Donne Fundraiser Intervista a GIANCARLA PANCIONE, Save the Children Italia Come hai scelto il settore nonprofit? Come sei diventata una fundraiser? Il mio è stato un percorso piuttosto anomalo: frequentavo un Master in Politica Europea in Inghilterra, il cui naturale sbocco sarebbe stato quello di trascorrere un periodo di stage presso la Commissione Europea. Tuttavia, si è presentata come opzione alternativa quella di svolgere un tirocinio presso Amnesty International Inghilterra: in quel periodo il mio obiettivo era quello di rimanere ancora a Londra, per di più avevo scritto una tesi comparata sulle donne rifugiate, quindi la mission dell'organizzazione mi toccava da vicino. Il posto ad Amnesty International mi permetteva di compiere interviste, di fare la ricercatrice, il mio sogno all'epoca, per di più per un argomento che mi stava particolarmente a cuore: così ho deciso di entrare nel mondo del nonprofit. Subito sono rimasta affascinata dall'ambiente: sono una persona molto curiosa, fortunatamente nonostante fosse un palazzo enorme l'ufficio marketing rimaneva sul mio stesso piano, così andavo quotidianamente dai miei colleghi a fare domande, a informarmi. L'idea di raccogliere soldi proponendo argomenti difficili come i diritti umani e la pena di morte era per me insolita: volevo comprendere come fosse possibile. Il caso ha voluto che una persona dell'ufficio marketing andasse in maternità: così il direttore generale della raccolta fondi mi ha chiesto se fossi interessata a sostituirla. Inizialmente pensavo ad uno scherzo: non avevo alcuna preparazione a livello di marketing. Ma lui mi spiegò che, più che una questione di conoscenze e formazione, si trattava di una questione di attitudine: così ho accettato, e dopo la sostituzione maternità mi è stato proposto un prolungamento di altri sei mesi. Diciamo che quel direttore generale ci aveva davvero visto lungo! Il ritorno in Italia è stato traumatico? Quali sono le principali differenze con il settore nonprofit britannico? Diciamo che inizialmente l'impatto è stato piuttosto traumatico: le differenze a livello culturale erano enormi. A Londra, partendo da zero, ero arrivata ad occuparmi di qualsiasi aspetto di una raccolta fondi, dal mailing all'organizzazione di eventi, come per esempio un concerto di Annie Lennox, una delle prime artiste a supportare la causa di Amnesty International. Questo mi ha aiutato enormemente a formarmi una mentalità da fundraiser: tuttavia quando sono tornata in Italia, ormai nel lontano 2000, questa figura professionale era ancora vista come legata al volontariato. D'altronde non esisteva ancora il percorso odierno, con master e percorsi di formazione che ti preparano fornendoti le basi della professione. Inizialmente ho lavorato per una piccola organizzazione, dopodiché sono approdata ad Amnesty Italia per quattro anni: ma, credetemi, non possedeva la realtà strutturata che può vantare oggi, si trattava più che altro di un organismo in fase embrionale. Molte persone avevano iniziato come volontarie, e imparando sul campo erano riuscite ad evolversi sino a ricoprire la carica di fundraiser: un ambiente particolarmente diverso da quello che avevo trovato in Inghilterra, con ovvie differenze a livello di mentalità. Fare raccolta fondi in Italia all'epoca significava: organizziamo un evento, facciamo materiale, raccogliamo soldi. Era una mentalità un po' casereccia se vogliamo, molto diversa rispetto all'Inghilterra, dove alla parte di studio, di analisi dei numeri, del budget e degli obiettivi veniva dato uno spazio equivalente, se non maggiore, alla parte diciamo così più creativa della professione. Viste le difficoltà iniziali, hai mai pensato di passare al profit? Assolutamente no. Il mio lavoro mi piace tantissimo: oramai è quasi un hobby, non perdo occasione per parlarne anche