Bianchi - L’insicurezza delle Alpi occidentali nel secolo III - pag.
29 (2010), pp. 31-54
di 24
Rivista scientifica del
volontariato archeologico
www.aut-online.it
L’insicurezza delle Alpi occidentali nel secolo III.
Evidenze numismatiche e questioni di metodo
Turmoil in the Western Alps during the Third Century. Numismatic evidences and methodological
questions
Ettore Bianchi
Gruppo Archeologico Ligure
[email protected]
Riassunto
Il secolo III dell’era volgare fu un tempo d’instabilità
politica ed economica. Allora numerosi gruzzoli monetali
furono sotterrati, per precauzione, ma non più ricuperati.
Questa tendenza riguardò, tra l’altro, le alture della catena
alpina occidentale che separano il bacino del Rodano e
quello del Po. Lassù la notevole perdita di «tesoretti» non fu
causata da improvvisi pronunciamenti militari o da violente
invasioni barbariche; neppure ci fu una straordinaria
formazione di ripostigli, alcuni poi dimenticati, in una
congiuntura inflattiva. Piuttosto, si deve considerare la
minaccia dei briganti autoctoni e dei cosiddetti Bagaudi.
Per causa loro, molti cittadini romani furono ammazzati o
costretti alla fuga, lasciandosi dietro i risparmi che avevano
occultato.
Abstract
The 3rd Century AD was characterized by political and
economic turbulence. Therefore a high number of coin
hoards was buried for caution, but never recovered. Such
a trend concerned also the highlands close to the Western
Alpine chain, dividing the Rhodanus and Po valleys. Up
there, a lot of «treasures» had been lost neither due to
sudden mutinies of troops or violent barbarian raids nor
money was set aside and sometimes forgotten, in response to
unusual inflation.
Actually, the threat of local robbers and the so-called
Bagaudae must be considered. Because of them, many
roman citizens were killed or compelled to flee away, leaving
behind previously hidden savings.
Keywords: Romano, Tesoretti, Brigantaggio, Po
Introduzione
La presente indagine sfiora un periodo storico molto complesso, dalle movenze non ancora
del tutto chiarite vale a dire gli anni eccezionalmente difficili che vanno dall’età dei Severi
(193-235 d.C.) alla riorganizzazione territoriale e politica che ebbe per artefice Diocleziano
(284-306 d.C.). In tale intervallo la colossale armatura di città che reggeva l’impero romano
andò incontro a oscillazioni inaudite e a pericolose lacerazioni, complicate da attacchi esterni
e da esplosioni d’anarchia militare. Fino a non molto tempo fa, cioè prima che confuse impostazioni «continuiste» a oltranza prevalessero su quelle «catastrofiste», mettendo la sordina al
dibattito, le posizioni sulla grande crisi del secolo III erano abbastanza nette. Gli storici d’idee
conservatrici, propugnatori di una società stabile e fortemente gerarchica, riportavano tutti i
guasti alla debolezza e ai vizi degli ultimi imperatori della dinastia antonina, incapaci di esercitare la sovranità nelle emergenze prodotte dalle guerre esterne e dalle invasioni barbariche.
Viceversa gli storici liberal-democratici, l’ideale dei quali era una società dinamica e aperta,
imputavano proprio all’eccessivo centralismo statale la colpa di aver rovinato l’economia
romana, scoraggiando con imposte elevate, regolamenti dirigisti e derive autoritarie la libera
iniziativa privata e la mobilità sociale ascendente (Mazza 1973, pp. 17-115). Dal canto suo il
materialismo storico, che raccoglieva esigue conventicole nel mondo accademico occidentale, ma costituiva un robusto filone nell’Europa dell’Est, preferiva andare oltre le apparenze
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della crisi, interpretando il secolo III come il caotico avvio di una contesa economica di lungo
periodo fra la villa, basata sul modo di produzione schiavistico, e il latifundium valorizzato dai coloni, precursore dei rapporti feudali del Medioevo. In altre parole, i proprietari di
tenute piccole e medie, assiduamente legati ai territori delle rispettive città di appartenenza,
entrarono in conflitto con i grandi proprietari fondiari, interessati a centralizzare la gestione
di centinaia di appezzamenti diversi, senza troppi riguardi per le realtà economiche locali.
La spaccatura in seno alla classe dominante gettò l’impero in una lunga fase d’instabilità
politica e di debolezza militare. Non si poteva immaginare migliore opportunità, per tutti i
nemici dell’ordine costituito, che una classe dominante divisa sulla spartizione di quote di
rendita decurtate e quindi incapace di far valere con la legge e le armi la propria superiorità
rispetto alle spinte eversive provenienti dal basso, dall’alto e da fuori (Bravo 1983). Per
potersi orientare in un campo come questo, nel quale le opinioni sono molteplici e divergenti, una domanda giusta da porsi è se e in quale misura le turbolenze del secolo III abbiano
avuto contraccolpi su un territorio determinato. Difatti, cimentandosi con eventi e processi
verificatisi in ambiti circoscritti, più facili da abbracciarsi interamente, si può arrivare a una
valutazione del peso relativo che ebbero nella
crisi fattori generali come le guerre interne ed
esterne, il fiscalismo esorbitante, lo svuotamento delle curie municipali, il declino della minore
proprietà terriera e così via.
La presente ricerca ha per scopo di dare un contributo originale, ancorché modesto, agli studi sul secolo III, approfondendo la situazione
archeologico-topografica dell’area alpina occidentale, vale a dire della zona di giunzione fra
il bacino del fiume Rodano e la pianura del Po.
Il quadro geografico di riferimento
La scelta delle Alpi occidentali come sfondo
della presente ricerca risponde a tre motivazioni.
In primo luogo, desiderando esplorare l’impatto
del secolo III sulle condizioni di vita di province e regioni abbastanza ordinarie, poco o nulla
militarizzate, si è preferito studiare delle terre
lontane dal Reno e dal Danubio, quindi relativamente indenni dal turbine incessante d’invasioni barbariche a sorpresa e di sanguinose
competizioni per il trono che flagellò le frontiere
dell’impero. In secondo luogo, le Alpi occidentali, non avendo mai ospitato, se non sporadicamente, forti distaccamenti legionari, non risentirono troppo degli effetti economici trainanti ma
anche distorsivi che, su ogni limes, comportava
l’ingente ammontare di paghe e premi, stipendia
et donativa, da corrispondere alle forze armate.
L’ultima ragione è molto più arbitraria e riguarda la soggettiva familiarità che lo scrivente ha
potuto acquisire, nel corso degli anni, con la
documentazione relativa alla viabilità e ai siti di
interesse archeologico nella zona di confine tra Italia, Francia e Svizzera.
Al principio del secolo III, l’area alpina occidentale era formata da otto fra province e regioni
contigue, con una superficie complessiva di poco meno di 78.000 km2. I confini reciproci di
quei distretti mutarono parzialmente nel tempo; per convenzione, si sono prese per buone le
articolazioni spaziali che erano in vigore all’epoca della dinastia severiana (Figura 1).
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Figura 1.
Città e borgate del III secolo
d.C. nelle Alpi occidentali.
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Partendo da occidente si osserva che la zona pre-alpina sulla riva sinistra del Rodano era
compresa nella provincia della Gallia Narbonese. Questo distretto amministrativo era stato
istituito nel 118 o 117 a.C. e affidato al governo di un proconsole di nomina senatoria, un
civile, con poche o nulle truppe a sua diretta disposizione. Ciò premesso, vero è che entro
l’antica Narbonensis si distinguevano tre differenti circoscrizioni.
La Narbonese nord-orientale era estesa per circa 12.500 km2, costituiti prevalentemente da
colline e terrazzi alluvionali (Rémy 2002). Tale territorio nella seconda età del ferro era stato controllato dalla grande confederazione celtica degli Allobrogi; dopo la sottomissione di
costoro, i Romani avevano promosso un’intensa opera di urbanizzazione che aveva portato
all’impianto di non meno di 22 fra città e borgate. In sintesi, alle soglie del secolo III, la
Narbonese nord-orientale comprendeva una rete di città romane a maglie abbastanza fitte,
quantificabile con 1 centro urbano di qualsiasi taglia e funzione ogni 568 km2 (12.500/22).
La Narbonese centro-orientale era estesa per poco più di 12.700 km2, costituiti prevalentemente da ampie conche vallive e altipiani (Rémy 1985). Il suo territorio era stato già dominato dalla lega tribale dei Voconzi; i Romani l’avevano un po’ trascurato, dotandolo solo di 14
fra città e borgate; perciò la rete di città aveva maglie decisamente larghe, quantificabili con
1 centro urbano di qualsiasi taglia e funzione ogni 907 km2 (12.700/14).
La Narbonese sud-orientale era estesa per quasi 14.700 km2, costituiti prevalentemente da
colline, da terrazzi alluvionali e, scendendo a ridosso del Mediterraneo, da isolate emergenze
litoranee (Février 1989, pp. 289-335). In passato il territorio era stato suddiviso tra la colonia
greca di Marsiglia, le etnie celto-liguri dei Cavari e dei Salluvi, nonché i Liguri Ossibi e Deciati. I Romani avevano lanciato un grande programma di urbanizzazione, che aveva portato
a 30 fra città e borgate; quindi la rete di città aveva maglie molto fitte, quantificabili con 1
centro urbano di qualsiasi taglia e funzione ogni 490 km2 (14.700/30).
Altri distretti, posti a cavaliere dello spartiacque alpino, erano le Alpi propriamente dette;
queste erano articolate in tre province distinte (Prieur 1975). Le Alpi Graie e Pennine, verso
nord, erano estese per 9100 km2, costituiti prevalentemente da massicci montuosi e valli profonde. In età pre-romana il territorio era stato articolato in due ambiti confinanti ma distinti:
da un lato le Alpes Graiae, occupate dai Ceutroni, una federazione tribale retta da un grande
capo di nome Atrezzio; donde l’altro aggettivo di Atrectianae, talora attestato epigraficamente. Dall’altro lato le Alpes Penninae, formate dalle riserve dei Nantuati, dei Seduni, dei
Veracri e degli Ubèri. La sottomissione degli autoctoni fu compiuta da Augusto, tra il 15 e il
9 a.C. e si concluse con l’istituzione di un’unica provincia posta agli ordini di un procuratore
militare, comandante di truppe stanziali. La provincia contava 12 centri urbani maggiori, perciò la rete di città romane aveva maglie larghe, quantificabili con 1 centro urbano di qualsiasi
taglia e funzione ogni 758 km2 (9100/12).
