UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE Sede di Milano Facoltà di Psicologia Corso di Laurea in Psicologia delle Organizzazioni e del Marketing L’OSPEDALE CENTRATO SUL PAZIENTE: STUDIO ETNOGRAFICO TRA LE CORSIE DI REPARTO Relatore: Chiar.ma Prof.ssa Mara Gorli Correlatore: Chiar.mo Prof. Giuseppe Scaratti Tesi di laurea di: Elisa Giulia Liberati Matricola N. 3809022 Anno Accademico 2010 - 2011 A mio padre, costante fonte d’ispirazione. Per avermi educato a guardare il mondo con curiosità, per avermi insegnato a studiare, e per tutte le altre cose. “Bisogna assomigliare alle parole che si dicono. Forse non parola per parola, ma insomma ci siamo capiti.” Stefano Benni1 Ringraziamenti Questa tesi è frutto di un intenso lavoro di ricerca: un percorso entusiasmante, faticoso, appagante ma soprattutto profondamente trasformativo. Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza l’aiuto e l’esperienza di chi, in principio, mi ha mostrato il cammino, di chi mi accompagnato per tratti di strada e infine di chi ha creduto in me, seguendomi con lo sguardo da un po’ più lontano. Un grazie di cuore va alla mia relatrice, la Prof.ssa Mara Gorli, per la sua preziosissima guida, per avermi trasmesso la sua passione per la ricerca e per la generosità con cui ha partecipato alle fatiche ed alle soddisfazioni del mio percorso. Ringrazio inoltre il Prof. Egidio Moja e la Dott.sa Serena Barello, per non aver esitato a dedicarmi il loro tempo senza che ciò fosse affatto dovuto: il loro aiuto è stato prezioso in momenti distinti ma similmente cruciali del mio percorso di tesi. Ringrazio i medici, gli infermieri, i fisioterapisti ed i pazienti per avermi lasciato osservare il loro mondo. Un ringraziamento particolare va a Rossana, Paolo, Beatrice, Viviana, Ernesto, Betta e Laura, per la loro infinita disponibilità e per l’energia con cui affrontano il loro difficile lavoro. Un grazie di cuore a Gegia, per la sua infinita pazienza e per aver compreso il mio ingiustificato perfezionismo; a Martina, per la sua saggezza (che in realtà è molto di più); ad Alessandro, per avermi ricordato che a volte è necessario fermarsi, e soprattutto per essersi fermato con me; alla mia amica Giulia, compagna di studi e di vita, per il suo costante sostegno, la sua fiducia, il suo provvidenziale senso dell’umorismo e per essere sempre al mio fianco. Infine un pensiero affettuoso va alla mia mamma ed alla mia sorellina Valeria, le mie due rocce: grazie di sopportare le mie stravaganze quotidiane e di ricordarmi ogni giorno dov’è la mia Casa. 1 Stefano Benni (2001). Saltatempo. Milano: Feltrinelli 2 INDICE INTRODUZIONE ................................................................................................................... 5 Parte prima 1. PATIENT CENTRED MEDICINE: LA STORIA E LO STATO DELL'ARTE ........................................ 8 1.1. La nascita del concetto: basi filosofiche ed antropologiche ...................................9 1.2. Medicina Centrata sul Paziente: cosa è e cosa non è ...........................................15 1.3. Misurare gli effetti della Patient Centred Medicine .............................................22 2. DALLA RELAZIONE AL SISTEMA: LEVE PER L’IMPLEMENTAZIONE DELLA PCM NEGLI OSPEDALI .......................................................................................................................... 31 2.1. Gli aspetti hard dell’organizzazione ......................................................................33 2.1.1. Struttura, spazio e ambienti .........................................................................34 2.1.2. Tecnologia ....................................................................................................37 2.1.3. Norme e procedure ......................................................................................38 2.2. Gli aspetti soft dell’organizzazione .......................................................................39 2.2.1. Cultura organizzativa ...................................................................................40 2.2.2. Leadership e Vision .......................................................................................43 2.2.3. Clima organizzativo ......................................................................................44 2.2.4. La formazione del personale sanitario .........................................................46 Parte seconda 3. DISEGNO, METODOLOGIA E CONTESTO DELLA RICERCA................................................... 51 3.1. Introduzione .........................................................................................................51 3.2. Obiettivi ...............................................................................................................53 3.3. Metodologia .........................................................................................................54 3.3.1. Un disegno di ricerca qualitativo..................................................................54 3.3.2. Il metodo etnografico ...................................................................................54 3.3.3. Gli strumenti della ricerca ............................................................................56 3.3.3.1. L’osservazione .......................................................................................56 3.3.3.2. Le interviste etnografiche .....................................................................63 3.4. Il disegno della ricerca ..........................................................................................64 3 3.4.1. Il campionamento ........................................................................................64 3.4.2. Il processo della ricerca ................................................................................65 3.5. Raccolta ed analisi dei dati ...................................................................................68 3.5.1. Raccolta dei dati ...........................................................................................68 3.5.2. Analisi dei dati ..............................................................................................69 3.6. Accesso al campo..................................................................................................70 3.7 Il contesto del caso ................................................................................................72 3.7.1. La struttura organizzativa del policlinico .....................................................72 3.7.2. L’unità Operativa di Medicina Fisica e Riabilitazione ...................................75 3.7.3. Sintesi del percorso del paziente ..................................................................77 4. RISULTATI DELLA RICERCA: I TRE LIVELLI DELLA PATIENT CENTRED CULTURE .................... 80 4.1. Alla ricerca di un modello interpretativo ..............................................................80 4.2. Le rappresentazioni individuali .............................................................................84 4.2.1. Il medico .......................................................................................................88 4.2.2. L’infermiere...................................................................................................92 4.2.3. Il fisioterapista ..............................................................................................96 4.3. La relazione ...........................................................................................................99 4.3.1. Il possesso dello spazio ...............................................................................103 4.3.2. La disposizione del tempo ..........................................................................108 4.3.3. L’accesso al corpo .......................................................................................112 4.3.4. L’uso del linguaggio ....................................................................................119 4.4. L’organizzazione ..................................................................................................128 4.4.1. Gli artefatti come simbolo del paziente al centro ......................................130 4.4.1.1. I documenti .........................................................................................132 4.4.1.2. Oggetti e spazi ....................................................................................145 4.4.2. Il team multi-professionale ed il lavoro d’equipe .......................................147 4.4.3. Fare rete attorno al paziente......................................................................152 4.5. Riflessioni conclusive ..........................................................................................161 CONSIDERAZIONI FINALI E PROSPETTIVE FUTURE ............................................................. 164 BIBLIOGRAFIA.................................................................................................................. 168 4 INTRODUZIONE “Come stabilire il momento esatto in cui comincia una storia? Tutto è sempre cominciato già prima. La prima riga della prima pagina di ogni romanzo rimanda a qualcosa che è già successo fuori del libro.” Italo Calvino2 Ciò di cui vorrei occuparmi in questa tesi tratteggia tanto la mia storia personale quanto il mio futuro professionale, come analogamente si intrecciano le diverse ragioni per cui ho iniziato ad interessarmi al tema della Patient Centred Medicine dal punto di vista della Psicologia delle Organizzazioni. Il punto di partenza (il “fuori dal libro”) è rintracciabile in una domanda, repentina ed improvvisa, balenata nella mia mente una mattina come molte altre, nell’attraversare il corridoio di un reparto ospedaliero. Domanda che per tempo è rimasta in sospeso, ignorata e forse un po’ bistrattata a causa della sua apparente banalità. Leggendo di Medicina Centrata sul Paziente, si può notare l’egemonia del tema della relazione tra medico e paziente, al fine di considerare la Persona che sta “dietro il paziente” e nel tentativo di ridurne la sofferenza derivata dalla patologia organica. Tuttavia, è impossibile non accorgersi che l’interazione medico – paziente rappresenta soltanto un’esigua parte dell’esperienza dei malati nel contesto ospedaliero. Come tradurre allora i valori e gli obiettivi sottesi alla teoria della Patient Centred Medicine ad un livello più globale e comprensivo? Come è possibile, cioè, rendere gli ospedali delle Organizzazioni Centrate sul Paziente? Con questi sfidanti interrogativi a farmi da guida, ho iniziato, circa un anno fa, ad occuparmi del tema della Medicina Centrata sul Paziente e ad ipotizzare un disegno di ricerca che mi permettesse di indagarne le implicazioni organizzative. Fin da subito ho avuto la curiosa percezione che le parole lette nei libri fossero già presenti in qualche angolo della mia piccola valigia di esperienze. Chi ha vissuto la malattia, seppur non grave o per brevi periodi, conosce lo smarrimento che segue alla percezione di un corpo sofferente, o anche soltanto l’ansia data dal non sapere se e quando esso tornerà a funzionare 2 Italo Calvino (1979). Se una notte d'inverno un viaggiatore. Milano: Einaudi. 5 correttamente. Viviamo in un una società in cui il tempo del non-sapere tende ad essere ridotto al minimo, grazie all'iper-accessibilità dei canali di informazione ed alla velocità del cyberspazio. Sono sicura che sia esperienza comune alla mia generazione, nata con il Personal Computer e cresciuta insieme ad Internet, quella di correre sul proprio motore di ricerca favorito per trovare risposta immediata a qualsiasi tipo di dubbio o interrogativo. Come gestire allora, oggigiorno, i vuoti d'informazione, gli spazi in cui l'incertezza regna ancora sovrana e l'unica possibilità che ci resta è imparare a gestirla? È plausibile ipotizzare che, a fronte dell'incapacità di ridurre l'ansia del non sapere - ed a causa della frustrazione che tale incapacità provoca -, la gestione dell’incertezza e della sofferenza dei malati sia ad oggi un tasto molto dolente per i professionisti sanitari. Nel concreto, l’ipotesi che ho formulato e sviluppato in questa tesi è che, attraverso l’indagine della cultura organizzativa – i valori, gli artefatti, le credenze, le routine, le pratiche lavorative – di un reparto ospedaliero sia possibile individuare alcune leve che consentono di connettere il costrutto teorico di Patient Centred Medicine al cambiamento organizzativo. In questo passaggio è contenuto il senso ultimo della proposta della mia tesi: al fine di fondare, progettare ed anche implementare cambiamenti organizzativi che avvicinino l’organizzazione all’obiettivo della Patient Centredness, la Psicologia delle Organizzazioni potrebbe fornire utili ancoraggi teorici e garantire un fertile terreno per l’indagine. L’approccio psicologico alle organizzazioni apre infatti la strada all’individuazione di elementi, dimensioni e livelli organizzativi la cui analisi ed il cui utilizzo potrebbero rilevarsi cruciali in vista dell’obiettivo della “centratura sul paziente”. La prima parte della presente tesi è finalizzata ad un’esplorazione della letteratura inerente ai temi qui brevemente introdotti. Per fondare la ricerca a livello teorico verrà innanzitutto approfondito il costrutto della Patient Centred Medicine: le origini, le evoluzioni nel tempo, gli attuali modelli di riferimento e la valutazione dei suoi effetti (Capitolo 1). Si illustreranno poi i principali interventi organizzativi, descritti in letteratura, finalizzati al perseguimento della Patient Centredness negli ospedali 6 (Capitolo 2). Gli interventi descritti rappresentano azioni dirette al cambiamento di aspetti isolati delle organizzazioni sanitarie, ma forniscono comunque un utile quadro dei possibili livelli di intervento in questo ambito. La seconda parte della tesi sarà invece di tipo sperimentale: verrà analizzata, attraverso l'utilizzo del metodo etnografico, una specifica realtà organizzativa (il Reparto di Riabilitazione di un ospedale italiano). Nel concreto, si cercherà in questa fase di rispondere ai seguenti quesiti: quali elementi della cultura organizzativa del reparto giocano a favore del radicarsi di pratiche lavorative e dispositivi finalizzati al “mettere al centro” i suoi utenti? E quali potrebbero essere, nel concreto, tali pratiche e dispositivi? Metodologia, obiettivi e contesto della ricerca saranno descritti nel terzo capitolo. Il lavoro etnografico sul campo ha prodotto un ricco e variegato materiale, la cui analisi ha dato esito alla costruzione di un modello interpretativo multilivello della cultura Patient Centred del reparto di Riabilitazione. Tale modello, descritto in dettaglio nel quarto capitolo, è insieme risultato e punto di partenza: risultato dello studio fondativo ed esplorativo proposto in questa tesi e punto di partenza sperato per futuri interventi organizzativi. 7 CAPITOLO 1 Patient Centred Medicine: la storia e lo stato dell'arte “Medicine begins with stories. Patient tells stories to describe illness; doctor tells stories to understand it”3 R. Smith In questo capitolo verrà approfondito il tema della Patient Centred Medicine (PCM), concetto centrale nella teoria che sta a fondamento dell'intera ricerca. Data la poliedricità del tema e la grande quantità di pubblicazioni in materia, lo sforzo è stato quello di enuclearne tre aspetti fondamentali ai fini della presente tesi. In particolare, nel primo paragrafo descriverò le origini e il fondamento antropologico alla base della Patient Centredness nella pratica medica. Il secondo paragrafo sarà invece dedicato ad una messa a fuoco concettuale della medicina centrata sul paziente: cosa significa, quali valori incorpora, cosa comprende e cosa invece esclude. Nel terzo ed ultimo paragrafo verranno messi in luce alcuni risultati di ricerche e meta-analisi in merito all'utilità della medicina Patient Centred (PC). In questa ultima sezione si cercherà di dare risposta ad alcuni quesiti, tra cui: quali vantaggi comporta la centratura sul paziente? Chi ne beneficia? Cosa richiedono i pazienti al proprio medico ed al sistema sanitario? Come si può vedere in bibliografia, nella redazione di questo capitolo è stato utilizzato materiale edito in una finestra temporale molto ampia: il primo articolo utilizzato risale al 1977, mentre l'ultimo è stato pubblicato nel 2011. Se infatti per l'ultimo paragrafo sono stati selezionati articoli di recente pubblicazione, per i primi due è parso opportuno citare autori di classici ritenuti tuttora molto validi, come ho potuto constatare in seguito a colloqui ed interviste con esperti in materia, nonché dalla loro tuttora assai frequente citazione in articoli recenti. 3 “La medicina inizia con delle storie: il paziente ne racconta per descrivere la malattia, il medico ne racconta per comprenderla.” 8 1.1 La nascita del concetto: basi filosofiche ed antropologiche Non è semplice parlare delle origini del modello Patient Centred; esso, infatti, è solo uno tra i molti approcci alla medicina nati come alternative al tradizionale paradigma biomedico, che, intorno alla fine degli anni '70, ha iniziato a mostrare chiari segnali di crisi. Vediamo anzitutto cosa si intende con modello biomedico, o approccio tradizionale alla clinica medica. Esso trova le sue origini nella Francia degli inizi del XIX secolo; in quello precedente, la medicina non possedeva un metodo clinico né una nosologia universalmente accettati. Tutto cambiò quando i clinici iniziarono a rivolgere la loro attenzione all'analisi fisica dei pazienti, grazie all'invenzione di nuovi strumenti quali lo stetoscopio di Renè Laennec ed all'introduzione dell'esame post-mortem degli organi interni. Stiamo parlando di una vera e propria rivoluzione: il risultato fu infatti una classificazione totalmente nuova delle malattie, basata sull'anatomia delle patologie. Tale tassonomia prese piede anche oltre i confini della Francia, tanto da far scrivere al clinico inglese Crookshank (1926) che interpretare i sintomi nei termini di una specifica patologia diventò, in sostanza, l'unico compito del diagnostico. Si può vedere come questo cambiamento non costituisca soltanto un netto avanzamento della scienza medica – si consideri in particolare l'enorme potere predittivo ottenuto dalla correlazione tra i sintomi e le evidente tratte dall'osservazione degli organi nelle autopsie – bensì comporti una radicale trasformazione nella percezione della malattia e della persona malata. Prende piede il modello ontologico di malattia, secondo cui la patologia è collocata dentro il corpo ed è concettualmente separabile dal malato. Se precedentemente la diagnosi era rivolta al paziente, lo scopo del processo diagnostico diventa ora l'identificazione del morbo. Come in ogni tassonomia, le categorie patologiche diventano pure astrazioni che, nell'interesse della generalizzazione, lasciano da parte molte caratteristiche della malattia stessa, tra cui il vissuto soggettivo del paziente rispetto a quest'ultima. Il nuovo paradigma garantisce d'altra parte una serie di inediti vantaggi: oltre al già citato potere inferenziale e predittivo (1), esso semplifica un processo molto complesso (2), sezionandolo in una serie di step facilmente memorizzabili. Nel nuovo approccio il medico ha istruzioni precise: non 9 deve far altro che analizzare la storia (anamnesi) del paziente e sottoporlo agli appositi esami, in modo da arrivare ad una diagnosi o escludere un'evoluzione patologica. Il modello biomedico fornisce un vocabolario comune e universalmente accettato (3) e dà la possibilità di attribuire un nome alle patologie dei pazienti. Pur essendo null'altro che un'etichetta priva di potere predittivo, conoscere il nome della propria malattia ha potenti implicazioni simboliche per la persona malata, portando in sé l'idea che la patologia non sia una minaccia misteriosa e nascosta, bensì qualcosa di conosciuto e, quindi, nominabile. Alle volte dare un nome ad una malattia è addirittura più utile per dichiarare cosa il paziente non ha: ad esempio, la diagnosi di cisti ovariche sottende, per la paziente, il messaggio “lei non un tumore”. Infine, ma non meno rilevante, il metodo fornisce un criterio per la sua verificazione (4). È l'inizio della modernità in medicina. Il successo del modello fu tale da lasciarne in ombra le debolezze per molto tempo. Data anche la collocazione storica della sua origine, l'età della Ragione, il metodo è analitico e impersonale ed esclude totalmente la soggettività e le esperienze del paziente. La malattia viene analizzata su un solo livello, quello della patologia fisica; al centro del processo sta la diagnosi, con scarsa attenzione per la cura destinata al paziente. Sotteso al modello giace inoltre un dualismo di stampo cartesiano per cui una netta separazione viene posta tra i disordini mentali e le disfunzioni fisiche, distinzione resa visibile anche nell'organizzazione della professione, con uno scisma tra psichiatria e medicina interna. Riassumendo, il modello biomedico si afferma al tempo in cui i valori dell'illuminismo diventano operativi e predominanti: svalutazione della metafisica, indebolimento della tradizione, proclamazione del processo e della ragione al servizio dell'uomo. Peccato si trattasse di una ragione basata esclusivamente sulla logica formale, nella pratica divorziata dall'esperienza umana (Mc. Whinney, 1995). È interessante a questo proposito accennare ad una riflessione, condotta nel campo dell'antropologia, in merito allo slittamento di linguaggio che ha interessato la clinica medica nel tempo. L'antropologo inglese Helman (1981) affronta il tema dei modelli utilizzati dai pazienti per dare un senso alla loro condizione di malati: i due modelli, indicati dall'autore con i termini illness e disease (due diverse sfumature della parola italiana malattia), appaiono significativi alla luce delle novità apportate dal modello 10 biomedico di cui si è parlato in precedenza. Eisenberg (1977) definisce “diseases” le anormalità della struttura e/o funzione di organi o sistemi del corpo. Si tratta quindi di astrazioni, entità indipendenti con specifiche proprietà, ricorrenti in qualsiasi contesto esse appaiono, universali. L'universalità del disease è relativa ad una definizione di normalità, o buona salute, che nel modello medico è definita attraverso il riferimento ad alcuni parametri misurabili, ad esempio la pressione del sangue, il peso, etc.: disease è quindi la deviazione da tale stato di salute. D'altra parte, con il termine illness si intende la risposta soggettiva delle persone ad uno stato di malessere, cioè il modo in cui il paziente e chi gli sta intorno interpreta le origini e la significatività dell'eventomalattia, e come essa influenza i comportamenti dei soggetti. Sintetizza Cassel (1978): illness è ciò che il paziente sente mentre si reca dal medico, mentre disease è ciò che ha quando torna a casa dopo la visita. La distinzione appare rilevante in quanto mette in luce lo sbilanciamento del modello biomedico sul polo del disease, mentre ben poca attenzione è dedicata agli aspetti illness-related. C'è poi un altro tema su cui l'antropologia medica ci offre importanti spunti di riflessione, ed è la questione relativa al fondamento del modello biomedico. Se infatti, da una parte, non vi è dubbio che tale paradigma consti di una base ed un metodo scientifici, dall'altra il modello biomedico è, con il tempo, diventato anche il nostro modello popolare (folk model, Engel, 1977) di interpretazione dei fenomeni legati all'universo semantico della malattia. Generalmente, possiamo definire un modello come un sistema di credenze attraverso cui diamo un senso ai fenomeni e cerchiamo di ordinare ciò che del mondo naturale ci appare maggiormente enigmatico. Tanto più disturbante ci sembra un fenomeno, quanto più pressante sarà la necessità di piegarlo al nostro sistema esplicativo. La condizione di malattia è disturbante e non desiderata, e dà quindi avvio ad una serie di azioni correttive che comprendono spiegazioni, sistemi di credenze, regole di condotta. Tali azioni altro non sono che risposte socialmente adattive finalizzate a risolvere la crisi e l'incertezza che deriva dall'eventomalattia. Simili sistemi di credenze culturalmente determinati costituiscono sì un modello, ma non un modello scientifico, bensì un modello popolare, risultato della tensione all'adattamento sociale. Secondo Engel (1977), l'evidenza storica che è 11 necessario affrontare è che, nel nostro (post)moderno Occidente, il paradigma biomedico non solo fornisce le basi per il continuo – ed auspicabile – progresso scientifico nello studio delle patologie, ma si è anche radicato nel nostro sistema di significati legati al mondo della salute, trasformandosi così nel nostro folk model. Il modello biomedico avrebbe, in breve, acquisito lo status di dogma, di imperativo culturale, motivo per il quale si fortissime resistenze si oppongono al suo superamento. Sono stati precedentemente elencati quattro motivi per cui il modello biomedico ha comportato indubbi vantaggi nella clinica medica, e sono state ora spiegate anche le ragioni antropologiche e sociali sottese alla sua resistenza nel tempo. Vediamone adesso le principali debolezze. Come scrivono Moja e Vegni (1998, p. 57) nel primo articolo italiano dedicato alla PCM, il modello biomedico semplifica la malattia al dato biologico e propone come unico artefice della salute il medico-tecnico: la patologia non è che un'astrazione che esclude tout court la soggettività del paziente (1). L'esperienza del malato non solo non viene valorizzata, ma viene considerata un ostacolo nel processo diagnostico e la malattia è analizzata al solo livello della patologia fisica (2). Inoltre, negli ultimi decenni le lacune del modello tradizionale si sono manifestate con più evidenza, a causa di cambiamenti storici, sociali e culturali che hanno interessato anche il campo della medicina. Sono, ad esempio, aumentate le malattie croniche e cronico-degenerative (3), in cui l'esperienza personale del paziente, ed in particolare la loro capacità di funzionare nel proprio ambiente, è tanto – se non più – importante della diagnosi clinica (McWhinney, 1993). D'altro canto, i pazienti vanno acquisendo maggiore consapevolezza e potere contrattuale ed esigono sempre più spesso di partecipare nelle decisioni riguardanti la propria cura (4). Secondo Stewart e Wayne Weston, il modello (bio)medico tradizionale ha fallito, in definitiva, a causa della sua incompletezza e limitatezza: l'approccio biomedico ignorerebbe la persona e la sua soggettiva esperienza di malattia. In questo senso, il modello Patient Centred non sostituisce ma “ribilancia” il modello tradizionale comprendendo al suo interno il paziente in quanto persona. Nonostante le prime ricerche sulla relazione medico – paziente risalgano agli anni '60 con autori di spicco quali Ian McWhinney, il primo a parlare di Patient Centredness fu il 12 medico sudafricano Joseph Levenstein, nel 1984. Racconta Levenstein che, durante un tipico giorno di visite, e dopo aver incontrato una trentina di pazienti con diverse patologie, una sua studentessa gli si avvicinò per rivolgergli una domanda particolare. La studentessa chiese al medico come potesse sapere in che modo comportarsi con ogni diverso paziente; il suo approccio era infatti differente da quello che la studentessa aveva visto applicare negli ospedali, fatto che le impediva di riconoscere un pattern nella tecnica da lui utilizzata. Levenstein rispose che il suo comportamento era guidato dalle conoscenze previe dei suoi pazienti e della comunità in cui lavorava, nonché dal valore che egli attribuiva alla continuità e completezza della cura, alla prevenzione ed alla relazione con il paziente (Stewart et al., 1995). Ma questa risposta non aiutò la studentessa a fare chiarezza sul metodo utilizzato dal medico sudafricano. Reso inquieto dall'incapacità di spiegare il proprio approccio alla clinica, Levenstein iniziò ad audio-registrare le sue visite ed a riascoltarle: dopo aver analizzato circa mille visite registrate, il medico concluse che il suo approccio combinava il metodo tradizionale di ricerca della malattia con un'indagine libera e senza una traccia predefinita, condotta insieme al paziente, ed incentrata su qualsiasi cosa quest'ultimo ritenesse opportuno discutere. Levenstein divise le registrazioni di colloqui ritenuti efficaci da quelli inefficaci ed osservò che i primi si differenziavano dai secondi per essere riusciti a far emergere le preoccupazioni e le aspettative dei pazienti (la loro agenda, par. 1.2). A questa caratteristica del suo metodo si deve la scelta del nome Patient Centred. Il nome dell'approccio non suona nuovo: esso evoca i lavori di celebri autori quali Rogers, con la sua Client Centered Therapy, Balint e la sua Person Centered Medicine, Neuman e Young e il loro approccio Total – Person nell'infermieristica, nonché Byrne e Long nel loro approccio alla pratica medica Desease- vs PatientCentred. Se infatti a Levenstein si deve la prima formalizzazione del metodo PC, è opportuno ricordare che le basi per la ricerca di un nuovo metodo clinico trovano le loro radici nella crisi del modello biomedico. Così come il modello Patient Centred, anche quello Biopsicosociale (Engel, 1977), l'approccio del sistema familiare (Doherty e Baird, 1987), il modello a tre funzioni (Bird e Cohen-Cole, 1990) e la teoria dell'autoconsapevolezza del medico (Balint, 1957) evidenziano i limiti del modello medico 13 convenzionale e sono accomunati dal tentativo di includere nel processo di cura la considerazione degli aspetti psicosociali, della famiglia e delle soggettività del paziente e del medico stesso. Numerosi studiosi hanno descritto e comparato gli approcci sopra citati: ciò che ne hanno concluso è che a livello teorico, la complementarietà degli approcci è più influente delle differenze (Epstein et al., 1993). I modelli differiscono principalmente per il loro livello di applicazione: mentre alcuni sono puramente concettuali e non forniscono indicazioni sui metodi per la loro implementazione, altri si focalizzano sulla pratica e sembrano mancare di un’autonoma cornice teorica. Uno dei vantaggi del modello Patient Centred è, invece, la presenza di solide fondamenta teoriche che costituiscono la premessa per la sua implementazione, anch'essa approfonditamente analizzata ed esplicitata. Concludiamo dicendo che la crisi del paradigma medico tradizionale è stata affrontata in maniera frammentaria e superficiale, imponendo dei correttivi nell'applicazione della clinica ma senza scalfirne il modello sotteso, rigidamente disease- e doctorcentered: il problema dello stile doctor-centred è che è estremamente seduttivo (Byrne and Long, 1976). Rientrano in questi tentativi di correzione l'appello al dovere dei medici di trattare il malato come una “persona”, l'istituzione di tribunali per la difesa dei malati, o ancora l'introduzione di corsi di formazione sulle capacità di comunicazione e relazione dei medici. A questo proposito non posso che trovarmi d'accordo con quanto riportato da Moja e Vegni nell'articolo precedentemente citato: per superare la crisi del modello biomedico occorre una radicale trasformazione dei presupposti e del valori su cui esso si fonda, ossia un modo nuovo e trasformato di pensare alla malattia e, soprattutto, al paziente ed alla sua titolarità nel processo della cura. È proprio sulla scia di queste considerazioni che nasce e si sviluppa il modello Patient Centred, il quale non sostituisce bensì comprende il modello tradizionale, arricchendolo di nuovi ed irrinunciabili componenti per la pratica clinica. Alla descrizione dell'approccio qui soltanto introdotto sarà dedicato il prossimo paragrafo. 14 1.2 Medicina Centrata sul Paziente: cosa è e cosa non è Come anticipato all'inizio del precedente paragrafo, il modello Patient Centred (PC) affonda le sue radici in diversi approcci teorici accomunati dall'obiettivo di prendere le distanze dal modello medico tradizionale. Ciò che il paradigma PC aggiunge a tali approcci è la sua capacità di indicare in modo esplicito dove e come il modello biomedico va superato. È opportuno ricordare che una revisione completa della bibliografia sul tema andrebbe ben oltre lo scopo della presente tesi; le definizioni di Medicina Centrata sul Paziente che presenterò in questo paragrafo sono quindi il frutto di una selezione degli autori che, a mio avviso, enucleano più chiaramente le componenti centrali del paradigma Patient Centred. Il punto di partenza del modello PC è una concezione della malattia che va al di là dei meri aspetti biologici: nell'ambito della clinica si fa spazio come LA DUPLICE AGENDA Schema 1.1 Fonte: Levenstain, 1986 parimenti importante il “vissuto di malattia” (illness) del paziente: i significati da lui attribuiti a tale esperienza, le implicazioni psicologiche e le conseguenze contestuali e sociali. Se quindi anche la illness experience acquista dignità come oggetto della medicina, appare chiaro che lo scopo di quest'ultima diventi duplice: non più solo diagnosticare la patologia, ma anche comprenderne il senso dal punto di vista del paziente. Levenstain (1986) esemplifica quanto appena detto attraverso il concetto di “duplice agenda”: come si può vedere nello schema 1.1, 15 il metodo PC comprende tanto l'obiettivo di giungere alla diagnosi4, quanto quello di analizzare l'esperienza di malattia: per porre al centro la persona malata è necessario che l'agenda (cioè le cose da farsi da parte) del medico si integri con l'agenda del paziente (Moja, Vegni, 1998, pp. 58). Se molto si è già detto sul compito del medico a livello di diagnosi differenziale – unico task previsto dal modello tradizionale di medicina – è forse opportuno spendere qualche parola in più sul concetto di agenda del paziente. L'esperienza di malattia si compone di alcuni elementi imprescindibili, in particolare: a) le idee del paziente riguardo alla sua patologia ed i suoi “modelli profani” (folk model) di malattia (sfera cognitiva); b) i suoi sentimenti, con particolare attenzione alla paura che la malattia inevitabilmente suscita (sfera emotiva): c) le aspettative in merito al cambiamento della propria vita ed i desideri rispetto a ciò che dovrebbe essere fatto (prefigurazioni). È a questo punto importante sottolineare che inserire l'esperienza di malattia (illness) come una componente imprescindibile della clinica medica non rappresenta una scelta “buonista” né tanto meno dovrebbe soppiantare gli aspetti giustamente diseasecentered del modello tradizionale: la ricchezza del metodo PC sta proprio nel suo comprendere ed andare oltre quello biomedico, conservandone però i caratteri di chiarezza, operatività e verificabilità. Moira Stewart (2001) in un editoriale pubblicato dal BMJ, scrive della difficoltà raggiungere una definizione globalmente accettata di PCM: nonostante il concetto acquisisca sempre più rilevanza nell’ambiente medico, i suoi confini restano piuttosto sfumati, tanto da far supporre che la medicina Patient Centred sia più spesso definita attraverso ciò che non è – Technology Centred, Doctor Centred, Disease Centred – che attraverso una sua descrizione “affermativa”. Continua Stewart, le definizioni di PCM rappresentano un tentativo di rendere esplicito ciò che, nella cura del paziente, è implicito, nascosto. Tali definizioni sono iper-semplificazioni, sì utili nell'ambito dell'insegnamento e della ricerca, ma piuttosto incapaci di cogliere il senso di una relazione di cura nella sua interezza. Tuttavia, è proprio l'autrice menzionata che, 4 L’autore parla, nello specifico, di diagnosi differenziale, ossia il procedimento che tende ad escludere, tra varie manifestazioni patologiche simili, quelle che non comprendono l’insieme dei sintomi e segni che si sono riscontrati durante gli esami, fino ad arrivare a capire quale sia quella corretta. 16 insieme a Brown, Wetson,McWhinney, McWilliam e Freeman, fornisce la definizione di PCM riconosciuta - dalle revisioni sistematiche sul tema - come la più comprensiva e completa (Mead, Bower, 2000). Il modello degli autori citati identifica sei componenti interconnessi alla base del metodo Patient Centred: 1. Esplorare tanto la patologia organica quanto l'esperienza di malattia del paziente. Come si è già visto, compito del medico è quello di indagare entrambi gli aspetti disease e illness del paziente, cioè il suo personale e soggettivo punto di vista sulla malattia. 2. Comprendere la persona nella sua interezza. Col passare del tempo, i medici accumulano ingenti quantità di informazioni sui loro pazienti, informazioni che vanno oltre la diagnosi della patologia e la comprensione del loro vissuto. I dottori conoscono il contesto e lo stadio di vita dei pazienti, la famiglia, il lavoro, i valori, le difficoltà quotidiane. La comprensione del paziente come persona nella sua interezza migliora la relazione medico-paziente, soprattutto in fasi delicate del processo di cura, quali ad esempio il momento diagnostico. In questi casi considerare il ruolo del paziente nel suo contesto di vita può far luce sulla sua esperienza di malattia, oltre che arricchire la conoscenza del medico in merito alla condizione umana, specialmente la natura della sofferenza e la reazione al dolore (Stewart et al., 1995, pp. 28). 3. Cercare attivamente un terreno comune. Sviluppare un piano di cura soddisfacente necessita del raggiungimento di un accordo su tre aree: a) la natura del problema e le priorità sul da farsi, b) le finalità della terapia, c) gli specifici ruoli del medico e del paziente. Tale accordo non si raggiunge attraverso negoziazioni o contrattazioni – il cui quasi inevitabile risultato sarebbe l'insoddisfazione di entrambe le parti – bensì attraverso il tentativo di far incontrare due menti caratterizzate da diverse rappresentazioni, urgenze, valori, expertise. 4. Includere prevenzione e promozione della salute. L'applicazione di questa componente del modello PC garantisce che le persone prendano in carico attivamente il compito di migliorare la propria salute (World Health Organization, 1986). All'interno di questo processo di supporto, medico e paziente insieme possono monitorare aspetti della vita di quest'ultimo che necessitano di modifiche o potenziamenti nell'interesse 17 della sua salute fisica ed emozionale. 5. Valorizzare e migliorare la relazione medico-paziente. Ad ogni visita, e nel contesto della continuità della cura, il medico dovrebbe cercare di (co)costruire con il paziente una efficace relazione a lungo termine e di utilizzare quest'ultima nelle sue potenzialità curative. In questo senso, la relazione dovrebbe riuscire a mobilitare le forze del paziente ai fini di catalizzare il processo di guarigione. Il medico inoltre, utilizzando l'autoconsapevolezza ed i principali “strumenti” per una relazione efficace (atteggiamento positivo incondizionato, empatia, genuinità) si dovrebbe generosamente dedicare al paziente, senza però necessariamente intervenire o dare interpretazioni. Egli, infine, dovrebbe essere in grado di riconoscere che ogni paziente è diverso dall'altro ed, in quanto tale, richiede un approccio specifico: il medico dovrebbe saper modulare i propri comportamenti in modo sintonico rispetto all'individuo specifico ed alla fase della cura. 6. Essere realisti. I medici devono spesso far fronte a molteplici richieste di attenzione in poco tempo, esigenze non di rado in conflitto tra loro. Essi devono imparare, ed il più delle volte da autodidatti, a gestire efficacemente il loro tempo, oltre che sviluppare skills di definizione delle priorità e di teamwork. Per queste ragioni, i medici dovrebbero rispettare i loro naturali limiti emotivi e non pretendere troppo da loro stessi. Nonostante le sei componenti siano state presentate in modo separato e discreto, gli autori stessi ricordano che tali aspetti sono profondamente intrecciati e mutuamente dipendenti: in tal senso la PCM può essere effettivamente compresa solo in quanto concetto poliedrico ed olistico (Schema 1.2). Come si può notare in bibliografia, il modello di Stewart e colleghi è stato formalizzato nel 1995. La sua validità sembra però perdurare nel tempo, come si può apprezzare dalla citazione del modello nella gran parte della letteratura attuale sulla PCM. Ancora nell'ambito di una cornice concettuale della medicina Patient Centred si colloca la revisione di Mead e Bowel (2000) – finalizzata anche, come si vedrà in seguito, a definire e confrontare gli strumenti empirici di misurazione della PCM. Tali autori riassumono in cinque punti, tratti dalla bibliografia sul tema, gli elementi che 18 LE DIMENSIONI DELLA PCC Fonte: Stewart,1995 Schema 1.2 differenziano il paradigma Patient Centred da quello biomedico tradizionale: 1) Adottare una prospettiva biopsicosociale – una prospettiva che includa la considerazione dei fattori psicologici e sociali, oltre che biomedici, della malattia. 2) Comprendere il paziente nella sua individualità e complessità – comprendere il vissuto di malattia di ogni specifico paziente. 3) Condividere potere e responsabilità – comprendere le preferenze del paziente in merito al decision-making ed alla gestione delle informazioni e comportarsi di conseguenza. 4) Promuovere alleanza terapeutica – sviluppare la condivisione delle finalità terapeutiche e rafforzare la relazione medico-paziente. 