Capitolo 3
Isacco, il figlio
Nella Genesi la figura di Isacco sembra sbiadita, scialba e ripetitiva. Infatti quando la Genesi parla di Isacco lo fa in riferimento al gigantesco padre Abramo, oppure in relazione a Giacobbe, il figlio, altra figura imponente. L’unico capitolo dedicato totalmente a Isacco è il cap. 26.
1. Isacco, «ripetitore» delle vicende del padre Abramo?
1.1. Di nuovo la carestia (Gn 26,1-6)
Una carestia costringe Isacco a rivolgersi al re di Gerar, Abimelech, sovrano di una città-stato filistea, il quale aveva già avuto contatti con Abramo (Gn 20 e 21,22-34). E’ da notare che in questo
caso Dio interviene e, a differenza di Abramo, vieta a Isacco di recarsi in Egitto (vv. 2-3) e ribadisce la promessa fatta ad Abramo (vv. 3-5). E’ da notare che quest’ultima è strettamente legata
all’obbedienza di Abramo: «Abramo obbedì alla mia voce e osservò ciò che io gli avevo detto di
osservare» (v. 5). Isacco sarà un testimone del compimento di queste promesse. Isacco crede a questa promessa e, come aveva fatto suo padre, l’accoglie nell’obbedienza. Così rimane in Gerar (v. 6).
1.2. Rebecca e Abimelech (Gen 26,7-11)
Isacco teme di essere ucciso dagli abitanti di Gerar, attirati dalla bellezza di Rebecca e perciò la
fa passare per sua sorella. Ma il re Abimelech scopre la verità del rapporto che intercorre tra i due
vedendoli per caso teneramente abbracciati nella casa che li ospitava. Segue un interrogatorio piuttosto teso tra Isacco e il re che mostra il rischio di adulterio in cui sarebbero incorsi i cittadini di Gerar, qualora avessero preso in moglie Rebecca, e che si conclude con una solenne sanzione protettiva per la coppia.
Questo episodio è un evidente parallelismo con Gen 12,10-20 (Abramo in Egitto) e 20,1-18 (Abramo a Gerar). La triplice ripetizione di un simile episodio sta a significare che l’uomo è lento a
capire, ma che Dio non se ne meraviglia. Infatti, il cadere e ricadere non è grave; ciò che lo è, invece, è nel nostro non essere umili e disponibili alle continue riproposte di Dio sul cammino da percorrere, attraverso l’infusione della «buona notizia». Israele racconta questi episodi tre volte (che
vuol dire sempre) perché così per lo più avviene.
1.3. I pozzi di Isacco (26,12-25.32-33)
La prosperità bussa alla porta di Isacco al punto tale da renderlo un ricco proprietario. La promessa e la benedizione divina stanno attuandosi in pienezza. Ma scatta l’invidia degli abitanti della
città (vv. 12-14) che vedono con ostilità l’accrescersi della potenza di un estraneo e non gli riconoscono alcun diritto né di proprietà («L’acqua è nostra! », v. 20) né di residenza («Vàttene via da
noi», v. 16). Quindi seguono delle azioni di sabotaggio (gli otturano con la terra i pozzi ricevuti in
eredità dal padre Abramo) e con il comando esplicito di Abimèlech loro re (v. 16) lo cacciano via
(vv. 15-17).
Isacco però rinuncia alla forza per difendere la proprietà e, accettando l’invito di Abimelech, ritorna in Gerar. Qui «Isacco tornò a scavare i pozzi d’acqua che avevano scavati i servi di suo padre
Abramo...e li chiamò come li aveva chiamati suo padre» (v. 18). Fa anche scavare un nuovo pozzo,
che diviene motivo di litigio con i residenti, come a suo tempo era successo la padre Abramo (cfr.
21,25-31). Il patriarca non si perde d’animo: non fa questioni, si allontana di un po’ e riprende la vita di sempre. Almeno tre volte si ripete la storia, a indicare la fatica nel trovare un luogo in cui vivere in pace e la costanza nel non rispondere con violenza. Il comportamento di Isacco ci richiama la
beatitudine di Gesù: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,5).
Nell’ultimo luogo, Bersabea (Beer Shaba = Sette [shibea] pozzi (v. 33) o «Pozzo del giuramento» [vv. 26-33] o «delle Sette pecore» [21,27-31]), Isacco riceve un’ulteriore visione da parte del
Signore (cfr. v. 23), accompagnata da una parola-promessa (vv. 23-24) alla quale il patriarca risponde ripetendo il gesto del padre: la costruzione di un altare (v. 25; cf. 12,7-9).
