Emily Dickinson
poEsiE
A cura e con un saggio di Barbara Lanati
Traduzione e introduzione di Margherita Guidacci
Testo inglese a fronte
poEsiA
Proprietà letteraria riservata
© 2012 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-05071-5
Prima edizione BUR Poesia ottobre 2012
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Margherita traduce eMily
Barbara Lanati
a Margherita guidacci e alla sua raccolta di poesie di
emily dickinson uscita nel 1961 presso Sansoni, in un
corposo volume in cui aveva incluso lettere e componimenti poetici, sono dedicate queste mie riflessioni intorno alle sue scelte traduttive e al suo complesso, decennale rapporto con la silenziosa poetessa di amherst,
che fece della solitudine e di sterminate letture i suoi
punti di riferimento privilegiati. È a lei che devo le mie
prime letture di quel continente misterioso che ancora
era negli anni Sessanta la poesia di emily dickinson.
Poesia dissonante e lontana sia dallo sperimentalismo affascinante, aggressivo, assertivo e seduttivo della poesia italiana di quegli anni – penso al gruppo ’63
– sia, identico rovesciato, dalla musicalità, che si inscriveva, si era inscritta, nella poesia beat, poesia di dolore
e di denuncia, di rabbia, urlo e delusione. Poesia altrettanto lontana, quella di emily dickinson, dalla poesia
che ancora – nonostante appunto il gruppo ’63 – vedeva le stampe in inghilterra e italia: poesia, tranne rare
preziose eccezioni, dal verso tornito, ritmato secondo
cadenze morbide, ora dolorosamente «confessionali»,
ora rigorosamente ascetiche, sempre formalmente perfette.
Margherita guidacci, che si era laureata nel 1943
con giuseppe de roberto con una tesi sul tema
dell’innocenza e della memoria in ungaretti, aveva già
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lavorato a una breve scelta di poesie, otto, uscite nel
1945, raccolte poi in un’edizione più ampia presso la
casa editrice cya nel 1947. Ma non solo. giovane ed
entusiasta angloamericanista (avrebbe ottenuto una
cattedra di studi appunto angloamericani prima a Macerata e poi presso il Magistero di roma), tradusse, nel
sospetto «politico» dell’intellighenzia a lei contemporanea, Burnt Norton (nel 1946) e East Coker (1947) di
t.S. eliot, poi Patria mia di ezra Pound (1958), per dedicarsi in seguito anche al suo lavoro di saggista.
Ma è sulle sue traduzioni di emily dickinson che
desidero riflettere, sulle ragioni per cui alcune sue versioni ci sembravano «fedeli» al testo, mentre altre sembravano invece mancare di quel «passo spasmodico»,
per emily dickinson prerogativa della grande poesia,
di quell’andamento ellittico, di quel terso, glaciale (in
alcuni casi) rigore che segnavano gli originali così come li avevo letti in Selected Poems and Letters, un’edizione a cura di elémire Zolla uscita per Mursia nello
stesso anno, 1961, in cui aveva visto le stampe il lavoro
di Margherita guidacci. Quella di Zolla scarna, ricca di
annotazioni filosofiche e filologiche, ma priva di traduzioni; quella di guidacci con una ricca, lunga prefazione e le traduzioni senza testo a fronte. anni dopo,
quando a mia volta cominciai a lavorare seriamente
sulla poesia di emily dickinson, mi chiesi: che fare?
che percorso seguire?
Oggi, in questo mio lavoro mi aiuterà t.S. eliot, di
cui Margherita guidacci conosceva bene gli scritti.
esule per scelta, eliot si poneva – come peraltro henry James, gertrude Stein ed ezra Pound – a metà strada fra il mondo anglosassone e quello europeo, fra la
cultura americana e quella dell’antica tradizione occidentale. la pubblicazione nel 1922 di The Waste Land,
e la risonanza che l’opera ebbe non solo nel mondo di
lingua inglese, segnò un momento di svolta, di no re­
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turn, per chiunque scrivesse poesia nel novecento. Ma
il contributo epocale di eliot non aveva a che fare solo
con la poesia in quanto tale, con quella che potremmo
descrivere come la nuova epica «rovesciata» del novecento, epica in quanto riproponeva al centro della
riflessione non tanto la condizione del singolo, quanto
quella della collettività, al di là delle barriere linguistiche e temporali, rovesciata tuttavia, rispetto a quella
«classica». non a caso l’antieroicità, lo squallore e la
desolazione della vita quotidiana si inscrivevano, quasi simbioticamente, nelle voci e nello sguardo dei nuovi novecenteschi «eroi»: un unico coro in cui le ombre
del passato dialogavano con gli «uomini vuoti» del
presente.
il suo contributo, infatti, sorretto dalle puntuali riflessioni di ezra Pound e roger Fry – e, insieme a loro,
del gruppo di bloomsbury1 sul nuovo modo di fare arte e sulla sua funzione, riguardava, come ovvio, anche e
molto da vicino il pensiero estetico. nel saggio del
1920, Tradizione e talento individuale, raccolto nel Bo­
sco sacro, eliot postulava la necessità di reimparare a
leggere i classici, quelli fino ai primi decenni del novecento (e forse anche, ahimè, dopo) considerati lontani,
sacri e dunque intoccabili, irraggiungibili nella loro
perfezione. era necessario interrogarne la lezione in
una nuova prospettiva, che prescindesse dalla paludata
retorica che li aveva sacralizzati e consacrati, appunto,
in quanto tali. Solo così avrebbero avuto un senso e
1
Su questo specifico punto rimando ai miei Le mele di Blooms­
bury, in Le muse cangianti, «Sigma XiX», n. 2, pp. 141-168; Roger Fry,
Paul Cézanne e la modernità dei classici, in raffaella baccolini, Vita
Fortunati e carla comellini (a cura di), Culture di lingua inglese a
confronto: il centauro angloamericano, atti del XVii convegno
dell’associazione italiana di anglistica, clueb, bologna 1998, pp.
