Futuri «Este mundo esta embarazado de otro mundo posible, diferente y dificil da parir pero que ya esta latiendo». • Arjun Appadurai è nato a Mumbay nel 1949. Ha studiato e vive negli Stati Uniti. E’ considerato uno dei massimi esponenti degli studi postcoloniali. I suoi lavori sono principalmente dedicati allo studio delle riconfigurazioni culturali tipiche della «modernità diffusa» causate dai processi di globalizzazione e dall'avvento dei nuovi media. • Il 40% degli abitanti di Mumbai (circa sei milioni di persone) vive in baracche o altre forme degradate di abitazione. • Gli slum coprono tuttavia meno del 10% del territorio urbano. • Attualmente diverse associazioni locali e internazionali sono mobilitate per dare voce agli abitanti degli slum. Gli orientamenti nei confronti del futuro sono parte della cultura. In particolare, ne è parte la «capacità di aspirare» • Le aspirazioni sono orientamenti attivi nei confronti del futuro. Le aspirazioni sono qualcosa di simile a dei «desideri disciplinati», cioè desideri posti in relazione con il principio di realtà (per come il soggetto ha modo di intendere la realtà, naturalmente): avere certe aspirazioni non significa infatti meramente desiderare, sperare o attendersi che qualche cosa accada, significa immaginare obiettivi plausibili e disporsi a corsi d’azione che al raggiungimento di questi obiettivi paiono adeguati. Le aspirazioni si riferiscono ad un nonancora (l’obiettivo, per definizione, non è ancora stato raggiunto), ma sono anche una modalità del presente. Aspirare a qualcosa vuol dire dare un senso al futuro: ma lo si fa nel presente, e il senso del futuro si riverbera così sul senso dell’ora, che dalla presenza dell’aspirazione è modificato. Chi aspira a qualcosa è più vigile di chi non ha aspirazioni, è attento alle opportunità che all’aspirazione possono venire connesse (e che solo l’aspirazione, in verità, permette di considerare tali); è attivamente aperto al possibile. • Compito delle politiche pubbliche volte al contrasto della povertà è innanzitutto quello di favorire la capacità dei poveri di nutrire aspirazioni. Le aspirazioni “non sono mai semplicemente individuali […]. Prendono sempre forma in stretta connessione con la vita sociale” . In altre parole: non è possibile aspirare a qualcosa in modo avulso da come il futuro è inteso socialmente, e dall’insieme di previsioni (riguardo ai contesti in cui opera, e riguardo alle proprie possibilità di successo) che si può ragionevolmente considerare. Tanto gli obiettivi cui appare sensato aspirare, quanto il sistema di previsioni sul cui sfondo si dipana il progettato corso d’azione dipendono dai contesti sociali, e sono interiorizzati dagli attori come parametri che disegnano il solco entro cui le aspirazioni soggettive si collocano. La sociologia sa da tempo che esistono “quadri sociali” della memoria: ma esistono quadri sociali anche per il futuro. Per Halbwachs, la memoria non è mai un fatto esclusivamente individuale. Essa è sorretta da quadri sociali che rendono conto dei nostri criteri di selezione e di interpretazione dei ricordi. La “memoria collettiva” è l’insieme delle rappresentazioni del passato che ogni gruppo produce, custodisce e trasmette attraverso la comunicazione dei suoi membri. I contenuti della memoria collettiva possono riguardare eventi accaduti durante la vita dei membri attuali di un gruppo oppure eventi riguardanti un passato più remoto. La memoria collettiva può assumere una veste più o meno istituzionalizzata, oggettivandosi in pratiche specifiche, in luoghi o in artefatti significativi, ma la sua origine e la sua riproduzione si situano comunque al livello delle pratiche comunicative di cui la vita sociale è intessuta. Nel corso di queste pratiche si verificano processi di selezione del passato rilevante che possono basarsi su criteri consensuali o essere oggetto di conflitto. In ogni caso, questi processi non sono mai indipendenti dalla struttura di potere che di volta in volta caratterizza il gruppo o la società. Quanto più la società è complessa, tante più sono le memorie collettive che ospita. Tali memorie si confrontano nella sfera pubblica. La sfera pubblica comprende, fra altri discorsi, anche discorsi che riguardano rappresentazioni del passato. L’insieme di queste rappresentazioni può essere definito «memoria pubblica». La memoria pubblica definisce i criteri di rilevanza e di plausibilità al cui interno le memorie individuali e collettive devono collocarsi per avere credibilità. E’ a ciò che ci riferiamo