Amilcare Laurìa
1911
La Compagnia dei Comici
Napoletani
sbarca aTripoli
2011
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La vecchia Compagnia Comica Napoletana del Teatro San Carlino.
Vincenzo Santelia (il brillante) - Giovanni De Chiara (il caratterista) - Antonio Petito (il più
famoso Pulcinella) - Andrea Natale (il siciliano) - Davide Petito (Pangrazio Ciscigliese) Pasquale De Angelis (il buffo Barilotto) - Marianna Checcherini (la caratterista) - Pasquale
Altavilla (il celebre generico e commediografo del « San Carlino ») - Rosalia
Linder (la servetta) - Raffaele De Napoli (il guappo)
Il vecchio Don Gaetano Petito continuava: Voi credete io v'abbia raccontato finora le
maggiori peripezie di quel nostro sventuratissimo viaggio, e v'ingannate; attento, dunque.
Don Salvatore Petito « Il Pulcinella delle Dame », come lo chiamava il suo pubblico per la
graziosità e la morigeratezza della sua recitazione, e, più ancora, delle sue improvvisazioni,
pareva avesse persa la testa, dopo l'assassinio del suo amico Don Vito Caligiuri, divenuto
capo-brigante. E questo appunto dovè esser causa della sua testardaggine di partire da Malta
con quella specie di nave. Bisogna ricordiate che Don Salvatore Petito, mio padre, aveva per
compagna Peppina Errico, che sposò al suo ritorno a Napoli. Ella divenne poi la proprietaria
del celebre teatrino della Marina, che preseli suo nome: il Teatro Donna Peppa. Di figli ne
aveva due soltanto; questo vecchio che vi parla (allora non ancora decenne) e sua sorella Rosina, minore di lui.
2
Compagni di viaggio per la Grecia erano alcuni cantanti della vecchia opera buffa napoletana; fra i quali il basso comico Luigi Manna ed il librettista Lorenzo Camilli, siciliano,
con due sorelle, cantatrici entrambe. Dunque dovemmo imbarcarci sur una decrepita goletta,
quasi tenuta su con le corde, che trasportava vecchie armi in Grecia ; or poiché, poche settimane prima, quel legno aveva già tentato il mare, ed al primo fortunale era tornato a precipizio in porto, tutti scongiurarono mio padre che, per l'amore di Dio, non viaggiasse su quella
goletta!... Fiato sprecato! e c' imbarcammo. Partimmo all'alba; e fin dalla prima notte ci si
manifestò la malaventura, perchè si scatenò tale tempesta, da far girar la nave sull'onda nera.
Eravamo tutti avviliti sul cassero, quando, fra il tremendo clamore dei cavalloni spumeggianti, udimmo un urlo disperato, seguito da orribili bestemmie. Urlava il capitano : la goletta aveva perso il timone!E fu in
quella prima notte spaventosa di
mare che egli fece il voto di sposar Peppa non appena tornato in
patria. Per più di una settimana
fummo il sollazzo de' venti e del
mare, inermi come eravamo a difenderci dagli uni e dall'altro.
Venne la calmeria; la speranza si
riaccese a bordo; ma fu breve, che
la nostra immobilità in alto mare
finì per parerci più pericolosa della tempesta stessa, fermi ad aspettare la morte per inedia.
E difatti i viveri, imbarcati per
la sussistenza d' un paio di settimane al più, principiavano a
mancare; ed i patimenti a diventare insostenibili.
Finalmente, di viveri, sulla nave, non ne restò neppur l' ombra ;
onde principiò presto quello strawww.vesuvioweb.com
no odio vicendevole, prologo agli
atti più disumani; allorché, verso
l'alba d'una di quelle desolanti
giornate di calmeria, ci si presentò
innanzi un nostro servo atterrito
così da non parer più lui : egli venne ad annunziarci che a bordo si era deciso di scannare
uno dei compagni di sventura perchè servisse da pasto a tutti gli altri, e che la scelta.... voi
indovinate su chi fosse caduta? sul ragazzo Gaetanino: proprio su me !
Come una furia, mia madre balzò dalla cuccetta; le tenne dietro il marito, armato di un
rasoio; e lì sulla tolda, entrambi minacciarono di sgozzare il primo che s'accostasse a me. Il
capitano allora giurò che il servo si era ingannato : la ciurma si contenne la fame ed io non
finii in arrosto. Ma finalmente la mattina appresso cessò l'esiziale calmeria col levarsi d'un
vento violentissimo, che c'investì con forza tale da portarci in un attimo lontani. Volavamo
sull'onde da averne le vertigini, quando, ai primi raggi del sole, la vedetta gridò : « Terra !