5) Considerare il medico nella sua individualità e complessità – essere consapevoli dell'impatto della soggettività e delle caratteristiche personali del 19 medico nel percorso di cura. Consistenti sono le risonanze con il modello di Stewart e colleghi. Tuttavia, è possibile individuare nuovi fuochi di attenzione nei punti tre e quattro, che pongono l'enfasi sulla condivisione del decision-making e sull'empowerment del paziente nell'ambito della gestione del proprio piano di cura. In particolare, è importante notare che il modello PC non professa la necessità di condividere con il paziente tutte le decisioni e le informazioni, critica mossa, tra gli altri, da Little e colleghi (2001). Ciò che si afferma è invece la necessità di prendere in considerazione i desideri di ogni singolo paziente nell'ambito della condivisione di informazioni e scelte terapeutiche e di comportarsi in maniera idonea al rispetto di tali preferenze (Stewart, 2001). Nel punto cinque si prende poi in esame la soggettività del medico. All'interno del modello medico tradizionale non si rintraccia alcun motivo per cui medici ben addestrati non dovrebbero essere essenzialmente interscambiabili, dato che la loro soggettività non sortisce alcun effetto sulla diagnosi e sulla terapia. È per questa ragione che Edith Balint e colleghi (1993) definiscono il modello biomedico one-personmedicine dato che una descrizione clinica soddisfacente non richiede la considerazione del medico. Al contrario, la medicina Patient Centred è una medicina a due persone: il medico rappresenta parte integrante di qualsiasi considerazione clinica in quanto attore imprescindibile della relazione di cura. È interessante citare, a questo punto del discorso, l'osservazione di Berwick (2009) in merito al ruolo dei bisogni ed i desideri dei medici. Una delle obiezioni mosse più spesso al modello PC sarebbe infatti la constatazione che tale paradigma comporterebbe, per il medico, un sovraccarico di lavoro, o addirittura un'abnegazione della sua persona, con consistente rischio di burnout. A questa critica Berwick risponde: quando in una relazione di cura neghiamo all'altro ciò che – con disponibilità ed empatia – potremmo offrirgli, finiamo per soffrire entrambi di tale diniego: uno perde il conforto dell'aiuto, l'altro la gioia di aiutare (Berwick, 2009, pp. 562). L'imposizione di regole e procedure restrittive e la conseguente perdita di contatto con i bisogni del paziente potrebbero essere assai debilitanti per la salute emotiva del clinico, tanto che un disegno di cura Patient Centred potrebbe essere da lui vissuto come un sollievo invece che un fardello. 20 Lo stesso autore fornisce, nel suo articolo dall'emblematico titolo “What PatientCentred Should Mean: Confession Of An Extremist” (2009), quella che, a mio avviso, è una delle definizioni più significative della Medicina Centrata sul Paziente: l'esperienza (nella misura in cui lo specifico e ben informato paziente la desidera) della trasparenza, del riconoscimento, del rispetto per la propria individualità e dignità e soprattutto della possibilità di scelta in ogni componente (decisioni, situazioni e relazioni) nella propria cura. La Patient Centred Heath Care, continua Berwick, dovrebbe essere in grado di comprendere l'esperienza della famiglia e dei cari del paziente, tanto da parlare di Patient- and Familiy- Centred Care. In considerazione di questi elementi, sembrerebbe che l'attuale sistema sanitario dovrebbe subire radicali trasformazioni per garantire un'esperienza effettivamente PC ai suoi utenti, ma di ciò si discuterà nei successivi capitoli di questa tesi. In questo paragrafo ho cercato di indicare gli elementi e le caratteristiche imprescindibili di ciò che oggi intendiamo con Medicina Centrata sul Paziente. Si è parlato della difficoltà di giungere ad una definizione unitaria e globalmente accettata e, nel prossimo paragrafo, si affronteranno gli altrettanto complessi temi della sua misurazione, utilità e impatto sugli esiti della cura. A conclusione di questo excursus credo, tuttavia, si possa affermare che esista un core comune rintracciabile in tutte le definizioni di PCM, nonostante i loro diversi fuochi di attenzione. Tale nucleo consiste nella considerazione e rispetto dei bisogni, desideri, preferenze e valori del paziente. L'essenza del modello è rintracciabile nel suo stesso nome: il paziente è posto al centro del sistema sanitario, e quest'ultimo deve perciò prendere forma attorno a lui. L'esito della cura dovrebbe essere la percezione di una migliore qualità della propria salute e della propria vita. Il rispetto dei desideri del paziente è la chiave per una medicina realmente Patient Centred; le altre componenti del modello non sono affatto meno importanti, ma possono esserne considerate degli utili facilitatori. Ad esempio, utilizzare un approccio olistico e condividere sistematicamente informazioni sono strumenti fondamentali affinché il paziente possa formulare preferenze ed esprimere il proprio punto di vista nel percorso di cura. 21 1.3 Misurare gli effetti della Patient Centred Medicine È possibile intuire, arrivati a questo punto del discorso, che la misurazione di un costrutto tanto complesso e variamente definito come è quello di Patient Centred Medicine non costituisca affatto un compito semplice. In questo paragrafo si cercherà di portare in luce le principali problematiche legate alla valutazione, nello specifico, degli outcome della medicina centrata sul paziente. Per fare ciò verranno riassunti i risultati delle principali revisioni condotte sul tema a partire dal 1995 per arrivare al 2011. È rilevante premettere che tutte e tre le revisioni individuate non prendono in considerazione studi qualitativi; di questo punto si discuterà più avanti. La prima review analizzata è firmata da Moira Stewart (1995), autrice del modello a sei componenti della PCM descritto in precedenza. La sua ricerca prende in esame le pubblicazioni dei precedenti dieci anni (1983-1993) e si focalizza sulla relazione tra gli stili di comunicazione e gli effetti sulla salute del paziente, al fine di individuare le caratteristiche ideali della comunicazione medico-paziente (Stewart, 1995). È opportuno sottolineare fin dal principio il fatto che la revisione non è diretta alla misurazione del costrutto “globale” di medicina centrata sul paziente, bensì ad uno solo dei suoi aspetti. Nell'introduzione al suo lavoro, l'autrice approfondisce i motivi di questa scelta descrivendo la pregnanza del tema della comunicazione medico-paziente: studi precedenti dimostrano che, in media, il medico interrompe il paziente con una domanda chiusa dopo diciotto secondi dal momento in cui quest'ultimo ha iniziato a descrivere il suo malessere (Frankel et al., 1989); che circa la metà delle preoccupazioni e dei problemi dei pazienti non sono sollecitati dai medici durante le visite, né spontaneamente esplicitati dai malati (Stewart et al., 1979) e che, nel 50% dei casi, pazienti e medici non concordano sul principale problema trattato nella visita (Starfield et al., 1981). In generale, si rileva che i pazienti dimostrano bassi livelli di soddisfazione e fiducia nelle informazioni ricevute dal loro medico. È probabilmente per tutte queste ragioni che il tema della comunicazione viene considerato il più urgente da prendere in esame. I risultati della revisione lasciano spazio a grande ottimismo rispetto all'impatto di una 22 comunicazione efficace sulla salute dei pazienti. Consideriamo per esempio la sezione della review dedicata alla comunicazione durante la raccolta dell'anamnesi (la storia clinica) del paziente. Gli studi dimostrerebbero che interventi volti al miglioramento delle doti comunicative di medici e/o pazienti in tale fase sono associati in modo statisticamente significativo ad effetti positivi sulla salute del paziente in termini di benessere emotivo e fisico. In particolare, il fatto che il medico dedichi tempo all’ascolto alle paure, alle aspettative, alla comprensione della malattia del paziente porterebbe ad una riduzione dell'ansia e ad una risoluzione più rapida della sintomatologia; chiedere al paziente di esprimere i propri sentimenti e vissuto ne ridurrebbe lo stress psicologico. In definitiva, il paziente che sente di aver esaminato ogni aspetto del suo problema con il medico, e di essere stato in grado di esprimere pienamente proprie opinioni e paure, godrebbe di un miglior stato generale di salute e registrerebbe una più celere risoluzione dei sintomi. Analizzando nel dettaglio il metodo di sintesi utilizzato dalla Stewart nella sua revisione vediamo però che i risultati sono meno chiari e definitivi di quanto sia dichiarato. Il metodo di selezione degli articoli prevede l’utilizzo dei seguenti parametri: Disegno di ricerca. Sono stati inclusi due tipi di disegni: RCT – studi controllati randomizzati (in cui gruppi random di pazienti o medici sono sottoposti a interventi a miglioramento del loro stile comunicativo) e studi osservativi (dove i comportamenti legati alla comunicazione non vengono alterati ma soltanto misurati in relazione ai loro effetti sui pazienti). Soggetti. Pazienti di tutte le età e medici di ogni specializzazione e ambito lavorativo (pubblico o privato). Misure e interventi sulla comunicazione. Le misurazioni possono essere dirette (video- o audio-registrazione) o indirette (valutazione delle percezioni riportate da medici e/o pazienti). Gli interventi possono riguardare medici e/o pazienti. Outcomes. Le variabili dipendenti consistono negli effetti sulla salute dei pazienti, operazionalizzati attraverso: stato di salute fisica, stato funzionale, risoluzione della sintomatologia, livello di benessere emotivo. Analisi dei dati. I risultati sono ottenuti attraverso le differenze di media e 23 percentili tra gruppi e la significatività statistica. Ora, anche decidendo di non considerare gli studi osservativi, vediamo che gli RCT focalizzati sulla comunicazione nella fase della raccolta dell'anamnesi vedono al proprio interno metodi di intervento per il miglioramento della comunicazione molto differenti tra loro: training rivolti ai medici oppure ai pazienti (a), di diversa durata (b) e su diversi aspetti della comunicazione medico-paziente (c). Anche le misurazioni degli outcome sui pazienti prevede metodi molto distanti tra loro: dal livello di ansia, a un più generico livello di stress psicologico, fino ad arrivare alla misurazione della pressione sanguigna e dei livelli di glucosio nel sangue. Sembra a questo punto molto difficile generalizzare gli effetti benefici di una comunicazione efficace sulla salute del paziente, dipendendo tale associazione dalle modalità di misurazione delle variabili analizzate. Problemi analoghi si presentano nella sezione della review dedicata alla comunicazione nella fase di discussione del piano di cura. Riassumendo, la revisione della Stewart traccia un quadro ottimista e netto in merito all'efficacia della “buona” comunicazione, aspetto portante della Patient Centred Medicine, sulla salute – fisica e psicologica – dei pazienti, sulla recessione della sintomatologia e persino sul controllo del dolore. Seppure i singoli studi inclusi nella revisione siano indubbiamente rilevanti, la loro generalizzazione presenta qualche inconveniente – si veda, in particolare, l'impossibilità di confrontare i risultati ottenuti dai diversi studi e l'assenza di uno strumento di misurazione univoco delle variabili in esame. Tale problema viene approfondito da Mead e Bower nella loro revisione sul tema degli effetti della PCM, pubblicata nel 2002 dalla Patient Education and Counselling. Gli autori affermano che l'orientamento Patient Centred delle visite è stato operazionalizzato attraverso diverse modalità: dalle checklist (finalizzate a misurare la presenza di certe skills) alle scale di valutazione (per valutare la qualità e quantità di determinati comportamenti) fino ai metodi di codifica del linguaggio (per calcolare la frequenza o la proporzione di alcune espressioni verbali). Il contenuto delle diverse modalità di misurazione varia consistentemente e le relazioni empiriche tra diverse misure della Patient Centredness non fanno registrare livelli alti. Si noti anche che lo stato di salute del paziente, per quanto spesso identificato come il miglior standard di 24 efficacia, potrebbe non essere ricettivo degli aspetti prettamente interpersonali (vs clinici) delle visite mediche; si può ipotizzare che misurazioni di processo, ad esempio la soddisfazione del paziente, sarebbero più sensibili alle varie dimensioni della Patient Centredness. In merito alla revisione della Stewart, Mead e Bower (2002) indicano un secondo inconveniente: nessuno tra gli studi inclusi misura aspetti della relazione medicopaziente esplicitamente definiti Patient Centred; le prove dell'efficacia del modello Patient Centred derivano, nella maggior parte dei casi, da studi che non sono stati ideati per valutare tale modello, ma che sono stati comunque ritenuti in grado di supportare una o più delle sue dimensioni (Graugaard e Finset, 2000). Ma se con Patient Centredness intendiamo uno specifico paradigma della cura medica – valutabile ed insegnabile – e non un concetto vago e onnicomprensivo, allora i suoi benefici devono essere dimostrati attraverso studi che associno comportamenti centrati-sulpaziente con i loro effetti, possibilmente all'interno di un unico contesto clinico. Riassumendo, vediamo come nella revisione di Mead e Bower lo sforzo sia quello di superare i limiti metodologici riscontrati nelle analisi precedenti, e di rispondere a tre quesiti: Come è stato definito e misurato il costrutto di Patient Centred Care in studi che ne esplorano le relazioni con i suoi effetti? Come sono stati misurati tali effetti? Si può affermare che la visita PC sia effettivamente associata a out come migliori in medicina generale? È stato incluso nella revisione qualsiasi studio di tipo quantitativo pubblicato tra il 1969 ed il 2000, che indaghi un costrutto definito come Patient Centredness (non si è adottato quindi un solo modello di PCM), che ne misuri gli effetti in un setting di medicina generale, che coinvolga medici e non altre professioni sanitarie; otto articoli sono stati ritenuti adatti ai criteri di inclusione. Ai fini della presente tesi, riportiamo unicamente la risposta al terzo quesito. Gli studi analizzati sono caratterizzati da un disegno di ricerca osservativo e non sperimentale e non è pertanto possibile provarne 25 la validità interna, ossia tracciare una relazione causale tra la Patient Centredness ed i suoi effetti. Peraltro, solo quattro tra gli studi analizzano l'eventuale presenza di confounders attraverso analisi multivariata. L'outcome più comunemente indagato è la soddisfazione del paziente: due studi riportano una correlazione positiva, due una noncorrelazione, e uno studio parla sia di una correlazione positiva che di una negativa, a seconda del tipo di misurazione della variabile Patient Centredness utilizzata (Mead e Bower, 2002). Dei quattro papers che hanno utilizzato analisi multivariate, uno studio rivela correlazioni positive tra i comportamenti Patient Centred e la recessione della sintomatologia, riduzione delle lamentele, maggiore partecipazione e ingaggio nella cura. Un secondo studio parla di una correlazione positiva tra Patient Centredness e soddisfazione del paziente ma non tra la prima e gli effetti sulla salute del paziente, mentre negli altri due articoli non si riscontra alcuna correlazione tra PC e soddisfazione. Tutti e quattro gli studi riportano correlazioni non significative tra alcuni costrutti di PCM e almeno uno tra gli effetti misurati. Riassumendo, la revisione di Mead e Bower parla di livelli relativamente bassi di associazione tra le variabili analizzate e di validità esterna (generalizzabilità dei risultati) tra gli studi che analizzano gli effetti sui pazienti della PCM. I diversi modi di operazionalizzare la Patient Centredness riflettono l'attuale ambiguità nella definizione del concetto. Anche se pochi dubiterebbero dell'importanza delle skills comunicative nel contesto della cura centrata sul paziente, tali capacità risultano difficilmente misurabili in modo oggettivo. Gli autori suggeriscono che risultati più chiari e precisi si otterrebbero scomponendo il costrutto di Patient Centredness e cercando di individuare gli effetti associati alle sue singole dimensioni. Ad esempio, è probabile che la componente “alleanza terapeutica” (si veda il modello di Mead e Bower descritto nel paragrafo 1.2) sia maggiormente correlata alla soddisfazione del paziente rispetto a quanto non sia l' “adozione di una prospettiva biopsicosociale”; è anche a questa istanza metodologica che Mead e Bower riconducono le nette differenze tra i risultati della propria revisione e quella della Stewart. La terza ed ultima review considerata – pubblicata nel marzo del 2011 in Annals of Family Medicine da Hudon et al. – si pone come obiettivo quello di identificare e comparare strumenti, scale di misurazione e items costruiti per valutare 26 le percezioni dei pazienti rispetto alla medicina centrata sul paziente. Nonostante non si parli qui chiaramente di outcome, essi sono oggetto degli strumenti di misurazione analizzati ed è quindi parso opportuno descriverne i risultati in questa sede. Inoltre, molti studi mostrano che le misurazioni delle percezioni dei pazienti sono più efficaci nel predire gli effetti sul paziente della PCM rispetto alle osservazioni dirette o alle percezioni dei medici (Hudon et al., 2011). Dal punto di vista metodologico, la revisione della Hudon e colleghi presenta un ulteriore elemento di interesse: uno dei criteri di inclusione degli studi consiste nel fatto che la misurazione del costrutto di Patient Centredness debba riferirsi almeno a due delle dimensioni del framework concettuale scelto come riferimento. Gli autori sostengono infatti che una chiara cornice teorica sia essenziale per la misurazione di qualsiasi costrutto; in assenza di un modello universalmente accettato di Patient Centred Care, Hudon e colleghi ne costruiscono uno che, nel loro studio, rappresenta lo standard di riferimento per la selezione degli strumenti di misura. Tale modello (schema 1.3) deriva dall'intersezione delle proposte teoriche della Stewart, da una parte, e di Mead e Bower, dall'altra, e consiste perciò INTERSEZIONE DI MODELLI TEORICI Schema 1.3 Fonte: Hudon et al., 2011 nelle quattro dimensioni comuni ai due modelli: 1) esplorare tanto la patologia organica quanto l'esperienza di malattia del paziente – Comprendere il paziente nella sua individualità; 2) comprendere la persona nella sua interezza – Adottare una prospettiva biopsicosociale: 3) ricercare un terreno comune – Condividere potere e responsabilità; 4) migliorare la relazione medico-paziente Promuovere – alleanza 27 terapeutica. La scelta di includere nella revisione soltanto gli studi caratterizzati dall'uso di strumenti che misurino almeno due dimensioni di tale modello è in sè molto diversa da quella di includere qualsiasi articolo che misuri il costrutto di Patient Centredness comunque-esso-sia-definito; non vi è quindi da stupirsi se i risultati appaiono nuovamente molto distanti dall'ultima review analizzata. Gli altri criteri di inclusione degli articoli sono: a) l'adozione di uno strumento di misura auto-amministrato; b) l'analisi quantitativa dei dati; c) la rilevanza nel contesto della medicina generale ambulatoriale. Cinque articoli, che adottano due diversi strumenti di misura, hanno incontrato tali criteri. Gli strumenti in questione sono due questionari, entrambi caratterizzati dall'utilizzo di una scala Likert a quattro passi ed entrambi costruiti sulla base di studi empirici sulla relazione medico-paziente e del modello di Stewart et al. Rispetto agli outcome, il primo questionario - chiamato Patient Perception of Patient Centredness (PPPC) - mostra come la percezione di comportamenti Patient Centred sarebbe correlata in modo significativo ad un recupero più veloce dallo sconforto iniziale, al benessere emotivo due mesi dopo la visita, alla riduzione delle lamentele, ad un minor utilizzo di test diagnostici ed alla soddisfazione dei pazienti riguardo alle informazioni ottenute. Tale strumento misura le dimensioni indicate nei punti 1), 2) e 3). Il secondo strumento – il Consultation Care Measure (CCM) – prende in considerazione tutte e quattro le dimensioni del modello. Esso riporta un'associazione positiva tra la soddisfazione del paziente ed un approccio positivo da parte del medico; quest'ultimo correlerebbe anche con la riduzione della sintomatologia ad un mese dalla consultazione. Si può vedere come i risultati delle tre revisioni differiscano profondamente, in particolare quelli della seconda (Mead e Bower, 2002) rispetto a quelli di Stewart e di Hudon. Una parziale spiegazione può essere individuata nel fatto che i due questionari analizzati nella revisione del 2011 siano stati costruiti sulla base del modello di PCM di Stewart, e pertanto potrebbero condurre al rinvenimento di outcome simili. In generale occorre però sottolineare che la misurazione del costrutto di Patient Centredness e dei suoi effetti resta un compito tutt'altro che lineare: sono molte, infatti, le variabili in gioco tra cui i ricercatori devono destreggiarsi. Riporto di seguito i principali trade off 28 attorno a cui si giocano le scelte degli studiosi in questo campo: Adottare un solo modello di PCM e selezionare gli studi che vi aderiscono oppure analizzare tutti gli articoli che parlano di PCM, prendendo per buona la definizione che ognuno ne da? Il costrutto di PCM: cercare di comprenderlo nella sua interezza o selezionarne specifiche dimensioni ed esaminarle in modo analitico? Quali attori coinvolti nel processo di cura sono i più indicati a darci informazioni riguardo alla Patient Centredness? I pazienti, i familiari, i medici, o tutti loro? Ed in quale momento del processo è più utile dar loro voce? Quale setting di cura esplorare? E a che livello condurre l'indagine? Individuale, relazionale – diadico o sistemico? Quali outcome misurare? Prediligere quelli di risultato (ad esempio gli effetti sulla salute del paziente) oppure quelli di processo (come la soddisfazione)? Quali disegni di ricerca selezionare? Si indaga un'associazione o una relazione causale? Quali metodi di misurazione selezionare? È necessario, ad esempio, differenziare tra i risultati ottenuti attraverso l'osservazione e quelli derivati da un questionario o un'intervista? Vi è poi un punto a mio avviso fondamentale, che merita una riflessione a sé. Tutte le revisioni rintracciate in letteratura includono esclusivamente studi di tipo quantitativo. Non è stato possibile rinvenire revisioni di tipo qualitativo in nessuna delle principali banche dati, nonostante vari studi di tipo qualitativo siano stati condotti sul tema degli outcome della PCM. Come si è visto, il concetto di Patient Centredness non è ancora stato definito in modo univoco e la selezione delle dimensioni maggiormente degne di analisi è affidata alla esclusivamente alle scelte dei ricercatori. È possibile che l'utilizzo di tecniche qualitative apporterebbe un contributo insostituibile nella traduzione empirica del modello concettuale di PCM, al fine di comprenderne gli aspetti realmente più rilevanti per i pazienti e più legati agli effetti percepiti. Infine è importante notare che spesso le variabili analizzate (comunicazione medico-paziente, condivisione della presa di decisione, etc..) si inseriscono in processi interattivi la cui analisi richiede una 29 descrizione comprensiva e condotta in profondità; quest'ultima può essere garantita soltanto attraverso l'utilizzo di tecniche qualitative. A conclusione del capitolo, e senza voler mettere in ombra quanto appena affermato riguardo agli effetti della Patient Centred Medicine, vorrei aggiungere che la principale ragione ad illuminare la necessità del superamento del modello biomedico è, a mio avviso, di tipo prettamente etico, nonostante spesso – nella nostra moderna consacrazione alla conoscenza strumentale – ogni cambiamento nelle pratiche tradizionali debba essere giustificato dai suoi effetti per essere accettato (McWhinney, 1995). Abbiamo prove del fatto che considerare l'agenda del paziente migliori la sua salute? Può darsi. Tuttavia, stiamo sbagliando se facciamo di quest'evidenza l'unica ragione del passaggio ad un modello Patient Centred. 30 CAPITOLO 2 Dalla relazione al sistema: leve per l’implementazione della PCM negli ospedali Se finora abbiamo analizzato il poliedrico costrutto della PCM principalmente nell’ambito della relazione medico-paziente, lo scopo del presente capitolo sarà invece quello di riflettere sulle modalità attraverso le quali la “centratura” sul paziente può essere trasferita nelle pratiche lavorative che caratterizzano le realtà ospedaliera. È in questo grande interrogativo che si inizia a vedere il contributo che la Psicologia delle Organizzazioni può portare al tema della PCM. La questione è senza dubbio complessa e molte domande sorgono spontanee. Quali sono i principali attori coinvolti? Da quali elementi dell’organizzazione è bene iniziare l’analisi? La cultura, la struttura, la tecnologia, le pratiche, le norme, gli aspetti architettonici e di design degli spazi? Che cosa è effettivamente rilevante per un paziente che ha appena fatto il suo ingresso in un reparto ospedaliero? È possibile, infine, una qualche generalizzazione, date le moltissime diverse esperienze di malattia e ospedalizzazione possibili? La mia opinione è che, nonostante i reparti ospedalieri differiscano profondamente tra loro anche all’interno della stessa struttura, e nonostante ogni paziente presenti necessità ed aspettative uniche, esistono alcuni antecedenti – riconducibili ai principi della PCM – in grado di migliorare in modo consistente la qualità dell’esperienza di ospedalizzazione dei malati. Tali leve sono da ricercarsi tanto negli aspetti hard quanto in quelli soft dell’organizzazione. In questo capitolo cercherò di enucleare i principali sforzi finalizzati a rendere l’ospedale un luogo di cura che, in quanto tale, si faccia carico delle necessità del paziente in quanto persona, prima che come individuo malato. La letteratura sul tema è relativamente vasta e gli interventi finalizzati alla progettazione di un ospedale centrato sul paziente sono tra loro molto eterogenei; basti pensare all’enorme quantità di pubblicazioni edite negli ultimi anni dalle associazioni per la tutela dei pazienti, tanto in Europa quanto nel resto del mondo. L’argomento è però caro anche ad enti e professionisti impegnati nella definizione degli standard di qualità dei servizi sanitari. Si 31 veda a tal proposito un articolo edito nel dicembre 2011 nel The New England Journal Of Medicine (Bohmer, 2011) in cui sono stati elencati quattro nuclei di pratiche standardizzate che definiscono il valore un’organizzazione sanitaria. È rilevante notare che uno di essi affonda le sue radici in un principio chiave della PCM: considerare la persona nella sua specificità e interezza. Si legge infatti che organizzazioni sanitarie di alto valore progettano appositamente micro-sistemi – di tecnologie, personale, spazi fisici, informazione, politiche e procedure a supporto della cura dei pazienti – che incrociano le molte micro-popolazioni ed presenti nell’ospedale. In questo modo, a diversi gruppi di pazienti – o pazienti in diverse condizioni – corrispondono diversi micro-sistemi di pratiche lavorative. Senza approfondire in questa sede cosa comporti la progettazione organizzativa per micro-sistemi, ciò che si vuole sottolineare è l’adozione di questo tipo di design rappresenta un’importante presa di distanza dall’organizzazione a-servizio-unico-e-generalizzato, la quale si raffigura i pazienti come tutti caratterizzati dallo stesso tipo di bisogni (un paziente standard) e che si focalizza sulla massimizzazione di risorse scarse. La Patient Centered Care richiede flessibilità e scoraggia un approccio one-size-fits-all. Facendo un passo indietro, ecco quindi che il presente capitolo non può che essere una selezione degli interventi, a mio avviso, più significativi i quali mettono in luce le leve imprescindibili su cui agire affinché le pratiche lavorative dell’ospedale vengano effettivamente progettate intorno ai bisogni del sistema-paziente, o per lo meno tenendone conto. Molto spesso infatti la razionalità dell’organizzazione prende il sopravvento su quella dei suoi utenti, facendo così sembrare impossibile progettare un ospedale che non riduca i pazienti a numeri di letto. Si intuiscono facilmente le insidie di tale pregiudizio: la perpetuazione di dinamiche di potere su cui il paziente, in quanto “ultimo arrivato”, “ospite” dell’ospedale, può fare ben poco. Lo schema 2.1 riassume le leve organizzative per l’implementazione della Patient Centredness che verranno descritte analiticamente nei prossimi paragrafi. 32 LEVE ORGANIZZATIVE PER LA PCM Schema 2.1 L'ospedale Patient - Centred Aspetti hard Struttura, spazio e ambienti Tecnologia Aspetti soft Norme e procedure Cultura organizzativa Leadership e Vision Clima organizzativo Formazione del personale sanitario Per concludere questa breve introduzione cito nuovamente le parole di Donald M. Berwick (2009) nel suo ormai noto articolo “What Patient-Centred Should Mean: Confession Of An Extremist”: la centratura sul paziente è di diritto una dimensione della qualità dei servizi sanitari, e non solo in quanto connessa con altre finalità auspicate quali la sicurezza e l’efficacia. La sua inclusione nella progettazione delle organizzazioni sanitarie moderne comporterà radicali, inediti e dirompenti mutamenti di potere e controllo, dalle mani di quelli che forniscono le cure a quelle di coloro che le ricevono. Una visione tanto consumeristica della qualità dei servizi di cura presenta radicali differenze rispetto alla più classica definizione di qualità, presieduta dai professionisti della sanità. 2.1 Gli aspetti hard dell’organizzazione In questa sezione si prenderanno in esame alcuni aspetti cosiddetti hard – ossia strutturali e socio-tecnici – delle organizzazioni sanitarie, i quali possono costituire delle leve per l’implementazione della Patient Centredness. Appare opportuno specificare, prima di addentrarci nel tema, che le fonti utilizzate nella redazione di questa sezione sono state reperite da una letteratura internazionale, prevalentemente 33 statunitense. Le iniziative e gli interventi che verranno di seguito proposti vanno letti, perciò, per il senso e gli obiettivi che li giustificano, più che per le implicazioni pragmatiche sottese alla loro fattibilità. Queste ultime potrebbero infatti dipendere da variabili economico – legislative differenti a seconda del contesto di applicazione. 2.1.1 Struttura, spazio e ambienti Uno dei fattori più concreti ed immediati che contribuiscono all’implementazione di una cura a misura del paziente è la qualità dell’ambiente fisico in cui le cure vengono fornite. Svariati filoni di ricerca nell’ambito della Psicologia del Lavoro (Psicologia Architettonica, Ergonomia, etc..) si sono occupati di individuare e valorizzare le connessioni tra progettazione degli spazi e degli ambienti sanitari ed il processo di guarigione (Shaller, 2007). Ad oggi, una caratteristica riconosciuta come un’efficace leva per l’implementazione dell’approccio Patient Centred è la progettazione di spazi e facilities in grado di: a) accogliere i familiari e gli amici dei pazienti (tanto al letto dei loro cari quanto in spazi appositamente dedicati a loro); b) essere flessibili e personalizzabili, in modo da costruire un percorso di cura specifico per ogni paziente; c) incoraggiare i pazienti a partecipare attivamente al processo di cura; d) rafforzare una connessione con la natura e la bellezza. Negli ultimi decenni, tali principi sono stati incorporati nel design di molti diversi ambienti sanitari e hanno dimostrato di essere correlati con consistenti miglioramenti dell’esperienza percepita dai pazienti ed altri importanti effetti sulla salute (ArneillB., Frasca-Beaulieu K., 2003). Frampton e colleghi (2008) aggiungono altri punti di attenzione concreti nella progettazione degli spazi dell’organizzazione sanitaria: a) la privacy dei pazienti prima di tutto: gli ospedali Patient - Centred dovrebbero disporre di spazi o camere dedicate appositamente alla consultazione privata tra professionisti e pazienti/famiglie, garantendo così la possibilità di una conversazione limpida ed efficace; b) rendere l’ospedale un ambiente facilmente percorribile e diminuire il senso di spaesamento, grazie all’utilizzo di diverse tecniche per facilitare l’orientamento dei pazienti tra gli 34 spazi; c) sfruttare l’architettura ed il design per coltivare la partnership tra pazienti e personale ospedaliero, attraverso l’abolizione di barriere fisiche e simboliche (a titolo di esempio si consideri la possibilità di sostituire le classiche stazioni infermieristiche cinte da mezze-pareti di vetro con piccole “guardiole-isola”, aperte ed accessibili agli utenti). Gli autori fanno notare che occuparsi dell’ambiente sanitario non dovrebbe limitarsi a curare l’aspetto e l’estetica degli spazi, ma dovrebbe estendersi all’atmosfera che si respira nell’intera struttura: la vista, il contatto con la natura, i suoni, gli odori, la sensazione che gli ambienti veicolano riguardo al rispetto per la privacy, il comfort e la quiete del paziente. Infine, la funzione principe degli ambienti di cura dovrebbe essere quella di garantire lo svolgersi di interazioni umane che possano confortare coloro che abitano tali spazi. Il design, l’architettura, la cura degli spazi e degli oggetti nel loro portato emotivo ed evocativo hanno il potere di trasformare un contesto istituzionale ed alieno in un ambiente di guarigione. Una nota a parte meritano le osservazioni di Detsky e Etchell (2008) in merito alla necessità di garantire a tutti i degenti il ricovero in camera singola. Si ricordi, a questo proposito, quanto anticipato all’inizio del paragrafo: l’iniziativa qui descritta, se calata nel contesto italiano, fa pensare immediatamente a strutture sanitarie private; nell’ambito pubblico, la sua adozione risulta se non altro più problematica e quindi più rara. Tuttavia, l’intervento considerato appare utile per introdurre una riflessione sulle possibili conseguenze – per i degenti e le loro famiglie – dei cambiamenti strutturali, e sul rapporto tra questi ultimi ed i cambiamenti organizzativi di tipo culturale. Detsky e Etchell (2008) mettono in luce, nel loro articolo, alcuni benefici garantiti dall’introduzione delle camere singole negli ospedali. Dal punto di vista clinico, esso ridurrebbe l’incidenza di infezioni nosocomiali5; a livello organizzativo, poi, le camere singole sarebbero più semplici da pulire e decontaminare, incentiverebbero gli operatori ad effettuare le procedure di igiene delle mani tra un letto e l’atro e ridurrebbero la necessità di trasferimento dei pazienti. Infine, anche dal punto di vista del benessere del paziente, il ricovero in camera singola apporterebbe notevoli 5 Un’infezione nosocomiale (o ospedaliera) è una patologia infettiva acquisita all'interno di una struttura ospedaliera. L'infezione avviene quasi sempre tramite il contatto tra fonte-veicolo-ospite. Il veicolo più frequente sono le mani degli operatori, coinvolte in tutte le pratiche terapeutiche ed assistenziali. 35 benefici: una maggiore garanzia di privacy, la possibilità per amici e familiari di visite più frequenti, una maggiore quiete durante il giorno ed il miglioramento della qualità del riposo di notte - non essendo esposti ad allarmi, richiami e discorsi degli altri pazienti-, ed infine l’acceso ad un bagno privato. Tali vantaggi sono difficilmente contestabili. Rispetto agli svantaggi di tale provvedimenti, gli autori citano il consistente costo di rinnovo e costruzione degli edifici; tale costo è però classificato come un costo capitale, mentre la maggior parte delle spese richieste agli ospedali per seguire la direzione della PCM sarebbero costi legati al training del personale e ad interventi in profondità per modificare la cultura organizzativa. Scrivono gli autori: i costi capitali produrranno più verosimilmente gli effetti per cui sono stati pensati, rispetto ai costi insiti nei cambiamenti comportamentali e culturali. In altre parole, è più semplice costruire camere singole che insegnare a migliaia di individui ad essere rispettosi della privacy degli individui quando la cura avviene in stanze multi-letto (Detsky e Etchell, 2008, pp. 955-956). Ora, certamente vero che i cambiamenti strutturali hanno il potere di abbattere in modo immediato alcune barriere fisiche alla fruizione di un ambiente a misura di persona - si veda il disagio provato da degenti costretti per settimane in stanze da quattro o sei letti con tutto ciò che questo comporta a livello di privacy e comfort. Ciò detto, è mia opinione che i cambiamenti culturali, per quanto lunghi ed impegnativi, siano imprescindibili affinché l’obiettivo della centratura sul paziente sia attivamente perseguito in ogni aspetto e ad ogni livello dell’organizzazione. I miglioramenti strutturali saranno fruibili soltanto laddove una cultura Patient Centred abbia messo radici. In altre parole, si è in presenza di un Ospedale Centrato sul Paziente a patto che gli investimenti per il miglioramento delle strutture siano accompagnati dalle innumerevoli modalità informali attraverso cui lo staff – ingaggiato profondamente nell’obiettivo di incontrare i bisogni dei pazienti – si prenderà cura dell’esperienza degli utenti del servizio. Cultura e struttura non sono opzioni alternative: diffondere la cultura della Patient Centredness è ciò che consente non soltanto che i cambiamenti strutturali siano ideati, progettati ed implementati, ma è anche e soprattutto ciò che ne mette in luce la profondità dei vantaggi. Gli investimenti materiali, se non supportati da una cultura diretta all’obiettivo della Patient 36 Centredness, rischiano di svuotarsi di significato e perdere di efficacia. È mia opinione, quindi, che il costo economico del rinnovamento delle strutture in vista di un maggiore comfort dei pazienti non debba e non possa essere paragonato all’investimento economico in interventi formativi – o di interventi a più ampio raggio – finalizzati al radicarsi di una cultura centrata sul paziente ed al buy in del personale nella causa. Non saranno infatti le camere singole a rendere un ospedale a misura di paziente, se l’esperienza di quest’ultimo sarà connotata da vissuti di abbandono, sfiducia e disgregazione nel rapporto con i numerosi operatori sanitari. 2.1.2. Tecnologia Quando si parla di tecnologia, Shaller (2007) si riferisce in particolare all’ Health Information Technology (HIT). Essa, secondo le ricerche svolte dall’autore, darebbe la possibilità di coinvolgere attivamente pazienti e famiglie nel processo di cura, attraverso la facilitazione delle comunicazioni con i professionisti sanitari. Inoltre la HIT metterebbe a totale disposizione dei pazienti le informazioni desiderate e garantirebbe un rapido accesso a strumenti per la presa di decisione. Negli ultimi anni sono sorte numerosi applicazioni della HIT: dalla semplice comunicazione via e-mail tra pazienti e medici a più sofisticati portali Web dedicati ai pazienti per la consultazione della loro cartella clinica elettronica. La gamma delle applicazioni varia ampiamente in complessità e costi. Molte ricerche hanno evidenziato che la tecnologia informativa in questione è generalmente sotto-utilizzata, nonostante le organizzazioni pioniere in questo ambito dimostrino che tali provvedimenti siano effettivamente in grado di consolidare la partnership medico-paziente (Sheller, 2007). Si può immaginare che la HIT vada incontro a resistenze di vario tipo, non ultima la paura che le nuove tecnologie possano impoverire la qualità del rapporto tra medico e paziente. La chiave di volta per il successo della HIT potrebbe essere la facilità di utilizzo percepita dai vari gruppi di utenti, e la condivisione dei detti timori con i medici stessi. 