la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 31 AGOSTO 2014 NUMERO 495 Cult La copertina. Se l’arte va in tournée Straparlando. Ruggero Savinio: “Amo lo scuro” La poesia del mondo. I cani di D’Annunzio Scala montagne da quando era bambino e adesso che sta per compiere settant’anni il grande alpinista torna sui suoi passi. Esi racconta ESTATE 1945, TORRI FERMEDA: LA SIGNORA MESSNER INSEGNA A SUO FIGLIO REINHOLD DI UN ANNO A CAMMINARE/© ARCHIV REINHOLD MESSNER Messner Ora scendo GUIDO ANDRUET T O CASTEL FIRMIANO (BOLZANO) «O RA CHE STO INVECCHIANDO, e dopo cinquant’anni di salite, mi sta bene andare anche un po’ in discesa. Con l’età l’unica cosa che aumenta è la ricerca di un po’ di comodità». Alla vigilia dei suoi settant’anni, li compirà il prossimo 17 settembre, Reinhold Messner non sembra affatto turbato dalla prospettiva di invecchiare, sebbene la sua vita sia sempre stata consacrata alle sfide più avventurose e alle ascensioni più impegnative. SEGUE CON UN’INTERVISTA NELLE PAGINE SUCCESSIVE L’attualità. Io e Madiba parla la segretaria (bianca) di Mandela Spettacoli. Io e Nemo, intervista a Mr. Pixar Next. Mai più senza, le invenzioni tutte da inventare RE I NHOL D ME SSNE R R ICORDO UN’ESCURSIONE nel bosco con i miei genitori. Io e Helmut, il mio fratello maggiore. Fintanto che erano davanti a noi non avevo alcun timore. Era tardi, e il tratto di bosco che mia madre aveva appena ereditato, e che i miei volevano visitare per farsi un’idea, era ancora troppo lontano perché potessero raggiungerlo con noi bambini. Così ci lasciarono ad aspettarli sotto un abete. Io e Helmut ci sedemmo l’uno accanto all’altro e osservammo papà scomparire nel nel bosco. Mamma gli era alle spalle. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 31 AGOSTO 2014 32 La copertina. Reinhold Messner La paura? Un bosco di notte. Il dolore? Il Nanga Parbat. La gioia? Arrivare in cima Per il Re degli Ottomila l’ultima fatica è un’autobiografia lunga settant’anni <SEGUE DALLA COPERTINA GUIDO ANDRUETTO P RIMO uomo al mondo a scalare tutti i quattordici Ottomila, e il pri- mo a salire sull’Everest in solitaria e senza ossigeno, l’alpinista sudtirolese, uno dei più grandi di tutti i tempi, ha realizzato tremilacinquecento imprese di cui cento prime ascensioni, oltre ad avere attraversato a piedi il Tibet, l’Antartide, la Groenlandia e i deserti del Gobi e di Taklamakan. Ora, davanti a sé, vede il rifugio dei suoi settant’anni, un nuovo punto di arrivo che lo ha spronato a fare un bilancio della propria esistenza in un libro intitolato La vita secondo me (Corbaccio): settanta capitoli, uno per ciascun valore o sensazione che la montagna gli ha insegnato o trasmesso. Ce ne parla dal suo Castel Firmiano, sopra Bolzano, dove nel cortile di uno dei sei musei dedicati alla montagna che compongono l’itinerario del Messner Mountain Museum, si è appena raccontato intorno al fuoco in una bella serata. Sono in tanti a dirlo: lei settant’anni non li dimostra affatto. «E io dico che questi tanti si sbagliano. È da quando ho cinque anni che scalo montagne. I miei genitori mi hanno portato per la prima volta a fare un’ascensione che ero piccolissimo. Raggiungemmo la cima del Sass Rigais nelle Odle. E avevo cinque anni quando Bonatti, a diciannove, realizzava la sua ascensione dello sperone Walker alle Grandes Jorasses o della parete ovest dell’Aiguille Noire de Peuterey. Quello che voglio dire è che ho fatto tanto nella mia vita. I miei settant’anni me li sento tutti. La montagna è stata la mia seconda casa fin da quando ho imparato a stare in piedi. Non è stata la scuola o la chiesa a formarmi. I miei campanili sono state le torri di roccia e le cime delle montagne». A proposito di Bonatti, qual è il segno più profondo che secondo lei ha lasciato? «La sua prima solitaria invernale lungo una via diretta, sulla parete nord del Cervino, ha sancito la fine dell’alpinismo classico. Dopo il suo esempio la montagna ha rappresentato la possibilità di fare innumerevoli prime esperienze. E quelle esperienze hanno formato anche il mio sapere. Oggi le trasmetto agli altri». Il suo ultimo museo sul Plan de Corones è un omaggio all’alpinismo tradizionale. «Al mio, a quello di Bonatti, di Cassin. Sì, è un bagaglio di valori ed esperienze che si sta perdendo. Per questo ho ritenuto importante mettere in rilievo il potenziale dell’esperienza dell’ultima realtà della natura e così custodire una parte della natura selvaggia della montagna. L’avventura in alta quota presuppone ancora uno spazio libero del pericolo». Dopo una vita tanto avventurosa ha davvero deciso di deporre le armi? «Sono salito fin dove mi è stato possibile. Più in alto e più lontano sinceramente non potevo andare. Adesso non si tratta di non fare nulla perché ho già fatto tutto, ma di dare un senso nuovo alla mia vita nella vecchiaia». © RIPRODUZIONE RISERVATA ALBUM IN SENSO ORARIO: I NOVE FRATELLI MESSNER, LUI È IL SECONDO DA DESTRA; DA RAGAZZO IN ARRAMPICATA; SUL CAMMELLO COL FIGLIO SIMON; DURANTE UNA SPEDIZIONE; CON BONATTI ALL’ERMITAGE DI COURMAYEUR Piùsunon potevo <SEGUE DALLA COPERTINA R EI N H O L D M ESSN ER ENTRE i loro passi si perdevano in lontananza, calò il buio intorno a noi. Non era ancora notte, ma quella luce velata rendeva il mondo che ci circondava più angusto, misterioso e pericoloso a un tempo: ogni scricchiolio, ogni stridio delle ghiandaie sui cembri, persino il brulichio delle formiche ci induceva a stringerci sempre più l’uno all’altro. Aspettammo. Il tempo sembrava non passare mai, e quando si fece notte, i pericoli sembrarono ancora più imminenti. La paura cresceva. Quel che di giorno aveva soddisfatto la nostra curiosità — il vento tra gli alberi sotto la cui chioma ci eravamo seduti, le corse nel bosco, uno scoiattolo — cedeva man mano il posto a un prepotente senso di impazienza. Come se dentro di noi vivessero due entità: una che si svegliava di notte e una che viveva di giorno. Che fosse capitato qualcosa ai nostri genitori? Ma allora perché non tornavano? Saremmo riusciti a trovare la strada da soli? Di notte, e senza ricordarci affatto il dedalo di sentieri che invece i nostri genitori avevano percorso a occhi chiusi? Non avemmo il tempo per parlare delle nostre paure ai nostri genitori. Quando ritornarono all’albero dove ci avevano lasciato a riposare, riprendemmo subito la discesa; mio padre avanti con una torcia tascabile, noi bambini alle sue spalle, e per ultima la mamma. Mi sembrava di percorrere una strada completamente diversa. In quell’occasione avvertii, solo inconsapevolmente forse, che l’orientamento ha a che fare con il “fai da te”. Sapevo già che quando seguiamo M IL LIBRO “LA VITA SECONDO ME” DI REINHOLD MESSNER (CORBACCIO, 336 PAGINE, 6,90 EURO) SARÀ IN LIBRERIA DAL 4 SETTEMBRE. L’AUTORE LO PRESENTERÀ AL FESTIVAL DELLA LETTERATURA DI MANTOVA VENERDÌ 5 ALLE 16 IN PIAZZA CASTELLO gli altri, il senso d’orientamento ci manca: o meglio, ho cominciato a fare attenzione mille volte a quello che non conoscevo, dopo che una volta ho commesso l’errore madornale di non tenere conto di un pericolo. Quando siamo in azione, noi uomini non parliamo quasi per niente. Solo dopo, quando il pericolo è passato, ci torna la parlantina — come una sorta di rinascita. È sciocco colui che nel bosco non fa attenzione alle tracce. Coloro che non si fidano dei segni cui non sono in grado di dare una spiegazione naturale non sono fifoni, bensì persone esperte. Dunque la mia paura, un tipo di “paranoia costruttiva”, non era stata altro che la reazione naturale di un bambino prudente. Se non l’avessi sviluppata presto, non sarei sopravvissuto. Sono rimasto colpito dalla grande prudenza di molti alpinisti. Questo fatto non deve però far pensare che le persone previdenti si blocchino di fronte all’azione. Chi ci pensa due volte prima di osare, non può fare esperienza. Ci sono uomini d’avventura prudenti e meno prudenti. L’uomo prudente soppesa tutti i rischi e agisce di conseguenza. Sa che è rischioso quel che fa, e lo fa comunque. Sempre e con sempre più prudenza. Ma chi non osa, non può neanche fallire. Il rischio di morire rimane sempre. CERCANDO GÜNTHER La tragedia sul Nanga Parbat ha portato a una svolta nella mia vita. Da allora non sono stato più lo stesso. La disperata discesa lungo la parete Diamir, la morte di mio fratello, l’incontro con gli indigeni — sono attimi imposti dal destino, profondamente impressi nella mia memoria più di tutte le esperienze del passato. E ho dovuto imparare a vivere con quel ricordo, che gli altri hanno usato contro di me. E anche a trovare una strada per il futuro. I miei genitori, i miei fratelli e i miei amici volevano che io abbandonassi l’alpinismo; il capo spedizione aveva profetizzato già in Pakistan che a causa dell’assideramento non avrei