Le Alpi Cozie, in posizione mediana, erano estese per poco più di 8400 km2, costituiti prevalentemente da aspri rilievi montuosi e strette vallate. In età pre-romana il territorio era stato
ripartito tra una dozzina di conciliabula, quali i Medulli, gli Ucenni, i Quariati, i Brigiani, i
Caturigi, etc. Nel 13 a.C. Augusto costrinse alla resa, sotto le apparenze di una dignitosa alleanza, un reuccio indigeno chiamato Cottius; costui, per ingraziarsi l’imperatore, gli dedicò un
bell’arco di trionfo davanti al proprio palazzo, nel 9 a.C. I successori di Cozzio governarono
il loro tratto di Alpi, per conto di Roma, col titolo di prefetti fino a che, intorno al 63 d.C.,
Nerone trasformò la prefettura in provincia Alpium Cottiarum, affidandola a un procuratore
con competenze militari. Si contavano 13 centri urbani maggiori, che definivano una rete di
città romane a maglie larghe, quantificabili con 1 centro urbano di qualsiasi taglia e funzione
ogni 646 km2 (8400/13).
Le Alpi Marittime, sui bordi del Mediterraneo, erano estese per oltre 8800 km2, costituiti prevalentemente da impervie alture e valli incassate (Lamboglia 1965, pp. 5-18). Nella seconda
età del ferro il territorio era stato occupato da un mosaico di gruppi etnici di stirpe ligure,
quali i Vesubiani, i Suetri, i Vedianzi, i Nerusi e molti altri. Nel 14 a.C. i Romani sottomisero
con la forza gli abitanti della zona; la liquidazione delle ultime sacche di resistenza indigena,
nel 6 a.C., fu salutata da Augusto con l’erezione di un magnifico Trophaeum Alpium [LaTurbie], lungo la strada che collegava l’Italia con la Gallia Narbonese. Inizialmente organizzata come una prefettura, sotto Nerone l’area alpina meridionale fu trasformata in provincia
Alpium Maritimarum e a sua volta militarizzata. Vi si contavano 11 centri urbani importanti,
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che formavano una rete di città a maglie larghe, quantificabili con 1 centro urbano di qualsiasi
taglia e funzione ogni 800 km2 (8800/11).
Le terre sub-alpine, giacenti sul versante padano delle Alpi occidentali, erano ripartite in due
regioni, dislocate una sopra, l’altra sotto la linea del Po (Zanda 1998).
La regio XI Transpadana o, meglio, la porzione occidentale di essa, compresa tra la valle
d’Aosta, i fianchi delle Alpi svizzere, il corso del fiume Sesia e la riva sinistra del Po, era
estesa per poco meno di 10.000 km2, costituiti prevalentemente da colline, anfiteatri morenici e terrazzi alluvionali sovrastanti la valle del Po. Un tempo abitata da popoli celto-liguri,
imparentati con i Voconzi e/o i Salluvi d’oltralpe, la regione fu riorganizzata da Augusto
dopo il 25 a.C. mediante un sistema di coloniae e di oppida latina. Non esisteva una capitale
provinciale, bensì un’armatura di almeno 14 centri urbani piuttosto autonomi. Ovviamente, i
territori dei municipi, sempre trans Padum, di Novara, Como, Milano, Pavia, Lodi e Cremona non sono considerati in questa sede, giacendo essi oltre la linea del Sesia. Alle soglie del
secolo III, questa Transpadana ristretta comprendeva una rete di città romane a maglie larghe,
quantificabili con 1 centro urbano di qualsiasi taglia e funzione ogni 714 km2 (10.000/14).
Finalmente, la regio IX Liguria o, meglio, la parte occidentale di essa, compresa tra le ultime
propaggini delle Alpi Marittime, la riva destra del Po, il fiume Orba e la Riviera di Ponente,
era estesa per quasi 10.800 km2, costituiti prevalentemente dai dossi collinari delle Langhe e
del Monferrato, nonché da un’aspra dorsale montuosa sulla fascia costiera. Fino al II sec. a.C.
l’area era stata dominio di genti liguri, quali i Bagienni, gli Epanteri, gli Ingauni, gli Intemeli
e altri. Dopo la conquista romana vi sorsero 24 fra città e borgate di vario rango. Le notevoli
entità municipali di Tortona, Libarna e Genova, ancorché senza dubbio liguri e dislocate cis
Padum, non sono contemplate in questo studio, perché rimanevano a est del corso dell’Orba.
In altre parole, alle soglie del secolo III, questa porzione di Liguria comprendeva una rete
di città romane a maglie molto fitte, quantificabili con 1 centro urbano di qualsiasi taglia e
funzione ogni 450 km2 (10.800/24).
I valori di scambio perduti
Ogni ricerca storica deve partire da qualche genere di materiale empirico da analizzare. In
questo caso si considerano le numerose somme di denaro che furono occultate e non più
recuperate nell’area alpina occidentale, durante il secolo III, per cause particolari che si chiariranno in seguito. Per definizione, un «tesoretto» è un deposito archeologico costituito da
due o più monete, in genere decine, centinaia o anche migliaia, che furono nascoste deliberatamente in un apposito loculus, sicuro e segreto, detto «ripostiglio monetale».
Il denaro, poco o tanto che fosse, poteva conservarsi in salvadanai, sacchetti di stoffa, ceste
di vimini, borse di cuoio, recipienti metallici, pentole di terracotta, anforette, insospettabili
tubi di piombo; il tutto era poi calato dentro buche scavate nel terreno, tra le radici di frondosi
alberi, nel mezzo di anfratti rocciosi, in fondo ai pozzi, nelle intercapedini di muri, sotto i tetti
o nelle cantine di dimore private. Talora le monete erano riposte in cassette insieme con altri
oggetti preziosi, quali gioielli, coppe o piatti in argento e perfino strumenti agricoli in buone
condizioni. Varianti notevoli erano le monete offerte alle divinità e deposte, da sole o con altri
oggetti di pregio, entro stipi votive, pozzetti sacrificali o casse templari annesse a venerabili
luoghi di culto (Abdy 2002, pp. 7-11).
In base alla composizione, si può risalire alla genesi dei vari depositi monetali. Se un tesoretto contiene soltanto, o in prevalenza, monete di alto valore nominale, ad es. denarii, quinarii
o antoniniani d’argento, si parla di «ripostiglio per custodia». Esso riflette la consapevole e
graduale selezione da parte del proprietario delle monete migliori, con il potere d’acquisto
più grande, che capitavano man mano in suo possesso e che egli ritirava dagli scambi quotidiani. Il tesoretto potrebbe essere stato di un operatore economico che l’aveva accantonato
per acquistare una partita di merci, per effettuare un investimento, per comprare degli schiavi, per affrontare un viaggio o, semplicemente, per fare opere di beneficenza. Un comune
padre di famiglia potrebbe aver messo in disparte un gruzzolo per comprare del cibo, per
fornire una dote alla figlia, per pagare le tasse, per curare un’eventuale infermità, per pagare
un funerale, per onorare dei vecchi debiti, per riparare la casa.
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Ancora, un servitore zelante potrebbe aver ottenuto dal padrone un bel po’ di mancia, peculium, per il bel giorno nel quale sarebbe stato liberato. La decisione di nascondere il gruzzolo
rispondeva all’esigenza precipua di eludere gli occhi rapaci non solo dei ladri comuni, ma
anche di pressanti agenti delle imposte, di vicini indiscreti o di congiunti odiosi.
Ben altro è un tesoretto che contenga una miscela eterogenea di monete con tagli differenti,
per lo più spiccioli, ad es. assi e quadranti in rame o sestertii e dupondii in oricalco, al fianco
d’argenti dall’importo elevato. In tal caso si parla di «deposito d’emergenza», intendendosi
un blocco di monete messe insieme tutte in una volta, senza il tempo di sceglierle con cura.
Il proprietario, disturbato nelle sue transazioni correnti dall’approssimarsi di folle concitate
o di strepiti guerreschi, deve aver avuto fretta di raccogliere e occultare quanti più contanti
potesse, nella speranza di salvarli dal saccheggio. Il vantaggio, per i numismatici, di questo
secondo tipo d’associazione è che tende a rispecchiare piuttosto fedelmente i caratteri della
circolazione monetaria effettiva (Arslan 1983).
Indipendentemente dalle aspettative e dai timori dei singoli cittadini romani, ciò che importa
per gli scopi della presente indagine è constatare che, in molti casi, la precauzione di condere
sub terra i propri denari fu inutile: una frazione apprezzabile di quelle monete, dopo qualche
tempo, non tornò mai più nelle tasche di partenza, per quante attenzioni si ponessero nello
scovarla. Non c’è bisogno di dimostrare quale interesse abbia l’escursione cronologica delle
monete comprese in ciascun ripostiglio e, più ancora, l’individuazione dell’esemplare più
recente: questo ha ottime probabilità di essere un terminus post quem per la data di chiusura
del tesoretto. Se poi si rileva l’assenza completa di esemplari coniati in nome degli immediati
successori di un dato imperatore, l’ultima emissione rappresentata offre una puntuale datazione ad quem per l’occultamento.
Per illustrare un caso concreto, nel territorio della Savoia, in un posto che oggi è decisamente
fuori mano, è venuta alla luce un’olla contenente circa 5.000 monete, per lo più argentee,
di cui le ultime recavano l’effigie di Probo. Dato che il personaggio iniziò a governare nel
luglio del 276 d.C. e perì, assassinato, nel luglio del 282, si trae la deduzione che il deposito
fu nascosto durante o dopo gli anni 276-282. Si può restringere ancora di più la fascia temporale, grazie al metodo di datazione per assenza. Alla morte di Probo, il suo luogotenente
Marco Aurelio Caro fu acclamato capo supremo dall’esercito e immediatamente confermato
dal Senato di Roma. Tuttavia del vultus di questo Caro, tra le monete savoine ritrovate, non
v’è traccia; perciò il ripostiglio fu chiuso prima della tarda estate del 282, prima cioè che cominciassero a circolare le emissioni del nuovo imperatore (Laffin et al. 1992). Va da sé che il
punto preciso dove è stato rinvenuto un determinato tesoretto è un altro elemento utilissimo,
niente affatto trascurabile dallo studioso: sempre nell’esempio, il suddetto gruzzolo, risalente
al 276-282 e non più ritirato, potrebbe significare che quella specifica valle alpina, in quei
sei anni, fu percorsa da fremiti e inquietudini, di natura da determinarsi, tali da impedire a
qualcuno di riprendere la quota di ricchezza che in precedenza aveva occultato.
