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L’ULTIMO VOLO
PER PUNTA RAISI
di FRANCESCO TERRACINA
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FRANCESCO TERRACINA, giornalista, lavora all’Ansa di Palermo.
È stato redattore del quotidiano “L’Ora” e direttore
del “Mediterraneo”. Ha collaborato a diverse testate,
tra cui “Diario”, “Il Manifesto”, “L’Europeo”, “Il Mondo”.
© 2012 Francesco Terracina
© 2012 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri
Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons-Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia. Il testo integrale della licenza è disponibile all’indirizzo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/.
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PREFAZIONE
IL SILENZIO PARLA
In Sicilia si viene al mondo muti. È nel silenzio che
la diversità dei siciliani diventa cultura. Mafiosi,
ma anche cittadini – materializzazione
ectoplasmatica di un’illusione di cittadinanza –
perdono la bocca all’atto di nascita, simbolicamente
e antropologicamente. I palermitani mai l’hanno
aperta per confermare la verità semplice
dell’esistenza in vita, e ancora meno l’hanno
socchiusa in un sussurro che ne rivendicasse la
dignità. Il silenzio è la qualità più sottile e spesso
apprezzata dei morti e della morte. Della morte
civile e della solitudine, dei morti ammazzati, dei
morti di strage, dei morti di disastri aerei. Sono
stati tre a Palermo, per un totale di 297 morti: 5
maggio 1972 Montagna Longa, 23 dicembre 1978
Punta Raisi, 27 giugno 1980 strage di Ustica. Senza
contare le sedici vittime del tentato ammaraggio a
poche miglia da Palermo di un Atr 72 della
compagnia tunisina Tuninter, in volo il 6 agosto
2005 da Bari a Djerba. Non c’è un’altra città
italiana che possa contare tutte queste croci, tutti
questi silenzi.
Il silenzio è la trama e il protagonista di L’ultimo volo
per Punta Raisi di Francesco Terracina, giornalista e
siciliano. Indagine e inchiesta storica, reportage ma
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
anche documento e fonte originale, L’ultimo volo per
Punta Raisi è un formidabile rapporto sullo stato del
silenzio a quarant’anni esatti da una strage ancora
inspiegabile. La Giustizia ha cristallizzato una
fragile e contorta verità, troppo rapida e poco
credibile, sulla morte di 115 persone a bordo del Dc
8 Alitalia AZ 112 Roma-Palermo che il 5 maggio
1972, tra le 22.23 e le 22.24, si schiantò sul costone
di Montagna Longa, a poco meno di otto chilometri
dalle piste dell’aeroporto palermitano.
Una verità che non regge. A scardinarla, il silenzio.
Una volta complice delle verità di Stato, oggi, dopo
quattro decenni, il silenzio parla. Si racconta
attraverso il linguaggio dei segni e dei segnali,
attraverso le tragedie collettive e il dolore privato
dei siciliani e della Sicilia, di Palermo e della sua
provincia negli anni ’70, un pezzo della nazione
italiana nella piena disponibilità di Cosa nostra che
di volta in volta stringeva accordi con lo Stato o con
quella negazione dello Stato che era il terrorismo
fascista e stragista, individuava interessi comuni,
operava con i metodi della criminalità ma con gli
agi dei vicereami. Non è un caso che Gladio in
Sicilia avrà ampi margini e l’isola fiorirà di campi
paramilitari fascisti. La Sicilia palestra, come al
solito, del nostro peggiore futuro. Il silenzio si
racconta fragorosamente nell’urlo del territorio
devastato, nell’offesa quotidiana della legalità, nello
sfregio permanente della comunità. Non correlati
delle tragedie, ma presupposti e anticipi.
Per ascoltare questo silenzio, per farlo parlare,
servono antenne sensibilissime che solo alcuni
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siciliani hanno sviluppato. Forse per l’urgenza di
smorfiare il silenzio dei morti, delle cose, della
natura e degli uomini. Forse per la necessità di
captare un segnale di rassicurante normalità al di
là delle distanze siderali che ci separano dalle
dinamiche certe del mondo. Francesco Terracina ha
fatto parlare il silenzio, solo due minuti di silenzio
radio, quelli tra la cabina dei piloti e lo scalo
palermitano, due soli, insondabili, inaccettabili
minuti di silenzio, tra le 22.23 e le 22.24 nel maggio
del ’72. Poi, lo schianto. Due minuti di silenzio che
hanno capovolto, sicilianamente, le leggi che
regolano il nostro universo, stravolgendo la logica e
persino la fisica, facendo diventare ineluttabile ciò
che non lo è, segnando il crisma della normalità su
ciò che è abnorme, malato, incredibile. Persino in
Sicilia, persino a Palermo dove tutto si tiene e si
confonde: la verità e la bugia, il denaro e la
collusione, la politica e la mafia, il pubblico servizio
e l’incompetenza, la richiesta di verità e la sua
negazione. Due minuti di silenzio che sembrano
racchiudere il mistero di tutti i silenzi, quelli che
hanno pilotato il nostro Paese lungo lo scartamento
ridotto della democrazia, condannandoci a una
irredimibile, tragica ambiguità.
Possiamo ancora accettare, in silenzio, la verità agli
atti che la scatola nera del Dc 8 non ha registrato
nulla del volo perché aveva il nastro strappato, ma
continuava a segnalarne il funzionamento?
Possiamo ancora accettare, in silenzio, la verità agli
atti che i piloti non avessero visto la pista di Punta
Raisi omettendo di avvisare la torre di controllo?
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
Possiamo ancora accettare che nessun magistrato né
prima, né durante, né dopo il processo abbia chiesto
i tracciati radar del centro di difesa aerea di
Marsala (per la strage di Ustica furono acquisiti, ma
dopo otto anni dalla tragedia) per controllare la
reale traiettoria del Dc 8 in quei due minuti di
silenzio? Possiamo ancora accettare che non furono
mai autorizzate verifiche di tracce di esplosivo
nonostante molti corpi e oggetti presentassero
condizioni compatibili con un’esplosione? Possiamo
ancora accettare il tetragono, inossidabile rifiuto di
prendere in considerazione altre ipotesi sulle cause
della tragedia di Montagna Longa, altre piste di
indagine? Il silenzio, l’omertà, valore simbolico di
una comunità arcaica e mafiosa esteso ad
abbracciare le cose, i fatti, gli strumenti. Eppure le
altre piste di indagine erano lì, nei segni, nei
segnali, nell’oscuro presente di quegli anni.
Montagna Longa appare come l’epifania
terrificante, ma nello stesso tempo logica e
consequenziale, della saldatura tra contingenti
interessi mafiosi e strategiche ambizioni neofasciste.
Non solo per la qualità di alcuni passeggeri a bordo
del Dc 8, non solo perché due giorni dopo si
sarebbero svolte le elezioni politiche. Non è
Terracina ad affermarlo, ma i fatti del silenzio e le
certosine indagini di un poliziotto, Giuseppe Peri,
che approda a una verità così scomoda da segnarlo
nella carriera e nella salute. Antenne sensibilissime
che captarono la verità carsica di quegli anni e che
sino ad oggi ha trovato solo riscontri.
Ed è agghiacciante verificare come i morti per
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tragedia e per silenzio, in Sicilia, siano
pietosamente composti da altri morti, morti che
consolano i morti, morti che indagano sui morti. Il
generale Dalla Chiesa, ucciso il 3 settembre ’82,
tenne a battesimo l’inchiesta sul disastro; il
colonnello Giuseppe Russo, ucciso il 20 agosto del
’77, prese in carico la scatola nera inutilizzabile del
Dc 8; il medico legale Paolo Giaccone, ucciso l’11
agosto dell’82, fece i rilievi autoptici sui corpi dei
due piloti; il parlamentare comunista Pio La Torre,
ucciso il 30 aprile ’82, pronunciò a Montecitorio un
durissimo intervento contro le conclusioni
dell’indagine ministeriale sulla tragedia; Giovanni
Spampinato, giornalista de “L’Ora”, ucciso il 27
ottobre del ’72, indagò sui rapporti tra mafia e
terrorismo nero in Sicilia; il magistrato Cesare
Terranova, ucciso il 25 settembre ’79, fu l’ultimo ad
ascoltare il poliziotto Giuseppe Peri.
La fitta ragnatela di morti diventa un sudario a
coprire altri morti e a soffocare nei vivi ogni
preghiera di giustizia e invocazione di verità.
Sciolto il mistero di Montagna Longa dall’ultimo
abbraccio del silenzio, a Palermo si tornerebbe a
nascere con una normale anatomia antropologica.
Bocca compresa.
Giosuè Calaciura
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PARTE I
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CAPITOLO I
LA LINEA D’OMBRA
È andata così: 115 morti in una calma sera di maggio e
nessuno con cui prendersela, se non i due piloti, morti
anche loro. Il 5 maggio 1972, tra le 22.23 e le 22.24 un Dc
8 dell’Alitalia, il volo AZ 112 proveniente da Roma, si
schianta contro una parete rocciosa a circa 935 metri
d’altezza: Montagna Longa, un brullo costone calcareo
messo lì ad ascoltare i venti, a ridosso dell’aeroporto palermitano di Punta Raisi.
