia dell'Annunziata di Genova racconta: « Non credevo che Verdi, fuori di Sant'Agata, andasse in chiesa. Uscito da Palazzo Doria dove ero andato a cercarlo, perchè speravo di portarlo a Torino, dove avrei cantato per lui, in una rappresentazione straordinaria dell'Otello (la bella iniziativa era del conte Sambuy, ma poi non se ne fece nulla), m'indirizzarono alla chiesa dell'Annunziata, dove, mi aveva detto il portiere del Palazzo, ogni domenica mattina non manca mai alla Messa. Stava salendo la gradinata con Boito e con Ricordi, convenuti a Genova per il suo onomastico, se ricordo bene. Verdi capisce a volo la mia impercettibile sorpresa; e con quel suo fare un po' piccato e un po' bonario mi dice forte: « Per voialtri signori canterini non vi è altro santuario che il teatro, forse perchè credete di continuare a cantare anche nell'altra vita. Caro Tamagno, aggiunge subito dopo, dopo tanti dolori e tanti clamori le ore che passo vicino a Dio sono le più dolci per me. Mi ero un po' sbandato, ma a Lui mi ha ricondotto la Peppina ». E mi prese sotto il braccio e mi portò a Messa, dove lo vidi assistere con un atteggiamento esemplare. Non meritavo l'onore di tale invito ». Il Ministro Rattazzi, quando era ministro della Real Casa, sotto Re Umberto, fu incaricato dai Sovrani di invitare Verdi a musicare un nuovo inno nazionale. N'ebbe questa risposta: « A voi sembra facile ma non è. Perchè un inno nazionale tocchi il cuore di tutti, bisogna che esca dall'anima d'una nazione e salga in alto, bisogna che unisca lo spirito di un popolo idealmente, con lo spirito di Dio. Lasciatemi pensare, ma adesso non mi sento capace. Se Manzoni mi avesse scritto le parole, mi avrebbe facilitato il terribile compito: e solo lui poteva scriverle ». Quando Rattazzi riferì queste parole alla Regina Margherita, questa disse: “Non si sa se più ammirare la visione sublime dell'artista o la grandezza morale del credente “. E' sua questa frase a Boito, detta a Villanova, nell'ospedale: « Qui il sacerdote è necessario alle volte più del medico, e le suore non sembrano creature umane ma Angeli ». Quando quel tenore toscano, il Fancucelli, si lasciò sfuggire una bestemmia per una stecca, ad una prova del Rigoletto, si sentì dire da Verdi: « Lascia stare Dio, qui di cani non ci sei che tu », e commentava poi: « Che volete, me lo disse in modo che chinai mogio la testa ». Ma torniamo a Sant'Agata dove Verdi ascoltava la Messa con gli ospiti della casa, alcuni dei quali credevano che lo facesse per dare esempio ai contadini, come sottilmente vorrebbe lasciar intendere forse lo stesso Boito, e come credeva Tamagno, che restava sorpreso al sentire che a Genova immancabilmente si recava all'Annunziata. E' nota la testimonianza fornitami da Mons. Costa, che merita di essere riportata per esteso: « Devo riportarmi — egli scrive — col pensiero a 40 anni fa, quando nella mia giovinezza doveva recarmi a celebrare la S. Messa nell'oratorio di Sant'Agata. Per quattro mesi consecutivi, nell'anno 1897, ivi disimpegnai il compito della celebrazione del Divin Sacrificio nei giorni festivi, ed ebbi ogni volta, l'impressione di trovarmi davanti a persona che sentiva profondamente la fede. Il Verdi assisteva alla S. Messa — (e nei quattro mesi non mancò mai al compimento di un tal dovere di buon cattolico) — in un atteggiamento devoto, raccolto, non mai seduto, ma a seconda dei momenti, in piedi o in ginocchio. Ricordo poi come mi riconoscevo edificato, in modo tutto particolare, dal gesto ampio con cui il Maestro si faceva il segno di S. Croce ; cosa questa che potrà apparire trascurabile a uno spirito superficiale, ma che tale non è, poichè un gesto, una parola alle volte, — (e questo è il caso) — è l'espressione dell'indole e del sentimento di una persona. Con Verdi assistevano alla S. Messa la pia consorte Giuseppina Strepponi, e, quando erano ospiti della casa, le celebrità del mondo artistico teatrale, tra le quali Arrigo Boito, e la cantante Stolz. Non sempre la Strepponi poteva, dati gli incomodi