1950-2000
mezzo secolo di musica corale:
un’indagine semiografica
Alessandro Kirschner
Pubblicato in
Offerta musicale,
rivista fondata e diretta da Giovanni Acciai.
Anno II n.8, n.9
Ed. Carrara
2
1950-2000
Mezzo secolo di musica corale:
un’indagine semiografica.
Premessa
Questo breve scritto si pone l’obiettivo di indagare su una prassi notazionale comune che ha
coinvolto la scrittura per coro con o senza strumenti. Tale indagine verrà effettuata attraverso la
comparazione di alcuni brani di noti compositori europei, ritenuti esemplificativi di uno stile e di
una tendenza generalizzata. È importante sottolineare che il problema estetico-filosofico che porta
un compositore rispetto ad un altro ad adottare un tipo di grafia più o meno convenzionale, viene
qui trattato se non in parte, soffermandosi su osservazioni di carattere generale ed esecutivo.
Introduzione
Si può includere il concetto di notazione come soluzione alla necessità di memorizzare una
manifestazione reale o mentale. La notazione non è altro che una “mnemotecnica”, che ha avuto
uno sviluppo particolare a seconda della disciplina a cui si riferiva. La semiotica è la scienza che
studia la notazione, in altre parole lo studio del funzionamento dei segni in quanto veicoli di
conoscenza. Il concetto di notazione è legato all’esigenza di trovare un mezzo di comunicazione
comune che sia in grado di fissare un’idea che si trasforma in “segno”. Si può dire che la notazione
contiene in maniera inscindibile “memoria” e “progetto”, che possono altrimenti essere letti come
“passato” e “futuro”; racchiude il momento intuitivo-creativo e ha le premesse di una rivitalizzazione di tale idea primigenia.
Per quanto riguarda la notazione musicale, essa viene a porsi come anello fondamentale della catena
che porta dall’intuizione del compositore alla sua realizzazione sonora:
autore – grafia – interprete – suono
3
La grafia è quindi il ponte che permette la relazione tra compositore ed esecutore. Come elemento
mediale essa è necessaria sia al compositore che all’esecutore, ma crea tuttavia due differenti
modalità di interazione. Generalizzando si può dire che il compositore si serve della grafia per
fissare la musica, ha quindi con essa un rapporto di necessità per l’esternazione del proprio mondo
musicale1. Viceversa l’esecutore, tramite la grafia, entra in contatto con un universo che, più o
meno rapidamente, comincia ad appartenergli ed inizia a stimolare la propria personale creatività; la
notazione è quindi suggestivo e duttile mezzo per l’esecutore di lasciarsi penetrare e portare a nuova
vita l’intuizione di un’altra persona.
La partitura è perciò l’emblematico “garante dell’opera”2, vittima quasi di una suggestione
platonica che sembra animare trasversalmente il fragile rapporto tra molta produzione
contemporanea e la notazione alla quale si affida.
Mai come nel periodo 1950-70 si è potuto assistere ad un tale proliferare di grafie notazionali che
hanno reso la relazione oggettiva autore-interprete sempre più labile. D’altra parte questa estrema
soggettività notazionale ha reso necessaria un nuovo livello di comunicazione verbale da parte del
compositore verso chi si avvicinava alla sua opera con intento esecutivo.
Solo per dare un rapido sguardo d’insieme si può osservare come già in Webern questa relazione si
faccia fragile traducendosi in un minuzioso ordine di configurazioni, tali da rispecchiarsi in un muto
gioco di simmetrie che trascende la pura sonorizzazione in nome di un ordine superiore extramusicale.
Con autori come Xenakis il distacco da ogni pensiero musicale tradizionale si fa ancora più ampio:
la musica è traduzione in note di altre forme, magari già grafiche come si può riscontrare nella
tecnica delle arborescenze.3 La partitura diventa quindi un sovraccarico di informazioni tale da
trasformarla in struttura ideale “al di qua” di qualsiasi risultato sonoro.
Si giunge quindi con breve passo ad una notazione del tutto ermetica che fa dell’indecifrabilità un
valore ed un fine. È quello che avviene, ad esempio, in tanta musica di Bussotti, in cui la notazione
assume un ruolo, per così dire, oracolare da cui si fa dipendere l’interpretazione del segno. Prima
esiste il segno nella sua oscura concretezza, poi il suono o il gesto-suono nella sua incerta
1
È illuminante a questo proposito quanto affermava Franco Donatoni: “…io penso se scrivo; se non scrivo non penso
niente, non ho volontà”, come a dire che il pensiero compositivo risulta inscindibile da una prassi scrittoria.
2
Espressione utilizzata da Andrea Valle in La notazione musicale contemporanea pag. 173 EDT, Torino 2002
3
La “tecnica delle arborescenze” consiste nel prevedere la struttura melodica, polifonica e ritmica di un brano,
attraverso tracciati puramente grafici su carta millimetrata, tracciati che occorre poi trascrivere in forma musicale.
4
interpretazione.4 La realizzazione acustica di tale musica è ritenuta un semplice livello di
manifestazione non sempre biunivocamente legato all’opera in sé.
Daniele Lombardo5 è arrivato a sintetizzare il rapporto tra suono e grafia alla luce delle esperienze
musicali intercorse dagli anni ’50 fino ad oggi, attraverso quattro possibilità notazionali:
1.
Scrittura di progetto: è una scrittura che contiene informazioni più o meno precise per la
realizzazione di un evento sonoro.
2.
Musica da leggere e da vedere: consiste in scritture di progetti che sono destinati a
rimanere nel silenzio fisico, mediante una percezione diversa, oppure speculazioni
metatestuali sulla scrittura.
3.
Gradi intermedi di musica da leggere ascoltare e vedere: utilizzano forme diverse di
comunicazione dell’evento sonoro-gestuale.
4.
Musica solo da ascoltare: improvvisazione, rifiuto di un progetto esemplificativo.