37 2.1.3 Norme e procedure In questa sezione verranno prese in esame le regole e le procedure standardizzate che hanno un impatto sulle dimensioni della PCM e/o connotano un organizzazione sanitaria come Patient Centred. È fondamentale una precisazione: essendo l’ospedale un’organizzazione generalmente assai complessa, tali procedure possono essere esplicitate ed applicate a diversi livelli. Si consideri il seguente esempio. Il duplice scopo della ricerca di Groene et al. (2009), è quello di quantificare le strategie che alcuni ospedali europei hanno messo in atto a promozione della cura centrata sul paziente e di verificare se sussista una relazione tra l’applicazione di dette strategie e: a) alcune caratteristiche dell’ospedale; b) la maturità del Sistema di Miglioramento della Qualità. Ciò che è rilevante considerare è che l’associazione tra le strategie finalizzate alla PCM e la classificazione di maturità del sistema suddetto sembra essere molto diversa a seconda che si consideri il livello del reparto oppure quello dell’ospedale. In altre parole, gli ospedali potrebbero adottare policy al livello strategico generale per adempiere ad esigenze legislative o di accreditamento, ma l’implementazione di dette policy potrebbe non essere poi trasferita interamente al livello del reparto. I risultati dello studio di Groene et al. suggeriscono che, nonostante le procedure e le politiche ufficiali siano spesso efficaci nel predire la messa in pratica di alcune strategie Patient Centred, fermarsi al dichiarato non è sufficiente. Fatta questa premessa, occorre comunque considerare che alcune norme e procedure possono costituire un reale antecedente alla diffusione di pratiche lavorative connotate da una centratura sui pazienti. Si considerino le procedure di misurazione sistematica e ricerca di feedback: la costruzione di competenze di ascolto dei fruitori del servizio è una fattore che contribuisce consistentemente a rendere il paziente il baricentro delle pratiche organizzative. Tali procedure consentono all’ospedale di misurare e monitorare costantemente la sua performance qualitativa nell’ambito della PCM, operazione imprescindibile se si considera l’assioma frequentemente citato nella Health Care Quality Improvement: “non si può gestire ciò che non si può misurare”. Le competenze di ascolto dovrebbero comprendere svariate modalità di misurazione delle 38 performance: raccolta ed elaborazione dei dati relativi alle esperienze dei pazienti, raccolta di segnalazioni, fidelizzazione degli utenti all’organizzazione. Ultimamente sono sorti anche metodi di misurazione meno convenzionali: uno di essi consiste in un processo (chiamato “Walk-throught”, cioè “attraversamento”) all’interno del quale diversi professionisti sanitari giocano il ruolo dei pazienti e fanno esperienza di una procedura o di un servizio erogato dall’ospedale. Alcune ricerche dimostrano che vivere esperienze di ospedalizzazione, reali oppure simulate durante un role playing, influenza fortemente i professionisti e ne modifica a lungo termine percezioni e comportamenti rispetto all’orientamento al paziente (Wilkes et al., 2002; Luxford et al., 2011). Infine, l’adozione di Comitati Consultivi composti da pazienti e famiglie costituisce un’altra proficua modalità di raccogliere sistematicamente feedback dai pazienti. Il valore delle descritte procedure di assessment risiede certamente nel loro potenziale utilizzo per progettare ed implementare interventi a miglioramento dell’esperienza dei pazienti. Tali misurazioni dovrebbero riguardare anche l’effetto prodotto dai cambiamenti introdotti. L’utilizzo sistematico della valutazione nella pianificazione degli interventi, nella loro implementazione, nella misurazione degli effetti prodotti e nella loro eventuale modifica al bisogno, costituisce il circolo virtuoso che consente il miglioramento continuo della qualità del servizio. Secondo Peter Coughlan 6 (in Shaller, D., 2007) il successo del processo dipende in larga parte dalla possibilità di disporre di feedback in tempo reale: si vede quindi come misurazione e ricerca sistematica di feedback sono due facce della stessa medaglia. L’utilizzo attivo di feedback emerge infine come un facilitatore chiave della PCM anche nelle interviste condotte da Luxford et al. (2011) ai leader di organizzazioni ospedaliere riconosciute come best practices nell’ambito della cura centrata sul paziente. 2.2 Gli aspetti soft dell’organizzazione In questa sezione verranno presi in esame alcuni aspetti soft – afferenti cioè alla dimensione sociale, culturale e valoriale - delle organizzazioni sanitarie, descritti in 6 Peter Coughlan è leader delle pratiche di Benessere e Salute in IDEO, una società di consulenza internazionale che si occupa, tra le altre cose, di innovazione e progettazione organizzativa. 39 letteratura come possibili antecedenti all’implementazione della Patient Centredness. 2.2.1 Cultura organizzativa L’argomento della cultura organizzativa merita qui una breve tematizzazione, sia in quanto il punto di vista adottato in questa tesi vede nella cultura la chiave di lettura imprescindibile per comprendere e gestire le organizzazioni, sia in quanto essa sarà l’oggetto principe della ricerca sul campo illustrata nei prossimi capitoli. I teorici a cui si fa riferimento sono prevalentemente due: G. Morgan. ed E. Schein. Il primo descrive la cultura organizzativa come un insieme di credenze, valori e norme che, insieme a simboli, miti, personalità ed eventi “drammatizzati”, rappresentano la personalità – unica e irripetibile – di un organizzazione, e forniscono un quadro di riferimento per l’azione ed il cambiamento. A Morgan (1998) si deve soprattutto la descrizione delle organizzazioni attraverso la metafora culturale. Vedere le organizzazioni come delle culture porta con sé una serie di conseguenze cruciali, prima tra tutte quella di poter pensare ad ogni aspetto del funzionamento corporativo (strategia, struttura, design, natura della leadership e del management, etc.) non come un elemento discreto e separato dagli altri, ma come parte di una sorta di “programma mentale” (Hofstede et al., 1990) dell’organizzazione. Secondo questa prospettiva, inoltre, qualsiasi cambiamento organizzativo è prima di tutto cambiamento culturale (Morgan, 1998) e come tale va quindi progettato ed implementato. Il secondo autore menzionato, E. Schein, descrive la cultura come lo schema di assunti fondamentali che un certo gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato mentre imparava ad affrontare i problemi legati al suo andamento esterno o alla sua integrazione interna, e che hanno funzionato in modo tale da essere considerati validi e quindi degni di essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a tali problemi (in Hatch, 2009, p. 199). A Schein si deve il celebre modello che vede la cultura organizzativa come articolata su tre livelli di profondità e visibilità: il livello più immediato di osservazione è quello degli artefatti: ciò che si vede, si ascolta e si prova quando si attraversa l’organizzazione. A questo livello la cultura è molto chiara ed ha un 40 immediato impatto emotivo. Tuttavia, lo strato degli artefatti resta indecifrabile se non è possibile porre domande a chi vi lavora su quanto si osserva e si percepisce. Ciò conduce al successivo livello dell’indagine culturale: i valori dichiarati. Essi rappresentano i valori manifesti o espressamente accettati di una cultura, ciò che le persone dichiarano essere le ragioni del proprio comportamento. Le ragioni profonde, tuttavia, rimangono nascoste o inconsce. Per comprendere realmente una cultura e interpretare compiutamente i valori del gruppo ed il suo comportamento manifesto è d’obbligo indagare gli assunti impliciti (terzo livello culturale), che sono spesso inconsci ma che in effetti determinano il modo in cui i membri del gruppo percepiscono, pensano e sentono (Schein, 1999). Questa breve introduzione al tema della cultura organizzativa è utile al fine di comprendere la prospettiva da cui, in questa tesi, si guarda al cambiamento organizzativo nella direzione di una maggior centratura sul paziente, nonché al fine di esplicitare la cornice teorica utilizzata nell’affrontare tale complesso argomento. La cultura organizzativa della Patient Centred Care non è caratterizzata da programmi discreti, ma dai valori e dalle attitudini che supportano l’implementazione di tali programmi. Si tratta di esaminare tutti gli aspetti dell’esperienza del paziente e scegliere di considerarli dalla loro prospettiva invece che secondo la convenienza degli erogatori di servizio. In assenza di tale visione organizzativa complessiva, i programmi e le politiche potranno anche raggiungere specifici obiettivi, ma falliranno nel coltivare un’organizzazione autenticamente Patient Centred (Frampton et al., 2008, p. 20). Come si è anticipato nei precedenti paragrafi, la cultura è – secondo svariati autori – la leva principe perché l’organizzazione si orienti all’obiettivo della Patient Centredness. Se consideriamo la cultura organizzativa come un programma mentale specifico e unico di quella organizzazione, occorre chiedersi allora da cosa sarà caratterizzato il programma mentale degli ospedali Centrati sul Paziente. Si può dire che una prima caratteristica trasversalmente riconosciuta dagli autori consiste nella connotazione partecipativa della cultura organizzativa. Ascoltare la voce dei pazienti – fruitori diretti del servizio – e delle famiglie è considerata in queste strutture una procedura imprescindibile, che va oltre la già citata raccolta finale di feed-back ma che anzi informa le pratiche lavorative 41 quotidiane dei professionisti. Il coinvolgimento degli utenti prende diverse forme e si sostanzia a diversi livelli: dalla partecipazione al momento dell’erogazione della cura, al coinvolgimento nelle decisioni organizzative volte alla riprogettazione ed al miglioramento dei servizi. Ad un livello ancora più elevato, la voce di pazienti e famiglie dovrebbe essere presa in considerazione nello sviluppo di politiche locali, regionali e nazionali. Infine, come ha esposto P. Mosconi7: il paziente, prima di tutto in quanto cittadino, dovrebbe essere posto al centro di una serie di iniziative - informative e partecipative - che portino ad un interesse collettivo in termini di miglior assistenza, di razionalizzazione degli interventi e di impatto come scelta di outcome rilevanti. (…) Si tratta di portare a bordo - e possibilmente mettere al centro - la cittadinanza nelle scelte, ad esempio nelle commissioni sul finanziamento dei progetti di ricerca, nelle scelte delle politiche sanitarie e nelle discussioni sull'etica della medicina. Quest’ultimo livello, che mi è sembrato importante citare in questa sede, non fa tuttavia parte (non soltanto) della cultura organizzativa degli ospedali, ma attraversa la società in senso lato. Ma torniamo al tema centrale del paragrafo. Luxford et al. (2011) sottolineano che, nelle interviste da loro condotte ai leader degli ospedali best practices in quanto a Patient Centredness, la promozione di una cultura orientata al cambiamento ed all’apprendimento sia un elemento ricorrente. L’organizzazione che si orienta verso il paziente è un’organizzazione che sa ascoltare la sua voce ed utilizzare le sue narrazioni come un catalizzatore di cambiamento. Ma proprio come le persone, anche le organizzazioni temono i cambiamenti. Promuovere una cultura che non rifugga l’evoluzione e l’apprendimento significa anche saper approcciare il cambiamento culturale da un prospettiva bottom-up invece che top-down. Questo significa superare una logica “correttiva”, che veicola messaggi minacciosi e spinge i membri dell’organizzazione a difendersi dal cambiamento o addirittura ad impedirlo attivamente (Leonard, 2004). Al contrario, il cambiamento efficace sa ingaggiare gli impiegati nella causa: quando essa diventerà importante la loro piena realizzazione professionale, le modifiche si radicheranno realmente nelle pratiche e si sedimenteranno nella cultura organizzativa. Inoltre, i cambiamenti devono essere 7 Comunicazione personale di Paola Mosconi, Laboratorio per il coinvolgimento dei cittadini in sanità , Istituto Mario Negri, Milano. 42 percepiti come vantaggiosi: devono rendere la giornata più semplice, sicura e appagante per tutti. Nel caso del cambiamento verso una cultura Patient Centred, il gradino più alto potrebbe essere proprio quello di modificare l’atteggiamento e gli assunti impliciti nelle pratiche degli impiegati (sedimentatisi in anni di approccio biomedico alla medicina): dalla focalizzazione sui benefici dell’organizzazione a quella sui bisogni del paziente. Ancora una volta, l’ascolto delle narrazioni dei pazienti e l’esperienza ospedaliera in prima persona sono individuati come i fattori più efficaci nel superare tale barriera. A conclusione di questo paragrafo, si propone una breve riflessione. Nella letteratura che tratta le implicazioni organizzative della Patient Centredness, gli autori sembrano unanimi nel considerare il cambiamento culturale come imprescindibile al fine di costruire organizzazioni ospedaliere sempre più centrate sul paziente. Tuttavia, come si è forse notato leggendo il paragrafo, nessun articolo affronta il tema della cultura organizzativa in modo concreto ed approfondito; non si trova, in definitiva, una risposta completa alla domanda su come e cosa occorra cambiare. È anche alla luce di questa considerazione che si è scelto di dedicare al tema della cultura organizzativa Patient Centred la ricerca sperimentale condotta nell’ambito della presente tesi; metodologia e risultati dello studio saranno esposti nella seconda parte (capitoli 3 e 4). 2.2.2 Leadership e Vision Le culture organizzative sono create dai leader; una delle funzioni decisive della leadership può essere identificata con la creazione, il sostegno e - se e quando necessari -, la distruzione di una cultura. Cultura e leadership (…) sono due facce della stessa medaglia: nessuna delle due può essere interamente compresa senza l’altra. Con queste parole il noto teorico delle organizzazioni E. Schein (1992, pp. 29-30) ci illustra il robusto legame tra leadership e cultura nelle organizzazioni. L’impegno ed il coinvolgimento del gruppo dirigente nella causa della PCM è fondamentale affinché qualsiasi iniziativa in tal senso possa prendere piede. La trasformazione organizzativa necessaria per raggiungere e, soprattutto, sostenere l’erogazione di cure centrate sul 43 paziente non potrebbe avvenire senza il supporto e la partecipazione dei dirigenti. Silversin e Kornacki (2000), studiosi esperti nella cultura medica, hanno applicato i concetti di Schein alla organizzazioni sanitarie, utilizzando un modello di cambiamento organizzativo che si focalizza sulla leadership, la vision condivisa, la cultura, ed il concetto di patto tra il management e lo staff medico. Compito dei leader, definiti in questo modello come veri e propri manager del cambiamento, è quello di trasformare il patto implicito tra le organizzazioni sanitarie ed i professionisti in esse impiegati basato su “diritti, protezione e autonomia”- in un accordo esplicitamente focalizzato al “mettere i pazienti prima di tutto”. Tale patto è diventato, in alcune strutture, il caposaldo di una trasformazione su vasta scala dell’organizzazione sanitaria, consentendo il passaggio da una cultura orientata a soddisfare i bisogni degli impiegati ad una diretta a mettere i pazienti al centro. Una leadership impegnata nel raggiungimento degli obiettivi PC dovrà poi essere in grado di sviluppare una vision e dei piani strategici per far sì che la centratura sul paziente permei i processi dell’organizzazione nella quotidianità del suo funzionamento. Gli esperti intervistati da Shaller (2007) pongono molta enfasi sull’importanza di creare slogan che esprimano la mission e la vision in modo chiaro, semplice e facilmente ripetibile nelle routine lavorative del personale. La vision, in altre parole, seppur ideata a livello manageriale, deve rappresentare un orizzonte visibile da ogni livello dell’organizzazione, dagli uffici del top management ai letti dei pazienti. 2.2.3 Clima organizzativo Il clima è l’insieme delle percezioni soggettive sviluppate dai membri di un’organizzazione, riguardo alle politiche, alle procedure formali e informali, alle consuetudini invalse nell’organizzazione, etc. Tali percezioni sono in grado di condizionare le attività che avvengono all’interno del contesto organizzativo; inoltre, il clima influenza i vissuti dei membri dell’organizzazione in merito allo stesso ambiente organizzativo di cui fanno parte (Amovilli, 1995). Risulta quindi chiaro come la soddisfazione e l’engagement nel proprio lavoro siano un antecedente fondamentale 44 per lo stabilizzarsi di un clima organizzativo positivo. Il tentativo di potenziare la soddisfazione degli impiegati è stato individuato come un fattore facilitante la creazione di un ospedale centrato sul paziente (Luxford, 2011). I leader degli ospedali che si orientano alla Patient Centredness dovrebbero anzitutto alimentare un ambiente lavorativo in cui il loro più importante asset, la loro forza lavoro, sia trattata con rispetto e dignità nella stessa misura in cui l’organizzazione richiede loro di trattare i pazienti. L’associazione tra soddisfazione dei pazienti e soddisfazione dei professionisti della sanità è stato ampiamente riconosciuto (Rave et al., 2003); pratiche rilevanti a questo riguardo sono l’assunzione, la formazione, la valutazione, la compensazione di personale ingaggiato nella PCM. Anche i riconoscimenti pubblici degli impiegati best performers in tale ambito dovrebbero essere una pratica diffusa. Peter Coughlan (in Luxford, 2011) sostiene addirittura che le organizzazioni sanitarie dovrebbero connotarsi per il loro essere Human Centred e non soltanto Patient Centered, a dire cioè che tutti gli stakeholders dell’organizzazione dovrebbero essere impegnati nel creare un efficace e responsabile sistema di cura (Shaller, 2007) ed un ambiente caratterizzato dal rispetto per la persona nella sua individualità. Un cenno a sé merita l’articolo di Abdelhadi, N. e Drach-Zahavy, A. (2011), che analizza la PCM nelle sue relazioni con il costrutto di clima di servizio - l’insieme delle percezioni condivise dagli impiegati in merito a pratiche, procedure e comportamenti che connotano un servizio efficace e che sono attese, supportate e ricompensate (Schneider et al., 1994). Scopo degli autori è quello di testare un modello che vede il clima di servizio dei reparti ospedalieri come fattore incentivante per le infermiere nel mettere in atto comportamenti Patient Centred, attraverso l’intervento di una terza variabile, quella del work engagement - uno stato cognitivo-affettivo positivo e persistente, caratterizzato da vigore, dedizione al lavoro e assorbimento nel lavoro (Schaufeli, Salanova, Gonzáles-Romá, Bakker, 2002, pp.72). Gli autori notano che generalmente gli sforzi organizzativi per promuovere la Patient Centred Medicine si focalizzano su interventi mirati a migliorare le skills del personale sanitario (es: capacità comunicative e relazionali, formazione ai valori della PCM, all’orientamento al cliente ed alla leadership); tali interventi sono senza dubbio fondamentali. Lavorare sulla 45 capacità dello staff ospedaliero di sostenere il focus sul paziente è un fattore chiave perché l’organizzazione renda la Patient Centredness un obiettivo sostenibile anche nel lungo periodo. Tuttavia tali interventi, se isolati dal contesto, si rivelano solo parzialmente efficaci. Le organizzazioni sanitarie attuali sono infatti spesso oppresse da severe pressioni finanziarie e alti standard di produttività che ne minacciano la sopravvivenza e ne influenzano le pratiche ed il funzionamento. Tali circostanze suggeriscono che le teorie inerenti alla PCM possano beneficiare dall’esplorazione del ruolo dell’organizzazione in quanto contesto lavorativo – ed in particolare della realtà dei reparti – nel creare e sostenere una cultura e delle pratiche lavorative centrate sul paziente. I risultati dello studio dimostrano che il clima di servizio è effettivamente in grado di facilitare comportamenti orientati al paziente. Lavorare in un contesto connotato da un buon clima di servizio può addirittura arrivare a compensare alcuni fattori inibitori dei comportamenti PC, come ad esempio la percezione di un eccessivo carico di lavoro (Salanova, Agut, 2005). Anche la variabile del work engagement si dimostra essere un fattore rilevante nell’incentivare comportamento orientati al paziente: essa, come prediceva il modello, media l’associazione tra clima di servizio dei reparti e comportamenti Patient Centred. Lo studio, in definitiva, dimostra che lavorare in un’organizzazione connotata da un clima di servizio positivo è un importante antecedente al miglioramento delle percezioni ed all’investimento degli operatori sul proprio lavoro, nonché all’implementazione di comportamenti e pratiche centrate sul paziente. 2.2.4 La formazione del personale sanitario Come accennato sopra, la formazione del personale ospedaliero rappresenta un antecedente di fondamentale importanza per la sostenibilità nel tempo dell’orientamento verso i pazienti. Obiettivo di questa breve sezione non è quello di affrontare in modo completo e sistematico il tema, che meriterebbe una trattazione a sé. Si metteranno invece a fuoco alcuni punti rilevanti e questioni aperte, coerentemente con gli argomenti trattati finora. 46 Si è visto, nel precedente capitolo, come il modello biomedico - approccio tradizionale alla clinica medica nonché assunto profondamente radicato nella cultura occidentale sia particolarmente difficile da modificare, in quanto tale cambiamento prevedrebbe un ribilanciamento di poteri, priorità e competenze tra medico e paziente. Il modello biomedico è estremamente seduttivo, tanto per i professionisti – i quali, curando astrazioni e non persone, possono difendersi dall'inevitabile sofferenza che una reale presa di contatto con il malato provocherebbe – quanto per i pazienti – autorizzati a coltivare fantasie di una medicina quasi magica e di un dottore onnipotente in grado di guarirli da ogni male. Il modello tradizionale ha radici profonde tanto negli assunti collettivi quanto, probabilmente, nelle nostre rappresentazioni individuali, in quanto confermato da modelli di clinici incontrati nella vita reale o descritti dai mass-media. Nonostante questo, è lecito ipotizzare che una formazione adeguata ai professionisti attuali e del futuro possa effettivamente incidere su assunti e valori impliciti nei concetti di cura e pratica medica, orientandoli verso una maggiore centratura sulla persona-paziente. Si tratta senza dubbio di una formazione complessa, dato che quando parliamo di PCM chiamiamo in causa competenze altre rispetto alle sole skills tecniche: la Patient Centredness richiede competenze individuali e sociali, relazionali ed emotive; uno spostamento, cioè, dall'asse del sapere e del saper fare a quello del saper essere. Il problema che qui si pone non è nuovo agli addetti ai lavori, come si può vedere dai due seguenti estratti di testimonianze: “Certo che in tutti questi anni (33 dalla laurea!) per noi che siamo in prima linea con i pazienti il pensiero a come fare ma soprattutto a come essere è costante. Sappiamo tutti che nessuno ci ha formato alla relazione in una professione che di suo è una relazione di aiuto; è sconfortante pensare che ancora ad oggi camminiamo sulle sabbie mobili.” Sara, ginecologa. “Se si è scelto di avere a che fare con una persona in qualità di medico - è vero che la nostra università è stata secondo me assai carente in questo fondamentale 47 insegnamento - ma non possiamo attribuire solo le colpe agli altri. E’ compito nostro colmare questa lacuna, imparare a comunicare, ed essere empatici con chi aspetta da noi notizie sulla sua salute… brutte o belle che siano… se no è meglio cambiare mestiere!” Cristina, medico di base.8 I punti di vista delle due professioniste chiamano in causa non poche problematiche legate al tema della formazione dei medici, estendibili però a mio avviso anche ad altre professioni sanitarie; in particolare: quanto le facoltà universitarie si fanno carico dell'insegnamento di competenze relazionali ai futuri professionisti? Esistono moduli specifici o si tratta di insegnamenti trasversali a tutti i corsi? Quali dispositivi formativi sono pensati per garantire l'apprendimento di tali competenze? E ancora, a monte, l'empatia e la capacità di relazionarsi e comunicare con il paziente sono competenze insegnabili? O è compito/dovere dello studente/lavoratore svilupparle attraverso l'esperienza? Non si rischia in questo modo di lasciare attuali e futuri professionisti soli a camminare sulle sabbie mobili? Questa breve divagazione rispetto al tema dell’ospedale centrato sul paziente è stata pensata per due motivi: a) non lasciare totalmente in ombra il ruolo delle agenzie formative precedenti all’ospedale, in quanto responsabili nella maturazione - nei giovani professionisti - di un primo approccio alla cura; b) riconnettere il complesso argomento della formazione ai principi di base della Medicina Centrata sul Paziente, esposti nel precedente capitolo. Rispetto al tema trattato nel presente capitolo, tuttavia, il tipo di formazione su cui urgono maggiormente alcune considerazioni è la formazione on-the-job. Come si è detto, essa porta con sé grandi potenzialità e, vista la sua diffusione, i manager lo hanno capito da tempo. Alcuni punti di attenzione: innanzitutto, perché la formazione non si limiti a rappresentare un momento individuale di riflessione, occorre prevedere 8 Le due testimonianze sono state tratte da conversazioni intrattenute all’interno del blog – piattaforma virtuale http://abbassoglismidollati.wordpress.com/. Il blog è stato aperto nel giungo 2011 da Alessandro Liberati (medico di e, da anni, anche paziente affetto da mieloma multiplo) allo scopo di condividere con amici e colleghi riflessioni in merito ad esperienze di ospedalizzazione, al rapporto medico – paziente ed ai possibili modi di vivere ed affrontare la malattia. 48 dispositivi formativi che accompagnino i professionisti ad applicare ed a stabilizzare quanto appreso durante la formazione nelle loro pratiche lavorative. Se questo aspetto potrebbe apparire scontato, si consideri che nell’ambito della formazione alla PCM negli ospedali, in Italia, non sembrano ancora aver messo radici metodologie di formazione esperienziali e che privilegino il “l’apprendere dal fare”. Un secondo punto a mio avviso molto rilevante: la formazione, oltre che occuparsi delle skills citate, dovrebbe avere lo scopo più ampio di aiutare il professionista sanitario ad assumere la prospettiva del paziente. Una delle criticità più spesso citate dai pazienti è la difficoltà di “mettere insieme i pezzi” del percorso di cura pensato per loro, oltre che la più banale ma frequentissima difficoltà di comprensione di ciò che i professionisti riferiscono. Entrando in ospedale, i pazienti si interfacciano infatti con diversi operatori: personale amministrativo, infermieri, medici di reparto, medici consulenti, OSS, tecnici di vario tipo, etc.. Ogni categoria professionale parla la propria lingua ed espone al paziente la sua parziale prospettiva sul processo di cura. Ciò che la formazione potrebbe aiutare a potenziare è proprio la presa in carico da parte degli operatori della difficoltà del paziente di unificare le diverse voci per costruire un senso unitario e coerente della sua esperienza. In pratica, si tratta di formare lo staff all’utilizzo di un linguaggio il più possibile uniforme e comprensibile, ed abituare i professionisti – soprattutto medici ed infermieri - a consultarsi precedentemente tra loro per non restituire al paziente una sensazione di frammentazione ed incoerenza. Tali criticità sono ben evidenziate dall’articolo di Kerosuo (2010), dall’emblematico titolo “Lost in translation: un’esperienza di non - integrazione della cura dal punto di vista di un paziente”. Le incomprensioni tra gli operatori, i gap negli scambi informativi ed i problemi di comunicazione caratterizzano spesso l’esperienza di cura nelle organizzazioni sanitarie. Nell’organizzare le procedure e le pratiche finalizzare alla cura dei pazienti, spesso la logica utilizzata è quella mutuata dalla prospettiva dei professionisti invece che da un approccio patient- centred (Kerosuo, 2010, p. 373). Se, da un lato, appare chiaro che cambiamenti di tale portata richiedano interventi assai più ampi della formazione e debbano coinvolgere - come già affermato - i piani alti dell’organizzazione, è anche vero che la formazione alla PCM non può trascurare gli 49 aspetti qui menzionati. Lo scopo della cura centrata sul paziente è quello di rendere l’esperienza di ospedalizzazione il più possibile a sua misura dei suoi utenti: perché questo avvenga è necessaria una formazione che accompagni i professionisti sanitari ad assumere, nelle loro pratiche lavorative, la qualità dell’esperienza dei pazienti come obiettivo primario. 50 CAPITOLO 3 Metodologia, disegno e contesto della ricerca Il presente capitolo descrive l’approccio metodologico ed il disegno di ricerca adottati nella progettazione e nello sviluppo di uno studio di caso, svolto tra i mesi di Settembre 2011 e Marzo 2012 presso il reparto di Riabilitazione di un Policlinico italiano. Il caso prende in esame il costrutto di Patient Centred Medicine nelle sue implicazioni pratiche, analizzate all’interno di una realtà ospedaliera. Nell’ultimo paragrafo verrà introdotto e descritto il contesto della ricerca. I risultati dello studio saranno illustrati nel quarto capitolo. 3.1 Introduzione Il tema della Patient Centred Medicine è al centro dell’attenzione ormai da anni, anche in Italia. A portarlo alla luce sono troppo spesso casi di mala sanità che raggiungono la visibilità mediatica. D’altra parte tali tematiche sono un punto d’attenzione anche per gli enti responsabili di stabilire standard e obiettivi della Sanità Italiana. Nel Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 redatto dal Ministero della Salute, tra gli obiettivi da perseguire nel triennio di vigenza dello stesso ricorre quello dell’empowerment del paziente, dimensione fondamentale per l’implementazione di una cura a misura di quest’ultimo. Si legge infatti: l’empowerment dei pazienti si realizza attraverso il supporto al self care che significa non soltanto lavorare per recuperare la centralità della persona attraverso la personalizzazione delle cure ma, soprattutto, sviluppare con i pazienti la comprensione di come la malattia condiziona la loro vita e la loro salute e accompagnare gli stessi ad affrontare i sintomi e le complessità di cura / gestione della malattia (…). Il seguente passaggio, in particolare, merita un punto d’attenzione: è necessario che ogni operatore sia consapevole che è un proprio impegno lo sviluppo della partecipazione e dell'empowerment dei cittadini. Ora, è certamente vero – come si è detto nel precedente capitolo – che l’ingaggio dei 51 professionisti nella causa della centratura sul paziente è un elemento di fondamentale importanza. Tuttavia, il grande interrogativo che ha guidato la progettazione e la messa in pratica del presente studio chiama in causa un livello ulteriore di complessità: l’organizzazione ospedaliera. È possibile tradurre i principi della Patient Centred Medicine nelle pratiche lavorative dei professionisti sanitari? È possibile immaginare un cambiamento che vada nella direzione di rendere la Patient Centredness il fulcro ed il principio orientatore della cultura delle organizzazioni sanitarie? Se sì, come? La letteratura in merito all’implementazione delle cure centrate sul paziente nel contesto ospedaliero è piuttosto vasta. Tuttavia, se restringiamo il panorama ai disegni di ricerca qualitativi ed in particolare a quegli studi che prendono in esame il costrutto di Patient Centred Medicine in quanto tale (e non per una delle sue dimensioni), il campo sembra restringersi notevolmente. Molti autori hanno dedicato i loro lavori a verificare l’esistenza di associazioni tra alcune singole variabili relative alla Patient Centredness ed il miglioramento dell’esperienza percepita dal paziente; si veda l’analisi della comunicazione infermieri – paziente (analizzata da Bergvik et al., 2007), la comprensione dei pazienti del proprio piano di cura (O’Leary et al., 2010), il work engagement del personale ospedaliero (Abdelhadiet al., 2011), etc.), per non parlare dei molteplici studi sull’impatto dell’uso di processi di shared decision making. Il vantaggio di questi studi è quello di scomporre un costrutto multidimensionale e complesso come quello della PCM per comprendere il peso relativo dei fattori che lo compongono. Il parziale svantaggio degli stessi è però quello di partire da un’ipotesi forte e non sempre verificata, cioè che le variabili considerate siano proprio quelle che hanno il maggior impatto sull’esperienza del paziente. Il presente studio di caso si pone in una prospettiva diversa: l’obiettivo non è quello di dimostrare l’esistenza di una relazione tra variabili e di generalizzarla a contesti analoghi. Ci si pone, invece, in un’ ottica esplorativa, fondativa e fortemente contestualizzata: lo scopo è quello di mettere in luce una costellazione di elementi e fattori che contribuiscono alla formazione di una cultura organizzativa più o meno centrata-sul-paziente all’interno del reparto ospedaliero analizzato. Oggetto dello studio saranno perciò elementi, fattori ed indizi riconducibili ad una 52 cultura organizzativa (più o meno) centrata sul paziente. In particolare ci si concentrerà sulla forma che tali elementi assumono nelle rappresentazioni e nelle pratiche lavorative dei professionisti sanitari. L'ipotesi alla base del progetto è che la Patient Centredness – se declinata a livello organizzativo – possa essere letta come un sistema di assunti, credenze, valori ed artefatti che informa il funzionamento dei reparti e la posizione relativa del paziente al loro interno. Indagare la(e) cultura(e) del reparto - ed in particolare le pratiche lavorative, le interazioni, il linguaggio dei diversi attori che partecipano all'esperienza di ospedalizzazione del paziente – è perciò uno step necessario per l’individuazione di interventi e/o dispositivi organizzativi che incidano positivamente sul vissuto e sull’esperienza di ospedalizzazione. I concetti ed i modelli esposti nei precedenti capitoli hanno fornito una guida ed un ancoraggio teorico tanto nella fase di progettazione quanto in quelle di implementazione ed analisi dei dati. 3.2 Obiettivi Come parzialmente anticipato, l’obiettivo del Case Study è quello di individuare ed analizzare gli elementi che connotano la cultura organizzativa del reparto di Medicina Fisica e Riabilitazione come più o meno centrata sul paziente; si analizzeranno quindi il ruolo, la posizione e le rappresentazioni relative ai pazienti che si consolidano all’interno dell’organizzazione. Nel fare ciò verranno considerati i punti di vista delle tre principali categorie professionali che prendono parte alla realtà analizzata - medici, fisioterapisti, infermieri -, le loro pratiche lavorative ed in particolare le loro relazioni con i pazienti. In definitiva, un’attenzione particolare sarà rivolta alle micro – culture che caratterizzano tali categorie professionali, con un focus specifico sulle rappresentazioni del paziente di cui ognuna è portatrice e sulle loro implicazioni nelle pratiche lavorative. I punti di attenzione elencati vanno intesi secondo la definizione di sensitizing concepts di Blumer (1969), anziché come concetti definitori: essi costituiscono pertanto una guida nell’affrontare il caso empirico, garantendo la possibilità di autocorrezione e ri- 53 orientamento dell’indagine, mentre non corrispondono con rigide istruzioni sul “cosa guardare”. Lo scopo della presente ricerca è di tipo prettamente esplorativo: si cercherà, attraverso l’utilizzo di thick descriptions, di enucleare alcuni punti di attenzione chiave al fine di preparare il terreno per futuri interventi a supporto dello sviluppo di una cultura Patient Centred. 3.3 Metodologia 3.3.1. Un disegno di ricerca qualitativo La scelta di una ricerca di tipo qualitativo è motivata da due cluster di fattori: Gli obiettivi guida della ricerca: non si vuole testare l’efficacia di un modello stabilito a priori, bensì comprendere come e con quali forme i principi della PCM possano (o meno) diffondersi nella cultura organizzativa di un reparto ospedaliero. I metodi qualitativi consentono di far luce sulla complessità delle diverse interpretazioni degli attori organizzativi, di capire ciò che i partecipanti esperiscono nel contesto ed i significati che vi attribuiscono. Il contesto della ricerca: siamo di fronte ad una situazione complessa, i dati che si prevedono di raccogliere sono multi-contestuali, i fenomeni studiati non sono stati operazionalizzati in modo definitivo; si ritiene quindi opportuno adottare una metodologia che permetta di cogliere le diverse modalità di manifestarsi dei fenomeni indagati. 3.3.2 Il metodo etnografico Il presente paragrafo è dedicato ad un approfondimento del metodo che ha caratterizzato la ricerca, al fine di metterne in luce le caratteristiche principali e di giustificarne l’utilizzo alla luce degli obiettivi delineati in precedenza. La scelta di 54 utilizzare un approccio etnografico alla ricerca ha permesso di porre un’enfasi adeguata sull’unicità del contesto, nonché sull’importanza di comprenderne gli avvenimenti, le pratiche ed i valori sottesi. L’etnografia si presenta come il metodo principe quando l’obiettivo di ricerca riguarda gruppi caratterizzati da una certa cultura. Nonostante le centinaia di diverse definizioni fornite in letteratura, possiamo in generale definire la cultura come un concetto astratto che racchiude un insieme eterogeneo di elementi: credenze, valori, norme, disposizioni sociali, forme di espressione e comportamenti di un gruppo di individui che informano e spiegano i modi con cui essi percepiscono il loro mondo (Richard L., Morse M., 2007). La scelta del metodo etnografico è stata giustificata anche dalla necessità di “immergersi” nel contesto naturale dove la cultura analizzata si produce e riproduce attraverso le pratiche lavorative. Tale metodo permette di ricostruire dall’interno il profilo culturale della comunità studiata (Cardano et al., 2011), cioè a partire dal punto di vista dei suoi membri: ci si pone quindi in una prospettiva emica. La prospettiva emica è solitamente considerata alternativa a quella etica, che si caratterizza per essere una visione esterna e scientifica della realtà (Fetterman, 1998): lo scopo dell’etnografia è, in fondo, quello di produrre dati comprensibili che riflettano sul e dal punto di vista dei partecipanti alla cultura studiata. Diversamente da quanto affermato dai pionieri dell’etnografia classica, l’indagine etnografica non è finalizzata (né sarebbe in grado di) fotografare la realtà tutta attraverso un’accurata e neutrale raccolta ed interpretazione del materiale di campo (osservazioni, note, interviste,documenti); fulcro della ricerca è invece l’analisi dei processi attraverso cui l’etnografo e i suoi informatori costruiscono la realtà e la narrano. L’etnografia non cattura esperienze di vita in modo neutrale o oggettivo (ammesso, poi, che ciò sia possibile), ma piuttosto fornisce narrazioni di narrazioni, interpretazioni di interpretazioni; essa non può essere ridotta a una mera descrizione che riflette una realtà autonoma e preesistente, ma costituisce un vero e proprio processo sociale di produzione della realtà (Colombo, 1998). Le recenti critiche mosse all’etnografia classica riconoscono che l’osservazione etnografica è “riflessiva”: i processi di osservazione e descrizione di un contesto sociale coincidono, dunque, con la sua produzione. 55 ETNOGRAFIA E STUDI ORGANIZZATIVI Scrive Bonazzi (1995, p. 75) che, a partire dagli anni ‘70, il pendolo delle opzioni metodologiche ed epistemologiche nel campo degli studi organizzativi si è decisamente spostato in direzione dei metodi qualitativi. In particolare, dal 1979 – anno di pubblicazione della prima etnografia organizzativa su Administrative Science Quarterly – fino ad oggi, lo studio culturale delle organizzazioni ha avuto uno straordinario sviluppo e si è affermato come uno dei filoni più importanti e accreditati della ricerca organizzativa. Sembra aver preso piede, in alcuni ambiti dediti all’indagine qualitativa delle organizzazioni, l’idea che ciò che davvero conta nella vita dell’organizzazione si svolge al livello culturale(Louis, 1981, p. 250). In letteratura, inoltre, alcuni autori descrivono l’etnografia come un metodo particolarmente utile per comprendere le organizzazioni sanitarie (Savage J., 2007). Nel presente studio sono state particolarmente valorizzate alcune grandi potenzialità dell’etnografia: a) quella di rendere possibili confronti tra ciò che le persone dicono e ciò che agiscono; b) quella di guidare nell’identificazione delle modalità attraverso cui la struttura formale di un’organizzazione (regole, procedure, gerarchie decisionali) è influenzata e modificata da sistemi sociali informali sorti all’interno dell’organizzazione; c) quella di indicare come la conoscenza e le pratiche lavorative si generano e rigenerano localmente nel contesto analizzato. 3.3.3 Gli strumenti della ricerca Nel presente studio di caso sono state utilizzate tecniche di vario tipo: l’osservazione, la raccolta di documenti e le interviste etnografiche. Di seguito viene riportata una breve descrizione delle tecniche osservative e delle interviste etnografiche - utilizzate nella fase di raccolta dei dati - al fine di metterne in luce la rilevanza per gli obiettivi preposti. 