quando parliamo di «quadri sociali» della memoria. • Per quanto riguarda il futuro, il quadro sociale entro cui esso è stato immaginato nella modernità è stato fornito fino ad oggi, in gran parte, dalla grande narrazione del progresso. Il progresso è una credenza: la credenza che - a livello della società nel suo insieme - domani sarà migliore di oggi. Si tratta di una interpretazione del mutamento. E’ una credenza che esprime il nocciolo dell’esperienza moderna: la percezione dell’emergenza continua di novità difficilmente comparabili con qualunque passato. Questo nocciolo ha una potenza spaesante: ma il concetto di progresso la attenua interpretando il mutamento in positivo, come processo benefico, e spingendo a selezionare le evidenze a conferma di tale positività ed a rimuovere le evidenze contrarie. La modernità non è mai stata una sola. Anche il progresso ha così conosciuto differenti versioni. Con accenti variabili, ha corrisposto a programmi orientati allo sviluppo di scienze e tecnologie, all’aumento dell’istruzione e della partecipazione politica, alla crescita delle capacità produttive e del benessere materiale e quasi sempre, almeno in linea di principio, alla distribuzione universale dei benefici prodotti. Ma insieme, e soprattutto, ha corrisposto all’attesa fiduciosa che questi programmi si realizzassero. L’idea di progresso non è mai stata esente da critiche e non è mai stata disgiunta da contrappunti nostalgici, ma è stata un’interpretazione largamente egemonica. Si è trattato di un quadro di senso entro cui certe aspirazioni sono state socialmente plausibili e sono state legittimate dall’aspettativa che fosse la società tutta a muoversi “in avanti”, verso un futuro migliore. L’idea di progresso è entrata in crisi a livello di massa nei paesi occidentali negli ultimi trent’anni. La fiducia nel futuro sembra essere stata sostituita da un regime di attese più incerto. Come scrivono alcuni, l’apprensione sembra diventata la “tonalità emotiva oggi predominante”. La prima erosione massiccia della fiducia nel progresso che si era diffusa in Occidente nel secondo dopoguerra è avvenuta negli anni ottanta. Dall’incidente di Chernobyl (1986) in avanti si è cominciato a percepire che lo sviluppo scientifico e tecnologico dà luogo a rischi imprevisti, i cui effetti non hanno confini. E’ ciò che, nello stesso anno di Chernobyl, teorizzava Ulrich Beck. Pennac, a settembre 2012 a Torino la messa in scena di Sesto continente Un paradossale apologo sullo sporco e sul pulito raccontato attraverso tre generazioni di una famiglia: il nonno minatore che come riscatto dal buio e dal carbone si mette a fabbricare sapone, suo figlio che trasforma quella piccola impresa artigianale in una industria della pulizia. E infine il nipote Theo, un idealista deciso a diventare il pulitore del mondo, che risolve il problema della polluzione universale scaricandola in una zona incontaminata del Pacifico. «Tutto nasce dall'idea di portare in scena una storia sul sapone - racconta Pennac -. Con la regista e gli attori abbiamo cominciato a discutere sui binomi pulizia-ricchezza, povertà-sporcizia. Associazioni che innescano paradossi pericolosi, perché più ci si lava, più si tiene pulito il nostro habitat, più si inquina il pianeta». Fra gli altri e più recenti fattori di incertezza contano l’autonomizzazione del sistema finanziario dall’economia reale, la riorganizzazione in chiave post-fordista del lavoro, la parziale ritirata dei sistemi di welfare pubblico in Europa. Tutto ciò ha effetti soprattutto sul nerbo della società novecentesca, i ceti medi, la cui posizione oggi è in bilico entro processi economici che provocano una nuova tendenza alla polarizzazione della stratificazione sociale. Nel gennaio 2012 è stato il presentato in Italia il Rapporto OCSE - Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising. L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico) (OECD in inglese; OCDE in francese) è un’organizzazione internazionale che si occupa di studi economici. Ne sono membri attualmente 34 paesi, aventi in comune un sistema di governo di tipo democratico ed un’economia di mercato. • Membri dell’OCSE: Australia, Austria, Belgio, Canada, Cile, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Islanda, Israele, Italia, Lussemburgo, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Repubblica di Corea, Repubblica Slovacca, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria. • Per l’insieme dei paesi OCSE gli studi confermano che la disuguaglianza