più potuto arrampicare; qualche “amico” si allontanò da me. Quel periodo di crisi mi ha insegnato che il carattere di un uomo viene fuori più chiaramente quando chi ti sta di fronte è al tappeto. Solo nel novembre nel 1971, quando tornai sul Nanga Parbat per cercare mio fratello, fui consapevole che avrei cominciato una nuova vita. Con una donna forte al mio fianco — Uschi Demeter — riuscii a vivere senza rimuovere la responsabilità di avere perso mio fratello e concedendomi di provare dolore quando mi ritrovavo lì dove avevamo condiviso le nostre grandi avventure. Quando ci ritrovammo a passeggiare tra i banchetti del Rajah Bazaar di Gilgit, quella piccola città nel nord del Pakistan mi incantò con la stessa magia che aveva incantato me e Günther quando l’avevamo visitata prima dell’ascensione del Nanga Parbat. Avevo l’impressione che lui fosse con me. ADESSO NON SI TRATTA DI NON FARE NULLA PERCHÉ HO GIÀ FATTO TUTTO. MA DI DARE UN NUOVO SENSO ALLA MIA VITA NELLA VECCHIAIA I MIEI ANNI ME LI SENTO ADDOSSO TUTTI Cominciai con la ricerca del corpo di mio fratello e con la salita di altri ottomila. Entrambe le cose mi valsero un mare di critiche. Poiché a molti sedicenti idealisti non piacque che una persona gravata dalla responsabilità per il proprio fratello continuasse a dedicarsi alle sue passioni. Intraprendemmo in due una spedizione nella valle del Diamir. Con una Jeep scendemmo lungo il fiume da Gilgit attraverso la valle dell’Indo fino a Gonar. Da lì proseguimmo a piedi. Durante il pomeriggio, con quattro giovani indigeni attraversammo la deserta valle Bunar. A sera giungemmo in un piccolo villaggio all’inizio della valle del Diamir: con i suoi alberi di albicocco ricoperti delle autunnali foglie ingiallite e i campi di grano maturi appariva come un’oasi dorata in quel deserto di pietra color ruggine. Sotto di noi, gorgogliava un fiume glaciale. Sul versante destro della gola, roccioso, un ripido sentiero saliva costantemente superando lastroni di roccia e costeggiando precipizi. Nel tardo pomeriggio giungemmo a Djel, un villaggio abbarbicato a mo’ di terrazza in mezzo alla valle di Diamir, fatto di casupole in pietra tenute insieme da argilla e letame, i tetti piatti fatti di rami, assi e terra compattati. Era tutto molto povero. Ogni casa era costituita da una sola stanza senza finestre con un focolare. Le donne del villaggio ci portarono latte acido, chapati e uova. Per colazione tè con latte e pane roti. Nei giorni seguenti, raggiungemmo l’alpe Nagaton dove ci sistemammo per la notte in casupole che cadevano a pezzi sotto alte betulle. Allestimmo il nostro minuscolo campo base a un giorno di marcia da lì, al margine del ghiacciaio fossile. Ci trovavamo accanto a una grossa roccia, subito sotto il Nanga Parbat. la Repubblica DOMENICA 31 AGOSTO 2014 33 1979 - 1985 1979: K2 (8611) 1980: EVEREST (8848) 1982: KANGCHENJUNGA (8598) GASHERBRUM II (8035) BROAD PEAK (8048) 1985: ANNAPURNA (8091) 1978 CIMA EVEREST (8848) SENZA OSSIGENO. NANGA PARBAT (PARETE DIAMIR) 1973 DOLOMITI: MONTE PELMO, PARETE NORDOVEST MARMOLADA (SPIGOLO OVEST) E FURCHETTA (PARETE OVEST) 1970 HIMALAYA, VERSANTE RUPAL DEL NANGA PARBAT (8125 MT.): SUO FRATELLO GÜNTHER MUORE SOTTO UNA VALANGA salire © RIPRODUZIONE RISERVATA PILASTRO DI MEZZO DEL SASS D’LA CRUSC, PRIMO 7° IN LIBERA 1966 ASCENSIONE ALLA PUNTA WALKER DELLE GRANDES JORASSES PER LA VIA CASSIN (MONTE BIANCO) 1949 A CINQUE ANNI COL PADRE PRIMA ASCENSIONE SULLE DOLOMITI (3000 METRI) © ARCHIV REINHOLD MESSNER Sopra di noi, si ergeva enorme la montagna con le sue cascate di ghiaccio e in sottofondo si udiva il rombo delle slavine: la fine del mondo. Il tempo si mantenne buono, e io potetti cercare mio fratello, senza però trovarne la minima traccia. Partivo all’alba e tornavo a notte inoltrata, al chiarore della luna. Dai piedi della parete, dal passo Mazeno che mi aiutava con l’orientamento. All’inizio ero stanco e depresso, in seguito consapevole del fatto che il ghiacciaio su cui si erano abbattute altre slavine, avrebbe restituito i suoi morti solo dopo molti anni. Alla prima neve lasciammo il campo base. Adesso sapevo che avrei potuto ricominciare a vivere la mia vita selvaggia. Forse persino dovuto. Se fosse sopravvissuto insieme a me, Günther sarebbe stato d’accordo. Rinunciare alle mie avventure non avrebbe riportato in vita mio fratello — il dolore per la sua perdita sarebbe stato solo un rimprovero fatto a me stesso che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Se invece io avessi realizzato i nostri sogni comuni, avrei potuto essere di nuovo felice e condividere con lui la mia responsabilità. Io e Günther rimarremo per sempre una cordata indivisibile. Lui mi ha dato la forza per affrontare gli altri pericoli in cui mi sono imbattuto. E mi sosterrebbe, se fosse necessario difendere il nostro entusiasmo per l’avventura in montagna contro qualunque idealista che specula sulla nostra tragedia sul Nanga Parbat. Da allora non credo più a chi proclama i valori tanto abusati di “morale”, “cameratismo” e “verità”, per me e Günther la responsabilità l’uno verso l’altro era naturale. © Piper Verlag GmbH, Munchen 2014. © 2014 Garzanti libri s.r.l. Milano 1968 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 31 AGOSTO 2014 34 L’attualità. Strane coppie Zelda la Grangeera una ragazza bianca, bionda e razzista quando il presidente Mandela la volle come sua segretaria In un libro, e in questa intervista, si confessa “Se sono cambiata io, possono farlo tutti” E NR I CO FRANCESC H I N I LONDRA NA RAGAZZA STAVA facendo i tuffi nella piscina di casa, a Johanne- U sburg, quando suo padre le annunciò preoccupato: «Hanno liberato dalla prigione il terrorista. Saranno guai». Era il febbraio 1990. Il “terrorista” era Nelson Mandela. La ragazzina che faceva il bagno si chiamava Zelda la Grange. Non aveva le idee chiare sui motivi per cui quell’uomo dalla pelle nera fosse rimasto a lungo in carcere, né sul significato della sua liberazione. Sapeva solo che i blacks erano una specie inferiore, anche quelli gentili come la sua domestica — per questo in casa non lasciavano che toccasse le posate. Passò un po’ di tempo. In Sudafrica vennero, dal punto di vista dei bianchi, i previsti “guai”: finì l’apartheid. Mandela diventò il primo presidente nero nella storia del suo paese. E un bel giorno Zelda si ritrovò a fare la dattilografa proprio nell’ufficio del presidente. Aveva ventitré anni. Bianca, bionda e razzista, oltre che piuttosto carina, non pensava che fosse esattamente il lavoro per lei. Ancora meno si sarebbe aspettata di diventare la segretaria personale di Mandela. Molto più di una segretaria: praticamente nessuno, nei vent’anni successivi, ha trascorso così tanto tempo a stretto contatto con uno dei più grandi personaggi della storia contemporanea, il leader che ha vinto il premio Nobel per la pace, che ha riconciliato bianchi e neri, che è diventato un simbolo per l’Africa e per il mondo. È stata il suo aiutante di campo, portavoce, confidente, accompagnatore, sergente di ferro, perenne sostegno. La «nipote onoraria», come la definiva lui (quando non le si rivolgeva con il diminutivo di Zeldina), a cui lei rispondeva con l’appellattivo di «nonno». Per due decenni gli è stata vicina diciotto ore al giorno, durante viaggi, riunioni, incontri con capi di governo e di stato, sovrani e principesse, artisti e vip, rinunciando ad avere una vita privata, un marito o compagno, dei figli. Sino alla fine, o meglio sin quasi alla fine, perché la litigiosa e complicata famiglia di Mandela, quando si è ammalato, l’ha messa al bando per gelosia, vietandole di vederlo e tenendola a distanza perfino al funerale. Adesso la razzista redenta ha scritto un libro di memorie, Good morning, Mr Mandela, in cui racconta il suo rapporto con Madiba, come lo chiamano tutti in Sudafrica. Si dice che nessun uomo sia grande secondo il proprio maggiordomo, ma Zelda fa un’eccezione: «Se sono cam- FOTO © REUTERS SIPHIWE SIBEKO Io &Madiba FOTORICORDO ZELDA LA GRANGE (OGGI HA 44 ANNI) CON NELSON MANDELA (1918 - 2013). DAL 1996 FINO ALLA MORTE DEL PRESIDENTE SUDAFRICANO È STATA LA SUA SEGRETARIA PERSONALE. IN BASSO: MANDELA CON GE0RGE W. BUSH E CON LA REGINA ELISABETTA biata io grazie a Madiba significa che tutti possono cambiare», ci dice davanti a una tazza di cappuccino in un caffè italiano di Londra, dove la Penguin, sua casa editrice, l’ha portata per pubblicizzare l’autobiografia. «La prima volta che l’ho incontrato, nell’ufficio della presidenza, non sapevo cosa aspettarmi», racconta. «Non sapevo se, vedendo questa ragazza bianca alle sue dipendenze, mi avrebbe licenziata o umiliata. La prima cosa che mi venne in mente fu: “ho mandato quest’uomo in prigione, la mia gente lo ha chiuso in galera, gli abbiamo portato via una