COMUNITÀ: UNA PAROLA PER IL GLOSSARIO DELLA CITTÀ di Sarah Chiodi Indice 1. IL SIGNIFICATO DEL CONCETTO DI “COMUNITÀ” ...................................... 2 La comunità secondo la concezione organicista ........................................................ 2 La comunità come società locale ................................................................................. 5 2. GLI STUDI DI COMUNITÀ .............................................................................. 6 3. LA COMUNITÀ E LA NOZIONE DI “RETE”..................................................... 9 4. TRACCE DI COMUNITÀ NELLA CITTÀ CONTEMPORANEA ......................... 11 5. LA COMUNITÀ NEGATA .............................................................................. 15 6. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE: TRE IDEE DI COMUNITÀ OGGI .................. 18 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ........................................................................ 21 1. Il significato del concetto di “comunità” La parola “comunità” negli ultimi anni è stata messa al centro di un ampio dibattito culturale e politico che ha coinvolto numerose discipline (l’economia, la geografia, la filosofia, ecc.), ma a questa diffusione corrisponde una polisemia 1 che ha reso vana ogni sua rigorosa definizione. Questo concetto è stato spesso impiegato anche nel campo dell’urbanistica generando molti equivoci. Nelle pratiche di pianificazione, afferma in proposito E. Talen (2000, p. 171), 2 «la nozione di “comunità” viene spesso interpretata liberamente ed usata in modo inappropriato» a tal punto da perdere la sua pregnanza semantica. L’obiettivo di questo contributo è quello di riordinare la pluralità di significati e di tradizioni di pensiero a cui ci rinvia il concetto di comunità, vocabolo fondativo della sociologia, mettendolo in relazione con la progettazione urbanistica. Com’è attestato nella letteratura sociologica [Gallino (2006), Bagnasco (1999), Pizzorno (1960)] il termine comunità viene usato con due significati principali. Il primo ha riferimenti temporali e sistematici. Deriva dalla sociologia classica europea di ispirazione romantica ed è l’erede del filone del pensiero sociologico che ha contrapposto due tipi possibili di sistemi sociali, distinti dalla comparsa del fenomeno dell’industrializzazione: comunità/società (Tönnies); comunità/associazione (Weber); solidarietà meccanica/solidarietà organica (Durkheim); folk society (Redfield)/urbanesimo (Wirth). Uno dei due termini fa riferimento a rapporti di tipo comunitario, tipici delle società pre-industriali, dove dominano rapporti di tipo personale/familiare attuati secondo scelte particolaristiche in un sistema organico; l’altro termine è invece riferito alla società industriale ed è dominato da rapporti contrattuali fondati su funzioni specifiche secondo scelte universalistiche. Il secondo significato di “comunità” identifica un raggruppamento umano localizzato. Deriva dagli studi della sociologia anglosassone 3 all’epoca della Rivoluzione Industriale (localmente datata) e riconosce la comunità [Gemeinde] 4 come un’unità sociale su basi territoriali ove si realizza un sistema di rapporti sociali fondato sulla prossimità territoriale. La comunità secondo la concezione organicista Questo primo filone interpretativo si sviluppa dalla dicotomia società/comunità approfondita nel pensiero romantico tedesco. Secondo questa visione «il concetto di 1 Hillery (1995) è arrivato ad elencare novantaquattro definizioni del termine nella sola letteratura anglosassone; Bell e Newby (1971) ne hanno documentate 164. 2 La traduzione è di chi scrive. 3 Si mette in evidenza che il termine inglese community significa quasi sempre comunità locale. 4 Si è scelto di inserire i termini Gemeischaft e Gemeinde, in uso nella sociologia contemporanea tedesca, poiché permettono di distinguere anche da un punto di vista semantico-lessicale i due significati di comunità, che né in lingua italiana, né inglese è possibile distinguere. 2 comunità come società fondata sugli ordini, a composizione sociale omogenea, entra nella pratica scientifica in contrapposizione all’altro di società contrattuale, a composizione sociale eterogenea». (Busino, 1977, p. 697) Il riferimento culturale più significativo e sistematico all’origine di questo filone è il trattato di Ferdinand Tönnies, dove comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft) sono posti in antitesi come tipi ideali di convivenza umana. La comunità, secondo Tönnies, è espressione di una volontà organica, naturale (Wesenwille): nasce in modo spontaneo nel profondo degli individui generando relazioni basate sulla «perfetta unità delle volontà umane come stato originario o naturale» (Tönnies, 1887, p. 51). L’individuo concretizza la sua appartenenza alla comunità in tre forme di relazioni sociali disposte secondo insiemi apparentemente concentrici. 1. Alla base della comunità sono le relazioni di sangue della famiglia, che si manifesta nella casa come forma esteriore della convivenza dei suoi membri; il legame di sangue non rappresenta solo un dato biologico, è anche un dato culturale e affettivo, che lega al nucleo domestico una storia, tradizioni e sentimenti condivisi. 2. In secondo ordine è l’insieme più ampio delle relazioni di vicinato, che si manifestano nel villaggio rurale. 3. Infine vi è il legame “di spirito”, che sta alla base delle relazioni di amicizia e di cooperazione reciproca. La comunità è comprensione e concordia tra i suoi membri che sono tutti proprietari della stessa terra, della stessa lingua e della stessa cultura; è l’espressione di un’identità collettiva 5 fondata sulla Terra: «Nella comunità così intesa, dunque, il soggetto individuale è parte costitutiva di un’identità collettiva e lo è non per scelta razionale» (Ciaffi, Mela, 2006, p. 55-56). Ogni soggetto è parte organica di un insieme omogeneo, radicato in uno spazio limitato e coerente nel tempo, unito da una lingua comune. La società invece è espressione di una volontà arbitraria, razionale (Kürwille), dove prevalgono gli interessi dei singoli. «La solidarietà si realizza solamente in termini contrattuali, e ruota intorno allo scambio di merci e servizi; la proprietà privata predomina». (Gallino, 2006, p. 144) La dicotomia comunità/società rappresenta un espediente tipologico per opporre la società rurale tradizionale a quella industriale emergente; questi due concetti essenzialmente esprimono dei “tipi ideali” di relazione sociale che difficilmente si possono riscontrare nella realtà in forma “pura”: sono «poli estremi nel cui mezzo si situano le forme reali e concrete della volontà e dell’azione». (Amerio, 2000, p. 99) 5 In questo caso con il termine “identità collettiva” s’intende un’entità unitaria, una totalità, ma «vi è anche la possibilità di concepire l’identità collettiva come la risultante di processi complessi, costituita da un’autonoma delimitazione di confini e costruzione di simboli, che interagisce tuttavia con le aspettative dei singoli individui che in essa si riconoscono, ma con essa possono entrare in contrasto in una sorta di equilibrio instabile». (Sciolla, 1991, p. 504) 3 Anche Max Weber (1922) delinea una distinzione tra due tipi ideali 6 di relazione sociale: la comunità e l’associazione (vol. I, pp. 38-40). Una relazione si può definire di