Una volta compresa l’importanza cronologica e geografica dei tesoretti è venuta spontanea la
tentazione di effettuarne un diligente censimento, limitatamente all’area alpina occidentale,
come più sopra definita. S’è trattato di un paziente lavoro a tavolino compiuto passando al
vaglio la letteratura numismatica più disparata, specialmente è stato comodo avvalersi per
la parte francese dell’accurato inventario di Xavier Loriot e Bernard Rémy (TAF V-1; TAF
V-2), mentre per l’Italia è risultata indispensabile la densa rassegna di Paolo Demeglio (Demeglio 2003). È ovvio che si sono dovute tralasciare moltissime segnalazioni improprie, per
così dire «inquinanti»: le monete di scavo, di dubbia origine, raccolte tra i ruderi antichi; le
monete che, nelle tombe, erano aggiunte ai corredi funerari a titolo di «oboli di Caronte»,
col fine di agevolare il viaggio del defunto nell’aldilà; le monete di cantiere, gettate nelle
fondamenta di edifici particolarmente cari al committente con scopi benaugurali o commemorativi; le monete classificate come erratiche, per lo più fatte di metallo vile, cadute di tasca
al proprietario, senza alcuna intenzionalità, sul ciglio di una strada o negli interstizi di un pavimento sconnesso; le monete di metallo prezioso e di bella fattura, destinate a uso personale,
come parti di collane, orecchini, amuleti, etc.
In definitiva, è stata messa a punto una lista di 158 tesoretti sicuri e leggibili, collocati sui due
versanti, rodaniano e padano, delle Alpi occidentali e risalenti al periodo che va dall’inizio
dell’età dei Severi, nel 193 d.C., alla fine della prima Tetrarchia, nel 306 d.C. (Appendice I).
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Non si ha la pretesa di aver elencato tutti quanti i depositi monetali rinvenuti nel sottosuolo
dell’area in esame: più di una notizia potrebbe essere sfuggita, vuoi perché non pubblicata, vuoi perché comparsa in riviste o atti di difficile reperibilità. In effetti, oltre ai 158 qui
considerati, ci sarebbero ancora poco più di cinquanta possibili tesoretti, noti allo scrivente
per fugaci citazioni scritte o per averne visto pezzi sparsi in diversi musei; tuttavia non è
noto se sono completi né c’è certezza circa il terminus di chiusura; quindi si escludono dal
censimento, pur segnalandoli a parte (Appendice II). Peraltro, sembra che sia stato raccolto
un campione statistico numeroso e vario a sufficienza, per tentare di ricostruire alcune trasformazioni dell’area alpina nel III secolo. Dopotutto anche un numismatico celeberrimo,
come Adrien Blanchet (1866-1957), aveva pubblicato una prima lista di circa 880 ripostigli
monetali entro i confini francesi della sua epoca (Blanchet 1900, pp. 145-301); tuttavia, avendo poi continuato ad acquisire senza posa informazioni vecchie e nuove, nel 1943 lasciò al
Cabinet des Médailles, presso la Bibliothèque Nationale di Parigi, un manoscritto, col titolo
di Supplément aux trésors de monnaies romaines, dove si trovano segnalati oltre 1300 siti di
occultamento. Soltanto un atteggiamento iper-critico, di scetticismo pregiudiziale, potrebbe
reputare superfluo il risultato che il benemerito studioso aveva raggiunto agli esordi della
raccolta, solo perché non esaustivo, alla luce delle integrazioni di quarant’anni dopo.
Le monete fra tesaurizzazione e smarrimento
Dopo aver sistemato i ripostigli noti per distretti territoriali e per ordine cronologico si può
procedere sulla via dell’interpretazione storica. Si concede volentieri che la formazione precauzionale di tesoretti fosse capillare e continua in una società pre-capitalistica come quella
romana, in cui le condizioni generali dello scambio, del consumo e dell’accumulazione delle
ricchezze non erano compatibili con istituzioni creditizie sviluppate come quelle di oggi.
A ben vedere, mentre i senatori, i cavalieri e i notabili municipali potevano permettersi, con
i propri larghi mezzi, di pagare addetti alla sicurezza che vigilassero sui loro eleganti palazzi
e sui relativi forzieri, le cose andavano in modo molto diverso per la miriade di bottegai,
artigiani, soldati di professione, impiegati pubblici, etc., che gravitavano sui centri urbani,
oltre che per i minori proprietari terrieri, gli amministratori di ville padronali e i venditori
ambulanti che vivevano in campagna.
Dal punto di vista di questo popolo minuto, di estrazione libera o libertina, né ricco né povero, parsimonioso fino all’estremo ma senza solide fortune alle spalle, impossibilitato ad
accedere a un circuito bancario inesistente o ad alto rischio, la maniera più facile, anche se
non la più sofisticata, di tutelare i propri sudati risparmi era quella, per così dire, di affidarli al
terreno, augurandosi di poterli riportare in luce alla prima occasione o di lasciare il compito
a parenti e amici (Foraboschi 1993).
Peraltro, va ribadito con forza che il problema fondamentale, quello che si vorrebbe provare
a risolvere in questa sede non è tanto quale disegno il titolare originario di un tesoretto avesse
in testa all’atto di nasconderlo, quanto perché mai né lui né i suoi eredi fossero più riusciti
a tornarne in possesso. Per meglio dire: essenziale è la perdita, non l’occultamento delle
monete.
In generale si possono immaginare diversi scenari, tutto sommato accidentali, dove collocare
tale perdita: la dimora del depositante potrebbe aver preso fuoco o essere crollata improvvisamente, coprendo di macerie il denaro nascosto; il proprietario potrebbe essere deceduto nel
sonno o per una disgrazia, senza essere riuscito a confidare il suo segreto; lo stesso individuo,
affetto da demenza senile, potrebbe aver scordato l’esatta collocazione del nascondiglio e tutti gli sforzi per cercarlo sarebbero stati vani; oppure il titolare del deposito, magari un legionario, potrebbe essersi trasferito all’ultimo momento per ragioni di servizio ed essere morto
oltremare; e così via (Okamura 1990). Tali spiacevoli eventi potevano capitare ovunque e
in qualsiasi momento, a una percentuale più o meno costante della popolazione, ma questa
è impossibile da quantificare oggi, poiché non è dato di sapere, in media, quanti cittadini
dell’Impero ricorsero alla formazione di tesoretti e quanti di loro poi non se ne riappropriarono (Duncan-Jones 1994, pp. 67-94).
Un’utile approssimazione al tasso fortuito di non-recupero potrebbe fornirlo il computo, conArcheologia Uomo Territorio - 29/2010
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dotto per ambiti regionali discreti, dei ripostigli dimenticati dall’inizio del dominio augusteo
alla morte di Antonino il Pio (27 a.C.-161 d.C.), poiché quelli furono tempi relativamente
pacifici ed economicamente stabili.
Nella zona alpina occidentale, secondo una lista che, per motivi di spazio, non si può esporre
in questa sede, furono non meno di 29 i tesoretti lasciati sepolti durante i primi 188 anni
dell’età imperiale, pari a 0,15 tesoretti/anno (ts./a.). Ma tale frequenza di abbandono non
spiega a sufficienza i 158 ripostigli monetali rilevati nell’arco del secolo III: se la tendenza
allo smarrimento, nei 113 anni fra il 193 e il 306 d.C., si fosse assestata sul medesimo ritmo
dell’Alto Impero il campione alpino avrebbe dovuto limitarsi a circa 17 tesoretti (0,15 x 113),
cioè a poco più di 1/10 di quanto realmente s’è trovato.
Un’eventualità da non escludersi è che epidemie, terremoti, alluvioni o altre calamità naturali, nel III secolo possano aver condotto a morte simultanea più depositanti del solito. Sapendo
che già i regni di Marco Aurelio e di Commodo rimasero funestati da una micidiale pestilenza
e ammettendo che il morbo dell’ultima età antonina avesse infierito con eguale intensità per
tutto il seguente secolo III (Whittaker 1980), si può provare a utilizzare le perdite di tesoretti
degli anni 161-192 d.C., per sondare le conseguenze di una frequenza di smarrimento superiore ai livelli normali: nella zona alpina in esame si osserva un cluster di 24 tesoretti in 31
anni, pari a 0,77 ts./a.; se tale tendenza si estrapola ai 113 anni del secolo III in senso lato essa
dà 87 tesoretti (0,77 x 113).
Comunque la combinazione di smarrimento «fisiologico» e «patologico» lascerebbe senza
movente quasi la metà dei 158 depositi dimenticati.
Perciò diventa indispensabile richiamare, in qualsiasi discorso sopra i tesoretti del secolo III,
dei fattori straordinari.
In linea teorica, l’eccezionale balzo in avanti dei ritrovamenti monetali inquadrabili nel secolo III può essere derivato:
1) da un netto rialzo del tasso di non-recupero dei tesoretti, a parità di abitudine a nascondere
riserve di denaro, rispetto ai primi due secoli dell’età imperiale;
2) da un accentuato incremento del numero di tesoretti occultati in principio, a fronte di una
tendenza a perdere i ripostigli paragonabile, sostanzialmente, con quella precedente.
Nel primo caso, ben sapendo quanto fosse attaccata ai quattrini, anche in età romana, la piccola e media borghesia, si deve additare qualche forzatura violenta come causa dell’inaudita
volontà di lasciare sepolta sotto terra tutta quella ricchezza.
Nel secondo caso il postulato fondamentale dell’analisi è che la variabile indipendente, da
cui ricavare il numero dei depositi monetali giunti intatti fino ai giorni nostri, sia il numero di
tesoretti occultato in origine. In breve: dato il livello di circolazione monetaria presumibile
per un certo ambito geografico, quanti più tesoretti furono nascosti, tanti più ne andarono
persi in modi puramente incidentali, per sfortuna o leggerezza dei proprietari, senza necessità
d’invocare traumi collettivi.
Rilevanza e limiti dell’invasionismo
I primi tentativi sistematici per spiegare la sovrabbondanza dei tesoretti dimenticati nel secolo III furono condotti dal tedesco Theodor Mommsen (1817-1903) e dal francese Henri
Cohen (1806-1880), i quali cominciarono a enfatizzare la tremenda pressione esercitata da
eventi bellici sulla frazione non recuperata dei depositi monetali, contro una volontà di tesaurizzazione abbastanza costante nel tempo.
Secondo quest’ipotesi, in più di un’occasione, parecchi detentori di depositi monetali, terrorizzati da genti straniere circumlatrantes o da soldataglie bramose di bottino, dovettero
abbandonare le loro case precipitosamente e non ebbero più il coraggio di farvi ritorno; chi
tentò di resistere al saccheggio finì ammazzato sul posto o trascinato via in catene, senza
avere il tempo per recuperare la «roba» nascosta e neppure per comunicarne l’ubicazione a
parenti o persone di fiducia; in entrambi i casi parecchi ripostigli del III secolo furono lasciati
sotto terra, inviolati, per la gioia dei futuri archeologi e collezionisti (Blanchet 1936).
L’idea che i tesoretti fossero rimasti indietro in quanto i legittimi proprietari, che di solito
avrebbero detto o fatto di tutto per non perderli, furono costretti a una fuga senza ritorno o asArcheologia Uomo Territorio - 29/2010
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sassinati, ha avuto per molto tempo un meritato successo perché forniva un quadro realistico
dei nessi tra vicende politico-militari e tendenze psicologiche nel mondo romano.