gran parte della sua vita”. Di colpo scoppiai a piangere. E allora lui mi prese la mano tra le sue sue, cominciò a parlarmi in afrikaner (la lingua dei sudafricani bianchi, che Mandela aveva imparato in carcere, ndr), poi mi abbracciò e disse “non è necessario, non reagire così, è esagerato”. Quindi cominciò a farmi domande, dov’ero cresciuta, che lavoro facevano i miei. Tutto durò cinque minuti ma fu uno shock, come se avessi avuto una visione». Ci volle qualche mese prima che Zelda fosse promossa da anonima dattilografa a collaboratrice dello staff del presidente e infine a sua segretaria personale (al posto della nera che si vede nel film Invictus di Clint Eastwood). Impiegò al- meno due anni a percorrere dentro di sé la trasformazione da razzista — «no, non per intima, ragionata convinzione, ma perché accettare l’apartheid per noi bianchi era la norma, niente di assurdo o vergognoso, era la nostra vita» — a convinta paladina del nuovo Sudafrica democratico e multirazziale. Ripensa alla decisione di Madiba di volerla con lui senza alcuna ingenuità: «Era un grande stratega. Sapeva che era importante mostrare all’interno, al popolo sudafricano, e all’esterno, al resto del mondo, che il suo Sudafrica abbracciava tutte le culture e le razze, che era un paese arcobaleno e che dunque c’erano dei bianchi anche attorno a lui». Eppure l’affetto, l’amicizia tra l’anziano presidente (all’epoca settantacinquenne) e la giovane segretaria dai capelli biondi sbocciarono genuini. «All’inizio mi sentivo colpevole, mi era stato insegnato a temere quest’uomo che ora si dimostrava con me gentile, generoso, attento. Provavo orrore per me stessa. Ma proprio Madiba mi aiutò a vincerlo, spiegandomi che è ammesso sbagliare, anche fare cose terribili, se poi si cerca di ripararle. Diceva sempre che gli uomini non sono mai del tutto buoni o del tutto cattivi, che in ognuno di noi c’è una parte di bene e di male». Era la filosofia che lo guidava anche politicamente, come la sua ex-segretaria ricorda nel libro. «Qualcuno gli rimproverava, per esempio, le sue relazioni con Gheddafi: come poteva un democratico andare d’accordo con un tiranno? Ma Mandela cercava di dimostrare rispetto per tutti, diceva che se rispetti il tuo nemico, anche la persona peggiore può tirare fuori qualcosa di buono. Di Gheddafi diceva che si era impegnato con lui a consegnare i responsabili dell’attentato di Lockerbie, a dare segnali di dialogo con l’Occidente, e lo aveva fatto. Il rispetto era servito, aveva funzionato». Le chiedo degli altri incontri a cui ha assistito, degli altri grandi della storia che ha visto da vicino. Fidel Castro? «C’era grande calore fra loro. Castro aveva appoggiato la lotta di Mandela contro l’apartheid e Madiba non lo dimenticava. Si abbracciarono come fratelli». Arafat? «Un colloquio cortese ma non calorosissimo. Da Mandela il leader palestinese si aspettava forse un sostegno incondizionato, invece Madiba gli fece anche critiche per i metodi con cui governava e con cui cercava di ottenere uno Stato». I leader israeliani? «Anche con loro ci fu una certa freddezza. Ehud Barak, l’allora primo ministro, trattava Mandela con impazienza. Probabilmente lo consi- la Repubblica 35 FOTO © ALET VAN HUYSSTEEN AND THE NELSON MANDELA FOUNDATION DOMENICA 31 AGOSTO 2014 ERA ANZIANO, E GEORGE W. BUSH NON LO FACEVA MAI FINIRE DI PARLARE DICEVA: OKAY, OKAY, MA ADESSO VEDIAMO DI ANDARE ALLA CONFERENZA STAMPA CON LA REGINA ELISABETTA INVECE LEGÒ MOLTISSIMO. LUI LA COPRIVA DI COMPLIMENTI, ANDANDO ANCHE OLTRE IL CERIMONIALE, LEI ERA FELICE DI SENTIRSELI FARE derava troppo filo-palestinese. Ricordo che Madiba fu molto impressionato dal museo dell’Olocausto. Ma poi disse che non si potevano scaricare sui tedeschi di oggi le colpe dei loro padri o nonni. Il suo messaggio era sempre lo stesso, riconciliazione e perdono». E i presidenti americani? «George W. Bush mi fece quasi arrabbiare, Mandela era già molto anziano quando si incontrarono, parlava lentamente, ripeteva qualche frase e Bush gli faceva fretta, non lo lasciava finire, diceva “okay, okay basta, andiamo a fare la conferenza stampa”». Clinton? «Un grande amico. Si adoravano a vicenda, e si vedeva. Clinton cercava di essere sempre con lui per il suo compleanno». Obama, il primo nero alla Casa Bianca? «Si incontrarono brevemente quando Obama era ancora senatore, non ci fu tempo per un rapporto più profondo». La regina Elisabetta? «Oh, legarono moltissimo, forse si intendevano anche per la vicinanza di età, Madiba andava d’accordissimo con le persone della sua generazione, per quanto anche con i bambini, forse aveva più difficoltà con quelli di mezzo. Le posò una mano su una spalla, poi ci spiegarono che il protocollo non permette di toccare la regina, ma lei non si risentì per nulla. Madiba la coprì di complimenti, le disse che gli sembrava dimagrita, in gran forma, e a Sua Maestà fece piacere». L’ultima volta che Zelda lo ha visto, era in ospedale, Mandela ormai non era più in grado di parlare: «Ma quando ha sentito la mia voce ha aperto gli occhi e ha sorriso». Non prova rancore per i membri della sua famiglia che alla fine l’hanno allontanata? «Ho sofferto. E mi è dispiaciuto per come le autorità sudafricane hanno organizzato il funerale, Madiba avrebbe meritato di meglio. Ora però mi è passata anche la rabbia. Sono piccole cose, rispetto a quello che noi bianchi abbiamo fatto ai neri. La lezione di Madiba è che bisogna perdonare e guardare avanti». E a cosa guarda lei ora? Cosa c’è nel suo futuro senza “nonno” Mandela? «Magari vorrei un compagno, un uomo, quelli che mi cercavano finché c’era lui erano solo attirati dalla possibilità di conoscere Madiba attraverso di me. E poi voglio dei fiori, tanti fiori. Sa che le dico? Vorrei aprire un negozio di fiori». La razzista bianca diventata segretaria dell’uomo che ha sconfitto l’apartheid, un negozio di fiori e un nuovo amore: scommettiamo che questo libro diventerà un film? © RIPRODUZIONE RISERVATA LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 31 AGOSTO 2014 La storia. Punti di vista Quale rosso? Quale blu? Esiste una sola lingua dei colori parlata in tutto il mondo. La inventò Lawrence Herbert Mezzo secolo fa nella sua tipografia nel New Jersey decise che, per non sbagliare, a ogni sfumatura dovesse corrispondere un numero. Per la gioia di aziende, stilisti e designer. E con buona pace di filosofi, artisti e poeti M I CH E LE S MA R G I A S S I NTRAMONTABILE tricolore!» esclamò lo speaker del cinegiornale Incom, ma sul podio Gino Bartali guardava perplesso la sua maglia tricolore di campione d’Italia 1952, borbottando ai giornalisti: «Il verde è diventato più chiaro...». Aveva ragione. Quello era squillante, mentre sul suo primo trofeo, nel 1935, era grigiastro. Ma che importa? Bianco rosso e verde, no? Ma quale rosso, quale bianco, quale verde? L’occhio umano percepisce migliaia di sfumature. Una vale l’altra? Poteva l’eroico Bravehart immolarsi per una bandiera d’un blu qualsiasi? Mai, infatti nel 2003 il parlamento scozzese attribuì per legge, alla sua croce di sant’Andrea, una tonalità precisa. Oggi l’orgogliosa Scozia si commuove solo se sull’asta garrisce il Blu Pantone PMS300. I colori, per Kandinskij «linguaggio universale dell’anima», per secoli hanno sfidato il vocabolario. Come si parlano i colori? Mallarmé li identificava con le vocali, A nera, E bianca, I rossa... Per gli artisti, ogni nuance aveva un passaporto, un certificato Doc: blu di Prussia, terra di Siena, rosso pompeiano... Poi, mezzo secolo fa, qualcuno disse basta con le approssimazioni analogiche. Niente poesia: numeri. Precisi, inconfondibili, ordinabili in righe e colonne. Ora si dice 2767C, 7607C, 1805C. L’uomo che mise i colori sulla griglia è Lawrence Herbert, nel 1962 comprò la tipografia in cui lavorava part-time da sei anni, la Pantone (nome di fantasia vagamente grecizzante) nel New Jersey, e subito si buttò alla ricerca della soluzione del problema di tutti i tipografi: i clienti che non sono mai soddisfatti dei colori. «Non è il giallo che volevo!». E quale giallo voleva scusi? «Più caldo». Ma quanto più caldo? Un rompicapo, mettersi d’accordo così, a spanne. Ma conta così tanto una sfumatura? Eccome: chiedete alla Kodak, che fece del suo giallo un marchio di fabbrica, purtroppo ogni tipografia glielo stampava diverso, e i clienti non compravano le scatoline più scure pensando fossero più vecchie. Il colore è un investimento, poche storie. Il viola Cadbury, il verde Tiffany, la suola rossa Loubotin sono coloriprecisa e accurata». Di più: nelle sue iridescenti pubblicabrand esclusivi grazie al sistema Pantone. Se puoi battezzioni Pantone rilegge la storia dell’arte come successione di zare con precisione un colore, puoi anche brevettarlo: così tavolozze numerate che «definiscono i colori di un’epoca», alla fine decise una sentenza della Corte suprema Usa, nel e da un quindicennio proclama il «colore dell’anno» come ‘95. Puoi impadronirti di un colore, se puoi definirlo con as«espressione dei bisogni della società» (se volete saperlo, la soluta precisione. miss Colore 2014 è Radiant Orchid, orchidea raggiante, nuBene, Herbert l’aveva capito. Tempo un anno e sfornò la mero 18-3224, che qualcuno di noi, con imperdonabile sua prima anagrafe dei colori: allora era un libretto con posciatteria, chiamerebbe magari “lilla”). che centinaia di tinte numerate. Ciascun numero identifiContrariamente a quanto molti credono, Pantone non cava una precisa miscela dei colori base. Impossibile sbaproduce vernici, inchiostri o pastelli (anche se concede il gliare: da allora, i colori si scelgono sul catalogo. Con i volumarchio a chi lo fa). Vende solo una tassonomia, un ordine metti Pantone in mano, la tinta di una copertina di libro o di mentale. In forma di dizionari, cartacei e elettronici, pieni una tappezzeria si può ordinare anche al telefono, sicuri che di rettangolini colorati e numerati. Il suo core business è sorsul prodotto finale sarà proprio quella. Era nato il Pantone retto da una convinzione: che i colori siano individui, ciaColor Matching System, il più diffuso sistema per intenderscuno con un distinto carattere, inconfondibili uno con l’alsi sui colori, che sbaragliò tutte le altre precedenti e parziatro, identificabili e “comunicabili” con assoluta precisione. li classificazioni, ed ora è utilizzato come lingua cromatica Ma secoli di pensiero filosofico ne hanno dubitato. Il rosfranca dal mondo della moda, del design, dell’editoria. so che vedo io è quello che vedi tu? Da Poincaré a Cartesio a Oggi la tavolozza Pantone elenca 1757 tinte diverse ma Goethe la teoria dei colori è stata il banco di prova della docontinua ad espandersi, annettendosi i colori digitali, memanda epistemologica per eccellenza: la conoscenza che tallici, fluorescenti. “Colori senza compromessi”, è lo sloabbiamo del mondo è oggettiva o soggettiva? La risposta di gan. Acquisita dalla multinazionale X-Rite, Pantone si conLeatrice Eiseman salta a piè pari il problema: «Il colore è la sidera «il leader del colore», ci spiega cortesemente Leatriprima cosa che noti, l’ultima che dimentichi. Produce emoce Eiseman, direttore del Pantone Color Institute: «Noi conzioni e business, e noi lavoriamo per entrambi». sentiamo a un’infinità di persone, designer, artisti, clienti, © RIPRODUZIONE RISERVATA imprenditori, stampatori, di dialogare fra loro in una lingua «I * United Colors of PANTONE ® I COLORI DELLA SCRITTA PANTONE®: “P” 229-2C. “A” 86-1C. “N” 36-1C. “T” 18-3224C. “O” 279-1C.“N” 145-2C. “E” 287-4C 36 la Repubblica DOMENICA 31 AGOSTO 2014 * COLORE DELL’ANNO IL “PANTONE 18-3224 RADIANT ORCHID” È IL COLORE DEL 2014 A INSINDACABILE GIUDIZIO DELL’AZIENDA AMERICANA. IN QUESTE PAGINE ALCUNI DEI 1757 COLORI DEL CATALOGO PANTONE Michel Pastoureau. “Ma è assurdo voler ingabbiare una magia in un campionario” F AB I O G A MB A R O PARIGI COLORI SONO RIBELLI, difficili da definire. Per questo la classificazione di «I Pantone si illude inutilmente d’ingabbiare la natura». Per Michel Pastoureau, il grande specialista della storia sociale dei colori, la nomenclatura inventata mezzo secolo fa dall’azienda americana è solo una tra le tante possibili e non può avere pretesa di verità assoluta. «Dato che sfrutta una dimensione scientifica, vale a dire lo spettro dei colori che compongono la luce, la classificazione di Pantone tende a presentarsi come una certezza universale. Ma non è così. Anche perché le pratiche sociali del colore funzionano molto diversamente», ci dice lo studioso francese che ha da poco pubblicato Verde. Storia di un colore (Ponte alle Grazie). «Certo, i suoi codici possono essere utili dal punto di vista pratico, perché consentono d’intendersi a distanza sulla stessa sfumatura di colore. Da qui il suo successo. Ma non ha senso pretendere di definire esattamente le frontiere tra una tonalità e l’altra. Il colore è un continuum. Inoltre, è assurdo proporre mille e settecento diverse tonalità, giacché l’occhio umano non può distinguerne più di trecento e le lingue non hanno i vocaboli necessari per nominarle. Senza dimenticare che i colori cambiano a seconda delle ore, della luce e di chi li guarda. Insomma, la classificazione di Pantone è un’illusione, è l’espressione di una forma di scientismo che da Newton arriva fino ai giorni nostri. È solo una convenzione per provare a definire e classificare i colori». Altri tentativi di classificazione? «In Europa, almeno fino al XVII, abbiamo utilizzato la classificazione di Aristotele che è radicalmente diversa da quella di Pantone, anche perché, a differenza dell’azienda americana, considera il bianco e il nero come due colori a tutti gli effetti. La storia dell’arte fino al Rinascimento deve essere considerata tenendo conto di questa classificazione. I pittori partivano da Aristotele e non dallo spettro dei colori della fisica, che non conoscono. Un altro esempio riguarda alcune culture africane che, per classificare i colori, si appoggiano sulla materialità più che sulle tonalità cromatiche, insistendo su carattere secco o umido, liscio o ruvido, duro o morbido di un colore, mentre è indifferente che un colore si avvicini di più al rosso o al giallo. Ma si pensi anche alla convenzione per cui noi oggi consideriamo il blu un colore freddo e il giallo un colore caldo, mentre ancora all’inizio del XIX secolo, nella sua Teoria dei colori, Goethe considerava il blu un colore caldo e nel Medioevo il giallo era considerato piuttosto freddo». Da dove vengono i nomi dei colori? «Per quelli fondamentali — rosso, blu, giallo, verde, bianco o nero — non possiamo dirlo con precisione, anche perché i loro nomi non rimandano ad alcun elemento del reale. Altri invece si rifanno ad aspetti della realtà come fiori, frutti, minerali: rosa, arancio, viola o marrone nascono così». Chi definisce e nomina i colori? «Storicamente, i tintori e i mercanti di stoffe. I pittori lo hanno fatto solo in alcuni casi per alcune tonalità particolari. Ciò si spiega col fatto che nell’antichità il mondo della pittura era assai ristretto, mentre l’artigianato riguardava una parte più vasta della società. L’economia viene prima dell’arte. Non a caso tra i latini il vocabolario dei colori dei tintori è molto più ricco di quello dei pittori». Sono nominati diversamente anche secondo il contesto... «Gli esempi non mancano. A differenza di quanto avviene da noi, in Africa si riconoscono molte diverse sfumature di marrone, tutte definite da una diversa parola. E in Giappone si distinguono diversi tipi di bianco o di rosa con altrettanti vocaboli. Alcune società utilizzano la stessa parola per il verde e il blu, mentre per noi sono due colori diversi. In francese, a differenza dell’italiano, c’è una sola parola per indicare il blu e l’azzurro. Da queste differenze nascono evidentemente moltissimi problemi di traduzione. Tutte le teorie dei colori si sono sempre rivelate inadeguate. Motivo per cui oggi prevale un certo relativismo culturale, che alle teorie generali preferisce una somma di convenzioni legate a contesti specifici. Così, per definire il colore si fa appello di volta in volta a criteri diversi, alla materia, alla luce, alla percezione, alla linguistica, ecc., anche se alla fine, più semplicemente, i colori dovrebbero essere considerati solo dei concetti che servono all’uomo per ordinare e classificare il reale. Insomma, nei colori c’è sempre qualcosa d’imprendibile e sfuggente, ma questo è proprio il motivo del loro fascino e della loro magia». © RIPRODUZIONE RISERVATA 37 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 31 AGOSTO 2014 38 Spettacoli. Incredibili Senza di lui capolavori come “Toy Story”, “Nemo”, “Ratatouille” e “Cars”non sarebbero nati F R ANC ESC O F ASI O L O ETTIAMOLA così: senza di lui il pesciolino Nemo, Saetta McQueen o i giocattoli di Toy Story sarebbero rimasti solo delle bellissime idee. Ed Catmull ha passato una vita intera a studiare come realizzarle. Ha fondato la Pixar con Steve Jobs e John Lasseter, ha sviluppato RenderMan, il software utilizzato nei film dei creatori de Gli Incredibili e di Up. E ora ha scritto tutta questa storia in un libro, Verso la creatività e oltre (Sperling&Kupfer), che è insieme un manuale su come gestire una fabbrica dell’immaginario, una miniera di aneddoti per gli appassionati, e anche un modo per capire perché sulla doppia poltrona di presidente della Walt Disney Animation e della Pixar sieda un signore laureato in fisica e informatica. «I miei due idoli da bambino erano Walt Disney e Albert Einstein. Sono cresciuto negli anni Cinquanta nello