A loro volta queste quattro possibilità possono essere così suddivise:
1) Scrittura di progetto
a) notazione tradizionale
b) scrittura di azione (codici d’azione, intavolature, diagrammi, segni ideografici, foto, testi
d’azione)
c) progetti per musica elettronica (progetti con cifrature particolari, diagrammi, segni
ideografici, appunti di testo e testi numerici)
d) computer music (programmi in codice, diagrammi)
e) poesia sonora (partiture verbali)
2) Musica da leggere e da vedere
a) Progetti di musica concettuale (metanotazioni, diagrammi, segni ideografici di poesia visiva,
testi di musica da immaginare)
b) Poesia visiva (uso decontestualizzato della notazione, disegni e foto, testi di poesia, di
azione, lettere, fonemi)
4
5
A. Valle op. cit. pag. 180
D. Lombardo Spartito preso: a proposito della scrittura musicale contemporanea Vallecchi Firenze, 1980
5
3) Gradi intermedi di musica da leggere ascoltare e vedere:
a) progetti per azioni interdisciplinari (notazione tradizionale, diagrammi segni ideografici,
testi di azione)
b) progetti supplementari (partiture d’ascolto, diagrammi-segni ideografici)
4) Musica solo da ascoltare
Ogni possibilità notazionale necessita poi di un codice che ne permetta la realizzazione. I codici,
segnati tra parentesi nello schema precedente, possono essere così riassunti:
•
Codice cifrato: è un sistema di segni convenzionali con un preciso statuto più o meno
complesso, ma che definisce lo svolgimento della composizione in modo tecnicistico.
Impone quindi un lavoro di analisi sorretta dalla conoscenza di tutte le nozioni tecniche che
il singolo tipo di scrittura implica. Oltre alla notazione tradizionale sono qui da includere
tutti i codici d’azione, le intavolature, i programmi informatici, le metanotazioni.
•
Codice visivo: vengono utilizzate delle immagini, che sottendono una raffigurazione o
dell’evento sonoro o dei gesti per produrlo. Si ascrivono a questo tipo di codice notazioni
ideografiche inserite in diagrammi o convenzioni spaziali diverse, foto o disegni di azioni
esecutive o di spazi dove compiere operazioni più o meno precisate.
•
Codice verbale: definizioni mediante testi linguistici di eventi sonori o delle istruzioni per
realizzarle.
Sono tuttavia rari i casi in cui una partitura scritta tra gli anni ‘50 e ‘70 utilizzi un solo codice
notazionale; nella maggior parte dei casi viene operata una contaminazione tra codici diversi. Si
può quindi spesso parlare di notazione mista, anche se spesso un codice prevale su un altro. Un
esempio emblematico di questo può essere la partitura di Spiegel II per archi di Freiderich Cerha
(esempio 1), che pur scritta in notazione tradizionale, realizzo l’intento di una scrittura costituita
da arabeschi di linee ondulate risultanti dagli attacchi e dalle chiusure dei singoli strumenti in
partitura. Ne nasce quindi una sintesi di effetti visivo-uditivi.
6
Esempio 1.
Freiderich CERHA,
Spiegel II
In conclusione a questa breve introduzione sulle diverse possibilità notazionali, è importante
notare come la scelta di una grafia non tradizionale coinvolga soprattutto l’atto creativo in sé,
sia esso quello del compositore, sia quello dell’esecutore. Infatti è stato sperimentato che la
notazione tradizionale ha la possibilità di trascrivere qualsiasi evento sonoro, dati i limiti fisici
dell’orecchio umano. Se si assume il valore limite di 50 millisecondi come soglia di
discriminazione percettiva delle durate,6allora è semplicemente necessario impiegare una
6
come nota Domenico Guaccero in Musica sperimentale a cura di A. Basso Enciclopedia storica della musica, UTET
Torino 1966, tale soglia di percezione è soggettiva da individuo ad individuo ed a seconda della intensità e della
frequenza del suono utilizzato. Tale imprecisione tuttavia non inficia l’argomentazione.
7
suddivisione in quintine del quarto a 240 di metronomo per trascrivere qualsiasi attacco7. La
scelta di adottare una scrittura di tipo diverso nasce quindi dall’atteggiamento diverso che il
compositore decide di assumere di fronte all’evento sonoro. Quello che è profondamente
cambiato in quest’ultimo secolo è proprio il concetto profondo di evento sonoro che si articola
nel tempo e nello spazio.
La notazione occidentale si è sviluppata nel corso dei secoli cercando di risolvere la
rappresentazione dei parametri altezza e sviluppo temporale dell’evento sonoro, ma bisogna
riconoscere che tuttavia le proposte a noi accessibili si siano occupate nella maggioranza dei
casi, a risolvere il problema delle altezze. Questo fenomeno è riconoscibile anche storicamente:
sono dovuti passare diversi secoli da che Guido d’Arezzo aveva risolto il problema delle
altezze, per trovare due tra i più semplici mezzi della nostra notazione: la stanghetta di battuta e
la legatura di valore.8
Guardando rapidamente a quello che è avvenuto nel secolo appena passato, si può subito notare
che già all’inizio del secolo è avvenuta una radicale trasformazione del concetto di tempo in
musica, che da Debussy conduce, passando per Strawinskij e Webern, all’avanguardia dei
Ferienkurse di Darmstadt e della scuola americana, e si può quindi a ragione sostenere
l’affermazione di Mario Bortolotto che “la neue Musik è la distruzione del beat”9. Tale
complicazione ritmica è stata risolta dai compositori della prima metà del secolo con una
iperprecisione ritmica che a sua volta è stata risolta con espedienti notazionali diversi: frequenti
cambi di metro, uso di raggruppamenti anomali rispetto al metro oppure una scrittura
poliritmica. Tale tendenza si enfatizza dopo la metà del secolo tanto che si può notare come
l’aritmia sia una delle caratteristiche generali delle produzione degli anni Cinquanta-Sessanta:
basti pensare ai giganteschi cluster di Ligeti, o alla composition as process di Cage, o alle masse
sonore di Xenakis. Il successivo ritorno ad una gestione del tempo in maniera più tradizionale
può essere letto come un modo per evitare indebite incursioni improvvisative in una avventura
sonora che cominciava ad apparire totalmente astratta.10
7
Tale argomentazione è sostenuta da A. Valle in op. cit. pag. 74.