accomunamento (Vergemeinschaftung) quando l’agire degli individui che vi partecipano poggia su una «comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva 7 o tradizionale 8 )» (Ibidem, p. 38). Il senso di appartenenza alla comunità in questo caso è determinato dal sentimento degli attori sociali e non si determina in ogni tipo di legame indipendentemente dalla soggettività degli individui. Nell’associazione (Vergesellschaftung) invece intervengono motivazioni razionalmente fondate; la relazione sociale poggia su «un’ identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato razionalmente (rispetto al valore o rispetto allo scopo)» (Ibidem, p. 38). L’agire razionale rispetto allo scopo è strumentale: il soggetto adegua i mezzi più efficaci per raggiungere lo scopo che si è prefissato. L’agire razionale rispetto al valore invece vuol essere coerente con la qualità che si vuole testimoniare indipendentemente dalle conseguenze a cui porta l’azione intrapresa dal soggetto. Diversamente da Tönnies, che poneva il sentimento di appartenenza alla comunità sulla base di un’identità collettiva che subordinava i soggetti, secondo Weber «non è ipotizzabile una conoscenza dell’oggetto che non tenga conto della soggettività» (Vitale, 2007, p. 34); se per l’uno la comunità rappresenta una sorta di coesione originaria di segno contrario alla società, per l’altro la differenza tra “comunità” e “società” dipende dalla disposizione del soggetto. Il due termini definiti da Weber quindi non sono posti in antitesi: comunità e associazione possono essere compresenti nella realtà come modalità differenti di stabilire delle relazioni sociali. Nella riflessione di Émile Durkheim (1893) la dicotomia tönniesiana viene sostituita dalla distinzione di due differenti forme di solidarietà sociale cui fanno riscontro specie diverse di diritto. (Vitale, 2007, pp. 38-43) x La solidarietà “meccanica”, che corrisponde al diritto repressivo, produce sanzioni miranti a colpire l’individuo; è tipica delle società più semplici. Il legame sociale poggia sulla “somiglianza” delle singole volontà. x Nella solidarietà “organica”, che corrisponde al diritto restituivo, la sanzione mira a ristabilire il rapporto sociale turbato; è tipica della società moderna, caratterizzata 6 Il tipo ideale è lo strumento euristico formulato da Weber per la lettura e l’interpretazione dei fenomeni concreti. La sociologia procede osservando forme ricorrenti di agire sociale empiricamente riscontrabili. Queste uniformità vengono quindi organizzate mediante un procedimento analitico che isola, e accentua concettualmente, quegli elementi che una serie di fenomeni concreti possiede in comune, per poi sistemare questi elementi in un quadro logico coerente: il tipo ideale; è una costruzione intellettuale, quindi non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà, ma è uno strumento usato per orientare la lettura. 7 Un agire determinato da affetti o da emozioni, come l’innamoramento. 8 Un agire determinato dall’abitudine acquisita da lungo tempo. 4 dall’ampliamento della sfera d’azione individuale; la solidarietà è garantita dalla cooperazione, la quale dà luogo alla divisione sociale del lavoro. Egli tuttavia riconosce al fatto sociale un’esistenza propria, indipendente dalle manifestazioni individuali; «questo lo porta a considerare la società come un organismo che esiste in sé, indipendentemente dagli individui che lo compongono e che li trascende». (Amerio, 2000, p. 96) Il fatto sociale per Durkheim diviene quindi un fattore esterno al soggetto, esito di un potere costretto da un’entità superiore; per Weber diversamente l’azione sociale non è imposta dalla struttura sociale, ma è l’espressione di soggetti umani concreti, capaci di scegliere e decidere. In questo filone comprendiamo anche la definizione di folk-society di Redfield 9 in opposizione alla definizione di città data da Wirth (1938) - Cfr. Hannerz (1992, p. 149 sg.). Il tipo ideale di folk-society descritto da Redfield (1947, p. 294) individua una società isolata, autosufficiente, caratterizzata da una cultura tutta d’un pezzo; per definirla «si tratta di individuare mentalmente tutte le caratteristiche che sono logicamente opposte a quelle della società moderna». È infatti capovolgendo le qualità della comunità che si ha la società urbana, ovvero «un insediamento relativamente ampio, denso e permanente di individui socialmente eterogenei». L’antropologo Oscar Lewis, ripetendo anni dopo lo studio di Redfield (nello stesso villaggio di Tepozlan, vicino a Città del Messico) vanificò la teoria del suo predecessore. Egli osservò infatti che nel villaggio prevalevano relazioni immaginate dal modello teorico come tipicamente “societarie” e che in città 10 si trovano diffuse relazioni “comunitarie”. (Bagnasco, 1999, p. 38) La dicotomia comunità/società perde quindi la sua capacità di orientare l’analisi empirica a causa della difficoltà di riuscire a caratterizzare con rigore e precisione i tratti dell’una rispetto all’altra nella realtà: presenze reciproche sono infatti frequenti e facilmente rilevabili se si considera che le società e i modi di vita reali non si adattano sempre a uno solo dei due tipi sociali opposti. La comunità come società locale Questa modalità di interpretazione della comunità si distingue per il suo carattere locale; intende cioè la comunità come manifestazione spaziale della società in un ambito territoriale limitato, dove le identità dei soggetti si fondano sul territorio-luogo di residenza. Ciò detto non significa pensare al territorio come fatto naturale, limitandosi agli aspetti geografici, bensì pensare al «territorio come fatto sociale e politico […], 9 Tra le sue pubblicazioni più celebri: J.R. REDFIELD (1941), The Folk Culture of Yucatan, Chicago; J.R. REDFIELD (1955), The Little Community, Chicago (trad. it., La piccola comunità, la società e la cultura contadina, Torino, Rosemberg & Sellier, 1976). 10 Lewis, in parallelo alle ricerche condotte a Tepozlan, studiò alcuni quartieri poveri di Città del Messico e trovò che i caratteri della vita sociale non erano impersonali e anonimi come il modello della società urbana descriveva. 5 come tramite di comunicazioni, quando è mezzo e oggetto di lavoro, di produzione, di scambi, di cooperazione» (Dematteis, 1985, pp. 73-74); in altri termini significa pensare al locale non come fatto solo geografico ma “umano”. La comunità è quindi locale in quanto un sistema sociale scollegato da un territorio preciso difficilmente può assumere le caratteristiche di una comunità; «la comunità è considerata in quest’ottica […] la condizione “basica” della vita in comune, e quindi implicitamente legata a un luogo, a un territorio». (Amerio, 2000, p. 115) Secondo questa visione si escludono immagini organiciste della società locale, così come invece accadeva in Tönnies: se l’idea romantica della comunità si strutturava su un’identità collettiva dove l’individualità dei suoi membri era parte di una totalità, qui l’identità dei singoli si realizza soggettivamente secondo il proprio interesse in sintonia con la comunità (sempre che l’azione del singolo non infranga il bene comune). Così «viene meno l’idea che la comunità, in quanto sistema di relazioni organico e coeso, sia l’opposto di un modello di società che esalta l’iniziativa individuale». (Ciaffi, Mela, 2006, p. 60) 2. Gli studi di