Utah, quando la faccia di Disney e i suoi personaggi comparivano regolarmente sui primi televisori. E c’era questa immagine di Einstein, l’icona del genio. Da ragazzo il mio sogno era diventare un disegnatore, ma mi sono reso conto che non avrei mai raggiunto certi livelli, e così al college cominciai a studiare fisica. Può sembrare incoerente, ma per me arte e scienza hanno molto in comune: sono entrambe basate sull’osservazione». Presto infatti avrebbe utilizzato le sue coRTV-LA EFFE noscenze nel cinema, incontrando GeorDOMANI SU RNEWS (CANALE 50 ge Lucas in piena era Star Wars. DIGITALE TERRESTRE E 139 SKY) «Dopo la laurea mi sono dedicato alla comALLE 13,45 IL SERVIZIO VIDEO puter grafica, era un campo emergente. L’uDI FRANCESCO FASIOLO nica persona nell’industria cinematografica che davvero voleva puntarci, sul finire degli anni Settanta, era proprio George. Sono stato assunto nel ‘79 alla Lucasfilm, dove l’informatica era usata come un mezzo per raggiungere qualcosa di assolutamente nuovo nella storia del cinema. Avevano sviluppato un effetto di sfocatura dell’immagine che rendeva i movimenti delle astronavi M più realistici all’occhio dello spettatore». È lì che comincia a nascere la Pixar, divisione della Lucasfilm che si occupava di computer grafica. Finché non fu acquistata da Steve Jobs, nel 1986. «Steve nella sua vita è passato attraverso il classico “viaggio dell’eroe”, dalla caduta al trionfo. Era stato messo da parte dalla Apple quando comprò la Pixar e cominciammo a lavorare insieme. Poi tornò alla Apple da vincitore, ma mi dispiace che negli anni si sia continuato a scrivere del suo carattere difficile: pochi sanno che era profondamente cambiato. Le prime volte che lo incontrai si comportava proprio come veniva dipinto nella sua immagine pubblica, a volte negativa. Ma la sua intelligenza lo ha portato a diventare sempre più pronto al dialogo, all’ascolto e se all’inizio voleva sempre vincere, ha poi imparato cosa vuol dire essere davvero dei partner. Parte del suo successo è dovuta a questo». Nel 1995 arriva Toy Story: il primo film di animazione interamente realizzato in computer grafica. Eravate consapevoli che stavate inventando un nuovo linguaggio? «Non del tutto: eravamo troppo concentrati nella realizzazione del film. Sapevamo che riuscirci avrebbe cambiato l’industria dei cartoon, anche se non era chiaro quanto profondamente. Ad esempio non avrei mai pensato che l’animazione al computer avrebbe quasi interamente soppiantato quella a mano: io amavo entrambe». Woody il cowboy e Buzz Lightyear ebbero un grande successo. Quali sono stati i personaggi o le sequenze più difficili da realizzare? «Se oggi andiamo a guardare le figure degli umani in Toy Story dobbiamo ammettere che non sembrano molto realistiche. All’epoca non avevamo computer abbastanza potenti o le conoscenze tecniche per farli meglio di così. E infatti decidemmo che i protagonisti della storia sarebbero stati dei giocattoli: per noi erano più facili da realizzare. Con il secondo film, A Bug’s Life (1998) affrontammo una sfida ancora più grande: creare tutta quella fitta vegetazione in cui si muovevano i personaggi. E in Alla ricerca di Nemo (2003) i pesci e gli effetti nell’acqua erano davvero perfetti. Ma provate a guardare le persone all’interno dello studio dentistico: non erano altrettanto efficaci. Conunque ogni errore o limite è stato utile: a un certo punto ci siamo detti, okay, adesso dobbiamo fare bene gli umani. E ci siamo concentrati su quel problema». Il suo libro è anche una guida sulla gestione di gruppi di lavoro: il campus Pixar in California è da molti considerato un esempio: campo da calcio, volley, piscina e ogni PRESIDENTE EDWIN "ED" CATMULL HA FONDATO LA PIXAR CON STEVE JOBS E JOHN LASSETER E NE È ATTUALMENTE IL PRESIDENTE 1 Sono uno scienziato dacartoon Ed Catmull.“Il segreto di Pixar? Mischiare Disney con Einstein” la Repubblica DOMENICA 31 AGOSTO 2014 39 Intervista al creatore del software che ha realizzato i personaggi della casa di Emeryville dipendente è incoraggiato a personalizzare la sua postazione. Crede sia un modello esportabile anche ad aziende che hanno meno a che fare con la creatività? «Io ho un concetto di creatività molto vasto. Naturalmente so che non tutti hanno lo spazio o la possibilità di costruire un campo da calcio sotto l’ufficio, ma credo che a un dipendente che lavora duro bisogna mandare il messaggio: prenditi cura di te stesso. Alla Pixar incoraggiamo anche chi magari ha comportamenti inusuali a non limitarsi. Qui ci sono persone che fanno cose strane». Quanto strane? «Beh per esempio il regista di Ribelle — The Brave (2006), Mark Andrews, la mattina prima di iniziare il lavoro portava i ragazzi della troupe sul prato qui davanti e gli insegnava a combattere con la spada. La cosa mi divertiva molto, non so perché ma cercava sempre di coinvolgere tutti». Lei e John Lasseter credete molto nell’importanza della ricerca sul campo. «Fondamentale. Tanti sanno costruire una sceneggiatura per un film ma serve poi la ricerca per realizzarla in modo credibile, fresco, nuovo. Durante la lavorazione di Ratatouille (2007) abbiamo mandato i membri della troupe a Parigi: hanno cenato nei migliori ristoranti della città e hanno visita- to le cucine per vedere come si lavora in quegli ambienti e poterne poi ricreare le atmosfere nel film. Certo, avrebbero potuto vedere i programmi di cucina su qualche canale tematico, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Per lo stesso motivo molti ragazzi che lavoravano a Nemo presero il brevetto da sub. E un nostro gruppo ha visitato un impianto per il trattamento delle acque di scarico a San Francisco: la sceneggiatura prevedeva che il pesciolino finisse in una fogna e avevamo bisogno di sapere se effettivamente un pesce può sopravvivere a un viaggio dal lavandino fino al mare». Nel 2006 la Disney, che veniva da un periodo poco brillante, acquisisce la Pixar e lei e Lasseter cominciate a gestire entrambe le realtà. Oggi abbiamo di nuovo successi come Frozen. Che tipo di problemi avete dovuto risolvere? «Parecchi. In Disney i registi non avevano il pieno controllo dei loro film. Chi gestiva lo studio era molto più concentrato sui processi di lavorazione che non sulle storie. C’erano molte persone di talento, ma non sapevano su chi puntare. Abbiamo cominciato con il riunire tutti quelli che lavoravano su storie e sceneggiature per fare in modo che si aiutassero e stimolassero a vicenda». E alla Pixar su cosa state lavorando ora? «Su Inside Out, uscirà l’anno prossimo, è un film ambientato all’interno della testa del protagonista. A volte siamo nel mondo esterno, ma per buona parte abbiamo a che fare con dei personaggi che rappresentano le emozioni che prova una ragazza dentro la sua testa, dalla paura alla gioia. Una sfida impegnativa, ma il materiale prodotto finora ci sta piacendo molto, sono ottimista». Ha un personaggio o un film preferito tra quelli che avete realizzato? «Voi vedete dei personaggi, io vedo lavoro, persone, fatica, dubbi, problemi risolti. Però se proprio devo scegliere, amo molto il discorso finale in Ratatouille, perché il pubblico rimane sinceramente sorpreso. E la cosa più bella che puoi fare è sorprendere davvero la gente». Per la cronaca, il discorso è quello di Anton Ego, severissimo critico gastronomico francese: dopo aver scoperto che a cucinare la sua deliziosa cena è stato un piccolo topo, deve ammettere che “un grande artista può celarsi in chiunque”. STEVE JOBS LE PRIME VOLTE SI COMPORTAVA PROPRIO COME VENIVA DIPINTO NELLA SUA IMMAGINE PUBBLICA NEGATIVA. MA LA SUA INTELLIGENZA LO HA PORTATO AD ACCETTARE IL DIALOGO. E SE ALL’INIZIO VOLEVA SEMPRE VINCERE, POI HA IMPARATO COSA VUOL DIRE ESSERE PARTNER CON TOY STORY SAPEVAMO CHE AVREMMO CAMBIATO L’INDUSTRIA DELL’ANIMAZIONE ANCHE SE NON ERA CHIARO QUANTO PROFONDAMENTE. PER ESEMPIO NON AVREI MAI PENSATO CHE IL COMPUTER AVREBBE QUASI INTERAMENTE SOPPIANTATO LA MANO: IO AMAVO ENTRAMBI © RIPRODUZIONE RISERVATA 5 4 3 2 9 8 7 6 13 12 11 10 IL LIBRO “VERSO LA CREATIVITÀ E OLTRE: LA LEZIONE DELLA FABBRICA DEI SOGNI” DI ED CATMULL È IN LIBRERIA PER SPERLING & KUPFER (18 EURO, 384 PAGINE, TRADUZIONE DI PAOLO LUCCA) L’AUTORE SARÀ PRESENTE IL 4 OTTOBRE A FERRARA (ORE 19) AL FESTIVAL DI GIORNALISMO DI “INTERNAZIONALE” I FILM 1. TOY STORY (1995) 2. A BUG’S LIFE (1998) 3. TOY STORY 2 (1999) 4. MONSTERS & CO (2001) 5. ALLA RICERCA DI NEMO (2003) 6. GLI INCREDIBILI (2004) 7. CARS (2006) 8. RATATOUILLE (2007) 9. WALL-E (2008) 10. UP (2009) 11. TOY STORY 3 (2010) 12. CARS 2 (2011) 13. RIBELLE (2012) 14. MONSTERS UNIVERSITY (2013) 14 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 31 AGOSTO 2014 40 Next. Scherzi a parte Dall’app che vi dice ciò che state mangiando al drone che controlla vostro