del reddito e l’indice di diffusione della povertà (calcolato secondo una soglia del 50% rispetto al reddito medio) sono aumentati fra gli anni ottanta ed oggi. La tendenza all’aumento della disuguaglianza è diffusa e concerne due terzi dell’insieme dei paesi esaminati. Tale aumento è moderato ma significativo, anche se meno accentuato e meno uniforme rispetto a quanto riportato dai media. In particolare, fra il 2000 e il 2008, la disuguaglianza del reddito è aumentata in modo significativo nel Canada, in Germania, in Norvegia, negli Stati Uniti, in Italia e in Finlandia ed è diminuita nel Regno Unito, nel Messico, in Grecia e in Australia. I redditi da capitale e da lavoro sono distribuiti in generale in modo molto disuguale, e nell’ultimo decennio tale disuguaglianza si è accentuata. Tale tendenza spiega in gran parte l’ampliamento delle disuguaglianze. Esistono anche disuguaglianze generazionali. In proposito, in Italia, sono importanti le ricerche coordinate da Antonio Schizzerotto (Vite ineguali, Il Mulino, 2002, e Generazioni diseguali, Il Mulino, 2011). Per le generazioni entrate nel mercato del lavoro sino agli anni ’50 le prime occupazioni sono state molto spesso irregolari, cioè prive di ogni protezione, mentre quelle entrate negli anni ’60 e ’70 quasi sempre hanno potuto avere fin dall’inizio rapporti di lavoro dipendenti a tempo indeterminato, cioè con le più elevate garanzie. L’accesso dei giovani a relazioni di lavoro protette torna a ridursi per le generazioni che entrano nel mercato del lavoro negli anni ’80 e ’90, quando in numero crescente cominciano a lavorare con occupazioni dipendenti a tempo determinato o con rapporti del tutto atipici, quali le collaborazioni. In sintesi, i risultati di Schizzerotto descrivono la difficile situazione in cui si trovano i giovani nati dalla fine degli anni ’60 in avanti: questi, rispetto ai loro genitori, riescono a rendersi indipendenti dalla famiglia di origine in età più elevata, incontrano maggiori ostacoli nella ricerca del primo lavoro, sopportano più elevati rischi di instabilità occupazionale e hanno minori opportunità di carriera nella loro vita lavorativa. In Vite ineguali Schizzerotto osserva che «i trentenni e i ventenni di oggi costituiscono le prime due generazioni del XX secolo a non essere in grado di migliorare le proprie prospettive di vita rispetto a quelle delle generazioni dalle quali discendono». In Generazioni diseguali nota che per certi versi i giovani di oggi in Italia stanno meglio dei loro predecessori: sono più istruiti, hanno speranze di vita più lunghe, dispongono di un servizio sanitario pubblico nazionale, vivono in un contesto normativo più aperto (es.: la contraccezione fino al 1971 era un reato!) e dove le diseguaglianze di genere sono meno marcate, possono contare su una diffusa presenza di patrimoni famigliari. D’altro canto, entrano nel mercato del lavoro in una fase in cui la crescita economica è diminuita o azzerata, hanno meno tutele sul lavoro, possono contare su stipendi relativi e garanzie previdenziali inferiori, e si trovano in generale in un contesto che non favorisce l’eguaglianza delle opportunità. Questi fattori negativi sono meno marcati in altri paesi europei, dove i giovani, a parità di istruzione, possono contare su remunerazioni e possibilità di carriera più consistenti e su sistemi di welfare dedicati più articolati. In ogni caso esistono in tutta Europa marcati squilibri territoriali, oggi all’origine di consistente flussi migratori giovanili. La crescente incertezza e la contrazione del ventaglio delle chances richiedono una sorta di «flessibilizzazione» delle aspirazioni dei giovani di oggi rispetto a quelle delle generazioni immediatamente precedenti. Va notato tuttavia che le aspirazioni si formano in parte nei processi di socializzazione e hanno dunque una certa dose di rigidità: sono segnate dalle esperienze delle generazioni precedenti non meno che dalla situazione attualmente percepibile. Fra le promesse del progresso, una certa nozione di equità distributiva, almeno in quanto equità di distribuzione delle chances, è sempre stata presente. Ma questa oggi è in forse. Specialmente fra membri delle classi intermedie e fra i giovani si può credere che un certo progresso ci sia ancora, ma è difficile credere che ci sia per tutti. Questo sospetto può generare risentimento. I movimenti regionalisti delle regioni più forti, i comportamenti delle classi più agiate, i moti corporativi di tanti gruppi sociali nelle società occidentali contemporanee, hanno