dell'età, venire ad ascoltare la S. Messa ; ma quando glielo permetteva la salute vi si recava attraversando il cortile che separa il rimanente della casa dall'Oratorio, su una carrozzella tirata a mano da qualcuno dei familiari e spinta posteriormente dalla mano del Maestro. Scena davvero toccante, suggestiva, degna di essere fissata sulla tela dal pennello. Ma un lato della religiosità di Verdi non ancora approfondito è la sua ammirazione e amicizia per Manzoni, ch'egli chiamava il « Santo ». Per qualcuno è il più approbante argomento « in favore della sua religiosità » perchè chiamandolo « Il santo «, riveriva in lui la fede e le virtù che fanno i santi, e più su della grandezza artistica poneva la sua sublimità e totalità religiosa. Un uomo senza fede non avrebbe potuto apprezzarne che le virtù poetiche, artistiche, umane, non quelle religiose, così da raccogliere in quell'appellativo tutta la sua devota ammirazione... Questo atteggiamento verso Manzoni è indice di complessi sentimenti e di forse non del tutto conscie aspirazioni del grande musicista? » Davanti ai giorni eterni non aveva egli date le famose disposizioni per i suoi funerali modestissimi? Disposizioni ricordate anche da Boito il quale, dopo aver ricordato al Bellaigue « la bella testa di Verdi inclinata nella chiesa di San t'Agata », passava a dire: « Egli na dato esempio di vita cristiana con la solenne bellezza delle sue opere religiose, con l'osservanza dei riti, con il suo illustre omaggio a Manzoni e con le disposizioni dei funerali... ». Ma avendo fatto il nome di Boito abbiamo due cose da dire. Il Senatore Innocenzo Cappa mi scriveva che raccolse oralmente da Boito una rinnovata ammirazione per la fede di Verdi, « invidiandone il cristianesimo ardente, sincero, generoso » con la famosa distinzione che è naturale in Boito iscritto alla Massoneria, tra cristianesimo e cattolicesimo. Altra cosa: fu Verdi iscritto alla Massoneria? Molti, troppi lo affermarono e lo affermano forse ancora. Eppure il Luzio ha dimostrato il contrario; eppure lo negava anche il Boito a Tomaso Tittoni e a Vittorio Scialoja, aggiungendo « che per Verdi la sola idea di mettersi un qualsiasi legame sul collo e persino un grenibiulino sul ventre era cosa insopportabile, inconcepibile e ridicola ”; eppure anche la signora Cora-Mancinelli lo ha negato tante volte, e Lorenzo Alpino ha dimostrato come tale falsità e assurdità sia nata dal balzano e mistificatore ebreo Leo Taxil... Argomento difficilissimo questo della religiosità nella vita di Verdi, che aveva temperamento « chiuso e riservato da non consentire l'indagine della sua coscienza », tanto più che in nessuna delle sue lettere si trovano confidenze intime o confessioni del suo spirito, come neppure accenni sia nelle sue che in quelle della Stolz che rivelassero ai curiosi e studiosi qualcosa del supposto amore tra i due. Chi unicamente e veramente poteva penetrare nell'intimo della sua anima fu la Strepponi, la quale ebbe poche parole accennanti alla fede del suo Verdi. Atteniamoci allora a queste parole: « questo brigante si permette di essere non dico ateo, ma poco credente... ». Essa lo voleva più unito alle sue forme di religione, lo voleva portare alla pratica. Disse infatti: « Lo aiutai a pensare a Dio, anche quando meno ci pensava ». E negli ultimi anni riuscì ad avvicinarlo o meglio a riavvicinarlo anche alle forme di culto da lui dimenticate: e tutto questo in un secolo agnostico, turbinoso, positivista, scettico, anticlericale; in un secolo che proclamava di avere soppiantata la religione per sostituirvi la scienza; e in un ambiente strano, infido e infittito di cattive occasioni quale è quello del teatro e dell'unito vagare per il mondo ». I fatti riportati, le note ispirate della sua musica, la morte rasserenata dalla presenza del sacerdote intuita e gradita, le parole della Strepponi che lo salutarono con una speranza di eterna unione a continuazione di quella serena e in ogni giorno elevata per i più delicati e elevati sentimenti, ci confortano