figlio. Oggetti tecnologicamente demenziali ma del tutto plausibili.Che non esistono. Ma potrebbero Si diverte a raccontarli un guru della futurologia S Local radio È una radio che mette insieme notizie locali, feed (per esempio gli aggiornamenti del vostro Comune) ed eventi, e costruisce algoritmicamente un notiziario pronunciato da una voce incantevole. Trovate tutti i vostri feed di dati digitali non vocali di servizi locali, squadre di emergenza ecc. e ascoltateli su un apparecchio radio elegantissimo, come un notiziario di quelli di una volta! Prodotto # LOC.552.257 $89 + $1,99 .................. mese per tassa servizi locali BRUCE STERLING I CHIAMA Near Future Laboratory (“Laboratorio del futuro prossimo”). È un gruppo di esperti di progettazione industriale che sperimentano visioni del futuro. Il loro esponente più famoso, il professor Julian Bleecker, è l’ingegnere e accademico californiano che ha inventato il termine “design fiction” (fantaprogettazione). Di tanto in tanto questo laboratorio multinazionale sforna un nuovo prodotto ufficiale. L’ultimo sforzo è il nuovo catalogo dei prodotti del Near Future Laboratory: tutti rigorosamente fittizi. L’iniziativa è importante per due ragioni: perché gli ingegneri del Near Future Laboratory sono persone che la progettazione industriale la conoscono davvero, e perché conoscono bene anche il “futurismo” (inteso come studio del futuro). Il risultato sono prodotti immaginari estremamente acuti e divertenti. Il Tbd Catalog (Tbd sta per “to be designed”, ancora da progettare) è un compendio di idee moderne e di tendenza dall’aria quanto mai esotica ed eccitante: criptovalute, ingegneria genetica, social media, stampa 3D, crowdfunding e così via. Il Near Future Laboratory ha moltissimi amici nelle professioni più varie, quindi è ben aggiornato su tutte queste materie. Nella visione del futuro contenuta nel catalogo, tutte queste novità sono state rese comuni, democratiche e pienamente accessibili. Sono diventate cose normali, parte della vita di tutti i giorni. Costano perfino poco, nella maggior parte dei casi. Il Near Future Laboratory è consapevole del ruolo della progettazione industriale, via di collegamento fra i miracoli da laboratorio e i prodotti di uso quotidiano. Quando i suoi ingegneri inventano un «fantaprodotto», è fantascienza con tutto il rigore del vero design industriale. I progettisti sono anche consapevoli che gli oggetti devono essere redditizi, desiderabili e producibili in serie. Gli oggetti del mondo reale devono superare ostacoli importanti: la normativa legale, la pirateria, i capricci dei consumatori, l’ambizione dei capitalisti. I beni di consumo progettati hanno forme accattivanti e gamme di colori invitanti. Insomma, quando il Near Future Laboratory progetta un prodotto immaginario, non è incredibile: è incredibilmente plausibile. Generalmente, ogni volta che pubblicano uno di questi cataloghi, devono affannarsi a ripetere che queste cose non sono reali. 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Frittelle di borragine Le foglie di borago officinalis (sbollentate, raffreddate, asciugate e infarinate) si tuffano in una pastella di farina, lievito, pecorino grattugiato e acqua, per poi friggerle 16. Bignés di patate Burro sciolto in acqua bollente salata, farina e tuorli. Formare delle palline, infornare, farcire gli choux con puré di patate e formaggio, imburrare e infine gratinare 22. Selleri Zuppetta di sedano tagliato a tocchetti, sbianchito in acqua salata, aggiunto a un soffritto di carote, cipolla e cotenna Cottura con acqua Alla fine, cacio grattugiato Gli aneddoti Si intitola “Leopardi a Tavola”(Fausto Lupetti editore, 2008) il libro di Domenico Pasquariello e Antonio Tubelli (nella foto), che svela il rapporto goloso tra il poeta e la cucina: aneddoti, ricordi, cronache di buon mangiare e le ricette dei suoi piatti preferiti, elencati nella sua lista autografa 24. Ravaiuoli Chez Leopardi.Dolci, fritti, maccheroni e ragù quando il cibo è una poesia Il bistrò Ispirato dalla misconosciuta passione di Leopardi per la tavola, lo chef marchigiano Moreno Cedroni ha dedicato al poeta il menù estivo del bistrò “Clandestino” sulla spiaggia di Portonovo: tra i piatti, frittelle di acciughe, gelato al miele, ma anche “L’ermo colle” e “Odio alla minestra” Il libro 25. Bodin di ricotta Ricotta di bufala setacciata, lavorata con zucchero a velo e rossi d’uovo (uno alla volta), rum, maraschino, scorzette candite e gherigli di noce Far riposare in frigo 42. Prosciutto Per la spumetta, prosciutto cotto a dadini schiacciati con la forchetta, poi Marsala secco e crema di latte. Alla fine, profumo di noce moscata Servire con pane abbrustolito LICIA GRANELLO 31.Paste frolle al burro o strutto In “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi”, Antonio Ranieri racconta: “...perseverava i più incredibili eccessi: il caffè, sciroppo di caffè; la limonea, sciroppo di limone; il cioccolatte, sciroppo di cioccolatte (e non senza le vainiglie, rigorosamente vietategli); e così via” Per farcire i ravioli, cipolla ammorbidita nel burro, macinato di carne, vino bianco e sale A freddo, ricotta vaccina, Parmigiano Reggiano e tuorli Condire con sugo di pomodoro Frolla classica a foderare gli stampini imburrati, poi in forno Per il ripieno, zabaione di tuorli battuti con zucchero e succo di limoni d’Amalfi, mescolato a panna fresca ‘‘A PRI, o canora Musa, i boschi di Elicona,/ E la tua cetra cinga d’alloro una corona./ Non or d’Eroi tu devi, o degli Dei cantare,/ Ma solo la Minestra d’ingiurie caricare./ Ora tu sei, Minestra, de’ versi miei l’oggetto,/ E dir di abbominarti mi apporta un gran diletto./ Ah se potessi escluderti da tutti i regni interi;/ Sì certo lo farei contento, e volentieri.…”. Ha appena undici anni Giacomo Leopardi quando scrive Contro la minestra, dando nobiltà letteraria alla campionessa delle idiosincrasie culinarie dei bambini di tutto il mondo. Antipatia rimasta immutata fino al giorno della dipartita, quando, ormai morente, al posto del brodo che la suora vuole fargli sorbire per ammortizzare i due cartocci di confetti di Sulmona divorati qualche ora prima, pretende (a testimoniarlo è l’amico fraterno Antonio Ranieri) “una limonea gelata che qui chiamano granita, sorbita con la consueta avidità”. Una morte da ribelle goloso, che poco s’attaglia con la figura pallida e disperata dell’agiografia ufficiale, ma in linea con l’affezione al buon cibo sviluppata negli ultimi anni di vita, complice la permanenza nella Campania Felix, tra Napoli, Capodimonte e Torre del Greco (nel quartiere miliari, che gli mancano nel peregrinare tra Boche in suo onore verrà battezzato Contrada Leo- logna, Firenze e Roma. Ma quando Ranieri riepardi). Non ha certo un’adolescenza da candi- sce a portare il trentacinquenne Leopardi a Nadato gourmet, il poeta raccontato ne Il giovane poli, l’approccio al cibo cambia in modo radicafavoloso in concorso domani al festival del cine- le. Gran parte del merito va a Pasquale Ignarra, ma di Venezia, sovrastato dagli studi “matti e finissimo monsù (ovvero monsieur, il cuoco di disperatissimi” e dalle avvisaglie della tuberco- casa della corte napoleonica), pronto a soddilosi ossea, prima delle malattie che ne mine- sfare ogni desiderio e bizzarria dell’ospite, che ranno inesorabilmente la salute. Da lì in poi, il spesso scambia il giorno per la notte, mangia l’ecibo viene associato soprattutto alle ritualità fa- satto contrario di quanto prescrivono i medici, si modera poco o nulla quando un cibo gli aggrada particolarmente. In nome delle buone pratiche salutari (“...dalla buona digestione dipende in massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell’uomo”), Leopardi assaggia, sperimenta, gode dei manicaretti che Ignarra gli prepara in mille modi, dagli ziti spezzati col ragù denso alle linguine allo scammaro (sugo magro di pesce). Si appassiona di gelateria, “…grand’arte onde barone è Vito”, pasticcere a Largo Carità. E poi il vino, che occhieggia tra le righe come arma di seduzione: “Dicono e suggeriscono che volendo ottener dalle donne quei favori che si desiderano, giova prima il ber vino, ad oggetto di rendersi coraggioso, non curante, pensar poco alle conseguenze e se non altro brillare nella compagnia coi vantaggi della disinvoltura”. Così entusiasta da stilare l’elenco dei piatti che più gli piacciono. Ben prima del lavoro di sistematizzazione culinaria di Pellegrino Artusi, la mappa gourmand di Leopardi fissa 49 piatti imperdibili, che attraversano buona parte d’Italia, con una sfacciata preferenza per i fritti: alibi straordinario per tutti gli appassionati di letteratura col colesterolo border line. © RIPRODUZIONE RISERVATA La ricetta Un favoloso gelato al miele 45. Pasticcini di maccheroni