comunità La nozione di comunità locale venne elaborata in ambito culturale anglosassone a partire dalle idee di Robert E. Park e gli altri componenti della Scuola di Chicago nei primi decenni del XX secolo. Essi coniarono il concetto di area naturale per riferirsi ad una piccola comunità urbana “tipica” che tende a sviluppare tradizioni peculiari, costumi e convenzioni proprie, ovvero una «base comune di ragionamento», in cui parole e atti assumono un significato che è in ciascuna area naturale totalmente diverso. Si tratta di gruppi sociali «i cui membri hanno abitudini, idee, aspirazioni, comportamenti che sono un’espressione del gruppo come entità specifica all’interno della società globale». (Balbo, Martinotti, 1966, p. IX) Il filone di ricerca dedicato allo studio delle società locali va sotto il nome dei cosiddetti “studi di comunità”. Questi «comprendono una serie di ricerche sul campo, di portata e scala assai varia, in cui si fondevano partecipazione diretta dell’osservatore e impulso alla raccolta di qualsiasi tipo di dato (dalla sociografia 11 al sondaggio d’opinione, dal documento ufficiale alle testimonianze private)». (Colombo, 2005, p. 43) In questa tradizione sono riconoscibili alcuni elementi caratteristici. Innanzitutto «lo sforzo di concettualizzare e di descrivere la relativa coerenza che si stabilisce, in un territorio, tra le diverse sfere della vita sociale e tra queste e le risorse ambientali e 11 Gli studi di comunità sono stati spesso compresi tra gli studi di sociografia. La sociografia è quella «disciplina che segna l’emergere della ricerca empirica in sociologia […]; gli studi sociografici si caratterizzano come studi clinici di sintesi, interessati all’insieme dei rapporti sociali di una situazione concreta […]; gli studi di comunità sono quel particolare tipo di studi sociografici che inseriscono l’osservazione clinica orientata ad un determinato problema nel contesto di un ambito sociale territoriale». (Bagnasco, 1999, p. 37) 6 culturali» (Mela, 1992, p. 247). In secondo luogo «il chiaro convincimento che i mezzi adottati dalla ricerca dovrebbero essere subordinati al compito di spiegare quanto più possibile la totalità dell’esperienza urbana» (Parker, 2006, pp. 47-48), seppure entro i limiti di un ambito locale. In ultimo si sottolinea la particolare attenzione data da questi studi alle cosiddette relazioni face to face, ovvero quegli aspetti non istituzionali dell’interazione sociale che si basano su un contatto diretto tra i soggetti capace di strutturare relazioni di reciprocità e fiducia. Questi studi si collocano agli albori della sociologia empirica; per questa ragione non fanno riferimento ad un corpus di metodi di indagine organico e condiviso. (Colombo, 2005, p. 44). La metodologia di ricerca adottata in questi studi infatti implica «la tendenza ad utilizzare, a seconda delle necessità, strumenti di analisi delle diverse specializzazioni disciplinari delle scienze sociali e a usare insieme, a seconda dei casi, più tecniche di ricerca: l’uso e il trattamento di statistiche, come l’osservazione partecipante, l’analisi del contenuto di documenti, come la survey o le storie di vita». (Bagnasco, 1999, p. 37) Risulta quindi complesso identificare un chiaro approccio metodologico, ma possono valere quali indicazioni caratteristiche di questi studi (Colombo, 2005): - l’analisi approfondita dei casi singoli con l’intento di arrivare alla generalizzazione empirica; - l’osservazione e la descrizione come basi empiriche necessarie a ricavare le informazioni sulla comunità. Negli studi sulle comunità locali possiamo distinguere tre fasi successive corrispondenti a diversi centri d’interesse. (Gallino, 2006, p. 146) Durante la prima fase, che va fatta risalire al periodo successivo alla Rivoluzione Industriale (localmente datata), si proponeva di fornire un quadro sociologico della vita delle comunità rurali scosse dall’immigrazione verso le nuove città industriali e dal nuovo sistema di produzione capitalistico. La ricerca maggiormente rappresentativa di questo periodo è forse Il contadino polacco, di Thomas 12 e Znaniecki (1918-1920); in essa vengono messi in evidenza i problemi di vita dei contadini polacchi sradicati dal loro mondo nell’integrarsi nel Nuovo Mondo. La seconda fase si colloca pressapoco tra le due guerre mondiali e il suo interesse si pone sulla crisi del declino (indotto dall’industrializzazione e dallo sviluppo tecnologico) che si acuirà con la depressione economica del ’29. L’opera più rappresentativa di questo periodo è quella dei coniugi Lynd (1929; 1937) su Middletown (pseudonimo per Muncie, Indiana). Nella ricerca si sottolinea il ruolo d’integrazione degli individui nella comunità svolto dai gruppi formali (la chiesa e le associazioni) e informali (il vicinato), sottolineando le differenze emergenti tra la classe sociale operaia e degli affari. La terza fase ha inizio nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale e si diffonde in particolare nella realtà anglosassone. Siamo negli anni del boom economico, intorno 12 William Thomas era uno degli esponenti di punta della sociologia di Chicago. 7 agli anni ’50, «quando i suburbia, i quartieri satelliti e le new towns polarizzano l’attenzione dei sociologi per le nuove forme di convivenza e di attività politica che vi si sviluppano». (Gallino, 2006, p. 147) Alcuni tra gli studi più celebri -Family and Kinship in East London di Young e Willmott (1957) e The Levittowners. Ways of Life and Politics in a New Suburban Community di Herbert Gans (1967) - mettono in luce quella che si potrebbe definire «mentalità suburbana» come l’autentica identità popolare dell’America nel dopoguerra. (Parker, 2005, p. 110) Questo filone di ricerca allarga il campo dell’indagine al tema della stratificazione sociale delle comunità non solo in termini socioeconomici, ma anche culturali; Gans infatti arriva a sostituire l’enfasi dell’ecologia urbana ad un esplicito determinismo culturale, per il quale è il carattere a determinare il luogo e non viceversa. Secondo taluni (Bell e Newby, 1971) la maggior parte di questi studi sembrano propendere per uno stile romanzesco-descrittivo 13 : sembra difficile infatti tracciare in essi una linea di demarcazione tra le rappresentazioni “scientifiche” della vita sociale nelle città e quelle di tipo narrativo, dove si svolgono i drammi familiari. A differenza degli studi nordamericani che concentrano l’attenzione sulle aree urbane, gli studi europei indagano per lo più le aree rurali preindustriali, considerate realtà sociali autosufficienti e autonome dai processi più generali prodotti delle trasformazioni del fordismo. In Italia in particolare «la tradizione degli studi di comunità ha origini autonome lontane nelle analisi meridionalistiche e nelle indagini parlamentari del periodo prefascista». (Mela, 1992, p. 247) La maggior parte degli studi si concentrano nell’area meridionale: in Calabria, a Bari, Napoli, Ragusa, Palermo 14 . I numerosi studi dedicati ai piccoli villaggi del sud Italia colgono la trasformazione di alcune comunità secondo un processo di modernizzazione 13 Ruth GLASS (Conflict in Society, London, Churchill, 1966) - direttrice del Centro di Studi Urban, istituito nel 1958 presso lo University College di Londra - arrivò a definire alcuni studi inglesi sulle comunità come «il surrogato povero di un romanzo scritto da un sociologo» (p. 148). 