a giudicare che tutto quanto noi si disse di Verdi in rapporto alla religione non sia che pallido riflesso di quanto la sua anima ebbe in sentimento d'amore e di grazie al suo Creatore, di cui il suo Genio era grande e sostanziale raggio di luce. VERDI E I SACERDOTI Molti sacerdoti s'incontrano nella vita di Verdi, coi quali il Grande ebbe o contatti o amicizia. Inutile dire che nel secolo dell'anticlericalismo acido e sprezzante Verdi non ne fu completamente immune, e molte espressioni si trovano nelle sue lettere dalle quali appare che egli, come dice lo Scherillo, non guardava per sottile, e « prete voleva dire per lui potere temporale ),; frasi anche irriguardose verso il Papa come Sovrano temporale, temperate poi o mutate anch'esse alla morte di Pio IX; parole simili a frecciate su qualche difetto del clero ; ma è necessario ricordare ancora una volta che tutto va incorniciato nel secolo scorso, nel quale il disprezzo più ostentato dominava molti animi verso il clero, sia perchè era ancora in gioco la questione temporale, la soppressione dei beni ecclesiastici, e gli effetti del volterianesimo avevano ancora molte vittime. Anche le anime più propense al sentimento religioso, per rispetto umano, ricorrevano alla distinzione tra cattolicesimo e cristianesimo e si dicevano profondamente cristiane, ma non cattoliche, come se questo fosse, a loro dire, una supercostruzione, una degenerazione... Ma, a parte questa distinzione che oggi ci fa sorridere, resta il fatto che nel secolo scorso si chiamò il clero retrogrado, oscurantista, dando origine al movimento del modernismo, che voleva adattare gli stessi dogmi ai tempi mutati, impregnandoli « di spirito liberale ». Resta il fatto che un po' di anticlericalismo infettò la vita di troppi uomini, pure sdegnati degli eccessi carducciani: e tra costoro dobbiamo mettere Verdi, la cui rampogna contro l'Inno a Satana, pur con tutto il rispetto che aveva del Carducci, ci riconcilia con alcune altre sue frasi di tinta anticlericale. Con tutto questo lo spirito superiore di Verdi seppe avere, coltivare, e conservare amicizie preziose con molti sacerdoti. A quanto ho già detto altrove devo oggi aggiungere una pagina confortante per la mia tesi, e che io riporto integralmente dalla Rivista di Giovani del 15 marzo 1941, e che è ricalcata su quanto il principe del Foro Avv. Carlo Nasi, disse davanti a illustri persone il 1905, come racconto di una sua visita fatta a Verdi prima del 1900. Il Nasi era stato eletto deputato di Parma, e per questo andò a salutare Verdi che fu già Deputato di Borgo San Donnino: « Qualche mese dopo l'elezione, raccontava il Nasi, credetti mio dovere deputatizio di recarmi ad ossequiare Verdi, che non conoscevo di persona, sebbene di me gli avessero già parlato cortesemente amici comuni come Ta-magno, Boito e Ricordi. Non mi sarà facile dimenticare, finchè vivo, il caldo e la polvere, ed eziandio le mosche sopportati andando in carrozza, da Borgo San Donnino — (oggi Fidenza) — a Busseto. Avevo perso il primo treno a Milano, proprio per colpa di Ricordi, che aveva un'orario vecchio e dovetti affrontare la Bassa Parmense in pieno sol di settembre. Verdi, al quale avevano scritto del mio arrivo, non mi aspettava più e aveva detto alla moglie: « Si vede che ci ha pensato meglio ; e invece di venire a trovare un povero campagnolo, se n'è stato a Milano a divertirsi con quei bei matti ». L'intrepido ronzino arriva finalmente alla villa di Sant'Agata: tutto è chiuso. Non oso insistere a quell'ora di siesta e me ne vado a curiosare verso le Roncole per vedere la catapecchia dove era nato e anche per fare ora. Uno di quei prodotti internazionali, eguali ovunque per sporcizia, intelligenza e sfacciataggine, che si nomano monelli della strada, mi si presenta ed esclama: — Ehi, quel signore dal pizzetto (allora la barbetta era nera e a punta, come a Tamagno: eravamo anzi i due pizzi neri di Torino ; poi venne Leonardo Bistolfi a fare il terzetto come celiava DeAmicis) volete forse vedere il Signor Verdi? Venite