In effetti, durante la tarda età repubblicana, segnata dalle guerre civili, furono occultati e
poi perduti numerosi gruzzoli, tanto in Italia, quanto negli altri teatri del gigantesco scontro
armato fra populares e optimates (Crawford 1969).
Nei primi due secoli dell’era volgare, relativamente pacifici, si ebbe una decisa riduzione dei
ripostigli abbandonati nei vari angoli dell’Impero.
L’apparente tranquillità durò fino all’età di Marco Aurelio che iniziò a essere turbata dai Marcomanni e da problemi economici e demografici di prima grandezza (Sorda 1980-81). Uno
spettacolare aumento dei depositi monetali si registrò nel seguente «secolo di ferro», quando
la società civile fu sconvolta da una terribile sequenza di incursioni barbariche, pronunciamenti militari, separatismi provinciali e tumulti popolari.
Non si contano gli storici che hanno preteso d’identificare qui un Münzenfund-horizont, là
un front d’enfouissements, lasciati dietro di sé da predoni germanici lanciati in crudeli scorribande o di soldati dediti a taglieggiamenti sulle popolazioni ospiti. Ad esempio, cartine di
distribuzione alla mano, lo studioso nazista Harald Köthe (1904-1944) ha esaltato l’incontenibile energia guerriera dei Franchi e degli Alemanni, suoi antenati d’elezione, nei confronti
della mollezza di costumi dei Romani e della cronica mutevolezza dei Celti, rimarcando con
toni compiaciuti l’ubiquità di nascondigli monetali oltre il Reno (Köthe 1942).
Usando le medesime mappe e leggendole in maniera analoga, Emilienne Demougeot (19101994), una grande storica certamente non tenera verso il Germanesimo, ha fornito articolate
descrizioni di successive ondate barbariche in Gallia, maggiori o minori, comprese alcune di
cui non sarebbe rimasta alcuna traccia documentaria (Demougeot 1969, pp. 493-521).
Un’ulteriore spinta all’abbandono di monete fu data dalla paura di assedi e saccheggi, requisizioni e stragi, legata al transito di eserciti rivali, impegnati a disputarsi un determinato
territorio (Gricourt 1954).
Il fenomeno dei tesoretti perduti si sarebbe ridimensionato solo nel secolo IV, grazie alla
ritrovata sicurezza sui confini e all’interno del paese.
In verità, le cose non sono così semplici come sembrano a prima vista. Nessuno si stupisce
che un’apprezzabile scia di tesoretti possa emergere lungo il limes renano, sottoposto a incessanti razzie germaniche o a frequenti ammutinamenti di truppe (Van Gansbeke 1955); così
come sulle rive del Danubio, parimenti minacciate dalle fiere tribù sarmatiche (Mocsy 1974,
pp. 102-104).
Il discorso però non vale per le province lontane dai confini dell’Impero: ad esempio nella
penisola iberica non è per nulla possibile ricondurre la maggioranza dei ripostigli del secolo
III a un qualche incursus barbarorum o ai guasti di pronunciamenti militari (Sagredo 198185). Ancora, in Britannia si sono trovate dozzine di tesoretti nel pieno secolo III mentre, nei
testi letterari o epigrafici, mancano i riferimenti puntuali a invasioni di Pitti, Scoti e Sassoni
o a lotte intestine di qualche importanza (Reece 1974).
Di fronte a questa situazione, che in inglese viene definita ironicamente di hoards without
hordes, di «ripostigli senza orde», qualcuno è stato tentato d’introdurre nello schema le guerre mancanti, magari inventandone di completamente ignote alle fonti (Mocsy 1974, pp. 202,
205, 264). A nessuno sfugge la pretestuosità di questo genere di atteggiamento che, in alcuni casi, ha condotto a rappresentazioni ingannevoli o altamente speculative dei fatti storici
(Haider 1989).
Restando nelle Alpi occidentali, si osserva che 95 tesoretti su 158, pari al 60,16% del campione, furono occultati ma non recuperati tra il 193 e il 270 (Appendice I A-B); però, in zona,
una sola invasione di Alemanni, nel 259-261 d.C., arrivò a seminare lutti e rovine in quantità
rilevanti (Fellmann 1992, pp. 64-80).
D’altra parte, l’histoire événementielle mostra che il confronto fra il legittimo imperatore
Gallieno e il suo rivale gallico Postumo si manifestò più con atti diplomatici e gesti dimostrativi, finalizzati al riconoscimento delle rispettive sfere d’influenza, che non con battaglie
cruente. In particolare non si videro scontri frontali fra i due nemici nell’area alpina occidentale: l’unica campagna militare vera e propria, intorno al 265, ebbe per teatro le Alpi centrali, tra il Nord Italia e la Rezia (Biffi 1989). Sarebbe irrealistico immaginare che un’unica
razzia barbarica, verificatasi intorno al 260, per quanto devastante, da un lato facesse perire
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a migliaia i cittadini romani, dall’altro ossessionasse col ricordo i superstiti al punto da costringerli a evacuare definitivamente la zona lasciando nel sottosuolo beni mobili nascosti
addirittura molti anni prima.
La congettura risulta ancora più inaccettabile se si rileva che il picco delle perdite di denaro,
con 26 ripostigli scoperti, si toccò sotto Claudio il Gotico e suo fratello Quintillo (268-270),
quasi un paio di lustri dopo il riflusso dell’ondata barbarica suddetta. Qualche critico potrebbe obiettare che un’invasione alemannica nel 270-271 ci fu davvero; tuttavia, l’appunto
sarebbe inutile perché è certo che, quella volta, i barbari entrarono dal Norico e dalla Rezia
nell’Italia nord-orientale e dilagarono verso l’Emilia e il Piceno, prima di essere sconfitti e
ricacciati di nuovo su per i valichi delle Alpi centrali. In quel preciso frangente il nemico non
si spinse più a ovest di Pavia e le Alpi occidentali non corsero mai alcun pericolo immediato
di razzia (Huvelin 1982).
Per quanto riguarda la fase successiva, dal 271 al 306 d.C., nelle Alpi occidentali continuò
a ritmi sostenuti l’occultamento irreversibile di tesoretti: se ne conoscono 63 su 158, pari al
restante 39,87% del campione (Appendice I C). Ciò nonostante, in quel tempo, i tentativi
di sconfinamento al di qua del Reno da parte degli Alemanni furono bloccati sul nascere o
comunque arginati prima che potessero giungere ai piedi delle Alpi occidentali. Inoltre, il
solo conflitto notevole all’interno dei confini fu quello che vide opposto nel 280-281 d.C.
l’usurpatore Proculo all’imperatore Probo; d’altronde né di Tetrico contro Aureliano (274),
né di Carino contro Diocleziano (284) si tramandano, nella zona in esame, tracce indelebili
di scontri per il potere (Biffi 1990).
In breve, nelle Alpi occidentali, così come altrove, il numero dei ripostigli monetali abbandonati supera in modo schiacciante le occasioni certe di rumore guerresco e si rivela imbarazzante per chi voglia imputare il lascito dei tesoretti all’improvvisa scomparsa degli
occultatori.
La debole alternativa «economicista»
Il vantaggio della spiegazione convenzionale stava nel vivido dramma di persecutori e vittime che consentiva d’evocare; il suo punto debole era rappresentato dall’eccedenza di tesoretti dimenticati rispetto alle rare e circoscritte gesta d’invasori forestieri o di generali senza
scrupoli, ricordate dai documenti. Per superare questo difetto innegabile, particolarmente
messo in luce dalle fatiche di Anne Strachan Robertson (1910-1997), s’è sviluppata, in seno
alla comunità degli storici, un’inclinazione nettissima a sganciare le testimonianze di depositi
monetali dai pericoli di ordine militare (Reece 1981).
L’imponenza, per numero assoluto, dei ripostigli risalenti al secolo III significherebbe piuttosto che proprio allora, rispetto ai secoli precedenti, era cresciuta immensamente la pletora
delle famiglie propense a tesaurizzare il proprio denaro, anche a rischio di smarrirlo.
Schematizzando, oggi si preferisce ipotizzare un poderoso incremento del numero di tesoretti
originariamente occultati, in presenza di tassi di non-recupero, dovuti a sbadataggini, disgrazie, trasferimenti d’ufficio o ad altri motivi accidentali, che restarono fissi o di poco fluttuanti
intorno ai livelli consueti d’età alto-imperiale. Va da sé che lo scopo, neppure troppo velato,
di tale revisione concettuale è quello di minimizzare, anche sul piano numismatico, le scosse
violente e le rotture sociali nel corso della storia romana.
La supposta frenesia di accantonare riserve monetali, a sua volta, non sarebbe dipesa da una
spaventosa temporum perversitate, bensì da una spontanea reazione del mercato contro specifici interventi statali in campo monetario che sarebbero stati giudicati, a torto o a ragione,
lesivi del risparmio privato (Casey 1986, pp. 53-57; Drinkwater 1987, pp. 154-157; Reece
2002, pp. 67-88).
Facendo riferimento a misure di politica economica, è d’obbligo ricordare che l’epoca in esame, come minimo dal 253 al 301 d.C., conobbe una vertiginosa ascesa dei prezzi, associata
all’emissione, da parte delle zecche ufficiali, di molte monete, ma di qualità deteriore. Quello
della «grande inflazione» è un tema storiografico sul quale non si cessa di discutere (Callu
1969, pp. 111-146, 237-260, 475-483).
Alcuni studiosi attribuiscono il disordine economico a un eccesso della domanda di merci, da
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parte sia di uno Stato oberato da spese militari e amministrative incomprimibili, sia di un’élite urbana avvezza al sovraconsumo; in tale chiave interpretativa, che pare condivisibile, la
necessità di contenere il dissesto delle finanze, pubbliche e private, avrebbe dettato ad alcuni
uomini politici, precisamente a Caracalla nel 215 e a Gallieno nel 260, la soluzione scorretta
di degradare la moneta, enfatizzandone al contempo il carattere fiduciario, allo scopo d’alleggerire i pagamenti, dovuti dalla classe dominante a coloro che la rifornivano di beni e servizi
(Foraboschi 1976; Corbier 1986).
Altri autori puntano il dito, in ultima istanza, verso un vincolo oggettivo: la riduzione delle
riserve di argento coniabile, da intendersi vuoi in senso relativo, di scarsità dovuta a una
circolazione troppo vorticosa della moneta, vuoi in senso assoluto, di esaurimento dei giacimenti naturali di metallo; in tale congiuntura, dovendo continuare ad assecondare gli scambi
economici, gli imperatori trovarono l’espediente di lanciare antoniniani a basso valore intrinseco, cioè a scarso contenuto di fino, a fronte di un valore facciale stabile o accresciuto.