Willi APEL, La notazione della musica polifonica, ed. Sansoni, Firenze 1984 pag. 92
9
Mario Bortolotto, Fase II, Studi sulla nuova musica pag. 17 Einaudi, Torino 1969
10
Affermazione di Feldman, citato da Smith Brindle Reginald in The new music. The Avant-garde since 1945, OxfordNew York, Oxford University Press, 1975
8
8
L’esplorazione delle possibilità timbriche dei singoli strumenti è probabilmente una delle prime
cause dell’innovazione musicale semiografica novecentesca. Basti pensare solo all’uso del
cluster, che ha subito fatto nascere l’esigenza di notare un evento sonoro del tutto fuori
dall’ordinario. Tale esplorazione si è svolta in tutti gli ambiti organologici trovando soluzioni
più o meno idiomatiche, che non sempre potevano essere trasferite ad altri contesti strumentali.
Anche la letteratura corale ha subito un profondo sviluppo, inizialmente simile a quanto è
avvenuto in ambito strumentale per poi diversificarsi a partire dagli anni Ottanta.
Generalizzando, in ambito prettamente corale si può notare un ritorno in questi ultimi anni a
notazioni di tipo tradizionale anche in compositori caratterizzati dall’utilizzo di notazioni
alternative in ambiti strumentale. Le ragioni di tale fenomeno sono molteplici, e difficilmente
sintetizzabili. Si possono addurre cause di ordine esecutivo, sociologico ma soprattutto, a parer
di chi scrive, c’è stata una crescente esigenza di necessità di comunicazione tra compositore,
esecutore e ascoltatore. L’utilizzo di una notazione più o meno tradizionale, con l’inserimento di
un modesto numero di segni extra tradizionali, ha permesso a compositori, esecutori ed
ascoltatori di parlare un linguaggio basato sulla volontà e sul desiderio di comunicazione,
ristabilendo un naturale e chiaro procedere nella sequenza illustrata all’inizio:
compositore – notazione – esecutore (corista) – ascoltatore.
9
Confronto semiografico
Verranno ora analizzati dal punto di vista notazionale alcuni brani per coro a cappella composti in
un arco di tempo compreso tra il 1950 e la fine degli anni novanta. Si è voluto limitare la scelta ad
autori di provenienza europea, spaziando tuttavia tra il sud (Italia, Spagna) e il nord est europeo
(Polonia, Paesi Baltici). Il cosiddetto fenomeno della globalizzazione, su cui tanto si discute oggi, è,
fortunatamente, presente da molti decenni nel mondo della musica ed in special modo in quello
corale. Questo alto livello di comunicazione ha permesso di comporre alla luce delle esperienze
fatte da paesi di altre culture, pur mantenendo un minimo di identità nazionale.
I brani che verranno ora descritti sono abbastanza esemplificativi di una tendenza generalizzata:
sono musiche che vengono proposte ai vari corsi di direzione o presenti frequentemente nel
repertorio di cori europei.11
I brani saranno suddivisi in tre gruppi, corrispondenti a tre modi di scrivere diversi: il primo gruppo
rispecchia una scrittura ancora tradizionale, il secondo gruppo analizza brani che utilizzano
notazioni particolari ed infine l’ultimo gruppo esaminerà una serie di brani scritti dal 1980 al 1998
che testimonia la direzione che ha assunto la modalità di scrittura per coro negli ultimi brani.
Prima fase:
1952 Quinto Nonsense di Goffredo Petrassi
Nonostante siano già presenti tutte le inquietudini che porteranno poi all’esplosione di nuove
esigenze notazionali, la maggior parte dei compositori utilizza fino ai primi anni ’50 una modalità di
scrittura del tutto tradizionale anche se il risultato sonoro può dar luogo a soluzioni del tutto
destabilizzanti.
Il brano scelto per illustrare questa prima fase è il quinto dei Nonsense di Goffredo Petrassi. I
Nonsense rappresentarono per Petrassi una vacanza dopo due lavori di più vaste proporzioni quali
11
Posso personalmente confermare che i brani che verranno analizzati sono stati tutti oggetto di studio personale
destinato ad una esecuzione pubblica: ho incontrato Nonsense di Petrassi ad un corso di direzione tenuto da Werner
Pfaff, Rondes di Rabe ed Oremus di Sisask ad un corso sul repertorio tenuto da Gary Graden, Magnificat di Pärt ad un
Corso di direzione tenuto da Tõnu Kaljuste ed è nel repertorio del coro che abitualmente dirigo; ho cantato il Concierto
Coral di Marco con il Nuovo Coro Polifonico di Treviso diretto da Marina Malavasi e Stetit angelus di Bonato è stato
incluso nell’antologia “Compositori Veneti, I volume” a cura dell’ASAC (Associazione Sviluppo Attività Corali –
Veneto). L’unico brano che non ho avuto occasione di eseguire personalmente è la Passione secondo s. Luca di
Penderecki ma è stato tuttavia oggetto di approfondito studio durante gli anni della mia formazione in conservatorio.