INGREDIENTI 260 G.DI MIELE DI CORBEZZOLO 500 ML. DI LATTE INTERO FRESCO 400 ML. DI PANNA FRESCA ersare il latte in un pentolino e scaldarlo a fuoco basso. Aggiungere la panna, girando col cucchiaio lungo. Tenere da parte. Scaldare anche il miele lentamente, per renderlo liquido. Se si vuole un gusto più caramellato, portarlo a ebollizione mescolando continuamente. Togliere dal fuoco e aggiungere latte e panna caldi, lavorando con una frusta. Lasciar riposare a temperatura ambiente. Una volta raffreddata la preparazione, mantecare in gelatiera (ai tempi di Leopardi, il contenitore veniva calato in un mastello pieno di ghiaccio e sale, staccando man mano il composto che si ghiacciava sulle pareti con una spatola di legno). V LO CHEF GIACOMO LEOPARDI (1798 - 1837) È L’AUTORE DELLA RICETTA QUI RIPENSATA PER I LETTORI DI “REPUBBLICA”. LA LISTA DEI 49 PIATTI PREFERITI DAL POETA (A DESTRA) È CONSERVATA PRESSO LA BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLI Frolla di farina, tuorli, zucchero, strutto e sale Ripieno di linguine cotte al dente, spadellate in soffritto di olive, capperi, acciughe, aglio, cozze e prezzemolo, poi in forno 47. Zucche o insalate con carne Polpa di vitello cotta al forno, tagliata a striscioline insieme a olive di Gaeta snocciolate, fettine di carciofi, menta, emulsione d’olio, limone, pepe e sale Il pranzo solitario del tenero Giacomo GIACOMO LEOPARDI G LI antichi però avevano ragione, perché essi non conversavano insieme a tavola, se non dopo mangiato, e nel tempo del simposio propriamente detto, cioè della comessazione, ossia di una compotazione, usata da loro dopo il mangiare, come oggi dagl’inglesi, e accompagnata al piú da uno spilluzzicare di qualche poco di cibo per destar la voglia del bere. Quello è il tempo in cui si avrebbe piú allegria, piú brio, piú spirito, piú buon umore, e piú voglia di conversare e di ciarlare. Ma nel tempo delle vivande tacevano, o parlavano assai poco. Noi abbiamo dismesso l’uso naturalissimo e allegrissimo della compotazione, e parliamo mangiando. Ora io non posso mettermi nella testa che quell’unica ora del giorno in cui si ha la bocca impedita, in cui gli organi esteriori della favella hanno un’altra occupazione (occupazione interessantissima, e la quale importa moltissimo che sia fatta bene, perché dalla buona digestione dipende in massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell’uomo, e la digestione non può esser buona se non è ben cominciata nella bocca, secondo il noto proverbio o aforismo medico), abbia da esser quell’ora appunto in cui piú che mai si debba favellare; giacché molti si trovano, che dando allo studio o al ritiro per qualunque causa tutto il resto del giorno, non conversano che a tavola, e sarebbero bien fachés di trovarsi soli e di tacere in quell’ora. Ma io che ho a cuore la buona digestione, non credo di essere inumano se in quell’ora voglio parlare meno che mai, e se però pranzo solo. Tanto piú che voglio potere smaltire il mio cibo in bocca secondo il mio bisogno, e non secondo quello degli altri, che spesso divorano e non fanno altro che imboccare e ingoiare. Del che se il loro stomaco si contenta, non segue che il mio se ne debba contentare, come pur bisognerebbe, mangiando in compagnia, per non fare aspettare, e per osservar le bienséances che gli antichi non credo curassero troppo in questo caso; altra ragione per cui essi facevano molto bene a mangiare in compagnia, come io credo fare ottimamente a mangiar da me. da Zibaldone di pensieri 6 luglio 1826 la Repubblica DOMENICA 31 AGOSTO 2014 10 piatti firmati 8. Riso al burro Scalogno e sedano insaporiti nel burro, poi vino bianco Far evaporare e tostare il riso. Tirare a cottura con brodo di pesce, aggiungendo a metà i filetti di triglie di scoglio 11. Frittelle di borragine Le foglie di borago officinalis (sbollentate, raffreddate, asciugate e infarinate) si tuffano in una pastella di farina, lievito, pecorino grattugiato e acqua, per poi friggerle 16. Bignés di patate Burro sciolto in acqua bollente salata, farina e tuorli. Formare delle palline, infornare, farcire gli choux con puré di patate e formaggio, imburrare e infine gratinare 22. Selleri Zuppetta di sedano tagliato a tocchetti, sbianchito in acqua salata, aggiunto a un soffritto di carote, cipolla e cotenna Cottura con acqua Alla fine, cacio grattugiato 24. Ravaiuoli Per farcire i ravioli, cipolla ammorbidita nel burro, macinato di carne, vino bianco e sale A freddo, ricotta vaccina, Parmigiano Reggiano e tuorli Condire con sugo di pomodoro 25. Bodin di ricotta Ricotta di bufala setacciata, lavorata con zucchero a velo e rossi d’uovo (uno alla volta), rum, maraschino, scorzette candite e gherigli di noce Far riposare in frigo 42. Prosciutto Per la spumetta, prosciutto cotto a dadini schiacciati con la forchetta, poi Marsala secco e crema di latte. Alla fine, profumo di noce moscata Servire con pane abbrustolito La ricetta Un favoloso gelato al miele 45. Pasticcini di maccheroni INGREDIENTI 260 G.DI MIELE DI CORBEZZOLO 500 ML. DI LATTE INTERO FRESCO 400 ML. DI PANNA FRESCA ersare il latte in un pentolino e scaldarlo a fuoco basso. Aggiungere la panna, girando col cucchiaio lungo. Tenere da parte. Scaldare anche il miele lentamente, per renderlo liquido. Se si vuole un gusto più caramellato, portarlo a ebollizione mescolando continuamente. Togliere dal fuoco e aggiungere latte e panna caldi, lavorando con una frusta. Lasciar riposare a temperatura ambiente. Una volta raffreddata la preparazione, mantecare in gelatiera (ai tempi di Leopardi, il contenitore veniva calato in un mastello pieno di ghiaccio e sale, staccando man mano il composto che si ghiacciava sulle pareti con una spatola di legno). V LO CHEF GIACOMO LEOPARDI (1798 - 1837) È L’AUTORE DELLA RICETTA QUI RIPENSATA PER I LETTORI DI “REPUBBLICA”. LA LISTA DEI 49 PIATTI PREFERITI DAL POETA (A DESTRA) È CONSERVATA PRESSO LA BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLI Frolla di farina, tuorli, zucchero, strutto e sale Ripieno di linguine cotte al dente, spadellate in soffritto di olive, capperi, acciughe, aglio, cozze e prezzemolo, poi in forno 47. Zucche o insalate con carne Polpa di vitello cotta al forno, tagliata a striscioline insieme a olive di Gaeta snocciolate, fettine di carciofi, menta, emulsione d’olio, limone, pepe e sale 43 Il pranzo solitario del tenero Giacomo GIACOMO LEOPARDI G LI antichi però avevano ragione, perché essi non conversavano insieme a tavola, se non dopo mangiato, e nel tempo del simposio propriamente detto, cioè della comessazione, ossia di una compotazione, usata da loro dopo il mangiare, come oggi dagl’inglesi, e accompagnata al piú da uno spilluzzicare di qualche poco di cibo per destar la voglia del bere. Quello è il tempo in cui si avrebbe piú allegria, piú brio, piú spirito, piú buon umore, e piú voglia di conversare e di ciarlare. Ma nel tempo delle vivande tacevano, o parlavano assai poco. Noi abbiamo dismesso l’uso naturalissimo e allegrissimo della compotazione, e parliamo mangiando. Ora io non posso mettermi nella testa che quell’unica ora del giorno in cui si ha la bocca impedita, in cui gli organi esteriori della favella hanno un’altra occupazione (occupazione interessantissima, e la quale importa moltissimo che sia fatta bene, perché dalla buona digestione dipende in massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell’uomo, e la digestione non può esser buona se non è ben cominciata nella bocca, secondo il noto proverbio o aforismo medico), abbia da esser quell’ora appunto in cui piú che mai si debba favellare; giacché molti si trovano, che dando allo studio o al ritiro per qualunque causa tutto il resto del giorno, non conversano che a tavola, e sarebbero bien fachés di trovarsi soli e di tacere in quell’ora. Ma io che ho a cuore la buona digestione, non credo di essere inumano se in quell’ora voglio parlare meno che mai, e se però pranzo solo. Tanto piú che voglio potere smaltire il mio cibo in bocca secondo il mio bisogno, e non secondo quello degli altri, che spesso divorano e non fanno altro che imboccare e ingoiare. Del che se il loro stomaco si contenta, non segue che il mio se ne debba contentare, come pur bisognerebbe, mangiando in compagnia, per non fare aspettare, e per osservar le bienséances che gli antichi non credo curassero troppo in questo caso; altra ragione per cui essi facevano molto bene a mangiare in compagnia, come io credo fare ottimamente a mangiar da me. da Zibaldone di pensieri 6 luglio 1826 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 31 AGOSTO 2014 44 L’incontro. Forever young SONO UN MOTOCICLISTA SPERICOLATO COSA PROVO NELL’ANDARE TROPPO FORTE? UNA LIBERAZIONE. DA COSA? DALL’ANDARE TROPPO PIANO Un’infanzia come una folle corsa da un angolo all’altro