3.3.3.1 L’osservazione In linea con la metodologia etnografica, anche nella presente ricerca è stato assegnato 56 all’osservazione un ruolo privilegiato. Essa è di norma utilizzata in combinazione con altre tecniche; tuttavia, affinché una ricerca etnografica possa essere considerata realmente tale, una quota rilevante della documentazione deve essere prodotta attraverso l’osservazione delle azioni nel loro concreto svolgersi. Molti autori ritengono che, nonostante il livello di partecipazione del ricercatore al contesto possa essere variamente dosato, nelle ricerche sociali etnografiche sia opportuno parlare sempre di osservazione partecipante, dal momento che non è possibile studiare il mondo sociale senza esserne parte (Hammersley, Atkinson, 1983). L’osservazione partecipante non è solo guardare (…) è aprirsi a un’esperienza che riguarda non solo l’occhio del ricercatore, ma tutto il suo corpo, tutta la sua persona (Cardano et al., 2011, pp. 239). È quasi superfluo, quindi, sottolineare la rilevanza della capacità del ricercatore di essere auto-riflessivo ed utilizzare se stesso come strumento di indagine. Durante la fase della raccolta dei dati, in particolare, la consapevolezza di sé è fondamentale: perché una ricerca etnografica sia valida il ricercatore deve essere cosciente e cercare di esplicitare il più possibile i propri valori culturali, le proprie credenze ed i propri pregiudizi, poiché essi avranno sicuramente influenza sulla raccolta e l’analisi dei dati. L’atteggiamento cognitivo del ricercatore dovrebbe essere quello descritto da Schutz (1944) attraverso la metafora dell’estraneo: egli non dà nulla per scontato ed è in grado di accorgersi di particolari che ai “nativi” appaiano banali o irrilevanti. Occorre perciò che il ricercatore lavori su se stesso al fine di mettere tra parentesi l’atteggiamento naturale, dato che, avvicinandosi progressivamente al gruppo osservato, la sua sorpresa ed il suo stupore di fronte al mondo dei nativi possono deteriorarsi velocemente. Anche la selezione degli oggetti di osservazione deve essere il più possibile esplicita: restringere il campo osservativo sta alla base della costruzione di un buon disegno di ricerca ed evita al ricercatore la sensazione di essere “sommerso” dall’enorme quantità di informazioni che potrebbero essere registrate. A questo proposito, Gobo (2001) distingue tre grandi ambiti di oggetti d’osservazione, anche interpretabili come tre aspetti contemporaneamente sempre presenti nelle scene sociali: le strutture sociali, le interpretazioni/spiegazioni dei partecipanti ed il contesto dell’azione. Le strutture sociali non sono altro che le convenzioni sociali, le quali si materializzano 57 nei rituali, nelle pratiche ricorrenti e nelle routine del gruppo/organizzazione analizzato. Nel contesto ospedaliero un esempio di tali pratiche è il “giro” delle visite svolto dai medici ogni mattina nelle camere dei propri pazienti. Veniamo al secondo aspetto citato da Gobo (2001). Quando si parla di interpretazione dei partecipanti ci si riferisce principalmente al linguaggio naturale che essi utilizzano. Se, come aveva teorizzato Austin (1987), il linguaggio è una forma d’azione, allora i discorsi e le conversazioni costruiscono e ri-costruiscono la struttura sociale, forniscono indizi sulle gerarchie e sulle relazioni tra soggetti, costituiscono un osservatorio privilegiato per avvicinarne le interpretazioni; in definitiva, i discorsi aiutano il ricercatore a comprendere ciò che vede mettendo in luce il punto di vista dei nativi. Per tutti questi motivi, il ricercatore dovrebbe cercare, nella stesura delle note etnografiche, di evitare riformulazioni e riportare, per quanto possibile, il linguaggio naturale dei soggetti osservati (il tema delle note etnografiche sarà approfondito più avanti). Infine, per essere pienamente comprese, le azioni ed il linguaggio (o le azionidiscorso, se consideriamo anche il parlare una forma d’azione) devono essere inserite in un contesto. Essendo le pratiche sociali sempre situate, l’osservazione si deve necessariamente occupare anche dello spazio fisico (layout, arredi, artefatti, etc.), il quale produce vincoli e risorse per l’azione. Nella presente ricerca sono stati presi in considerazione tutti e tre gli aspetti elencati; tuttavia, considerando tanto l’oggetto di studio quanto le effettive opportunità/limiti che hanno caratterizzato le sessioni osservative, un’attenzione particolare è stata assegnata all’annotazione delle conversazioni naturali: il linguaggio dei professionisti veicola infatti diverse rappresentazioni del paziente e del suo ruolo all’interno del reparto. È importante ricordare che le forme di osservazione e di partecipazione al contesto evolvono solitamente nel corso del lavoro e della permanenza sul campo. Quanto al primo aspetto, Spradley (1980) individua tre momenti caratteristici del processo osservativo, legati tra loro da una relazione circolare (quindi da non immaginare come una sequenza di fasi discrete): l’osservazione descrittiva, l’osservazione focalizzata e l’osservazione selettiva. La ricerca si apre con l’osservazione descrittiva: in questa fase il ricercatore ha come obiettivo una descrizione comprensiva e perciò necessariamente 58 di superficie del contesto di studio. Una metafora utile a spiegare questa fase del processo è quella dell’obiettivo grandangolare: si osserva il mondo con un angolo di campo molto ampio, sacrificando la nitidezza dei particolari per una visione d’insieme (Cardano et al., 2011). A questa fase segue quella dell’osservazione focalizzata: dopo aver acquisito una certa familiarità con il campo osservato, il ricercatore potrà dedicarsi ad alcuni specifici oggetti da osservare, in sintonia con gli obiettivi e le domande di ricerca stabiliti in un primo momento. Proseguendo con la metafora fotografica, occorre a questo punto sostituire il grandangolo con un teleobiettivo più o meno potente, a seconda appunto delle domande di ricerca. Infine, al crescere del grado di dettagli richiesto, il ricercatore può passare all’osservazione selettiva. Con essa lo scopo è spesso quello di testare ipotesi o trovare risposte ad interrogativi specifici: per questi motivi l’osservazione selettiva è caratterizzata da una più rigorosa formalizzazione delle procedure osservative. Osservazione selettiva e focalizzata si susseguono in modo ciclico, associandosi spesso alla LE FASI DELL'OSSERVAZIONE (Fonte: Cardano et al., 2011) Schema 3.1 forma più generale e complessiva di osservazione, cioè quella descrittiva (Schema 3.1). Azioni e retroazioni tra le modalità osservative portano Osservazione selettiva Osservazione descrittiva a volte alla formulazione di nuovi oggetti di ricerca (stabiliti solo in teoria prima dell’accesso al campo) o alla loro modifica (si veda a tal proposito Osservazione focalizzata il paragrafo 3.5.1). Rispetto invece al livello di presenza del ricercatore nonostante si sul campo, sia detto e che l’osservazione etnografica dovrebbe sempre essere considerata - per sua natura partecipante, sono stati indicati in letteratura diversi gradi di partecipazione e coinvolgimento al campo. Spradley (1980, pp. 58) ne ha individuati cinque, esemplificati nella seguente tabella: 59 PARTECIPAZIONE E CONVOLGIMENTO (Fonte: Gobo, 2001) Tabella 3.1 Tipi di partecipazione Completa Attiva Moderata Passiva Non partecipazione Grado di coinvolgimento Alto Medio – alto Medio – basso Basso Nessuno Per una descrizione approfondita dei livelli di partecipazione e coinvolgimento dell’osservazione etnografica e per una discussione in merito ai rischi e benefici di ognuna, si rimanda al testo di Gobo (2001). In questa sede basti dire che al minimo grado di partecipazione (osservazione non partecipante), il ricercatore osserva le azioni degli attori lontano dal loro orizzonte visivo (ad esempio, attraverso uno specchio unidirezionale). Il più alto grado di coinvolgimento si realizza invece con la partecipazione completa, nel contesto della quale il ricercatore non solo osserva da vicino il campo (partecipazione moderata), non solo viene coinvolto nell’apprendimento e messa in pratica delle attività quotidiane dei nativi (partecipazione attiva), ma vive con i soggetti che studia e assume un ruolo prestabilito che difficilmente potrà essere modificato nel corso della ricerca. Le osservazioni svolte nel presente studio di caso sono state caratterizzate da un livello di partecipazione moderato, cioè dove il ricercatore assume una posizione intermedia tra l’essere un membro del gruppo che studia e l’esserne totalmente estraneo (Gobo, 2001, pp.82), e dall’essere semi-coperte (soltanto alcuni membri dell’organizzazione erano a conoscenza della mia identità e del mio ruolo). In una fase avanzata della ricerca è stata adottata anche un’ulteriore declinazione della tecnica osservativa: lo Shadowing. I ricercatori che la utilizzano seguono un membro dell’organizzazione (o gruppo, o comunità) in tutte le sue attività, come se fossero la sua ombra, ma senza mai intervenire. Ciò di cui l’osservatore fa esperienza durante l’osservazione etnografica è conservato nei suoi appunti di campo: i protocolli (o note etnografiche). L’attività metodica di redazione dei propri appunti è parte integrante dell’attività osservativa: l’utilizzo delle 60 note permette di cristallizzare l’esperienza dell’osservatore in un documento che è la base per l’analisi e la successiva descrizione-interpretazione del contesto studiato. Nella stesura dei protocolli occorre tenere a mente alcuni principi, o criteri pratici, indicatici ancora una volta da Spradley (1980). Innanzitutto, il ricercatore deve distinguere ed identificare i parlanti: riportare conversazioni o discorsi omettendone l’autore metterà in difficoltà il ricercatore nel momento dell’analisi, specie se le note verranno rilette dopo molto tempo. Se consideriamo il contesto organizzativo, sappiamo - ad esempio - che ogni categoria professionale dispone di un proprio codice: confondere le dichiarazioni degli attori provoca la perdita di insight preziosi su come le diverse categorie articolano gli eventi, si rappresentano le gerarchie e costruiscono il mondo organizzativo. Oltre ad identificare i linguaggi occorre poi – come già accennato - riportare puntualmente ciò che i parlanti dicono (verbatim). Trascrivere il più fedelmente possibile parole e termini nativi può essere utile per ricostruire i significati attribuiti a cose ed azioni (Gobo, 2001). Riformulando i discorsi con il proprio linguaggio, il ricercatore rischia invece di allontanarsi dall’obiettivo di descrivere il contesto dalla prospettiva degli osservati. Infine, nelle note etnografiche si dovrebbero riportare azioni – base, adottando un linguaggio il più possibile concreto, visivo, denso. Andrebbero invece evitati termini mutuati dal codice linguistico delle scienze sociali: essi costituiscono delle generalizzazioni di azioni particolari che, se molto utili nella fase di analisi, possono invece risultare dannose durante la scrittura delle note. Nella redazione dei protocolli etnografici, oltre a cercare di rispettare i principi esposti da Spradley, si è seguito il metodo descritto da Gobo (2001) e da lui preso a prestito da Schatzmann, Strauss (1973) e Corsaro (1985). Gli autori propongono di scomporre il testo ottenuto in quattro sezioni, ciascuna delle quali contiene un diverso tipo di nota etnografica (vedi schema 3.2). Le note osservative, sono descrizioni di eventi ed azioni a cui il ricercatore ha assistito direttamente. Esse non dovrebbero contenere interpretazioni del ricercatore (tipicamente veicolate da aggettivi qualificativi) ma dovrebbero limitarsi a descrivere l’essenzialità fattuale degli eventi. Le note metodologiche consistono invece in interrogativi o riflessioni su come rimediare ad eventuali problemi sorti sul campo;si tratta, in definitiva, di un’istruzione o un 61 Note osservative Note metodologiche •Essenzialità fattuale •Descrivere, non interpretare • Promemtoria •Istruzioni •Riflessioni sul metodo Note teoriche Note emotive •Prime ipotesi di teoria •Reazioni all'oggetto •Emozioni e sensazioni QUATTRO TIPI DI NOTE ENTOGRAFICHE Schema 3.2 promemoria ad uso dell’etnografo, un feedback sulla sua tattica osservativa. Le note teoriche costituiscono il primo tentativo di sviluppare il significato generale di una o più note osservative: segnalano elementi che meritano approfondimento e nascono tipicamente al notare ricorrenze e ripetizioni. Infine, le note personali (o emotive) raccolgono reazioni, sentimenti e sensazioni del ricercatore emerse durante la permanenza sul campo; sono il risultato di una sorta di auto-analisi e saranno cruciali nella fase di analisi dei dati, in quanto aiuteranno il l’etnografo a distinguere i vividi ricordi delle proprie emozioni da ciò che è realmente accaduto. A conclusione di questo affondo metodologico sull’osservazione etnografica, indichiamo alcuni dei motivi per i quali tale tecnica è stata ritenuta particolarmente valida nella presente ricerca. L’osservazione viene descritta in letteratura come una delle tecniche più adatte nello studio della Patient Centred Medicine: Epstein e colleghi (2005) ricordano che studi basati sulle testimonianze retrospettive di pazienti o operatori sanitari potrebbero soffrire di un bias di giudizio. Inoltre, Roter (1989) evidenzia che il bias di desiderabilità sociale generato dalla presenza di un osservatore durante le interazioni tra i professionisti sanitari ed i pazienti è minimo, poiché gli operatori si abituano velocemente alla presenza di quest’ultimo e tendono a esibire nuovamente comportamenti spontanei. 62 3.3.3.2 Le interviste etnografiche Le interviste condotte nel contesto dell’etnografia vengono descritte come interviste discorsive che l’etnografo realizza sul campo nel corso del’indagine (Gobo, 2001). Le interviste servono solitamente ad indagare i significati culturali utilizzati dagli attori e ad approfondire aspetti della cultura osservata non del tutto chiari. Tuttavia, ed è il caso della presente ricerca, le interviste possono anche essere svolte in una fase iniziale dell’indagine individuando i cosiddetti key informants, cioè membri della cultura analizzata particolarmente adatti a fornire informazioni e riflettere con il ricercatore su di essa. A volte l’intervista è quindi anche una strategia per conoscere ed essere accettati dai membri della cultura: è un modo per “rompere il ghiaccio” ed instaurare un clima di fiducia e collaborazione. Negli scopi, quindi, l’intervista etnografica cerca di imitare la tecnica osservativa: ciò che si vuole ottenere sono dati culturalmente pregnanti, caratterizzati da descrizioni dense, concrete. Alcuni autori, nel descrivere il tipo di domande che caratterizzano l’intervista, parlano di grand-tour question: ai membri della cultura osservata si chiede di “portarci per mano” a conoscere il loro mondo attraverso una descrizione complessiva e ad ampio raggio. Un ultimo elemento rilevante, quanto ai contenuti, è che una grande potenzialità dell’intervista nel contesto dell’etnografia è quella di permettere al ricercatore di confrontare i dati osservati con il dichiarato degli attori ascoltati. Quanto alla conduzione, l’intervista etnografica si differenzia in vari aspetti dalle interviste discorsive classiche; innanzitutto, se intervistatore ed intervistato si conoscono già, il clima, la situazione emotiva ed il livello di formalità che caratterizzano la situazione ne saranno almeno in parte influenzati. Inoltre, le interviste non devono necessariamente essere programmate per tempo, ma possono svolgersi estemporaneamente ed all’improvviso nel corso dell’osservazione sul campo (Gobo, 2001). Infine, la durata dell’intervista varia a seconda dell’argomento (più o meno circoscritto) ed il ricercatore non si deve preoccupare di portare a termine il suo obiettivo cognitivo in una sola sessione, visto che eventuali dubbi o ambiguità potranno essere sciolti con interviste successive. 63 3.4 Il disegno della ricerca Lo studio di caso ha previsto un disegno qualitativo esplorativo mono-fase. I processi che hanno avuto luogo nell’ambito di tale unica fase non hanno seguito una logica sequenziale bensì una circolare e riflessiva, come verrà esposto nel paragrafo dedicato al processo della ricerca (3.4.2). 3.4.1 Il campione della ricerca Tanto il campione dei soggetti intervistati quanto il campione delle sessioni osservative sono risultati dall’utilizzo della strategia della scelta ragionata (o campionamento teorico). Nei metodi qualitativi si opta per la scelta ragionata quando, pur non disponendo di informazioni complete sull’universo studiato, i casi vengono selezionati in base al loro stato su una o varie proprietà rilevanti per la domanda di ricerca (Gobo, 2001). Inoltre, il campionamento teorico gode di tre caratteristiche: a) i casi vengono scelti in base alla teoria da sviluppare, b) le dimensioni del campione possono mutare nel corso della ricerca, c) vengono selezionati anche casi devianti (Silverman, 2000, pp. 105). Quanto alle interviste discorsive, il campionamento ha portato all’individuazione di quattro soggetti (key informants), scelti in base alla loro posizione nell’organigramma dell’Unità Operativa. Lo scopo è stato quello di raccogliere la testimonianza di professionisti che, in reparto, svolgessero un ruolo di coordinamento rispetto alla propria categoria professionale. Si è scelto quindi di intervistare la coordinatrice del corpo infermieristico (Caposala), la coordinatrice dei medici (Caporeparto), il coordinatore dei fisioterapisti ed il direttore di Unità Operativa (Primario). In linea con la metodologia etnografica, il campionamento delle osservazioni ha riguardato situazioni e non persone. Il campione è stato costruito durante lo svolgimento stesso della ricerca, in seguito ad una serie di prime osservazioni descrittive “libere” svolte in reparto. Per il campionamento delle sessioni osservative sono stati seguiti due diversi criteri: il campionamento temporale ed il campionamento per eventi. Nel primo caso il ricercatore osserva alcuni oggetti selezionati che si verificano in intervalli di tempo da 64 egli definiti. Nel caso della presente ricerca, tale strategia ha prodotto un campione di osservazioni costituito da cinque sessioni osservative di tre ore ciascuna svolte in luoghi chiave del reparto. Grazie alla selezione per eventi (dove invece il ricercatore sceglie in partenza l’evento di suo interesse e lo osserva in tutta la sua durata)è stato prodotto un campione eterogeneo di osservazioni: sono state svolte quattro sessioni osservative aventi come oggetto i team multi professionali (circa due ore ciascuno) e tre sessioni osservative svolte con la tecnica dello Shadowing, la cui durata è stata delimitata dall’inizio e dalla fine del turno lavorativo dei professionisti osservati. Segue una rappresentazione complessiva del campione della ricerca. IL CAMPIONE DELLA RICERCA Schema 3.3 Interviste Osservazioni Campionamento teorico Campionamento temporale 5 sessioni in luoghi chiave del reparto Campionamento per eventi 4 sessioni di Team multiprofessionali 3 shadowing Key Informants 3 Coordinatori e 1 Direttore Unità Operativa 3.4.2 Il processo della ricerca La ricerca etnografica si compone di una serie di operazioni che si ripetono e si rinnovano con un tipico andamento circolare (Cardano et al., 2001). La domanda cognitiva guida ed orienta il lavoro sul campo ma essa a sua volta viene ri-definita, rimodellata o articolata al suo interno dall’esperienza di partecipazione al contesto. 65 Anche l’analisi e la raccolta dei dati si intrecciano in un circolo di azione e retro-azione: il lavoro sul campo rende disponibili materiali per l’analisi (le note etnografiche) e tale analisi, oltre ad organizzare i dati, orienta nuovamente il lavoro sul campo (questo processo riguarda, in diversa misura, tutti i disegni di ricerca qualitativi). Lo schema interpretativo delineato con l’analisi viene elaborato, attraverso la scrittura, in una cornice teorica. La scrittura, qui più che altrove, da mero strumento di rappresentazione dei dati diviene essa stessa strumento di scoperta, parte inscindibile dei metodi che conducono alla produzione degli asserti etnografici. (Richardson, 1994, pp. 156). IL CICLO DELLA RICERCA ETNOGRAFICA (Fonte: Cardano et al., 2011) Schema 3.4 Scrittura e teorizzazione Domanda cognitiva e obiettivi di ricerca Analisi della documentazione Lavoro sul campo La presente ricerca è stata caratterizzata da un andamento analogo. Nello specifico, dopo una prima fase dedicata alla documentazione teorica in merito al costrutto di Patient Centred Medicine ed, in particolare, alla sua implementazione negli ospedali, è stata stesa una prima ipotesi degli obiettivi di ricerca. Quindi, dopo i primi contatti con i “guardiani” del contesto scelto ed ottenuto il permesso di accesso, è iniziato il lavoro sul campo. In reparto, nelle prime fasi di ricerca è stato raccolto materiale documentale 66 in merito al funzionamento dell’organizzazione, sono state svolte una serie di osservazioni libere negli spazi del reparto e sono state condotte le interviste con i key informants individuati. Una prima analisi dei dati ottenuti ha poi portato ad una parziale modifica degli obiettivi formulati inizialmente ed ad una maggiore focalizzazione della domanda e degli oggetti della ricerca. Quindi, è stato definito un nuovo disegno della ricerca. Fatto ciò, si è tornati sul campo e si è proceduto alla definitiva raccolta dei dati (il cui processo sarà esposto nel prossimo paragrafo). Una volta sottoposti i dati ad analisi, si è infine passati alla stesura dei risultati. Note di processo: Nella prima stesura del progetto, l'indagine etnografica doveva svolgere un ruolo introduttivo ed assai meno centrale di quanto è risultato accadere nella pratica. Erano invece state previste delle interviste semi-strutturate da sottoporre ai pazienti ed ai professionisti del reparto, in cui indagare le loro rappresentazioni, esperienze e pratiche riguardo all'ospedalizzazione del paziente, con riferimento al tema della cultura Patient Centred del reparto. Il motivo dei cambiamenti metodologici apportati in itinere sono molteplici. Prima di tutto, fin dalla prima settimana di osservazioni etnografiche ho potuto apprezzare la ricchezza e la pregnanza dei dati ottenuti tramite l'utilizzo di questa metodologia. Ad ogni sessione osservativa si aprivano infatti nuovi interrogativi e stimoli per la conoscenza, che avrebbero richiesto altre osservazioni per poter essere soddisfatti; procedendo in questo modo è stato possibile raccogliere una grande quantità di dati, sotto forma di thick descriptions, sul tema in questione. Inoltre, considerate le caratteristiche dei pazienti ricoverati nel reparto, la tecnica dell'intervista qualitativa semi-strutturata è risultata scarsamente applicabile. Infatti, nel reparto in questione, i degenti sono generalmente molto anziani e spesso anche affetti da problemi neurologici; con tali soggetti sarebbe stato poco plausibile prevedere un'ora circa di intervista discorsiva – per di più discretamente impegnativa sotto il profilo emotivo. D'altro canto, intercettare una fetta di pazienti in grado di affrontare l'intervista avrebbe voluto dire falsare o, se non altro, “schiacciare” le caratteristiche del reparto ai suoi utenti meno tipici, invece che considerare la totalità delle esperienze che 67 lo connotano. Si è perciò deciso di approfondire le tecniche osservative ed in generale gli strumenti dell’indagine etnografica. Tale decisione ha comportato l'intensificazione delle osservazioni e l'adozione della tecnica dello Shadowing. 3.5 Raccolta ed analisi dei dati 3.5.1 Raccolta dei dati Raccolta di materiale documentale: settembre – ottobre 2011. In un primo momento lo scopo è stato quello di raccogliere dati per la comprensione generale dell’organizzazione ospedaliera (organigramma, sito internet, etc.). Successivamente, è stato raccolto materiale (formale ed informale) inerente al funzionamento dell'Unità Operativa di Medicina Fisica e Riabilitazione. In particolare si è cercato di ottenere materiale utile al fine di comprendere il percorso del paziente nel reparto (dal ricovero alla dimissione), i flussi comunicativi tra le diverse professionalità, le occasioni di scambio/incontro la i diversi professionisti, i compiti e le mansioni di ognuno. L’obiettivo è stato quello di ottenere una descrizione delle pratiche che caratterizzano il reparto (redatta da insiders dell’organizzazione), con un focus specifico sulla relazione tra il paziente ed il personale ospedaliero. Nonostante la raccolta di materiale documentale abbia caratterizzato intensamente soprattutto le fasi iniziali dell’indagine, tale attività è proseguita durante tutto il corso del lavoro sul campo. Interviste: ottobre 2011. Sono state condotte tre interviste esplorative ad alcuni key informants del reparto (primario, coordinatore infermieristico – Caposala, coordinatore medici – Caporeparto e coordinatore fisioterapisti) in merito al loro punto di vista sul percorso del paziente ed alle loro pratiche lavorative in relazione con il paziente. I colloqui (come spesso avviene nelle ricerche etnografiche) sono stati svolti in situazioni informali e non pianificate: uno dei colloqui è stato infatti caratterizzato dalla presenza di due attori organizzativi (coordinatore del terapisti e primario), seppur non in modo continuativo. Le 68 interviste sono state audio-registrate e sbobinate. Osservazione partecipante: ottobre 2010- febbraio 2012. Osservazione libera (descrittiva) negli spazi del reparto (circa una settimana). Cinque sessioni osservative focalizzate in punti chiave del reparto (guardiole infermieristiche, palestra di reparto, corridoi del reparto). Gli oggetti di tali sessioni sono stati: le conversazioni tra professionisti e tra questi ed i pazienti, lo spostamento ed i flussi del personale e dei pazienti, gli artefatti più significativi (che connotano la cultura del reparto e orientano azioni e relazioni attorno al paziente), il layout e gli spazi fisici del reparto. Le interazioni tra pazienti e professionisti sono state l’oggetto principe di tutte le osservazioni svolte. Un’attenzione particolare è stata dedicata al linguaggio utilizzato. Quattro sessioni osservative focalizzate dei team multi professionali (settimanali di controllo ed individuali di ingresso. Vedi par 3.6 “Il contesto del caso”). Gli oggetti di osservazioni sono stati: gli scambi comunicativi tra professionisti, con un’attenzione specifica al linguaggio utilizzato nel parlare dei pazienti, e gli artefatti usati. Shadowing di tre professionalità chiave del reparto: un medico, un fisioterapista ed un infermiere case - manager. Durante tali sessioni gli oggetti dell’osservazione sono stati: le interazioni con i pazienti, i luoghi e gli spazi attraversati, gli scambi con le altre professionalità. Le sessioni osservative sono state accompagnate dalla produzione di note etnografiche, redatte sempre in loco su un taccuino e poi riportate al computer su documenti Word. 3.5.2 Analisi dati Le interviste sono state audio-registrate e successivamente trascritte attraverso MS Word. Il contenuto delle interviste è stato poi sottoposto ad analisi del contenuto. 69 Alcune categorie individuate erano state previste, in quanto sollecitate dalle domande rivolte ai soggetti, mentre altre sono emerse dalle narrazioni spontanee dei soggetti. Come accennato, le osservazioni hanno portato alla produzione di un ricco ed ingente materiale scritto (protocolli etnografici), anch’esso riportato su documenti di MS Word ed organizzato nelle quattro categorie descritte nel paragrafo 3.3.3.1. L’analisi dei testi di alcune osservazioni etnografiche unita all’analisi delle interviste e del materiale documentale ha portato alla produzione una griglia di lettura (processo bottom-up), utilizzata poi nell’analisi di del resto del materiale etnografico. Tale griglia organizza la cultura del reparto su tre grandi livelli: 1) la rappresentazione che i professionisti sanitari hanno dei pazienti 2) la relazione professionisti – paziente 3) il reparto come organizzazione più o meno centrata sul paziente. Il materiale etnografico è quindi stato riletto sulla base della gerarchia individuo – relazione – organizzazione emersa dai dati stessi (processo top-down). Il prodotto finale nell’analisi consiste in un modello interpretativo multilivello della cultura Patient Centred che sarà esposto e discusso nel prossimo capitolo. 3.6 Accesso al campo A differenza di altri tipi di indagine in cui il ricercatore visita l’organizzazione o il contesto scelto per tempi ristretti, la ricerca etnografica necessita di una maggiore disponibilità di accesso al campo. Il requisito della disponibilità restringe sensibilmente il numero di contesti in cui è possibile svolgere una ricerca etnografica (Gobo, 2001). Inoltre, quando l’osservazione è palese (cioè resa nota ai soggetti del campo e non dissimulata) l’ottenimento del permesso di accesso non è che il momento iniziale di un processo - più o meno lungo - in cui le energie ed il tempo del ricercatore saranno dedicati all’ottenimento della fiducia e del consenso dei soggetti osservati, pena l’incontro di forti resistenze alla comprensione. Cassel (1988) parla di due tipi di strategie di accesso al campo: l’accesso al luogo fisico (getting in) e l’accesso sociale (getting on). Durante l’accesso fisico, un ruolo determinante è giocato da due figure 70 tipiche: l’intermediario ed il garante. L’intermediario è colui che crea il contatto tra il ricercatore ed uno o più membri dell’organizzazione scelta. Il garante è invece colui che mette in relazione l’etnografo con l’organizzazione stessa: a differenza dell’informatore, il garante infatti è un insider del gruppo. Nelle organizzazioni formali, il garante si incarna solitamente nel soggetto di grado superiore rispetto al responsabile dell’organizzazione oggetto di studio. L’accesso sociale passa invece spesso attraverso la conoscenza e l’ottenimento della fiducia dei custodi (o gatekeepers) dell’organizzazione. I custodi sono soggetti appartenenti alla cultura osservata e svolgono, tra gli altri, un ruolo di controllo territoriale dell’organizzazione o del gruppo (Gobo, 2001). Nel caso della presente ricerca, l’accesso fisico e sociale al campo è avvenuto grazie ad una figura che ha ricoperto tanto il ruolo di garante quanto quello di custode, nello specifico il direttore di Unità Operativa – U.O. (con cui è presente un legame familiare). Dopo aver condiviso con il direttore gli obiettivi dello studio e dopo aver negoziato le regole relative alla mia permanenza sul campo, mi è stato possibile avere accesso ai luoghi del reparto di Riabilitazione. Il direttore della U.O. mi ha successivamente presentato ad altri custodi dell’organizzazione (Segretaria, Caporeparto – responsabile dei medici, Caposala – responsabile del corpo infermieristico). Anche con queste figure è avvenuta una condivisione degli obiettivi di ricerca ed una negoziazione relativa alla mia presenza sul campo. In particolare, è stato deciso che avrei potuto avere accesso a tutti gli spazi del reparto tranne che alle camere dei pazienti; mi è stato tuttavia permesso di avere accesso alle stanze dei degenti durante le osservazioni condotte attraverso la tecnica dello Shadowing. Alcune delle figure che hanno svolto il ruolo di custode sono diventate, in un secondo momento, anche dei preziosi informatori. Gli informatori (o key-informants) sono membri del gruppo osservato che rivestono funzioni di cruciale importanza per l’etnografo, in quanto permettono di accelerare la comprensione della cultura oggetto di indagine. Con alcuni informatori selezionati sono state svolte, infatti, delle vere e proprie interviste, come è stato descritto nella sezione dedicata alla raccolta dei dati (3.5.2). Gli informatori hanno rivestito un ruolo vitale durante tutta la durata dell’indagine etnografica. Essi mi hanno accompagnato nella scoperta dei luoghi 71 chiave, indicato documenti ed oggetti carichi di significati culturali, permesso di cogliere il senso di azioni e parole; in definitiva, mi hanno svelato nuovi schemi di comprensione. 3.7 Il contesto del caso Al fine di inquadrare il contesto dove è stato svolto il Case Study, vengono di seguito riportati alcuni dati relativi al Policlinico ed i suoi principi organizzativi ed all'Unità Operativa di Medicina Fisica e Riabilitazione. I dati sono stati tratti dal sito internet, dalla documentazione raccolta e dalle interviste esplorative ai key-informants. 3.7.1 La struttura organizzativa del Policlinico Il Policlinico xxx è attualmente è organizzato in 7 Dipartimenti comprendenti 91 Unità Operative (U.O.); è dotato di 1758 posti letto con un organico di 5355 dipendenti compresi i ricercatori e i medici universitari. Vi si effettuano circa 72.000 ricoveri all'anno e 4.000.000 prestazioni specialistiche per esterni. L'Azienda Ospedaliera xxx è un Ospedale città-giardino situato nel cuore della città: si estende per circa 1,8 Km di lunghezza, le U.O. che la compongono sono distribuite in 31 Padiglioni. Una descrizione completa di dipartimenti, uffici di staff e direzioni esula dai fini dello studio di caso. È però importante inquadrare la posizione organizzativa dell'Unità Operativa di Medicina Fisica e Riabilitazione. Le tipologie di strutture organizzative riguardano tanto l'area assistenziale che quella di direzione aziendale. In questa sede vengono approfondite le etichette organizzative conferite alle strutture dell'area assistenziale. Unità Operative: rappresentano, dopo il Dipartimento, le aggregazioni più ampie di risorse umane e tecniche e ricomprendono al loro interno le altre strutture organizzative. “Unità operativa” è il nome che acquisisce in ambito assistenziale la “Struttura complessa”. Esse rappresentano l’articolazione interna del Dipartimento ad 72 Attività Integrata (DAI). Ciascuna Struttura complessa fa parte di un solo DAI e possiede autonomia tecnico-professionale e gestionale-organizzativa, limitatamente alle risorse e ai programmi negoziati ed assegnati in modo specifico. Nell’area della Direzione Aziendale le strutture complesse acquisiscono invece la denominazione di “Direzione”. Ciascuna struttura complessa può afferire ad un solo Dipartimento, ove costituito o ad una delle Direzioni Aziendali (Direzione Generale, Direzione Sanitaria, Direzione Amministrativa); essa opera per le specifiche competenze in autonomia tecnicoprofessionale e gestionale- organizzativa, con responsabilità piena dell’utilizzo delle risorse assegnate e degli obiettivi stabiliti. Dipartimenti: Aggregazione di Unità Operative (o, nell'area aziendale, Direzioni) e di strutture semplici a valenza dipartimentale, con autonomia tecnico-professionale nonché gestionale, nei limiti degli obiettivi e delle risorse attribuiti. In ambito assistenziale, l’Azienda adotta l’organizzazione dipartimentale come modello ordinario di gestione operativa. Vengono costituiti i Dipartimenti ad Attività Integrata (DAI) con il compito di garantire l’esercizio integrato delle attività assistenziali, di didattica e di ricerca. Programma: ulteriore articolazione organizzativa prevista in ambito assistenziale. Esso è un modello organizzativo trasversale che consente, nell'arco di un periodo di tempo definito e in relazione a determinati processi assistenziali o di ricerca di rilievo aziendale, la programmazione e l’organizzazione unitaria di attività e competenze fornite da professionisti afferenti a strutture organizzative, anche diverse. 73 Organigramma del Policlinico 74 3.7.2 L'Unità Operativa di Medicina Fisica e Riabilitazione La U.O. è una struttura sanitaria ad elevata complessità, a direzione ospedaliera, afferente al Dipartimento di medicina interna dell'invecchiamento e malattie nefrologiche. La missione della U.O. di Medicina Fisica e Riabilitazione è quella di offrire programmi riabilitativi a persone con differenti patologie (principalmente neurologiche e ortopediche) in fase acuta e post-acuta, con l'obiettivo di ridurre al minimo la disabilità di cui soffrono i pazienti e permettere loro la massima autonomia possibile9. L'offerta di servizi della U.O. di Medicina Fisica e Riabilitativa comprende: 7. attività di Riabilitazione Intensiva svolte nel reparto di degenza e in Day Hospital; 8. attività riabilitative a supporto alle degenze di riabilitazione estensiva post acuzie (PARE); 9. percorsi diagnostico - terapeutico aziendali quali ad esempio il percorso stroke (ictus), il percorso fratturato di femore, i percorsi della patologia neonatale e pediatrica, garantendo la pronta presa in carico di tutti i soggetti con disabilità; 10. consulenze fisiatriche e presa in carico riabilitativa nelle U.O. del Policlinico10. Come si legge, all'U.O. afferiscono tanto il day-hospital quanto il reparto di degenza. Lo studio di caso sarà limitato al solo reparto di degenza. Il reparto di riabilitazione intensiva si occupa in modo particolare di individui affetti da disabilità complesse correlate prevalentemente a ictus, patologie degenerative del sistema nervoso, esiti di politraumatismi gravi, esiti di trapianti, patologie ortopediche patologie reumatologiche maggiori, esiti di amputazioni. Questo obiettivo è raggiunto attraverso la formulazione di un progetto riabilitativo personalizzato. L'organizzazione del reparto prevede un accesso preferenziale riservato ai pazienti interni, cioè precedentemente ricoverati in altri reparti del Policlinico, che necessitano di un trattamento riabilitativo intensivo; esistono, in particolare, due percorsi strutturati di accesso: il percorso Stroke ed il percorso dell'ortogeriatria (frattura di 9 Descrizione tratta da sito internet del Policlinico. Vedi nota n. 15, p. 92. 10 75 femore, protesi d'anca, etc.). I pazienti che necessitano di un trattamento fisioterapico ricevono una consulenza da parte dei medici fisiatri quando sono ancora ricoverati nel reparto di provenienza. In base all'urgenza ed alla disponibilità di posti letto, i pazienti vengono poi accolti nel reparto di Medicina Fisica e Riabilitazione. Nonostante l'accesso preferenziale riservato ai pazienti interni, è comunque presente una percentuale di pazienti provenienti da altre strutture della regione o da fuori regione. La degenza media dei pazienti è di circa tre settimane. Il reparto consta di cinquantadue posti letto. Data le necessità di organizzare un numero consistente di operatori sanitari e pazienti, esistono due guardiole mediche e due guardiole infermieristiche. Il reparto è quindi organizzato in quattro settori, ossia gruppi di posti letto, localizzati fisicamente in ciascuno dei due corridoi del reparto. All'ala A (il primo corridoio entrando nel reparto) afferiscono il primo ed il secondo settore (dodici posti letto ciascuno), mentre all'ala B il terzo e quarto settore (quattordici posti letto ciascuno). Ogni ala è presidiata da una guardiola medica (due medici strutturati) e da una guardiola infermieristica (dodici infermieri e otto OSS operatori socio-sanitari). I medici si occupano sempre della stessa ala, mentre gli infermieri e gli OSS vedono tutti i pazienti in quanto ruotano periodicamente su tutti i settori. Come si può dedurre, l'organico del reparto è composto da diverse categorie di professionisti: a) Medici Fisiatri 1 medico - Direttore di Unità Operativa (primario) 1 medico - Caporeparto 4 medici responsabili di reparto (2 per ala) 3 medici (normalmente si occupano del Day Hospital, cooperano con la gestione del reparto attraverso le guardie pomeridiane e del sabato) Circa 10 specializzandi (5 per ala) b) Corpo infermieristico 1 Caposala – coordinatore del corpo infermieristico 25 infermieri di cui 4 infermieri Case Manager 76 16 OSS (Operatori Socio Sanitari) c) Terapisti 1 Coordinatore dei terapisti 21 fisioterapisti 5 logopedisti ORGANIZZAZIONE PER SETTORI Tabella 3.2 Ala A 1° settore (12 pazienti) Ala B 2° settore (12 pazienti) 2 medici + specializzandi 12 infermieri (2 case manager) 8 OSS (+ OSS in formazione) 3° settore (14 pazienti) 4° settore (14 pazienti) 2 medici + specializzandi 12 infermieri (2 case manager) 8 OSS (+ OSS in formazione) Tutte le camere dei pazienti contengono quattro letti, tranne quattro camere da due letti. Ogni camera è dotata di un bagno attrezzato. Ogni lunedì (ala A) e mercoledì (ala B) mattina il primario effettua le visite di tutti i pazienti. 3.7.3 Sintesi del percorso del paziente11 Una volta ricoverato nel reparto di Medicina Fisica e Riabilitazione12, viene accompagnato alla sua camera da parte di un infermiere e, lo stesso giorno, viene visitato dal medico fisiatra, il quale stende il progetto riabilitativo personalizzato. Il secondo giorno il paziente riceve un'accoglienza al letto da parte del fisioterapista e dell'infermiere Case Manager di riferimento. L’infermiere Case Manager condivide con gli infermieri standard le principali attività e pratiche lavorative. Tuttavia egli svolge un ruolo molto importante durante la presa in carico del paziente: è presente tutte le mattine e si occupa del caso del paziente, monitorandone il percorso riabilitativo. Gli 11 La descrizione del percorso del paziente è stata tratta sia da documenti formali prodotti dal Reparto (vedi Cap. 4) sia dalle osservazioni e dalle interviste svolte durante il lavoro sul campo. 12 Da questo momento, per comodità, ci si riferirà al Reparto di Medicina Fisica e Riabilitazione come al Reparto di Riabilitazione. 77 infermieri Case Manager si occupano infatti esclusivamente dei 12 pazienti loro assegnati, mentre gli altri infermieri turnano su tutti i pazienti. Durante l’accoglienza, il paziente conosce i professionisti con cui interagirà maggiormente durante la degenza; gli operatori, a loro volta, prendono atto della capacità di muoversi del paziente e del suo livello di autonomia. Il progetto riabilitativo steso dal medico viene condiviso con gli altri professionisti in un team iniziale che avviene dopo circa 3-5 dal ricovero del paziente. Settimanalmente, poi, i professionisti si riuniscono in un altro team per monitorare la situazione di tutti i pazienti di un'ala. Durante la degenza, il paziente trascorre tra una e tre ore al giorno in palestra, dove effettua il trattamento fisioterapico accompagnato dal suo fisioterapista di riferimento, e/o il trattamento logopedico, negli appositi locali adibiti a tale funzione. Nel resto della sua giornata, il paziente si trova all'interno delle strutture del reparto (camera, soggiorno, corridoi) o all’esterno del reparto (per esempio, nel bar dell’ospedale). Il percorso del paziente sarà illustrato in modo più approfondito nella terza sezione dell’analisi dei dati (paragrafo 4.4); tuttavia è stato ritenuto utile introdurlo in questa sede, al fine di poter meglio comprendere alcuni riferimenti e concetti esposti nel prossimo capitolo. 78 Figura 3.1 PLANIMETRIA DI REPARTO 79 CAPITOLO 4 Risultati della ricerca: i tre livelli della Patient Centred Culture “Non più ottico ma spacciatore di lenti | per improvvisare occhi contenti, | perché le pupille abituate a copiare | inventino i mondi sui quali guardare.” Fabrizio De Andrè13 4.1 Alla ricerca di un modello interpretativo In questo ultimo capitolo della tesi verranno presentati i risultati dello studio etnografico condotto presso il reparto di Riabilitazione. Come si è visto nel paragrafo inerente alla metodologia della ricerca, i processi di raccolta ed analisi dei dati non sono stati svolti seguendo una logica sequenziale. L’analisi del materiale etnografico ha anzi accompagnato tutte le fasi del lavoro sul campo; le prime elaborazioni hanno permesso di focalizzare e ricentrare gli obiettivi del fieldwork, avvicinando così, progressivamente, l’oggetto di ricerca scelto. Data la grande quantità e l’eterogeneità del materiale etnografico raccolto, è sorta ben presto la necessità di individuare un principio organizzatore alla luce del quale rileggere e presentare i dati in una forma comprensibile ed ordinata, ma che, al contempo, consentisse di salvaguardarne la ricchezza originaria. Soprattutto in vista di quest’ultimo obiettivo si è deciso di escludere l’opzione tassonomica (uno dei possibili outcome della ricerca etnografica) come forma di presentazione dei dati. Le tassonomie hanno infatti il vantaggio di presentare i dati in modo strutturato ed organizzato, raggruppando classi di oggetti sulla base di caratteristiche comuni e spiegandone le relazioni reciproche. Tuttavia – come ricordano Richard e Morse (2009, p. 75) – le tassonomie non descrivono processi. Nel caso della presente ricerca, come si vedrà in seguito, l’analisi è invece fortemente centrata sulla descrizione di transazioni, negoziazioni ed interazioni, motivo per il quale 13 Fabrizio De Andrè (1979), “Un ottico”. 