qui la loro origine. La fiducia nel progresso generalizzato includeva. La prospettiva di un progresso selettivo divide. E’ sullo sfondo di tutto ciò che vanno comprese le aspirazioni e le pratiche di molte persone nei paesi occidentali contemporanei. Le differenze in questo sfondo rendono conto peraltro delle differenze esistenti in altre parti del mondo riguardo alla percezione di una «crisi del futuro». • Tornando all’Occidente, né i tentativi individuali e collettivi di difendere o conseguire posizioni di privilegio, né la stessa eventualità di una ripresa economica, fanno i conti con le contraddizioni più profonde e di lunga durata che caratterizzano il modello di sviluppo fin qui perseguito dalle società moderne. Se rammentiamo ciò che abbiamo detto più sopra riguardo agli effetti inintenzionali del progresso, si comprende come Benasayag e Schmidt possano affermare: «Se tutto va per il meglio, se le cose continuano il loro corso senza incidenti, l’avvenire dell’umanità e della terra sono più che compromessi». Fra le proposte teoriche disponibili vi è oggi la teoria della «decrescita», che ipotizza un mondo diverso dall’attuale, in cui sia possibile vivere meglio lavorando e consumando di meno. In questa prospettiva, l’idea di progresso si sgancia da quella della crescita economica. Ciò che si prospetta è una «rivoluzione dolce», che favorisca lo sviluppo di tecnologie che riducono il consumo di energia e di risorse, l’inquinamento e la quantità di rifiuti prodotti; che favorisca politiche capaci di valorizzare i beni comuni e la partecipazione delle persone alla gestione della cosa pubblica. Ciò a cui sembra ragionevole por mano è una revisione dei contenuti dell’idea stessa di «progresso». Ciò che Taguieff ritiene inservibile è l’interpretazione del progresso in chiave “necessarista”, cioè tanto la credenza nel suo automatismo quanto la fiducia nel fatto che ogni aspetto del progresso si dispieghi di conserva: dagli ambiti scientifici e tecnici a quelli sociali, morali e politici. Al progresso come credenza, egli propone di sostituire il progresso come volontà. Scrive Taguieff: “alla fittizia necessità del Progresso si potrebbe sostituire la […] volontà più modesta di realizzare questo o quel progresso in un dato ambito” . Quella che si potrebbe salvare è una nozione che “non rinvii più al progresso (al singolare) ma a dei progressi (al plurale)” . Che includa prudenza e responsabilità. Il nuovo, in se stesso, non è sempre una garanzia di miglioramento. Scrive Taguieff: «Dopo l’epoca della trasformazione frenetica, irresponsabile, i cui effetti distruttivi sono ormai attestati, potrebbe aprirsi l’epoca della preservazione intelligente, fondata sulla volontà consensuale di rispettare il passato e di gestire la Terra». • Rinunciare all’idea che il progresso sia una «necessità» storica». • Rinunciare all’idea che ogni ambito della vita ne sia coinvolto, ma conservare l’idea che in un dato ambito certi miglioramenti siano possibili. • Riscoprire un senso dei limiti e riattivare un senso di responsabilità. • Prospettiva femminista: progresso come crescita della capacità di «prendersi cura» della vita, degli esseri umani (noi stessi e gli altri) e del pianeta. Se il progresso non è «necessario», il corso della storia dipende pienamente dalla nostra responsabilità. Ritorna la filosofia della storia di Weber: la storia è un conflitto di valori. Se vogliamo conservare la nozione di progresso, si tratta anche di lavorare attorno ai suoi contenuti. Qui conta la valutazione della qualità di aspirazioni diverse. Ma contano anche le previsioni diffuse. La definizione dei futuri probabili, possibili o impossibili ha infatti effetti concreti sui comportamenti: le previsioni a riguardo sono di conseguenza oggetto di dispute, di strategie comunicative, di manipolazioni da parte di diversi attori e poteri. Poiché ciò che immaginiamo possibile è parte dell’orizzonte che ci condiziona, ogni definizione a riguardo ha qualcosa di una profezia che si auto-adempie: se consideriamo possibile un certo scenario, contribuiamo a realizzarlo. (Si rammenti in proposito il concetto di Merton della profezia che si autoadempie). Ma la logica della self-fulfilling prophecy non esaurisce i modi in cui le previsioni influenzano quello che avviene: di fronte alla ragionevole probabilità di una catastrofe, ad esempio, prevederla significa aumentare le possibilità di evitarla, attrezzandosi di conseguenza; al contrario, nasconderla può significare solo rimanere inermi a riguardo.