nella vita di tutti i giorni. D'altronde, tuttora in Italia non è facile spiegare ad una persona esterna di cosa ci occupiamo! Si tratta di un bellissimo lavoro, che ti impegna quotidianamente, da cui è difficile staccare: quante volte mi son svegliata nel cuore della notte pensando ad un'idea buona da proporre il giorno successivo in ufficio! E quante volte, camminando per strada, ho notato qualche ottima intuizione che avrei voluto fosse venuta a me, e che ho tentato di applicare alla situazione particolare dell'organizzazione nonprofit per cui lavoravo! Si tratta di un mestiere in continua evoluzione, cosa che ti motiva a dare sempre di più, a non sentirti mai arrivato. Per di più, l'ambiente italiano di professionisti del nonprofit è molto stimolante, formato da una rete di persone che si conoscono e, pur essendo competitors, condividono idee, si aiutano, si danno consigli, anche riguardo i fornitori. Questo continuo scambio favorisce la crescita del settore: per questo il Festival del Fundraising rappresenta sicuramente una grande occasione! Ho avuto qualche offerta dal mondo profit, anche molto interessante: per esempio, sono stata contattata da un'azienda che lavorava con diverse organizzazioni nonprofit, a cui serviva una professionista che conoscesse bene questo tipo di mercato. Ovviamente ho declinato. Ciò non significa che il profit sia disprezzabile: al contrario, pur disponendo di maggiori risorse, le regole del profit hanno aiutato moltissimo la crescita del mondo nonprofit. D'altronde, anche noi siamo professionisti, che cercano di non lasciare niente al caso e di rappresentare un valore aggiunto per la propria organizzazione. Hai avuto difficoltà a fare carriera nel mondo del nonprofit come donna? Non direi: oggigiorno conosco molti professionisti donne della raccolta fondi con posizioni di rilievo in organizzazioni di successo. Io sono giunta a Save The Children nel 2006, e non ho rinunciato a diventare mamma: anzi, ho un bambino di sei anni che mi seguiva ovunque, anche in Olanda per il Fundraising Congress. Oggi preferisco mantenere una netta divisione tra lavoro e vita privata: ciò nonostante, mio figlio è talmente abituato alla mia realtà lavorativa che a dire la verità è diventato un mio grande fan! Quando gli chiedevano che lavoro fa sua madre, risponde che raccoglie i soldi dalle donne e dagli uomini ricchi per distribuirli ai bambini. Pronuncia in maniera impeccabile “Save the Children”, ed è in grado di riprodurne perfettamente il logo nei suoi disegni! D'altronde la sua squadra preferita rimane la Roma, ma da quando ha scoperto che la Fiorentina aveva come sponsor sulle maglie l'organizzazione per cui lavoro è diventato direttamente un simpatizzante. Insomma, mi sono sentito molto tutelata come donna in questo ambiente, la mia passione non ha condizionato la mia volontà di diventare madre, e allo stesso tempo il diventare madre non ha condizionato la mia opportunità di carriera. Una donna che dirige l'equipe di raccolta fondi di un'organizzazione come Save The Children. Che tipo di capo sei? Sono giunta a Save The Children nel 2006, quando ancora era poco conosciuta come organizzazione, e provenendo da cause molto diverse e, per certi versi, molto più complicate. Mi sono innamorata della nostra mission: qui mi sento a casa, probabilmente il fatto di essere diventata mamma nel frattempo ha aiutato. Ovviamente la mission non rappresenta tutto nella professione del fundraiser: è sicuramente importante, ma un vero professionista dev'essere preparato ad essere in grado di raccogliere fondi per qualsiasi buona causa. Ad ogni modo quando sono arrivata, nel 2006, eravamo un piccolo team di sei persone che gestiva 6 milioni di entrate: oggi siamo in trenta, e nel 2014 abbiamo avuto più di 40 milioni di entrate. Ho un carattere tenace, molto