80 il principio organizzatore adottato lascia ampio spazio alla narrazione di processualità. Le prime letture del materiale completo hanno portato all’individuazione di alcuni nuclei concettuali particolarmente pregnanti e ricorrenti. Tali “nodi” di significato, nello specifico, sono parsi degli utili orientatori per l’individuazione delle forme (più o meno esplicite) che la Patient Centredness assume del contesto analizzato. In definitiva, dal tentativo di far dialogare i dati osservati con alcune dimensioni rilevanti della teoria della Medicina Centrata sul Paziente, è emersa una prima griglia di lettura alla luce della quale i dati sono stati organizzati. Risultato finale delle operazioni qui sinteticamente descritte è stata la costruzione di un modello interpretativo multilivello della cultura Patient Centred nel reparto Riabilitazione, che sarà proposto e descritto nel dettaglio nei paragrafi seguenti. La tabella 4.1 ne costituisce una rappresentazione sintetica. IL MODELLO MULTILIVELLO DELLA CULTURA PATIENT CENTRED Tabella 4.1 Le rappresentazioni individuali: il paziente nella mente dei professionisti CULTURA PATIENT CENTRED Medici: Il corpo sofferente Fisioterapisti: Il corpo incerto Corpo Infermieri: Il corpo dipendente Individuo Medici e Fisioterapisti: Le emozioni considerate Infermieri: Le emozioni subìte Soggetto sociale Medici e Fisioterapisti: Storia di vita e complessità sociale Infermieri: Il paziente come degente 81 Definizioni e negoziazioni di proprietà La relazione professionisti – paziente Il possesso dello spazio La disposizione del tempo L’accesso al corpo L’uso del linguaggio I documenti Livello di formalizazione L’organizzazione Gli artefatti Spazi e Oggetti Dispositivi microorganizzativi Team e lavoro di Equipe La comunicazione inter- e intra-professionale La rete attorno al paziente Distanza dal paziente e permeabilità dei confini L’utilizzo del modello qui proposto consente di leggere la cultura Patient Centred del reparto su tre “livelli di diffusione”: le rappresentazioni individuali, la relazione e l’organizzazione. Il materiale etnografico ha fornito preziosi insight riguardo alle modalità condivise dagli operatori sanitari di rappresentarsi il paziente e di relazionarsi con esso. Tali dimensioni sono state cruciali nell’informare il terzo livello dell’analisi, riguardante le modalità organizzative con cui le pratiche Patient Centred vengono progettate ed implementate. Già da queste poche battute è possibile intuire come i tre livelli previsti nel modello non costituiscano dei silos di significati tra loro indipendenti, ma siano anzi profondamente interconnessi: ogni livello superiore dipende da – ed al contempo ri-orienta – quello inferiore. 82 Infatti, è facile ipotizzare che i modi in cui i professionisti si rappresentano i pazienti abbiano rilevanti ricadute sulle caratteristiche delle loro reciproche relazioni; viceversa, le ripetute esperienze di interazione ri-orientano incessantemente l’idea che gli operatori sanitari hanno dei degenti, in una ricorsività di cui pare impossibile individuare il punto d’origine. La sedimentazione di esperienze relazionali tra pazienti e professionisti porta poi, nel lungo periodo, a strutturare e formalizzare le pratiche lavorative che informano il funzionamento globale dell’organizzazione; viceversa l’organizzazione, nel breve termine, impone vincoli ed offre opportunità allo sviluppo della relazione tra operatori e pazienti attraverso la regolazione dei tempi, l’adozione di policies, l’imposizione di norme e la strutturazione di procedure (schema 4.1). INTERAZIONI TRA LIVELLI DELLA PATIENT CENTRED CULTURE Schema 4.1 LE RAPPRESENTAZIONI INDIVIDUALI influenzano comportanti e creano stili interattivi che (ri)costruiscono... LE RELAZIONI PROFESSIONISTI - PAZIENTI a lungo termine influenzano le partiche che caratterizzano... L'ORGANIZZAZIONE LE RAPPRESENTAZIONI INDIVIDUALI accumulandosi, costruiscono e riorientano LE RELAZIONI PROFESSIONISTI - PAZIENTI impone vincoli e costrusce possibilità per.. L'ORGANIZZAZIONE Dalla tabella 4.1 si può notare, infine, che il grado di articolazione delle categorie individuate è diverso a seconda dei livelli analizzati: mentre nella schematizzazione del livello rappresentazionale individuale è stato possibile giungere ad un’articolazione dettagliata, ciò non è stato altrettanto fattibile per i livelli relazionale ed organizzativo. 83 Questi ultimi sono infatti il risultato di continue transazioni e co-costruzioni tra pazienti e professionisti, la cui forzata categorizzazione provocherebbe uno “schiacciamento” della realtà descritta, risultato incompatibile – e, soprattutto, inutile – ai fini della presente analisi. I prossimi paragrafi sono dedicati alla descrizione dettagliata del modello multilivello proposto. 4.2 Le rappresentazioni individuali IL PAZIENTE NELLA MENTE DEI PROFESSIONISTI Che cosa pensano i professionisti sanitari dei pazienti? Che idea ne hanno? È questo il primo livello dello schema presentato, ed è in questa sede che proveremo a rispondere agli interrogativi appena formulati. Come è stato accennato nell’introduzione, le rappresentazioni individuali dei professionisti sono profondamente interconnesse con il livello successivo dello schema proposto, quello dell’interazione operatori - paziente. Tale interconnessione è circolare e ricorsiva: da un lato, è plausibile ipotizzare che gli schemi mentali siano il risultato delle esperienze di interazione con i pazienti accumulate nel tempo dai professionisti; dall’altro, viceversa, il modo di pensare al paziente potrebbe influenzare il comportamento e lo stile di interazione con i pazienti incontrati giorno per giorno. Per tenere a mente il quadro generale, ricordiamo inoltre che le rappresentazioni individuali e le relazioni interpersonali forniscono indizi sulla cultura organizzativa in cui esse prendono forma; tale cultura, in quanto insieme di assunti, valori e regole tacite, si costruisce anche grazie al sedimentarsi quotidiano di cognizioni, interazioni e pratiche dei suoi membri. I risultati di seguito esposti derivano principalmente dall’analisi dei testi delle interviste etnografiche e dai dati ottenuti attraverso le osservazioni dei team multi professionali. Sappiamo infatti che il livello delle rappresentazioni individuali è intercettabile soprattutto indagando il dichiarato: ascoltare i professionisti parlare dei loro pazienti, analizzarne il linguaggio e le modalità espressive, hanno costituito le principali vie 84 d’accesso al loro universo cognitivo ed emotivo14. Nel presente paragrafo, le rappresentazioni del paziente che caratterizzano le tre principali categorie professionali del reparto (medici, infermieri e fisioterapisti) verranno analizzate separatamente. Alcune caratteristiche dei pazienti “tipici” del reparto di Riabilitazione (l’età mediamente anziana, il quadro clinico multiproblematico, la presenza frequente di problemi neurologici) portano tuttavia gli operatori a condividere una serie di aspettative nei loro confronti. In particolare, tutte le categorie professionali sembrano condividere la convinzione che il paziente, a volte, non è in grado di partecipare al processo della cura. Del parere del paziente in merito alla valutazione della propria autonomia fisica non ci si può sempre fidare, pena il mettere a repentaglio la sua stessa incolumità. “Esistono tante piccole cose che ti fanno capire se di quel paziente ci si può fidare quando ti dice - Riesco a fare per conto mio- o se è meglio dirgli – No, veniamo noi a mobilizzarla-. Se il paziente non è affidabile e gli si concede autonomia senza le opportune sicurezze si mette in pericolo il paziente” (Da intervista al Coordinatore dei fisioterapisti) Inoltre, i professionisti sanno che il paziente potrebbe mentire: a volte a causa dei problemi neurologici, a volte a causa dell’inconsapevolezza o dell’incapacità di valutare la propria autonomia. Mediamente si tratta quindi di bugie involontarie. … La specializzanda chiede alla paziente: “Ma davvero te l’hanno già data (la terapia)? Non dici le bugie? Guarda che lo scopro eh…”. La paziente conferma di averla già ricevuta. La specializzanda esce dalla camera della paziente e appena fuori dalla camera incontra un’infermiera con il carrello dei medicinali. La specializzanda dice all’infermiera che la paziente con cui ha appena parlato preferisce la terapia come le è stata sottoposta stamattina, cioè con le compresse spezzate invece che sbriciolate. L’infermiera risponde che lei non ha ancora dato nessuna terapia alla paziente! La 14 I nomi propri riportati nelle verbalizzazioni sono stati inventati e sostituiti agli originali durante la redazione dell’analisi dei dati. 85 specializzanda dice: “Allora ha mentito! (sorride) Le ho appena chiesto se l’avesse presa e mi ha detto di sì.. pensa te!”. Nota emotiva: La specializzanda non sembra essere infastidita o eccessivamente sorpresa.. guarda anche me e sorride. (Da osservazione nei corridoi di reparto) Alcuni professionisti sembrano estendere questa rappresentazione di inaffidabilità anche ai parenti/care-giver: Fisioterapista: “Per me conviene dire ai familiari che la signora starà dentro altre 3-4 settimane, anche se penso che poi servirà qualcosa di più (…) Perchè se noi diciamo che la teniamo 2-3 mesi loro iniziano a muoversi tra 4.. La mia paura è quella.” (Da osservazione di un team multi-professionale) Un’ipotesi di modello: il paziente come un iceberg Dall’analisi dei dati relativi alle diverse rappresentazioni di paziente che caratterizzano le tre principali categorie professionali (medici, infermieri, fisioterapisti), è emerso un modello ad “iceberg”: il paziente sembra essere immaginato su diversi livelli di complessità, più o meno visibili e più o meno presenti nell’immaginario dei professionisti. Tali livelli sono: Il corpo del paziente: è lo strato più superficiale, la classica punta dell’iceberg. I diversi operatori differiscono nelle modalità di rappresentarsi il corpo del paziente (malattia, grado di dipendenza e di disabilità) e nella centralità che esso assume rispetto alla rappresentazione del paziente in generale. Il paziente come individuo: questo livello comprende tutto ciò che sta “dietro e oltre” il corpo del paziente; si tratta cioè della sfera emozionale, i bisogni immaginati, le capacità e l’autorevolezza riconosciute. Il paziente come soggetto sociale: tale ultimo livello è il più “sommerso” ed il meno visibile tra le corsie del reparto. Gli operatori differiscono nel modo di 86 rappresentarsi l’esistenza nel tempo (prima e dopo il ricovero) del paziente ed il suo essere parte di un contesto sociale complesso. Un’ipotesi alla base del modello è che se un operatore è in grado di rappresentarsi il livello maggiormente “sommerso” (gli aspetti meno visibili nel contesto del reparto), considererà, molto probabilmente, anche il livello più esposto e superficiale, ma non necessariamente viceversa. Un punto d’attenzione meritano anche le interazioni tra livelli, soltanto a volte presenti nelle rappresentazioni dei professionisti. Lo schema 4.2 costituisce una rappresentazione grafica del modello proposto. SCHEMA 4.2 IL PAZIENTE NELLA MENTE DEGLI OPERATORI 87 4.2.1 Il medico IL CORPO Nelle rappresentazioni dei medici, è costante l’attenzione all’impatto che il dolore fisico può avere sull’esperienza di degenza del paziente. Nella gamma delle loro possibilità e compatibilmente con la quantità di terapie previste per il paziente, la tendenza dei medici è quella di eliminarlo, o per lo meno di cercare di ridurlo. Il dolore, infatti, ha ripercussioni tanto sul benessere emotivo del paziente, quanto sulla possibilità di capitalizzare gli effetti delle cure riabilitative. In altre parole, la percezione di dolore fisico può rallentare il lavoro fisioterapico ed inibirne i risultati benefici sul paziente. Il medico dice alla paziente “Le faccio un buchino nel piede signora, che questo dolore lo dobbiamo togliere” (Da osservazione - Shadowing di un medico) La malattia del paziente, in generale, ha un ruolo fondamentale nelle rappresentazioni dei medici. Nel seguente scambio un medico utilizza il nome di una malattia per parlare di un paziente. Il medico spiega agli altri operatori chi è il paziente citato. Il medico dice: “è la Klepsiella nuova, è andato di là in isolamento..” (La Klepsiella è un batterio che gira per il reparto, i pazienti che hanno contratto la malattia vengono isolati dagli altri in attesa che guariscano). (Da osservazione di un team multi-professionale) L’INDIVIDUO La sfera emotiva del paziente è presente nella rappresentazione dei medici. In particolare, i medici ritengono che essa, proprio come il dolore fisico, possa avere delle ripercussioni importanti sull’efficacia della terapia prevista. Da questo punto di vista l’esperienza dei medici è forse caratterizzata da una minore partecipazione personale alla quotidianità ed al vissuto dei pazienti rispetto a quella degli infermieri; sembra 88 esserci, però, più consapevolezza dell’impatto di questi fattori sul successo della cura (è quindi prevista un’ interazione tra i primi due livelli del modello). L’infermiera dice alla dott.sa che la paziente non vuole la supposta di glicerina. La dott.sa spiega all’infermiera che questa paziente è molto arrabbiata. Il medico dice: (la paziente)“va presa un po’ con le pinze, con calma.. perché lei rifiuta tutto, le cure, tutto. Si sente sola, si sente un po’ abbandonata.” (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) La dottoressa prende la parola: “c'è un dolore che è un po' da rigidità e un po' da artrosi, ma secondo me è anche molto psicologico.. perchè è depressissima lei..” (Da osservazione di un team multi-professionale) L’ospedale stesso, sembrano sostenere i medici, può essere responsabile della compromissione del miglioramento della salute dei pazienti: esistono infatti pazienti che andrebbero dimessi il prima possibile perché l’esperienza della degenza tende a deprimerli e pregiudica così anche l’effetto benefico delle terapie. Il medico, nello spiegarmi la situazione della paziente, dice che la permanenza in ospedale ha aggravato le condizioni della vista della paziente, l’ha anche fatta diventare un po’ afasica. Dice: “lei non ne può più di stare ricoverata”. (Da intervista ad un medico) Altri pazienti invece si sentono protetti dall’ambiente del reparto. Medico: “alcuni pazienti hanno bisogno più di altri di essere dimessi il più in fretta possibile, perché vivono male l’ospedale... altri pazienti invece si sentono protetti , sanno che suonano e qualcuno arriva e quindi preferiscono stare qui” (Da osservazione – Shadowing di un medico) 89 È rilevante quindi che, nell’immaginario dei medici, i pazienti non siano una categoria compatta che presenta bisogni stereotipati. A tal proposito, nel dichiarato, i medici si rappresentano il bisogno di socializzazione dei pazienti: condividere l’esperienza della degenza e le problematiche ad essa connesse avrebbe, sostiene un medico, un effetto benefico per pazienti. Tuttavia il reparto mancherebbe di spazi di socializzazione dedicati al paziente. Il medico dice che secondo lui non andrebbe lasciata alla discrezione dei pazienti la scelta di socializzare o meno in spazi dedicati, ma si dovrebbe attivamente incentivare, per esempio creando delle sale da pranzo, dove i pazienti possano mangiare insieme e condividere i loro problemi. Il salotto, dice, non è adeguato perché non ci stanno molte persone. Alcuni pazienti andavano lì per mangiare insieme ma capita raramente, perché la maggior parte del tempo i pazienti stanno nelle loro camere. (Da intervista ad un medico) Tale aspetto fa pensare anche che i medici pensino al paziente come un soggetto inserito in una rete, caratterizzato da bisogni sociali e non come individuo isolato; tale ipotesi sarà approfondita nella spiegazione del terzo livello del modello “iceberg”. Anche il benessere dei pazienti nella loro quotidianità (disponibilità di spazio, riparo da rumori molesti, comfort delle camere) è un punto di attenzione per i medici. In guardiola, il medico dice ad una specializzanda: “Quando sono stato nella stanza di una paziente, l’ho vista mangiare sul letto tutta ripiegata perché sul tavolo della camera non c’era posto… assurdo.” (Da Shadowing di un medico) Un ultimo aspetto merita di essere menzionato. Durante la sessione osservativa condotta attraverso la tecnica dello Shadowing, il medico da me seguito non ha negoziato nessuna regola rispetto alle mie attività; i pazienti non sono stati, pertanto, avvisati del mio ruolo in reparto né del motivo della mia presenza, nonostante io abbia 90 avuto accesso alle loro camere. Tale elemento fornisce un piccolo indizio rispetto alla (scarsa) autorevolezza riconosciuta ai pazienti ed al riconoscimento del loro diritto di accesso alle informazioni. IL SOGGETTO SOCIALE I medici iniziano a rappresentarsi il paziente già da prima del suo ingresso in reparto. Essi infatti conoscono alcuni pazienti attraverso le consulenze esterne15. Spesso quindi il paziente inizia ad esistere nella mente dei medici già da prima del ricovero, in un momento precedente rispetto agli altri operatori. Un altro elemento ricorrente è l’attenzione dedicata dai medici alla situazione sociale del paziente: i care-giver presenti, il tipo di assistenza familiare che gli è (e gli sarà) garantita, il tipo di barriere architettoniche della sua abitazione. Spesso questo aspetto viene sondato già dal primo colloquio con il paziente. Tale attenzione costituisce un indizio rilevante rispetto ad una dimensione chiave della medicina centrata sul paziente: la considerazione del paziente come persona nella sua interezza. Infine, tale elemento implica la capacità dei medici di proiettarsi nel futuro del paziente, dopo le dimissioni. Medico a paziente appena ricoverata: “A casa c’è qualcuno che la aspetta?” La paziente annuisce. Medico: “Ma lei a casa ha delle scale da fare?” la paziente dice di no. Medico: “benissimo. E si muove bene, ha spazio?” la paziente risponde: “sono 110 metri..”. Il medico: “ah direi che si muove bene allora”. (Da osservazione – Shadowing di un medico) Medico si rivolge alla fisioterapista: “in verità il suo problema poi è soprattutto sociale perchè mi dicevano che lei (la paziente) manteneva tutta la famiglia... che disastro! Mi ha fatto anche pena perchè la figlia è all'ultimo anno di scienze motorie e va bè, ma il figlio ha appena iniziato l'università, era anche portato ma ha dovuto lasciare perché non ce la fanno..” 15 Come si è detto nel capitolo 3, i pazienti ricoverati nel reparto di Riabilitazione sono spesso pazienti provenienti da altri reparti del Policlinico. Prima del trasferimento in Riabilitazione, tali degenti vengono sottoposti a visite mediche preliminari effettuate dai medici fisiatri del reparto di Riabilitazione. Tali visite sono definite “consulenze esterne”. 91 (Da osservazione di un team multi-professionale) In definitiva, il paziente esiste nella mente dei medici sia prima del ricovero che dopo la dimissione. La loro rappresentazione del paziente è tridimensionale: il paziente è una storia di vita che si inserisce nella complessità sociale. 4.2.2 L’infermiere Mentre sta sistemando i turni del giorno dopo, la Caposala poi mi guarda e dice “forse possiamo chiedere a Elisa (io) di fare la mattina di domani!” l’infermiera B. interviene: “sì, tanto ormai è esperta, ha conosciuto tutti i pazienti!” (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Apriamo questa sessione con lo scambio citato perché esso chiama in causa una questione fondamentale: essere “esperti” coincide, nella dichiarazione dell’infermiera, con l’aver conosciuto tutti i pazienti. In effetti, i pazienti sono al centro di quasi tutte le pratiche lavorative quotidiane degli infermieri. Si noti, a questo proposito, che gli infermieri a volte si riferiscono ai pazienti utilizzano il nome di pratiche e routine organizzative (si ricordi che il medico utilizzava invece il nome della malattia del paziente). L’infermiera vede un’OSS dirigersi con un paziente in carrozzina verso la guardiola. Dice: “Questo potrebbe essere il mio ingresso” (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Vediamo ora che “forma” assume il paziente nella mente degli infermieri utilizzando il modello di analisi proposto. IL CORPO Per gli infermieri, il corpo del paziente è il fulcro della quotidianità delle loro pratiche 92 lavorative. Nei discorsi tra professionisti emerge con forza la rappresentazione del paziente come, prima di tutto, un corpo dipendente: un corpo da muovere, lavare, spostare, di cui prendersi cura, da accompagnare nel percorso di guarigione. È comune che il paziente non sia autonomo nemmeno nell’espletare i suoi bisogni primari: nutrizione ed evacuazioni sono aspetti di cui gli infermieri si devono spesso fare carico. L’infermiere ha quindi una rappresentazione del paziente estremamente incentrata sui bisogni del corpo. Anche nei team multi-professionali, il ruolo degli infermieri è quello di comunicare e condividere il livello di autonomia sfinteriale dei pazienti, la loro capacità di nutrirsi autonomamente, di praticare l’igiene quotidiana, la regolazione del ritmo sonno-veglia. Si vede quindi come l’infermiere partecipi di aspetti collegati con le funzioni vitali di base del paziente. L’infermiera tira la tenda intorno al letto di una paziente e inizia a cambiarla, le dice “Ne ha fatta tanta signora! Erano tanti giorni eh” (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) L’infermiera, parlando con un medico, dice: “noi stamattina siamo riusciti a farla fare a tutti, anche a quello che erano al 3° o 4° giorno.. ma la (nome paziente) zero, si rifiuta” (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Le infermiere a volte sembrano però sottovalutare la pregnanza e le conseguenze del dolore fisico provato dai pazienti. È possibile che esse si immaginino i pazienti come un po’ “capricciosi”; questo segna una netta differenza rispetto alle rappresentazioni dei medici. L’idea che gli infermieri hanno dei degenti è, in questo senso, leggermente infantilizzata. Gli infermieri non sembrano rappresentarsi le ripercussioni che il dolore e la sofferenza fisica hanno sul benessere generale del paziente: parrebbe mancare, nella mente degli infermieri, un collegamento tra i primi due livelli indicati del modello “iceberg” (si veda lo schema 4.2). L’infermiere D. comunica all’ infermiera B. che c’è una paziente che lamenta male ai 93 piedi e non vuole andare in palestra. L’infermiera B. dice che secondo lei la paziente ci deve andare, quindi decide di avvisare la dott.sa M. La dottoressa spiega il perché la paziente potrebbe avere male ai piedi. La dottoressa dice “Potrebbe essere un problema reale, non è lei che si lamenta…”. L’infermiere D risponde: “non lo mettiamo in dubbio, però..”. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Un’infermiera sta parlando di un paziente che non parla italiano:“sì, c'ha un dolore ma noi che ne sappiamo? Non lo capiamo! Poi, non mangia da seduto..”.Interviene una specializzanda: “È perchè non riesce..” Caporeparto: “..Certo, per forza non riesce se gli fa male..” (Da osservazione di un team-multiprofessionale) Nota emotiva ... il vissuto portato dagli infermieri mi sembra essere (rispetto a quello dei medici) più carico emotivamente e più umanizzato, pregno di una conoscenza personale, quasi intima… ma meno attento all'aspetto della sofferenza fisica, a cui invece i medici appaiono molto sensibili. (Da osservazione di un team-multiprofessionale) L’INDIVIDUO Come è possibile intuire, gli infermieri partecipano concretamente all’esperienza di degenza del paziente e vivono in prima persona gli effetti dei loro miglioramenti/peggioramenti. Gli infermieri sono esposti ad emozioni molto intense; anche per questo, forse, hanno imparato a difendersi… Un’infermiera dice all’infermiera B “Se vedi che faccia ha adesso la (nome paziente)… anche se sei una pietra ti prende male… mi dispiace così tanto… non c’è proprio niente da fare. Lei non ne vuole più sapere.. a me non prende quasi mai male perché io sono un po’ stronza.. ma questa volta.. mi dispiace proprio”. Mentre parla è quasi commossa. 94 (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) La partecipazione degli infermieri all’esperienza personale del paziente è quasi inevitabile, data la quotidianità e la frequenza delle loro interazioni; in questo senso tale partecipazione è involontaria, forse subìta, comunque parte e conseguenza delle pratiche lavorative. A differenza dei medici, il cui grado di partecipazione all’esperienza del paziente è meno intenso, gli infermieri non sembrano però rappresentarsi il tipo di impatto che le emozioni hanno sulla malattia o sugli effetti della cura (si veda quanto detto sulla mancanza di un collegamento immaginato tra i primi due livelli del modello). Infine, anche in questo caso non viene riconosciuta al paziente un’autorevolezza tale da rendere necessaria la comunicazione del mio ruolo: Note teoriche L’infermiera non fa accenno alla possibilità di avvisare i pazienti e/o i parenti della mia presenza come osservatrice. Inoltre non mi chiede come si svolgerà la mia osservazione, cosa dovrò fare nello specifico, non vengono negoziate delle “regole”.. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) IL SOGGETTO SOCIALE L’orizzonte temporale del paziente è, nella mente degli infermieri, praticamente assente. La loro rappresentazione dei pazienti sembra essere piuttosto schiacciata sul presente: gli infermieri sono gli addetti alla cura quotidiana del paziente durante la degenza. La situazione sociale del paziente non è quasi mai discussa né menzionata dagli infermieri, né durante i team né durante il resto delle loro pratiche lavorative. In definitiva, il paziente nella mente degli infermieri sembrerebbe coincidere con il degente: i confini della sua esistenza sono delimitati da ricovero e dimissione. La fisioterapista dice, parlando della situazione post-dimissione di una paziente: “ io penso che lei a casa abbia preso qualche precauzione..”, chiede conferma agli altri 95 operatori, l’infermiera interviene: “io di questa cosa con lei non ne ho mai parlato..” (Da osservazione di un team multi-professionale) 4.2.3 Il fisioterapista IL CORPO Il corpo del paziente è al centro anche della rappresentazione dei fisioterapisti. Particolarmente rilevante è la dimensione dell’autonomia del paziente, in quanto in essa consiste l’obiettivo ultimo della fisioterapia. L’autonomia chiama in causa anche il tema dell’auto-percezione fisica del paziente: perché i miglioramenti ottenuti in palestra siano trasferiti nella quotidianità dei pazienti, il paziente deve esserne consapevole e sentirsi sufficientemente fiducioso. “… il paziente deve avere un recupero motorio tale da consentire di fare questi trasferimenti il più possibile in autonomia perchè altrimenti sarebbero buoni tutti a prenderlo di peso e a metterlo lì. Ma in un reparto di riabilitazione bisogna cercare di far sì che quello che guadagni in palestra lo trasferisci a tutti i momenti della tua vita quotidiana, perchè in palestra ci verrà un'ora o due .. le altre 22 23 ore sta in reparto…” (da intervista a Coordinatore dei fisioterapisti) Corpo e mente del paziente non sembrano essere dimensioni separate nelle rappresentazioni dei fisioterapisti: lo scopo della riabilitazione non è solo quello di “rimettere in piedi” il malato, ma di consentirgli di riacquisire controllo e sicurezza di sé. La dimensione fisica della riabilitazione è quindi strettamente embricata con quella psicologica. Questo aspetto sarà adeguatamente approfondito nell’analisi delle relazioni fisioterapista – paziente. Paziente e fisioterapista sono seduti ad un tavolo, il paziente compone e poi scompone la torre di cubi di gommapiuma che la fisioterapista gli aveva detto di costruire, la fisioterapista gli sorregge sempre un po’ il braccio che sta usando. Fisioterapista: “hai 96 visto che bravo che sei stato? Sei convinto, di questa cosa?” Paziente: “sì, sì.” Fisioterapista: “Oh, menomale che non è un’idea mia allora! (da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) L’INDIVIDUO Ogni paziente è un individuo con la sua storia ed il suo portato personale: questo aspetto caratterizza tanto le rappresentazioni di questa categoria professionale quanto le interazioni nel contesto della fisioterapia. I fisioterapisti si rappresentano i pazienti come molto spesso angosciati: gli incidenti subìti hanno generato in loro paure profonde legate al proprio corpo. Come già accennato, parte integrante dello scopo della fisioterapia è far riacquisire al paziente fiducia e consapevolezza di sé, in modo da guidarlo gradualmente verso l’autonomia. La fisioterapista mi spiega la storia della paziente che stiamo per incontrare. È una signora giovane, circa 40 anni, con un bimbo di 4. Ha avuto una dissezione dell’arteria vertebrale che è una patologia piuttosto rara. Ha una disartria, cioè non riesce ad articolare le parole. La fisioterapista mi dice: “è già andata in piedi, all’inizio era molto angosciata ma adesso sta migliorando e fa grossi passi avanti velocemente”. Ripete più volte “è una persona molto carina”. Dice “è già in piedi ma c’è ancora molto lavoro da fare” (da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) La previsione di riacquistare la propria autonomia sembra suscitare nel paziente sentimenti ambivalenti: da una parte grande eccitazione ma dall’altra altrettanta paura (di cadere, di andare troppo in fretta, di danneggiare il proprio corpo). I fisioterapisti sembrano consapevoli di questi aspetti ed adeguano la terapia alle percezioni ed alle preferenze del paziente. Tuttavia a volte è possibile rilevare una tensione tra la volontà di rispettare e credere in quanto il paziente dichiara e la protezione che l’ospedale deve garantire ai pazienti: non sempre infatti i pazienti sono in grado di essere obiettivi sulle proprie capacità motorie (si veda quanto detto a proposito delle aspettative condivise da tutti gli operatori). Più spesso, comunque, i fisioterapisti sembrano pensare che i 97 pazienti abbiano bisogno di una piccola “spinta” per poter fare effettivi progressi nient’altro, in fondo, che la necessaria funzione di tensione in avanti di ogni forma di pedagogia. Fisioterapista e paziente entrano in camera, i suoi compagni salutano la paziente, c’è anche la mamma della paziente che dice alla fisioterapista (riferendosi alla figlia): “Oh, che bello vederla in piedi”. La fisioterapista dice: “Questa carrozzina sta diventando un po’come la copertina di Linus, prima o poi bisognerà toglierla..”, la mamma dice che la paziente a volte ha ancora paura. La fisioterapista dice: “sì, ci vorrà ancora un po’ ma prima o poi iniziamo lo svezzamento..” (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) Concludo questa sezione indicando un aspetto che marca una grande differenza tra la categoria dei fisioterapisti e le due precedentemente analizzate. Nel nostro primo incontro, la fisioterapista ha negoziato con me le regole della sessione osservativa (Shadowing) e ne ha voluto conoscere gli scopi. Una volta discussi questi aspetti, la fisioterapista mi ha comunicato la sua intenzione di informare i pazienti della mia presenza e del mio ruolo. La decisione della professionista dice dell’autorevolezza riconosciuta ai pazienti e della volontà di costruire con loro un rapporto fondato sulla trasparenza e sul rispetto. Noto che quando la fisioterapista non conosce i pazienti, chiede loro se la mia presenza gli crei problemi. Quando invece si tratta di pazienti con cui ha già un rapporto da tempo, la mia presenza e gli scopi della mia presenza vengono comunicati. Se il paziente non ha problemi, procedono con la fisioterapia. (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) IL SOGGETTO SOCIALE Come i medici, i fisioterapisti si rappresentano il paziente anche dopo la dimissione. Nei fisioterapisti, ciò consiste nell’accertarsi che gli apprendimenti del paziente si 98 stabilizzino e possano essere messi in pratica anche al di fuori della palestra. Come è stato più volte sottolineato, alla base del successo di tale obiettivo stanno le percezioni dello stesso paziente: riuscire ad infondere fiducia e sensazione di auto-controllo è un fattore chiave nella progressiva riconquista di autonomia del paziente. Fisioterapista: “Dai, ora ci sdraiamo e poi torniamo su”. Il paziente si sdraia. Fisioterapista: “sei andato giù tranquillo..” Paziente: “sì, discreto”. Fisioterapista: “tutte queste cose che ti dico te le devi ricordare tu perché tra due giorni sei a casa e ti devi lavare, andare a letto, tutto da solo..”. Infine, nella mente dei fisioterapisti uno spazio importante è occupato dal care – giver del paziente: la fisioterapia è modulata anche sulla base della rete sociale in cui il paziente è inserito. 4.3 La relazione PAZIENTI E PROFESSIONISTI: DEFINIZIONI E NEGOZIAZIONI DI PROPRIETÀ “E senza gli uni gli altri non sarebbero nulla e ormai sia noi che loro abbiamo dimenticato perché combattiamo“ Italo Calvino16 In questa sezione verrà preso in analisi il secondo livello dello schema proposto: quello che riguarda la relazione tra pazienti e professionisti. Ricordiamo, a tale proposito, che la valorizzazione della relazione medico - paziente è una delle sei dimensioni del modello di PCM proposto da Stewart et al. (1995), così come lo è la promozione di alleanza terapeutica nel modello di Mead e Bower (2000). Coerentemente con il contesto analizzato e con lo sguardo adottato nella conduzione della ricerca, verranno 16 Italo Calvino (1993). Il cavaliere inesistente. Milano: Mondadori. 99 descritte le relazioni che il paziente intesse non soltanto con il medico ma anche con le altre due figure principali interessate alla sua presa in carico: l’infermiere ed il fisioterapista. Il livello relazionale media tra quello organizzativo e quello individuale: le interazioni tra degenti e professionisti hanno quindi importanti ripercussioni sia sulla rappresentazione dei pazienti che si sedimenta nella mente degli operatori, sia sulle pratiche lavorative che, a lungo termine, si consolidano nell’organizzazione. D’altro canto, e viceversa, l’idea che i diversi professionisti hanno dei pazienti (livello individuale) impatta sui loro stili e comportamenti interattivi, e le norme e procedure stabilizzatesi nell’organizzazioni (livello organizzativo) costituiscono vincoli e possibilità all’interno dei quali la relazione professionisti-paziente prende forma. La relazione professionisti - pazienti è stata analizzata con la finalità esplicita di mettere in luce comportamenti che siano indizi o veri e propri indicatori di una cultura organizzativa (più o meno) Patient Centred. Come per il livello individuale, anche nella descrizione di quello relazionale si considererà ognuna delle tre categorie professionali per le sue caratteristiche specifiche. Tuttavia, in questo caso, l’analisi è stata condotta a partire dall’individuazione di quattro dimensioni comuni, ritenute rilevanti per la tematizzazione e messa a confronto delle diverse relazioni analizzate. Si tenga conto che l’osservazione delle tre diadi ha portato alla produzione di un materiale molto diversificato al suo interno: la maggior ricchezza dei dati relativi ad alcune coppie operatore – paziente è risultata tanto dalla maggiore frequenza ed intensità della relazione considerata quanto dalle più assidue opportunità di osservare sul campo lo svolgersi delle interazioni. Nella redazione di questa parte di analisi sono stati utilizzati prevalentemente dati ottenuti tramite la tecnica dello Shadowing e le sessioni osservative in luoghi chiave del reparto:il livello relazionale, a differenza di quello rappresentativo individuale, viene intercettato infatti attraverso l’osservazione di fatti ed azioni più che attraverso dichiarazioni verbali. Quattro ancoraggi per analizzare la relazione Ogni forma di relazione di cui facciamo esperienza si caratterizza, tra le altre cose, per 100 l’esistenza di regole più o meno esplicite, a seconda della formalità che connota il legame. L’esistenza di tali regole diventa tipicamente palese nel momento in cui esse vengono violate. Nel contesto ospedaliero alcune relazioni sono fortemente determinate dai ruoli organizzativi, mentre resta poco spazio per la personalizzazione del rapporto. Altre, invece, grazie al loro sussistere nel tempo ed alla frequenza delle interazioni che le costruiscono e ricostruiscono, non sono connotate soltanto dalle reciproche aspettative di ruolo. In entrambi casi alcune specifiche dimensioni sembrano avere un forte impatto sulla costruzione della relazione tra pazienti e professionisti. Introdurremo tali dimensioni attraverso i seguenti interrogativi: di chi è l’ospedale?, quali sono gli attori con più peso decisionale?, chi determina i confini spaziali, le regole, lo scandire della giornata? Tutti questi aspetti sono emblematici nel determinare la presenza di una cultura centrata o meno sul paziente; agli elementi citati sottende un’unica, complessiva dimensione: quella della proprietà. Rispetto al concetto di proprietà risulta emblematico il contributo di Fontanella (2011), la quale – attraverso la rivisitazione di una propria esperienza di degenza – ha analizzato la comunicazione nella realtà ospedaliera dal punto di vista della linguistica: (…) i linguisti la chiamano comunicazione diseguale. Si trova soprattutto in certi ambienti: l’ospedale, la scuola, il tribunale (…). Diseguale perché, in quegli ambienti, le persone non hanno lo stesso potere, e tutto ciò che accade ne risente. Anche quello che viene detto e fatto. Nella comunicazione diseguale si riscontra in particolare uno sbilanciamento nel possesso dello spazio, del tempo e della lingua (…). Continua Fontanella (2011, pp. 7-9), parlando della relazione tra pazienti e operatori dell’ospedale: ero, come quasi tutti i malati, in una situazione di grande svantaggio (….)Le cause di diseguaglianza sono (anche) banali: tu, medico o infermiere, stai bene, hai il camice e ti muovi in uno spazio che conosci bene; io sto male, anche molto, e non soltanto non ho il camice ma per forza di cose mi hanno anche tolto i vestiti, tutto mi è estraneo e mi spaventa. Tu puoi muoverti e mi giri attorno guardandomi dall’alto, e io sto qua disteso e ti guardo dal basso in alto, come il più derelitto dei bambini. Sono spaventato, confuso, puoi farmi quello che vuoi”. Le riflessioni di Fontanella hanno avuto un ruolo di grande rilevanza nell’analisi dei dati osservativi. Innanzitutto, il pensiero dell’autrice mette in luce 101 l’inevitabile squilibrio che caratterizza la relazione paziente – operatore sanitario, specialmente nelle prime fasi della degenza. È mia opinione che lo sforzo dei professionisti sanitari dovrebbe essere quello di tener conto, il più possibile, delle conseguenze di tale grande svantaggio. Inoltre, le riflessioni relative alla comunicazione diseguale sono state un’utile guida nell’individuazione di quattro categorie ricorrenti, che consistono in diverse declinazioni del concetto di proprietà: il possesso dello spazio, l’accesso al corpo (dei malati), la disposizione del tempo e l’utilizzo del linguaggio (schema 4.3). Alla luce di tali ancoraggi l’analisi del livello relazionale può fornire rilevanti insight al tema della ricerca. Di seguito verranno descritte le quattro categorie individuate, approfondendo nello specifico le modalità con cui esse connotano la relazione tra i professionisti ed i pazienti. QUATTRO CATEGORIE PER L’ANALISI DELLA RELAZIONE Schema 4.3 Il possesso dello spazio L'uso del linguaggio DEFINIZIONI E NEGOZIAZIONI DI PROPRIETÀ L'accesso al corpo La disposizione del tempo 102 4.3.1 Il possesso dello spazio Sappiamo che le relazioni si sostanziano e si costruiscono grazie al ripetersi di interazioni, e che tali interazioni avvengono sempre in un contesto; sono, cioè, sempre situate. Il fatto che il reparto sia considerato il luogo deposto alla cura (nel suo senso più ampio) dei malati oppure uno spazio in cui il paziente non è nient’altro che un ospite (più o meno atteso e gradito), marca una sostanziale differenza nel processo di costruzione del rapporto operatore sanitario – paziente. Consideriamo l’ospedale: alcuni ci lavorano, magari da tanto tempo, e più il tempo passa e più potrebbero pensare davvero che quel posto sia loro (…). Intanto (i pazienti) sono troppi, poi sono dei perfetti estranei, hanno i parenti, vogliono ciò che non si può o non si vuole fare. Invadono uno spazio non loro (Fontanella, 2011, p.8 ). La dott.sa si affaccia alla guardiola infermieristica e dice all’infermiera: “B., allora il paziente (nome paziente) resta eh!”. Infermiere: “ok sì.. fossero tutti così i pazienti… per il fastidio che mi dà…”. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Il senso del possesso degli spazi può essere veicolato in molti modi: il grado di libertà d’accesso e movimento, la necessità o meno di permessi ufficiali per l’attraversamento dei confini, la facilità o difficoltà di raggiungere le persone che vi abitano o lavorano. L’ipotesi è che tanto più i pazienti sono autorizzati a frequentare liberamente gli spazi, tanto più potremo dedurre che chi ci lavora li ritiene anche e sostanzialmente di loro proprietà (Fontanella, 2011). Quanto alla figura dei medici, la dimensione dello spazio assume rilevanza se declinata nel grado di accessibilità – percepita dal paziente – di questa categoria professionale. Il contatto tra medico e pazienti è sempre stabilito dai primi: mentre, infatti, il paziente è in grado di chiamare un infermiere attraverso l’utilizzo del “campanello” situato vicino al suo letto, non sono previste modalità che consentano al paziente di mettersi in contatto direttamente con un medico. Non di rado i pazienti utilizzano la figura degli infermieri come “ambasciatori” della loro richiesta di incontro con i medici. Questi 103 ultimi, infine, non passano molto tempo nei corridoi e nelle camere dei pazienti, se non durante la visita mattutina di routine (“il giro”). Nei due corridoi del reparto predominano decisamente, per quantità di tempo e frequenza di presenza, gli infermieri e gli OSS. I medici li intravedo mentre passano da una stanza all'altra durante il giro, ma in generale si vedono abbastanza raramente. (Da osservazione nel corridoio di reparto) In definitiva, i medici non sembrano partecipare attivamente alla negoziazione della proprietà dello spazio ed essi sono la figura professionale più difficile da raggiungere per i degenti. Se prendiamo in considerazione la categoria degli infermieri, si profila un quadro completamente diverso. Essi sono, infatti, il primo operatore con cui il paziente si interfaccia al ricovero. La segretaria sta accompagnando un familiare e sua madre (futura paziente) nel soggiorno di reparto, gli dice “Faccia pure accomodare lì la mamma, ora arriva l’infermiera e vi accompagna in camera”. (Dopo 5 minuti) arriva un’infermiera che si rivolge alla paziente: “Eccoci. Ce la fa da sola signora? Piano piano?”, la paziente dice di sì. Infermiera: “venga venga che la metto nella camerina” (Da osservazione nel corridoio di reparto) Si noti l’utilizzo dell’espressione “mettere in camera”: tra gli infermieri è molto frequente, tanto nello svolgimento quanto nella narrazione delle loro pratiche lavorative, l’utilizzo di espressioni “passivizzanti” (L’infermiera va dalla paziente, lei le chiede “com’è la mia giornata?”, l’infermiera risponde che ora la lavano, poi la lasciano riposare un po’ e poi la portano in palestra.”; infermiera: “Non si faccia portare via che le sistemo prima la carrozzina..”); tale aspetto verrà approfondito nelle prossime sezioni. In questo contesto è invece importante sottolineare l’intensità e la frequenza delle interazioni tra infermieri e pazienti negli spazi del reparto. A tal proposito, si è già detto che i pazienti possono contattare gli infermieri in ogni momento della giornata, 104 grazie all’uso del campanello; la maggioranza dei pazienti, inoltre, non attraversa gli spazi del reparto in modo autonomo ma ha bisogno di essere condotto sulla sedia a rotelle (compito svolto quasi sempre da infermieri). Si consideri poi che gli infermieri sono responsabili anche dell’igiene quotidiana dei pazienti che non sono in grado di praticarla autonomamente. È forse proprio a motivo di tale intensa compartecipazione che la categoria degli infermieri mostra un senso di proprietà sugli spazi molto più elevato rispetto ai medici. Il possesso è veicolato in vari modi: ne è un esempio l’autorevolezza che gli infermieri si riconoscono nello stabilire le regole di comportamento dei pazienti (cosa essi possono e cosa non possono fare). Infermiera “Da noi è ingestibile questo paziente qua. A parte che non si capisce perchè parla solo rumeno (…) Poi, non mangia da seduto… Poi, non si vuole alzare quando lo diciamo noi. Poi a mezzogiorno va a letto perchè sennò non mangia. Non si vuole alzare al pomeriggio tranne che un'ora, poi quando arriva la cena torna a letto..”. Nota emotiva: il racconto è molto emotivo, è portato in modo molto vivido, caldo, traspare la difficoltà a trattare e ad interagire con questo paziente... (Da osservazione di un team multi – professionale) A posteriori, è possibile leggere nel disagio dell’infermiera il suo disappunto per la “ribellione” del paziente alle norme del reparto: gli infermieri sembrerebbero interpretare il ruolo di garanti del “buon funzionamento” dell’organizzazione. A connotare la relazione paziente – infermieri si aggiunge poi un’altra forma di negoziazione, oltre a quella delle regole di comportamento: essa consiste nella dialettica permesso - divieto d’accesso. Una signora (familiare di una paziente) entra nella camera, chiede: “aspetto fuori?”. Subito l’infermiera dice alla signora: “Deve aspettare fuori signora” e poi a me: “Mi chiudi la porta?”. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Si consideri che esplicite norme organizzative stabiliscono che i familiari abbiano diritto 105 di permanenza in reparto senza limitazioni tra le ore 6.00 e le ore 22.00. Tuttavia, tali regole stabiliscono anche che i parenti non possano restare nelle stanze dei pazienti mentre i medici o gli infermieri stanno effettuando il “giro” di visite mattutino o durante la distribuzione dei pasti. Il messaggio comunicato dall’infermiera nello scambio precedente è quindi giustificato/determinato dalle norme stabilite dall’organizzazione. Tuttavia, il linguaggio scelto per trasmetterlo veicola un senso di proprietà sullo spazio che non è giustificato dal contesto. La porta chiusa è una barriera, fisica e simbolica, di cui gli operatori si servono per marcare l’autorità decisionale dell’organizzazione sul paziente. Un punto di riflessione: se il reparto fosse considerato anche dei malati e dei loro parenti, si sceglierebbe quel modo per chiedere ad amici/familiari di allontanarsi momentaneamente? Le dialettica permesso – divieto d’accesso non riguarda tuttavia soltanto i degenti ed i loro familiari, ma regola anche il comportamento atteso dei professionisti: L’infermiera spinge la paziente in carrozzina verso il bagno e socchiude la porta. Da fuori sento l’infermiera che dice: “Va bene l’acqua o è troppo calda?”. Un Infermiere uomo entra in bagno senza bussare, si accorge della presenza dell’infermiera e della paziente ed esce subito. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Si veda come lo stesso artefatto (la porta chiusa) sia in grado, in un caso, di impedire al familiare l’accesso alla camera dei pazienti, ma nell’altro venga ignorato dall’operatore: la libertà di accesso dall’infermiere sembra essere data per scontata. Un ulteriore livello di accesso è costituito da un sistema di tende che compone la struttura del letto dei pazienti. Quando vengono tirate (per esempio durante le pratiche di igiene quotidiana), le tende nascondono completamente alla vista l’intero letto, garantendo una maggior privacy e riducendo il senso di espropriazione dello spazio probabilmente vissuto dal paziente. Tuttavia, sembra che tale artefatto non possa proteggere dagli occhi i malati di operatori sconosciuti. Una OSS entra in camera, cerca l’infermiera. Per andare a parlare con lei entra nel 106 sistema di tendine tirate dove l’infermiera sta medicando un paziente. Non chiede né dice niente al paziente. L’infermiera saluta la OSS e le dice “già che sei qui tienimi il piede mentre metto i cerotti”. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Infine, sul versante relazionale, sono particolarmente significativi gli scambi che mostrano azioni dirette alla negoziazione o alla “sfida” della proprietà dello spazio: In bagno sento delle voci, c’è un paziente con la moglie. Un infermiere prova ad entrare ma la porta è chiusa a chiave. L’infermiere dice: “non vi dovete chiudere dentro!”, la moglie risponde: “ma se ci sono io…”. Infermiere: “non fa niente.. sapete che uno c’è rimasto chiuso dentro una settimana?”, sdrammatizza.. Dopo poco i due escono, l’infermiere gli sorride. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) In corridoio c’è un paziente che, con un cellulare, fa suonare ad alto volume alcune canzoni, si sentono in tutto il corridoio. Le infermiere passando lo guardano, qualcuna fa dei commenti ma nessuna gli dice direttamente di spegnere la musica (almeno per 10 minuti). (Da osservazione nel corridoio di reparto) In conclusione, la dimensione della proprietà dello spazio (rispetto delle regole e presidio dei confini) appare estremamente rilevante nelle interazioni pazienti – infermieri, tanto da far pensare, in metafora, agli infermieri come ai guardiani degli spazi del reparto. Quanto ai fisioterapisti, il quadro appare nuovamente molto diverso. Si tenga conto anzitutto che le interazioni tra i pazienti e quest’ultima categoria professionale raramente avviene all’interno del reparto: la riabilitazione è svolta infatti nella palestra, che si trova sullo stesso piano ma è esterna al reparto. Per questo motivo, il tema della negoziazione della proprietà dello spazio di vita del paziente non riguarda direttamente i fisioterapisti. Tuttavia, esistono alcuni elementi che connotano la relazione 107 fisioterapisti - pazienti i quali sembrano riconducibili a questo dominio di significati. Si pensi, ad esempio, alla tendenza dei fisioterapisti a responsabilizzare i pazienti nei confronti degli strumenti prestati loro durante la terapia riabilitativa. La fisioterapista appoggia i due bastoni sulla carrozzina e dice al paziente “questi ora sono i suoi, li porti lei domani, se li ricordi eh!” (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) Chiedere ai pazienti di avere cura degli oggetti, etichettarli come “di loro proprietà”, per quanto temporaneamente, potrebbe attenuare il senso di estraneità vissuto nel contesto del reparto; tale elemento si configura infatti come rilevante nell’empowerment del paziente. In ogni caso, è lecito ipotizzare che nella relazione fisioterapista – paziente la dimensione dello spazio non sia una variabile di importanza eguale alle altre, in particolare se confrontata con il ruolo del tempo e del rapporto con il corpo del paziente. Questi aspetto saranno trattati nei prossimi paragrafi. 4.3.2 La disposizione del tempo Tutte le relazioni, indipendentemente dal motivo e dal contesto della loro nascita, accadono e si modificano nel tempo. Il tempo che dedichiamo alle relazioni è una dimensione fondante della loro esistenza ed essenza. È facile quindi intuire che anche le relazioni paziente – professionista sono fortemente influenzate dalla disponibilità e dall’uso del tempo che le connota. Tale categoria di analisi, rispetto alle altre tre, è forse quella maggiormente determinata dal funzionamento dell’organizzazione. Se in questo contesto è utile considerare il tempo delle interazioni come un marcatore di opportunità o vincoli per la relazione, occorre ricordare che tale dimensione è il risultato di norme e procedure prevalentemente stabilite “dall’alto” e quindi non direttamente attribuibili alla volontà dei professionisti. Sono forse i medici l’unica categoria professionale che sembra godere di una certa libertà nel modulare il tempo da dedicare ai pazienti, come vedremo più avanti. Si è già detto che le interazioni 108 strutturate medico – paziente avvengono su base quotidiana durante il “giro”: ogni mattina il medico, seguito da un gruppo di cinque o sei specializzandi/e si reca nelle camere dei pazienti per visitarli, se necessario, o semplicemente monitorare la loro situazione. È curioso che i medici parlino spesso del giro delle visite utilizzando un diminutivo: Dopo circa mezzora dal suo arrivo, il medico dice ad una specializzanda: “Allora, andiamo a fare un giretto?” La specializzanda annuisce, anche le altre specializzande presenti in guardiola li seguono ed inizia il giro di visite nelle stanze. (Da osservazione – Shadowing di un medico) Si noti che, rispetto al giro delle infermiere, quello effettuato dai medici è effettivamente più corto e veloce. In questo “rituale” il tempo delle interazioni medico – paziente è solitamente limitato (qualche minuto a paziente). Le sequenze di azioni che contraddistinguono le interazioni sono le seguenti: saluti iniziali (“Come va?”), domande del medico relativamente ad eventuali aspetti problematici (clinici o legati alle terapie), discussione in merito ad eventuali uscite in permesso durante il finesettimana, eventuali consigli, saluti finali. Segue un esempio di interazione durante il rituale del giro: Infine (il medico e le specializzande) passano all’ultima paziente della stanza. È una paziente con chiare difficoltà a parlare e forse non italiana. Il medico la saluta, parla lentamente e scandendo le parole, chiede: “che giornata è oggi Andrea? Buona o non buona?”La paziente accenna ad un dolore che ha all’occhio, ma quando il medico cerca di farle approfondire lei non riesce più a parlare ed a spiegarsi.. Il medico dice alla paziente “dillo in spagnolo se vuoi”.. ma non ottiene risposta. Allora il medico continua “comunque Andrea, ti va di andare a casa in permesso questo finesettimana?”, la paziente dice di sì e sorride. Poi le dice che la vedrà più tardi, la saluta e saluta anche sua madre, che è seduta affianco a lei. (Da osservazione – Shadowing di un medico) 109 La fase del “come va?”, la presenza di domande che veicolano l’interessamento alla persona nella sua interezza sono indizi importanti relativamente al tema della centratura sul paziente. Come accennato, inoltre, il medico sembra essere l’unico dei tre professionisti osservati ad avere a disposizione una certa quantità di tempo da destinare, a sua discrezione, al monitoraggio o al controllo di pazienti che lo necessitino. Il medico esce dal reparto. Si reca in palestra, da solo. Va vicino a Carla, la paziente con sindrome di Down che si lamenta spesso. Lei sta mettendo dei piccoli peluche su un girello con la fisioterapista, che le dice “ora li portiamo un po’ in giro eh Carla, come si fa coi bimbi”. (…) Poi a il medico e la fisioterapista provano a far alzare la paziente per portarla a camminare con il girello, lei però urla e si lamenta. Medico: “dove ti fa male Carla? Dai alzati da sola, noi non ti tocchiamo…”. Dopo molti tentativi inutili riescono a far alzare la paziente (il medico si complimenta con la fisioterapista per la pazienza), osserva la paziente che cammina, osserva soprattutto come muove le gambe. Dopo qualche minuto di cammino la fanno risedere. Il medico la saluta, torniamo in reparto. Mentre camminiamo per tornare nella guardiola il medico mi parla della paziente e del fatto che ogni tanto monitora la situazione in palestra per vedere come procede la riabilitazione. (Da osservazione – Shadowing di un medico) Il vincolo temporale che contraddistingue le interazioni di routine tra medico e paziente, tuttavia, non gioca a favore dello stabilirsi di un’alleanza terapeutica. Questo aspetto marca una radicale differenza tra le relazioni medico – paziente e quelle fisioterapista – paziente. Il paziente vede infatti il fisioterapista per un numero prestabilito di ore al giorno (solitamente da una a tre) nella palestra del reparto. Durante tale lasso di tempo, i due soggetti sono i soli partecipanti all’interazione. Questo aspetto – unito al fatto che, di norma, il paziente viene preso in cura da un fisioterapista che rimane lo stesso durante tutta la degenza – favorisce notevolmente lo sviluppo di una alleanza terapeutica e di un rapporto connotato da un grado di 110 confidenza negoziabile da parte dei pazienti. Si pensi infatti a quanto detto rispetto agli infermieri: l’intimità che contraddistingue il rapporto tra questi ed i pazienti è spesso più subìta che voluta, a causa tanto dell’intensa convivenza nello spazio quanto della dipendenza fisica di alcuni pazienti. Il rapporto che i pazienti instaurano con il fisioterapista, invece, è fortemente basato, oltre che sulle cure riabilitative, sull’interazione verbale. L’ora di riabilitazione costituisce un setting spaziale e temporale all’interno del quale il paziente può “dosare” il livello di intimità e confidenza del rapporto. In tale setting il paziente si relaziona privatamente con il fisioterapista: le sue parole vengono ascoltate soltanto dal professionista in questione. Tale aspetto, che potrebbe passare inosservato, assume una rilevanza cruciale se pensiamo alla scarsa privacy che contraddistingue le relazioni durante la degenza del paziente (le interazioni con i medici e gli infermieri avvengono sempre in camera, e sono quindi sempre esposte alla presenza di altri pazienti od operatori). La fisioterapista incoraggia la paziente a provare a muovere il piede e la paziente lentamente lo riesce a muovere. Fisioterapista: “bravissima!”, poi si rivolge più a bassa voce alla paziente: “ma mi dica, come mai questo fidanzamento a 16 anni?”, Paziente: “eh, indovini un po’..” Fisioterapista: “era incinta?”. La paziente conferma e per circa 5 minuti racconta alla fisioterapista la storia della sua famiglia. La paziente e la fisioterapista si salutano, vanno camminando insieme verso un letto, la paziente dice che questo weekend ha visto suo figlio. (….) La paziente racconta di aver fatto il bagno nel weekend aiutata dalla madre. Fisioterapista: “menomale, che bella sensazione, no?”. Chiacchierano ancora un po’ tra loro, mentre la paziente si prepara per gli esercizi. (…) Paziente a fisioterapista: “lo sai che ho usato il computer? Non riuscivo a fare il doppio clic all’inizio ma poi sono riuscita. All’inizio non mi ricordavo l’ordine dei tasti ma poi mi è tornato in mente.. ” Fisioterapista: “oh, che soddisfazione! Se decidi di lasciarlo qui mi raccomando chiudilo a chiave negli armadietti!” (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) 111 Come si legge negli scambi riportati, a volte è il paziente stesso ad iniziare a raccontare aspetti della propria vita personale, anche se non stimolato direttamente dalle domande dei fisioterapisti. È quindi probabile che nella mente del paziente si siano accumulate esperienze connotate dall’interesse del fisioterapista nei suoi confronti, e che egli si rappresenti il fisioterapista come un operatore con cui è possibile condividere aspetti della propria vita personale. In questo contesto, comunque, basti dire che il tempo dell’ora di riabilitazione costituisce una vera e propria risorsa relazionale. Infine, le interazioni infermiere – paziente sono più simili, per setting e durata, a quelle descritte parlando della categoria dei medici. Con essi gli infermieri condividono il rituale del “giro”: ogni mattina questi ultimi si recano nelle camere dei pazienti, li aiutano ad alzarsi per andare in bagno (qualora ne siano in grado), li assistono nelle attività di igiene personale ed effettuano le procedure mediche stabilite per ogni paziente (misurazione febbre e pressione, somministrazione di medicine, medicazione di eventuali ferite, etc.). È importante sottolineare che non è sempre lo stesso infermiere a prendere in cura il paziente durante il giro; si possono facilmente immaginare le conseguenze a livello rispetto della privacy percepita dal paziente che questo elemento comporta. Inoltre, a differenza di fisioterapisti e medici, gli infermieri non stimolano quasi mai il paziente con domande aperte. Concludendo, nonostante gli infermieri passino più tempo nelle camere dei pazienti di quanto non facciano i medici, questa dimensione non sembra costituire una leva per lo sviluppo di una relazione personalizzata con il paziente. Ciò è dovuto molto probabilmente all’intervento di altri fattori ostacolanti la costruzione di un rapporto connotato da una certa confidenza: l’intercambiabilità degli operatori e la presenza costante di terzi durante le relazioni potrebbero essere, in questo senso, vincoli rilevanti. 4.3.3 L’accesso al corpo Ciascuno di noi ha attorno a sé uno spazio privato, personale, che permettiamo di invadere solo in determinate circostanze e a determinate persone. In ospedale gli 112 aspetti prossemici sono fondamentali perché una loro buona gestione da parte degli operatori può attenuare il senso di espropriazione che provano i malati (Fontanella, 2011, p. 53). Il tema del corpo dei pazienti è stato già trattato nell’analisi del livello rappresentazionale dei professionisti. In questa sezione verranno invece approfondite le relazioni tra operatori e pazienti alla luce delle diverse modalità di accesso al corpo dei primi sui secondi. È utile ricordare, prima di addentrarci nell’analisi, la rilevanza anche simbolica che il corpo assume in un reparto di riabilitazione. All’entrare nel reparto i pazienti sono spesso incapaci di camminare o addirittura di mantenere la posizione eretta; si trovano perciò in una situazione di estrema dipendenza. La missione del reparto è quella di ridurre al minimo la disabilità di cui soffrono i pazienti e permettere loro di riconquistare la massima autonomia possibile. Si può immaginare quindi il tipo di investimento, fisico ed emotivo, del paziente sulla cura riabilitativa. Non di rado il corpo del paziente subisce una vera e propria trasformazione; credo sia opportuno ricordare a questo proposito che qualsiasi grande cambiamento, anche qualora si sostanzi in un miglioramento, sottende aspetti minacciosi ed angoscianti che non possono essere ignorati. Gli aspetti appena menzionati riguardano soprattutto la relazione che si instaura tra il paziente ed il proprio fisioterapista, cioè colui che, di fatto, “rimette in piedi” il paziente. La fisioterapista si allontana un attimo, il paziente (che sarà dimesso nel pomeriggio) dice ad altre pazienti che si trovano in palestra vicino a lui: “eh, la pressione...sono un emotivo feroce io...”. La fisioterapista torna, gli dice “ci vediamo nel pomeriggio” e noto che il paziente si commuove. La fisioterapista dice “sono proprio fortunata io, che ho i pazienti che mi vogliono bene… Guardi che è consentito commuoversi una sola volta al giorno qui, per oggi siamo a posto allora!”. Il paziente piange, è molto commosso, le prende il braccio e poi le dice “che Dio ti benedica”. Si salutano. (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) I fisioterapisti, dato l’obiettivo principe delle cure cioè quello di rendere autonomo il paziente attraverso un percorso riabilitativo personalizzato, tengono in grandissima 113 considerazione la percezione che il paziente ha del proprio corpo. È molto frequente, nei loro dialoghi, l’uso di domande che sondano la sicurezza percepita dal paziente nel muoversi, la percezione di dolore ed anche il livello di paura nello svolgere certi movimenti. Fisioterapista a paziente, durante lo svolgimento di alcuni esercizi di ginnastica passiva: “Orietta però se c’è qualcosa, se sei stanca, me lo dici subito, ok? Io sono abituata così..” (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) La fisioterapista chiede alla paziente: “Ma mi spieghi bene, perché è un problema di piedi secondo lei?”, paziente: “non lo so, ma vanno meglio le gambe che i piedi”. Fisioterapista: “questo sì.. ma anche il bacino lo sente debole?” Paziente: “sì..”. Fisioterapista: “mentre la schiena va bene anche senza appoggio..?” Paziente: “sì sì, qualcosa ancora funziona..” (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) Quanto agli aspetti prossemici, le ripetute osservazioni di interazioni mi hanno permesso di notare che i fisioterapisti tendono a dare indicazioni ai pazienti “a voce” evitando, per quanto possibile, la manipolazione fisica diretta. È frequente che il fisioterapista spieghi dettagliatamente al paziente gli esercizi prima di iniziarli, o lo guidi in tempo reale dandogli indicazioni descrittive; la correzione “fisica” sul paziente viene effettuata solo qualora sia inevitabile, per esempio laddove il paziente presenti difficoltà nella comprensione. Le affermazioni del fisioterapista sono inoltre quasi sempre argomentate. Il paziente, per girarsi, mette il bastone davanti ai piedi. Fisioterapista: “No no, Giuseppe il bastone non va davanti ai piedi”. Il paziente arriva vicino al tavolo, mette le mani sul tavolo e riesce a sedersi piegandosi lentamente e spostando il peso all’indietro. Fisioterapista: “Bravo, ma devi sempre controllare che ci sia la sedia eh!”. (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) 114 La fisioterapista mette le scarpe al paziente e gli dice “Mi serve che mi ascolti bene adesso, eh mister!”. Il paziente ricorda alla fisioterapista che su un ginocchio non può fare affidamento perché ha l’artrosi, la fisioterapista lo rassicura e gli dice che lo sa. Poi aggiunge: “Mi ascolti bene mister.. abbiamo quattro punti di appoggio quindi il ginocchio non è mai lasciato da solo..”. La fisioterapista poi spiega al paziente l’ordine dei movimenti da eseguire con i bastoni e gli spiega anche come sedersi.. (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) Tutti questi elementi veicolano l’impegno dei fisioterapisti nella responsabilizzazione del paziente e sottolineano l’autorevolezza a lui riconosciuta nel processo di cura. Come è stato detto più volte, consentire ai pazienti di percepirsi come soggetti attivi, protagonisti della propria guarigione è una dimensione molto rilevante della Patient Centre Care. Si potrebbe dire che il fisioterapista svolga anche una funzione di “specchio” del corpo per il paziente: egli riconsegna a parole alcune sensazioni che i malati non comprendono, o a cui non sanno più dare un nome: La fisioterapista fa fare dei passi avanti e indietro alla paziente, a un certo punto la paziente ha un piccolo cedimento su una gamba, la fisioterapista le chiede cosa abbia sentito. La paziente non riesce bene a descrivere la sensazione, la fisioterapista dice “Hai sentito qualcosa perché ti si è piegato il ginocchio!”. (Note teoriche) È come se alcuni pazienti si fosse dimenticati come si debba fare per svolgere alcune operazioni complesse. Per esempio, osservando Rossana mi sembra che una volta che le vengono spiegati i singoli movimenti necessari per compiere l’azione lei è poi in grado di farla. (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) Infine, il rispetto per il corpo del paziente e la tendenza a non intervenire su di esso 115 attraverso la manipolazione fisica non esclude che il corpo sia un elemento protagonista della relazione paziente – fisioterapista. Ciò emerge specialmente nei momenti iniziali della riabilitazione, in cui il livello di dipendenza e disabilità dei degenti può essere molto rilevante e i pochi esercizi che è possibile svolgere sono quelli di ginnastica passiva. Si veda a titolo di esempio il piccolo rituale del passaggio carrozzina – letto, a cui gli operatori si riferiscono a volte con l’espressione “tecnica dell’abbraccio”. Le due fisioterapiste spostano la paziente sul letto, con la solita “tecnica dell’abbraccio”: la paziente viene aiutata a sollevarsi dalla sedia a rotelle, abbraccia una fisioterapista, la quale le sorregge il busto con le braccia. Poi la paziente esegue dei piccoli passettini laterali (sempre abbracciata alla fisioterapista), si gira di spalle verso il letto e si siede. L’altra fisioterapista intanto sposta la sedia a rotelle da dietro la paziente e infine le alza le gambe sul letto. Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista Anche la categoria professionale dei medici è caratterizzata dall’attenzione e dal rispetto per il corpo del malato, coerentemente con quanto è emerso nella descrizione del loro livello rappresentazionale. Ricordiamo infatti che i medici si distinguono per la rilevanza attribuita al dolore fisico ed alla sofferenza del paziente. Questo aspetto diventa tangibile durante le interazioni. In corridoio il primario incontra un paziente in sedia a rotelle, si salutano. Il primario chiede: “Ha usato la protesi allora?” il paziente: “sì ma non ho molta confidenza..”. Primario: “Bè, ci vuole tanto per riuscire ad avere confidenza... Ma le fa male?” paziente: “no, no”. Il primario continua: “riesce ad appoggiarsi al braccio?”, paziente: “eh, per questo sto facendo dei sacrifici enormi”. Gli mostra la mano ed il polso sotto un tutore.. il primario raddrizza una bicchierino di plastica pieno di caffè che il paziente ha appoggiato sulla carrozzina. Poi il paziente dice: “Comunque alla fine era la scelta giusta..”. Si salutano. (Da osservazione in corridoio di reparto) 116 Quando “invadono” lo spazio privato dei malati, i medici quasi sempre chiedono il permesso, avvisano il paziente di quello che sta per succedere e se sentirà dolore o fastidio. Medico, in consulenza esterna, si rivolge alla paziente: “La possiamo visitare signora?” … Il medico ripete alla paziente “Le faccio un buchino eh, fa un po’ male in questo punto”. … La paziente si lamenta un po’, sottovoce. Medico: “ok, fatto”. Specializzanda: “pensava peggio eh?”, la paziente annuisce. (passaggi tratti da osservazione – Shadowing di un medico) Si consideri anche che al medico è affidata un’enorme responsabilità, in merito alla cura del corpo del paziente: quella cioè di comprendere se le lamentele dei pazienti (specie quelli con problemi neurologici) dipendano o meno dalla percezione di dolore. La parente della paziente (con sindrome di Down) chiede al medico: “Ma quando fa così è perché ha dei dolori?”, medico: “facciamo una gran fatica a capirlo.. a volte ha fatto così anche quando non aveva niente.. poi non possiamo sempre riempirla di farmaci.” (Da osservazione – Shadowing di un medico) Infine, un aspetto prossemico che mi è sembrato molto rilevante riguarda un comportamento ricorrente di medici e specializzandi: essi tendono ad inginocchiarsi per parlare con i pazienti seduti sulla sedia a rotelle. Avere gli occhi alla stessa altezza quando ci si parla è uno degli elementi che danno l’immediata sensazione di parità (Fontanella, 2011). Quanto alla categoria professionale degli infermieri, abbiamo più volte sottolineato l’intensa condivisione degli spazi e l’intimità un po’ “forzata” che contraddistingue la 117 loro relazione con i pazienti. Il corpo del paziente è un elemento centrale all’interno di tale relazione. Le principali mansioni degli infermieri riguardano infatti la pulizia dei pazienti, le medicazioni, il controllo della febbre o di altri parametri indicati dai medici, il controllo delle evacuazioni. Quest’ultimo aspetto in particolare ricorre spesso anche nelle conversazioni tra operatori. La necessaria intimità che caratterizza il rapporto tra infermieri e corpo del paziente è quindi connotata anche da aspetti un po’ sgradevoli. Infermiera a paziente: “Giulia, bella donna, lei ieri mi ha rifiutato una supposta di glicerina e quindi oggi è da clistere.. perché me l’ha rifiutata? Tanto bisogna farla prima o poi.. quindi oggi o la fa da sola oppure clistere, perché più resta lì peggio è”. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) … l'infermiera torna e dice alle altre infermiere: “C'è da mettere una sonda a Gianni, che meraviglia!” (ironicamente). Poi continua “Ci sarà da mettere anche un sacchetto?.. (prende una sonda incartata da uno scaffale e chiede) questa basterà?”. Un'altra infermiera le chiede: “Se vuoi la metto io se ti dà fastidio...” (Da osservazione in guardiola infermieristica) Tuttavia, le infermiere sembrano avere imparato a sdrammatizzare sul tema delle evacuazioni: L’altra infermiera chiama l’infermiera B. per riprendere la paziente dal bagno. L’altra infermiera, entrando in bagno, si lamenta. L’infermiera B. dice: “eeh un po’ di puzza non ha mai ucciso nessuno”. … L’infermiera tira la tenda intorno al letto di una paziente e dice “Ne ha fatta tanta signora! Erano tanti giorni eh”, poi l’infermiera B. cambia la signora. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Come i medici, anche gli infermieri tendono a chiedere il permesso o se non altro ad 118 avvisare il paziente quando “invadono” il suo spazio privato. Infermiera a paziente: “Claudio, visto che sono 3 giorni che non fai la cacca e oggi non vai in palestra perché hai la febbre, ti va, se sei d’accordo, di fare una supposta di glicerina?” Il paziente dice che va bene. L’infermiera esce dalla stanza per andare a prendere la supposta, torna dopo pochi secondi, poi va a somministrarla al paziente, dopo aver tirato le tende. Dice “Allora vado eh..”. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Gli aspetti evidenziati fanno pensare che le infermiere si rappresentino la necessità di rispettare il corpo del paziente e, di fatto, lo facciano nelle loro azioni “dirette”. La relazione paziente – infermieri, in definitiva, è connotata da comportamenti che indicano la volontà di rispettare il corpo del malato. Tuttavia, il dolore fisico dei pazienti – anche in quanto poco rappresentato nella mente degli infermieri – non sembra essere propriamente gestito da questi ultimi. Questo aspetto si può notare – per differenza rispetto a medici e fisioterapisti – anche dall’assenza di domande finalizzate direttamente ad indagare la presenza di un’eventuale sofferenza. Infermiera, parlando (lamentandosi) di un paziente: “Poi, non mangia da seduto..”. Interviene una specializzanda “è perché non riesce, anche se ha il busto si deve tenere..”, Caporeparto: “..per forza non riesce se gli fa male..”. (…) Infermiera: “ sì, c'ha un dolore ma noi che ne sappiamo? Non lo capiamo!“ (Da osservazione di un team multi – professionale) Lo scambio presentato fa pensare che gli infermieri non si percepiscano in grado di gestire il dolore fisico, né comprendano la rilevanza che questo può avere nella determinazione di atteggiamenti e comportamenti dei pazienti: mancherebbe quindi, come ipotizzato, la rappresentazione di una relazione tra il corpo “sofferente” del malato ed il suo mondo personale, fatto di pensieri, comportamenti ed emozioni. 119 4.3.4 L’uso del linguaggio In questa sezione si ha come obiettivo quello di analizzare la relazione tra operatori sanitari e pazienti alla luce di una delle sue più potenti ed esplicite espressioni: il linguaggio. Si è detto, parlando del metodo etnografico, che soffermarsi sulle parole e sui termini utilizzati dal gruppo osservato può essere utile per ricostruire i significati attribuiti a cose ed azioni. Aggiungiamo qui che il linguaggio utilizzato nelle interazioni, in quanto veicolo di intenzioni e rappresentazioni reciproche, ruoli attesi ed autorevolezza riconosciuta, può diventare un importante indicatore della centratura sul paziente. Quanto alla categoria dei medici, una prima considerazione riguarda la comprensibilità della lingua: capire ed essere capiti, in ospedale, è fondamentale. Tra le corsie di reparto - quindi in un ambiente specializzato - si ha l’abitudine di usare parole che pochi conoscono, sentono, leggono e ancor meno usano abitualmente. Numerose osservazioni permettono di affermare che non di rado il linguaggio utilizzato dai medici non viene compreso dai degenti o dai loro familiari; per questo essi, a volte, richiedono esplicitamente riformulazioni o spiegazioni. Il medico dice al padre di un paziente: “È stato previsto l’innesto di un lembo sulla mano, ma quella mano è rigida, per me non ha senso…” continua a parlare per un po’ delle conseguenze di questa operazione. Quando il medico finisce di parlare il padre chiede cosa significhi “innesto di lembo”.. (Da osservazione – Shadowing di un medico) Considerata la ricorrenza di situazioni analoghe, è lecito pensare che i medici non si rappresentino o comunque non agiscano per prevenire il problema dell’incomprensione. Questo aspetto diventa cruciale se ripensiamo all’inevitabile posizione di svantaggio che caratterizza i malati in ospedale: sembrerebbe infatti che non sempre i pazienti si arroghino il diritto di chiedere al medico di “tradurre” quanto dichiarato in un linguaggio a loro comprensibile. 120 Una specializzanda sta visitando una paziente appena arrivata, altre specializzande assistono. Dice: “A me qui sembra fascite plantare..”. Le altre specializzande annuiscono, la paziente guarda, non reagisce. La specializzanda prosegue nella visita. (Da osservazione – Shadowing di un medico) Eppure l’accesso alle informazioni, in ospedale, è un aspetto fondamentale, anche nel dichiarato dei professionisti. L’informazione, in ospedale, va affrontata con la stessa precisione con cui si predispone una terapia. Deve essere progettata, programmata, proposta, verificata. L’informazione sorregge la degenza dei pazienti e dei loro parenti e ne determina la qualità (Fontanella, 2011, p. 129). L’ipotesi è che nell’utilizzo che i medici fanno del linguaggio avvenga qualcosa di simile a quanto si è osservato rispetto all’uso dello spazio da parte degli infermieri: i medici comunicano il senso proprietà sull’ospedale attraverso l’adozione di una lingua privata ed inaccessibile al paziente. Se quindi immaginiamo gli infermieri come simbolici “guardiani” dello spazio, potremmo vedere nei medici i “custodi” delle informazioni. Riportiamo un episodio che potrebbe rappresentare un’ulteriore conferma di questa ipotesi. L’episodio osservato dice di una sorta di isolamento – rimozione del paziente dal contesto relazionale: Consulenza esterna. Il medico si rivolge al paziente (è molto anziano): “Carlo buongiorno, come andiamo? Si ricorda di me? Come sta andando con la terapia?” il paziente fa molta fatica a parlare, ma sembra aver compreso la domanda. Il medico si rivolge ad una delle dottoresse che è presente in camera e le chiede che diagnosi è stata fatta. La dottoressa risponde, spiega tutto davanti al paziente. Poi parlano della situazione familiare del paziente, sempre davanti a lui ma senza interpellarlo… lui li guarda ma non reagisce. Poi la dott.sa dice al medico che il paziente non va in palestra da tre giorni. Medico, al paziente: “com’è che non va in palestra?”. Una delle dottoresse, abbastanza bruscamente: “Se poi si ferma non cammina più!”. Medico e dottoressa parlano della diagnosi, mi sembra di capire sia abbastanza grave anche perché parlano di “trattamenti fini a loro stessi” e “forma a rapida degenerazione”. Ne 121 parlano sempre davanti al paziente (che comunque mi sembra in grado di comprendere) ma senza mai interpellarlo.. (Da osservazione – Shadowing di un medico) In un ambiente come l’ospedale un attore comunicativo poco visibile e poco interattivo accentua il rischio di rimozione dal contesto comunicativo (Fontanella, 2011, p. 81). La conseguenza più frequente è che gli altri parlino in loro presenza dimenticando che ciò che dicono sarà ascoltato. Oltre ad aver parzialmente rimosso il malato dalla comunicazione, mi sembra rilevante sottolineare che una dottoressa fa uso del registro della minaccia (“Se poi si ferma non cammina più!”). L’uso della minaccia, considerando la posizione svantaggiata del paziente che abbiamo spesso discusso, aumenta il sospetto di essere in presenza di una comunicazione diseguale. Un altro elemento del linguaggio che fa pensare alla finalità, forse inconsapevole, di marcare una distanza tra il mondo dei pazienti e quello dei medici è l’adozione di formule “noi – loro”, che sottolineano cioè l’appartenenza a due gruppi ben diversi e separati: Medico (riferendosi al peso della signora): “Lo vede signora che fatica che fa a muoversi? Questo non è colpa dei medici però…” Paziente: “lo so lo so, so… Ah guardi, ci vuole una pazienza con i vecchi!” Medico: “ah ma tanto lo diventeremo anche noi..”. Paziente: “e speriamo di sì! Però vivrete di più voi..” Medico: “e perché signora?” Paziente: “perché voi avete studiato.. e poi perché aiutate noi..”. Medico: “Sì ma siamo anche più stanchi e stressati..” Paziente: “guardi che ho lavorato anche io sa..” Interviene la specializzanda : “e cosa faceva?” Paziente: “l’operaia”. (Da osservazione – Shadowing di un medico) La ricorrenza dei pronomi personali – usati da entrambi i soggetti – marca 122 l’impermeabilità dei confini tra le due categorie e crea un potente effetto in- group – out-group. Si può immaginare che questo aspetto non faciliti la costruzione di una relazione non stereotipata, né favorisca la creazione di alleanza terapeutica o la ricerca di un terreno comune (dimensioni, queste ultime, presenti nei modelli di PCM proposti nel capitolo 1). È necessario però sottolineare che quanto appena descritto non caratterizza tutte le interazioni medico – paziente. Inoltre, l’effetto in-group – outgroup è mitigato da un fattore che appare parzialmente contraddittorio e che riguarda aspetti non verbali della comunicazione: i medici adattano spesso il tono ed il ritmo della voce alla condizione dei pazienti ed all’aspettativa delle loro capacità di comprensione. Inoltre, le specializzande, soprattutto con i familiari, parlano solitamente in modo molto gentile e trasmettono grande serenità. Mentre torniamo in reparto si sente ancora la voce della paziente Carla (paziente con sindrome di Down) che si lamenta. Il medico decide di andare a vedere cos’abbia, va davanti al letto della paziente e le parla un po’, le chiede cosa c’è che non va e come mai urla tanto.. poi nel salutarla dice: “Ciao Carla.. ciao… allora, se c’è qualcosa vengo subito io, però non ti voglio più sentire urlare inutilmente, capito Carla?” . Parla con un tono molto calmo e gentile e la paziente sembra tranquillizzarsi. (Da osservazione – Shadowing di un medico) Infine, non sembra esserci una norma fissa nell’uso del registro del “tu” o del “lei” tra medico e paziente; in un primo momento di conoscenza tuttavia i medici tendono a dare quasi sempre del lei al paziente. Lo stesso vale per gli infermieri i quali però, una volta conosciuto il paziente, passano quasi sempre al “tu”. La variabilità del registro di linguaggio utilizzato dagli infermieri con i diversi pazienti (più o meno formale, uso del “lei” o del “tu”, più o meno connotato dalla presenza di sdrammatizzazioni, scherzi ed ironia) fa pensare ad una relazione con ampi margini di sviluppo durante la degenza. È rilevante sottolineare che, nella comunicazione pazienti – infermieri, l’uso dei pronomi serve spesso ad una finalità speculare ed opposta rispetto a quanto osservato con i medici. Si veda come nel seguente scambio, ad esempio, il “noi” dell’infermiera veicoli 123 la volontà di creare alleanza e partnership con il paziente, escludendo (grazie al registro dello scherzo) un altro infermiere: L’infermiera sta medicando la paziente, le dice: “Prova a tirare su il piede… bravissima! Dai che facciamo anche un po’ di ginnastica.. benissimo.. promossa!”