Tuttavia, temendo d’incassare un equivalente adulterato, i produttori e distributori delle merci
si tutelarono, aumentando in misura più che compensativa i prezzi al pubblico; così s’innescò
una spirale inflazionistica perversa, che coinvolse profitti e rendite, salari e debiti, imposte e
trasferimenti di risorse statali (Depeyrot, Hollard 1987; Depeyrot 1988).
Il paradigma «economicista» in materia di tesoretti pretende che, durante il secolo III, migliaia e centinaia di migliaia di cittadini, allarmati dalle malizie o dagli azzardi del governo
centrale, avessero contemporaneamente deciso di sotterrare una parte della liquidità di cui
disponevano, costituita dalle monete relativamente più vecchie e perciò di maggior pregio,
in rapporto a quelle nuove, sempre più svalutate. Una simile teoria, è inutile negarlo, suscita
enormi perplessità.
La prima e principale obiezione è di ordine logico-storico: ammesso, ma non concesso, che
l’inflazione galoppante fosse in cima alle preoccupazioni dei piccoli e medi risparmiatori, è
sufficiente il buon senso per comprendere che, proprio nella previsione di un quotidiano aumento dei prezzi e/o di un progressivo svilimento del numerario, la pratica di mettere da parte
dei contanti, correndo il rischio di ritrovarsi alla fine con pezzetti metallici d’incerto valore o
addirittura fuoriusciti dal corso legale, sarebbe stata scoraggiata, non incentivata a dismisura.
Viceversa, chiunque, dotato di un pizzico di accortezza, si fosse trovato con parecchi antoniniani, prossimi a perdere potere d’acquisto, non li avrebbe ammucchiati, ma se ne sarebbe
disfatto quanto prima, in favore d’impieghi più sicuri, comprando case e terreni, schiavi e
strumenti di lavoro, opere d’arte e gioielli, o, al limite, rifondendo le vecchie monete, con
superiore quantità di fino, per farne maneggevoli lingotti o lucente suppellettile domestica.
Chiaroveggenza a parte, si dovrebbe poter dimostrare che durante il secolo III ci furono legami organici tra le mutevoli scelte governative, le attività delle zecche e le impennate dei prezzi, per un verso e l’occultamento di tesoretti per l’altro. Tuttavia questo tipo di ricostruzione
ha basi cronologiche assai fragili perché le date di chiusura dei singoli gruppi di ripostigli non
seguono, se non in modo imperfetto e discontinuo, le tappe di svalutazione e poi di ripresa
conosciute dalla moneta.
In mezzo a ritardi e anticipi vari, una coincidenza specifica desta meraviglia: il nadir del
tenore argenteo nell’antoniniano si toccò nel biennio 268-270, sotto Claudio II, con un titolo
dell’1-2% appena, mentre, paradossalmente, proprio queste emissioni scadenti, marchiate
con l’effigie del Divus Claudius, furono massicciamente inserite nei tesoretti del pieno secolo
III (Bompaire, Hollard 1987).
Di fronte a questa palese difficoltà, la quale s’appianerebbe già ricordando che l’età di Claudio il Gotico fu una delle più cupe dell’intera storia romana, specie in Occidente, negli ambienti «economicisti» s’ipotizzano situazioni del tutto contro-intuitive, come quella di miriadi d’irrazionali collezionisti, pateticamente affezionati ai loro cari vecchi tondelli di rame
imbiancato, in dissidio con il despotico innovatore Aureliano, che avrebbe voluto ritirarli di
circolazione e soppiantarli con un’altra moneta, in apparenza migliore.
Ci si chiede, allora, perché non dovrebbe funzionare altrettanto bene, come spiegazione ad
hoc, l’ipotesi diametralmente opposta: quella di speculatori oculatissimi che avrebbero accumulato consapevolmente monete di cattiva lega, sperando prima o poi di separarne il rame,
del quale ci sarebbe stata una forte richiesta, magari quale materia prima industriale (Arslan
1990). La discussione, comunque, sarebbe di corto respiro, essendo arduo da sostenere che la
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preferenza di principio per la moneta d’argento, rispetto al volgare divisionale in bronzo, sia
venuta mai meno nel secolo III, pur essendosi succedute riforme monetarie di senso opposto,
alcune introdotte per garantire il reddito di soldati esigenti e plebei riottosi (Lo Cascio 1993),
altre favorevoli ai ceti superiori (Carrié 1993); riforme che potrebbero, occasionalmente, aver
messo in oscillazione il rapporto di valore tra i metalli.
La posizione «economicista», oltre che di sfasature cronologiche, soffre di un’incongrua
dispersione geografica dei tesoretti. Il supposto bisogno di salvaguardare i risparmi dall’inflazione, chiudendoli in ripostigli segreti, dovrebbe essere stato avvertito in maniera omogenea
ovunque o, meglio, in misura più ampia presso quelle popolazioni dell’Impero che erano più
sviluppate nell’industria e nel commercio.
Una necessaria conseguenza di tale argomento dovrebbe essere che, quanto più un comprensorio in antico fosse stato dotato di centri urbani, tanto più dovrebbe restituire oggi marcate
concentrazioni di tesoretti (King 1981). Purtroppo ciò non è sempre vero: ad esempio nelle
Alpi occidentali, scorporando per circoscrizione antica di appartenenza i 158 tesoretti conosciuti, si osserva che ben 88, cioè il 55,70% del campione, provengono dalla Narbonese
nord-orientale, pur occupando tale distretto solo il 14,37% della superficie in esame.
L’anomalia sta nel fatto che la Narbonese nord-orientale, con 1 centro abitato maggiore ogni
568 km2, non era la parte più urbanizzata della zona alpina interessata alla ricerca, potendosi
stimare, ad esempio, 1 città ogni 490 km2 nella Narbonese sud-orientale; laddove, però, si
contano solo 5 ripostigli del secolo III, cioè il 2,66% del campione, nonostante il comprensorio si estendesse sul 16,90% dell’area considerata.
Si potrebbe osservare che l’impero romano certamente includeva province, come quelle
egiziane e anatoliche, dove le condizioni di circolazione della moneta erano storicamente
distinte dal resto del territorio statale (Harl 1996, pp. 97-124); oppure comprensori di frontiera, dov’erano di stanza legioni che drenavano enormi quantità di denaro pubblico (Stribrny
1989).
Ciò nonostante, è poco credibile che, tra il Settentrione e il Meridione di un medesimo distretto, per di più in una provincia quasi smilitarizzata, la massa monetaria circolante, la
sua velocità di rotazione, i criteri dell’amministrazione tributaria, etc. non fossero uniformi
(Rémy 1985). D’altronde un’analoga discrepanza si riproduce, a scala più grande, nelle Gallie del secolo III: due province ricche e civili, come l’Aquitania e la Narbonese a occidente
del Rodano, fanno spicco per la penuria dei ritrovamenti monetali, rispetto alla limitrofa Narbonese orientale, alla Lionese, alla Belgica e alle due Germanie (Lafaurie 1975; Genevieve
2000, pp. 45-49).
Un altro eloquente contrasto, nella dislocazione dei tesoretti, si desume dalle cartine relative
all’Italia Settentrionale, dove si riscontra una densità di reperti del secolo III molto maggiore
andando verso il nord-ovest, specialmente nell’odierno Piemonte, relativamente arretrato,
che guardando all’evoluto nord-est, in direzione dell’Adriatico, dove la circolazione monetaria doveva risultare ben più intensa (Chiaravalle 1990).
Una volta di più la visione di uno straordinario boom della tesaurizzazione monetaria nel
secolo III, tale da causare un indiretto aumento del numero di ripostigli monetali smarriti,
risulta proiettata sopra scenari alquanto congetturali, per non dire completamente fittizi.
La piaga misconosciuta del banditismo
Nelle pagine precedenti si è dimostrato come la proposta «invasionista» in tema di depositi
monetali del secolo III abbia un buon potere esplicativo ma risulti troppo riduttiva, strettamente vincolata com’è a pochi cozzi di spade puntualmente accertati; l’altra ipotesi, quella
«economicista», è pressoché inservibile perché nasce da una versione deforme della psicologia dei risparmiatori non suffragata da alcun elemento probante, né cronologico né geografico. Un avanzamento in questo settore di studi può venire solo da un nuovo approccio che
riprenda il nocciolo duro della prima impostazione, quello della violenza come causa di forza
maggiore per l’abbandono dei ripostigli e lo allarghi fino a includere altri tipi di conflitto
meno occasionali di quelli fra Barbari e Romani o fra eserciti romani opposti tra loro.
Orbene, tutti gli storici della letteratura greca e latina e molti epigrafisti sanno che, nel mondo
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antico in generale e nelle campagne dell’impero romano in particolare, c’era una minaccia
capillare e continua, sebbene poco clamorosa, che incombeva sui beni e sulle persone tanto
dei piccoli e medi possidenti, quanto dei viaggiatori facoltosi, dei magnati arroganti o dei
funzionari corrotti, vale a dire la pratica criminale dei furfanti autoctoni (Shaw 1984; 1989).
Invero l’attività brigantesca era sordida abbastanza da essere taciuta in molte fonti scritte,
vuoi per carità di patria, vuoi per disprezzo malcelato nei confronti della canaglia; ciò non
di meno aveva una sua sinistra efficacia nel condizionare la vita di tutti i giorni, come attestano le non rare commemorazioni d’individui interfecti a latronibus e l’esistenza di forze
di polizia impegnate nella repressione del brigantaggio. Infatti, d’accordo con i governatori
provinciali, le singole amministrazioni locali, egemonizzate dai notabili cittadini, crearono
talora appositi corpi armati di stationarii, «irenarchi», «lestoplasti», etc., tutti variamente
dediti alla lotta contro i malfattori delle campagne (Pekàry 1987).
Per citare un’area adiacente alle Alpi occidentali, la catena del Giura, essa fu sempre infestata
da briganti, così che alcuni consigli municipali, come quello dell’odierna Nyon, sulle rive
del Lago Lemano, furono costretti a istituire la carica straordinaria di praefectus arcendis
latrociniis (Moltas 1978; Veuthey 1994).
Riconoscere che il banditismo fu un male endemico nel mondo romano e che, in certe zone,
raggiunse dimensioni allarmanti, è un’acquisizione intellettuale non priva d’importanza ma
che, di per sé, rischia di esaurirsi in una descrizione tipologica, meramente classificatoria,
incapace di arrivare alle radici sociali del fenomeno (Van Hooff 1988). Nel tentativo di superare quest’orizzonte concettuale, la visione degli storici di oggi pare un poco offuscata: c’è
chi descrive i banditi come contadini poveri, arrabbiati per il disordine economico indotto o
permesso dallo Stato (Gagé 1964, pp. 143-148), oppure come genti nomadi o montanare, dal
carattere forte e rude, in qualche modo nostalgiche delle libertà preromane dei loro avi (Mac
Mullen 1966, pp. 256-268) o, ancora, come energumeni dalla mente annebbiata, strumentalizzati da esponenti di seconda fila dei ceti dominanti locali (Hopwood 1989).