14 Per approfondimenti vedi: Barbara MELONI (1986), “La formazione sociale in una comunità contadina tradizionale della Sardegna centrale”, in G.F. ELIA, F. MARTINELLI (a cura di), Ruolo del sociologo nella gestione del territorio, Roma, Bulzoni; Paolo GUIDICINI (1977), Manuale di sociologia urbana e rurale. Teorie e tecniche di analisi del territorio, Milano, Angeli. Inoltre si mettono in evidenza gli studi di Danilo DOLCI (1957), Inchiesta a Palermo, Torino, Einaudi; Achille ARDIGÒ (1958), Cerveteri tra vecchio e nuovo, Bologna, CSSA; Anna ANFOSSI, Magda TALAMO e Francesco INDOVINA (1959), Ragusa, comunità in transizione, Torino, Taylor; F. FERRAROTTI, Elio UCCELLI e Gianfranco GIORGI ROSSI (1959), La piccola città. Dati per l’analisi sociologica di una comunità meridionale, Milano, Edizioni di Comunità. 8 qui comportato, non tanto dallo sviluppo industriale, quanto piuttosto dal ruolo decisivo del sistema politico, che si configura come il potere regolativo dell’economia 15 . Le regioni meridionali hanno rappresentato un luogo di interesse anche per le ricerche di lingua inglese. Si cita in proposito il celebre studio di Edward Banfield [1958] sul villaggio lucano di Montegrano (alias Chiaromonte, in Basilicata), dove si ipotizza che le cause di arretratezza e povertà che affliggono il piccolo centro vadano cercate nell’assenza di un’agire di comunità causato da un ethos dominante che egli chiama “familismo amorale”; questo si determina quando l’agire degli abitanti mira a massimizzare i vantaggi immediati e materiali della famiglia nucleare mostrando una mancanza di moralità nel comportamento tenuto nelle relazioni esterne alla stretta cerchia familiare. (Vitale, 2007, pp. 5 sg.) 3. La comunità e la nozione di “rete” Nel corso degli anni ’50 e ’60, al concetto tradizionale di vicinato inteso come il luogo della manifestazione delle relazioni sociali locali, si accosta l’idea di “rete” sociale, che porta la maggior parte degli studiosi ad identificare le sottocomunità urbane come «mondi sociali» indipendentemente dalle loro dimensioni spaziali (Tosi, 2001, p. 18). La nozione di community without propinquity introdotta da Melvin Webber (1966, p.31) esemplifica in maniera chiara questa tendenza: «la propinquità economica e sociale non dipende dalla prossimità spaziale». La tesi proposta dall’urbanista si inserisce nel contesto degli anni della crescita economica del secondo dopoguerra, quando gli effetti della deterritorializzazione e della delocalizzazione delle attività produttive si andavano manifestando da tempo accanto al diffondersi dei nuovi mezzi di comunicazione di massa e di trasporto; grazie a questi la popolazione americana realizzava opportunità sociali ed economiche sempre più ampie e diversificate, che in un certo senso determinarono la scomparsa dei confini fisici degli insediamenti. La scuola di Manchester 16 , fondata da M.Gluckman nel 1947, dette fecondi contributi allo sviluppo della network analysis. Quest’ultima è intesa come «una 15 Cfr. Fortunata PISELLI e Giovanni ARRIGHI (1985), “Parentela, clientela e comunità”, in P. BEVILACQUA e A. PLACANICA (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Calabria, Torino, Einaudi, pp. 367-492. 16 La Scuola di Manchester costituì un attivo punto di svolta rispetto alla metodologia struttural-funzionalista (considerata il perno della teorizzazione antropologica dell’epoca). Questa, nata e sviluppatasi dallo studio di contesti tribali di piccole dimensioni, puntava ad individuare norme e istituzioni cristallizzate per ricostruire l’assetto strutturale di un’idea di società statica e chiusa. Il presupposto teorico della Scuola fu quello di analizzare le realtà sociali privilegiando la componente trasformativa e conflittuale dei processi sociali, contrapponendo al metodo strutturalfunzionalista quello che è stato definito extended case method, o “metodo di analisi dinamica dei casi”; in esso si cercava di individuare la componente dinamica delle relazioni sociali stesse, conseguentemente all’insorgere dei nuovi principi e valori sociali dell’epoca. 9 prospettiva analitica che raggruppa studi e correnti differenti ed anche conflittuali, che può comprendere, accanto ai più tradizionali studi sul sistema sociale condotti sul campo, anche studi basati su modelli matematici complessi; […] [essa] consente la visualizzazione grafica delle relazioni, permette di condurre un’analisi statistica e di studiare la morfologia e gli aspetti quantitativi dei legami oggetto di interesse». (Amerio, 2000, p. 338 sg.) Con il termine “rete” sociale s’ intende l’insieme delle relazioni formali e informali (linee) esistenti tra persone (nodi) che non si incontrano necessariamente nello stesso tempo e nello stesso luogo. Il ruolo del soggetto nella rete, ovvero la sua capacità di muoversi all’interno delle relazioni (il che rimanda ad una immagine metaforica di apertura che vede la rete come risorsa e opportunità), e il ruolo della rete stessa nel controllo normativo degli individui (che rimanda ad un’immagine di costrizione che vede la rete come un vincolo che ci imbriglia), possono influenzare la mobilità sociale di un individuo più che i suoi attributi personali (status sociale, appartenenza ad un gruppo, atteggiamento culturale, ecc.). Il che permette di uscire da una visione localistica delle relazioni basata solo sui legami di prossimità fisica fondati su norme e valori comuni. Secondo l’ipotesi di Webber quindi, se è vero che i legami sociali sono meno vincolati dalla propinquità di quanto non lo siano stati nel passato, questo non significa che la localizzazione delle relazioni non abbia più significato. Si tratta semplicemente di passare da una visione areale dello spazio sociale, che concentra l’attenzione delle relazioni entro un’area locale, ad una visione reticolare dello spazio, che mette al centro dell’analisi urbana i legami sociali stessi. A partire da queste considerazioni il ruolo dei fattori spaziali nella strutturazione dei processi sociali riemerge sotto una nuova luce, portando alla rivalutazione dei legami locali di vicinato. Come afferma Tosi (2001, p. 21): «con tutta evidenza il neighboring non è una cosa del passato: piuttosto tende ad assumere i caratteri di quelli che nella network analysis sono chiamati legami deboli». Granovetter (1973) sostiene che le reti sociali basate sui legami deboli 17 , strutturate su maglie larghe, siano più flessibili e si adattino con maggiore facilità ai mutamenti continui della società urbana e alla forte mobilità dei suoi membri. Inoltre, contrariamente a quanto si è indotti a pensare, l’autore dimostra che «i legami deboli […] risultano indispensabili per le opportunità degli individui e per la loro integrazione nelle comunità». (Granovetter, 1998, p. 146) Per ulteriori approfondimenti: Piselli (1995); Fortunata PISELLI (1999), “La prospettiva della network analysis e le migrazioni”, Sociologia urbana e rurale, n. 58, pp. 15-21; Alessandro LOMI (a cura di) (1997), L’analisi relazionale delle organizzazioni. Riflessioni teoriche ed esperienze empiriche, Il Mulino, Bologna. 