10
Noche oscura e il Secondo concerto per orchestra. Sono in tutto sei, su testi tratti da The Book of
Nonsense di Edward Lear, tradotto da Carlo Izzo. L’austerità delle quattro parti a cappella e un testo
così stravagante fornirono a Petrassi un interessante stimolo. Egli stesso ricorda: “C’è molta malizia
sotto l’apparente innocenza, e se talvolta non mi sono trattenuto dal sottolineare un certo umorismo,
ho almeno cercato di salvare il buon gusto. Ci sono episodo in cui la porola è spezzata, rimbalzante
tra le quattro voci: inconsapevole presentimento di ben altre frantumazioni future, in cui la parola,
dopo essere stata polverizzata nell’illusione di ricomporla dall’agglomerato sillabico complessivo,
ha finito di ridursi allo stato brado di fonema. Componendo i Nonsense forse avevo intravisto tutto
questo e ne avevo anticipato il mio personale giudizio”. Petrassi alludeva a tutte quelle
sperimentazioni sul valore fonetico della parola che nel giro di pochi anni coinvolsero gran parte
della produzione corale dell’avanguardia.12
Il quinto Nonsense si presenta fin dall’inizio con una grafia del tutto tradizionale ma animato da una
grande energia ritmica, sostenuta da precise indicazioni agogiche: Allegro feroce con
un’indicazione metronometrica di 170 alla semiminima. Fin dall’inizio si possono notare dei rapidi
glissati d’ottava alle voci maschili13 (esempio 2), ma il punto forse più interessante è costituito dalle
battute 17 – 21 (esempio 3), dove il testo viene interrotto in maniera irregolare per poi procedere
omoritmicamente sempre piu forte (fff, duro e irato) fino al gridato. Certamente non siamo nel caso
dello Sprechgesang, ma l’utilizzo del gridato è indice di una volontà di utilizzo della voce, e quindi
dello strumento coro, fino ai limiti delle tradizionali possibilità.
12
Basti pensare a opere mirabili come Sarà dolce tacere di Luigi Nono, 1960, Angelus Domini di Giacinto Scelsi 1966
oppure il Lux aeterna di Gyorgy Ligeti 1962.
13
è abbastanza evidente il riferimento onomatopeico al suono inquietante ed inesorabile della sirena dell’ambulanza.
11
Es. 2 Goffredo PETRASSI, Nonsense V pagina 1
12
Es. 3 Goffredo PETRASSI, Nonsense V pagina 2 particolare
Seconda fase:
1966 Passione secondo Luca di Krysztof Penderecki
1967 Rondes di Folke Rabe
Le partiture in questione presentano molte caratteristiche comuni, pur nella loro sostanziale
diversità. Rondes si pone quasi come un gioco musicale che utilizza tutti, o quasi, gli espedienti
ritmico-sonori possibili ad un coro, mentre la Passione si presenta come un’imponente
composizione dal carattere fortemente drammatico e narrativo, con organico estremamente vasto.
Entrambe le partiture hanno molti riferimenti grafici e possono essere classificate come scritture di
progetto con elementi di scrittura d’azione, talora con notazione tradizionale, con utilizzo di codici
cifrato e visivo. Si pone per questo tipo di partiture il problema della gestione del tempo. Il metodo
adottato in entrambi i casi è l’adozione di una linea mentale che indica lo scorrere del tempo da un
riferimento all’altro, segnato o da episodi musicalmente compiuti gestiti dal direttore d’orchestra
(nella partitura di Penderecki), o da indicazioni della durata degli episodi segnati minuziosamente in
minuti secondi (nella partitura di Rabe).
La rappresentazione del tempo attraverso l’utilizzo di una linea permette di avere subito la
sensazione sia del singolo evento che del risultato sonoro complessivo. La linea ha infatti le
13
caratteristiche di successione (è la comune percezione del tempo) e di simultaneità (è la sensazione
principale di tutti gli eventi che si svolgono nello spazio). Quindi anche la linea del tempo ha questa
duplicità di successione e simultaneità. La mancanza in una partitura di una linearità, cioè del
concetto spazio-temporale, provoca uno stato di indeterminatezza totale quale ad esempio quello
dell’happening, o di alcune forme completamente libere di improvvisazione.
L’opera Passio et mors Domini nostri Jesu Cristi secundum Lucam di Kriszystof Penderecki è stata
eseguita per la prima volta a Cracovia il 22 aprile 1966. È una monumentale composizione che
segna una tappa fondamentale dell’esperienza artistica del compositore polacco: c’è un distacco
dall’acuta fase di sperimentazione delle prime opere verso un reinserimento nella tradizione
opportunamente vitalizzata da apporti nuovi. Penderecki stesso indicava i motivi del parziale
mutamento di rotta proprio in una concezione universalistica e cattolica: egli stesso amava definirsi
“comunista cattolico”. A proposito della Passione dice “… successivamente ho voluto fare non
qualcosa di nuovo, ma di diverso: ho sentito il bisogno di forme più vaste, di grandi forme, quelle
che la scuola di Darmstadt e il “puntillismo” non sopportano e che invece io ho provato a realizzare,
cominciando proprio dalla Passione.14 Il testo, s’intende, mi interessava soprattutto per il suo
contenuto; ed era il testo stesso a suggerire gli sviluppi di quelle grandi forme, senza rinnegare
alcuna esperienza musicale precedente”.
Nonostante un ritorno ad atmosfere più tradizionale, quali ad esempio un rieccheggiamento al
gregoriano o l’uso di cori di strawinskiana memoria, Penderecki fa largo uso di espedienti desunti
dalla fase inventiva precedente, primo fra tutti un sistema di strutturazione seriale che permea
l’intera composizione.
Addentrandosi nella composizione per analizzare il contenuto delle parti corali da un punto di vista
notazionale, è possibile trovare atteggiamenti molto diversi: si passa da una scrittura tradizionale a
momenti in cui la notazione si arricchisce di una sovrabbondanza di segni grafici. È tuttavia
importante notare come nulla è lasciato alla libera improvvisazione, anche i momenti, che
all’ascolto risultano particolarmente caotici, sono in realtà codificati in ogni singolo intervento
sonoro. L’unica eccezione sono i procedimenti di reiterazione di nuclei motivoci o ritmici che non
vengono quantizzati in partitura ma sono guidati dal naturale scorrere del tempo.