orientato all'obiettivo, all'ottenere risultati, che è poi quello che ci chiedono le organizzazioni nel nostro lavoro: ma devo ammettere che posso disporre di una squadra fantastica. Ci parliamo, ragioniamo assieme, viviamo a stretto contatto: i miei colleghi sanno che la mia porta è sempre aperta per qualsiasi dubbio o domanda, anche di sera. Cerco di dare il buon esempio: non prendo come giustificazione il fatto di essere mamma per poter uscire ogni pomeriggio alle 17 dall'ufficio. Chiedo molto, pongo obiettivi molto sfidanti, ma cerco sempre di coinvolgere tutti. Il mio ruolo mi porta ad essere tra quelli che viaggia di più nel mio ufficio: quando torno cerco di condividere tutto quello che ho vissuto, dalle fotografie alle semplici storie di vita. Mi piace trasmettere la mia passione e le mie esperienze, per trascinare i miei colleghi, per coinvolgerli il più possibile nella mission. Cerco di mantenere alta la mia curiosità verso ambiti all'interno dell'organizzazione diversi dai miei, per non perdere contatto con chi li svolge, affinché non perdano mai la motivazione al lavoro. Cerco di vedere il mio team non già come una semplice equipe, ma come un vivaio: infatti, almeno una volta all'anno cerco di fare delle mini-lezioni su cose viste in altri paesi, sulle principali novità del nostro settore, per cercare di mantenerci aggiornati. Finora questo atteggiamento mi ha sempre ripagato con ottimi risultati. Sei d'accordo con chi afferma che il rischio, per un fundraiser che va a lavorare all'estero, possa essere quello di “perdere il treno”? Assolutamente no: per esperienza personale se sei bravo, quando torni in Italia le organizzazioni ti cercano. Io una volta tornata non ho mai avuto problemi a trovare lavoro: poi, com'è ovvio, bisogna anche avere fortuna. Essere nel posto giusto al momento giusto è fondamentale. L'esperienza all'estero aiuta al di là delle tecniche che puoi imparare: plasma la tua forma mentis. Consiglio vivamente a tutti i fundraiser di tentare un'esperienza al di fuori dell'Italia. Noi abbiamo la fortuna, come Save The Children, di poter lavorare spesso con i nostri colleghi di uffici esteri: l'interscambio di idee è fondamentale, copiamo tantissimo da loro. È una sciocchezza pensare che una cosa che ha funzionato in un altro paese da noi non possa funzionare a causa delle diverse culture: occorre testarle le strategie, ovviamente adattandole al particolare contesto in cui vivi. Una cosa non va esportata e lanciata sul mercato così com'è: occorre lavorarci per adeguarla. Attingere dall'estero è fondamentale: in special modo dalla Gran Bretagna in cui, pur possedendo una tradizione europea, dunque non troppo distante dalla nostra, utilizzano tecniche pionieristiche che possono poi essere replicate da noi. Si tratta inoltre di uno stimolo ulteriore, per essere preso ad esempio agli occhi di colleghi di altri paesi. È fondamentale l'interscambio con l'estero: si tratta di un importante valore aggiunto. Save The Children non si focalizza solo sui mercati già affermati, ma seguiamo anche i paesi emergenti: io per esempio sono stata più volte nelle Filippine, pensavo di non poter imparare niente che non sapessimo già anche in Italia, e invece anche là esistono strategie che è possibile replicare con successo da noi. L'Asia, secondo me, rappresenta un mercato spettacolare per un fundraiser: la classe medio-alta sta emergendo prepotentemente, tanto che una volta mi trovavo all'interno di un centro commerciale e non potevo permettermi letteralmente niente a causa dei prezzi altissimi. C'è un grande potenziale, soprattutto in termini di major donors e legacies. Questo ti fa capire che in questo lavoro puoi imparare sempre, ogni giorno, se mantieni l'umiltà e la curiosità necessarie per farlo: anche questo è il bello della professione del fundraiser!