17 Sono forti quei legami che sono insieme funzionali (a livello pratico) e affettivi (relativo al mondo dei sentimenti e delle passioni), ad esempio i legami madre-bambino e quelli familiari in genere, quelli tra amici di lunga data; sono deboli quei legami ove non sussistono particolari rapporti di tipo affettivo o funzionale, ad esempio quelli tra un negoziante e un cliente, tra due impiegati in settori diversi in una stessa impresa, tra semplici conoscenti, ecc. 10 La rappresentazione ideale di uno spazio urbano indifferenziato messa in evidenza da Webber, pur con tutto il suo ottimismo nei confronti del processo di modernizzazione in corso, però non tiene conto della reale differenziazione socio-territoriale che si prospetta nelle città. L’emergere di una nuova fase urbana (siamo negli anni ’70) mette in luce una morfologia urbana che non è più comprensibile nei termini dei soli abitanti. Le basi territoriali delle relazioni sociali verranno ridefinite da altre nuove tipologie di popolazioni; Martinotti (1993) ne individua quattro fondamentali: gli abitanti della città, i lavoratori pendolari (commuters), i city users (coloro che si servono della città esclusivamente come centro erogatore di servizi), e i metro businessmen (operatori economici che si muovono tra le città per i loro affari). Queste quattro tipologie d’attori entrano in scena di generazione in generazione 18 aumentando la complessità del sistema sociale urbano e stabilendo differenti modalità di fruizione degli spazi. Di fronte a questi mutamenti socio-territoriali, anche grazie all’uso del concetto di rete 19 , le scienze sociali introducono così nuovi orientamenti teorici capaci di produrre visioni più articolate e complesse delle relazioni tra gli individui. 4. Tracce di comunità nella città contemporanea La rilevanza ricorsiva del termine comunità nel linguaggio corrente e nelle pratiche della pianificazione urbana porta a domandarci quali persistenze e mutazioni di problemi questo concetto continui a porre, ovvero quelle che Bagnasco (1999, p. 29) chiama “tracce di comunità”: identità, reciprocità e fiducia, tre problematiche di ricerca «in cui si è disintegrato il nucleo concettuale della comunità». Anche il capitale 18 La “metropoli di prima generazione”, che si esemplifica nell’aspetto compiuto della forma urbana moderna, è caratterizzata dalla mobilità e dal pendolarismo. La “metropoli di seconda generazione” invade il territorio, in senso fisico, con i fenomeni di suburbanizzazione e, in senso sociale, imponendo stili di vita legati ai processi di massificazione. Ora «si sta passando alla “metropoli di terza generazione”, la città cablata, costellata d’intelligent building, di reti relazionali aspaziali che, tendenzialmente, potrebbero modificare significativamente i problemi di interazione e di mobilità». (Gazzola, 2003, p. 41) 19 La metafora della rete è stata spesso usata anche dai geografi (Dematteis, 1991) di fronte all’organizzazione spaziale del processo di globalizzazione, fenomeno che ha portato via via alla perdita di importanza della prossimità spaziale nell’organizzazione economica e sociale. L’interpretazione reticolare dei fenomeni urbani consente infatti una diversa considerazione del rapporto tra globale e locale che vede la città come un sistema locale, e come nodo delle reti globali. Si viene così a sostituire l’idea classica della posizione geografica relativa o assoluta a quella di posizione relazionale secondo la quale si sovrappongono livelli d’interazione di scala differente. 11 sociale 20 «può essere considerata la più recente traccia di comunità» (Ibidem, p. 65) e, non a caso, le analogie di questo concetto con le altre tracce sono frequenti. Mi soffermo sui significati di queste “tracce” con l’obiettivo di mettere in evidenza le relazioni tra queste e gli spazi dell’abitare, nel tentativo di darne una lettura non strettamente sociologica. Possiamo definire l’identità come «la consapevolezza della propria esistenza continuativa nel tempo» (Sciolla, 1991, p. 496): «sostanzialmente riguarda i modi in cui gli individui definiscono la propria situazione e si collocano all’interno di un campo simbolico, tracciando dei confini» (Bagnasco, 1999, p. 30). L’identità quindi parte da una separazione e in questa separazione sta la dimora; «essere separato significa dimorare da qualche parte. La separazione si produce positivamente nella localizzazione» (Levinas, 1961) 21 . Esiste quindi un rapporto reciproco tra l’identità e i luoghi che passa anche attraverso l’atto fondativo dell’abitare, per il quale il proprio luogo di residenza può identificarci sia attraverso il riconoscimento sociale che si dà di questo, sia attraverso l’autoriconoscimento che il soggetto realizza quando vive un rapporto armonioso con esso. «Lo spazio ha importanza perché in esso si stabiliscono i confini e le soglie tra le identità costituenti la comunità. Anzi si può dire che queste identità corrispondono a quegli spazi, non sono conoscibili le une per le altre se non principalmente come “quelli che occupano un determinato ambito” (e non questo)» (La Cecla, 1993, p. 95). Lo spazio abitato da una collettività contribuisce quindi a rappresentare l’identità costituente di un gruppo, ovvero quella collettività rappresenta in qualche modo una comunità in virtù lo spazio che abita? In altre parole possiamo riconoscere dei “confini” attorno ad un’area residenziale che identifichino il gruppo che vi abita come una comunità? Il che non significa necessariamente che si tratti di confini fisici; al contrario esempi di aree residenziali che appaiono come vere e proprie cittadelle fortificate sembrano aver a che vedere più con scopi difensivi e di controllo dall’invadenza degli outsiders piuttosto che di identificazione con il luogo di residenza scelto e le sue risorse. «La reciprocità 22 stabilisce schemi di relazioni che si mantengono nel tempo» (Bagnasco, 1999, p. 33) e che si strutturano su scambi in compensazione, non necessariamente di tipo economico. 20 L’estensione dell’idea di capitale applicata in ambito sociale è intesa in generale come l’insieme delle relazioni sociali di cui un soggetto (individuale o collettivo) dispone in un determinato momento e che costituiscono le risorse, assieme ad altre, che egli può utilizzare per perseguire i propri fini. La produttività del capitale si concretizza quindi nel suo essere una “risorsa per l’azione”, un mezzo capace di permettere all’individuo di raggiungere fini propri che altrimenti non potrebbe conseguire se non a costi molto elevati. 21 cit. in La Cecla (1993, p. 69). 22 Cfr. Gallino (1978). In sintesi: La R. è una norma sociale, in molti casi non scritta, la quale prescrive ad un soggetto (individuale o collettivo), A, di agire nei confronti di un 12 Possiamo leggere l’interazione tra vicini di un quartiere come una relazione di scambio sociale dove l’aumento di valore non si realizza contabilizzando profitti e perdite, bensì ponendo l’accento sui contenuti dell’interazione intesi come flussi di costi e benefici, utilità e disutilità, soddisfazione e benessere, gratificazioni e delusioni di vario genere ed estensioni derivanti a tutti gli attori per effetto dell’interazione. (Mutti, 1992, p. 86 sg.) Possono esistere varie forme di scambio/reciprocità tra “buoni vicini”, ma se ci stacchiamo dall’idea di un legame faccia a faccia come unico termine di riferimento possibile, possiamo immaginare nuovi modelli di reciprocità. Amin e Thrift (2005, p. 72) ne riconoscono tre: 1. quelli legati ai nuovi mezzi di sociabilità “leggera”. Sono dati da gruppi che si riuniscono per un breve periodo di tempo in vista di uno scopo specifico e poi si disperdono di nuovo. (Ad es. giovani che usano i centri commerciali come spazi d’incontro e di ritrovo. 