La composizione si apre con un solenne unisono del coro e dell’orchestra sulla parola “Crux”, quasi
a scolpire l’elemento salvifico rendendolo universalmente intelleggibile.
14
Alla Passione seguì, solo un anno dopo, Dies irae, oratorio per soli, coro e orchestra alla memoria delle vittime di
Auschwitz.
14
Ad atteggiamenti solenni ed omoritmici seguono interventi apparentemente più liberi dal carattere
gregorianeggiante15(esempio 4).
Es. 4, K. Penderecki, Passio et mors Domini nostri Iesu Christi secundum Lucam pagina 8
15
A livello compositivo è interessante notare come nell’ultima battuta dell’esempio, nella parte dell’organo sia
esplicitato il nome di BACH per moto retrogrado. Oltre alle suggestioni storiche che possono da qui scaturire, le note in
esame costituiscono la microserie su cui è costruita l’intera composizione.
15
A pagina 24 della partitura (esempio 5) si trova un altro punto interessante riguardo la notazione:
una differenza tra il parlato mensurato con valori tradizionali e un parlare sulla nota con altezza
predefinita. Inizialmente i tre cori cominciano declamando ritmicamente il nome “Iudas”, segue poi
un vero e proprio parlato in pp fatto in rapida successione dalle sezioni dei tenori che si spegne poi
in un pedale inferiore “più grave possibile” delle voci gravi maschili e femminili. Comincia poi una
situazione eterogenea: un parlato su altezze predefinite con modelli reiteranti, ritmicamente sfasati
tra loro, politestualità e un glissato delle voci gravi. Il tutto viene rapidamente portato ad un ff sulla
nota più acuta possibile seguito da un subito piano con morendo, a bocca chiusa. L’episodio
descritto non dura che pochi secondi, ma possiede un’enorme carica drammatica e descrittiva. Vi
possono essere notate almeno sette situazioni di utilizzo della voce che esulano dalla scrittura più
tradizionale.16
Es. 5, K. Penderecki, Passio, pagine 24, 25
16
In sequenza sono: declamato ritmico, recitato, nota più grave possibile, recitato su nota definita, glissato dal suono
più grave possibile al più acuto possibile, suono più acuto possibile, bocca chiusa.
16
Gli esempi di utilizzo del coro in maniera non convenzionale presenti in questa partitura sono
molteplici e ben si potrebbe approfondire l’analisi semiografica, ma rimanendo nei limiti di questa
ricerca, si può ancora analizzare quanto avviene a pagina 40 della partitura (esempio 6).
Il coro impersonifica ora la folla che schernisce Gesù che di qui a breve gli urlerà “Profetize, quis
est qui te percussit?” Ad un primo colpo d’occhio la pagina presenta tre distinti atteggiamenti vocali
estremamente efficaci dal punto di vista drammaturgico. Il primo consiste nel pronunciare molto
rapidamente la consonante “p” ad altezza diversa secondo l’indicazione della partitura. Si
identificano dei blocchi semantici, delle ondate, che lasciano relativa libertà all’interprete. Il
secondo episodio è costituito da una serie di suoni più acuti possibile, che si avvicendano in
maniera casuale tra le varie sezioni dei tre cori impegnati nella realizzazione. Nell’ultimo episodio
si modifica il pentagramma: resta solamente il quinto rigo ed intorno a questo sono poste delle note
prive di riferimenti temporali a cui seguono dei segmenti verso l’alto o il basso. È interessante far
presente che la legenda che precede la partitura non descrive tutti i segni presenti ma in questo caso
il segno descrive in maniera intuitiva il risultato sonoro finale. Le teste delle note possono essere
lette come delle “o” a cui seguono dei glissati verso l’alto o verso il basso, ed in ogni caso il suono
di partenza è un suono acuto in quanto resta solamente il quinto rigo del pentagramma.17 Oltre ai
glissati una sezione di ogni coro dovrà fare in successione rispetto alle altre, un fischio il più acuto
possibile.
Anche in questo caso la durata della questa pagina non è che di pochi secondi, ma l’effetto
complessivo è di grande impatto emotivo. Il coro assume qui un ruolo quasi di attore: rappresenta la
folla che assiste cinicamente alla passione di Cristo ed esprime questo sentimento con effetti tipici
della recitazione contemporanea. Si crea nella mente di chi ascolta una suggestione sonora che
rimanda con immediatezza ad una suggestione visiva di una scena dalle vaste proporzioni.
L’affiancare poi repentinamente queste tre differenti situazioni sonore può ricordare un montaggio
cinematografico che con tre rapide inquadrature descrive una complessa ed articolata scena in tutta
la sua drammaticità.
17
Questa è l’interpretazione che ne da Henryk Czyz con l’orchestra filarminica di Cracovia nella registrazione della
Philips - Harmonia mundi.
17
Es. 6, K. Penderecki, Passio, pagina 40
18
Rondes di Folke Rabe è stato pubblicato per la prima volta nel 1967 a Stoccolma ed è stato
successivamente inserito in una antologia di musica corale rivolta ad un ampio pubblico18. Per
questo motivo è un brano conosciuto da un grande numero di coristi e direttori europei ed è
diventato quasi un simbolo di un modo di scrivere quasi totalmente non tradizionale. Rondes
rappresenta la provocazione di un compositore svedese ad un repertorio corale costretto tra una
vocalità che conosceva unicamente la musica liturgica o, all’opposto, quella operistica19.
Similmente a quanto accadeva negli anni ’60 in ambito strumentale, Rabe esaspera l’aspetto
timbrico
nella
sua
ricerca
compositiva: vocali e consonanti,
vengono
utilizzate
in
modo
autonomo senza nessuna relazione
semantica e sono scelte solamente
per le loro caratteristiche sonore.
Lo
studio
sul
“colore”
viene
chiarito nella legenda introduttiva
che esplica in maniera chiara il tipo
di suono che ogni lettera dovrà
creare. (esempio 7).