1.4. Il patto di alleanza (26,26-33)
Da Berasabea Isacco non verrà cacciato; anzi, proprio lì concluderà un patto di non belligeranza e
di buon vicinato con Abimèlech, re di Gerar, che venne sigillato con un banchetto di alleanza (v.
30), come a suo tempo aveva fatto il padre (cfr. 21,22-33 ove si parla di berit = alleanza). Così Isacco può vivere in pace (be-shalom; vv. 29.31), godendo della benedizione del Signore (vv. 28-29)
della quale l’acqua è un segno tangibile (vv. 32-33).
1.5. Isacco: l’erede
Già in questi primi episodi, ma anche nei seguenti del cap. 26, vediamo che Isacco ripete le vicende vissute dal padre Abramo. Egli è l’erede della fatica da pioniere compiuta da suo padre.
L’erede è colui che riceve tutto il patrimonio che qualcun altro ha accumulato, fatto non solo di ricchezza ma anche di valori e di tradizioni. Abramo non ha un passato, ma solo un futuro, mentre Isacco ha un passato al quale potersi continuamente rapportare, per cui si trova in una situazione di
privilegio rispetto ad Abramo.
C’è però anche un possibile risvolto negativo per chi eredita un patrimonio, ed è quello di sentirsi
inevitabilmente quasi schiacciato dalla figura che lo precede. La ripetizione delle azioni del padre
sembra mostrarci un Isacco che costantemente si deve misurare con Abramo per il quale ha una
grandissima venerazione. Un Isacco quindi ben poco autonomo, per cui tutta la sua iniziativa consiste nel ripetere in tutto e per tutto il percorso compiuto da Abramo con la genialità del pioniere.
Il patrimonio di Isacco si moltiplica a dismisura, tanto da diventare ricchissimo (cf. 26,13-14) – a
differenza di Abramo che era benestante – suscitando l’invidia dei Filistei. Isacco è il primo dei patriarchi che può liberamente seminare e raccogliere su di un terreno che è suo (segno, quindi, che la
benedizione divina continua a compiersi). Tutto questo accade a causa della benedizione del Signore; Isacco è ricchissimo e sa agire in modo responsabile nell’amministrazione del patrimonio paterno.
Noi cristiani dovremmo confrontarci in profondità con la figura di Isacco, perché come lui siamo
eredi, coeredi di Cristo, come ripete continuamente San Paolo. Nella storia della salvezza non ci sono solo gli iniziatori, ma anche gli eredi. Noi cristiani non siamo chiamati ad essere iniziatori come
Cristo, ma ad essere eredi con tutti i vantaggi e la debolezza degli eredi. Noi non dobbiamo inventare nulla perché il Signore ci ha dato un immenso patrimonio; questo è il senso della parabola dei talenti che non sono soltanto le doti naturali, ma anche lo straordinario patrimonio di grazia che il Signore ci ha conquistato attraverso la sua morte in croce. Nel vangelo di Giovanni è detto che noi
raccogliamo dove altri hanno seminato e faticato. La nostra vita consiste nel saper gestire gioiosamente e responsabilmente un patrimonio che ci è stato donato.
1.6. Isacco: il figlio che si rallegra di essere tale
Isacco vive la sua esistenza ricalcando le orme del padre, addirittura ridà lo stesso nome ai pozzi.
Inoltre è un uomo sereno, sicuro di sé, che non ama litigare, abituato a fronteggiare situazioni di
emergenza. Non è un pioniere, ma sa vivere in pace le diverse situazioni: questa è la sua eredità più
grande.
Ancora una volta diciamo che Abramo è il padre; Isacco è l’erede, ma è anche il figlio. Possiamo
rileggere la figura di Isacco alla luce di Gesù, di cui egli è prefigurazione. E Gesù, parlando della
sua relazione con il Padre, afferma: «In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se
non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa» (Gv 5,19). Un padre dà tutto quello che ha e tutto quello che è al figlio; tutto, tranne una cosa che non può dare: la paternità.
«Chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Gv 12,45). Noi vediamo il Padre nell’obbedienza
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del Figlio che si abbandona liberamente e spontaneamente alla volontà paterna che vuole che tutto
arrivi a salvezza. Quando percepiamo che il valore più grande per un figlio è far suo liberamente e
spontaneamente il cuore del Padre, allora vediamo che c’è qualcosa di grandioso ed esaltante
nell’obbedienza di Isacco; quindi non è un personaggio quasi vuoto, schiacciato dalla figura del padre Abramo. E’ l’interiorità con la quale Isacco vive queste vicende che fa la sua grandezza; è proprio la sua obbedienza di figlio che fa tutta la volontà del padre, che rende esemplare Isacco e ogni
cristiano nella sua situazione di figlio ed erede.