Terra ! . . . ».
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Mezz'ora dopo, si principiò ad intraveder sull'orizzonte certe dune, e, poco dopo pianure
infinite. Il capitano riconobbe le coste della Tripolitania. Ad un mezzo chilometro dalla terra,
furon gettate le ancore, e fu fatta calare in acqua l' unica barca che pendeva da poppa : una
miseria di barca, ahimè! Nella quale entrarono tre marinai, traendosi dietro una gomena, di
cui l'un dei capi restò attaccato alla goletta, l'altro fu portato ad assicurar la nave alla terra;
ed, a forza di remi, la barca giunse agli scogli della riva. Noi con che ansia la seguissimo,
non vi dico; respirammo sol quando l'altro capo della gomena fu solidamente legato agli scogli. Ma, nel suo ritorno, la vecchia barca urtò col fondo in uno scoglio a fior d'acqua, sfasciandosi, così che i tre marinai dovettero tornarsene, nuotando, alla goletta. Senza più imbarcazioni, ci vedemmo di nuovo perduti. Ed eravamo da poco tornati in preda alla disperazione, quando il capitano commise l'imprudenza di manifestare il suo sospetto che la mattina .seguente il vento si sarebbe cambiato, e se la gomena, perciò, si fosse spezzata, saremmo
stati risospinti in alto mare. Ed allora chi della goletta commise la pazzia di spezzar la gomena con un colpo di scure?! Non si seppe mai. Nondimeno, quando vedemmo la nave volar
verso terra, tutti, in una gioia frenetica, urlammo: salvi!... salvi!... salvi!... Giunti sulla riva,
tutti ci gettammo bocconi a baciare la terra. Frattanto, il sole ardente ci bruciava, così che i
marinai, tornati a bordo in fretta, costruirono alla meglio una zattera, e portarono a terra le
vele della goletta, con le quali composero una gran tenda.
Allora mio padre comunicò ai compagni la preoccupazione di poter essere assaliti dai ladroni, di momento in momento, in quelle lande desolate ove ci aveva gettati il destino, tra
montagnole brulle ed arena all'infinito, senza la consolazione di un filo d'erba; i compagni,
con lui, pregarono il capitano di mandare a prender armi a bordo. Pure acconsentendo, il capitano rise; egli, che già altre volte aveva approdato in quei paraggi, rassicurò i naufraghi che
ben presto avrebbero sperimentato che fosse l'ospitalità araba.
E difatti, la mattina dopo, quando ci destammo, rimanemmo sorpresi così da creder di
fare un nuovo sogno: inquadrato dall'apertura della tenda, sullo sfondo d'un limpido cielo
azzurrino, se ne stava a guardar noi, poveri naufraghi, la benevola figura di un beduino, sur
un amore di cavallino bianco ; un largo « burnus » del color dell'avorio che gli formava turbante intorno al capo, frenato da una fune di paglia, gli scendeva giù fluttuando lungo la
snella persona. La faccia magnifica, abbronzata dal sole, adorna da barba fluente e riccioluta, color del cioccolato, era atteggiata alla più schietta benevolenza. L' intera tenda si
mise ad urlar dalla paura, e l'arabo per rassicurarci, prese a gettare una quantità di zuccherini
a noi fanciulli. — Non li mangiate, per carità ! ! ! — ci gridò la mamma, fulminandoci con
gli occhi da spiritata : credeva volesse avvelenarle i figli, ma già noi ragazzi avevamo tutto
avidamente ingozzato; e poiché l'arabo ebbe compreso lo spavento che incuteva ai naufraghi,
si tolse dalla sella alcune bestie morte, e le lanciò nel mezzo della nostra tenda.
Il capitano, raccoltele, ce la mostrò, compiaciuto — Questa è cacciagione superba : la
Tripolitania n'é piena; su, dunque, ad arrostirla per cavarci la fame Né la munificenza dell'arabo era peranco terminata: egli slegò di dietro alla sua sella dorata un carratello ; si volse a
mia madre, col più gentile sorriso, e le fé cenno d'accostarsi, per consegnarglielo. Or poiché
in quell'atto v'era così cordiale gentilezza, mia madre, senz'oltre so- spettare, sturò il carratello, versò in un bicchiere un dito del liquido che conteneva, e portatoselo alle labbra: —
Latte simile non ne ho saggiato mai ! — disse, poi ne bevve due bicchieri colmi, e dispensò
il resto agli altri. L'arabo che, nel vedere i naufraghi bere il suo latte, mostrava la maggior
soddisfazione, con mimica agitata, rivolto alla goletta, che si disegnava sull'acqua cristallina,
ci mostrò di aver capito come ci trovassimo sulla sua terra.