con me. — Mi affidai fiducioso alla scalza guida e quasi subito potei osservare uno degli spettacoli più commoventi e impressionanti. Nel mal riparato sagrato della chiesa, all'ombra di un grande ombrello grigio, un vecchio sacerdote — sguardo fisso e passo stentato del cieco — appoggiato al braccio di un signore anziano passeggiava, chiacchierando e ridendo con l'abbandono della più intima affettuosità ». Il signore, ancora in gamba, saldo nella bella persona alta, pareva avesse in testa il figlio legittimo dell'ombrello, tanto era vasto il cappello a cencio... Mi fermai dietro un carro di fieno per non disturbare e cercai, confesso l'indiscrezione, di ascoltare quel che dicevano: il sagrato era piccolissimo quasi tascabile. Le parole dialettali, che non capivo, venivano intercalate da frequenti parole italiane, secondo l'uso emiliano. — Oggi non sono andato a riposarmi, Don Antonio mio, perchè in casa abbiamo avuto uno spostamento di ora, causa un signore che doveva venire e non si è visto. — Non gli sarà mica capitata qualche disgrazia... — Speriamo di no ; e poi non lo credo, perchè si tratta di un deputato, e a costoro di solito non succedon disgrazie ; capitano agli altri. Io non sono mai stato così bene al mondo come quando ebbi addosso la sola sventura di esser deputato. E così la Peppina è andata a riposarsi e io ho detto: scommetto che Don Antonio starà a scaldarsi le ossa al sole. Andiamo a vedere e ho indovinato. Ma state bene attento ai colpi di sole ; ve l'ho sempre detto. — Caro Verdi mio, il sole per penetrare nella pelle vecchia impiega tanto tempo che a sentirlo mi ci vuole mezza giornata. E poi, e poi, Madonna Santa, non lo vedo più. Sapete che spesso quel che non si vede, si sente meno? — Bé, bé, adesso non andiamo in tristezze. Domani vi vengo a prendere con un legno per fare un lungo giro. — E intanto sediamoci sulla panchina di cemento: dobbiamo esser arrivati vicino alla siepe alta, che un po' d'ombra non la nega a cristiani. Voglio adesso farvi sentire una certa musica che forse non vi spiacerà. Il vecchio sacerdote, accomodato da Verdi con attenzioni squisite sul sedile rustico, apri la bocca sdentata e modulò, con discreta voce baritonale, il canto paradisiaco: Va pensiero, sull'ali dorate... Verdi ascoltava sorridendo, mentre teneva la mano infilata sotto il braccio dell'amico, forse per tema di una caduta. Vidi la conversazione durare allegra, con evidente soddisfazione reciproca. Alla fine i due si alzarono ; e il Maestro con riguardi delicati accompagnava il passo incerto del sacerdote fino alla Canonica. Io ne approfittai per tornarmene alla villa ». Ma non termina qui il racconto di Carlo Nasi. Ci dice della inaugurazione dell'organo, della bontà di Verdi nell'ascoltare il canto di Don Chiappari, « che glie lo andava ripetendo da secoli », della gentilezza di Verdi, e di altre cose che noi abbiamo documentate altrove, con voce di altri testimoni che qui trovano una inattesa quanto degna conferma. A Sant'Agata il Nasi ebbe alcune confidenze dalla Strepponi: « ... Sapesse com'è buono, com'è caro, com'è adorabile Verdi. Prima magari era anche lui un indifferentone, e lo sono stata anch'io, ve lo confesso. Ma da parecchi anni, da quando ci siamo sposati, egli non comincia la giornata e non la chiude senza farsi il segno di croce: ogni domenica va a Messa, con ogni tempo, qui e altrove ». E qui il Nasi ricorda l'ospedale di Villanova e la gita a Cortemaggiore per il quadro dello Scaramuzza, cosa sulla quale mi sono soffermato io pure, sempre per averle avute da testimoni sopravviventi, nel mio libro Verdi e la Religione. Detto poi ancora come il dì seguente dovesse recarsi a Milano per una grossa causa, la Strep29 — F. BOTTI, G. Verdi poni commentò: « Bella cosa le cause! Qui vedrebbe a pranzo un canonico di Busseto (è tanto vecchio, ma da quando prende le medicine che gli ha fatto venire Verdi cammina meglio). Viene da noi ogni giovedì... ». E questo a me aveva detto anche Basilio Pizzola, l'ultimo servo di Casa Verdi