L’aereo, con 108 passeggeri a bordo e sette membri
d’equipaggio, aveva iniziato il rullaggio a Fiumicino alle
21.35 (20.35 secondo l’orario del meridiano di Greenwich, che è il riferimento per il traffico dell’aria) con venticinque minuti di ritardo e aveva staccato le ruote da
terra alle 21.46. In quaranta minuti sarebbe giunto a Palermo attraversando due aerovie, l’Ambra 1 e l’Ambra 13,
passando per Ponza e Ustica.
Decollo perfetto. Il registratore di Roma Controllo fino
alle 21.10/Z1, cioè le 22.10 locali, segue l’aereo e a quel
punto lo autorizza a cambiare con Palermo Avvicinamento sulla frequenza 120,2 della torre di controllo di Punta
Raisi. Da questo momento, il concetto del tempo acquista la sua dimensione meridionale, approssimata: Palermo, infatti, non ha il marcatempo nel registratore.
A Punta Raisi, i tassisti danno uno sguardo alle auto pri1. La lettera Z sta per Zulu, che indicava l’orario medio del meridiano di Greenwich. Da tempo si usa
l’acronimo Utc (Universal time coordinated). È una convenzione alla quale si fa riferimento ogni volta che
è necessario indicare in maniera inequivocabile un orario ed evitare eventuali incomprensioni dovute alla differenza di fuso orario.
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vate parcheggiate nel piazzale e capiscono che non tira
aria d’affari. Dentro le loro Seicento Multipla nere e verdi – dalla carrozzeria sfrontatamente gobba – riprendono
a sonnecchiare, mentre le radio a basso volume trasmettono gli ultimi appelli al voto dei segretari di partito: due
giorni dopo, il 7 maggio, si sarebbero svolte le elezioni
politiche. Il tabellone degli arrivi, quel vecchio ingranaggio di “palpebre” nere con i numeri in bianco, tanto simile a una tombola e ormai sconosciuto alla generazione
dell’era digitale, non segnala alcun ritardo: 25 minuti evidentemente non sono ritenuti un problema.
Nella cabina di pilotaggio del Dc 8 c’è il comandante Roberto Bartoli, 41 anni da poco compiuti, 8.565 ore di volo
alle spalle, 57 atterraggi a Punta Raisi e un curriculum di
tutto rispetto che includeva la dura esperienza nell’aviazione militare. Bartoli faceva parte dell’equipaggio che accompagnò Papa Paolo VI a Delhi nel primo viaggio di un
pontefice in India. Con lui, in cabina, ci sono il primo ufficiale Bruno Dini, 37 anni, 3.117 ore alla cloche degli aerei
di linea e un passato, anche per lui, nell’Aeronautica militare, 22 i voli su Punta Raisi come terzo membro dell’equipaggio e 8 i voli come copilota, e il motorista-pilota Gino
Di Fiore, 28 anni, 1.124 ore passate ad ascoltare il suono
dei reattori e a percepirne ogni nota, anche lui con brevetto di pilota, sebbene non richiesto nel suo ruolo. Quattro
gli assistenti: Adriano Pescosolido, Paola Graziella Magrini, Paola Massimi e Beatrice De Moulin.
Dini è ai comandi dell’AZ 112, Bartoli ai collegamenti radio2. Il pomeriggio del 5 maggio, il comandante e il suo
2. Sugli aerei di linea è obbligatorio che ci siano due piloti. Il pilot flight, che siede a sinistra, agisce sui
comandi di volo. L’altro pilota presta assistenza al primo e si occupa anche delle comunicazioni radio btb
(bordo-terra-aria).
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equipaggio avevano volato da Roma a Catania e ritorno.
Prima di imbarcarsi per Palermo, il comandante si era incontrato a Fiumicino con la moglie e insieme avevano accompagnato i figli a bordo del volo Ati BM 351 diretto a
Trieste, dove avrebbero trascorso qualche giorno dai
nonni.
L’equipaggio avrebbe pernottato a Palermo, in uno di
quegli alberghi esclusivi dove la compagnia di bandiera,
ben lontana a quei tempi dalle ferree logiche del risparmio, mandava i propri dipendenti. Da lì a poco avrebbero cenato, nonostante l’ora tarda, perché la gente dell’aria è un po’ come gli attori di teatro, che mai andrebbero in scena a pancia piena.
Quando Bartoli si collega con Palermo, sono certamente
passate le 22.10, ora dell’ultima comunicazione con Roma, e dichiara di trovarsi a 74 miglia da Punta Raisi. La
torre di controllo gli fornisce i dati meteo: calma di vento, visibilità cinque chilometri, 3/8 di cumuli a 1.700 piedi, 5/8 di cirri a 20.000 piedi. Sono i nomi delle nuvole,
mentre i numeri indicano la percentuale di copertura del
cielo. La scala varia da 1/8 a 8/83. Volendo semplificare si
può dire che i cumuli sono le nubi grigie, i cirri sono formazioni sfilacciate: le cosiddette pecorelle.
Per un normale passeggero, l’esser sospeso in aria tra cumuli e cirri è come stare su una giostra o dentro un incubo, e poco importa conoscere la scienza del volo, quel
principio della fisica che prende il nome dal suo scopritore, Bernoulli, il quale già nel Settecento capì che la
3. Anche questa nomenclatura è stata sostituita dai seguenti acronimi: Few (cielo coperto per meno del
25%, che corrisponde alla vecchia scala 1/8); Sct, cioè scattered (copertura dal 25% al 50%: da 2/8 a
4/8); Bkn, broken (cielo coperto dal 50% al 99%: da 6/8 a 7/8); Ovc, overcast (cielo completamente coperto: 8/8).
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
pressione dell’aria in movimento è più bassa rispetto a
quella dell’aria circostante. E il vuoto che si crea sopra
l’ala, leggermente curva, consente all’aereo di essere risucchiato in alto. È un principio semplice e, come tutte
le cose semplici, funziona.
Ma torniamo alle comunicazioni di Bartoli con la torre di
controllo: il comandante dice di trovarsi a 25 miglia da
Ustica e a 55 da Palermo. Ecco l’esatta trascrizione del
dialogo tra i piloti e l’addetto alla torre di controllo.
− AZ 112: Adesso siamo a 25 miglia da Ustica e quindi a
75, oh scusate, 25 e 30 fa 55 miglia da Palermo.
− Torre di controllo: Ok.
− AZ 112: Siamo a 28 miglia, quindi fra tre miglia siamo
al Ctr [la zona di controllo di Palermo, nda], tra dieci secondi e continuiamo la discesa per 5000.
− Torre di controllo: Ok 5000 piedi Prs [sigla del radiofaro installato in aeroporto, che trasmette sulla frequenza
329, nda], nessun ritardo.
− AZ 112: Palermo AZ 112 è sulla vostra verticale e lascia
5000 e riporterà sottovento per la 25 sinistra.
− Torre di controllo: Ricevuto, il vento è sempre calmo.
− AZ 112: Ok… (parole indecifrabili).
La trascrizione del dialogo si chiude con l’ok da parte di
Bartoli. È tutto quello che si sa su quest’ultima conversazione: nessuna perizia è mai stata eseguita sul nastro, nonostante un’esplicita richiesta delle parti civili al processo che si aprirà a Catania. Da questo momento si interrompe ogni collegamento tra la torre di controllo e l’aereo, mentre inizia il dialogo telefonico tra le torri di controllo di Roma e Palermo.
Sappiamo, dalla comunicazione di Bartoli, che aveva individuato l’aeroporto e che si apprestava a scendere per
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portarsi sottovento e imboccare la pista 25 sinistra4.
Compiuto l’avvicinamento, la procedura da manuale prevede che arrivati sulla verticale si compia un circuito
pressoché ellittico che a Punta Raisi chiamano il “biscotto sul mare” e che consiste nel percorrere a vista quattro
bracci prima dell’atterraggio. Quando l’aereo imbocca
l’ultimo lato del circuito, che misura circa cinque chilometri, se il pilota non scorge la pista deve effettuare la
manovra di mancato avvicinamento, riattaccando e deviando a destra verso il mare, per poi ripetere daccapo la
procedura5. Manovra, quest’ultima, che a chi viaggia con
frequenza sarà, per probabilità statistica, capitato di assistere: è la classica riattaccata, che si effettua dando
potenza ai motori e raggiungendo una quota di sicurezza
dalla quale ripetere la manovra.
Bartoli e Dini non fanno nulla di tutto questo: non riattaccano e non percorrono il circuito d’atterraggio; non
sul mare, almeno, non a nord dell’aeroporto, dove è previsto che si svolga questa operazione. Non compiono neanche la manovra più diretta: arrivare dal mare e atterrare direttamente sulla pista, una procedura breve che, in
4. Per chiarire la pianta dell’aeroporto, la pista principale corre quasi parallelamente alla linea di costa.
La numerazione si riferisce alle coordinate geografiche: 25 sta per 250 gradi, significa che l’orientamento rientra nel quadrante ovest-sudovest. La stessa pista (il proseguimento della linea retta) sul lato opposto è orientata a 70 gradi, cioè a est-nordest. Si tratta, insomma, dei due punti opposti dello stesso segmento, la cui differenza dà, ovviamente, 180 gradi.