Isacco ci insegna ad essere eredi e figli responsabili come lo è Cristo rispetto al Padre. Essere dei
continuatori e non degli iniziatori è un aspetto della vita di fede che esige un armamentario di attitudini mentali e di virtù che non sono quelle del pioniere, dell’inventore, del creativo, ma che esigono fermezza, fedeltà, pacatezza, assimilazione di tutti i valori che ci sono alle spalle.
Isacco è il figlio che si rallegra di essere tale. La grandezza di Isacco sta tutta qui: non si sente
vittima nell’essere figlio di Abramo, ma la figliolanza è accettata ed assunta.
2. Esaù e Giacobbe (25,19-26)
2.1. Il contrasto dei figli
A Isacco gli si presenta un conflitto familiare: ha a che fare con dei figli che con i loro litigi mettono a repentaglio la tranquillità della sua famiglia. Nel libro della Genesi questi litigi sembrano una
prerogativa dei fratelli che interesserà anche i dodici figli di Giacobbe. Questi episodi ci indicano
che la storia è il luogo dove la riconciliazione e la comunione non è un punto di partenza ma di arrivo.
Nelle tensione tra i due figli e fratelli la Bibbia riconosce e tipizza il rapporto tra Israele e le nazioni, Israele e le genti, il popolo di JHWH e gli altri (i goyim).
In Gn 25,19-27 c’è un segno premonitore di questi litigi («i figli si urtavano nel suo seno» - v.
22) per cui Rebecca ne chiede spiegazione al Signore. Il Signore le rispose: «due nazioni sono nel
tuo seno e due popoli dal tuo grembo si disperderanno; un popolo sarà più forte dell’altro e il maggiore servirà il più piccolo» (v. 23). Questi due fratelli gemelli sono veramente diversi. Nella Bibbia
le diversità esistono, devono essere accolte, ma normalmente all’inizio producono delle conflittualità.
2.2. La liberalità dell’elezione divina
La storia di Giacobbe e di Esaù racchiude una grande lezione sulla «giustizia». Questa è radicalmente differente a seconda che si tratti della «giustizia di Dio» e della giustizia umana. Se
quest’ultima insiste nel «dare a ciascuno quello che gli spetta», è evidente che nulla spetta alla creatura nei confronti del Creatore. Ben diversa, invece, è la «giustizia di Dio» che sconvolge i criteri
umani.
«Quando essi (i figli di Rebecca) ancora non erano nati e nulla avevano fatto di bene o di male - perché rimanesse fermo il disegno divino fondato sull’elezione non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama - le fu dichiarato: Il maggiore sarà sottomesso al minore [Gen 25,23], come sta scritto: Ho
amato Giacobbe e ho odiato Esaù [Ml 1,1-5]. Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio?
No certamente!» (cf. Rm 9,11-14).
Ciò significa che il Signore fece differenza (nell’amore) tra Giacobbe e Caino, come già lo fece
per Abele e Caino e, come più tardi, farà differenza tra l’Egitto e Israele. Il rapporto di Dio con gli
esseri umani non è guidato da monotoni criteri amministrativi di «giustizia umana», ma da quelli
dell’amore interpersonale, che è «in ogni caso differente», e «fa differenza» tra soggetti amati.
Così anche le scelte di Dio sono insindacabili. Così se egli ha scelto Giacobbe per realizzare la
promessa, ciò non significa che Esaù sia respinto da Dio. Si dà, anzi, per lui una «giustizia» che sarà
negata al fratello, pur essendo questi «l’eletto». Esaù continuerà ad abitare nello stesso paese, mentre Giacobbe collezionerà anni di esilio, dalla Mesopotamia all’Egitto, così che dirà al faraone:
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«Centrotenta di vita errabonda, pochi e tristi sono stati gli anni della mia vita e non hanno raggiunto il
numero degli anni dei miei padri, al tempo della loro vita nomade» (Gen 47,9).
Giacobbe conosce una sorte molto più dura del fratello. In un certo senso egli sconta il suo peccato. Tutta la sua storia è la narrazione di come Dio, da buon pedagogo, recupera Giacobbe e lo educa alla fraternità.