Il giudizio prevalente, comunque, è che i latrones fossero dei soggetti marginali della società
romana, sostanzialmente ininfluenti sul corso dei grandi eventi e dei grandi processi storici.
Per trovare una concezione dinamica della presenza brigantesca bisogna rivolgersi alla scuola marxista: l’eminente storico sovietico Aleksandr D. Dmitrev (1888-1962) suggerì, a suo
tempo, che il banditismo di età imperiale fosse sintomo non di un disturbo superficiale, bensì
di un malessere profondo, potenzialmente distruttivo, a carico dell’intero organismo sociale.
Secondo quest’autore, certamente tendenzioso ma col pregio della chiarezza, oltre che di una
formidabile erudizione, la manovalanza delle bande che percorrevano le campagne del mondo romano, dalla Siria all’Egitto, dall’Italia alla Tracia, sarebbe stata reclutata tra gli schiavi
rurali maltrattati, sempre e dovunque molto numerosi, ai quali, secondo le zone, si sarebbero
uniti i pastori senza bestie, i braccianti disoccupati, i fittavoli sotto sfratto, i piccoli proprietari in rovina. I capi delle bande sarebbero stati, invece, degli individui esperti nell’uso delle
armi e delle tattiche della guerriglia: per lo più migranti indocili di estrazione barbarica o disertori dell’esercito regolare. L’autentico brigante, non l’avversario politico diffamato come
tale, avrebbe nutrito sentimenti anti-plutocratici, vagamente anarchici, contro le élite urbane,
ricche e altamente civilizzate, che gli ricordavano l’oppressione subita; tale odio di classe si
sarebbe espresso alla cieca, con atti di delinquenza comune, giacché un lucido programma di
lotta rivoluzionaria era un miraggio per quelle epoche lontane (Dmitrev 1951).
Il discorso può essere meglio circostanziato: in Occidente nella seconda metà del secolo II
e nella prima metà del III, per ragioni legate alla demografia e alla fine delle grandi guerre
di conquista, la riserva globale di schiavi prese a scarseggiare. I lavoratori agricoli rimasti,
asserviti o liberi che fossero, essendo divenuti indispensabili alla società, presero confidenza
di sé e rivelarono un’inaspettata combattività, sia nel portare avanti rivendicazioni economiche, sia nel reagire con veemenza alle offese; tra le forme di questa reazione ci fu la scelta, da
parte di molti, di darsi alla macchia e cominciare a vivere di rapine e sequestri.
Il brigantaggio, montante in parallelo alla complessiva ascesa sociale delle classi subalterne,
con passo lento ma inesorabile, divenne un serio pericolo in tutte quelle province dove l’agitarsi di pravi homines, figli della società schiavistica in decomposizione, rischiava di saldarsi
con le micidiali scorrerie barbariche o di camuffarsi tra le proteste di soldati violenti (De
Ste.-Croix 1981, pp. 474-484).
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Applicando ai ripostigli monetali quest’inedita prospettiva, che rimanda a un brigantaggio
diffuso, si può affermare che nel III secolo, rispetto ai due secoli precedenti, aumentò drammaticamente la frazione di tesoretti perduti, non il numero assoluto di quelli nascosti in partenza; molto più di prima, infatti, i risparmiatori furono attanagliati dalla paura. Non solo
da quella, occasionale, di predoni forestieri o soldatesche rapaci, ma anche e soprattutto da
quella, permanente, per i grassatori autoctoni; in effetti, quei malviventi erano dappertutto e
potevano sempre aggredire a mano armata i cittadini abbienti, costringerli a rifugiarsi altrove
o, addirittura, ucciderli, non lasciando loro il tempo di recuperare i gruzzoli occultati.
Nei limiti dell’area alpina occidentale si osserva una certa tranquillità delle campagne lungo
tutta l’età dei Severi: 9 ripostigli scarsi, chiusi nei 42 anni dal 193 al 235, fanno 0,21 ts. (9/42)
per anno; un valore non dissimile da quello di 0,15 ts. per anno, attestato, come s’è visto, per
il periodo da Augusto ad Antonino Pio. La calma deve essere stata imposta dal pugno di ferro
di Settimio Severo, noto persecutore dei ribelli di ogni risma (Alföldy 1971).
Un drastico peggioramento dell’ordine pubblico si ebbe nella fase storica successiva: 86
ripostigli, chiusi nei 34 anni dal 236 al 270, fanno 2,53 ts. (86/34) per anno, totalizzando il +
1100% sulla media del quarantennio precedente. Probabilmente una parte delle classi inferiori diede libero sfogo al rancore sociale contro gli sfruttatori e gli honestiores in generale,
adottando mezzi estremi, compreso il banditismo. In particolare il biennio 268-270, con i
suoi 26 ripostigli, pari a 13,00 ts. (26/2) per anno, conobbe l’apogeo dell’insicurezza nelle
Alpi occidentali. Quest’infittirsi dei reperti coincise nel più ampio teatro delle Gallie con un
salto di qualità delle bande di fuorilegge già esistenti, le quali, rese baldanzose da un incoerente ed effimero tentativo secessionista dei maggiorenti gallo-romani, divennero agguerrite
al punto di configurare, poco prima del 270, una sorta di rivolta contadina: quella dei cosiddetti Bagaudae (Lassandro 1981-82; Badot-De Decker 1992).
Nel corso dell’epoca seguente, da Aureliano alla prima Tetrarchia, nella zona alpina occidentale, ci fu un ritorno molto graduale alla stabilità: 63 ripostigli chiusi nei 35 anni dal 271 al
306 fanno 1,80 ts. (63/35) per anno, che rappresentano un calo di quasi il 29% sulla media
antecedente, pur restando la frequenza di abbandoni ancora otto volte e mezza superiore
a quella dell’età severiana. In quel tempo i Bagaudi, dietro impulso dei loro ultimi capi,
Amando ed Eliano, continuarono a imperversare un po’ dovunque, comprese le Alpi Graie
e Pennine: ivi, secondo la tradizione, si verificò l’ammutinamento di un reparto di soldati
egiziani, provenienti dalla remota Tebaide, che era stato mandato a liquidare i ribelli (Cracco
Ruggini 1983). Il grave subbuglio rusticano fu sedato, nel 286, da Massimiano e Diocleziano;
tuttavia, per evitare il ripetersi di analoghi tumulti nelle campagne, il padronato e il governo
s’accordarono per accelerare la sostituzione dei servi rurali con schiere di fittavoli legati alla
gleba, dando così origine ai coloni semiliberi della Gallia tardo antica (Dockés 1980; 1982,
pp. 76-90 e 212-232).
Conclusione
Considerato che l’apporto della numismatica, in concorso con l’archeologia e la documentazione scritta, può migliorare sensibilmente la conoscenza dei fatti economici e sociali
dell’antichità, un bilancio preliminare sui ripostigli del secolo III, nell’area alpina occidentale, consente di anticipare quanto segue: ogni volta che non si trovino stretti collegamenti tra
più tesoretti sincroni, cioè nascosti in un medesimo frangente, e discese di barbari o guerre
civili abbattutesi sopra un determinato territorio, si possono attribuire le brutalità subite dai
cittadini romani alla delinquenza comune, imperversante dentro le frontiere imperiali.
La dimostrazione di quest’ipotesi «banditesca» richiederebbe un’analisi ben più articolata,
fase per fase e distretto per distretto, di quella che si è potuta svolgere nelle pagine precedenti; ne emergerebbero puntuali aderenze tra la curva di abbandono dei depositi monetali, con i
suoi picchi e discese, e il mantenimento dell’ordine pubblico durante il secolo III, con l’acutizzarsi progressivo del brigantaggio, con la sua trasformazione in movimento insurrezionale
degli schiavi e dei contadini poveri, infine con il ripristino della legalità, dovuto all’opera di
Diocleziano e dei suoi collaboratori.
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Bianchi - L’insicurezza delle Alpi occidentali nel secolo III - pag.17 di 24
APPENDICE I
Dovendo trattare uno schedario molto ricco di siti archeologici, a ogni ripostiglio
è stato fatto corrispondere un
numero d’identificazione.
La numerazione è progressiva
in ordine cronologico, procedendo per tre fasi successive,
A-B-C, ampie ciascuna 35
anni circa, per nulla scandite da eventi politico-militari
assunti a priori come discriminanti. Inoltre, i vari rinvenimenti sono raggruppati con
un criterio geografico misto,
che descrive l’odierna appartenenza amministrativa, ma
fornisce contemporaneamente dei ragguagli sulla provincia o regione romana di riferimento.
Così, per non perdere eventuali connessioni storicamente rilevanti, ciascuna delle
tre sezioni comincia con i
siti della Narbonensis nordorientale; seguono, nell’ordine, i siti della Narbonensis
centro-orientale, della Narbonensis sud-orientale, delle Alpes Graie et Penninae, delle
Alpes Cottianae, delle Alpes
Maritimae e della Transpadana occidentale; infine compaiono i siti della Liguria occidentale. La figura 2 mostra
chiaramente questa peculiare
ripartizione spaziale.
Per esigenze di brevità, invece, si è deciso di non riportare la composizione in specie
monetali dei singoli tesoretti
né le circostanze delle relative scoperte: per tutto ciò si
rimanda alle opere citate in
bibliografia.
Figura 2.
Tesoretti del III secolo d.C. nelle Alpi occidentali. Nn. 1-9: 193-235 d.C; nn. 10-95: 236-270
d.C; nn. 96-155: 271-306 d.C.
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Bianchi - L’insicurezza delle Alpi occidentali nel secolo III - pag. 18 di 24
A-RIPOSTIGLI CHIUSI TRA IL 193 E IL 235 DOPO CRISTO.
Il campione include 9 ripostigli di monete (nn. 1-9), di cui le più tardive recavano l’effigie
di Settimio Severo (193-211), di Caracalla (211-217), di Eliogabalo (218-222) oppure di
Alessandro Severo (222-235).
B-RIPOSTIGLI CHIUSI DAL 236 AL 270 DOPO CRISTO.
Il campione include 86 ripostigli di monete (nn. 10-95), di cui le più recenti emesse sotto
Massimino il Trace (235-238), Pupieno e Balbino (238), Gordiano III (238-244), Filippo l’Arabo (244-249), Decio (249-251), Treboniano Gallo e Volusiano (251-253), Emiliano (253),
Valeriano associato con suo figlio Gallieno (253-260), Gallieno regnante unico (260-268),
Claudio II (268-270) oppure Quintillo suo fratello (270). Data la peculiare collocazione geografica delle Alpi occidentali, non si possono non prendere in considerazione alcuni depositi
che si chiudono con pezzi dell’usurpatore gallico Postumo (260-269).