5. La cartina di avvicinamento prevede che gli aerei inizino la discesa da 5000 piedi, stabilizzati sul rilevamento 039° del radiofaro Prs Ndb, quindi in allontanamento dalla pista. Raggiunta la quota di 2850
piedi, entro un preciso arco di tempo si inizia la virata a sinistra verso la pista 25, prendendo prua 209°
e iniziando un’ulteriore discesa per 1050 piedi. Una volta stabilizzati sul rilevamento 209° del radiofaro
Prs, si mantiene la quota e si cerca a vista la pista: se entro un determinato lasso di tempo (in funzione
della velocità dell’aeromobile) non si vede la pista, si effettua la manovra di mancato avvicinamento, che
in questo caso prevede una virata a destra verso il mare, salendo nuovamente a quota 5000 piedi. Quando l’equipaggio del volo AZ 112 dice alla torre di controllo di aver individuato la verticale del campo, lasciando 5000 piedi, si suppone che fosse effettivamente stabilizzato sul tratto in allontanamento e avesse iniziato la discesa come da procedura strumentale; oppure aveva identificato l’aeroporto, o credeva
d’averlo fatto, e cominciava la discesa mantenendo in vista la pista in uso e gli ostacoli presenti.
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Carta di atterraggio
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assenza di traffico e con buona visibilità, è quella più eseguita.
Circa due ore dopo, i rottami del Dc 8 verranno trovati,
insieme ai corpi dell’equipaggio e dei passeggeri, tra le
rocce aguzze di Montagna Longa, a poco meno di 4 miglia in linea d’aria dallo scalo di Punta Raisi. Cosa è successo tra l’ultima comunicazione di Bartoli e il momento
dello schianto? Questa domanda, la più importante, non
ha ancora avuto una risposta certa, nonostante un processo concluso in Cassazione nel 1984.
I periti che hanno lavorato sull’incidente affermano che a
Punta Raisi ogni procedura strumentale ha lo scopo di
coadiuvare il pilota nel condurre l’aereo in allineamento
con la pista, fino a una distanza e a una quota tali da permettere l’atterraggio completamente a vista. Il Dc 8 quando è finito sulla montagna si trovava a circa 3000 piedi. Se
i piloti avevano già individuato la pista, come sembrerebbe dalle comunicazioni alla torre di controllo, cosa ci facevano in quel punto fuori rotta e a quella quota?
La conclusione dell’inchiesta sulla sciagura di Montagna
Longa (la più grave mai accaduta in Italia fino all’incidente dell’8 ottobre 2001 a Milano-Linate, dove 118 persone morirono per una collisione a terra tra un Md 87
della Sas e un Cessna Citation), sia pure con molte cautele e non escludendo altre ipotesi legate all’errore umano, stabilisce che i piloti pensavano di trovarsi sulla verticale dell’aeroporto, ma in verità si erano spinti più a
sud, verso le montagne, ritenendo che il radiofaro – lo
strumento su cui gli aerei si sintonizzano per stabilire la
rotta – situato su Monte Gradara, dieci miglia verso l’entroterra, fosse quello di Punta Raisi. È bene tenere a
mente questi due elementi: Monte Gradara e la distanza
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
tra questo sito e l’aeroporto, che è, appunto, circa dieci
miglia nautiche.
Se i piloti non hanno visto lo scalo, considerato che l’avevano superato – è la tesi portata avanti nelle indagini – e si
erano diretti più a sud, sulle montagne, perché avevano
comunicato di trovarsi sulla verticale dell’aeroporto? E soprattutto, perché avrebbero dovuto lasciare la quota di sicurezza di 5000 piedi? Ancora: è possibile superare la linea
di costa, a cui è quasi attaccata la pista, senza accorgersene? Certo, era buio. Ma quella era una sera calma, con visibilità di cinque chilometri e cinque nodi di vento.
L’ipotesi che si fece a caldo fu che avessero scambiato le
luci dei vicini paesi per quelle dell’aeroporto. Ma i periti
del tribunale di Catania, dove si svolse il processo, esclusero decisamente questa possibilità, giudicandola “incredibile”: troppo fioche le luci di quei luoghi per poter essere confuse con quelle di uno scalo, la cui disposizione
e colorazione non può tradire nessun pilota, soprattutto
un comandante esperto come Bartoli che vola da diciassette anni. Interrogati su questa ipotesi, alcuni piloti la ritengono anche loro inammissibile: se un professionista
può scambiare le luci di una città per quelle di uno scalo, allora a New York rischierebbero tutti di atterrare sulla Quinta Strada.
Il pubblico ministero di Catania conclude la sua requisitoria imputando ai piloti una serie di errori. Il più macroscopico sarebbe stato proprio quello di spingersi fino a
Monte Gradara, credendo che l’aeroporto fosse tra quelle rocce buie, e lì «cominciarono la manovra di discesa
con virata a destra, scambiarono l’oscurità delle montagne con quella del mare e cozzarono contro Montagna
Longa».
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A questo punto è importante sottolineare che non si
evince da nessuna comunicazione o rilevazione che i piloti abbiano effettuato una virata a destra. Ricordiamo le
ultime parole di Bartoli nel dialogo con la torre di controllo: «AZ 112 è sulla vostra verticale e lascia 5000 e riporterà sottovento per la 25 sinistra».
Ma ammesso che abbiano deciso di farlo una volta raggiunta la verticale del campo (procedura comprensibile
per rimanere a nord degli ostacoli, evitando che una virata a sinistra, venendo da settentrione, li portasse sulle
colline presenti a sud), per quale motivo avrebbero dovuto lasciare la quota di sicurezza di 5000 piedi senza essere stabilizzati sul tratto d’allontanamento, come previsto dalla procedura?
La comunicazione successiva a quella in cui l’aereo fornisce la sua posizione non è mai stata decifrata. Sul nastro
della torre di controllo c’è una pausa, poi una conversazione tra il Dc 8 e un aereo russo (il cui contenuto non è stato reso noto, forse perché giudicato ininfluente per le indagini) inserito sulla stessa frequenza; ancora un’altra pausa
e, infine, la voce dell’operatore della torre di controllo, il
sergente maggiore Rosario Terrano, che tenta di mettersi
in contatto con l’equipaggio. L’inchiesta stabilirà che il nastro di registrazione a terra si era attivato, ma senza registrare nulla per un paio di minuti. Segue lo schianto.
L’aereo finisce contro la roccia e si spezza in più parti. La
prua e due motori rotolano lungo il costone della montagna, dal lato del paese di Carini, dove finiscono anche alcuni corpi. Il kerosene si sparge ovunque e divampa un
incendio. I bagliori delle fiamme si vedono anche da Punta Raisi e bastano ad avvertire i parenti dei passeggeri, in
attesa all’aeroporto, che la tragedia è compiuta.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
La disperazione coinvolge per qualche ora anche i familiari di nove persone che dovevano trovarsi a bordo del
Dc 8 ma che avevano perso l’aereo. In attesa c’erano anche i parenti del giudice Giuseppe Lombardo, che figurava nella lista degli imbarcati; ma il magistrato non era
partito, aveva dato il suo biglietto al collega Pasquale
“Ninni” Ales, che gli aveva chiesto il favore di cedergli il
posto perché aveva necessità di raggiungere in fretta Palermo.
In aeroporto non c’è Francesco Graziano, palermitano,
impiegato delle poste. Lui non aspetta nessuno: suo figlio
Mario, che è a Rieti per un corso della Forestale, sarebbe arrivato il giorno dopo in treno. Graziano apprende
della tragedia mentre sta andando a casa a mangiare, ma
capisce che in quel momento c’è altro da fare. Pochi conoscono Montagna Longa come lui, che frequenta quei
luoghi impervi da anni. Si offre di accompagnare carabinieri e vigili del fuoco tra i sentieri, e quando è in cima
qualcuno gli dice che tra quei corpi disseminati sulla roccia c’è anche quello di Mario, suo figlio, che all’ultimo
momento aveva cambiato idea e voleva fare una sorpresa ai suoi genitori, arrivando in anticipo.
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CAPITOLO II
IL SILENZIO RADIO
A Punta Raisi è radunata l’abituale folla di amici e parenti ad attendere i passeggeri dell’ultimo volo della sera,
molti dei quali tornano per le elezioni politiche della domenica successiva. Nessuno sospetta niente, anche perché, con insolita solerzia, sul tabellone degli arrivi per
qualche minuto l’AZ 112 è dato per atterrato.
Su quel volo ci sono molti giovani, che con la loro tessera elettorale usufruiscono dello sconto sull’esoso biglietto dell’Alitalia. In tasca hanno pochi spiccioli, non
certo le mazzette di banconote che uno dei passeggeri,
il notaio Giacomo Buttitta, custodiva in valigia: la cronaca prende subito per buona la leggenda che parla di
quattrocento milioni di lire dentro una ventiquattrore e
i giornali si lanciano nella descrizione di cercatori di fortuna, tra sentieri e sterpaglie, che per settimane calpestano il luogo della tragedia nel tentativo di raccattare
un po’ di denaro.
Ed è per mancanza di soldi che Alessandra Vassallo, all’epoca venticinquenne, aveva deciso con il suo fidanzato
Nino di non prendere quell’aereo. I due, freschi di Sessantotto, si erano trasferiti a Roma da poco, girando le
spalle a una Palermo distratta e disimpegnata, vanagloriosa e inconcludente, dove intendevano tornare per dare i loro voti a chi dichiarava di avversare mafia, affari,
speculazione edilizia. Ma per quanto il biglietto aereo fosse scontato per chi mostrava un certificato elettorale,
non potevano permettersi comunque di affrontare quel21
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
la spesa, e la scelta cadde sulla seconda classe del treno
delle 20.30: due posti a sedere nei vagoni pieni di
un’umanità un po’ dolente, non dissimile da quella descritta da Elio Vittorini in Conversazione in Sicilia.