. Poi, sempre mentre medica la paziente, l’infermiera dice ad un altro infermiere “ah abbiamo già fatto noi, non abbiamo mica bisogno di te, è stata bravissima questa signora qui”. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Il linguaggio delle infermiere indica di frequente una partecipazione personale ed emotiva ai miglioramenti del paziente: Paziente: “come le sembra che vada?” Infermiera: “molto bene guardi, sono proprio contenta. La ferita va molto meglio”. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Infine, quando gli infermieri devono somministrare ai pazienti le terapie (prescritte dai medici), ricorre l’uso di domande o formule per sondare il volere e le preferenze del paziente: Infermiera a paziente: “Se va bene per lei, signora, le darei una supposta di glicerina” …. Infermiera a paziente: “Le pastiglie le preferisce sbriciolate?” …. Un’infermiera entra in guardiola e dice: “Vado a dire alla dott.sa M. che la (nome paziente) non ha voluto prendere le medicine” (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Questo indizio è parzialmente contraddittorio con la scarsa autorevolezza riconosciuta al paziente nella gestione e nel possesso degli spazi (lì, il suo parere non è quasi mai richiesto). D’altro canto, possiamo ipotizzare che esista una dissimmetria tra gli ambiti 124 in cui gli infermieri riconoscono autorevolezza ai pazienti: ai malati sarebbe riconosciuto il diritto di decidere se accettare o meno le cure mediche, ma non quello di esprimere le loro preferenze rispetto alla privacy, all’accesso ed alla gestione degli spazi (si veda l’ipotesi degli infermieri come guardiani dello spazio). Passiamo, infine, a considerare il ruolo del linguaggio nella relazione fisioterapista – paziente. Nonostante la categoria professionale dei fisioterapisti, come quella dei medici, sia caratterizzata dalla presenza di un gergo specializzato, è infrequente la sua adozione nelle interazioni con i pazienti. La lingua con cui i fisioterapisti parlano ai malati si caratterizza per essere semplice, concreta e molto comprensibile. Parlando dei poggiapiedi della carrozzina, il paziente dice che uno, il sinistro, è piccolo. La fisioterapista risponde;: “ascolta Andrea, tu non hai un piede grande e uno piccolo… i poggiapiedi sono uguali ma il piede sinistro ti scappa in avanti. Guarda, c’è un tavolino trasparente sopra la carrozzina così tu puoi controllare meglio e stai attento a quando ti scappa il piede….” Quando vengono utilizzati termini che il paziente potrebbe non comprendere sono quasi sempre i fisioterapisti stessi a riformulare, senza bisogno che sia il paziente a richiederlo: La fisioterapista sta compilando, insieme al paziente, la scheda di valutazione: “ Guardi (e mostra al paziente) in ingresso la motricity era a 1 e ora è a 73.. vuol dire che prima non c'era risposta, che le gambe e le braccia erano molli...direi che possiamo ritenerci soddisfatti!”. (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) Grazie all’utilizzo di un linguaggio comune, i fisioterapisti garantiscono al paziente un accesso molto semplice alle informazioni relative alla cura, ai progressi ed agli obiettivi più o meno raggiunti. Anche nella gestione del linguaggio sono tangibili gli sforzi dei fisioterapisti diretti all’empowerment del paziente. Il paziente dice “forse c'erano le condizioni per migliorare... vediamo quando riesco 125 anche a camminare..!”. Fisioterapista:“guardi Bruno che le ribadisco, lei sta già camminando! Una volta che comincia a fare i primi passi poi si può solo migliorare, il difficile è iniziare. E visto che non ci sono dei vizi tipo una spinta da un lato o dall'altro, lei può solo migliorare ora.. vedrà che piano piano...”. Continua a compilare la scheda. Mentre compila legge ad alta voce: “metto autonomia in casa eh...” (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) Lo stile è spesso informale e stimola la vicinanza con il paziente invece che sottolineare la distanza determinata dai ruoli. Ad esempio i fisioterapisti raramente danno del “lei” ai pazienti che conoscono da tempo (ad eccezione dei pazienti molto anziani) ed è frequentissimo l’utilizzo del nome proprio. Anche i malati tendono a dare del “tu” e a chiamare per nome il fisioterapista, elemento che riduce l’effetto in-group – out-group. Si ricordi, a questo proposito, l’esclusività del rapporto tra il paziente ed il fisioterapista, che resta lo stesso durante tutta la degenza. Il seguente scambio avviene tra una fisioterapista ed una paziente appena ricoverata, durante la prima ora di palestra e circa mezzora dopo essersi conosciute: Fisioterapista: “ora provi a sollevare un po’ il sedere.. respiri però! Che non facciamo un corso in apnea!”. La paziente guarda la fisioterapista e le dice “Se lasciassimo di là il lei e ci prendessimo il tu?”. La fisioterapista ride e dice che va bene. (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) Altri elementi che veicolano alleanza terapeutica e mitigano la distanza definita dai diversi ruoli sono l’utilizzo dei verbi alla prima persona plurale, come a comprendere la figura del fisioterapista nelle azioni che svolgerà il paziente (“Diamoci una raddrizzata ora”, “Venga, proviamo ad alzarci in piedi”) ed il frequente utilizzo di complimenti e verbi premianti. I fisioterapisti mostrano la volontà di partecipare ai piccoli passi avanti dei paziente e di infondere in loro fiducia e sicurezza di sé; si è visto infatti come tali elementi siano considerati determinanti nei progressi dei malati. 126 La fisioterapista avvicina la carrozzina al letto ed il paziente fa lo spostamento carrozzina-letto aggrappandosi alla fisioterapista e ruotandosi per arrivare a sedersi sul letto. Fisioterapista: “Sei stato bravissimo!”, paziente: “Grazie, Luisa”, fisioterapista: “Grazie niente, hai fatto tutto tu!” (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) Abbiamo già visto come il fisioterapista stimoli moltissimo il paziente con domande di vario genere. Lo conferma anche un dato metodologico: mentre durante le osservazioni delle interazioni medico – paziente o medico – infermiere io non sia quasi mai riuscita a riportare le risposte del paziente (in quanto brevi e sporadiche), i protocolli etnografici delle interazioni fisioterapisti – paziente sono ricchi di parole dei pazienti. Infine, nel dare istruzioni o correggere i pazienti, i fisioterapisti utilizzano spesso lo scherzo ed il registro dell’ironia. La fisioterapista dice sorridendo alla paziente “ora mi fai un po’ Carla Fracci sulle punte”. Mentre la paziente fa l’esercizio la fisioterapista le ricorda la postura corretta, dice “guarda che le spalle non ti servono”. Durante tutta la durata degli esercizi sul tappetino paziente e fisioterapista sono una affianco all’altra, la fisioterapista la guarda, a volte la corregge. Le sorride quasi tutto il tempo. Fisioterapista: “ti riposi un attimo ora… ti vuoi stendere?” la paziente annuisce. (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista) Anche il linguaggio non verbale (i frequenti sorrisi, il guardare negli occhi) veicola la volontà di stabilire una relazione fondata su rispetto e fiducia. In questa sezione abbiamo visto come le tre diadi professionista – paziente siano caratterizzate da diverse relazioni. Gli elementi che fungono da indicatori di una maggior o minore centratura sul paziente sono molteplici ed eterogenei; tali elementi non sono sempre coerenti tra loro, ed anzi sembrano comporre quadri ad elevata complessità di lettura. D’altro canto questo dato ci parla dell’inadeguatezza – 127 nell’affrontare il tema della Patient Centred Care nelle sue implicazioni relazionali – di semplificazioni e riduzionismi. La dimensione della negoziazione di proprietà sembra essere un utile ancoraggio ed un efficace organizzatore dei principali elementi osservati. Si è visto come le diverse categorie professionali instaurino relazioni con i pazienti caratterizzate dalla diversa modulazione del senso della proprietà, a sua volta declinato nell’uso degli spazi e del linguaggio, nella disposizione del tempo e nell’accesso al corpo. L’interazione di questi fattori dà origine ad un quadro sì complesso ma non disgregato, e comunque utilizzabile per la comprensione di asset fondamentali nel contesto della relazione professionista sanitario – paziente. Infine, è bene ricordare che gli indicatori scelti sono derivati da un’analisi avente come oggetto e scopo l’individuazione di una cultura organizzativa più o meno centrata sul paziente. Il livello relazionale è stato quindi descritto a partire da una prospettiva (necessariamente parziale), la quale ha poi informato la “lente” attraverso cui guardare ai dati: la prospettiva culturale dell’organizzazione, dal cui angolo visuale la relazione tra pazienti e professionisti prende forma soprattutto nel sedimentarsi di rappresentazioni, pratiche e valori condivisi. 4.4 L’organizzazione IL REPARTO CENTRATO SUL PAZIENTE “L’organizzazione non è un a priori, ma è frutto della convergenza di bisogni, desideri e opzioni diverse, negoziabili nelle differenti culture e utilizzabili per speranze diverse” E. Spaltro17 Eccoci finalmente giunti all’analisi della cultura Patient Centred declinata a livello organizzativo, oggetto primario della ricerca e scopo dichiarato fin dai primi step della sua progettazione. Anteporre a questa sezione l’analisi delle ricadute individuali e relazionali della cultura Patient Centred ha permesso a chi legge di toccare con mano la 17 SPALTRO (1990). Complessità. Introduzione alla psicologia delle organizzazioni complesse. Bologna: Pàtron 128 complessità degli aspetti da considerare nell’affrontare il poliedrico tema della cura centrata sul paziente applicata alla realtà organizzativa. D’altro canto, le rappresentazioni mentali che i professionisti sanitari hanno dei pazienti, così come la forma che esse assumono nel contesto nella relazione, costituiscono indizi del tipo di cultura condivisa e ricorsivamente co-costruita dagli operatori nel loro contesto lavorativo. Analizzare la cultura Patient Centred dal punto di vista organizzativo è anche l’obiettivo più sfidante di questa tesi, sia per i molteplici livelli di complessità che esso chiama in causa sia per la varietà di angolature teoriche che potrebbero orientare l’analisi. La scelta metodologica che ha guidato l’analisi dei dati è stata quella di non partire da una specifica teoria della cultura organizzativa mutuata dalla psicologia delle organizzazioni ma di lasciar parlare artefatti, routine, pratiche, procedure e tutto ciò che nell’organizzazione stessa emerge rispetto al tema della cultura Patient Centred. Non è stata perciò eseguita un’analisi culturale esaustiva del reparto. Certamente gli ancoraggi teorici che hanno orientato la ricerca degli elementi organizzativi relativi alla centratura sul paziente (il classico “paio d’occhiali” che filtra l’osservazione) sono stati mutuati da diversi autori (che citerò di volta in volta); si è lasciato, però, che a guidare l’analisi fossero in primo luogo le manifestazioni di quella che potremmo definire una volontà organizzativa (risultata dal sedimentarsi di assunti, valori e pratiche lavorative) di mettere il paziente al centro del processo di cura. Per facilitare la comprensione dei molti elementi che sono stati osservati, si è deciso di organizzare l’analisi seguendo l’immaginaria linea di un continuum che va da un minimo ad un massimo livello di formalizzazione delle manifestazioni della cultura Patient Centred. Al massimo livello di formalizzazione incontriamo la prima macro – categoria descritta, cioè quella degli artefatti organizzativi. Secondo la classica teoria della esposta da Schein (1999), gli artefatti costituiscono l’aspetto più visibile e concreto della cultura organizzativa. La loro analisi permette di inferire quali valori ed assunti la sorreggono e ne informano il funzionamento. Si parlerà poi di un dispositivo micro-organizzativo, in particolare del lavoro in team e dell’equipe multi-professionale: la decisione di porre tale categoria ad un livello intermedio di formalizzazione è motivata dal suo essere, al contempo, un processo organizzativo standardizzato ed un luogo di produzione di significati 129 utilizzabile dai diversi soggetti implicati per diversi scopi ed in diverse accezioni. Infine si tratterà il tema della rete “informale” e non strutturata che si crea attorno al paziente, risultato del ciclo sedimentazione-ricostruzione delle pratiche lavorative Patient Centred. Nella stesura di questa sezione sono stati utilizzati materiali derivati da ogni genere dato raccolto: interviste, materiale documentale e protocolli osservativi. Fare rete attorno al paziente Il team multi professionale e il lavoro di equipe Gli artefatti Patient Centred LIVELLO DI FORMALIZZAZIONE DELLE CATEGORIE DI ANALISI Schema 4.4 4.4.1 Gli artefatti come simbolo del paziente al centro Quando si entra in una qualsiasi organizzazione, gli artefatti costituiscono il livello più immediato di osservazione: essi sono ciò che si vede, si ascolta, si tocca. In altre parole, attraverso gli artefatti la cultura si palesa nel tempo e nello spazio ed ha un immediato impatto emotivo. Nonostante la loro esplicita, fruibile esistenza, gli artefatti non sono immediatamente comprensibili nei loro significati e nelle loro funzioni (essendo tali aspetti costruiti socialmente). Quindi, sebbene la cultura si renda esplicita anche attraverso gli artefatti (oltre che tramite comportamenti manifesti, rituali, clima e valori dichiarati) la sua essenza è data dagli assunti taciti condivisi (Schein, 1999). Nell’introdurre il tema degli artefatti, è necessario anche menzionare il ruolo che tale eterogeneo insieme di oggetti organizzativi può assumere nella produzione di 130 conoscenza. Distinguiamo innanzitutto due diversi registri di conoscenza che riguardano i contesti organizzati: una esplicita, teorica, espressa e contenuta nelle tecnologie, pubblicamente accessibile ed una tacita, implicita, informale, radicata nelle pratiche e nelle routine lavorative. Gli artefatti giocano un’importante funzione nella costruzione e nel mantenimento di questo secondo tipo di conoscenza (Argyris, Schön, 1996; Baitsch, 1993, 1996; Schulz, 2008), sempre soggetto a negoziazioni e transazioni sociali. Gli artefatti, come mediatori tra i soggetti e le loro azioni e relazioni con il contesto organizzativo, diventano così uno degli strumenti principe per la condivisione di conoscenza (Nicolini et al., 2003; Feldman, Pentland, 2003; D’Adderio, 2010). Nonostante gli interessantissimi sviluppi che emergerebbero dall’approfondire come, all’interno del reparto, gli artefatti orientino, costruiscano e modifichino le pratiche lavorative, non è questa la sede dove tale analisi potrà essere adeguatamente condotta (tanto per limiti di spazio e tempo quanto per l’insufficienza del materiale osservativo raccolto). Ci si auspica però che la presente tesi possa rappresentare un punto di partenza perché questa ed altre indagini più focalizzate possano essere portate avanti in futuro. L’obiettivo del paragrafo 4.4.1 è quello di indicare e descrivere alcuni artefatti organizzativi particolarmente rilevanti in quanto, plausibilmente, risultato del sedimentarsi di pratiche, valori ed assunti diretti a mettere il paziente al centro del funzionamento del reparto. CICLO ARTEFATTI – PRATICHE Schema 4.5 Pratiche lavorative la loro ripetizione e sedimentazione porta alla creazione di.. modificano, strutturano, vincolano e orientano le.. Artefatti 131 4.4.1.1 I documenti I documenti che permeano la vita organizzativa sono di fondamentale importanza nell’indagine culturale: da slogan, manuali, resoconti di discorsi, depliant di presentazione dell’organizzazione traspaiono ideologie, identità, struttura gerarchica e, nel caso della presente ricerca, attenzione e focalizzazione sull’esperienza del paziente/utente. Di seguito saranno descritti i documenti prodotti dall’Unità Operativa di Medicina Fisica e Riabilitazione, ritenuti rilevanti per l’analisi della cultura centrata sul paziente. Lo sforzo costante sarà quello di confrontare il livello “pubblico”, cioè scritto ed esplicitato nei documenti, con le dichiarazioni dei professionisti e con il materiale prodotto dalle osservazioni sul campo. A questo proposito Schein ricorda che il confronto tra gli artefatti ed valori dichiarati è di cruciale importanza: come principio generale, il modo per approfondire i livelli culturali è attraverso l’identificazione delle incoerenze e dei conflitti che si osservano fra i comportamenti pubblici, le politiche, le regole, la pratica (gli artefatti) e i valori dichiarati come sono formulati nelle affermazioni, nelle linee di condotta e in altre comunicazioni manageriali (Schein, 1999, pp. 59). Aspetto comune a tutti i documenti analizzati è la sottolineatura di una dimensione molto rilevante ai fini della presente ricerca, in quanto possibile indizio di una cultura organizzativa orientata a soddisfare i bisogni del paziente: viene spesso menzionato l’obiettivo di costruire per il paziente un percorso personalizzato, che tenga cioè conto delle sue necessità e dei suoi bisogni. Consideriamo ora i documenti selezionati singolarmente. L’informativa di reparto: si presenta come una risma composta da quattro facciate. L’informativa viene consegnata al paziente ed ai suoi familiari subito dopo il ricovero ed ha lo scopo di far conoscere al paziente le norme, i soggetti di riferimento ed alcune caratteristiche dell’organizzazione – reparto. 132 “L'informativa di reparto serve a spiegare al paziente come è organizzato..chi è il medico referente, il coordinatore infermieristico…” (Da intervista a Caposala) Di quanto si legge nel ritaglio sopra riportato18, ai fini di individuare indizi della presenza di un cultura centrata sul paziente, è importante sottolineare la dimensione dell’accoglienza e dell’impegno nella presa in carico del paziente, manifestata anche dall’accortezza dalla tempestività e con cui il reparto informa il paziente delle figure che saranno un punto di riferimento durante la degenza. Quanto allo scambio di informazioni tra pazienti, familiari e Staff sanitario durante, vengono citati i team individuali, descritti come incontri specificamente dedicati a questo scopo. Tuttavia, come si vedrà in seguito, i team individuali (previsti a 3 – 5 giorni dal ricovero del paziente) non vedono coinvolto, salvo casi particolari, né il paziente né i suoi parenti. Quanto invece allo scambio di informazione non strutturato (“durante il trattamento”), 18 Le evidenziature sono state aggiunte posteriormente ed ai fini dell’analisi. 133 ciò che è scritto nel documento è confermato dalla dichiarazione della Caporeparto durante un’intervista: “La comunicazione con il familiare avviene anche quotidianamente… noi siamo sempre in reparto, i familiari sono abituati che quotidianamente vengono a parlare con noi. La riabilitazione va condivisa con un parente.” Ricorre, in questo importante artefatto, la dimensione della personalizzazione del processo di cura, elemento chiave della Patient Centredness: Dai pochi stralci riportati, è già possibile notare la rilevanza che il reparto conferisce al team riabilitativo: ai fini della riuscita della cura dei pazienti, è indispensabile poetr contare sulla funzionalità dell’equipe multi-professionale. È proprio per la sua rilevanza nel contesto del reparto che si è deciso di dedicare a questo tema un paragrafo a sé stante. Oltre alla personalizzazione, il documento dimostra l’attenzione dell’organizzazione ad un altro fattore cruciale della PCM: la considerazione della persona nella sua interezza, come emerge dalle politiche di accesso ai familiari e di uscita in permesso del paziente durante il finesettimana. 134 Sembrerebbe presente anche un’attenzione alla privacy dei pazienti: si chiede infatti ai parenti “la massima collaborazione per favorire le attività assistenziali e tutelare la privacy dei pazienti”. A questo proposito si ricordi quanto emerso nella discussione in merito al possesso dello spazio di reparto: si potrebbe ipotizzare che la privacy dei degenti andrebbe tutelata, oltre che attraverso la regolazione del comportamento dei familiari, anche tramite la segnalazione di questo aspetto, fondamentale quanto spesso sottovalutato, ai professionisti. Infine, all’interno dell’informativa di reparto sono contenuti due ulteriori documenti: il codice in materia di protezione dei dati personali e le informazioni per il rilascio della cartella clinica. Quanto al primo documento è importante sottolinearne un aspetto: è esplicitamente previsto che il paziente possa “opporsi in tutto o in parte per motivi legittimi al trattamento dei dati che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta”. Sottolineo l’esistenza di questa clausola perché, durante un’intervista, la coordinatrice del corpo infermieristico sottintende che il paziente non abbia in effetti altra scelta che acconsentire al trattamento dei propri dati: Parlando dell’informativa di reparto: “poi bè contiene un documento con tutto il 135 discorso della legge sulla privacy che è obbligato a dare..” Quanto all’altro documento citato, esso spiega come il paziente possa richiedere una copia della propria cartella clinica una volta dimesso dal reparto. La cartella clinica è, di per sé, un artefatto molto interessante. Da circa due anni, nel Policlinico, la cartella è “unica”: questo significa, da un lato, che la cartella è uguale e standardizzata in tutti i reparti; dall’altro che essa è una sola per ogni paziente e contiene tanto i documenti di competenza medica quanto la documentazione infermieristica. “Questo vuol dire che la cartella clinica segue il paziente in qualsiasi reparto dell'ospedale in cui venga trasferito, non se ne apre una nuova ad ogni trasferimento ma si inserisce tutto nella stessa cartella. La cartella deve seguire il paziente, queste sono le regole”. (Da intervista a medico) Si ricordi che, durante la degenza, il paziente non ha diritto a visionare la propria cartella clinica. Questo dato è stato oggetto di discussione con la caposala durante la già menzionata intervista sul campo. Io: “I pazienti hanno accesso alla cartella clinica durante la degenza?” Caposala: “No no assolutamente, non possono guardare la loro documentazione.” Io: “Come mai?” C: “Penso che sia proprio un discorso di.. come dire... segreto professionale. Perchè è vero che tu stai gestendo una persona e gli devi dire quello che gli sta succedendo, però lui non è autorizzato a vedere la tua documentazione. La vede solo alla dimissione. Penso che ci sia proprio una legge che...legato penso anche a un conflitto nel senso che poi uno vede scritta una cosa..è come se.. è come se lui potesse vedere a libro aperto tutto quello che gli sta succedendo, invece tu devi filtrare.” Io: “Ho capito.”. C: “Non puoi andare lì a dirgli “Ah oggi lei ha la CPK così” piuttosto che... ci sono diversi modi di... poi immagina che noi siamo responsabili della documentazione, figurati se 136 anche il paziente può accedere siamo rovinati... parenti e pazienti.. No, la documentazione rimane nostra però il paziente può richiederla al momento della dimissione” Esistono a mio avviso molti modi di analizzare ed interpretare il senso della conversazione appena riportata: se da un lato è corretto pensare che la normativa tuteli il paziente dal trovarsi in balia di dati che non sarebbe in grado di decifrare (a causa dell’inaccessibilità del linguaggio) e che potrebbero quindi metterlo in una condizione di disagio, dall’altro è impossibile non notare la ricorrenza della dimensione del possesso, discussa nella precedente sezione dell’analisi. L’uso frequente dei possessivi, il ricorrere del tema della responsabilità, la scelta delle parole (“siamo rovinati”, “assolutamente no”) sembrano ricondurre ad una rappresentazione di paziente come di un soggetto avido di informazioni ma incapace di comprenderle, e perciò potenzialmente in grado di compromettere il funzionamento organizzativo. Si intravede qui un elemento a sostegno di un’ipotesi che verrà esposta nei prossimi paragrafi e che in questa sede mi limito ad accennare. Sotteso a molte procedure standardizzate del reparto, potrebbe esistere una doppia finalità, ossia un duplice scopo protettivo: da un lato, nel dichiarato, le norme che regolano il processo di cura servirebbero a proteggere il paziente ed a tutelarne i diritti, dall’altro tali normative potrebbero essere finalizzate a difendere i professionisti ed il reparto stesso dal paziente e dai suoi potenziali “attacchi”. Sul doppio registro della funzione protettiva delle norme e delle pratiche si tornerà quando verrà affrontato il tema dell’equipe multi-professionale. Nonostante la lunga divagazione, è parso opportuno riportare in questa sede le osservazioni in merito alla percezione di proprietà del materiale documentale del paziente. Tali osservazioni, infatti, fanno luce sulle modalità di utilizzo di artefatti cruciali nell’esperienza di ospedalizzazione dei degenti. Torniamo ora all’analisi degli altri documenti selezionati. “Il percorso del paziente ed il lavoro in team”: a differenza dell’informativa di reparto, 137 questo documento, prodotto dall’Unità Operativa, è ad uso interno; esso è presentato come un protocollo che “ha lo scopo di illustrare il percorso riabilitativo dei paziente degente nel reparto di Medicina Fisica e Riabilitazione e l’organizzazione del lavoro Dell’Equipe Riabilitativa (EQR). Esso è destinato a tutto il personale dell’Unità”19. La produzione del documento è seguita ad un’azione di miglioramento intrapresa da un gruppo di lavoro interprofessionale a cui hanno partecipato le rappresentanze di tutti gli operatori di Unità. A sottolinearne la rilevanza, riconosciuta in prima persona dalle figure di coordinamento, è la descrizione del protocollo come del “documento emblema del nostro reparto” (Da intervista a Caposala). Lo sforzo costante che sottende l’intero protocollo è quello di esplicitare, standardizzare e formalizzare il più possibile il percorso del paziente dal momento del ricovero a quello della dimissione ed i principi regolativi dei momenti di team. “Negli ultimi anni numerosi studi hanno evidenziato le importanti difformità esistenti nel percorso del paziente concludendo che percorsi di cura strutturati e procedure standardizzate sono utili per migliorare la pianificazione, la continuità assistenziale e l’efficienza, per ridurre il consumo di risorse, diminuire le eterogeneità di comportamenti, facilitare l’introduzione di linee guida e lo sviluppo di attività di audit”. L’artefatto rappresenta la concretizzazione di una rilevante presa di coscienza da parte dell’organizzazione: quella che vede, nel valore aggiunto delle cure erogate dal reparto, la connessione e la messa in comune dei diversi apporti professionali alla presa in carico del paziente. In altre parole, nel protocollo si cristallizza lo sforzo organizzativo di fondare le attività del reparto sull’integrazione multi - professionale. “La presa in carico dei pazienti è di tipo “globale” e sottintende una forte integrazione tra fisioterapisti e operatori del reparto, medici e infermieri. Per ogni paziente viene predisposto un “progetto” riabilitativo personalizzato ed attuati “programmi” 19 Qualora non sia riportata esplicitamente un’altra fonte, le citazioni riportate a descrizione del documento “Il percorso del paziente ed il lavoro in team” sono tratte dal testo del documento stesso. Le sottolineature sono state aggiunte posteriormente, mentre le scritte in grassetto sono tali anche nel documento originale. 138 riabilitativi specifici. La metodologia di lavoro in equipe prevede incontri strutturati degli operatori per monitorare il programma in corso, stabilire i nuovi obiettivi e predisporre un piano di dimissione razionale condiviso con il paziente e la famiglia.” Si vede come, anche in questo caso, ricorrano le importanti dimensioni Patient Centred della personalizzazione e della partecipazione attiva di pazienti e familiari al processo di cura. Per progetto riabilitativo individuale (PRI) “si intende un insieme di proposizioni elaborate per un determinato paziente che tiene conto in maniera globale dei bisogni del paziente e delle sue preferenze, delle menomazioni, disabilità e abilità residue e recuperabili; definisce gli esiti desiderati; definisce nelle linee generali i tempi previsti, le azioni e le condizioni necessarie al raggiungimento degli esiti; costituisce il riferimento per ogni intervento svolto dall’equipe riabilitativa”. Inoltre, il documento descrive (prima) e schematizza (poi) il percorso riabilitativo del paziente e le modalità di lavoro in Equipe. Al secondo tema sarà dedicato un paragrafo a sé. Quanto al primo, ne riportiamo qui una sintesi, utilizzando le stesse etichette riportate nel protocollo per la descrizione di ogni fase: 1) Accettazione – accoglienza: il primo giorno di degenza è dedicato alla accoglienza e presa in carico da parte di medici e infermieri. Al paziente viene affidato un posto letto da parte dell’infermiere Case Manager (CM), il quale effettua una prima valutazione del paziente in merito agli aspetti comportamentali, allo stato di coscienza ed all’autonomia nello svolgimento delle attività di vita. Il medico visita il paziente e stende il progetto riabilitativo individuale. Il secondo giorno avviene la presa in carico da parte dei fisioterapisti. Congiuntamente, fisioterapista e infermiere si recano al letto del paziente e valutano la mobilità del paziente, la postura ed eventuali ausili necessari. “L’idea è di avere uno scambio di informazioni anche se sommario che dia alle due figure (…) un’idea rispetto alle sue condizioni di partenza (…) alle sue limitazioni” (Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti) In queste fasi è previsto uno scambio di informazioni con il paziente ed i familiari in 139 “colloqui informali”. 2) Condivisione e socializzazione del progetto riabilitativo: dopo tre ed entro cinque giorni dal ricovero del paziente viene programmato il team individuale. A tale incontro strutturato partecipano il medico fisiatra, l’infermiere Case Manager ed il fisioterapista di riferimento del paziente; il team ha lo scopo di condividere in modo sintetico e veloce (15-20 minuti) i problemi del paziente e di delineare i principali obiettivi previsti. Lo strumento utilizzato in tale riunione è la scheda individuale, di cui si parlerà in seguito. Gli informatori ascoltati durante le interviste sono unanimi nel confermare che, salvo casi eccezionali, né il paziente né i suoi familiari sono presenti a questo team. 3) Realizzazione dei programmi riabilitativi: vengono quindi avviate le procedure assistenziali – riabilitative, i programmi di educazione terapeutica, il training al paziente e care giver, eventuali incontri con paziente e famiglia di informazione e condivisione. 4) Monitoraggio – valutazione: durante la degenza, vengono regolarmente verificati il raggiungimento degli obiettivi e l’adeguatezza dei programmi e dei processi previsti. Tale monitoraggio avviene soprattutto in un particolare momento strutturato: il team settimanale. Ad esso partecipano la caporeparto, i due medici strutturati di ogni ala del reparto, i due infermieri CM responsabili di ogni ala, il coordinatore dei fisioterapisti, il logopedista (al bisogno) e l’assistente sociale (al bisogno). In tale riunione lo strumento utilizzato è la scheda settimanale, compilata dalla caporeparto. 5) Dimissione – restituzione del paziente: è una fase cruciale del percorso “che deve essere preparata con anticipo in accordo con il paziente e la famiglia”. In questa fase sarà consegnata al paziente la lettera di dimissione a cui si allega il report della scala BIM (spiegato in seguito). Verranno discusse le necessità assistenziali riabilitative alla dimissione ed eventuali accordi con territorio e con il medico curante per garantire la continuità assistenziale. 140 La puntuale proceduralizzazione del percorso del paziente fa pensare al riconoscimento, da parte dell’organizzazione, dell’importanza di standardizzare le pratiche al fine di garantire un positivo processo di cura. Quanto ad ulteriori dimensioni Patient Centred, mi sembra importante sottolineare la previsione di dispositivi finalizzati a garantire al paziente un efficace reinserimento nel proprio contesto di vita (considerazione dell’intera persona, continuità assistenziale). Rispetto però alla perizia con cui è strutturato il passaggio di informazioni tra i membri dell’equipe riabilitativa, lo scambio di informazioni tra professionisti e pazienti/ familiari sembra non aver diritto ad un’analoga proceduralizzazione. Le riunioni tra pazienti e familiari, tanto durante la degenza quanto alla dimissione, non sono infatti momenti formalizzati, ma vengono attivati al bisogno. “Solo nei casi clinicamente più complessi sono previste riunioni di tutti i componenti della EQR con la famiglia. Solitamente dopo la valutazione il medico fisiatra di riferimento si fa carico di informare circa la diagnosi e i trattamenti necessari, analogamente anche gli altri operatori informano il paziente sugli aspetti di loro competenza.”A questo proposito è interessante sottolineare che, parlando delle riunioni tra paziente/famiglia ed equipe riabilitativa, il medico le descriva come momenti richiesti dai professionisti per avvisare di eventuali problematiche insorte nel progetto riabilitativo (aggravamento della situazione internistica, sopravvalutazione delle potenzialità e necessario ridimensionamento degli obiettivi, etc.), mentre il coordinatore dei fisioterapisti sostenga che tali riunioni siano più spesso richieste dai familiari stessi. Si può ipotizzare che questa diversa rappresentazione derivi dalla differente distanza dal paziente che connota le esperienze dei medici e quelle dei fisioterapisti, essendo questi ultimi probabilmente più esposti al vissuto ed alle aspettative dei malati e dei loro cari. Di questo ed altri argomenti affini si parlerà nel paragrafo 4.3.3, quando si approfondirà il tema della rete attorno al paziente. Scheda dei team individuale e settimanale: i due documenti sono stati pensati come un supporto alla condivisione degli obiettivi iniziali (il primo) ed al monitoraggio del loro raggiungimento durante il processo di cura (il secondo). La loro compilazione 141 avviene durante i team (individuali e settimanali). La differenza fondamentale, a livello di soggetti che partecipano alla loro compilazione, riguarda soltanto la categoria professionale dei fisioterapisti: mentre a stendere gli obiettivi iniziali sarà, insieme al medico ed all’infermiere CM di riferimento, il fisioterapista che si occupa del paziente, a monitorarne il raggiungimento nel team settimanale sarà invece il coordinatore del fisioterapisti, il quale “porta la voce” del fisioterapista suddetto. In entrambe le schede gli obiettivi sono categorizzati in sei classi: stabilità internistica, competenze comunicativo - cognitive, funzioni senso - motorie, mobilità - trasferimenti, autonomia nella cura di sé, riadattamento ed inserimento; si può notare come alcune aree siano prettamente di competenza medica mentre altre chiamino in causa la professionalità di infermieri, fisioterapisti o logopedisti. BIM (Barthel Index Modificato): come il protocollo del percorso del paziente e lavoro in team, si tratta di un documento ad uso dei professionisti. In questa sede non si vuole descrivere il protocollo in sé (che consiste in una guida per gli operatori alla compilazione della scala Barthel) ma si vuole invece sottolineare la rilevanza che assume il report con scala Barthel nella restituzione finale al paziente. Il Barthel Index include dieci dimensioni relative alle attività primarie nella cura di sé; ciò che misura è il livello di indipendenza del paziente nel loro svolgimento. Lo score di punteggio è una scala da 0 a 20 con incrementi di 1 punto (ad ogni area può essere assegnato il punteggio di 0/1/2/3). Il massimo punteggio per ogni area rappresenta il “peso” con cui quell’area contribuisce al punteggio totale. La scala Barthel viene compilata all’ingresso (tra il secondo ed il quarto giorno di degenza) ed all’uscita del paziente (durante gli ultimi tre giorni prima della dimissione); della sua compilazione sono responsabili infermieri e fisioterapisti (ognuno relativamente ad alcune delle dieci aree, come indicato a lato di ogni area). Segue uno stralcio del Barthel Index che ne esemplifica la struttura. 142 Stralcio di BARTHEL INDEX Figura 4.1 Alla luce della presente analisi ciò che è rilevante è che i risultati della compilazione del BIM portano alla configurazione di un istogramma che raffigura efficacemente i miglioramenti registrati dal paziente durante la degenza in ospedale per ogni area di funzionamento. Tale istogramma, completo di report esplicativo, viene restituito al paziente alla dimissione. L’artefatto è di facile comprensione per i pazienti e dà quindi loro la possibilità di avere una visione complessiva degli effetti del processo di cura. 143 REPORT BARTHEL INDEX Figura 4.2 144 Lo sforzo di consegnare al paziente una restituzione finale che egli sia in grado di comprendere e che a sua volta lo metta in grado di valutare il processo sembra costituire un indizio rilevante della presenza di un orientamento Patient Centred. 4.4.1.2 Oggetti e Spazi Nel parlare della dimensione spaziale come elemento organizzatore della relazione tra professionisti e pazienti, sono stati menzionati la funzione dichiarata e l’uso effettivo di molti artefatti del reparto: le tendine attorno al letto del paziente, il bagno, le porte (e la libertà di attraversare i confini che queste demarcano), la gestione degli spazi di vita del degente in generale. Alcuni artefatti rilevanti ai fini dell’analisi della cultura Patient Centred non sono tuttavia stati ancora menzionati. In reparto è presente un armadio in cui vengono tenuti dei vestiti di riserva per eventuali pazienti che ne avessero bisogno. Questo artefatto sembra emblematico perché veicola il messaggio che il reparto abbia imparato a farsi carico del tipo di problemi dei suoi specifici pazienti. In corridoio c’è una signora (paziente) vestita in modo strano, avvicinandomi noto che ha addosso molte coperte tenute insieme da delle spille da balia. L’infermiera chiede: “Avete trovato i pantaloni per lei?” una OSS dice di no. Infermiera: “Vado a vedere io”. Mi spiega che in un armadio tengono dei vestiti di riserva per eventuali pazienti che ne avessero bisogno. (…) L’infermiera va in guardiola, prende il telefono e chiama la palestra, avvisa che c’è una paziente che sta andando in palestra che non ha addosso i pantaloni e in reparto non hanno trovato un paio da prestarle a causa della sua taglia. Parla della situazione sociale - abbastanza compromessa - della paziente, dice che ha fatto mandare a casa gli unici pantaloni che aveva. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Anche durante le interviste alle figure di coordinamento è emerso più volte il tema della complessità della situazione sociale che spesso caratterizza i degenti. La presenza 145 di vestiti dedicati ai pazienti che ne fossero rimasti sforniti è segno di un apprendimento organizzativo costruito sulla base dell’esperienza. Oltre che oggetti concreti, anche la progettazione e l’utilizzo di spazi formalmente dedicati a degenti e famiglie sono artefatti che occorre tenere in considerazione nell’indagare la centratura sul paziente. Come si può vedere dalla piantina di reparto (p. 79), tra le due guardiole infermieristiche si incontra una sala piuttosto grande: il soggiorno di reparto. Nel soggiorno sono presenti due ampi divani, due lunghe scrivanie con varie sedie, una televisione, un frigo. Su quest’ultimo è affisso un foglio che riporta la scritta “FRIGO PER UTENTI” e le regole per il suo utilizzo (allegare un post-it con il proprio nome o numero di letto al cibo che si conserva nel frigo comune). Durante le sessioni osservative negli spazi del reparto, ho ipotizzato che il soggiorno rappresenti uno spazio di socializzazione molto più per i familiari che per i pazienti, i quali invece passano la maggior parte del loro tempo nelle loro camere. Capita invece frequentemente che i familiari utilizzino lo spazio del soggiorno per aspettare di poter visitare i loro cari; in queste occasioni ho spesso osservato l’insorgere spontaneo di conversazioni. Nota teorica Mi sembra che il salotto funzioni molto bene come spazio che garantisce la possibilità di scambi confidenziali tra i familiari dei pazienti, scambi all’insegna della condivisione di esperienze. Mi capita infatti spesso di vedere parenti che arrivano in reparto molto prima di quando effettivamente possono vedere i pazienti. (Da osservazione nel corridoio di reparto) A proposito degli spazi dedicati al paziente ed ai suoi cari, è interessante riportare le affermazioni di un medico: Il medico mi dice che riguardo agli spazi pensati e dedicati al paziente il loro reparto non è dei migliori rispetto ad altri reparti di riabilitazione più moderni. Dice che secondo lui non andrebbe lasciata alla discrezione dei pazienti la scelta di socializzare o meno, 146 ma anzi che la socializzazione dovrebbe essere attivamente incentivata, per esempio creando delle sale da pranzo, dove i pazienti mangino insieme e possano condividere i loro problemi. (Da osservazione – Shadowing di un medico) In effetti, data la sua ampiezza, il soggiorno non riuscirebbe ad ospitare più di otto nove pazienti durante i pasti. Un elemento, apparentemente banale, che però sembra essere molto funzionale al fine di rendere il soggiorno un reale spazio di condivisione è la presenza (tuttavia non stabile) di un piccolo carrello a due ripiani. Sul piano superiore vi si trovano due thermos (uno di tè e uno di caffè d’orzo), alcuni bicchieri di plastica e delle bustine di zucchero. Nel ripiano inferiore del carrellino ci sono alcune confezioni di biscotti e fette biscottate. Dietro ai due thermos si trova un cartoncino con scritto “l'angolo delle coccole”. Quando è presente il carrellino - angolo delle coccole, il soggiorno si popola di molti pazienti che, per esempio al rientro dalla palestra, bevono un tè insieme. In definitiva, il soggiorno rappresenta nel reparto un luogo ricco di potenzialità per lo sviluppo della dimensione “sociale” dell’esperienza di degenza. Sembrerebbe però che il paziente abbia bisogno di oggetti concreti attorno a cui organizzare occasioni di condivisione e socializzazione, e l’angolo delle coccole ne è un esempio lampante. L’inserimento di artefatti con analoghe funzioni potrebbe rappresentare una modalità semplice ed economica per curare gli aspetti appena descritti e migliorare la qualità generale dell’esperienza di degenza. 