2.3. Chi è Esaù?
«Il primo uscì rossiccio, come un peloso mantello, e lo chiamarono Esaù» (v. 25). Con questa nascita di Esaù viene descritta l’origine del clan di Edom, nemico implacabile del popolo ebraico, che
abiterà le montagne di Seir1. Edom («rossiccio») in ebraico è in assonanza con dam («sangue») e
Seir è in assonanza con sa’ir («peloso»).
Il narratore prosegue presentando un Esaù che diventa «abile nella caccia, un uomo della steppa».
Esaù è amante della vita all’aria aperta, pronto a qualsiasi impresa. Ma, come afferma il midrash, è
anche, al contrario del fratello Giacobbe, un uomo che identifica se stesso con il proprio lavoro2. E’
presentato come un uomo certamente buono, ma anche un po’ stupido, rozzo, arruffone, amante
dell’avventura, improvvisatore, interessato soprattutto alle cose materiali, poco sensibile alle cose
dello spirito, che ha bisogno di soluzioni immediate. Ne è una chiara dimostrazione l’episodio che
segue poco sotto: per un piatto di minestra Esaù, che era tornato dal lavoro e si sentiva «sfinito»,
spossato, cede la primogenitura. Un uomo, quindi, che fa il suo dovere, ma che sembra poco idoneo
ad essere portatore delle benedizioni divine.
2.4. Chi è Giacobbe?
Il nome Giacobbe viene da ‘aqeb, che significa «colui che tiene il calcagno», oppure da ‘aqab
che significa «soppiantare». Giacobbe è colui che vuole soppiantare/ingannare (Esaù nel diritto di
progenitura), a fare lo sgambetto. E di fatto esso sarà duplice: prima acquista dal fratello la primogenitura; poi, ingannando il padre, ottiene anche la benedizione.
Inoltre Giacobbe ci viene presentato come «un uomo tranquillo, che dimorava sotto le tende»
(Gen 25,24-27). Giacobbe è astuto, ragionatore, abita sotto le tende, cosa che non significa necessariamente che sia pigro; è solo una persona che prepara i propri interventi con molta efficacia. Per
questo Giacobbe accetta il progetto architettato dalla madre Rebecca per essere benedetto dal padre
Isacco, non preoccupandosi né di approfittare del fatto che il padre anziano è mezzo cieco (v. 1), né
di sfruttare il suo desiderio di mangiare qualcosa di prelibato (v. 4), né di mentirgli ripetutamente
(vv. 18-27), né di procurargli dolore.
Fedele alle sue promesse ad Abramo Dio sceglie quest’uomo che, come vedremo, avrà per molti
anni una vita piuttosto «laica»; ma, una volta convertito, sarà un uomo diverso, un patriarca per
mezzo del quale passa ai discendenti la benedizione di Abramo.
2.5. Esaù cede la progenitura (Gen 25,29-34)
Abbiamo visto che questi due fratelli molto diversi: Esaù cacciatore, uomo della steppa; Giacobbe, uomo tranquillo, che si scomoda quel tanto che gli occorre per conseguire quello che ha progettato, ma che, comunque, si rivela molto lungimirante.
Nei vv. 29-34 del cap. 25 si parla del famoso episodio della primogenitura (che Esaù, senza
nemmeno rendersene conto disprezza, perché vede solo la sua fame) venduta per un piatto di lentic-
1
Si vedano in proposito 2Sam 8,13-14; 2Re 8,20-22; Am 1,11-12; Is 34; Ger 49,7-22; Ez 25,12-14; 35; Sal 136,7.
Ricordiamo che Erich Fromm nel suo Avere o Essere nota con interesse che oggi alla domanda «Chi sei?» uno risponde frequentemente con la sua attività: «Sono commerciante», «Sono architetto», «Sono insegnante». Ma noi sappiamo
che non siamo solo il mestiere che facciamo. E’ un modo riduttivo di concepire l’esistenza, chiuso solo all’orizzonte
terreno.
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chie3. Questo fatto ci rivela tutta la rozzezza di Esaù che non sa più valorizzare se stesso e le sue cose e che non merita nulla perché non sa essere custode di se stesso. E’ superficiale, non sa rinunciare a nulla per ottenere le cose, mentre per Giacobbe la rinuncia diventa l’appiglio, la giustificazione
morale per carpire veramente al fratello la primogenitura ed anche la benedizione del padre.