Due loro amici, Mariella Leone e Roberto Pottino, zia e
nipote, non avevano i loro stessi problemi e decisero di
prendere il volo Alitalia, quel volo che Alessandra e Nino
in un punto del loro viaggio verso Palermo avranno per
un istante incrociato lungo una qualche verticale tra cielo e terra.
All’alba, Alessandra va sul ponte del traghetto che attraversa lo Stretto, a mangiare l’arancina, quella palla di riso fritto con dentro il ragù di carne, che Andrea Camilleri – rispettando la tradizione della Sicilia orientale – declinerà al maschile. Mentre all’alba mangia l’arancina, o
l’arancino, sente che nella notte a Palermo c’è stato un
incidente aereo e capisce che il volo è proprio quello che
lei e il suo fidanzato avrebbero dovuto prendere e sul
quale c’erano Mariella e Roberto.
Gaetano Pottino, il padre di Roberto, non si rassegnò mai
alla morte del figlio e tornerà su Montagna Longa con picozza e badile per scavare alla ricerca di qualcosa. Pottino, qualche tempo prima, si era dato all’archeologia, frugando nel terreno della sua tenuta di Terravecchia di Cuti, vicino a Santa Caterina Villarmosa, nel Nisseno. La
passione per l’archeologia non spiega la sua caparbia decisione di andare a scavare tra le rocce di Montagna Longa, dove i risultati della ricerca finiranno in un libro, I
cartaginesi in Sicilia, che per lui era qualcosa di più di
un trattato scientifico, anche se il volume è ricordato
perché Pottino individua il monte Ercte, citato da Polibio
a proposito della Prima Guerra Punica e dello sbarco di
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Amilcare, nella zona compresa tra Punta Raisi e Castellammare del Golfo.
Erano passati poco più di dodici anni dall’inaugurazione
dello scalo: il primo jet atterrò alle 20.32 del 1° gennaio
1960, proveniente da Ciampino, dopo un volo di 70 minuti. Era un Super Convair pilotato dal comandante Ferdinando Fioretti, triestino, che una volta messi i piedi sulla pista, mentre qualcuno gli porgeva una coppa di champagne, ebbe da ridire sulle segnalazioni luminose collocate nell’area montagnosa a ridosso dell’aeroporto. Ma nessuno aveva voglia di guastare la festa e gli occhi erano
tutti puntati su Lidia Mondì, 25 anni, che il caso scelse
come mascotte di quel primo volo. Una foto, che la ritraeva sulla scaletta dell’aereo mentre accennava un sorriso, finì sui giornali. Lidia Mondì, donna molto bella, dodici anni dopo sarà una delle 115 vittime di Montagna
Longa. Quella sera tornava da uno dei suoi viaggi settimanali a Roma, dove si recava per rifornirsi di capi da
esporre nelle vetrine della sua boutique, “La Lampara”,
un marchio di gran moda, che aveva sede a Mondello e a
Cefalù, nei luoghi delle vacanze.
Quell’inaugurazione coprì a colpi di flash il mancato atterraggio di un altro Convair, sempre proveniente da Roma, che il giorno successivo, dopo che il pilota aveva sudato sette camicie sulla pista battuta dal vento e dopo
aver ripetuto due volte la manovra, diresse la prua verso
Trapani, dove finalmente toccò terra. Niente male come
inizio.
Ma torniamo alla sera del 5 maggio ’72 e alla trascrizione
integrale del dialogo telefonico fra le torri di controllo di
Palermo e Roma.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
− Palermo: Controllo?
− Roma: Che succede?
− Palermo: Guarda che la 112 mi sembra che sia andata
a finire sulla montagna.
− Roma: Che c’è?
− Palermo: La 112!
− Roma: Sì, che ha fatto?
− Palermo: Mi sembra che sia andata… sulla montagna.
− Roma: Non ti sento, parla più piano.
− Palermo: Mi sembra che sia andata a finire sulla montagna. Io l’ho vista. Le luci di navigazione.
− Roma: Sì.
− Palermo: Quando l’aereo aveva lasciato i 5000 piedi e
subito riportato sottovento a destra6.
− Roma: Dunque la 112 è andata a finire sulle montagne,
mi dici.
− Palermo: Almeno sembra così, perché ha fatto dal lato
sbagliato all’opposto dell’aeroporto. Capito? Sul lato
montagna.
− Roma: Sul lato montagna. Ma è in contatto?
− Palermo: No, no. Ho perso il contatto. Doveva atterrare tra due minuti.
− Roma: Ha perso il contatto?
− Palermo: Dopo che ha lasciato i 5000 piedi. Aveva lasciato i 5000 e la stazione.
− Roma. Aveva lasciato i 5000 e tu hai seguito le luci verso le montagne?
6. È una deduzione del controllore di volo, visto che dalle comunicazioni ufficiali si evince soltanto che i
piloti lasciano la verticale del campo e 5000 piedi e intendono riportare (non vi erano ancora) sottovento
per la 25 sinistra.
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− Palermo: Esatto. Ho visto che invece di essere sottovento era sopravento. Dal lato opposto. Mi senti?7
− Roma: Avverti tutti, intanto, lì.
− Palermo: Sì, sì, ciao. Io te l’ho voluto dire così. Ciao.
− Roma: Allora?
− Palermo: Guarda che io almeno te lo posso confermare
perché a meno che l’aereo non sia in avaria radio, almeno doveva fare passaggi bassi. Questo non ha atterrato.
Io ho visto le luci di navigazione e penso che abbia sbagliato l’atterraggio. Ma non ho sentito rumore di riattaccata. Capito?
− Roma. Ho capito. Non hai sentito più niente te?
− Palermo: Senti?
− Roma: Sento.
− Palermo: Allora, io ho visto queste luci di navigazione
andare con la stessa velocità che può avere il Dc 8 ormai
vicino alla velocità di stallo. Riattaccata non era. Questo
qua è andato a finire dall’altra parte delle montagne più
basse che abbiano noi qua.
− Roma: Ho capito. Che pista in uso avevi?
− Palermo: La 25 sinistra. Avevamo calma di vento.
− Roma: 25 sinistra, calma di vento. Domanda pure a Trapani se sa qualche cosa.
− Palermo: Come?
− Roma: Domanda pure a Trapani.
− Palermo: Ho già. Abbiamo chiesto, figurati. Che vuoi da
Trapani?
7. La definizione sottovento indica la posizione di un oggetto rispetto alla provenienza del vento e dunque
è un concetto relativo. Un oggetto non è sottovento in senso assoluto, ma relativamente a un altro oggetto. Un oggetto è, invece, sopravento se è investito dal vento prima rispetto ad altri oggetti. Quando Terrano parla di «lato opposto» e di «sopravento», possiamo presumere – ma è un’ipotesi – che l’aereo si dirigesse verso sud: relativamente al campo di atterraggio, infatti, il sottovento indica l’area a nord dello
scalo, quella sul mare, opposta alla zona montagnosa.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
− Roma: Trapani non sa niente? Ai 29 [si riferisce all’orario nda] ha perso contatto?
− Palermo: Pronto? Aspetta.
− Roma: Pronto? Palermo? Palermo? Allora, novità?
− Palermo: Senti? Comunicano che hanno visto da tutte
le parti dall’altro lato della montagna. Tutti i carabinieri
hanno visto questa grande fiammata. Niente da fare.
Nessun contatto con nessuno.
− Roma: Ho capito. Senti, ho sentito Romeo Oscar che
stima Palermo ai 48 [anche qui il riferimento è all’orario,
nda].
− Palermo: Ai 48?
− Roma: Affermativo. Com’è il tempo a Palermo.
− Palermo: Il tempo è bellissimo. Hai sentito di questo incidente?
− Roma: Ho sentito. Qual era l’ultima comunicazione?
− Palermo: L’abbiamo visto qui sopra. Scendeva a vista
5000 piedi. Lasciava 5000 piedi a vista, poi si è vista una
fiammata.
− Roma: Ma lui non ha detto niente?
− Palermo: Non ha detto niente.
− Roma: Cioè, autorizzato all’avvicinamento, che ha detto? Era numero 1?
− Palermo: Era a vista numero 1, non c’era niente.
− Roma: A vista numero 1. Non c’era niente.
− Palermo: Esatto. C’è il monte, è andato contro il monte.
− Roma: E non ha comunicato niente?
− Palermo: No, niente.
− Roma: Ho capito.
Desumiamo da questo dialogo che l’aereo sia passato sulla verticale di Punta Raisi e invece di iniziare la procedura d’atterraggio abbia continuato la sua corsa verso le
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montagne, senza accennare alcuna reazione, senza riattaccare i motori e risollevarsi, senza compiere alcuna virata, come se il mezzo fosse in balia di se stesso.