Es. 7, F.Rabe, Rondes, legenda
18
L’antologia è Chor aktuell, ein Chorbuch für den Musikunterricht an Gymnasien, Gustav Bosse Verlag Kassel 1983.
Si confronti l’analisi del brano presente nell’articolo di Lorenzo Donati Il come e il che cosa: la parola come punto
d’unione tra il linguaggio musicale e quello verbale nella seconda metà del Novecento, in «La Cartellina» n. 143
settembre- ottobre 2002, Edizioni Musicali Europee, Milano.
19
19
Altre scelte innovative, sempre importate dall’esperienza compositiva in ambito strumentale, sono
l’utilizzo del tempo cronometrico per descrivere la durata degli eventi sonori e l’uso di una scrittura
“in campo aperto” quasi sempre senza pentagramma, per una maggiore suggestione grafica delle
variazioni di altezza dei suoni. (Fig 8)
Es. 8, F.Rabe, Rondes, pagina 1 particolare
Un'altra importante caratteristica di questo brano è l’introduzione del direttore di sezione, per
coordinare il coro nei momenti di poliritmia presenti nel brano. Queste figure ritmiche vengono
20
reiterate fino al segnale del direttore principale. Questa sezione, così ritmicamente regolata, segue di
pochi secondi una sezione molto libera caratterizzata da un’aleatorità ritmica e melodica. (fig. 9)
Es. 9, F.Rabe, Rondes, pagina 3 particolare
Tuttavia Rabe stesso era consapevole della profonda novità, e diffidenza, che avrebbe potuto
esercitare un brano corale del genere: sensazioni che potevano essere condivise tanto dal pubblico
quanto dagli esecutori stessi. Con ironia Rabe propone quindi (ad libitum, tuttavia) che un basso del
coro, poco oltre la metà del brano se ne scenda dal palcoscenico e abbandoni velocemente la sala.
Inoltre nella parte finale del brano i coristi, oltre che a cantare, dovranno battere forte i piedi sul
pavimento, sussurrare il proprio numero telefonico, scambiarsi di posto con il vicino e sussurrare
velocemente il proprio indirizzo.
Si assiste qui ad un procedimento inverso rispetto a quello che avveniva in Penderecki: mentre
prima il coro suscitava nell’ascoltatore una emozione che rimandava ad una suggestione visiva, ora
21
è la emozione visivo-sonora che prende il sopravvento. Il corista da esecutore-mediatore si
trasforma in attore che porta in scena la propria vita e le proprie spontanee reazioni (lo scambiarsi
gli indirizzi o i numeri di telefono, o il disgusto per composizione stessa che porta uno dei bassi ad
abbandonare platealmente l’esecuzione).
È come se ora l’identificazione dell’ascoltatore non sia più nella musica che ascolta, quindi nel
mondo poetico del compositore, ma sia piuttosto con il singolo corista che è coautore attivo e
passivo al tempo stesso, della composizione.
Viene quindi quasi messo in ombra il primo anello della catena:
(compositore) – notazione – corista – ascoltatore.
Terza fase:
1980 Concierto Coral di Tomas Marco
1989 Magnificat di Arvo Pärt
1988 Oremus di Urmas Sisask
1998 Stetit Angelus di Giovanni Bonato
Solo pochi anni, poco più di una decina, separano i brani precedenti da quelli che verranno ora
analizzati, ma si assiste ad un cambiamento radicale del modo di concepire la musica dal punto di
vista notazionale, senza che tuttavia il risultato sonoro muti sostanzialmente.
Quello che risulta subito evidente è una necessità di comunicazione, di stabilire un linguaggio
consequenziale tra compositore, interprete e ascoltatore.
Non bisogna infatti dimenticare che il mondo della coralità è costituito per la maggior parte da cori
amatoriali, cori cioè in cui i coristi, seppur con adeguata preparazione tecnico-vocale, non fanno del
cantare la loro unica professione. Diventa quindi di estrema importanza l’aspetto della
gratificazione che deriva dal cantare e questa può nascere solamente dalla comprensione di quello
che si sta facendo.
La prima composizione presa in esame è il Concierto coral per violino solista e doppio coro di
Tomas Marco. Compositore spagnolo, classe 1942, fu allievo di Boulez e Ligeti, e di Kagel e
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Maderna per la musica elettronica; ha seguito i corsi di Darmstadt dal 1965 al 1967. È ora
compositore di riferimento per la vita musicale spagnola ed insegnante di composizione a Madrid.
Nonostante Marco abbia quindi una formazione quasi totalmente immersa nel clima
avanguardistico degli anni ’60, stupisce come fin dalla prima pagina di questa composizione ci sia
una chiarezza di scrittura del tutto inaspettata. Viene utilizzata una scrittura di tipo tradizionale su
pentagramma. La vera novità consiste nell’utilizzo della voci in modo strumentale: non viene
nemmeno indicata il fonema da pronunciare per emettere il suono ma la scelta è lasciata alla
discrezione del direttore al fine di ottenere la maggior chiarezza ritmica possibile20.
Es. 10 Tomas Marco, Concierto coral, pagina 1
20
Nell’esecuzione del Nuovo Coro Polifonico diretto da Marina Malavasi del novembre 1997 era stata utilizzata la
sillaba “du”.
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Anche l’aspetto temporale è gestito in maniera del tutto tradizionale: il metro resta invariato per
ampie sezioni, e al cambio di metro corrisponde sempre un mutamento generale di situazione
timbrico-melodica. In questa apparente semplicità non mancano però situazioni ritmiche complesse:
è il caso di pagina 21 in cui alle battute 203 e seguenti si ha su ogni pulsazione una coincidenza di
suddivisione binaria, ternaria e quaternaria.
Es. 11 Tomas Marco, Concierto coral, pagina 21
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Un altro elemento utilizzato da Marco è il glissato. Esso è presente già nella prima pagina (batt. 15
violino) ma trova la sua applicazione più interessante nelle battute 243 e seguenti. Il glissato di
semitono delle voci e quello di tono per quinte parallele del solista creano un effetto di
destabilizzazione sonora paragonabili a quelli ottenuti nella Passione di Penderecki ma con ben altri
sistemi notazionali.