Questo episodio mi fa anche pensare alla parabola dei talenti o delle mine. Il servo che ha ricevuto un solo talento (o una sola mina) non sa gestire il dono ricevuto e quindi non contraccambia la
fiducia che il padrone ha riposto in lui. La fine della parabola è drammatica: «Toglieteli dunque il
talento e datelo a chi ne ha dieci. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi
non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà
pianto e stridore di denti» (Mt 25,29-30). Trafficare con i talenti, con i doni di Dio non è uno scherzo! Esige serietà e impegno. Esige la capacità di farli fruttare.
3. Isacco benedice Giacobbe (Gen 27)
In questo episodio Rebecca si rivela astuta, di quell’astuzia che passa al figlio Giacobbe. Deve
aver ideato da tempo l’inganno, curandone tutti i particolari. Per tempo avrà preparato le pelli dei
capretti con i quali ha rivestito le braccia e il collo di Giacobbe. E’ una donna abile e astuta. Ed è
disposta a tutto, rischiando anche di persona. Al figlio che oppone qualche perplessità di fronte al
“piano”, risponde: «Sia sopra di me la maledizione, figlio mio! Tu obbedisci soltanto…» (v. 13).
Dunque una donna che persegue il suo fine con tutti i mezzi.
Seguendo le indicazioni di Rebecca Giacobbe, davanti ai dubbi del padre, conferma la sua falsa
identità e dichiara che la selvaggina l’ha trovata prontamente perché gliel’ha fatta trovare il Signore.
Questa è una vera bestemmia! Viene citato il nome santo di Dio per confermare il valore del gesto
disonesto che Giacobbe sta compiendo. Da questo momento (Gen 27,30) il nome del Signore non
comparirà più per moltissimo tempo, esce di scena, come se fossimo in un orizzonte totalmente laico, che accantona l’intimità con Dio scaturita dalla vicenda di Abramo e di Isacco.
La storia della salvezza, quindi, non va avanti in maniera lineare, ma cammina perché è Dio a
condurla. Egli costruisce con ciò che gli mettiamo davanti. E se gli uomini possono fare, l’uno nei
confronti dell’altro, anche un gioco disonesto, violento, fedifrago, interessato, sgambettatore.... Dio
da parte sua è capace di fare il proprio purissimo gioco di «grazia» dentro i giochi degli uomini,
siano essi puliti o sporchi, onesti o disonesti, sinceri o doppi ecc.
Nei vv. 27-29 troviamo la duplice benedizione che Isacco pronuncia su Giacobbe: quella di fertilità («Dio ti conceda rugiada del cielo…»), così come sarebbe apprezzata da un popolo agricolo;
quella che concede il dominio su tutti i popoli (v. 29) e su Esaù («Sii signore dei tuoi fratelli»)4,
come verrà ribadito al v. 37; infine la relazione con il Signore che gli assicura la stessa protezione
offerta al nonno Abramo («Chi ti maledice sia maledetto e chi ti benedice sia benedetto! »; cf. 12,3).
Di fronte alla benedizione del fratello ci viene anche presentata la reazione di Esaù: «Quando Esaù sentì le parole di suo padre, scoppiò in alte, amarissime grida» (v. 34). Perché la benedizione
non si poteva ripetere? Perché una volta pronunciata essa, in modo efficace, trasmette una forza vitale, per cui non può essere né ritirata né ripetuta5. Il padre ha già trasmesso «tutto» a Giacobbe e
quindi non può benedire Esaù. Alla fine, di fronte al pianto disperato del figlio, Isacco decide di
pronunciare una specie di contro-benedizione (vv. 39-40): nessuna fertilità; conflitto e asservimento
nei confronti di suo fratello. Capiamo allora il rancore di Esaù (vv. 41-42) e il suo desiderio di vendicarsi uccidendo il fratello (v. 41).
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Questo fatto suppone non solo l’esistenza del diritto di primogenitura ma anche la possibilità di un suo trasferimento.
La figura giuridica del primogenito, a cui è assicurata la doppia parte dell’eredità paterna, compare nelle leggi assire e
nei testi di Mari, Ras Shamra e Nuzi. Questi ultimi prospettano anche il caso della rinuncia al diritto suddetto.
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Si ha così un’allusione alla storia futura, quando Davide asservì Edom.
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Anche in un testo tra quelli trovati a Nuzi le decisioni di un padre, vicino a morire, erano irrevocabili, e i diritti della
primogenitura erano concessi dalla discrezione del padre, e quindi non semplicemente dalla priorità cronologica dei figli.
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Isacco, il figlio