Ma a conclusione dell’inchiesta ministeriale condotta
dalla commissione presieduta dal generale Francesco
Lino, il sergente maggiore Terrano dirà a verbale:
«Tengo a precisare che quanto riferito a Roma dal sottoscritto è stato detto in base a una ricostruzione soggettiva… Confermo quanto finora dichiarato: di non
aver visto né sentito alcun rumore dell’aereo». Una
versione che confermerà il 22 febbraio 1979 davanti al
giudice istruttore di Catania, il quale gli contesta di
aver sostenuto il contrario, e cioè di aver visto l’AZ
112, di averne seguito la traiettoria e apprezzato la velocità. Ma Terrano ribatte: «Chiarisco che ho detto ciò,
parlando al telefono con Roma, mentre ascoltavo quello che si diceva vicino a me». Vicino a lui non c’era un
passante, ma Girolamo Fauci, il capo servizio con funzione di controllore d’avvicinamento. Fauci aveva ricevuto la telefonata di Gino Governanti, il farmacista di
Carini che per primo aveva dato l’allarme. «Io», spiega
Terrano al giudice istruttore, «ho chiamato anche Roma, perché mi ero accorto che qualcosa non andava
bene». E aggiunge: «Ho detto ciò parlando al telefono
con Roma mentre ascoltavo quello che si diceva vicino
a me. Insomma, ho detto quello che avevo sentito dire
al Fauci. Non ho visto l’aereo».
A proposito delle dichiarazioni di Terrano, prosciolto in
istruttoria, la sentenza del 1982 afferma: «Il tenore della telefonata con Roma appare inequivocabile in ogni
sua parte: il soggetto esprime nozioni di cui avrà certamente avuto percezione diretta e precisi giudizi sulla di27
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
rezione dell’aereo, con cui subito dopo tenterà, invano,
di mettersi in contatto via radio. Successivamente, pur
negando di aver visto l’aereo, implicitamente contraddice il suo assunto, in quanto aggiunge che dopo la telefonata del Governanti [il testimone che diede l’allarme,
nda], fece uscire i vigili del fuoco dall’aeroporto dal lato
della pista 02 [in direzione di monte Pecoraro, nda], in
quanto supponeva che l’aereo fosse precipitato nei pressi delle montagne basse che sovrastano Cinisi e Terrasini, anziché verso Carini, come sarebbe stato logico in seguito alle notizie apprese dalla telefonata del Governanti. Terrano, nell’immediatezza dei fatti, ha tenuto un
comportamento (e reso dichiarazioni) tipico di colui che
ha una ben precisa idea di come si siano svolti i fatti e,
soprattutto, sembrerebbe conoscere con buona approssimazione la reale traiettoria percorsa dall’aereo quella
sera fatale. Le successive deposizioni toglieranno a quel
comportamento e a quelle dichiarazioni ogni efficacia
probatoria: resta però consacrata in atti la sensazione
che per un attimo si sia aperto uno squarcio di verità fra
le tenebre e che ci si trovi di fronte a colui che ha veramente intravisto quale fosse la reale traiettoria dell’aereo. Sui suestesi rilievi e considerazioni, si chiude, con
un senso di profonda perplessità, l’excursus su quella
che agli atti del processo sembra una traiettoria “folle”
che pur tuttavia rientra pur sempre nell’ambito delle
possibili traiettorie percorse».
Grazie a un decreto legge del 1979, i servizi di assistenza
al volo non sono più svolti da militari, che prima di quella data erano inquadrati come ufficiali o sottufficiali dell’Aeronautica e il cui stato giuridico era identico a quello
previsto per tutto il personale militare. Dal 1963, i servi28
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zi erano forniti dall’Ispettorato delle comunicazioni e dell’assistenza al volo del Ministero della Difesa, malgrado la
legge 141 dello stesso anno prevedesse la devoluzione in
favore del Ministero dei Trasporti. Nel ’79 viene costituito il Commissariato per l’assistenza al volo, che opera fino a quando non entra in vigore lo statuto dell’Azienda
autonoma per il traffico aereo generale.
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CAPITOLO III
A EST DI NIENTE
A Montagna Longa i soccorritori giungono attraverso una
strada impervia, costruita qualche anno prima per i lavori di rimboschimento. Ma a metà del percorso incontrano
una frana e poi una buca, che provvedono a riempire con
le ruote di scorta delle jeep. Un’operazione piena d’insidie, nella quale si conteranno tre feriti.
Oggi su quel cocuzzolo campeggia una croce di metallo,
sulla quale sono incisi i nomi, alcuni sbagliati, delle vittime. A distanza di quarant’anni – a dimostrazione che
la sciatteria non ha tempo – esistono due o tre elenchi
dei morti, e nessuno è uguale all’altro. Sul retro di uno
di questi elenchi, diffuso dalle agenzie di stampa e arrivato nelle mani delle famiglie delle vittime qualche giorno dopo la tragedia, abbiamo trovato una nota scritta a
penna nella quale si dice che «non è mai giunto un elenco (neanche agli avvocati di parte civile) da parte dell’assessorato allo Stato civile del Comune di Palermo.
Sarebbe utilissimo, ai fini dell’apertura del procedimento penale, avere dati ufficiali sulle vittime, sia residenti
a Palermo sia in altre località, soprattutto sul numero
effettivo dei morti da confrontare con gli elenchi Alitalia».
Ancora oggi qualcuno parla del mistero della centoquindicesima vittima che non sarebbe stata trovata. Non c’è
nessun cadavere mancante e il mistero è un altro e ben
più grave: come ci si sia potuti accontentare di una verità così fragile.
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La prima comunicazione radio tra la caserma dei vigili
del fuoco e i soccorritori avviene alle 22.49.
– Vediamo in alto alla montagna come una palla di fuoco
ma non sappiamo che strada prendere.
– Cercate di individuare meglio la zona.
– Sono il comandante Furitano. Mandate cellule fotoelettriche, tutte quelle che ci sono. Siamo vicini alla zona ma
non riusciamo a trovare una strada che ci porti verso il
rogo. C’è una confusione d’inferno, troppe macchine di
civili ci impediscono di procedere speditamente. Avvisate le forze dell’ordine perché ci aiutino.
– 22.53: Sono il vicecomandante Castiglia. Siamo su una
strada che dovrebbe portare sul luogo del disastro. Ci seguono centinaia di altre auto.
[…]
– 23.40: Sono il vicecomandante. Sulle nostre teste sentiamo dei lamenti. Non riusciamo a trovare una strada
per arrampicarci. Bisognerebbe essere dei rocciatori.
Una persona del luogo mi dice che esiste una guida di
questi posti. È una guardia forestale. Si chiama Davì, cercate di rintracciarla.
– 23.50: Sono il comandante Furitano. Comunicate a cellula fotoelettrica che illumina zona sbagliata. Non riusciamo a vedere nulla. Le torce che avevamo con noi
stanno scaricandosi. Quasi non danno più luce.
– Sono il capitano D’Agostino. Non vedo più il rogo. Solo
piccoli focolai. Ci troviamo in mezzo ad alcuni rottami.
Cerchiamo i corpi. Saranno disseminati più sopra. Siamo
a circa 800 metri dal livello del mare ma ancora non abbiamo trovato nessuno dei passeggeri dell’aereo.
– 24.00: Qui è il vicecomandante. Purtroppo i lamenti
non erano della gente dell’aereo. Ci sono persone del luo31
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
go che sono riuscite a raggiungere i primi rottami dell’aereo prima di noi. Piangono e non vogliono più proseguire. Sono atterrite. Non vogliono guidarci nella salita e qui
si può finire da un momento all’altro su un burrone. Non
si vede nulla. Ci arrampichiamo alla cieca.
[…]
– 00.10: Sono il capitano D’Agostino. Frughiamo dappertutto e in ogni dove troviamo tracce dell’aereo disintegrato, ma ancora nessun corpo umano. Abbiamo spento
qualche piccolo focolaio con estintori portatili e proseguiremo verso la vetta.
– 00.20. Sono il comandante. Una grossa voragine si apre
davanti a noi. Abbiamo lasciato già da un pezzo le nostre
auto e comunichiamo con radio portatili. Non riusciamo
a renderci conto se in fondo al burrone c’è qualcosa di
quanto noi cerchiamo. Le nostre lampade non riescono
ad illuminare fino in fondo al crepaccio. Segnalatemi la
posizione degli altri ufficiali. Ditemi se hanno trovato
qualcosa.
[…]
– 00.40: Sono Castiglia, il vicecomandante. Siamo sul posto della sciagura. È una carneficina, sono tutti morti.
Non si è salvato nessuno, purtroppo.
– 00.41: Qui vigile Dispenza, ho contato quindici morti fino a questo momento, per quello che riesco a vedere con
la mia torcia elettrica. Sono come morti di spavento, hanno gli abiti a brandelli, ma i loro corpi non sono straziati.
– 00.45: Sono il vicecomandante. C’è un silenzio agghiacciante. Sono proprio tutti morti. È orribile. Avvisate comandante.
– 00.50: Sono il comandante Furitano, sono insieme al
comandante Castiglia. Abbiamo perlustrato ormai una
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vastissima zona, fin dove arrivano i rottami dell’aereo.
Nessun segno di vita. Potete confermare: nessun superstite.
– 00.59: Sono il capitano D’Agostino. Siamo tutti sul luogo della tragedia. Non ci resta che iniziare questa terribile, agghiacciante veglia funebre.
Lucio Galluzzo, giornalista dell’“Ansa” di Palermo, è uno
dei primi cronisti ad arrivare su Montagna Longa, insieme al suo collega Pippo Morina. Era salito dal lato di Cinisi, lasciando l’auto a parecchia distanza. «Non si vedeva quasi niente», racconta, «e a un certo punto inciampo.