Es. 12 Tomas Marco, Concierto coral, pagina 26
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Con l’analisi dei prossimi due brani si è voluto dar spazio a due compositori estoni viventi sebbene
quasi appartenenti a due generazioni diverse:Arvo Pärt ed Urmas Sisask. È interessante notare come
per il mondo della musica corale la musica di paesi del Mar Baltico (Estonia, Svezia, Finlandia ed
anche Lituania) abbia assunto a partire dalla metà degli anni Ottanta una notorietà senza pari. Le
ragioni di questo sono molteplici: innanzitutto un isolamento politico e culturale che tuttavia ha
permesso in quei paesi una ricerca artistica personale svincolata dalle tendenze stilistiche
dell’Occidente. Autori come Arvo Pärt, Vejio Tormis, il polacco Henryk Gorecki lo svedese Sven
Sandstrom e le nuove generazioni capeggiate da Urmas Sisask, Erkki Sven Tüür, Vytautas Miskinis
ed altri ancora, hanno potuto esprimere le loro idee musicali senza il “peso” del rapporto di
continuità con i grandi autori dell’Europa occidentale. Inoltre le particolari caratteristiche della
cultura corale dei Paesi Scandinavi e delle repubbliche del Mar Baltico hanno dato un ulteriore ed
importante stimolo per la composizione delle opere corali. Come in Ungheria, anche in questi paesi
si è sviluppata, proseguendo una tradizione secolare, un’intensa alfabetizzazione musicale, basata
principalmente sulla musica vocale. Questo ha favorito la nascita di numerosissimi cori di buon
livello con una specializzazione sempre crescente per il repertorio contemporaneo21. L’omogeneità
timbrica, l’assenza di vibrato, l’attenzione alla precisione ritmica e d’intonazione sono
caratteristiche molto evidenti all’ascolto dei cori provenienti da questi paesi. I compositori hanno
cercato di sfruttare queste caratteristiche utilizzando il coro a cappella, più che nelle sue potenzialità
espressive lineari (contrappunti), nelle sue possibilità verticali, con il frequente uso di agglomerati
sonori, l’uso degli armonici naturali della voce, e di armonie di carattere prevalentemente diatonico.
Arvo Pärt è senz’altro il più noto dei compositori baltici. La sua evoluzione artistica è senz’altro
significativa: dopo un primo periodo caratterizzato da una scrittura di tipo seriale, arriva -a partire
dalla metà degli anni Settanta - ad una radicalizzazione dell’elemento sonoro con reminescenze
gregoriane e medioevali. Si crea quasi una liturgia interiore che ha come sua rappresentazione
temporale la musica che il coro fa vivere. Gli elementi usati sono di una estrema essenzialità:
l’impianto armonico è tonale o al massimo modale, le figure ritmiche tendono ad una stilizzazione o
ad una sorta di ripetitività legata alla parola.
Il brano Magnificat, scritto nel 1989 su commissione dello Staats- und Domchor di Berlino, è oggi
uno dei brani sacri contemporanei più cantati nel mondo. Fin dalla prima pagina (esempio 13), è
evidente una estrema essenzialità di scrittura: l’altezza dei suoni è definita di battuta nella maniera
più tradizionale mentre il problema ritmico viene risolto adottando soluzioni che ricordano la
notazione della musica cinquecentesca, prima della adozione della stanghetta. I riferimenti in
21
Nella sola Stoccolma vi sono ora più di 200 cori professionisti.
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tratteggio adottati dall’editore separano semplicemente le parole del testo senza avere una funzione
legata alla suddivisione ritmica. Il discorso musicale fluisce quindi con estrema naturalezza,
disegnando grandi arcate in strettissimo legame con il testo.
Es. 13 Arvo Pärt, Magnificat, pagina 1
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Urmas Sisask è un compositore estone nato nel 1960 che ha acquisito negli ultimi anni una sempre
maggiore notorietà per la sua musica estremamente suggestiva ed evocativa. Oremus (figura 11) è il
penultimo inno dell’Oratorio Gloria Patri scritto nel 1988 dopo studi di carattere cosmogonico che
miravano alla creazione di sistemi modali che potessero essere esemplificazione musicale della
musica dei pianeti. Tutta la composizione è basata sulle 6 note della scala giapponese Kumayoshi,
una sorta di modo frigio privo del terzo e settimo grado. In Oremus tale scala è trasportata sul terzo
modo. Sisask mira soprattutto a sottolineare le possibilità accordali di tale scala, creando delle
armonie dense in continuità tra le quattro voci del coro.
Mentre
l’altezza
dei
suoni
è
segnata in maniera tradizionale
con l’utilizzo del pentagramma, la
durata dei suoni è segnata da una
linea serpentina che continua fino
al successivo cambio d’altezza. Il
respiro viene gestito in maniera
corale di modo da mantenere una
continuità di suono per tutti i circa
9 minuti di durata del brano. In
questo caso il metro di due
semiminime
viene
segnato
in
partitura e la suddivisione in
battute rende molto chiara la
scansione ritmica del brano.
Es. 14 Urmas Sisask, Oremus, pagina 1
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L’ultimo brano analizzato è una breve composizione per coro femminile del compositore Giovanni
Bonato22 dal titolo Stetit angelus23. Anche in questa breve composizione la maggior attenzione è
stata rivolta al problema ritmico. La lunga melodia del soprano I è scritta senza un’indicazione
ritmica precisa: la durata dei suoni è indicata dall’ampiezza grafica delle corone poste sopra alcune
note o dalla grandezza dei respiri che separano una frase dall’altra. La verticalità degli eventi delle
voci inferiori in rapporto alla più acuta, viene indicata dalle linee di tratteggio verticali che
attraversano i quattro pentagrammi. Le voci che accompagnano si muovono in maniera pressoché
omoritmica e vocalizzano con la vocale iniziale del capoverso del soprano I. Solamente al termine,
la seconda e la terza voce vocalizzano sotto le note del soprano I.
