Sociologia
delle comunicazioni di massa
(4 CFU)
Prof. Giovannella Greco
Comunicazione Media e Educazione
1. Introduzione
Sociologia
Le definizioni di sociologia, espressamente
formulate o desumibili dalle opere dei
sociologi, sono innumerevoli e varie a
seconda di quale sia l’oggetto, o il campo di
oggetti, attribuito da autori di diverso
orientamento a questa disciplina.
Tuttavia nessuna delle definizioni fornite può
ritenersi esaustiva o esclusiva.
Un’analoga complessità è riscontrabile nella
determinazione delle origini della disciplina,
rispetto alle quali si possono fornire almeno
tre possibili risposte (1):
(1) Gallino L., “Sociologia”, in Id., Dizionario di Sociologia (1978), Utet, Torino 1993, pp.
611-612.
1. Una prima risposta fa coincidere la nascita
della sociologia con la produzione dei primi lavori
espressamente dedicati alla sua fondazione
concettuale e metodologica.
Si può fare riferimento, in questo caso, al nome
di Auguste Comte il quale, in una lettera
indirizzata nel 1824 a certo Velat, usava per la
prima volta l’ibrido latino-greco socio-logia per
indicare la nuova “scienza della società” di cui,
sulla scia di Saint-Simon, andava elaborando il
progetto. Quindici anni dopo, nella XLVII lezione
del suo Corso di filosofia positiva (1839), Comte
proponeva formalmente di sostituire con il
neologismo “sociologia” l’antica espressione di
“fisica sociale”, in uso fin dal Seicento.
Tuttavia, considerato che lo stesso Comte
riconosceva ad alcuni suoi predecessori il
merito di essersi occupati, prima di lui,
dell’elaborazione di “una concezione
scientifica del progresso delle società
umane”, al suo nome andrebbero aggiunti
anche quelli di altri autori (Saint-Simon,
Adam Smith, Adam Ferguson, John Millar,
William Petty), nelle cui opere si possono
trovare descrizioni ed interpretazioni di
società europee, che appaiono più
realistiche e anticipatorie delle linee di
sviluppo della moderna società industriale.
A tale proposito, è importante ricordare quanto
osserva il sociologo americano Antony Giddens
(1).
La sociologia, nata con i primi tentativi compiuti
da alcuni studiosi di comprendere l’impatto delle
trasformazioni
indotte
dal
processo
d’industrializzazione in Occidente, continua ad
essere la principale disciplina interessata
all’analisi della natura di tali trasformazioni.
Questa considerazione induce a sostenere la tesi
che, per quanto il mondo contemporaneo possa
essere diverso da quello conosciuto agli albori
della società industriale, uno dei compiti principali
della sociologia rimane quello di contribuire alla
comprensione del mondo e del suo possibile
futuro.
(1) Giddens A., Sociologia (1989), Il Mulino, Bologna 1991.
2. Una seconda risposta tende a riportare le
origini della sociologia all’epoca in cui le
descrizioni e le interpretazioni dei fenomeni
sociali, già molto comuni alla fine del Settecento,
erano assoggettate a rigorosi procedimenti
scientifici con ampio ricorso alle tecniche di
misurazione e d’inferenza statistica.
In questo caso, si può far coincidere la nascita
della disciplina con l’Essai de statistique sociale
(1835) di Quétélet, e menzionare altri autori
come Tocqueville, con il suo classico studio Sulla
democrazia in America (1835-40), Lorenz Stein,
Herbert Spencer, fino ad arrivare ad Emile
Durkheim, il primo autore la cui opera non è
riconducibile ad alcun altro ramo delle scienze
sociali.
Tuttavia far coincidere la nascita della sociologia
con l’applicazione del metodo scientifico
equivarrebbe ad espungere dal suo ambito gran
parte degli autori classici, e delle opere che
hanno contribuito a definire le categorie e
gl’interrogativi fondamentali sulla società che
nessun altra disciplina pone e che, pertanto,
creano “lo spazio e la tensione per un’attività
intellettuale distinta da quelle coltivate fin
dall’antichità” (1).
Il sociologo italiano Luciano Gallino afferma, a
tale proposito, che il metodo scientifico non può
essere delegato né attrezzato ad individuare tali
problemi
ai
quali,
semmai,
dev’essere
subordinato.
(1) Gallino L., op. cit., p. 612.