ancor vivente a Sant'Agata. Con Peppino, continuò la Strepponi, parlano delle cose più varie ; in religione filano in perfetto accordo. Fin che visse veniva a trovarci Don Seletti, prete di vedute larghe, che accettava benissimo Roma capitale d'Italia. Don Seletti diceva che Verdi era un buon cristiano e che nel Bussetano avrebbero dovuto essere tutti come lui. Dove non si trovavano d'accordo era nel giudicare certi vini, delle nostre campagne, e certi dolci che facevo io. Una volta vi fu una discussione che durò fino alle dieci, ora insolita, a proposito di un cocomero. Verdi sosteneva che i cocomeri sono più gustosi e più digeribili dei meloni, mentre Don Seletti propendeva per certe qualità di meloni, quando sono ben maturi... ». Il racconto dell'episodio si dilunga, fino a quando la Strepponi viene a parlare del Cardinale Mermillod, di cui ogni autore di storia verdiana ricorda l'amicizia con Verdí, da lui congiunto in matrimonio cristiano con la Strepponi. « Egli è davvero uno degli amici nostri più preziosi. Nelle famiglie alle volte sorgono delle questioni delicate e dei dubbi per decisioni da prendere, ecc. Ebbene, quando Verdi ha bisogno di un consiglio, che gli tolga scrupoli dalla coscienza si rivolge al Card. Mermillod. Parlando di lui dice sempre: — Non mi ha mai dato un consiglio sbagliato. E' un santo e che cervello fino I Quel testone di Boito stenta a convincersene, perché non lo conosce bene ; ma voglio che diventino amici. Scommetto che finirà per esaltarlo più di me; lui che sembra un uomo glaciale, fa così anche perchè in fondo è molto buono; va da un estremo all'altro n. Carlo Nasi racconta poi altre cose che tralasciamo perché note, come la volontà di Verdi che nella Casa di Riposo ci fosse la Cappella, cosa a lui raccontata dall'Architetto De-Amicis, che fu tanto intimo di Verdi. Don Seletti, Don Chiàppari delle Roncole, il Canonico Avanzi... e Don Luigi Mari di Villanova, d'Arda al quale aveva affidato l'esercizio del culto nell'ospedale eretto poco distante dalla chiesa; a questi aggiungiamo Don Adalberto Catena di Milano, amico di Manzoni e di Verdi, ch'ebbe la gioia di amministrare l'Estrema Unzione ai due Grandi in punto di morte ; aggiungiamo Padre Beccaro, ch'ebbe la fortuna di avere una volta Verdi ad un'Accademia dei suoi orfani ; aggiungiamo infine Don Francesco dei conti di Monte-bruno, confessore della Strepponi e consigliere spirituale della stessa; quel Don Montebruno i cui rapporti con Verdi furono descritti recentemente da Lorenzo Alpino, con episodi graziosissimi, quale quello della recita davanti a Verdi nel suo giorno onomastico ; e infine il nipote dell'Architetto De-Amicis, che fu cancelliere della Curia Vescovile di Genova ed ottenne al Verdi di avere un sacerdote a celebrare la S. Messa di mezzanotte a Natale, in casa sua, nel 1890. Ma un episodio sconosciuto finora era l'incontro di Verdi col Maestro Perosi: « Di Giuseppe Verdi, scrisse alcuni giorni or sono il Perosi, conservo buona memoria per una sua udienza a me concessa nel giorno della esecuzione della Resurrezione di Cristo in Sant'Ambrogio a Milano. Fui accompagnato dai conti Lurani, che gli erano molto affezionati: fu cortesissimo verso di me incoraggiandomi a continuare a scrivere musica religiosa e non posso dimenticare la sua alta figura, che in alcuni momenti della conversazione aveva del »- rade° e nella florida sua salute non manifestava i suoi 86 anni ». Tra i Vescovi ebbe Verdi relazione con Mons. Tescari di Fidenza, per avere le suore a Villa-nova, e il servizio religioso a Sant'Agata, e molti sacerdoti del fidentino ricordano le belle espressioni che aveva Mons. Tescari in riguardo a Verdi, al quale mandava a Sant'Agata un professore di Seminario per la celebrazione della Messa festiva, tra i quali vi fu colui che poi diventò Mons. Vescovo di Lecce, e che ci ha dato uno dei più bei documenti sulla sincerità religiosa e sentita del Grande. Mons. Magnasco Arcivescovo di Genova andò una volta a far visita alla Strepponi accompagnato da Don