Il collega che era con me tenta di sorreggermi per evitare che finisca a terra. Poi mi guarda e dice: “Lucio, siamo
arrivati”. Ero inciampato su un cadavere».
All’alba, quando la luce comincia a schiarire il luogo, una
pecora carbonizzata sulla sommità della montagna indica
il confine superiore delle fiamme. Da lì, sulla vetta e verso valle, c’è una scia di rottami e sterpaglie bruciate, lunga almeno mezzo chilometro.
I primi testimoni, alcuni dei quali sono arrivati in nottata
sulla cima, parlano con i cronisti e dicono di aver visto il
Dc 8, già in fiamme, sorvolare Carini sulla verticale della
stazione ferroviaria. A torto o a ragione, nessuno crede
alla tesi dell’aereo in fiamme prima dell’impatto e il processo non prenderà mai in considerazione queste testimonianze.
Il giorno dopo, anche il farmacista di Carini, Gino Governanti, e la moglie Maria Grazia Zanon, riferiscono ai giornalisti quello che hanno osservato la sera prima. Il farmacista era stato il primo, alle 22.28, a telefonare al 113. I
Governanti abitano in una villa situata tra la collina e il
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Fotogrammi tratti da un video amatoriale girato sul luogo dell’incidente all’alba del 6 maggio. Si vedono i corpi di alcune
delle vittime.
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mare. La signora era sul balcone di casa, aveva le pinze
della biancheria in mano e stava mettendo ad asciugare
la tuta del marito da poco tornato dal campo sportivo.
Oggi il dottor Governanti ha superato gli ottant’anni, a
quel tempo allenava il Carini, che giocava nel campionato di promozione. Tra i suoi ragazzi ce n’era uno che
avrebbe fatto strada: Zdenek Zeman, arrivato un paio
d’anni prima dalla Cecoslovacchia invasa dai carri armati
sovietici. Molti anni prima, nel ’46, l’Italia era diventata la
patria di suo zio, il calciatore e poi allenatore della Juventus Chestmir Vyckpaleck.
La signora Zanon scorge un aereo che ha una strana traiettoria. È abituata a vederne passare tanti, ma nessuno
con quella rotta e soprattutto a quella quota. Chiama il
marito, che ha il tempo di affacciarsi al balcone e di vedere anche lui quello che sta accadendo: l’AZ 112 viene
dal mare, ha una traiettoria quasi parallela a Montagna
Longa. A un certo punto l’aereo incrocia il crinale in salita e scompare dalla loro vista. Passano un paio di secondi e si sente il boato, seguito dal fuoco e da pezzi dell’aereo che rotolano in fiamme lungo il costone di montagna
dal lato di Carini.
Nella farmacia dove li abbiamo incontrati il 27 novembre
2009 e poi il 5 maggio 2010, giorno del trentottesimo anniversario della sciagura, i Governanti ricordano quel
momento come se fosse ieri. «Dopo l’impatto», dice la signora, «ho visto fiamme di tutti i colori: rosso, verde, viola. Mi sembrava la fine del mondo». Né Grazia Zanon, né
il marito hanno notato fiamme sull’aereo prima dell’impatto: «Procedeva normalmente», ricorda la signora,
«con le luci di navigazione accese e un assetto orizzontale. A sorprendermi sono state l’insolita rotta e la quota».
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
La vetta più alta della catena montuosa misura 3163 piedi, cioè 1129 metri. L’impatto avviene a circa 935 metri.
Per tre volte Governanti è stato ascoltato dai magistrati
di Catania e per tre volte ha confermato la stessa versione. «Non capivo la ragione di quelle frequenti convocazioni. Andavo a Catania, rispondevo alle stesse domande
nello stesso modo, poiché riferivo la verità, cioè quello
che avevo visto con i miei occhi. Ogni volta mi rimborsavano settemila lire per le spese, tornavo a casa e poco dopo mi richiamavano. La quarta volta non andai: avevo
prenotato un viaggio in Egitto e non avevo alcuna intenzione di rinunciarvi. Mi chiedevano se ero sicuro di quel
che dicevo, ogni volta ripetevo, tale e quale, la mia versione. Infine, proposero a me e a mia moglie di salire su
un aereo che avrebbe dovuto simulare il percorso del Dc
8. Che razza di proposta!».
Quando Governanti chiama le forze dell’ordine, dall’altro
capo del telefono pensano che sia uno scherzo: «“Come
fa a sostenere che si tratta di un aereo di linea e non di
un velivolo militare?”, mi dissero. Risposi che le dimensioni non lasciavano dubbi. Vollero sapere il mio numero
di telefono e mi ordinarono di riagganciare. Pochi secondi dopo mi richiamarono e capirono che la mia non era la
telefonata di un mitomane».
Il farmacista ricorda che per una settimana un gruppo di
persone, tra cui i tecnici dell’Alitalia, rimasero a casa sua
a compiere osservazioni. «Offrivo loro da bere e qualche
volta da mangiare. Mi promisero un volo per gli Stati Uniti sul nuovo Boeing 747. Non ne fecero niente. In America ci andai, ma a mie spese». Il retrobottega della farmacia ha una parete piena di foto dove c’è tutta l’Italia del
calcio che conta, da Vyckpaleck a Sivori, da Gigi Riva a
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Bruno Conti a Luca Toni. E su ognuno di loro il farmacista ha una storia da raccontare, ma privilegia quella su
Zeman, testa lucidissima, grande visione di gioco ma anche grande lentezza nei movimenti.
Ma torniamo a quella sera. I Governanti vanno nella piazza di Carini, che aveva ospitato i comizi di chiusura della
campagna elettorale. Quel venerdì ogni piazza dei quasi
quattrocento comuni della Sicilia ospita un politico. Anche l’allora ministro dell’Interno Franco Restivo ha deciso
di chiudere la campagna elettorale nell’Isola: poco dopo le
22.30 sta parlando dal balcone del notaio Francesco Candioto, nella piazza Umberto I di Termini Imerese, e mentre spiega che la Democrazia cristiana è stata l’artefice del
miracolo economico di quella zona, convincendo la Fiat a
realizzare uno stabilimento proprio lì, qualcuno gli sussurra all’orecchio. La folla rumoreggia, il ministro interrompe il suo comizio e, senza dare spiegazioni, va via.
Nella piazza di Carini un oratore molto meno blasonato
vede che la folla non lo segue più e si raduna a cerchio
intorno al farmacista e alla moglie, che spiegano quanto
hanno visto e cercano di confrontare la loro versione con
quella di altre persone. Alle 2 di notte, quando i Governanti fanno ritorno a casa, ricevono la telefonata dell’allenatore della Juventus Cestmir “Cesto” Vyckpaleck. Accanto a lui, a Torino, c’è Giampiero Boniperti. Dicono al
farmacista che su quel volo c’era anche Cestmir junior,
chiamato Cestino, 23 anni, il figlio di Vyckpaleck.
Il farmacista ricorda quella telefonata: «Cesto mi fa: “Gino, che mi dici?”. “Che ti devo dire”, gli risposi, e la telefonata si chiuse così».
Il giorno precedente, di ritorno da Londra, Governanti si
era fermato a Torino. Il giovane Vyckpaleck gli aveva det37
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
to che forse l’indomani sarebbe andato a Palermo per votare. Il ragazzo aveva da poco deciso di non seguire le orme del padre: dopo aver militato in Serie C con la Carrarese, quell’anno era sceso alla categoria dilettanti e giocava come mezzala nel Ciriè, in promozione, per trentamila
lire al mese. La Fiat, intanto, lo aveva assunto come programmatore nel centro informatico. L’allenatore bianconero, che di lì a qualche giorno vincerà lo scudetto, quando seppe dell’incidente era in ritiro con la squadra in vista della partita con il Cagliari che avrebbe consegnato la
vittoria del campionato alla Juventus. Il giorno successivo
prenderà un volo per Palermo; la moglie arriverà in treno.
Che l’AZ 112 si trovasse a est rispetto all’aeroporto, oltre
al farmacista e alla moglie lo testimoniano un po’ tutti,
anche due poliziotti che in auto percorrevano l’autostrada e hanno visto l’aereo a bassa quota, con le luci d’atterraggio accese, tagliare la stessa autostrada, dirigendosi
verso sud, cioè verso la montagna.
La traiettoria a est dell’aeroporto è confermata anche da
altri testimoni, e una donna, la signora D’Anna, che si
trovava nel piazzale antistante l’aerostazione e dava le
spalle al mare, guardando verso sud e sollevando la testa
ha visto l’aereo alla sua sinistra che si dirigeva verso l’entroterra. L’ha seguito fino a quando non è scomparso dietro monte Pecoraro, che si trova proprio a ridosso dell’aeroporto e delimita un arco montuoso che comprende
Montagna Longa, ai piedi del quale si apre la conca dov’è
adagiata la città di Carini. «Notai in alto alla mia sinistra,
diretto verso Monte Pecoraro, un aereo, senza però sentire alcun rumore, ma scorgendo chiaramente le luci rosse. Avvertii del fatto mio marito, che in quel momento
stava osservando un altro aeromobile appena atterrato.
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Mio marito guardò verso l’alto, ma non riuscì a vedere
nulla, poiché l’aereo nel frattempo era sparito dietro la
montagna».