C-RIPOSTIGLI CHIUSI DAL 271 AL 306 DOPO CRISTO.
Il campione include 63 ripostigli di monete (nn. 96-158), terminanti con emissioni dei legittimi imperatori Aureliano (270-275), Tacito (275-276), Floriano (276), Probo (276-282),
Caro (282-283), Numeriano (282-284), Carino (282-285), Diocleziano (284-305), da solo
o insieme con uno dei suoi sodali nel regime della Tetrarchia, quali Massimiano l’Erculeo
(286-305) oppure Costanzo I, detto il Cloro (292-306). Alcuni depositi si chiudono con pezzi
degli usurpatori gallici Tetrico (271-274) e Bonoso (280).
N
1
Comune
Vaulx
2
Annecy
3
Menthon-St.Bernard
Meyzieu
4
5
6
7
8
9
La MotteServolex
Moirans
Varces
St.-Jean-deMaurienne
Settimo Torinese
Terminus
Caracalla
Bibliografia
TAF V-2, p. 98
Caracalla?
TAF V-2, p. 89
Settimio Severo
TAF V-2, p. 99
Clodio Albino e
Settimio Severo
Settimio Severo?
BLANCHET 1900, p.
155, n. 211.
TAF V-2, p. 73.
Distretto
HauteSavoie
HauteSavoie
HauteSavoie
Rhône
Località
Les
Huches
Les Fins
A
Le Bois
Savoie
Imprec.
Isère
Isère
Savoie
Imprec.
Settimio Severo PARISOT 2004, p. 153.
Imprec.
Eliogabalo
PARISOT 2004, p. 153
Imprec. Alessandro Severo
TAF V-2, p. 79.
Torino
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Imprec.
Isola
Alessandro Severo DEMEGLIO 2003, n. 44
pag. 48
Tabella A
Ripostigli chiusi tra il 193 e il
235 dopo Cristo.
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N
10
12
13
Comune
Thonon-lesBains
St.-GenisPoully
Bardonnex
Reignier
14
Sillingy
15
Minzier
16
Seyssel
11
17 Amberieu-enBugey
18
Annecy
19
20
Veyrier-duLac
Sévrier
21 Sault-Brenaz
22
Loyettes
Distretto
Savoie
Località
Tully
Terminus
Claudio II
Bibliografia
TAF V-2, p. 97.
Ain
Le Moulin
Claudio II
TAF V-1, p. 31
Genève
HauteSavoie
HauteSavoie
HauteSavoie
Ain
Landecy
Villy
Claudio II
Filippo
l’Arabo
Valeriano e
Gallieno
Valeriano e
Gallieno
Filippo
l’Arabo
Massimino il
Trace
Gordiano III
LORIOT 1980
TAF V-2, pp. 94-95
Ain
HauteSavoie
HauteSavoie
HauteSavoie
Ain
Ain
Ceysollaz
Ballon
Sponda dx
del Rodano
Imprec.
Les Fins B
Grotte-de-laChaminée
Imprec.
Imprec.
Imprec.
23
Faverges
24
Montcel
HauteSavoie
Savoie
25
26
Groslée
Optevoz
Ain
Isère
La Bathied’Albanais
Imprec. A
Imprec.
Savoie
Imprec.
Savoie
Portaz
Isère
Savoie
Isère
Cozance
Pont-St.Charles
Ruffieu
Savoie
Isère
Imprec.
Imprec.
Isère
Imprec.
Isère
Imprec.
36
St.-Etiennede-Crossey
Lumbin
Isère
Imprec.
37
Brézins
Isère
Vie-de-Lariot
38
39
La Rivière
Grenoble
Isère
Isère
Imprec.
La Grand
Rue
27 La Motte-enBauges
28 St.-Françoisde-Sales
29
Trept
30
Cognin
31
32
33
34
35
NivolasVermelle
Vimines
Pontcharrasur-Breda
Royas
Viuz
Archeologia Uomo Territorio - 29/2010
Postumo
Claudio II
Postumo
Valeriano e
Gallieno
Gallo e
Volusiano
Quintillo
TAF V-2, p. 96.
TAF V-2, p. 94
TAF V-2, p. 42
BUISSON 1990, p. 32
TAF V-2, p. 90
BERTRANDY et al. 1999,
pp. 357-358.
TAF V-2, p. 95.
TAF V-1, p. 41
TAF V-1, p. 28
BERTRANDY et al. 1999,
pp. 238-239.
TAF V-2, p. 73.
Gordiano III
Filippo
l’Arabo
Filippo
l’Arabo
Quintillo
TAF V-2, pp. 73-74.
Claudio II
Claudio II
TAF V-2, p. 56
TAF V-2, p. 71.
Valeriano e
Gallieno
Claudio II
Claudio II
TAF V-2, pp. 47-48.
Valeriano e
Gallieno
Gordiano III
TAF V-2, p. 50.
Filippo
l’Arabo
Claudio II
Gallieno
Claudio II
TAF V-1, p. 26.
TAF V-2, p. 48.
TAF V-2, p. 73.
TAF V-2, p. 75.
TAF V-2, p. 49.
TAF V-2, p. 60.
PELLETIER et al. 1994, p.
134.
BOMPAIRE, HOLLARD
1997.
TAF V-2, p. 50.
TAF V-2, p. 44.
pag. 49
Tabella B
Ripostigli chiusi dal 236 al 270
dopo Cristo.
Bianchi - L’insicurezza delle Alpi occidentali nel secolo III - pag. 20 di 24
40
Montfalcon
Isère
Le Breniér
41
Vinay
Isère
42
Vinay
Isère
43
St.-Romans
Isère
Les
Gallisières
La
Buissonnière
Imprec.
44
Andancette
Drôme
Imprec.
45
46
La Tronche
Auberivesen-Royans
VeureyVoroize
VeureyVoroize
St.-Paul-lèsRomans
St.-Just-deClaix
La Mure
Isère
Isère
Imprec.
La Soyerie
Isère
Imprec.
Isère
L’Eglise
Drôme
Châtillon-St.Jean
La Manaie
47
48
49
50
51
52
Gallo e
Volusiano
Filippo
l’Arabo
Valeriano e
Gallieno
Valeriano e
Gallieno
Valeriano e
Gallieno
Claudio II
Valeriano e
Gallieno
Gallo e
Volusiano
Claudio II
PELLETIER ET AL.1994,
p. 159.
TAF V-2, pp. 56-57.
Decio
TAF V-2, p. 32.
Gordiano III
TAF V-2, p. 53.
Claudio II
TAF V-2, p. 47 = p. 60?
Drôme
Croix-deFayollat
Caraboni
Gallieno
TAF V-2, p. 27.
Gordiano III
Filippo
l’Arabo
Gordiano III
Gallieno
TAF V-2, p. 32.
TAF V-2, p. 60.
TAF V-2, p. 21.
TAF V-2, pp. 17-18.
Isère
Isère
TAF V-2, pp. 46-47.
TAF V-2, pp. 57-58.
TAF V-2, p. 58.
TAF V-2, p. 54.
TAF V-2, p. 16.
TAF V-2, p. 56.
TAF V-2, p. 41.
Drôme
Isère
Rue B. Baro
Graille
55
56
St.-Marcellès-Valence
Valence
Gresse-enVercors
Montoison
Montélimar
Drôme
Drôme
57
Eyzahut
Drôme
Marmousi
Pont-duRoubion
Ricoulet
58
La Bégudede-Mazenc
La Rochesur-le-Buis
Plaisians
Drôme
Imprec.
Gallo e
Volusiano
Quintillo
Drôme
Sias
Gallieno
TAF V-2, p. 26.
Drôme
Les Esparans
Decio
Vaucluse
Imprec.
Gordiano III
62
Vaison-laRomaine
Donzère
AMANDRY, HOLLARD
1997.
CALLU 1969, p. 121.
Drôme
Le Molard
63
Cadenet
Vaucluse
Le Castélar
64 Entrecasteaux
Var
Imprec.
Valeriano e
Gallieno
Massimino il
Trace
Claudio II
65
Hyères
Var
Imprec.
66
Bex
Valais
Sous-Vent
67
Martigny
Valais
La Delèze
Savoie
La Madeleine
53
54
59
60
61
68 PontamafreyMontpascal
Archeologia Uomo Territorio - 29/2010
TAF V-2, p. 24.
TAF V-2, p. 23.
Valeriano e
Gallieno
Valeriano e
Gallieno
Valeriano e
Gallieno
Claudio II
pag. 50
TAF V-2, p. 20
VIAN 1966.
BLANCHET 1900, pp.
158-159, n. 230.
CALLU 1969, p. 262
WIBLÉ 1991.
WIBLÉ 1991.
TAF V-2, p. 77.
Bianchi - L’insicurezza delle Alpi occidentali nel secolo III - pag. 21 di 24
69
Susa
70 Mompantero
71
Chorges
72
Busca
73
Digne
74 L’Escale-surla-Durance
75 L’Escale-surla-Durance
76
Castellane
77
Nice
78 Challant-St.Anselme
79
Gattinara
Torino
Torino
HautesAlpes
Cuneo
Imprec.
Urbiano
Le Château
Gallieno
Gallieno
Gallieno
DEMEGLIO 2003 n. 46.
DEMEGLIO 2003 n. 38.
GANET 1995, p. 102.
Imprec.
DEMEGLIO 2003 n. 25.
Alpes-deHauteProvence
Alpes-deHauteProvence
Alpes-deHauteProvence
Alpes-deHauteProvence
AlpesMaritimes
Valle
d’Aosta
Vercelli
Imprec.
Filippo
l’Arabo
Gallieno
Imprec. A
Filippo
l’Arabo
CALLU 1969, p. 121.
Imprec. B
Quintillo
CALLU 1969, p. 121.
Les Aigles
Quintillo
BERARD, BARRUOL
1997, p. 122.
Les Arènesde-Cimiez
Corliod
Valeriano e
Gallieno
Gallieno
Inosa
Gallieno
Quintillo
Gallieno
Filippo
l’Arabo
Claudio II
Valeriano e
Gallieno
Gallieno
Gallieno
Gallieno
BLANCHET 1900, pp.
159-160, n. 232.
CHIARAVALLE 1990, n.
7.
DEMEGLIO 2003 n. 05 =
n. 35.
DEMEGLIO 2003 n. 48.
DEMEGLIO 2003 n. 22.
DEMEGLIO 2003 n. 41.
DEMEGLIO 2003 n. 33.
DEMEGLIO 2003 n. 47’.
DEMEGLIO 2003 n. 47’’.
Claudio II
DEMEGLIO 2003 n. 39.
Claudio II
DEMEGLIO 2003 n. 37.