2. gli “entusiasti”; ovvero piccoli gruppi di persone che condividono interessi comuni per un breve periodo di tempo. Sono forme di associazione mobile che costruiscono comunità scelte liberamente e consapevolmente sulla base di sentimenti reciproci: reti relativamente informali definite culturalmente 23 ; tali aggregazioni dipendono molto da tecnologie che superano la distanza (viaggi a basso costo, internet, ecc). 3. gli amici: «sono famiglie che ci scegliamo». (Ibidem, p. 73) Senza arrivare a concludere drasticamente (Ibidem, p. 68) che «oggi la comunità non esiste» in ragione degli alti livelli di mobilità generalizzata che coinvolgono la società contemporanea, ritengo che alla luce di queste nuove forme delocalizzate di reciprocità semmai i rapporti di vicinato possano arricchirsi di nuove opportunità relazionali, specie per alcuni soggetti. Questo dipende in larga misura dalla posizione che le persone occupano nella struttura sociale. Per soggetti dotati di elevato background culturale e status occupazionale «i legami interpersonali tendono ad assumere una varietà di contenuti e a produrre gradualmente la formazione di reti distinte per ogni specifico ambito relazionale. Tale processo […] incentiva le opportunità di scelta e agevola il conseguimento di risorse esterne» (Finocchiaro, 2006, p. 69). Il soggetto potrà quindi interagire con i suoi vicini esponendosi ad un numero maggiore e variegato di opportunità relazionali altro soggetto B (che può anche essere ideale o immaginario: un dio, uno spirito), in modo tale da restituirgli, in misura e al tempo che la norma stessa definisce più appropriati, vuoi nella stessa forma o in forma diversa, qualche “cosa” (un atto, un oggetto simbolico, un bene economico, un’informazione, un servizio, ecc.) che il soggetto B aveva in precedenza liberamente dato o concesso ad A o compiuto in suo favore, senza averne l’obbligo e senza alcuna anticipazione circa la misura o la natura della cosa. 23 Urry (2000, p. 143) elenca una serie di esempi di questi gruppi legati da collanti vi vario genere: cibo, appartenenza di genere, animali, medicine alternative, ecc. 13 da cui potrebbe ottenere dei vantaggi, in quanto ognuno dei vicini è legato ad altre reti di relazioni differenziate. Diversa invece è la condizione per quei soggetti che agiscono in presenza di una ridotta competenza culturale e/o fisica. In questo caso le reti di relazioni che un soggetto “debole” può intraprendere sono fortemente auto-contenute, pertanto la possibilità di appropriarsi di qualche vantaggio dalle relazioni con i propri vicini è fortemente ridotto a causa della scarsa disponibilità di risorse che questo possiede e dalla limitata opportunità di formare dei legami esterni. È possibile stabilire dei rapporti di fiducia quando un soggetto (genericamente inteso) instaura un rapporto di qualche durata con un’altro attraverso passaggi di aiuti o di informazioni tra i due. La fiducia si colloca «nel contesto di aspettative aventi una valenza positiva per l’attore sociale e formulate in condizioni di incertezza» (Mutti, 1991, p. 79). Quando il destinatario di tali aspettative è rappresentato dall’organizzazione sociale nel suo insieme o nelle sue espressioni istituzionali e collettive si parla di fiducia sistemica o impersonale; quando il destinatario è costituito da attori individuali si parla di fiducia personale o interpersonale. Questo tipo di relazione sociale tuttavia non impone la condizione della compresenza degli attori. La rilevanza crescente di relazioni sociali mediate infatti ha portato conseguenze significative sul comportamento sociale degli individui alla scala locale, il che ci permette di superare l’idea tradizionale del vicinato inteso come forma di relazione forte e coinvolgente. «La comunità locale non scompare, continua a essere fonte di attaccamento e identificazione, ma non è più solo un luogo familiare e scontato, in quanto esprime anche relazioni più distanti nello spazio e nel tempo. Allo stesso tempo anche relazioni indirette, decontestualizzate, rarefatte […] possono dar vita a nuovi tipi 24 di esperienza sociale». (Sciolla, 2000, p. 21) Il ruolo del vicinato in un certo senso passa da quello di comunità secondo la visione classica, a quello di comunità intesa come network di relazioni che si estendono al di là dei confini “naturali” dell’area abitata. Secondo questa visione i meccanismi di strutturazione della fiducia superano la visione tradizionalista di vicinato per la quale l’attribuzione di credito e discredito avveniva preminentemente negli incontri diretti. La reputazione e l’affidabilità dei soggetti oggi invece sono basati sempre meno su rapporti face to face e sempre più sull’attivazione istituzionale o da parte di sistemi esperti. Sebbene oggi, afferma Tosi (2001, p. 21), «i legami a base locale sono soprattutto per scopi di socialità “facile”, e per un veloce accesso a beni materiali di routine, come i piccoli prestiti» [quindi per lo più di tipo debole], ciò non significa che non possano instaurarsi rapporti di fiducia tra vicini. Semplicemente la fiducia all’interno dei legami 24 Ne sono esempio le cosiddette “comunità virtuali”, che pure essendo indirette e decontestualizzate sono capaci di creare legami affettivi durevoli e rapporti d’intimità a distanza. 14 deboli non sarà fondata su un rapporto stretto e duraturo di tipo personale (fiducia interpersonale), ma sarà di tipo indiretto e impersonale, quindi attivata da forme isituzionalizzate o da sistemi esperti (fiducia sistemica). Per esempio mi riferisco al rapporto che un soggetto può avere con un servizio di quartiere: sebbene l’uso di quel servizio avvenga di rado e comunque non determini un legame forte tra i contraenti, tuttavia egli vi si affiderà in virtù della garanzia che esso offre in quanto istituzione. Emerge in tutta evidenza in ognuna della “tracce” la rilevanza del fattore temporale. A partire dalla considerazione che una delle condizioni della fiducia sia «l’esistenza di una storia 25 del rapporto fiduciario, che ha dato risultati positivi» (Mutti, 1991, p. 82), si ribadisce inoltre che «la reciprocità stabilisce schemi di relazioni che si mantengono nel tempo» (Bagnasco, 1999, p. 33). Infine si ricorda che la definizione di identità come «la consapevolezza della propria esistenza continuativa nel tempo» (Sciolla,1991, p. 496). Possiamo dunque concludere che la più significativa persistenza della problematica di comunità non è tanto data dalla localizzazione, quanto dalla durata del legame che si instaura tra i suoi membri. È così che l’idea della comunità come concentrazione localizzata spazialmente svanisce davanti allo «sviluppo della economia monetaria nella sua pienezza [che] provoca quindi un progressivo distacco dallo spazio, aiutato dalle tecniche di comunicazione che permettono allo spazio di essere superato dal tempo». (Amin e Thrift, 2005, p. 63) 5. La comunità negata Da qualche anno, in particolare in Francia e in Italia, si è avviata una nuova riflessione filosofica sul concetto di comunità che ha ripreso le fila dal discorso di Heidegger e Bataille. In questo periodo non sono mancate filosofie espressamente rivolte alla comunità 