Montebruno: « In casa c'era anche Verdi, il quale fu commosso e forse anche lusingato. Il colloquio tra Verdi e Monsignore fu cordiale, soddisfacentissimo. Quando Verdi restituì la visita a Monsignor Magnasco, fu ancora Don Montebruno che lo introdusse da Monsignore, che intrattenne il Maestro, per più di mezz'ora. Che cosa abbiano detto i due alti interlocutori, non l'ho mai saputo. Don Montebruno disse soltanto che erano rimasti molto soddisfatti delle loro conversazioni ». Ed ora un episodio del Senatore Mariotti, sindaco di Parma, il quale era andato a Sant'Agata e si aggirava con Verdi tra i campi, quando il Maestro vide un suo contadino leggere il famoso settimanale anticlericale L'Asino, stando seduto all'ombra di un olmo. Il Maestro lo redarguì aspramente con queste parole: « Asini di questo genere nelle mie stalle non ne voglio e nemmeno sotto le piante. Stracciatelo subito. Che se volessi ragliare per conto tuo, licenziati pure ». E Mariotti diceva poi come il contadino restasse sbalordito, mormorando alcune parole di scusa, e « da quel giorno asinerie di quel genere non ne commise più ». Mons. Costa così ricordava in una intervista con E. Scarfoglio Ferrara, il suo primo incontro con Verdi: « ... Quando a Messa ultimata — (era la prima S. Messa celebrata a Sant'Agata dal Costa) — il Maestro fu con me di una affabilità e di una squisitezza così confidenziale, da farmi rimanere addirittura confuso ed impacciato, capii che era esagerata la voce corrente della inaccessibilità dell'uomo. Volle offrirmi il caffè che egli stesso soleva preparare e si conversò di molte cose come se ci conoscessimo da anni ». Affabilità che andò aumentando, se così può dirsi, per quattro mesi nei quali il Costa, ora Vescovo di Lecce, celebrò a Sant'Agata. Verdi aveva lasciato per testamento che un solo sacerdote celebrasse i suoi funerali religiosi, come difatti avvenne. Il Gatti sbaglia dicendo: « Due preti, due ceri, una croce ». Boito lo conosceva bene e riportò così: « Un prete, un cero, e una croce ». Ma effettivamente c'era un altro sacerdote al seguito dei modesti funerali; come amico, e non come ministro del culto. Era il Canonico di cui parla Carlo Nasi, nato alle Roncole, che si era fatto un dovere quale nativo e rappresentante delle Roncole e quale amico di accorrere a Milano, anche se le giornate rigide invernali sconsigliavano tale viaggio pericoloso per i suoi molti anni. GLI ULTIMI ANNI E LA MORTE Boito aveva cercato di dare i Pezzi Sacri a Parigi, per ridarli in Italia. Verdi non ne voleva sapere di dare i Pezzi Sacri in pasto al pubblico e solo dovette cedere quando seppe che Boito aveva presi impegni. Solo il rispetto e l'amore all'amico devoto gli fecero cambiare risoluzione. I Pezzi Sacri ottennero successo a Parigi, a Milano, e a Torino, diretti a Milano da Toscanini. Chi più vorrà udirli saranno le città della Germania, nelle quali fecero un giro trionfale, da Berlino ad Amburgo, a Dresda, a Monaco ecc. Dopo uno dei suoi abituali soggiorni a Montecatini, Verdi va a Sant'Agata e poi a Milano, poichè vuole osservare da vicino i lavori della Casa di riposo: « Il giorno in cui tutto sarà finito sarà il più bel giorno della mia vita ». Ai primi di gennaio, del 1897 a Genova aveva avuto un attacco per il quale era rimasto senza parola sul letto, nel momento che stava per alzarsi. Ma poco dopo si riaveva. Grande fu. il suo dolore quando a Monza cadde Re Umberto e con commozione lesse la preghiera della Regina per il suo sposo: « La preghiera della Regina, nella sua semplicità pare scritta da uno dei primi padri della Chiesa. Ispirata da un profondo sentimento religioso, ha trovate parole così vere e di un colore così primitivo, che è impossibile uguagliare con la musica tanto ricercata e gonfia. Bisognerebbe riportarsi a tre secoli indietro a Palestrina » e dice questo perché la Contessa Morosini lo aveva incitato, a musicare tale preghiera che però rimase aperta sul tavolo, con qualche nota tracciata su un foglio rigato a mano da lui stesso. Quando compie