3. Secondo una terza risposta, la sociologia
esiste da quando esiste una riflessione
intenzionalmente diretta a cogliere gli aspetti
costanti e ricorrenti della vita e del mutamento
delle società umane. Elementi di una riflessione
così orientata sono evidenti sin dall’antichità nel
pensiero politico, nelle dottrine economiche e
giuridiche, nella letteratura e nella filosofia.
Definite in senso così lato, le origini della
sociologia si trovano ad essere anticipate di oltre
duemila anni e, tra i suoi rappresentanti, si
possono includere anche filosofi come Platone e
Aristotele, Lucrezio e Sant’Agostino, Tommaso
d’Aquino e Machiavelli, Francis Bacon, Vico e
Rousseau, Herbart e Muller, Hegel, Dilthey,
nonché gran parte dei narratori e degli autori di
opere teatrali.
Tuttavia quest’ultima risposta, che trova il suo
punto di forza in quello che è il punto debole della
seconda (il fatto, cioè, che la maggior parte dei
problemi che fondano la stessa “ragion d’essere”
della sociologia siano emersi nel corso della
tradizione secolare del pensiero filosofico,
storico, politico, giuridico, letterario), finirebbe col
sottovalutare che, dalla metà dell’Ottocento in
poi, il campo di studi ricerca e interpretazione,
denominato
“sociologia”,
è
andato
progressivamente
acquisendo
una
sua
specificità, rendendosi autonomo dalle diverse
discipline con cui per secoli è rimasto intrecciato,
e dandosi una strumentazione metodologica del
tutto peculiare, non riconducibile a quella delle
discipline dalle quali si è progressivamente
differenziato.
Ciò premesso si può affermare che:
La sociologia è la scienza che studia la vita
sociale umana, al fine di promuovere e rinnovare
costantemente l’autocomprensione della società.
Il suo oggetto privilegiato è, pertanto, lo studio
del comportamento sociale degli esseri umani.
Per la visione sociologica è fondamentale, infatti,
la comprensione dei modi sottili, complessi e
profondi in cui la nostra vita riflette il contesto
della nostra esperienza sociale.
Il lavoro sociologico implica, dunque, il
conseguimento di conoscenze su noi stessi, sulla
società in cui viviamo e su altre società distinte
dalla nostra nel tempo e nello spazio (1).
(1) Greco G., Manuale di Sociologia delle comunicazioni di massa, Centro Editoriale e
Librario - Università degli Studi della Calabria, Rende 2003.
Dalle considerazioni fin qui avanzate emerge che
lo studio della sociologia non è un processo
meccanico di acquisizione di conoscenze.
Imparare a pensare sociologicamente implica
coltivare un potere d’immaginazione.
Gran parte del lavoro sociologico consiste in ciò
che Charles Wright Mills (1) ha chiamato
“immaginazione sociologica”, ovvero in quella
capacità di “riflettere su se stessi liberi” dalle
abitudini famigliari della propria vita quotidiana, al
fine di guardarle con occhio diverso.
(1) Wright Mills C., L’immaginazione sociologica (1959), Il Saggiatore, Milano 1962.
Sviluppare una immaginazione sociologica
implica, pertanto, l’uso di materiali tratti
dall’antropologia e dalla storia.
La dimensione antropologica è essenziale,
poiché consente di riconoscere l’esistenza di una
molteplicità di forme differenti di vita sociale: solo
confrontando la nostra forma di vita con questa
molteplicità di forme, possiamo cogliere la
peculiarità dei nostri modelli di comportamento
sociale.
La dimensione storica è altrettanto importante,
poiché il tratto distintivo del mondo moderno e
contemporaneo è afferrabile solo se confrontato
con il passato: il passato rappresenta, per certi
versi, uno “specchio” cui il sociologo si rivolge per
comprendere il presente.
Ma
l’aspetto
dell’immaginazione
sociologica più caro a Wright Mills riguarda
le previsioni per il futuro:
La sociologia aiuta non solo ad analizzare
gli attuali modelli di vita sociale ma, anche,
ad individuare possibili “scenari futuri”.
In
altre
parole:
la
componente
immaginativa del lavoro sociologico può
chiarire non solo come stanno le cose ma,
anche, come potrebbero andare se noi
tentassimo di cambiarle.
Società
Tra i concetti fondamentali della sociologia
quello di società è utilizzato da più di due
millenni, con grande frequenza e varietà di
significati.
Oltre che nel linguaggio sociologico, questo
termine è presente anche nel linguaggio
comune.