26 , ma «la verità è che tutte queste concezioni sono unite dal presupposto irriflesso che la comunità sia una ‘proprietà’ dei soggetti che accomuna: un attributo, una determinazione, un predicato che li qualifica come appartenenti ad uno stesso insieme. O una ‘sostanza’ prodotta dalla loro unione» (Esposito, 2006, p. VIII). Il 25 Il corsivo, in questa e nelle prossime citazioni, è mio. Il riferimento è a quel gruppo di studiosi che va sotto l’etichetta del “comunitarismo” e che ha dispiegato la sua attività negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ottanta: Alasdair MacIntyre (1981), After Virtue. A Study in Moral Theory, Notre Dame, Indiana, University of Notre Dame Press; Michael Walzer (1982), Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge, Cambridge University Press; Charles Taylor (1992), Multiculturalism and the Politics of Recognition, Princeton (N.Y.), Princeton University Press. I comunitaristi sostanzialmente combattono contro l’individualismo che caratterizza il pensiero liberale e auspicano la reintroduzione di elementi di comunità all’interno della società contemporanea, constatando la crisi del modello nazional-statuale, la dissoluzione dei legami sociali, lo sradicamento delle identità collettive e la crescita degli egoismi che spingono gli individui alla ricerca dell’interesse personale ed alla rivalità. 26 15 paradosso dell’idea di comunità espressa da queste filosofie è quello per cui ciò che da essi è inteso come comune si identifica in realtà con il suo esatto contrario, ovvero la proprietà: «è comune ciò che unisce in un’unica identica proprietà –etnica, territoriale, spirituale – di ciascuno dei suoi membri. Essi hanno in comune il loro proprio; sono i proprietari del loro comune». (Ibidem, p. IX) I libri di Jean-Luc Nancy (1986; 1996), di Maurice Blanchot (1983), di Giorgio Agamben (2001) e di Roberto Esposito (2006) cercano di prendere le distanze da questa deriva del pensiero filosofico sulla comunità alla luce di una sua rinnovata interpretazione in chiave nichilisitca, richiamandosi appunto a quei pensatori (Heidegger e Bataille). Nella loro visione la comunità è reinterpretata alla luce della sua stessa “negazione” come oggetto: «ciò vuol dire semplicemente che essa non è un ente», non è un’archè o un tèlos, qualcosa che era in passato o che ancora non può essere. Essa rimanda a «un’esistenza libera da ogni senso presupposto o imposto o proposto […] è costitutivamente abitata da un’assenza – di soggettività, di identità, di proprietà». (Esposito, 2006, p. 149 sg.) L’autore contemporaneo a cui più di ogni altro (tra quelli summenzionati) va il merito di aver aperto questa rinnovata prospettiva sul pensiero della comunità è certamente J.L.Nancy. Ma cos’è per Nancy la comunità? «La comunità è semplicemente la posizione reale dell’esistenza» (Ibidem, p. 168). Ciò che il filosofo mette al centro non è l’essere della comunità, ma la comunità dell’essere, o meglio la comunità dell’esistenza: «ciò che condividiamo è l’essere o l’esistenza. La non-esistenza non ci siamo più a condividerla, essa non va condivisa. Ma l’essere non è una cosa che possediamo in comune. […] Si dirà quindi che l’essere non è comune nel senso di una proprietà, ma che è in comune». (Ibidem, p. 167) Noi siamo in comune gli uni con gli altri. Il che corrisponde a ciò che si potrebbe chiamare una fenomenologia banale degli insiemi organizzati di persone. Questo non significa che noi siamo semplicemente gli uni accanto agli altri, ma indica piuttosto l’essere in quanto relazione. Questo tipo di relazionalità, dell’essere in comune, costituisce il tratto fondamentale dell’esistenza, che è per definizione in comunanza. La comunità perciò non è un’esperienza che facciamo, ma un’esperienza che “ci fa essere”: una relazionalità che trova in se stessa il proprio significato e che non si propone di instaurare una comunità come risultato della propria attività. (Vitale, 2007, p. 88) Da qui si sviluppa la sua concezione della comunità “inoperosa”, ovvero «ciò che non ha più a che fare né con la produzione né con il compimento» (Nancy, 2003, p. 72). La comunità, come condizione dell’esistenza degli uomini, assume l’impossibilità di un essere comunitario come soggetto. È comunità (in comune) come status senza una comunità come entità da realizzare, o meglio una comunità senza comunione degli esseri singolari: non è la somma di singolarità che ha compimento nella sua operazione, è un tutto di singolarità articolate. «Non c’è comunione delle singolarità in una totalità superiore e immanente al loro essere comune» (Ibidem, p. 167). La comunità è semplicemente il loro essere. E se la comunità non è oggettivabile, non è riproducibile, e quindi è inoperosa. 16 Di conseguenza «una comunità non è il progetto di una fusione né in generale un progetto produttivo o operativo – essa non è affatto un progetto. […] Essa è la presentazione della finitezza e dell’eccesso irrimediabile che costituiscono l’essere finito: la sua morte, ma anche la sua nascita» (Ibidem, p. 44). La comunità è irrealizzabile per il semplice fatto che già si dà – qui e ora – nel suo costitutivo ritiro: «non richiede una teleologia e neanche un’archeologia dal momento che l’origine sta già nel suo dopo, ci è perfettamente contemporanea – è l’apertura dell’essere che si dona ritirandosi, e si sottrae offrendosi, nella vibrazione della nostra esistenza». (Esposito, 2006, p. XXVII). La comunità quindi si esperisce praticamente nel suo accadere, è l’essenza stessa dell’essere e non un suo predicato: «è ciò che ci accade – questione, attesa, evento– a partire dalla società» 27 . (Nancy, 2003, p. 37). 27 Il corsivo è dell’autore. 17 6. Osservazioni conclusive: Tre idee di comunità oggi Ripercorrendo la storia abbiamo riconosciuto differenti tradizioni del pensiero sociale nelle quali l’idea di “comunità” ha assunto significati diversi frangendo il suo denso nucleo concettuale originario. L’uso corrente del termine, specie in Italia, continua a evocare l’idea di un una convivenza intima e confidenziale, per la quale un certo gruppo è escluso o si esclude dal resto della società; ma nella società contemporanea risulta difficile immaginare un gruppo di individui simili uniti dalla nascita. Le strutture sociali sono sempre più diversificate e la moltiplicazione dei fenomeni migratori rende ancor più evidente e complesso questo fenomeno. La comunità ha così acquisito nuove sfumature concettuali contrassegnate da diverse apposizioni: “community without propinquity” (Webber, 1966), comunità “a responsabilità limitata” (Janowitz, 1952), comunità “multiple” (Finocchiaro, 1985), comunità “maledetta” (Bonomi, 2002), comunità “di passaggio” (Mela, 2007), ecc… Queste visioni oscillano tra la consapevolezza di una comunità perduta e la prospettiva di una comunità salvata di fronte al bisogno dell’uomo moderno di ritrovare riferimenti e simboli a sostegno dello sradicamento territoriale che segna la nostra epoca. Questa “inquietante rilevanza ricorsiva” Barbano (1998) della parola non allude mai ad un solo significato di comunità, ma ne assume diversi a seconda della declinazione che l’accompagna. Ho cercato di dipanare la questione semplificando e distinguendo tre interpretazioni fondamentali di questo termine in riferimento alle pratiche dell’abitare: il concetto “classico” di comunità, la comunità