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Ed allora mio padre e mia madre, mimi egregi per la loro professione, narraron meravigliosamente all'arabo tutte le nostre vicende, mentre l'arabo comprendeva: lo dicevano i suoi
occhi lucenti di lagrime, ma più ancora l'impeto della commozione, onde alla fine, volle baciare ogni naufrago sulla spalla sinistra. Allorché quella scena fu chiusa, mio padre mise nella mano dell'arabo una sterlina fiammante, per ringraziarlo di tutto quanto ci aveva portato,
ma colui la restituì immediatamente come se gli avesse scottato la mano. E tornò, l'indomani; così lo vedemmo ogni mattina, fino al nono giorno, in cui venne accompagnato da un
giovane, arabo come lui. Riunì i naufraghi, e fece capir loro che per alcuni giorni ci avrebbe
affidati alla custodia di quel suo compagno; ma che presto sarebbe tornato per
accompagnarci a.... a...? Nessuno comprese il sito dove si recava, per poi tornare e menare anche noi colà. Ogni mattina,
noi sventurati volgevamo gli occhi ad un
altipiano che azzurreggiava verso oriente,
sullo sfondo di quel cielo sempre dolcemente limpido, che s'incendiava magnifico al tramonto: il luogo pel quale il
nostro angelo custode era sparito. Il poeta
Lorenzo Camilli, una mattina ci chiamò
tutti, e : — Fissate bene gli occhi colassù,
all'alti- piano — ci disse — oh, non vi
pare che qualcosa si mova discendendo
alla pianura.... qualcosa, che, or sì, or no,
scintilla al sole?... Tutti gli demmo ragione. — Ma sono uomini, vi dico!... —
ci gridò il capitano — guardate meglio : è
tutta una schiera di armati, le cui armi rifulgono al sole…
— Dio ! vengono ad assalirci!... — urlammo tutti. Frattanto, il giovane arabo
che sino allora ci aveva guardato sorridendo della nostra sorpresa, quando si
accorse del nostro sbigottimento, tentò
rassicurarci con mimica furiosa; ma non
vi riuscì, che nessuno gli badava, tale il
panico onde eravamo invasati tutti, sì che
a precipizio nella zattera, un momento
dopo eravamo tornati sulla nave maledetta; sul cassero della quale gli uomini
si misero a passeggiare, armati grottescamente di que' vecchi fucili.... che la Grecia aspetta ancora. Da lì ad un'ora, ad un
grande sbalordimento, tenne dietro la più
bella esaltazione davanti alla splendida
processione di magnifici orientali , ornati
d'oro e d'argento, dai candidi mantelli,
svolazzanti sui cammelli che montavano, o sui bei cavallini, del più puro sangue arabo , preceduti da un solenne vecchione con la lunga barba bianca...