Anche i due agenti di pubblica sicurezza, Manfrè e Foti,
hanno dichiarato alla commissione ministeriale, alla procura di Palermo e poi a quella di Catania che, provenienti dal capoluogo siciliano, «poco dopo aver superato il bivio che porta a Carini, ci ha sorvolato un aereo. Abbiamo
letto l’indicazione della freccia che ne indica lo svincolo
e dopo circa 700, 800 metri avvistammo l’aereo che proveniva dal mare… L’aereo passò in senso normale alla nostra direzione, forse un po’ diagonalmente, ma cosa di
poco». Sono le testimonianze più verosimili e attendibili
che riferiscono di questa traiettoria e sono i soli testimoni ad aver visto il passaggio mare-terra alle 22.20 circa.
Ma la commissione ministeriale d’inchiesta, istituita il 12
giugno con un decreto dell’allora ministro dei Trasporti
Oscar Luigi Scalfaro, due settimane dopo deposita una
relazione nella quale gli esperti – concordi nell’attribuire
ai piloti la responsabilità dell’incidente – descrivono una
traiettoria che nulla ha a che fare con quella segnalata
dai testimoni. Se il Dc 8 avesse davvero virato a sinistra,
come sostenuto dalla commissione Lino, questo significherebbe, spiega la sentenza di Catania, «che i piloti abbiano esattamente individuato il campo, come comunicato alla torre di controllo, ed abbiano successivamente impattato contro la montagna. Ipotesi contrastata, perché
ritenuta assurda».
Il giorno precedente al deposito della relazione Lino, il 26
giugno, il primo governo Andreotti cessava le funzioni.
Fino a quel momento era stato l’esecutivo con la durata
più breve nella storia della Repubblica, soltanto 129 gior39
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
ni. Il 26 luglio si sarebbe insediato il secondo governo Andreotti, con il liberale Aldo Bozzi al Ministero dei Trasporti, in sostituzione di Scalfaro. Un’altra crisi si sarebbe abbattuta su palazzo Chigi dopo 346 giorni: l’esecutivo cade per il ritiro dell’appoggio esterno da parte dei repubblicani di Ugo La Malfa. Il dissidio tra lo Scudocrociato e l’Edera nasce sulla riforma televisiva e sulle concessioni alle tv locali e scoppia con il caso Telebiella.
Il fatto che Bartoli avesse comunicato di essere sulla verticale dell’aeroporto non è dunque ritenuto credibile dai
periti, una tesi fatta propria dal tribunale: «Se l’aereo
avesse effettivamente individuato la verticale, l’incidente
non sarebbe probabilmente avvenuto. Appare illogico,
infatti, che dei piloti, dopo aver individuato la verticale
dell’aeroporto, conoscendo i pericoli della zona, si addentrino fra le montagne per oltre dieci chilometri e per
lo più in discesa».
Questo è un punto chiave dell’inchiesta. Le motivazioni
della sentenza di primo e secondo grado scartano “definitivamente” la traiettoria con virata a sinistra, «perché
illogica. È impossibile e inammissibile che piloti dell’esperienza di Bartoli e Dini, per imprudenti, negligenti
o distratti che fossero quella sera, abbiano effettuato una
virata a sinistra, nonostante avessero detto alla torre di
controllo di virare a destra8, sapendo, come non potevano non sapere, che a sinistra, abbassandosi di quota per
l’atterraggio, sarebbero andati a finire ineluttabilmente
sulle montagne. E non si dimentichi», sottolinea la sen8. Come abbiamo visto, nelle comunicazioni di Bartoli alla torre di controllo non si parla di virata a destra. Nella manovra d’atterraggio la virata a sinistra è quella standard. L’aeroporto di Palermo ha un circuito d’atterraggio non standard: virando a sinistra, infatti, si finirebbe contro le montagne. A Punta Raisi la manovra va compiuta a nord del campo, con virata a destra.
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tenza, «che nella fase d’atterraggio anche il più distratto,
imprudente e negligente dei piloti non può non essere
quanto meno vigile e presente a se stesso».
I giudici ritengono – sono ancora parole contenute nella
sentenza – «folle e impensabile» l’ipotesi di virata a sinistra descritta dalla commissione Lino, che parte dall’errato presupposto (sempre secondo i giudici) che l’aereo
si trovasse effettivamente a 5000 piedi sul radiofaro di
Punta Raisi, quando, invece, si era spinto più a sud.
Bartoli, chissà per quale ragione, si sarebbe sbagliato,
avrebbe commesso errori «impensabili», come dicono gli
stessi magistrati in alcuni passaggi dell’istruttoria. Nessuno ha ipotizzato che dall’individuazione della verticale
ai momenti immediatamente successivi che hanno preceduto lo schianto, i piloti non siano più stati in grado di
manovrare l’aereo e che possa essere avvenuto qualcosa
che ha persino interrotto il collegamento radio con la torre di controllo. È lo stesso Terrano, in un passaggio delle comunicazioni con Roma, a sollevare il dubbio che l’aereo possa trovarsi «in avaria radio».
La domanda sulla traiettoria seguita, che aveva una sua
indubbia importanza, assorbì buona parte dell’indagine.
Nessuno si chiese se l’aereo seguì quel percorso perché
ingovernabile, sia pure per un guasto. Gli esami sui motori, compiuti dai tecnici della Rolls Royce, esclusero
danni ai propulsori; altre analisi non avvalorarono mai la
tesi di un problema tecnico, mentre i resti del Dc 8 venivano trasferiti nell’aeroporto di Boccadifalco e da lì, tempo dopo, a Pisa.
Secondo la commissione Lino, il Dc 8 era a ovest di Montagna Longa, sopra i paesi di Cinisi e Terrasini, «dove
nessuno l’ha visto», dicono i giudici. In verità, un paio di
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
testimoni, Renato e Luciano Turghi, ritengono che l’aereo provenisse da ovest.
Quando Bartoli comunica che sta per portarsi sulla pista
25 sinistra, il primo ufficiale, che si trova ai comandi,
avrebbe interpretato erroneamente l’ultima comunicazione del comandante, che dice «sottovento per la 25 sinistra». In pratica Dini avrebbe virato a sinistra, scambiando la posizione della pista (25 sinistra, appunto), per
la direzione della virata.
Se fosse accaduto questo, il comandante avrebbe avuto
tutto il tempo per correggere l’eventuale errore del suo
secondo. «Sinistra», parola pronunciata da Bartoli per indicare il nome della pista, diventa la pietra d’angolo di
quello sghembo edificio di ipotesi, frettolosamente costruito dalla commissione Lino e che i giudici non intendono puntellare: «Se Dini avesse interpretato male la comunicazione del Bartoli e l’aereo si fosse trovato effettivamente sulla verticale dell’aerodromo, allorquando
avesse iniziato la virata a sinistra a 5000 piedi, i componenti della cabina avrebbero sicuramente notato le luci
rosse dei fari di pericolo collocati sul monte Pecoraro e a
Pizzo Corvo (910 metri d’altezza), a meno che quella sera non fossero funzionanti. Dagli atti, però, risulta che
erano in funzione. Va aggiunto che si sarebbero accorti
della virata a sinistra dall’inclinazione che veniva presa
dall’aereo e sicuramente sarebbero intervenuti per evitare l’errore». Già. «Da quanto sopra», aggiunge però la
sentenza, «consegue logicamente che quando l’AZ 112
iniziò la procedura di atterraggio non si trovava sulla verticale dell’aeroporto».
Come si può ipotizzare che entrambi i piloti e il terzo assistente abbiano erroneamente identificato l’aeroporto,
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pur vedendolo da diverse angolazioni? Com’è possibile
che abbiano perso il riferimento con la pista e con gli
ostacoli? E perché mai, non avendo visto un bel nulla,
hanno comunque deciso di lasciare la quota di 5000 piedi? C’è da aggiungere che gli strumenti di bordo erano
perfettamente in grado di rilevare sia la direzione dell’aereo sia la distanza, espressa in miglia nautiche, dal radiofaro di Monte Gradara.
Ma l’indagine ministeriale comincia con un processo alle
intenzioni, e cioè con il presunto equivoco linguistico
scaturito da quella comunicazione in cui Bartoli pronuncia la parola «sinistra» per indicare la pista d’atterraggio
e il suo secondo la interpreta come la direzione della virata. Tesi sposata anche dai tre periti nominati dal tribunale di Palermo. In seguito, anche la relazione dell’Anpac, l’associazione dei piloti, escluderà che l’aereo avesse virato a sinistra. Ma per arrivare a queste prime conclusioni passano anni.
La testimonianza del farmacista e della moglie, unita alle
altre e al dialogo telefonico fra le torri di controllo di Roma e Palermo, complicano il quadro che la commissione
Lino aveva provato a semplificare nei quindici giorni di
lavoro, accollando ai piloti tutte le responsabilità. Lo scenario trovava conforto nell’innegabile condizione di precarietà dell’aeroporto.