4.4.2 Il team multi – professionale ed il lavoro di equipe Nella descrizione delle pratiche lavorative del reparto si è potuto apprezzare quanto la dimensione del team sia ricorrente e cruciale. Si è già parlato dei team individuali e settimanali e dei loro rispettivi scopi; ciò a cui è dedicato il presente paragrafo è invece un affondo sul funzionamento ed i principi, impliciti ed espliciti, che caratterizzano la dimensione del lavoro d’equipe. Nell’introdurre questo argomento, può essere utile fare nuovamente riferimento ad artefatti documentali prodotti dal reparto di 147 Riabilitazione. Le immagini che seguono sono tratte da un poster appeso in un corridoio del reparto. POSTER DEL LAVORO IN EQUIPE Figura 4.3 Il lavoro in team sottende momenti cruciali della presa in carico del malato ed è definito come ciò, nel concreto, consente di mettere il paziente al centro del processo di cura: si vede come, ai fini della presente ricerca, approfondire il tema dell’equipe e delle pratiche ad esso relative diventa perciò un obiettivo imprescindibile. Un secondo artefatto che può essere d’aiuto nel comprendere come l’organizzazione si rappresenti il funzionamento dell’equipe riabilitativa è il già citato documento del percorso del paziente e lavoro in team, dove si legge: l’ Equipe riabilitativa (EQR) è un gruppo di lavoro composto da professionisti che operano in modo integrato e coordinato insieme alla persona disabile e alla sua famiglia, realizzando gli interventi assistenziali e riabilitativi necessari. E’ composta da professionisti (il medico fisiatra, l’infermiere, l’OSS, il fisioterapista, il logopedista) che, pur autonomi nelle decisioni riguardanti le 148 scelte tecniche, esplicitano e condividono obiettivi comuni attraverso momenti strutturati di confronto. L’ EQR non dovrebbe essere vissuta come un gruppo di persone che lavorano in modo indipendente per curare, in base alle loro competenze, un aspetto specifico della disabilità del paziente. Anche il risultato finale non può essere visto solo come la somma degli sforzi di ogni competenza. L’EQR è intesa come un gruppo di professionisti con differenti competenze che condividono valori comuni e soprattutto lavorano per perseguire lo stesso obiettivo. Si ricordi innanzitutto che le definizioni appena lette sono state formalizzate in documenti ufficiali: ai fini della presente analisi culturale è opportuno sottolineare la decisione organizzativa di diffondere la vision del lavoro in team attraverso alcuni artefatti, uno dei quali è stato definito – non a caso – il “documento emblema del reparto” (Caposala). Si può dire che tanto l’organizzazione formale quanto i suoi portavoce si rappresentino il lavoro d’equipe, quando funzionale e ben condotto, come il reale valore aggiunto del reparto di Riabilitazione. La dimensione della dell’integrazione professionale è ricorrente e si spinge fino all’auspicio di una condivisione valoriale. Non è quindi un caso che, durante le interviste ai coordinatori delle diverse categorie professionali, sia emerso in modo altrettanto frequente il tema della fatica: “Sono momenti faticosi a volte, a volte molte difficili, non sempre si hanno le stesse idee riguardo ai casi.. ma alla fine ne deve uscire qualcosa di non troppo contraddittorio” (Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti) “Il motivo per cui abbiamo congeniato questo protocollo che cerchiamo faticosamente di portare avanti è proprio per la caratteristica del nostro paziente di avere una serie di problemi embricati” (Da intervista a primario) Un altro aspetto formalizzato dell’equipe è il ruolo di conduzione: esso spetta al medico 149 fisiatra. Il Fisiatra svolge il ruolo di conduttore e pertanto deve tendere a creare un clima costruttivo, tutelando la partecipazione di tutti e cooperando attivamente alla gestione di eventuali conflitti attraverso la discussione e il raggiungimento del consenso. (Da documento Percorso del paziente e lavoro in team). Già da queste poche battute, è possibile notare la ricorrenza del tema di eventuali conflitti e disaccordi, e della necessità di risolverli. Questo elemento ci dà la possibilità di approfondire l’ipotesi, soltanto accennata nel paragrafo 4.4.1, del doppio registro di protezione che connota le procedure del reparto. Funzione esplicita del team multi professionale è quella di creare un setting in cui i diversi operatori si incontrino per integrare le rispettive aree di competenza. “È, o per lo meno dovrebbe essere, uno dei momenti di integrazione multi professionale in cui idealmente il paziente è al centro ed ognuno riscontra a che punto è, che margine di lavoro abbiamo” (Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti) Altra funzione del team ampiamente condivisa dagli operatori nelle loro dichiarazioni è quella di “ricentrare il progetto sul paziente” ed arrivare ad una visione comune, o per lo meno ad una negoziazione accettata da tutte le parti in gioco, in modo da poter riconsegnate a pazienti e famiglie una visione univoca. Il team, in definitiva, proteggerebbe il paziente dalle pericolose conseguenze di una comunicazione disgregata e non condivisa da parte dei professionisti. “ll team serve anche per ricentrare il progetto... anche quando non tutti sono molto d'accordo… Bisogna cercare di capirne le motivazioni ma alla fine parlare con una sola voce per non confondere il paziente… Parlare tutti con la stessa lingua”. (Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti) “Quando si è in disaccordo ci si chiuda, si litighi, ma al paziente poi si deve arrivare a dire qualcosa di non troppo contraddittorio” 150 (Da intervista a primario) Le parole dei professionisti forniscono in questo senso una spiegazione alla – più volte menzionata – assenza del paziente e del familiare durante i team: nelle riunioni d’equipe il paziente è sì “al centro”, ma idealmente; se così non fosse, anzi, verrebbe meno la funzione tutelante dei team, cioè quella consegnare al paziente una restituzione informativa univoca e coerente. Alle parole dei professionisti sottende però un’altra funzione dei momenti di equipe: quella cioè di proteggere l’equipe stessa dal paziente. “Al paziente deve arrivare qualcosa di non troppo contraddittorio.. anche perché non per fare un discorso egoistico ma a volte è capitato che per uno stupido malinteso si siano create polemiche e reclami scritti… Capitano pazienti che non aspettano altro che il momento che ci sia una discrepanza tra quello che dicono i diversi operatori per giocarci sopra e approfittarne o per altri motivi…” (Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti) Ecco quindi che il “parlare tutti la stessa lingua” non soltanto rassicura, tranquillizza, tutela il paziente ma è anche la condizione che protegge l’organizzazione dall’essere messa sotto attacco dal paziente stesso. Tuttavia, è possibile affermare che l’equipe multi-professionale del reparto in questione non è dominata da un funzionamento di base del tipo attacco - fuga (descritto da Bion come un assunto che organizza i comportamenti di un gruppo allo scopo implicito di difendersi o aggredire qualcuno o qualcosa da cui si sente minacciato). La dimensione auto-protettiva del team è certo presente, ma almeno in egual misura è presente lo sforzo di evitare al paziente il vissuto di “disgregazione” causato da eventuali incoerenze informative. Nel seguente scambio (avvenuto durante un team individuale) vediamo, ad esempio, come la caporeparto richiami i professionisti a rifocalizzarsi sulla funzione di integrazione multi - professionale del team: 151 (parlando della dimissione di una paziente) Fisioterapista: “bisognerà tenerla un po' eh”. Logopedista: “forse bisognerà avvertire subito i parenti...”. Fisioterapista: “si sì, bisognerà dire subito ai parenti che i tempi saranno brevi perchè altrimenti loro aspettano all'ultimo per organizzarsi, e poi al limite la si tiene un po' di più. Perchè tanto devono organizzare chi la assiste, l'ambiente, la carrozzina.. per me conviene dire a loro che la si tiene da adesso altre 3-4 settimane anche se penso che poi servirà qualcosa di più..” Caporeparto.: “ah, di sicuro servirà di più”. Fisioterapista: “però se noi diciamo che la teniamo 2-3 mesi loro iniziano a muoversi da 4.. la mia paura è quella. Caporeparto: “ sì ma ora parliamo di quello che ci diciamo qui, tra noi, non ai parenti. Poi ai parenti vediamo.” (Da osservazione di un team multi – professionale) Passiamo ora a qualche considerazione conclusiva in merito al funzionamento del team. Come dichiarato nei documenti ufficiali, il medico svolge il ruolo di conduttore: è lui che regola le tempistiche, dà la parola, ricorda gli obiettivi da raggiungere. Se un team è molto breve è quasi sempre perché il medico che lo conduce dispone di poco tempo. Inoltre, coerentemente con quanto esposto nell’analisi del livello rappresentazionale dei medici, anche nei team si osserva come siano quasi esclusivamente questi ultimi a richiamare l’attenzione sugli aspetti post-dimissione dei pazienti. I team hanno rappresentato l’oggetto osservativo principe ai fini dello sviluppo delle ipotesi e delle riflessioni che saranno esposte nel prossimo paragrafo, relative alla rete “informale” e non strutturata che si crea attorno al paziente durante la degenza. Inoltre, durante i team è stato possibile confrontare “in diretta” i diversi registri con cui i professionisti descrivono il paziente: questa possibilità è stata la fonte di preziosi insight per la stesura di tutti i livelli dell’analisi. 152 4.4.3 Fare rete attorno al paziente Nei precedenti paragrafi si è visto come gli artefatti, le pratiche e le procedure formalizzate all’interno del reparto di Riabilitazione siano accomunate dall’esplicito obiettivo di porre il paziente come fulcro e baricentro del processo di cura. L’obiettivo di questo paragrafo è quello di riflettere su aspetti meno strutturati dell’organizzazione; ci si chiede quindi in che misura le politiche e gli artefatti Patient Centred siano un antecedente per il buy in dei professionisti nella causa. La centratura sul paziente, come si è spesso ricordato, non consiste in un piano d’azione né è una lista di procedure da implementare. Si tratta invece di un cambiamento culturale che richiede il coinvolgimento e l’impegno a lungo termine di tutti i livelli dell’organizzazione oltre che la generale disposizione ad accettare quotidianamente nuove sfide (Frampton et al., 2008). Ci si chiede, in sostanza quanto la mission – dichiarata ed esplicita – di mettere il paziente al centro sia perseguita dagli operatori anche al di fuori dei vincoli e delle normative formalizzate. Per cercare di rispondere a tale quesito si prenderanno in considerazione i momenti della vita organizzativa non scanditi o regolati da procedure ufficiali. Consideriamo, ad esempio, come avviene la comunicazione interprofessionale al di fuori dei momenti di team. Un aspetto comune a tutti i professionisti è quello di rappresentarsi chiaramente il fatto che la cura del paziente sia garantita dalla funzionalità del sistema, cioè dalla rete che si costruisce attorno a lui. “La caratteristica del nostro paziente è di avere una serie di problemi embricati che richiedono professionisti, non solo medici e specialisti, ma anche non medici, che devono lavorare insieme per gli stessi obiettivi” (Da intervista a primario) Si è detto che, salvo casi specifici, non sono previste riunioni strutturate tra pazienti, familiari ed equipe riabilitativa: salvaguardare la comunicazione con il paziente durante la sua giornata (tra le corsie del reparto) diventa quindi cruciale. 153 (C'è un momento in cui il paziente vede i professionisti tutti insieme?) Sì, nei colloqui se avvengono ma spesso anche quotidianamente perchè capita che il Case Manager vada in palestra a vedere come si muove il paziente o capita che siano i colleghi (fisioterapisti) ad andare in reparto a far vedere come si comporta… Il medico fisiatra va in palestra e quindi certe cose le sa già, ne ha già parlato con il terapista.. (Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti) La rete attorno al paziente non si realizza quindi soltanto negli scambi a cui egli partecipa in prima persona, ma consiste anche nelle comunicazioni non strutturate tra i diversi professionisti durante il processo di cura. È attraverso questa rete informale che i professionisti si scambiano informazioni cruciali per la garanzia di un processo di cura integrato. A questo proposito, si vede come gli infermieri si mettano molto spesso in comunicazione (telefonica o face to face) con i fisioterapisti per avvisarli con anticipo di eventuali problematiche o cambiamenti relativi al transito dei pazienti in palestra. Altrettanto frequentemente, sono i fisioterapisti a riaccompagnare i pazienti alle loro camere oppure a recarsi in reparto per controllare la loro situazione qualora siano stati segnalati dei problemi. “L’infermiera vede una OSS e le dice di avvisare la moglie di un paziente che questa mattina ha la palestra alle h 8.00. L’infermiera va a chiedere al paziente in questione cosa vuole per colazione, poi avvisa la OSS, in modo che gliela possa portare (dopo la palestra, immagino). Arriva in guardiola il Coordinatore dei Fisioterapisti e ricorda all’infermiera che c’è il paziente X che deve andare in palestra alle 8.00, l’infermiera risponde che lo sa e ha già avvertito la moglie” La figura degli OSS, che non è stata presa in analisi nella presente ricerca in quanto maggiormente impegnata nell’assistenza dei professionisti che in quella dei pazienti, svolge un ruolo comunque importante per garantire il buon funzionamento della rete e degli scambi comunicativi. Dalle osservazioni è emersa poi la presenza di un’intensa comunicazione tra la 154 categoria dei medici e quella degli infermieri. Quando sono i primi a stimolarla, l’obiettivo è quasi sempre quello di ottenere informazioni su alcuni parametri “infermieristici” della situazione del paziente (febbre, evacuazioni, autonomia nell’alimentazione, accettazione o meno delle terapie previste). Quando invece sono gli infermieri a recarsi nella guardiola medica, le comunicazioni riguardano quasi sempre una consulenza in merito ad alcune decisioni per le quali è ritenuto necessario ascoltare il parere dei medici. L’infermiera sta compilando la scheda infermieristica di una paziente appena ricoverata, dice ad una specializzanda: “Io alla (nome paziente) ho tirato su solo una sponda del letto.. non le tirerei su anche l’altra anche se nell’altro ricovero le aveva su tutte e due, questa cosa è da pensare un po’.. per il rischio cadute.. adesso lo chiedo alla dottoressa M.” (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Gli scambi tra fisioterapisti e medici sono meno frequenti, ma occorre tenere conto che essi hanno luogo anche in palestra, oltre che all’interno del reparto. Gli scambi comunicativi più assidui, infine, sono di tipo intra-professionale e si verificano all’interno della categoria degli infermieri, tanto in momenti prestabiliti della giornata (ad esempio, al cambio di turno – circa alle h 13.00 – in cui l’infermiere Case Manager aggiorna gli infermieri del pomeriggio sulla situazione dei pazienti) quanto durante lo svolgimento del turno stesso. In corridoio, davanti alla guardiola, l’infermiera B. dice a infermiera S.: “Grilli ti dice qualcosa?”, infermiera S.: “no”. Infermiera B: “e Ceteri”?”, infermiera S.: “quello sì, ma non è mio”. Infermiera B.: “sai che ha l'ecocardio stamattina?” (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera) Gli scambi informativi di cui si è parlato impattano sulla vita quotidiana del paziente non meno di quanto non lo facciano gli aspetti clinici e più specificamente assistenziali: 155 è per questo motivo che, nel considerare l’esperienza vissuta dai malati durante la degenza, occorre tenere i considerazione anche la funzionalità della rete informale. È possibile ipotizzare che questa rete svolga un’importante funzione tutelante per il paziente, senza che in ciò si intraveda la stessa ambivalenza (doppio registro della finalità protettiva, si veda il paragrafo 4.4.2) che sembrava connotare alcuni artefatti e pratiche formalizzate. La rete garantisce, ad esempio, che gli interessi del paziente non siano messi in secondo piano rispetto alle priorità di alcuni membri dell’organizzazione: Una specializzanda riferisce al medico che lo specialista che ha appena chiamato che dovrebbe venire in reparto per effettuare una consulenza forse non verrà, poiché è presente una sola prenotazione di consulenza per oggi e lo specialista non si vuole spostare per così poco... Medico: “ma che discorso è? Noi teniamo qui il paziente una settimana in più perché loro non vogliono venire per una consulenza? Aspetta che richiamo”. È anche possibile, tuttavia, che la rete a sostegno della comunicazione interprofessionale fallisca nel suo scopo. Il seguente estratto mostra le conseguenze che tale fallimento può avere nell’esperienza del paziente: Racconto di una fisioterapista Il paziente si è fratturato il femore (…) viene ricoverato ed operato. Nell’intervento sono state applicate delle viti all’osso che però il chirurgo non è riuscito ad avvitare fino in fondo perché, al farlo, si creava una frattura nell’osso del paziente che aumentava progressivamente di lunghezza. Per questo motivo il paziente avrebbe dovuto stare più tempo a riposo di quanto viene previsto normalmente. A causa però di una mancanza di comunicazione o di un fraintendimento tra i due chirurgi ortopedici che hanno in cura il paziente (quello che effettuato l’operazione ed un altro, che evidentemente invece gli dava istruzioni in merito alla riabilitazione), avviene un incidente. Il paziente dopo l’operazione fa i primi tentativi di camminare con il girellino seguendo le istruzioni di uno dei due ortopedici, ma quando viene visto dall’altro (quello che ha operato) viene 156 bruscamente avvertito che sta mettendo in grave pericolo la sua ripresa in quanto le viti non sono state saldate. La fisioterapista dice: (al chirurgo) “gli sono schizzati gli occhi fuori dalle orbite .Al paziente sono stati fatti fare grossissimi passi indietro nel percorso riabilitativo, gli hanno requisito gli strumenti e dato ordine di non camminare per un po’”. Il percorso ora procede anche se con molta cautela. Il paziente però, comprensibilmente, si è molto spaventato per l’accaduto, perché ha temuto di aver compromesso le proprie possibilità di recupero ed aver peggiorato la situazione della frattura. In seguito gli è stato assicurato che non è così, ma nonostante questo il paziente ha ancora abbastanza paura ed si mostra titubante durante gli esercizi di riabilitazione. (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista). In definitiva, il fatto che i professionisti si rappresentino l’importanza cruciale della funzionalità della rete è sicuramente un indizio della loro volontà di tutelare il paziente ed il suo percorso di cura; si tenga conto infatti che, al di fuori dei momenti di equipe strutturati e formalizzati, l’efficacia delle rete dipende massimamente dai loro sforzi congiunti. Se decidessimo di rappresentare graficamente la rete, uno dei primi problemi che dovremmo affrontare sarebbe quello di stabilire a che distanza dal paziente si posizionano le diverse categorie professionali. L’esperienza di degenza dei malati è infatti connotata da una grande variabilità nelle occasioni di incontro con gli operatori; altrettanto variabile è il livello di accessibilità che li caratterizza. Nell’analisi del livello relazionale abbiamo avuto modo di descrivere il tempo come un marcatore di possibilità e vincoli per la relazione tra professionisti e pazienti; adottando invece la prospettiva organizzativa, il tempo delle interazioni diventa un fattore che differenzia la distanza e la posizione degli operatori relativamente al paziente. Gli infermieri, ad esempio, sono la categoria professionale che condivide maggiormente il tempo e lo spazio di vita con i pazienti; essi, inoltre, sono massimamente accessibili al paziente, a differenza dei medici (che non possono essere contattati direttamente dai malati). Gli infermieri, essendo spesso fisicamente presenti nei corridoi e nelle stanze di reparto, rappresentano anche l’interfaccia principale tra il reparto ed i familiari. 157 Un signore arriva davanti al vetro della guardiola infermieristica: “Sono il figlio di X, mi sa dire dove posso trovare l'assistente sociale?” chiede a un'infermiera che è dentro la guardiola. L'infermiera gli risponde che la può trovare dalle 12 in poi e gli dice che il suo studio è fuori dal reparto a sinistra. Familiare: “posso andare subito?” Infermiera: “provi ma di solito c'è tra le 12 e le 12.30” (Da osservazione in guardiola infermieristica) In definitiva, in un’ipotetica rappresentazione della rete attorno al paziente, la categoria professionale degli infermieri sarebbe quella a lui più prossima. I medici si caratterizzano invece per una condivisione minore del tempo e dello spazio di vita dei malati, oltre che per una minore accessibilità. Inoltre, data la presenza costante degli specializzandi durante le visite, accade molto raramente che medico e paziente abbiano la possibilità di incontrarsi privatamente; è facile immaginare che questo vincolo abbia rilevanti ripercussioni sulla vicinanza – lontananza dal medico percepita dai pazienti. Una possibile conseguenza di quello che, durante le osservazioni, è stato soprannominato l’effetto “branco” (la presenza costante, a seguito del medico, di circa cinque specializzandi) è anche la possibile sensazione di overwhelming provata dai pazienti durante le visite svolte collettivamente. “Mentre il medico visita la paziente e le parla, una specializzanda deve prendere la pressione. Dice alla paziente “Braccio…”, la signora però sta ascoltando il medico. Specializzanda incalza: “Signora, braccio!”, la paziente ora la sente e le porge il braccio, mentre il medico le sta ancora parlando. (Da osservazione – Shadowing di un medico) Ai fini della presente riflessione, comunque, basti dire che il confine tra il mondo dei medici e quello dei pazienti sembra essere maggiormente impermeabile, così come maggiore è la distanza che li separa. Quanto ai fisioterapisti ed alla loro posizione relativa nella rete attorno al paziente, si può dire che il confine che delimita tale 158 categoria professionale si connoti per un livello intermedio di permeabilità (non sono così accessibili ai pazienti come gli infermieri ma nemmeno così lontani come i medici). Appare inoltre necessario dedicare una breve riflessione al concetto di presa in carico del paziente ed a come questa è descritta da alcuni operatori. “Il paziente entra e dopo essere stato visto dal medico viene preso in carico, è un momento che noi chiamiamo accoglienza. Durante l’accoglienza al letto del paziente l'idea è di avere uno scambio di informazioni anche se sommario che dia alle due figure principalmente interessate alla presa in carico del paziente un’idea rispetto alle condizioni di partenza”. (Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti) Sembrerebbe, leggendo queste parole, che il medico visiti e consegni una diagnosi, ma che non sia di fatto coinvolto nella presa in carico del paziente, che viene rappresentata come compito degli operatori che hanno una “manualità diretta” sul paziente e che si occupano degli aspetti della sua quotidianità. Coordinatore dei fisioterapisti: “sì perchè la presa in carico di un nuovo paziente in questa divisione è un qualcosa che non è solo riabilitativo fisioterapico ma è soprattutto infermieristico” Primario: “..medico e infermieristico..” Coordinatore dei fisioterapisti: “eh si, medico anche”. (Da intervista a primario e coordinatore dei fisioterapisti) Infermiera, parlando di una paziente: “poi questa signora qua è continente, cammina.. ma vuole il pannolone e non vuole andare in bagno!” Medico: “è una paziente anche psichiatrica questa...” Infermiera: “lo so, ma la veda lei dottoressa..!” Medico: “ma la vedo io!” Infermiera: “no!..non la vede quando...non la vede!” (decisa, vagamente risentita) 159 Medico: “allora non la vedo...” (ironica) (Da osservazione di un team multi – professionale) Pur considerando che gli scambi riportati risultino da testimonianze parziali e frammentarie di cosa significhi presa in carico del paziente, sembra ricorrente una sorta di esclusione del medico da alcuni aspetti che la caratterizzano: il medico visita, l’infermiere accoglie; il medico diagnostica, il fisioterapista accompagna; i medici decidono, gli altri prendono in carico. Il reparto di Riabilitazione Schema 4.6 LA RETE ATTORNO AL PAZIENTE: DISTANZE E PERMEABILITÀ DEI CONFINI Nelle osservazioni dei team multi - professionali è stato possibile apprezzare, infine, l’evidente differenza di registri su cui si posizionano gli infermieri rispetto ai medici: l’esperienza che i primi descrivono è estremamente personale, in parte sofferta, sicuramente connotata da una grande vicinanza all’universo dei pazienti, mentre gli 160 interventi dei medici veicolano una sensazione di pieno controllo della situazione. Tutti gli elementi menzionati, in definitiva, contribuiscono a delineare un quadro in cui, immaginando il paziente al centro della rete, i professionisti si posizionano a diverse distanze da quest’ultimo, circoscritti da linee di confine più o meno permeabili. 4.5 Riflessioni conclusive In questo capitolo è stato illustrato ed analizzato un modello multilivello per l’analisi della cultura Patient Centred. Si è visto come ogni “strato” del modello informa una parte fondamentale del funzionamento organizzativo che tuttavia non è isolata o indipendente dalle altre due. Nel descrivere il paziente come oggetto delle rappresentazioni individuali degli operatori, si è detto che i medici ed i fisioterapisti sembrano avere la possibilità di considerare il degente nella sua “tridimensionalità”, ossia di dare rilevanza alle dimensioni sociale e temporale che lo caratterizzano. Gli infermieri appaiono invece come i responsabili del qui ed ora del paziente ricoverato: la loro intensa partecipazione alla vita dei degenti in corsia (a tratti più subìta che gestita) potrebbe precludere la possibilità di vedere nel paziente anche una storia di vita inserita nella complessità sociale. Nell’affrontare il livello relazionale (tra pazienti e staff ospedaliero) si è ipotizzato che esistano norme implicite per la negoziazione e la definizione di proprietà. Tempo, linguaggio, spazio ed accesso al corpo sarebbero gli oggetti su cui tali transazioni si giocano e ricostruiscono quotidianamente. Una delle ipotesi più rilevanti avanzate in questo senso è che i medici, accanto alla loro esplicita funzione, svolgano il ruolo di metaforici guardiani delle informazioni: l’utilizzo di una lingua non sempre comprensibile ai pazienti renderebbe complessa la loro partecipazione ed inclusione nel processo di cura. Gli infermieri si profilano invece, in questo contesto, come - altrettanto metaforici - guardiani dello spazio: le modalità di utilizzo degli artefatti e delle barriere fisiche presenti in reparto fanno pensare ad una volontà di demarcazione del territorio; territorio che, col sedimentarsi di un’intensa compartecipazione – anche emotiva – alla vita di reparto, viene sempre più percepito come di loro proprietà, relegando il paziente alla condizione di “ospite”. Quanto ai 161 fisioterapisti, è importante ricordare le potenti implicazioni emotive della riabilitazione e l’estrema rilevanza della loro gestione ai fini del buon esito del processo di cura: in questo senso, i fisioterapisti si profilano come lo specchio del corpo dei pazienti, essendo questi ultimi impegnati in una terapia finalizzata alla riconquista della propria autonomia e della confidenza necessaria a capitalizzarne i risultati. Infine, nell’analizzare l’ultimo livello del modello interpretativo proposto, si è parlato della grande rilevanza attribuita al lavoro in team ed all’equipe riabilitativa: questo dato ci parla della consapevolezza (nei professionisti) della necessità di garantire al paziente un processo di cura coerente ed integrato. Un’ipotesi da verificare è quella che la dimensione del team sia talvolta utilizzata dagli operatori sanitari in modo difensivo: la disposizione di un setting a cui il paziente non può accedere sembra assumere un’implicita funzione di organizzazione della contro offensiva, a difesa dai potenziali “attacchi” dei degenti verso il Reparto. Tuttavia, tra le funzioni dell’equipe riabilitativa, quella della tutela del paziente e della sua famiglia non passa mai in secondo piano: i professionisti sembrano conoscere i deleteri effetti cognitivi ed emotivi di una comunicazione incoerente e frammentata e l’utilizzo del dispositivo micro-organizzativo del team sembra essere connotato da questa considerazione. Si è visto poi come la dimensione di equipe non si limiti ad esistere nei momenti strutturati ed imposti dall’organizzazione: i professionisti hanno creato un network informale (fatto di scambi di informazioni, passaggi di conoscenze, condivisione di know how ed esperienza) che parrebbe essere finalizzato a garantire l’esistenza di una solida rete di protezione attorno al paziente. Infine, si è ipotizzato che l’organizzazione – Reparto abbia appreso a vedere nel paziente il fulcro del processo di assistenza, come mostrano la quantità di artefatti e simboli che parlano di una esplicita mission Patient Centred; con il passare del tempo sembra essersi sedimentata, nelle pratiche lavorative, una volontà organizzativa di porre il paziente al centro del processo di cura. Tuttavia, tali cristallizzazioni della cultura Patient Centred, a causa di modalità routinizzate del loro utilizzo, non sembrano sempre essere in grado di “diffondersi” al livello delle relazioni operatori – paziente. A questo scopo, potrebbe giocare un ruolo determinante la mediazione delle rappresentazioni individuali che i professionisti hanno dei pazienti. 162 È proprio nelle interazioni tra i tre livelli del modello proposto che è possibile individuare, a mio avviso, la chiave di volta per progettare interventi finalizzati al perseguimento della Patient Centredness nei contesti organizzativi complessi. In questo ambito, nessun cambiamento può essere calato dall’alto o realizzato attraverso l’imposizione di procedure standardizzate. Occorre, invece, ingaggiare le persone: dalla loro volontà e coinvolgimento nella causa dipende la messa in pratica di policies prestabilite ed il rispetto di regole e statuti formalizzati. Infine, dai professionisti sanitari dipende massimamente l’esperienza soggettiva vissuta dal paziente durante la degenza. L’utilizzo del modello multilivello qui proposto ha consentito di esporre in modo coerente i molti ed eterogenei dati raccolti sul campo attraverso gli strumenti della ricerca etnografica. La scelta di avvalersi abbondantemente di verbalizzazioni tratte dai protocolli etnografici ha dato vita ad un’analisi in grado di lasciare intravedere la ricchezza originaria dei dati, permettendo al lettore di avvicinare la realtà sociale indagata e di “toccare con mano” i fenomeni descritti. I tre livelli di complessità hanno chiamato in causa modalità di analisi a volte anche molto distanti tra loro. Si potrebbe dire che lo studio sia stato caratterizzato da uno sguardo a cavallo tra “clinica” e “organizzazione”: a mio parere, è proprio nella possibilità di esplorare questa terra di mezzo con l’adeguata attrezzatura che sta la ricchezza dell’approccio psicologico alla teoria delle organizzazioni. 163 CONSIDERAZIONI FINALI E PROSPETTIVE FUTURE La presente tesi nasce con l’obiettivo di esplorare un territorio scarsamente considerato in letteratura: l’implementazione della Patient Centred Medicine a livello organizzativo, in vista del miglioramento dell’esperienza dei pazienti ricoverati negli ospedali. Il primo capitolo ha permesso di mettere a fuoco la cornice teorica sulla cui base sono state formulate le prime riflessioni ed ipotesi pragmatiche. Nel secondo capitolo sono stati raccolti i contributi, presenti in letteratura, che affrontano il tema dell’applicazione della Patient Centredness al contesto ospedaliero. Grazie a tali contributi è stato possibile intravedere la complessità che connota gli interventi di cambiamento organizzativo nella direzione di una maggior centratura sul paziente. Il capitolo, in particolare, ha permesso di introdurre il tema della dialettica cultura – struttura organizzativa: si è ipotizzato che, ai fini di un processo di cura e di un’assistenza maggiormente Patient Centred, gli interventi a modifica degli aspetti hard degli ospedali siano sì utili, ma non sufficienti a garantire il raggiungimento dell’obiettivo. Gli investimenti strutturali, in definitiva, se non supportati da una cultura Patient Centred, rischiano di svuotarsi di significato e perdere di efficacia. Coltivare e diffondere una cultura Patient Centred, d’altra parte, non consiste nell’introduzione di policies o di programmi discreti; la sua vera essenza è racchiusa nei valori e nelle attitudini che supportano l’implementazione di tali programmi. In assenza di tale visione complessiva, i programmi potranno sì adempiere a specifici obiettivi, ma falliranno nel coltivare un’organizzazione autenticamente centrata sul paziente. È proprio in ragione della rilevanza attribuita alla cultura organizzativa nell’ambito della Patient Centred Medicine che si è deciso di sviluppare uno studio di caso che vedesse in essa il suo oggetto specifico. A questo scopo è seguita, inoltre, l’adozione del metodo etnografico, il quale – come argomentato nel terzo capitolo – più di ogni altro approccio qualitativo permette di valorizzare l’unicità della cultura del contesto scelto. I risultati dello studio sono stati analizzati e discussi nel quarto capitolo; vorrei invece dedicare queste ultime considerazioni ad una riflessione metodologica, dato che alla scelta dell’approccio adottato è seguita una profonda modifica degli oggetti di ricerca 164 ed un parziale ri-orientamento degli obiettivi iniziali. Una prima considerazione riguarda l’ineguagliabile ricchezza delle tecniche etnografiche. Nonostante la mia limitata esperienza pregressa in fatto di fieldwork all’interno della cornice metodologica etnografica, posso affermare che l’osservazione, tecnica principe di questo approccio alla ricerca, pone certamente delle sfide ma offre, al contempo, un universo di nuove possibilità. Fin dai primi giorni di lavoro sul campo è stato chiaro che, quando si parla di Medicina Centrata sul Paziente, fermarsi al livello del dichiarato potrebbe risultare molto limitante – motivo per il quale le sole interviste discorsive non avrebbero portato ai risultati qui discussi. L’osservazione, d’altro canto, permette di valorizzare dimensioni meno “dicibili”, ma altrettanto cruciali per la ricerca in questo ambito. La tecnica dello Shadowing in particolare si è rivelata una fonte di conoscenza di valore inestimabile nell’analisi delle pratiche lavorative dei professionisti sanitari. La metodologia adottata ha dato vita ad un materiale sì ricco e denso di potenziali apprendimenti, ma di difficile gestione ai fini di restituire una sintesi che rispondesse agli obiettivi dichiarati e, soprattutto, che fosse fruibile nell’ambito della presente tesi. I protocolli etnografici, il materiale documentale raccolto, i testi delle interviste sul campo, danno accesso a molti possibili livelli di analisi, addentrandosi nei quali la complessità sembra accrescere in modo esponenziale rendendo assai complessa la restituzione di un “quadro complessivo”. L’individuazione di un principio organizzatore è stata perciò indispensabile. Tuttavia, il tentativo è stato quello di far emergere dai dati stessi, in un processo bottom – up, una griglia di lettura; dal suo utilizzo è risultata la costruzione del modello multilivello descritto nel capitolo precedente. Il presente studio è di tipo fondativo ed esplorativo. A mio avviso, l’analisi ha la potenzialità di dare avvio a fertili riflessioni sulle modalità con cui i professionisti e l’organizzazione stessa si rappresentano il paziente e ne organizzano l’assistenza; inoltre, come spesso sottolineato, il modello presentato offre l’opportunità di soffermarsi sulle interazioni tra i diversi livelli di complessità evidenziati e su come esse diano vita ad ostacoli ma anche a possibilità per il perseguimento della centratura sul paziente. Tuttavia, ai fini di salvaguardare la validità del presente lavoro, è necessario 165 chiedersi se ci sia, e quale sia, la sua utilità pragmatica, nonchè quali linee di ricerca esso apra per eventuali sviluppi futuri. Per quanto credo sia utile sottolineare nuovamente la natura esplorativa della ricerca descritta e la necessità di approfondire il lavoro sul campo al fine di verificare le ipotesi formulate, è mia opinione che un’utilità concreta del lavoro esista, soprattutto nell’ottica della produzione di una conoscenza fruibile per i membri dell’organizzazione. Restituire ciò che è stato osservato ai professionisti impiegati nel reparto potrebbe essere, in altre parole, un modo per ingaggiare gli operatori in un progetto di cambiamento organizzativo partecipato, nonché per avviare un ciclo di produzione di conoscenza a partire dalla rielaborazione della propria esperienza. Nel tentativo di tracciare linee progettuali per il futuro, credo valga la pena sottolineare che, quando si parla di cambiamenti organizzativi in materia di Patient Centredness, l’intervento sarà realmente efficace soltanto laddove una preliminare ricerca sul campo abbia indicato da dove partire: è questo, in effetti, lo scopo ultimo del lavoro qui presentato. Progettare interventi di cambiamento nella direzione della Patient Centredness chiama in causa azioni diverse dalla formazione “a pioggia” o da altri interventi standardizzati: è mia opinione che i dispositivi progettati in tal senso dovrebbero emergere dal contesto indagato, per poi in esso radicarsi. In definitiva, l’esperienza condotta nell’ambito della presente tesi suggerisce che, quando si parla di Patient Centredness, potrebbe risultare idonea l’adozione di un disegno ispirato alla Ricerca – Intervento: soltanto in questo modo è possibile garantire che il cambiamento sperato attecchisca e si diffonda in tutti gli “strati” dell’organizzazione. Si ricordi, a questo proposito, che tanto a livello individuale quanto gruppale, il tema della centratura sul paziente è potenzialmente in grado di mobilitare forti resistenze (si vedano le considerazioni, sviluppate nel capitolo 1, riguardo al difficile superamento del modello biomedico tradizionale): considerare le rappresentazioni degli operatori sanitari sembra essere quindi un passaggio inevitabile, per garantire il quale il progetto di intervento non deve consistere in un’azione sulle ma con le persone. Infine, ci si potrebbe chiedere se sia economicamente sostenibile, in particolare per le strutture sanitarie pubbliche, portare avanti questo tipo di disegni di ricerca. 166 L’interrogativo è certamente aperto, ma è probabile che anteporre una fase di ricerca alle azioni di miglioramento e/o cambiamento organizzativo sia l’unico modo per poter avere una qualche certezza nell’efficacia dell’intervento, nonchè nel fatto che i suoi effetti non vengano rapidamente “rimossi” da difese collettive nate da resistenze al cambiamento. La ricerca etnografica come base dell’intervento organizzativo potrebbe, in definitiva, garantire la profondità dei cambiamenti avviati ed il perdurare dei loro effetti. Le riflessioni riportate in questa sede e nel precedente capitolo non garantiscono né impongono linee d’azione precise, ma hanno il pregio di indicare gli ambiti organizzativi su cui parrebbe più urgente intervenire, al fine di diffondere pratiche e processi di cura che vedano nel paziente il loro baricentro. 167 Bibliografia ABDELHADI N., DRACH-ZAHAVY A. (2011). Promoting patient care: work engagement as a mediator between ward service climate and patient-centred care. Journal of Advanced Nursing, DOI: 10.1111/j.1365-2648.2011.05834.x. AMOVILLI L. (1995). Organizzare qualità. Misurare e pensare la mentalità di servizio. Bologna: Patron. AUSTIN (1987). Come fare cose con le parole. Milano: Marietti. ARGYRIS, C., SCHÖN, D. (1996). Organizational Learning II: Theory, Method and Practice. Addison-Wesley: Reading, MA. ARNEILL B., FRASCA-BEAULIEU K. (2003). Healing Environments: Architecture and Design Conducive to Health. In Frampton S.B. et al. 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