Innanzitutto è da sottolineare la politestualità della composizione: un livello superiore con il testo
della liturgia celeste dall’Apocalissi di san Giovanni, e un livello più basso con una sorta di
recitativo corale su una preghiera di Marcel Schmid. Tutto il brano si gioca su dinamiche esilissime
e su un’apparente mancanza di scansione temporale. Nella linea melodica superiore vengono
utilizzate due tipi di corone e di respiri come a voler indicare l’intensità di questo elemento che
normalmente è gestito dall’esecutore. Nella partitura c’è quasi un tentativo di voler rappresentare
graficamente lo scorrere del tempo; ove questo non è possibile il compositore interrompe il
pentagramma quasi a voler significare una sospensione temporale. L’infittimento di scrittura nella
parte finale del pezzo crea quasi un effetto di prospettiva: più ci si allontana (più si ascende al
cielo), più gli oggetti appaiono ravvicinati fino a confondersi ed infine a svanire.
Es. 15 Giovanni Bonato, Stetit angelus
22
Giovanni Bonato è docente di composizione presso il conservatorio Cesare Pollini di Padova.
Si è voluto analizzare questo lavoro per l’estrema attenzione che Bonato rivolge al segno grafico. Numerose sue
partiture edite sono delle copie del manoscritto originale proprio per conservare l’intento estetico-emozionale racchiuso
nel segno autografo.
23
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Conclusione
In questa breve trattazione si è cercato di fare una rapida panoramica di quanto è avvenuto in
Europa negli ultimi 50 anni limitatamente al campo corale. Tale indagine è stata preceduta da una
serie di considerazioni sul concetto di notazione in generale e di notazione musicale in particolare.
Si è sottolineato come il segno sia di per sé istituente: è traccia che assicura la possibilità dell’essere
e del conoscere, racchiudendo allo stesso tempo il suo stesso sviluppo temporale.
Il segno ha quindi un carattere specificatamente mnestico: è “memoria” e “progetto”, anello di
congiunzione tra l’esperienza creativa personale del compositore e la sua rivitalizzazione ad opera
del compositore. Inoltre il segno notazionale è l’anello di congiunzione necessario della catena che
parte dal compositore per terminare all’ascoltatore.
La notazione è non solo il “garante dell’opera”, come era stato osservato in precedenza, ma è anche
il garante di un livello di comunicazione, di condivisione di un’esperienza estetica.
L’indagine semiografica è partita dai primi anni ’50, osservando come in quegli anni, pur
utilizzando sistemi di notazione tradizionali, ci fossero già le premesse per un cambiamento grafico.
Successivamente si è messo in evidenza come nei brani scritti negli anni ‘60 sia particolarmente
evidente il problema di bisogno di rinnovamento della notazione musicale. Le cause di questo sono
molteplici: sono cause puramente musicali (il mutato stato del materiale musicale, le pratiche
musicali sorte dopo la serialità, l’improvvisazione, l’happening), e cause di carattere generale in
rapporto a tutti gli altri settori della cultura (arti visive, pop art, letteratura e filosofia).
Tutto questo sconvolgimento, che in realtà cominciava già a prepararsi fin dalla fine dell’Ottocento,
ha prodotto un gran numero di opere e di letteratura specializzata che tuttavia ammutolisce quasi di
colpo all’inizio degli anni Ottanta. Le ragioni di questo silenzio ed il conseguente ritorno ad un
sistema notazionale tradizionale sono senz’altro specifiche per ogni singolo compositore ma
possono essere identificate in un bisogno di comunicazione più diretta tra compositore ed
ascoltatore considerando l’esecutore come tramite insostituibile di questa catena.
Il linguaggio musicale torna quindi ad una sua forma più essenziale (si confrontino gli autori baltici)
e di conseguenza la scrittura tende ad essere il più chiara e dettagliata possibile. L’atto
improvvisativo è limitato solamente a particolari esperienze musicali, ed il compositore tende ora a
precisare il più possibile ogni manifestazione sonora. La partitura ricomincia ad assumere la
caratteristica di “garante dell’opera” precedentemente descritta: deve assicurare la possibilità di
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ripetibilità di quanto scritto, liberandosi dal fascino dell’evento necessariamente unico ed
irripetibile24.
Così il dispiegamento semiografico realizzatosi nel ventennio Cinquanta-Sessanta diventa
un’esperienza imprescindibile di un certo modo di scrivere e di vivere la musica: è quasi emblematico del significato creativo racchiuso nel segno che si trasforma in suono e gesto.
Nel mondo corale tale aspetto è particolarmente evidente: la quasi totalità della produzione
contemporanea è tornata oggi ad una scrittura di tipo tradizionale sia pur esasperata in certi aspetti
agonico-dinamici. La necessità di comunicazione diretta che si instaura tra compositore e corista ha
reso questo ritorno quasi indispensabile. Si è sottolineato a questo proposito la caratteristica di
“amatorialità” della maggior parte dei fruitori di musica corale, precisando quanto sia necessaria
una certa componente di gratificazione per il singolo corista.
Rispetto al passato è cambiata tuttavia la coscienza storica: il linguaggio corale di questi ultimi anni
nasce come una sorta di purificazione dalle esperienze precedenti, ma oggi, in una consapevolezza
più o meno inconscia del postmoderno, possono coesistere scritture tradizionali e non, sulla base di
una comune necessità di comunicazione.
24
Non è da sottovalutare anche l’aspetto economico: l’evento unico ha dei costi enormemente superiori all’evento che è
possibile riproporre successivamente anche in altri contesti.
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Bibliografia
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SISASK Urmas, Gloria Patri, ed. Fazer, Helsinki, 1996
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Mezzo secolo di musica per coro