105-128.
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dialogato con il presente.2 Processo complesso e non
unidirezionale: infatti ecco cosa accade nella creazione
di una nuova opera d’arte:
ciò su cui bisogna insistere è che il poeta deve sviluppare o
procurarsi la coscienza del passato e che deve continuare a
sviluppare questa coscienza per tutta la sua carriera. Quel
che accade è un continuo arrendere se stesso, quale è in quel
momento, a qualche cosa di più prezioso. il cammino dell’artista è un continuo sacrificio di sé, una continua estinzione
della personalità.3
connubio forte, dunque, fra passato e presente, fra tradizione e impegno individuale:
nessun poeta, nessun artista di qualsiasi arte ha il suo compiuto significato da solo. la sua significazione, la sua valutazione è la valutazione del suo rapporto con i poeti e gli artisti
morti. non si può valutare da solo; si deve porlo, per contrasto e confronto, tra i morti. intendo questo come un principio
di critica estetica, non meramente storica. la necessità che
egli sia conforme, sia coerente, non vige in una sola direzione: quel che accade con la creazione di una nuova opera d’arte, è qualche cosa che accade simultaneamente a tutte le opere d’arte che l’hanno preceduta.4
indicazioni precise quelle di eliot, esplicite: «la differenza fra il presente e il passato è che il presente ha la
coscienza del passato in un modo e in una misura quali
non si trovano nella coscienza che il passato aveva di
se stesso».5
2
t.S. eliot, Tradizione e talento individuale, in Morton dauwen
Zabel (a cura di), Antologia della critica americana del Novecento,
edizioni di Storia e letteratura, roma 1957, p. 192.
3
Ibid., p. 195.
4
Ibid., p. 193.
5
Ibid., pp. 194-195. Si veda anche t.S. eliot, L’uso della poesia e
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dunque, un nuovo inizio: scrivere poesia nel novecento implicò, dagli anni Venti in avanti, un ripensamento sul significato stesso della parola «originalità».
Fu un diktat preciso quello di eliot. implicitamente
chiedeva all’artista, soprattutto al poeta, di coniugare
in modo analitico o selettivo la propria voce con le voci
del passato.
Margherita guidacci fece sua la lezione di eliot.
lavorò sulla poesia di emily dickinson e al contempo
scrisse poesia. Quasi la produzione della poetessa americana fosse il «suo» passato, ne fece il punto di riferimento privilegiato del proprio lavoro.
Per questo, prima di entrare nel vivo di una riflessione che intende dissipare biasimi e malintesi, ma soprattutto certe critiche negative a parecchie traduzioni
dickinsoniane di Margherita guidacci, varrà la pena
confrontare alcuni componimenti delle due poetesse.
riportiamo alcuni esempi della produzione di guidacci e, a seguire, brani di dickinson in traduzione – ovviamente – di guidacci.
Madame X (da Neurosuite)
io non sono il mio corpo
Mi è straniero, nemico.
ancora peggio è l’anima,
e neppure con essa m’identifico.
Osservi di lontano
le rozze acrobazie di questa coppia,
con distacco, ironia –
con disgusto talvolta.
l’uso della critica e altri saggi, a cura di roberto Sanesi, bompiani,
Milano 1974.
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e intanto penso che la loro assenza
Sarebbe più guadagno che dolore:
questa e altre cose… Ma mentre le penso,
io chi sono, e dove?
n. 1090 (1866)
ho paura di possedere un corpo,
ho paura di possedere un’anima,
bene profondo e precario,
possesso senza scelta.
doppio retaggio intestato a piacere
ad un erede privo di sospetto:
principe per un attimo immortale,
con dio per frontiera!
Doveva esservi altro (da Neurosuite)
doveva esservi altro
che altro?
gli alberi metton foglie a primavera
ed in autunno austeramente si spogliano
senza lamento.
Ogni animale nasce
all’assegnata fatica
in una giungla soffocante
o una brulla pianura
né cerca di sfuggirle.
Vanno i pianeti silenziosamente
lungo monotoni millenni:
un giorno a un tratto si frantumano
ed il giro è compiuto.
Soltanto noi tremiamo e brancoliamo
sulle nostre mille strade di morte:
mani contratte, labbra inaridite,
occhi folli,
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pensando che doveva esservi altro.
che altro?
n. 1159 (1870)
grandi vie di silenzio conducevano
a paesi di calma.
non vi erano notizie né discordie,
né universo, né leggi.
gli orologi dicevano il mattino,
e campane lontane chiamavano la notte;
ma il tempo qui non aveva più base,
era svanita ogni misura.
O mia gioia rischiosa (da La sabbia e l’angelo)
In insecurity to lie
is joy’s ensuring quality.
emily dickinson
O mia gioia rischiosa, sempre insidiata!
Se tu non fossi insidiata,
non saresti la gioia.
È necessario l’abisso
perché tu possa spiegar le tue ali.
È necessaria la notte
perché si accenda il tuo raggio.
Ogni attimo in cui mi possiedi
è vita che m’inonda, traboccante.
Ma in quello stesso attimo, so che in me si ripete
una scommessa mortale.
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