gli 87, il 10 ottobre 1900 scrive a Boito: « Io sto come Dio vuole. Non sono veramente ammalato, ma le gambe non mi portano quasi più e le forze diminuiscono di giorno in giorno «. Sulle sue labbra sono le parole proprie di chi ha avute immense soddisfazioni nella vita e quasi non se ne accorse o quasi ne prova amarezza: « Ella ha dei figli affezionati... Io sono solo. Triste, triste, triste... E' una consolazione che io non ho provata — (ne ho provate cosi poco!) e che avrei sentita profondissimamente... ». L'ora della morte sembra riavvicinare alle persone che ci hanno preceduto nel segno dell'amore e della fede, e Verdi richiama alla memoria la prima consorte, ne tiene in uno scrigno i ricordi accanto a una ciocca di capelli, ogni 14 novembre rivive l'ora di dolore per la morte della Strepponi: « Giorno per me fatale !... ». Al De-Amicis dice: a Che ci sto più a fare al mondo ? ^ E ha già fatto il suo testamento, ha date le disposizioni scritte in busta chiusa per i funerali e ha ottenuto dal Prefetto di Piacenza il permesso di essere sepolto nella chiesina della sua Casa a Sant'Agata, insieme con la Strepponi, disposizione mutata poi in quella di inumare il corpo della Strepponi a Milano, perchè non gli avrebbe retto il cuore a piangerla ogni giorno sulla tomba, nella chiesa che racchiudeva tante memorie, ove egli stesso spingendo a mano la carrozzella, aveva accompagnata la inferma consorte nelle ultime domeniche dell'ottobre del 1897. Il 21 gennaio all'albergo dove passò tanti giorni, ebbe un grave attacco che lo paralizzò nella parte destra della persona. Ricadde sul letto inerte: per tre giorni non peggiorò e molti speravano ancora. Il 24 gennaio parve assopirsi nel sonno estremo, e i famigliari chiamarono il prevosto di S. Fedele, Mons. Adalberto Catena. Il sacerdote recitava commosso le preghiere degli agonizzanti, quando Verdi ebbe un risveglio che parve miracoloso, riconobbe l'amico sacerdote, lo guardò con espressione profonda, con uno sguardo significante che assicurava aver egli compreso il pensiero religioso del momento e strinse al Catena la mano con lo sforzo supremo del morente. Il sacerdote ne ebbe un fremito di gioia nella sua anima di sacerdote e di amico, amministrò l'Estrema Unzione, e partì rasserenato e con una speranza che in lui era certezza. Verdi non aprì più gli occhi alla vita terrena. Alle ore 2,50 del 27 gennaio il suo cuore ebbe l'ultimo palpito. « Lo spirito del Grande, dice il Gatti, è risalito alla luce di Dio », e sul suo corpo esanime, rivestito di nero, sul petto è il simbolo della fede che la madre a30 — F. BOTTI, G. Verdi veva profondamente radicata nel suo cuore: Un crocifisso di ebano. La Strepponi aveva un tempo scritto al De Sanctis: «E poichè benedite il nome di Verdi, benediciamolo insieme. E' il nome di un uomo raro, per ogni virtù che io venero e benedirò fino all'ultimo della mia vital... ». Anche noi benediciamo Dio che l'ha suscitato nella nostra terra, ha insublimato nel dolore la sua anima, l'ha portato agli anni estremi in risorgente giovinezza, quale simbolo di nostra gente: «Uomo raro per ogni virtù ». In una lapide che ricorda la generosità della Strepponi, nella chiesa di S. Agata, si legge: « Beato chi morendo ha per lodi — il pianto e la preghiera dei poveri ». Col rimpianto di tutte le genti dell'orbe, anche sulla tomba di Verdi scesero le lacrime innumeri e riconoscenti di mille e mille beneficati, e il bene compiuto lo avrà innalzato nella gloria di Dio: « Ah, le buone azioni fanno tanto bene, Egli scrisse confidenzialmente una volta, quaggiù e nell'eternità! » Racchiuso in se stesso (Che ci sto più a fare in questo mondo?) egli aveva meditato sui giorni eterni e ad essi si era avviato con queste disposizioni: « Ordino che i miei funerali siano modestissimi e si facciano allo spuntar del giorno o all'Ave Maria di sera; senza canti e senza suoni: basteranno un prete, un cero, e una croce », e nel testamento del 14 maggio 1900: «Esprimo il mio vivo desiderio di essere sepolto in Milano con mia