del pianeta, con un padre ogni volta diverso e una madre costumista che lo introduce da giovanissimo al mestiere dell’attore: «Trascorrevo ore e ore negli studi di registrazione. Mi ricordo il folclore delle regine del country rock. Mi ero abituato alle stranezze, tutto m’appariva normale». Ruoli importanti in film che fanno epoca, da Il Piccolo Buddha a Matrix: «Il cinema mi sulla terrazza panoramica di Publicis Cinémas, giro d’orizzonte mozzafiato sulcittà. Ma lui sceglie la sedia che dà le spalle a Parigi: «Preferisco l’ombra». Parla calmo, e lento. Si gratta la gamba destra scoprendo un’ampia cicaaffascina anche per le magie tec- l’intera trice ricurva: incidente in moto nel ‘96, dopo quello d’anni prima sul Topanga Canyon Boulevard, tra la Los Angeles Valley e il Pacifico, che gli ha lasciato un’al“firma” lunga fino allo stomaco. «Il mio uncino di pirata — ironizza, andannologiche che lo rendono possi- tra doci sopra con l’indice — o il mio punto interrogativo. Tutti e due, forse: dipende da come lo si guarda». Tra i suoi soprassalti atletici, c’è stato anche l’hockey ghiaccio: «Avevo cominciato molto presto, quand’ero a Toronto: giocavo in bile». Tra due giorni compirà cin- suporta, non malaccio, tanto che progettavano di passarmi professionista per le Olimpiadi. Mi chiamavano “the Wall”, il muro. Ma è finita con un brutto incialle ginocchia, che tra l’altro m’impedisce da allora di praticare il surf. quant’anni: «Crisi di mezza età? dente Però non tutti i sogni di ragazzo si sono infranti: mi è rimasto quello di andare nello Spazio. Non dispero un giorno di realizzarlo». E la musica ? «È storia parallela al cinema. A ventitré anni mi ero comprato una chitarra sul Sunset BouQuale età?». levard. Volevo imparare. M’incantava Peter Hook, bassista dei Joy Division, Keanu Reeves M AR I O SER ENEL LI N I PARIGI A SUA INFANZIA è stata una folle corsa, come l’autobus in fuga dalla mi- L naccia d’esplosione in Speed, il film che vent’anni fa lo rese definitivamente popolare: un viavai a perdifiato da un angolo all’altro del pianeta e cambi choc non solo d’abitazione ma d’equilibri domestici, con un “padre” ogni volta diverso. Nato nel 1964 a Beirut da madre britannica e padre sino-hawayano, Keanu Reeves nei primi anni di vita è stato sballottato tra Libano, Australia, America fino a stabilizzarsi a sette anni, per una briciola di calendario, a Toronto, con la madre, divorziata da quando lui aveva tre anni e da allora in totale turbinio di nuovi mariti: «Vi abbiamo vissuto fino al trasloco a Hollywood dove ancora ragazzo ho cominciato a fare l’attore. Intanto, mia madre era diventata costumista e io trascorrevo ore e ore negli studi di registrazione. Mi ricordo il folclore delle regine del country rock, Dolly Parton, Emmylou Harris e di Alice Cooper, alle prese con Welcome to My Nightmare: mi ero abituato alle stranezze, tutto mi appariva normale». Reeves, barba e capelli nerissimi, elastico e leggero nell’abbinamento tshirt e giacca Armani, compirà cinquant’anni il due settembre («Crisi di mezza età? Quale età?»). Già star a poco più di vent’anni — Point Break di Kathryn Bygelow, My Own Private Idaho di Gus Van Sant, il Dracula di Francis Ford Coppola e Il Piccolo Buddha di Bernardo Bertolucci — l’attore americano tenacemente abbarbicato alla nazionalità canadese, divenuto fanta-icona con la saga di Matrix, è oggi regista di Man of Tai Chi, thriller arabescato di kung-fu, e produttore di Side by Side, inchiesta sull’epocale cinetrapasso dalla pellicola al digitale dove, da inatteso cinefilo, intervista maestri del grande schermo, da Lynch a Scorsese, Lucas, Von Trier, Boyle, Cameron: «Il cinema mi affascina anche per le magie tecnologiche che lo rendono possibile. Sono CASA MIA È UNA SAUNA SONORA: ARCHERS OF LOAF, HÜSKER DÜ, ELVIS COSTELLO, STRAVINSKY, SONIC YOUTH. SONO STATO BASSISTA DEI DOGSTAR E DEI BECKY E HO SCRITTO CANZONETTE. ABBIAMO ANCHE INCISO DISCHI. CE LA SBROGLIAMO stato un bambino curioso: smontavo i giocattoli, chiedevo sempre “perché ?”. Così mi sono divertito a mettere il naso dentro macchinari e processi digitali di riprese e proiezioni. Una curiosità già estesa ai motori, altra mia passione fin da ragazzo: sono un motociclista spericolato, fan delle Norton, la moto per eccellenza, e adesso anche costruttore dilettante di cilindrate. Sono fiero di poterle anticipare che presto l’Arch Motorcycle Company svelerà un mio prototipo». Ospite d’onore del festival Champs-Elysées di Sophie Dulac, tra un incontro e l’altro con le platee di teen adoranti, Reeves si rilassa specie in pezzi come Love Will Tear Us Apart,Ceremony, Atmosphere. Qualche tempo dopo scopro un vicino con la maglietta da hockey. Anche lui è attore, Robert Mailhouse. Siamo diventati fratelli di hockey e di musica». Dopo i primi album, Our Little Visionary del ‘96 e il successivo Happy Ending, che posto ha la musica nelle sue giornate? «Casa mia è una sauna sonora: Archers of Loaf, Built to Spill, Hüsker Dü, Elvis Costello, Dean Martin, Bobby Darin, Dinosaur Jr, Stravinsky, Sonic Youth…». È rimasta solo un hobby ? «Sono stato bassista di band come i Dogstar o i Becky e ho contribuito al repertorio con le mie “ditties”, canzonette. Abbiamo inciso dischi. Ce la spassiamo. Questo è hobby? Non so. Ci facciamo pagare: questo è professionismo ? Okay, diciamo che è un hobby professionistico». Torniamo all’altro “hobby professionistico”, il cinema: come mai ha sempre snobbato uno dei suoi maggiori successi, Speed, e ha rifiutato dieci milioni di dollari per Speed 2, preferendo raggiungere Al Pacino ne L’avvocato del diavolo ? Con Reeves, talvolta, dopo una domanda si aspetta. Anche per settantadue secondi. Questa è una di quelle volte. Lui riflette («Voglio trovare la risposta precisa»). Nel frattempo, nello Spazio, i pianeti si scontrano, le stelle esplodono in supernova, sulla Terra sparisce la foresta amazzonica e, lì sotto, l’Arc de Triomphe fa da ombelico a un’immobile giostra d’auto come in un film di Tati. Ripensiamo con pena solidale ai troppi strappi di un’aurea carriera — il padre in prigione per traffico d’eroina, la morte dell’amico River Phoenix, della figlia appena nata, nel ‘99 e, poco dopo, della giovane compagna Jennifer Syme — smarrita poi tra flirt da rotocalco: Winona Ryder, Cameron Diaz, Charlize Theron, Parker Posey… Ma ecco: «Speed! Pensi che avevo detto no anche la prima volta, minimizzando: una bomba su un bus, e allora? E anche mentre lo interpretavo avevo la testa altrove. Pensavo all’Amleto. Ne conosco a memoria sonetti e soliloqui, in viaggio ne ho sempre una copia con me, mi piace recitarne i passaggi a voce alta quando sono in camera da solo». Dopo gli Shakespeare giovanili Reeves ha interpretato Tanto rumore per nulla di Kenneth Branagh e, nel ‘95, in teatro a Winnipeg, priorio Amleto. «Ormai ho capito che per quanto lontano si possa andare, Amleto ci segue e ci giudica. Meraviglioso e terrifi- QUEL CHE HO SCOPERTO NEL RECITARE AMLETO È CHE S’È FATTO CARICO PER ME DI TUTTA LA RABBIA CHE MI SENTIVO DENTRO NEI CONFRONTI DI MIA MADRE: ERA LÌ E NON ME NE ERO MAI ACCORTO cante». Ha a che fare anche con le sue vicende familiari ? Madre risposata, padre fantasma… «Vero. Quel che ho scoperto nel recitare Amleto è che si è fatto carico per me di tutta la rabbia che sentivo nei confronti di mia madre. Ne sono stato sorpreso: era già tutto lì dentro e non me ne ero mai accorto». E come si passa da Shakespeare ai Wachowski di Matrix? «Mi è piaciuto subito il personaggio: e l’interrogativo “Quale verità ?”. E poi sono da sempre un cultore di graphic novels (di Frank Miller in particolare). Senza parlare delle arti marziali! I film di kung-fu io me li studio. Mi divertono troppo i combattimenti finti». Nella sua fitta filmografia c’è anche un po’ d’Italia: «Bertolucci è il migliore di tutti, il regista da cui ho imparato di più come attore e, spero, adesso, come regista. Con Il Piccolo Buddha mi ha fatto per la prima volta entrare nella spiritualità dell’Oriente, percepire il divino che è nell’uomo». E Monica Bellucci: il divino che è nella donna? «Una presenza unica, fantastica. Purtroppo sacrificata in mini-ruoli come in The Private Lives of Pippa Lee di Rebecca Miller e nel Dracula di Coppola». Negli Usa lo aspettano due film, il thriller Knock Knock di Eli Roth e The Whole Truth di Courtney Love, sulla fine misteriosa di Kurt Cobain. Poi? Si lancerà di nuovo sulle due ruote? «Inforco la moto appena posso, in ogni scampolo di tempo libero, quando ne ho abbastanza del cinema, della chitarra e persino di Amleto. Di giorno, di notte, prendo e, in un ruggito, via dalla città. Assaggi di catarsi, tutto alle spalle». Che piacere prova nell’andare troppo forte? «Una liberazione». Da che cosa? «Dall’andare troppo piano?». © RIPRODUZIONE RISERVATA