come “società locale”, la comunità “inoperante”. La comunità in senso classico o tradizionale è riferita al pensiero sociologico e filosofico di fine ‘800 ed identifica l’unione “autentica” ed “originale” di un insieme di individui omologati entro una visione comune, e al contempo contrapposti da tutto ciò che è esterno al gruppo. La forza della comunità è data dal legame sociale che tiene uniti i suoi membri in difesa di un “altro” che ne minaccia la coesione: l’avvento della società moderna è spesso identificato come “l’invasore”. È evidente che la coppia concettuale comunità-società moderna debba essere contestualizzata nel periodo storico in cui questa dicotomia si è sviluppata: è di fronte alla nascita della grande industria e dei processi di urbanizzazione, fenomeni generatori della civiltà capitalista, razionalista ed individualista che viene evocatala perdita di un paradiso precedente. In una certa misura tuttavia questa opposizione tra l’appartenenza alla comunità (il dentro) e il resto della società (il fuori/l’altro) resta oggi in tutti quei movimenti e in quelle forme omologanti che vedono unito un gruppo di individui in difesa dalla società capitalista postmoderna, portatrice di insicurezza e frammentarietà sociale, oltre che di una devastante dispersione insediativa (leggi sprawl urbano). È da qui che in ambito territoriale traggono spunto tutte quelle forme di fuga verso una comunità protettrice (del tipo villaggio rurale postmoderno o comune “ecologista profonda”) capace di salvare gli individui dalla globalizzazione diffusa. Possiamo pensare ad esempio alla diffusione di “ghetti volontari”, come li chiama Bauman (2001), luoghi sicuri entro i quali gli individui si rifugiano chiudendosi entro vere e proprie barricate, o a quei 18 villaggi ambientalisti 28 abitati da persone in cerca di uno spazio preservato a misura d’uomo. Qui evidentemente il significato di “origine” non sta più nel vincolo di sangue o nel parlare una stessa lingua, quanto piuttosto nella condivisione di valori da parte di un gruppo che risponde al rifiuto un annullamento del sé nel globale con la rinascita di forme di esaltazione locale, di isolamento sociale e/o di chiusura fisico-territoriale, ricostruendo così un proprio “originale” luogo di vita protetto. La seconda idea di comunità si richiama alla tradizione di pensiero anglosassone. A differenza del caso precedente la comunità non si definisce in antagonismo con la società; l’idea di community pone in sinergia comunità e società e le comprende nella traduzione di “società locale”, che indica una società organizzata nello spazio. Gli studi di comunità in un certo senso fondano questa rappresentazione. Non sono l’unità nel sangue e la comunanza della lingua a determinare la condizione di comunità: questa non è legata alla condizione di nascita, ma si basa sull’accettazione condivisa si un certo numero di regole di civica convivenza in un luogo (che può anche essere scelto e non necessariamente destinato). La comunità semplicemente è una «unità circoscritta territorialmente, entro la quale si realizza un sistema di rapporti sociali fondato appunto sul fatto della prossimità territoriale». (Pizzorno, 1960, p. 17) Le ragioni di questo atteggiamento sono facilmente comprensibili se ricordiamo che il melting pot di etnie, culture e tradizioni presenti negli Stati Uniti difficilmente può dar vita a comunità originarie del luogo, ma a maggior ragione origina il desiderio di costruire un’identità comunitaria e di un’integrazione locale. In questo senso l’associazionismo civico (e organizzazioni spontanee di cittadini) e la partecipazione degli abitanti assumono un ruolo importantissimo e strategico. Questa comunità dunque rappresenta quella sfera intermedia tra l’individuo e la società facendo leva sul proponimento di ravvivare la sfera pubblica e di rafforzare la funzione di mediazione esercitata dalle associazioni volontarie, rendendo così partecipi gli abitanti fino alla conquista (in certi casi) di un empowerment locale. La concezione di comunità inoperante apre un nuova prospettiva all’interno del dibattito sulla comunità nelle scienze sociali. Innanzitutto in quanto non-operante non sottintende alcuna operatività: non è l’esito di una scelta o di una costrizione, e neppure di un progetto sociale. Jean-Luc Nancy, il filosofo che ha coniato il termine di “communauté désoeuvrée” 29 , parla della comunità come 28 Il riferimento spazia da quelle esperienze di progettazione urbana ispirate ad un tale e rigoroso rispetto per gli equilibri ecologici da manifestare una qualche forma di “chiusura” degli insediamenti necessitata dal rispetto della sostenibilità ambientale (cfr. Ciaffi, Mela, 2007, p. 40) a quelle pratiche di progettazione orientate alla riproduzione dei villaggi urbani della tradizione architettonica medioevale (o più tarda; le citazioni morfologiche non fanno chiare distinzioni temporali) che ripropongono le forme tipiche della piazza, del borgo, del palazzo rinascimentale come del tempio classico. 29 Il termine è stato tradotto in italiano “comunità inoperosa” (da cui la traduzione omonima del libro edito da Cronopio nel 2003). Qui utilizziamo l’aggettivo “inoperante” anziché “inoperosa” perché a mio parere rende più efficace la sfumatura del suo significato. 19 condizione esistenziale data dal desiderio di essere con gli altri: è dal punto di vista ontologico che l’essere è plurale. Questa visione si differenzia da quelle precedenti proprio perché non ha più nulla a che fare con un atto di volontà. La comunità classica è una comunità “data” che ci è donata dalla nascita, la società locale è una comunità costruita sull’interazione locale sulla base di un progetto condiviso, la comunità inoperante invece non è entitativa e non è l’esito di una scelta. Lo stato dell’essere gli uni con gli altri ci porta infatti a condividere lo spazio come bene comune, e di conseguenza ad agire nel necessario rispetto di ciò e di chi con-vive con noi. In questa nuova versione la comunità non si pone più come rifugio dalla modernità e in rottura con la società globale, ma costituisce il fondamento di un processo culturale che caratterizza tutta l’epoca contemporanea: la responsabilità dell’azione dell’uomo nei confronti delle generazioni che varranno (o in termini generali il tema della sostenibilità ambientale). Il rispetto della comunità, ovvero della condizione esistenziale di convivenza necessaria con l’altro (cioè tutto ciò che è altro da noi: altri uomini, la natura, l’ambiente costruito, ecc.) ci può far riflettere su molte sfere dell’azione nel campo della progettazione urbanistica. 20 Riferimenti bibliografici AGAMBEN, Giorgio (2001), La comunità che viene, Torino, Bollati Boringhieri. AMERIO, Piero (2000), Psicologia di comunità, Bologna, Il Mulino. AMIN, Ash, THRIFT, Nigel (2001), Cities. Reimagining the Urban, Cambridge, Polity Press, 2001 (trad. it. Città. Ripensare la dimensione urbana, Bologna, Il Mulino, 2005). BAGNASCO, Arnaldo (1999), Tracce di comunità, Bologna, Il Mulino. BALBO, Laura, MARTINOTTI, Guido (a cura di) (1966), Metropoli e sottocomunità, Padova, Marsilio. BARBANO, Filippo (1998), La sociologia in Italia : storia, temi e problemi (1945-60), Roma, Carocci. BAUMAN, Zygmunt (2000), Missing Community, Cambridge, Polity Press (trad. it. 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