Non tutti i significati attribuiti a questo
termine
sono
utilizzabili
nell’analisi
sociologica,
ma
ciascuno
è
sociologicamente rilevante poiché propone
una determinata immagine della società.
La storia di questo concetto ci consegna
diverse immagini della società.
Sulla base delle differenti concezioni
emerse nel corso della storia, la sociologia
contemporanea
approda
alla
individuazione dei seguenti modelli:
1. La prima forma emergente di società è
stata quella a strati o piramidale, tipica
dell’Ottocento.
Si tratta di un modello strutturale, a due
piani, con sopra i datori di lavoro e sotto i
lavoratori, che genera una serie di parolechiave quali classe, strato, ceto, ecc.
E’ l’immagine di una società che,
organizzatasi sulla base della produzione,
definisce i diversi ruoli sociali: proprietari
dei mezzi di produzione, lavoratori,
consumatori.
2. Nel Novecento, si diffonde un altro
modello, definito funzionale e composto da
insiemi variamente correlati tra loro:
scuola, industria, finanza, agricoltura,
giustizia, amministrazione, ecc.
Questo modello è funzionale perché c’è
un macro-sistema diviso in sottosistemi, e
la logica è quella di definire a cosa serva
ciascuna parte, e in che relazioni stia
rispetto alle altre.
3. Il modello attuale è molto diverso.
Non si vive più in uno spazio i cui segnali
sono
connotatori
d’identità
e
di
appartenenza,
ma
ciascuno
deve
attraversare spazi, tempi, esperienze alla
ricerca di tali elementi.
Oggi, la società si rappresenta come:
un insieme disordinato e casuale
d’individui, ciascuno dei quali crea, con reti
variabili, propri sistemi di organizzazione e
collegamento con gli altri.
• Nel primo modello
l’individuo sa immediatamente chi è
sulla base della sua posizione
nella sfera produttiva della società.
• Nel secondo modello
l’individuo sa dov’è
e a cosa serve la sua collocazione
per il funzionamento complessivo
del sistema sociale.
• Nel terzo modello
l’individuo, divenuto più libero
ma anche più incerto e disorientato,
deve cercarsi da solo
gli elementi di relazione.
Società mediale
Come si è già affermato, le interpretazioni
della società proposte da autori di diverso
orientamento appaiono molteplici e differenti,
a seconda degli aspetti che vengono posti in
risalto.
Nel tentativo di mettere a fuoco il tema della
comunicazione nell’ambito di uno scenario
sociale come quello attuale, fortemente
caratterizzato da una crescente pervasività
dei media, propongo una ipotesi di lettura
della società contemporanea, secondo la
quale essa tende sempre più a configurarsi
come una società mediale (1), ovvero come:
(1) Greco G., L’avvento della società mediale. Riflessioni su politica, sport,
educazione, Franco Angeli, Milano 2004.
• una società in cui i media sono diventati
efficaci strumenti di collegamento fra
individui e gruppi umani, informazioni ed
esperienze che, altrimenti, entrerebbero
difficilmente in contatto tra loro;
• una società in cui gli strumenti tradizionali
e nuovi della comunicazione costituiscono
la principale agenzia di socializzazione
delle giovani generazioni.
Un aspetto cruciale che caratterizza la
società contemporanea consiste nel
graduale
e
inarrestabile
passaggio
dall’esperienza diretta delle cose alla loro
rappresentazione, che tende ad allargare
a dismisura lo spettro esperienziale di
ciascuno, sia pure in una dimensione
sempre più virtuale (1).
(1) Piromallo Gambardella A., Le sfide della comunicazione, Laterza, Roma-Bari
2001.
L’avvento, lo sviluppo e la crescente
pervasività dei media hanno fortemente
contribuito a determinare e ad alimentare
questo passaggio.
Ma, per comprenderne appieno la portata
e il senso, bisogna risalire all’avvento della
modernità, allorquando comincia a farsi
strada una progressiva sensazione di
disincanto e di diffidenza verso la società,
che l’individuo moderno non avverte più
come una realtà capace di offrire regole e
mete vivibili.
A questa crisi della società fa riscontro
un’inedita libertà dell’individuo il quale, dal
momento che nessuno è più in grado di
dispensare certezze, se non provvisorie e
revocabili, si trova sempre più solo nella
scelta dei fini e delle condotte di vita.
Stretta com’è tra questi due fenomeni
epocali contrastanti - da una parte,
l’aumento del potere soggettivo e,
dall’altra, l’evanescenza dei fattori di
regolazione storicamente riconducibili al
sistema sociale - la socializzazione, al pari
della società che la produce e la riflette,
comincia ad apparire priva di fondamenti
certi e complessivamente più debole
rispetto al passato.