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La sontuosa processione araba, giunta alla riva, si dispose così come un compositore di
balli del nostro teatro San Carlo l'avrebbe fatta disporre. Dopo qualche minuto di silenzio religioso, prima il vecchione, poi tutti gli altri levarono le braccia al cielo, gridando in coro
parole incomprensibili a noi della nave. — Chi sono?! — Gesù, che vogliono?! — Che risponderemo?! — Che faremo?!.. — ci domandavamo al colmo dell'imbarazzo. E meno male che, di dietro a tutta quella gente si fa strada un signore vestito all'europea, col fez in capo, per avvicinarsi alla riva, e pronunciare ad alta voce qualche parola in inglese, volgendosi
a colui che gli parve essere il capitano. Ne ringraziammo Dio: gli arabi avevano portato con
sé un interprete; il capitano, il poeta Camini e parte della ciurma, comprendendo la lingua
inglese, si misero presto a parlar di lontano con quell'europeo. Sulla zattera che ci riportava
alla riva, mia sorella Rosina ed io, che invece di esser presi dalla paura alla vista della fantastica processione, avremmo voluto scender giù immediatamente per vederla da vicino, indovinate un po' che immaginammo?... una sorpresa agli arabi, tale da farci entrare a primo incontro nelle loro buone grazie. E non appena a terra, difatti, ci mettemmo a ballare, in mezzo
a loro, un passo a due orientale, che avevamo visto eseguir tante volte ai nostri genitori sul
teatro. Il successo fu colossale!A principiare dal gran vecchio dal barbone bianco, tutti ci
vollero baciare e fecero a gara in regalarci dolciumi datteri. Non appena tutti i naufraghi furono scesi dalla goletta, fecero presto a fraternizzar con que'buoni arabi. La tribù dormì sotto
la tenda sfarzosa che s'era portata dietro sui cammelli e che aveva innalzata sulla riva; il
giorno seguente, che festa ! Gli arabi più giovani ci cantarono le loro molli canzoni d'Oriente, ci fecero vedere que'loro balli così caratteristici, accompagnati dai curiosi stromenti; e
finirono col farci assistere ad una « fantasia » eseguita da ventiquattro giovani, sui loro superbi cavalli.... Lo credereste?... la gioia aveva fatto andare in visibilio mio padre in modo
che poco mancò e non andasse ad offrire a tutti quegli arabi la scrittura in massa pel teatro
San Carlo! E dopo altri tre giorni di pranzi e feste, la tribù dovè ripartirsene; ma senza interamente abbandonarci, che ci lasciò cinque cammelli coi cammellieri mori, tre casse d'ogni
sorta di provvigioni e dieci uomini di scorta. La settimana seguente, poiché si fu spogliata la
nave, partimmo tutti. Si viaggiò solo di giorno, perché la notte s'era obbligati a sostare, non
soltanto per riposarci, ma per paura delle belve. E viaggiammo così, noi sui cammelli e i beduini sui loro cavalli; bruciati dal sole, tormentati siffattamente dagli insetti, da averne la
pelle coperta di pustole. Valicammo un'infinità di altipiani, sterminate pianure ricoperte di
sabbia, trovando rare oasi; e sole, sole, sempre sole che ci entrava nel cervello.... Quei dodici
giorni furono eterni per noi !
La notte, sotto le tende, poi ci sentivamo pressoché asfissiati. Una mattina, appollajato sul
mio cammello, mi divertivo a udire il grido gutturale che emet-teva, ogni tanto, il moro, per
farsi ubbidire dalla sua buona bestia ; quando, ad un tratto, fui preso dalla brutta tentazione
d'imitare quel grido, e vi riuscii facendomelo scattar nell'ugola più volte di seguito, senza
sapere che, emesso cosi, quel grido serviva per far comprendere all'animale di doversi inginocchiare per far discendere colui che gli sedeva fra le gobbe; epperò, il cammello s'inginocchiò bruscamente, ed io, dalla scossa inaspettata, andai a gambe all'aria!... Il diavolo volle
che andassi a batter della testa sur un qualche corpo duro, feren- domi in malo modo. Lesto,
il cammelliere raccolse una manata di sabbia per strofinarmi il capo e chiudere la ferita. Non
l'avesse mai fatto, che un granello di arena vi restò dentro e otto anni di sofferenze alla testa,
che nessun medico capiva!... Finalmente, a Napoli, un chirurgo ne comprese la causa, e mi
fece l'operazione A voi, guardate, c'è ancora la piccola cicatrice!
Forse la scena più commovente dell'intero viaggio fu il nostro ingresso trionfale a Bengasi.
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In sull'alba, a pochi chilometri dalla città, riudimmo, per la prima volta dopo l'imbarco, il
canto del gallo. Piangevamo tutti ; mio padre, singhiozzando, ordinò ai compagni che s'inginocchiassero con lui per ringraziar Dio d'averci concessa la salvezza. Alle porte della città, ci
parve l'intero paese si fosse riunito intorno a quei della tribù, i quali eran venuti a salutarci là,
e non appena ci videro spuntare, ci accolsero assordando l'aria con grida di gioia. Oh! le turbe variopinte di orientali, sotto la viva lucentezza di quel cielo, col gran mare cerulo per isfondo, che quadro di magica bellezza!... La prima cosa che mi colpì di poi, furono le lunghe
distese di casette tutte bianche: le ricordo come in sogno quelle basse costruzioni che somigliavano cortili, mancanti dei piani superiori, sparsi di bazars, fra i più belli di quelle città.