moglie, nell'Oratorio che verrà costruito nella Casa di riposo per musicisti, da me fondata ». • Il 12 novembre del 1900 il Maestro Tebaldini era andato a Sant'Agata, e stette a mensa con Verdi. « Quantunque la giornata fosse rigida, terminata la colazione, il Maestro, più che mai svelto e disinvolto, col suo abito di velluto nero, senza copricapo volle uscire nel giardino. La bella testa scultorea come nel bronzo di Gemito, adornata dai capelli argentei spioventi sull'ampia fronte, tratto tratto aveva ancora atteggiamenti e mosse leonine ». Alcuni contadini abbattevano una magnolia che Verdi aveva piantato nei primi anni di soggiorno a Sant'Agata. La faceva togliere perchè ombrava troppo. « L'albero cadde a terra, ma in quel momento provai una fitta al cuore. Nella vecchia pianta stroncata parvemi di ravvisare il simbolo di una fatalità incombente. Due mesi più tardi il Grande non era più ». Il Tebaldini assistette ai funerali, ed eccone il suo racconto: « La mattina del 30 gennaio, nell'oscurità profonda, rotta da rade luci, qua e là biancheggianti, che rendeva la immagine di tutta la tristezza di un popolo: dalla Piazza del Duomo, dalla Galleria, da Piazza della Scala, e giù giù per tutta la via Manzoni fino all'altezza dell'Hotel Milano ove la salma gloriosa da tre giorni riposava, più giù ancora verso i medioevali turriti bastioni del Barbarossa la folla ondeggiante, triste e silenziosa in raccoglimento. La bara portata a mano ed accompagnata da un solo sacerdote recante un cero acceso, entrò nella vicina chiesa di San Francesco di Paola. Ivi, tra il silenzio imponente, submissa voce, veniva impartita l'assoluzione di rito. Indi — trasportato sul modesto carro funebre, trainato da due soli cavalli, senza alcun seguito di carrozze e senza fiori — la salma di Colui che dai riflessi della propria vita immortale sembrava in quel momento inondare i nostri cuori, si avviò lentamente verso il Cimitero Monumentale. Cominciava ad albeggiare quando il corteo avanzava sui bastioni che da Porta Nuova si inoltrano verso i viali della Metropoli milanese. La mattina era gelida, ma in lontananza chiara e serena... Si arrivò dinanzi alla cancellata del Cimitero. Il feretro fu portato sull'ampia scalea ed innalzato nel centro del pronao del Famedio, al cospetto della immensa folla commossa e riverente. Gli sguardi di quelle migliaia di persone immobili, silenziose ed a capo scoperto si fissarono sulla bara del Gigante trasvolato pei cieli immensi che narrano la gloria di Dio, ne mai come in quel momento il silenzio solenne e grandioso parve aggiungere all'epica maestà dell'apoteosi ». Un mese dopo si svolsero solenni cerimonie per il trasporto della salma sua e della Strepponi alla Casa di riposo per musicisti. In quella occasione 900 cantori, intonarono al Famedio il Coro del Nabucco: « Va, pensiero, sull'ali dorate... ». • Giunti al termine di queste pagine sulla vita del Grande noi posiamo la penna con trepidazione ripensando alle ore di gaudio trascorse sulle pagine che ci parlavano della sua vita prodigiosa, dei suoi trionfi, (la cui eco, insieme con la sua musica errava per il mondo) e della sua umiltà in tanta gloria. Innanzi agli Italiani egli sta quasi ravvolto da un nimbo di leggenda e lo amiamo ed esaltiamo insieme con gli eroi, i santi, i geni di tutti i nostri secoli di storia « dalla quale ognuno impara come l'Italia in ogni tempo — nel fasto e nella povertà,, nella possanza e nel servaggio — ha sempre saputo gridare al mondo la propria supremazia morale ». Dalla Siberia all'Equatore, dall'uno all'altro mondo questo italiano contadino delle Roncole e Sovrano dell'arte, « tanti petti ha scossi e inebriati ». Egli è dovunque benedetto nel nome di Dio « che del Fattor suo spirito, in lui più larga orma stampò » e dell'Italia, culla del genio, che dopo la morte di Verdi donava al mondo Marconi. « Gloria a lui, immortale, sereno e trionfante come l'idea della Patria ». Gloria a lui « Che diede una voce alle speranze e ai lutti — che pianse ed amò per tutti ».