Nel contesto di una società complessa come
quell’attuale,
connotata
da
brusche
accelerazioni e da verifiche continue del
potere di socializzazione:
• i modelli formativi conosciuti fino ad oggi
subiscono un progressivo deperimento;
• tramonta il percorso unico, normativo e
garantito della formazione, caratterizzato da
una scoperta del mondo senza urti e da una
maturazione
gradualistica
e
protetta
dell’individuo;
• le vie della socializzazione appaiono sempre
meno chiare e ordinate rispetto al passato.
(1) Morcellini M., Passaggio al futuro. Formazione e socializzazione tra vecchi e
nuovi media, Franco Angeli, Milano 1997.
Nasce proprio da qui la fortuna dei media i
quali, di fronte ad una evidente crisi della
“socialità”, intesa come “essere con e per
gli altri”, suggeriscono modelli e valori,
atteggiamenti e comportamenti, stili di vita
e di consumo, rispondendo così - con
evidente efficacia - al bisogno diffuso di:
• de-complessizzare la realtà;
• sperimentare nuove forme di socialità,
comunicazione, conoscenza.
Ma qual è la funzione sociale dei media
nella società contemporanea?
I media svolgono una triplice funzione:
• informano;
• Intrattengono;
• forniscono una interpretazione di ciò che
avviene nel mondo.
I media hanno il potere di raccontare il
mondo in maniera e misura sconosciute alle
società tradizionali, né si limitano ad una
semplice - per quanto selettiva e rielaborata
- narrazione, ma danno vita ad una vera e
propria costruzione della realtà.
La funzione d’intermediazione che essi
svolgono è di una rilevanza tale che le nostre
rappresentazioni sociali della realtà sono
oggi, in larga misura, determinate dalle
opzioni e dalle strategie da messe in atto dai
media.
L’attore sociale rischia, così, di appiattirsi
sulla figura dell’attore mediale, un
elaboratore di conoscenze e modelli di
comportamento
che
si
fondano,
prevalentemente, sulle suggestioni e sulle
indicazioni fornite da una continua e
inarrestabile offerta multimediale (1).
(1) Livolsi M., Manuale di sociologia della comunicazione, Laterza, Roma-Bari 2003.
L’idea che la società mediale si configuri
come una società dell’informazione e dello
spettacolo sembra essere abbastanza
diffusa e condivisa.
Più controversa appare invece l’idea che
essa possa essere considerata anche nei
termini
di
una
società
della
comunicazione.
Rispetto a tale questione, se guardiamo
alla configurazione attuale e ai possibili
scenari
futuri
del
rapporto
tra
comunicazione e società, siamo costretti a
registrare che il villaggio globale,
teorizzato a suo tempo da Marshall
McLuhan (1), non ha trovato ancora piena
realizzazione.
(1) McLuhan M., Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano 1967.
La felice intuizione di questo Autore
sembra essersi concretizzata, infatti, solo
in relazione al concetto di globale, ossia
alla universalizzazione della conoscenza
“in tempo reale” degli eventi, ma non in
relazione al concetto di villaggio, che rinvia
invece al rapporto comunicativo, ad un
legame sociale forte, ad un’interazione
sociale coinvolgente l’intera comunità.
In altre parole, se l’innovazione tecnologica
consente maggiori possibilità di scambiare
informazioni in tempo reale, ciò non implica
automaticamente una migliore qualità
d’interazione e di aggregazione sociale tra
individui e gruppi umani.
Al contrario, mentre a livello globale la
potenza informativa cresce, a livello locale la
capacità d’interazione e di aggregazione
sociale diminuisce.
Così che ai legami forti della comunicazione
istantanea
vanno
progressivamente
sostituendosi
i
legami
deboli
della
informazione in tempo reale.
La globalizzazione cui la metafora del
villaggio globale allude è un fenomeno assai
complesso e controverso, che non può
essere letto semplicemente nei termini di un
processo di crescita dell’unità mondiale;
soprattutto se si considerano la natura
frammentata dei processi che hanno portato
differenti parti del mondo a sviluppare
reciproche interrelazioni, e le grandi disparità
di ricchezza, di potere e di condizioni di vita
che ancora oggi separano i paesi
industrializzati da quelli che non lo sono, ma
dove vive la maggior parte della popolazione
del pianeta.