Tutta Bengasi era in festa pel nostro
arrivo; da per ogni dove stendardi
verdi con la mezzaluna, bandiere,
pennoncini, ghirlande, drappi ricchissimi, alcuni come tempestati di
gemme. E quegli arabi erano tanto
buoni!... a misura che trascorrevamo
il tempo in mezzo a loro, ne conoscevamo meglio l'indole ingenua,
primitiva, patriarcale. Basta, fummo
accompagnati all'estremità del paese,
ove s'ergevano alcune palazzine di
europei. Ad una di essa, sotto una
graziosa veranda, scorgemmo due
gentili figurine di fanciulle, bionde e
sottili, sedute ai due lati d'un vecchio
lungo lungo, con basette britanniche
ed una gran pannocchia di capelli
giallicci sul capo. Lo guardammo
meglio, ed il cuore ci si strinse: dagli
occhi che vagavano desolatamente
nel vuoto ci accorgemmo che lo
sventurato era cieco. L'interprete ci
disse che quella palazzina, con alcun' altre affianco, eran dei Consolati europei; ed il vecchio cieco era il
console inglese, con accanto le fighe. Prima di andare a riposarci volemmo presentarci alle
autorità dal paese, sempre in compagnia dell'interprete; dalle quali avemmo le migliori accoglienze. Assegnarono cinque para, mezza lira al giorno , a ciascuno di noi finché non avremmo trovato la opportunità del rimpatrio. L'interprete ci obbligò a fare un'altra visita in quel
nostro primo giorno a Bengasi, e ci menò tutti al suo Consolato, ove trovammo una davvero
gentile persona in un giovanotto, figlio del console, che faceva le veci del padre cieco. E
quell'eccellente signore, così disgraziato da pochi anni che aveva perso gli occhi, sopraggiunse mentre discorrevamo col figlio, in compagnia delle sue belle figliuole, le quali
anch'esse vollero conoscere i naufraghi. E da quella sera l'intera famiglia del console ci prese
in così grande simpatia da offrirci, da li a poco tempo, ospitalità nella propria palazzina. Mia
madre divenne una specie di governante delle due signorine; mio padre, il « maestro di sala »
della famiglia. Né soltanto i tre figli del console furono scolari di Salvatore Petito a Bengasi.
ma parecchi altri ne trovò fra la colonia greca ed inglese. Un armeno che straziava i visceri
con un'ira di Dio di violino, accompagnava mio padre nelle sue lezioni, ed io lo seguivo per
ajutarlo nelle «figurazioni da ballo».
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Se mi si voleva bene a Bengasi?! non trascorsero tre giorni dal nostro arrivo che una turba
di piccoli arabi d'ogni condizione, accompagnandomi dovunque andassi, faceva fin l'impossibile per divertirmi. Troppa delizia, che, pochi mesi dopo, venne il rovescio della medaglia.
Incominciai a destarmi, insolitamente a tarda ora, con la testa così pesante come se me
1'avessero riempita di piombo ed una fitta tremenda in mezzo al cranio. Voi avete già capita
la causa di questo malore insopportabile, che finì coll'impedirmi persino di seguir mio padre
nelle sue lezioni di ballo; quel certo granello di sabbia chiedeva, di così mala grazia, d ' andarmi via dal capo ; ed io soffrivo, persuaso da tutti che, acclimatato all'aria del paese, il mal
di capo sarebbe passato.... Ma ci accadde di peggio; un giorno, mio padre si sveglia con gli
occhi enfiati, pieni di sangue. Il console, la famiglia, tutti di casa ne sono disperatissimi, perchè Don Salvatore ha da partire immediatamente se vuol conservar gli occhi : proprio a quella maniera principiò l'oftalmia che accecò quel povero vecchio inglese — non v'era tempo da
perdere! Voi che avreste fatto?..;Proprio in quei giorni v'era l'occasione della partenza per
Trieste d'un brigantino, buon veliero. E fu tanto triste il giorno della separazione da quella
cara gente ospitale della famiglia inglese, da quegli arabi che han cuore di veri cristiani, daBengasi, dai compagni di sventura, i quali vollero restar tutti laggiù.... laggiù dove anche
noi credevamo di dover continuare a vivere!... Partimmo; ma non più in quattro di famiglia,
in cinque, che Donna Peppa Petito portava dentro di sé un demonietto il quale sarebbe stato
la gloria della famiglia e dell'arte comica napoletana: Antonio Petito era stato generato a
Bengasi.
[email protected]
Racconto tratto da
http://www.archive.org/details/laletturarivista1911milauoft
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