Gordiano III
?
Claudio II
Gallieno
ANTICO GALLINA 1986,
p. 97.
DEMEGLIO 2003 n. 21.
DEMEGLIO 2003 n. 29.
Quintillo
DEMEGLIO 2003 n. 28.
Filippo
l’Arabo
Gordiano III
RIBERI 1932.
80
81
82
Vallemosso
Masserano
Quaregna
Biella
Biella
Biella
Campore
Imprec.
Cascina Pot
83
84
Caravino
Vercelli
Torino
Vercelli
Piro
Imprec.
Vercelli
Torino
Torino
Ravinale
Imprec.
Via Santa
Maria
Imprec.
85 Fontanetto Po
86
Chivasso
87
Torino
88
Montiglio
Asti
Monferrato
89
Lu
Alessandria San Bernardo
Monferrato
90 Acqui Terme Alessandria Viale Savona
91
92
Alba
Cherasco
Cuneo
Cuneo
93
Cuneo
94
Castelletto
Stura
Boves
Sanadeiva
San
Bartolomeo
Imprec.
Cuneo
Imprec.
95
Priola
Cuneo
Pievetta
Archeologia Uomo Territorio - 29/2010
BÉRARD, BARRUOL
1997, p. 170.
DEMEGLIO 2003 n. 26.
DEMEGLIO 2003 n. 49.
pag. 51
AMEDEO 1958.
Bianchi - L’insicurezza delle Alpi occidentali nel secolo III - pag. 22 di 24
N
96
Comune
Champanges
97
98
Bibliografia
TAF V-2, p. 91.
Imprec.
Imprec.
Terminus
Diocleziano e
Massimiano
Costanzo I
Aureliano
Rue
Traversière
Champ-deTrélacin
Imprec. A
Tacito
BRUNET, ESTIOT
1994.
BRUNET, ESTIOT
1994.
BRUNET, ESTIOT
1994.
TAF V-2, p. 98.
Località
Ripaille
Vesenaz
St.-Genis-Poully
Distretto
HauteSavoie
Genève
Ain
99
Genève
Genève
100
Cruseilles
101
Sillingy
102
Sillingy
103
Sillingy
104
Thusy
105
Seyssel
106
107
Amberieu-enBugey
Annecy
HauteSavoie
HauteSavoie
HauteSavoie
HauteSavoie
HauteSavoie
HauteSavoie
Ain
108
Annecy
109
110
Anglefort
St.-Jorioz
111
Chindrieux
112
St.-Maurice-deGourdans
La Boisse
Marlens
113
114
115
116
Imprec. B
Tacito
Imprec. C
Bonoso e
Probo
Costanzo I
Le Jardin
Bouchet
Albigny
Costanzo I
La Porte
Costanzo I
AMANDRY et al.
1997.
TAF V-1, p. 19.
Les Fins C
Aureliano
TAF V-2, pp. 87-88.
Les Fins D
Probo
TAF V-2, pp. 87-88.
HauteSavoie
HauteSavoie
Ain
HauteSavoie
Savoie
Imprec.
Filly
Aureliano
Aureliano
TAF V-1, p. 20.
TAF V-2, p. 104.
Chevigneux
Tetrico
Ain
Pollet
Carino
REMY et al. 1996,
p. 149.
ESTIOT 1997
Ain
HauteSavoie
Savoie
Isère
Imprec.
Le Villard
Numeriano
Tacito
TAF V-1, p. 21.
TAF V-2, p. 94
Imprec.
Présieux
Tacito
Diocleziano
Ain
Isère
Savoie
Isère
Isère
Imprec. B
Imprec.
Imprec.
Le Buclay
Imprec.
117
118
119
120
121
Albens
Villetted’Anthon
Groslée
St.-Chef
Avressieux
Heyrieux
Vienne
122
Vienne
Isère
123
124
Estrablin
Nantoin
Isère
Isère
125
126
La Buissière
St.-Vincent-deMercuze
Le FontanilCornillon
Isère
Isère
Place C.
Jouffray
La Coupe
Les
Charpennes
Le Château
La Bellangère
Isère
Beauregard
127
LORIOT 1980.
BLANCHET 1900,
pp. 295-296, n. 829.
Diocleziano e
LORIOT 1980.
Massimiano
Probo
TAF V-2, pp. 91-92.
Archeologia Uomo Territorio - 29/2010
TAF V-2, p.77.
PELLETIER et al.
1994, pp. 167-168.
Costanzo I
TAF V-1, p. 26.
Costanzo I
TAF V-2, pp. 51-52.
Probo
TAF V-2, p. 70.
Probo
TAF V-2, p. 45.
Diocleziano e
LAUXEROIS et al.
Massimiano
1994.
Diocleziano
LAUXEROIS et al.
1994.
Costanzo I
TAF V-2, pp. 45-46.
Probo
TAF V-2, p. 47.
Probo
Costanzo I
Tetrico
pag. 52
TAF V-2, p. 43.
PELLETIER et al.
1994, p. 136
TAF V-2, p. 44.
Tabella C
Ripostigli chiusi dal 271 al 306
dopo Cristo.
Bianchi - L’insicurezza delle Alpi occidentali nel secolo III - pag. 23 di 24
128
129
130
Vinay
Beaufort
St.-Martind’Uriage
Isère
Isère
Isère
131
St.-Donat-sur
l’Herbasse
Gervans
Drôme
Le Cordière
Imprec.
Fort-desQuatreSeigneurs
Imprec.
Drôme
Imprec.
Drôme
St.-Eusèbe
Drôme
Imprec.
Costanzo I
TAF V-2, p. 28.
135
136
137
Mours-St.Eusèbe
St.-Paul-lésRomans
Tain-l’Hermitage
Tain-l’Hermitage
Bouvante
Drôme
Drôme
Drôme
Imprec.
L’Hermitage
Imprec.
TAF V-2, p. 32.
TAF V-2, p. 29.
TAF V-2, p. 18.
138
139
140
Allex
Menglon
St.-Genis
Mandon
Imprec.
Imprec.
141
142
143
Bésignan
La Mole
Evionnaz
Drôme
Drôme
HautesAlpes
Drôme
Var
Valais
Tetrico
Diocleziano
Diocleziano e
Massimiano
Tetrico
Costanzo I
Aureliano
Mollans
Maravielle
Col-de-Coux
Tetrico
Diocleziano
Costanzo I
144
Samoens
Imprec.
Aureliano
145
Rue Bonrieux
Costanzo I
Aureliano
Imprec.
Tetrico
148
Castelmagno
HautesAlpes
HautesAlpes
Cuneo
Imprec.
147
St.-Jean-deMaurienne
Villar-St.Pancrace
Embrun
149
Demonte
Cuneo
Santuario di
San Magno
Podio
150
Entrepierres
Grotte-duTroud’Argent
Le Bourguet
Diocleziano e
Massimiano
Diocleziano e
Massimiano
Probo
132
133
134
146
HauteSavoie
Savoie
152
Monaco
153
Gignod
Alpes-deHauteProvence
Alpes-deHauteProvence
Principato
di
Monaco
Aosta
154
St.-Christophe
Aosta
Imprec.
155
Scarnafigi
Cuneo
156
Scarnafigi
Cuneo
Cascina
Morina
Imprec.
151 L’Escale-sur-laDurance
Archeologia Uomo Territorio - 29/2010
Floriano
Tetrico
Diocleziano
TAF V-2, p. 58.
TAF V-2, p. 42.
TAF V-2, p. 54.
Tacito
TAF V-2, p. 26.
Diocleziano e
TAF V-2, p. 21.
Massimiano
Probo
TAF V-2, pp. 24-25.
TAF V-2, pp. 15-16
TAF V-2, p. 23.
GANET 1995, p.
147.
TAF V-2, p. 18
ESTIOT 1983.
BLANCHET 1900, p.
301, n. 854.
BLANCHET 1900,
pp. 145-148, n. 182.
TAF V-2, p. 74.
AMANDRY et al.
1986.
GANET et al. 1995,
p. 104.
RIBERI 1932.
DEMEGLIO 2003 n.
32.
BÉRARD, BARRUOL
1997, pp. 175-176.
Costanzo I
BÉRARD, BARRUOL
1997, p. 185.
La
Condamine
Floriano
BLANCHET 1900,
pp. 159-160, n. 233.
Mendej
Diocleziano
Diocleziano e
Massimiano
Aureliano
CHIARAVALLE
1990, n. 49.
RODA ET AL. 1997,
p. 239 e nota 34.
DEMEGLIO 2003 n.
43.
DEMEGLIO 2003 n.
60.
Diocleziano e
Massimiano
pag. 53
Bianchi - L’insicurezza delle Alpi occidentali nel secolo III - pag. 24 di 24
157
San Damiano
Asti
Verzeglio
158
Fossano
Cuneo
Levaldigi
Diocleziano e
Massimiano
Aureliano
DEMEGLIO 2003 n.
42.
DEMEGLIO 2003 n.
34
APPENDICE II
Per offrire indicazioni utili a chi voglia approfondire l’argomento, si fa cursoria menzione di
52 località, nelle Alpi Occidentali, da dove, un domani, potrebbe uscire conferma di ulteriori ripostigli monetali: Antrona e Monte Moro nel cantone Valais; Bellegarde-sur-Valserine,
Ceyzérieu, Cormoranche-sur-Saône e Pougny nel dipartimento Ain; Annemasse, Douvain e
Veigy-Foncenex nel dip. Haute-Savoie; Aix-les-Bains, Chambery, Francin, Gilly-sur-Isère,
Aime, Moutiers, Verel-de-Montbel e Seez nel dip. Savoie; La Côte-St.-André, St.-Hilaire-dela-Côte, Pierre-Châtel, Chapareillan, Charvieu, St.-Alban-du-Rhône, St.-Sauveur-en-Isère
e St.-Marcellin nel dip. Isère; Allan, Clérieux, Châteauneuf-de-Galaure, Grignan, St.-Avit
e Col-du-Charnier nel dip. Drôme; Champ-cella e Château-Ville–Vieille nel dip. HautesAlpes; Carpentras, Cavaillon, Orange e La Bollène nel dip. Vaucluse; Tourves e Le Brusc
nel dip. Var; St.-Rémy-de-Provence e St.e-Marie-de-la-Mer nel dip. Bouches-du-Rhône;
Villeneuve-Loubet nel dip. Alpes-Maritimes; Armeno e Palazzo d’Ivrea nel Torinese; Sagliano Micca e Saluggia nel Vercellese; Chiusa Pesio e Manzano di Cherasco nel Cuneese;
Casalborgone nell’Astigiano; Cerreto Grue e Pietramarazzi nell’Alessandrino.
Ricevuto settembre 2009; accettato dicembre 2010
Archeologia Uomo Territorio - 29/2010
pag. 54
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