La globalizzazione - come afferma Z,
Bauman (1) - «divide tanto quanto unisce»;
anzi, «divide mentre unisce» poiché, in
parallelo al processo di globalizzazione, si è
innescato
anche
un
processo
di
localizzazione, e l’interconnessione tra questi
due processi ha comportato una drastica
differenziazione delle condizioni in cui vivono
intere popolazioni, e vari segmenti all’interno
delle singole popolazioni. Così, mentre per
alcuni la globalizzazione segnala nuove
libertà e privilegi, per molti altri discende
come un destino non voluto e crudele, come
un segno d’inferiorità e degradazione sociale.
(1) Bauman Z., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza,
Roma-Bari 2001.
Essere locali in un mondo globalizzato - nel
quale sono i globali a fissare le regole del
gioco sociale - rappresenta, infatti, per milioni
d’individui, una condizione difficilmente
sopportabile, soprattutto perché gli spazi
d’interesse
pubblico
sfuggono,
oggi,
all’ambito della vita localizzata e i luoghi
stanno perdendo la loro capacità di generare
e imporre significati all’esistenza umana.
Tuttavia, se i centri nei quali oggi si
producono
significati
e
valori
sono
extraterritoriali, cioè avulsi da vincoli locali,
non lo è la condizione umana che a tali
significati e valori deve continuare a dare
forma e senso.
Come avviene, oggi, questa ricerca di senso?
Secondo Bauman (1), immersi come siamo in
un
mondo
imprevedibile,
fatto
di
liberalizzazione, flessibilità, competitività, «il
nostro io ci appare l’unico elemento stabile
nel bel mezzo di un mondo estremamente
volatile».
Così, per trovare rimedio ai disagi
dell’incertezza,
ricorriamo
all’autopreservazione e investiamo sulla
«integrità del nostro corpo e di tutte le sue
estensioni e baluardi: la nostra casa, i nostri
beni».
(1) Bauman Z., Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari 2001.
Ma questa strategia non può sortire gli effetti
desiderati, perché non intacca le radici
dell’insicurezza.
Al contrario, il ripiegamento sulle risorse e
sulle capacità individuali finisce con
l’alimentare maggiormente nel mondo
quell’insicurezza che tentiamo di rifuggire.
In realtà ciò che ci manca è la comunità, ma
essa «resta pervicacemente assente […]
perché la direzione in cui questo mondo ci
sospinge nel tentativo di realizzare il nostro
sogno di una vita sicura non ci avvicina
affatto a questa meta» (1).
(1) Z. Bauman, Voglia di comunità, op. cit.
Questa voglia di comunità che pervade la
società globale, e si esprime in una inedita
centralità della comunicazione e degli strumenti
di cui essa oggi dispone, costituisce uno degli
aspetti più interessanti e controversi della
globalizzazione.
In essa si può intravedere la persistenza nel
tempo dell’originario legame semantico che
tiene insieme comunicazione e comunità, le
quali si rimandano l’una all’altra.
Infatti, se il termine comunità, provenendo
dall’espressione latina cum munus, allude al
dono del legame reciproco, il termine
comunicazione, provenendo dal verbo latino
communico, allude all’idea stessa di costruzione
di una comunità.
D’altro canto, in sintonia con le trasformazioni
in atto nei processi comunicativi, vanno
emergendo nuove forme d’interazione e di
aggregazione sociale che evidenziano, in
maniera
emblematica,
la
costitutiva
provvisorietà e revocabilità dei legami odierni.
Si pensi, ad esempio, alle nuove forme
comunitarie di cui parla Michael Maffesoli (1),
che si configurano come tribù nelle quali ci si
riconosce sulla base della “emozione
condivisa”, o alle comunità virtuali che
popolano il cyberspazio, la cui connotazione
“leggera” e “nomade” è stata efficacemente
descritta da Pierre Lévy (2).
(1) Maffesoli M., Del nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, Franco Angeli,
Milano 2000.
(2) Lévy P., Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano
2000.
Pertanto, se - oggi come ieri - comunicare
significa fare comunità, e la comunità locale o virtuale che sia - implica sempre
la costruzione di legami che si fondano su
affetti, interessi, linguaggi e solidarietà
comuni, non vi è dubbio che una delle
contraddizioni più acute della condizione
umana dei nostri tempi - con le sue
conquiste di libertà e le sue perdite di
sicurezza - consiste, proprio, nella
costitutiva provvisorietà e revocabilità dei
legami odierni.
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