Chiunque abbia seguito da terra la traiettoria di un aereo
capisce che non è facile individuarne la posizione. Man mano che la quota si abbassa, però, i riferimenti diventano più
chiari. Governanti e la moglie, inoltre, riferiscono un dato
temporalmente incontrovertibile: dal momento dell’osservazione a quello dell’impatto intercorre pochissimo tempo;
da quando lo perdono di vista allo schianto, addirittura po43
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
chi secondi. Non c’è dubbio, secondo la loro testimonianza,
che il Dc 8 sia finito contro il primo ostacolo incontrato,
cioè Montagna Longa; mentre per la ricostruzione del tribunale – che privilegia, sia pure con cautela, una delle ipotesi possibili sulla traiettoria seguita dal Dc 8 – l’impatto sarebbe avvenuto sulla via di ritorno da Monte Gradara.
Gli inquirenti di Catania, contrariamente a quanto affermato dalla commissione Lino (che pure il 23 maggio ’72
aveva compiuto una simulazione con cinque distinti voli,
uno dei quali notturno), non hanno mai avuto dubbi che
l’aereo si trovasse, nel momento in cui l’hanno osservato,
a est dell’aeroporto. Tuttavia, rispetto alla testimonianza
dei Governanti, aggiungono un dettaglio che altera tutto:
l’aereo, secondo il tribunale, aveva sì imboccato quella
traiettoria, ma non si era subito schiantato su Montagna
Longa, come riferito dai testimoni, ed era andato più
avanti di circa cinque miglia, fino a Monte Gradara, dove
era posizionato il nuovo radiofaro. Da lì, credendo erroneamente di essere sulla verticale dell’aeroporto, i piloti
avevano iniziato la manovra d’atterraggio con una virata
a destra, quasi a chiudere un cerchio, che aveva portato
il Dc 8 a schiantarsi contro la roccia. Non è l’unica traiettoria presa in esame, come abbiamo già detto, ma è quella ritenuta più credibile.
L’aggiunta di quelle cinque miglia mette in crisi la tesi dei
testimoni che avevano assistito allo schianto, avvenuto
subito dopo aver visto l’aereo provenire da nord verso
sud, ma spiegava l’errore: l’aereo si stava dirigendo sul
radiofaro di Monte Gradara perché i piloti immaginavano
che fosse quello di Punta Raisi. I Governanti in questi
quarant’anni non hanno mai ritenuto – al contrario del
sergente maggiore Terrano – che la loro fosse una «rico44
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struzione soggettiva» e hanno continuato a fidarsi dei loro occhi e dell’oggettività della visione.
Il relitto è stato trovato con prua 100 gradi, nel quadrante est-sud-est, e assetto trasversale livellato. La posizione – secondo la tesi degli esperti – stabiliva con certezza
che l’aereo aveva compiuto una virata a destra, dopo aver
raggiunto Monte Gradara, e aveva mantenuto quell’angolo fino all’impatto.
Ecco cosa dice un pilota all’agenzia “Air Press” a proposito della manovra descritta dai periti: «Rimane ancora da
dimostrare con quale chiarezza di prove si sia raggiunta la
convinzione che la sera del 5 maggio ’72 l’AZ 112, dopo
aver superato la verticale (dichiarata) dell’aeroporto e
Il luogo dell’impatto visto dall’alto. Nel solco lasciato sul terreno si vede parte della coda del Dc 8.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
dopo aver percorso altre cinque miglia a sud di Punta Raisi, abbia temporalmente potuto impattare sul luogo del sinistro eseguendo una virata a destra solamente due o tre
minuti dopo il sorvolo dell’aeroporto, quando tale ipotetica manovra comporta necessariamente un tempo superiore di almeno tre minuti, tempo che non trova riscontro
obiettivo né nelle testimonianze, né soprattutto nelle possibilità tecniche del Dc 8». L’aereo, insomma, non avrebbe avuto il tempo di arrivare a Monte Gradara, né la possibilità di compiere la manovra che gli viene attribuita.
I testimoni riferiscono che il Dc 8 arrivava dal mare e
procedeva quasi parallelamente a Montagna Longa, con
una leggera angolazione che lo avrebbe portato a incrociare il crinale. Cosa che avviene, tanto che l’aereo scompare dalla vista e qualche secondo dopo i Governanti dicono di aver visto le fiamme e sentito lo scoppio. Attraverso la loro testimonianza è possibile ricostruire una dinamica diversa da quella ipotizzata dai periti: l’aereo, superata la linea di costa, incrocia il crinale e impatta contro il costone della montagna. E la mancanza di reazioni
da parte dei piloti lascia pensare che dentro la cabina
qualcosa non andasse. Un guasto, un’esplosione, una colluttazione?
La versione fornita dai giudici è senz’altro più rassicurante: è andato tutto secondo procedura, però il luogo era
sbagliato; i piloti hanno soltanto commesso un errore,
madornale, ma pur sempre un errore.
Siamo davanti a tre ipotesi: quella della commissione Lino (l’aereo è sulla verticale dell’aeroporto e vira a sinistra, anziché a destra, per un’incomprensione tra Bartoli
e Dini); quella del tribunale (l’AZ 112 si è inoltrato oltre
la montagna, ritenendo che l’aeroporto fosse più a sud, e
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L’ipotesi accreditata dal tribunale di Catania. La linea curva
tratteggiata rappresenta il circuito d’atterraggio che l’aereo
avrebbe dovuto compiere per imboccare la pista: secondo i
giudici, i piloti ritenevano di trovarsi sull’aeroporto, invece
erano su Monte Gradara, dove è posizionato uno dei radiofari, indicato dal cerchio tratteggiato.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
lì ha iniziato il circuito d’atterraggio, finendo contro la
roccia); quella dei due testimoni (il Dc 8 arrivava dal mare e si è schiantato contro il primo ostacolo).
Ma eccone una quarta, rimasta inspiegabilmente sepolta
tra le carte del processo civile intentato a Palermo dai familiari delle vittime – un procedimento diverso da quello
penale che si è svolto a Catania. I periti Achille Danesi e
Alfredo Magazzù forniscono una versione che non combacia con quella dei colleghi etnei: il Dc 8 non sarebbe affatto arrivato fino a Monte Gradara per poi tornare indietro e schiantarsi contro Montagna Longa; secondo i due
ingegneri, invece, Bartoli e Dini, poco dopo aver sorvolato lo scalo di Punta Raisi, credendo erroneamente di trovarsi ancora sul mare, avrebbero fatto una virata a sinistra, a cui doveva far seguito un’ulteriore virata a destra,
necessaria per portare il Dc 8 in allineamento con la pista. Ma, dopo aver impostato la prima manovra, l’aereo
avrebbe incontrato l’ostacolo della montagna. Era così
difficile portare al processo di Catania questa tesi, redatta nel 1980, mentre l’indagine era ancora in corso?
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CAPITOLO IV
TUTTA COLPA LORO
Quanto ai fattori esterni come causa dell’incidente, ecco
come si esprime, in un italiano incerto, la commissione
ministeriale: «L’analisi conduce a formulare le ipotesi o di
una situazione particolare determinatasi all’interno della
cabina di pilotaggio per intervento di persone estranee
oppure di un’avaria che possa aver distolto, per quasi
due primi, l’equipaggio di condotta, ovvero ad un fattore
umano che comprenda una gamma di ipotesi delle quali
alcune possono essere valutate ma molte rimangono sconosciute».
E qualche riga più avanti: «L’ammissione della possibilità
di un’avaria o di un intervento estraneo lascia perplessi
per il tempo estremamente ristretto in cui si sarebbe dovuta verificare. Bisogna escludere, infatti, che l’evento
anomalo sia avvenuto prima dell’ultima comunicazione,
in quanto l’equipaggio o avrebbe denunciato il fatto e, se
impedito a farlo, si sarebbe comunque per tempo premurato di evitare la zona a sud dell’aeroporto».
Nel tentativo di escludere ipotesi diverse dall’errore
umano, la commissione finisce per suffragarne la possibilità: «La manovra più logica, rapida e sicura per portarsi
sulla verticale del campo (con prua sud) alla posizione di
sottovento per pista 25 sinistra è una virata a destra iniziata al più presto. Se si fosse manifestato un qualche
evento anomalo dopo l’inizio di tale virata la traiettoria
del volo sarebbe stata da concludersi nei quadranti settentrionali rispetto all’aeroporto»; il Dc 8, insomma,
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
avrebbe ripreso la traiettoria verso il mare. «Questo è valido anche nell’ipotesi di incapacità fisica o psichica dei
piloti per effetto di gas tossici o per improvviso malessere. Resterebbe, quindi, da ammettere l’evento anomalo
manifestatosi nei pochi secondi intercorsi tra la fine dell’ultima comunicazione e la stabilizzazione dell’aeromobile nella virata a destra. Tempo tanto ristretto da permettere ragionevolmente di scartare una tale ipotesi». La
conclusione è secca e frettolosa: «Fatte queste considerazioni, rimane l’ipotesi che il fatto sia da ascrivere ad avvenimenti che vengono trattati sotto l’aspetto del fattore
umano nei riguardi dei componenti l’equipaggio di condotta».
Tra i primi ad esprimere dubbi sul corso dell’indagine è
l’associazione dei piloti. All’indomani del deposito del
rapporto Lino, l’Anpac mette per iscritto alcune osservazioni, a partire dalla velocità con cui la commissione d’inchiesta era arrivata alle conclusioni: «Un tempo del tutto
inadeguato, indicativo di una inammissibile fretta». I piloti facevano notare alcune incongruità contenute in
quelle pagine. I tecnici guidati da Lino scrivevano, infatti, che «l’aeromobile e le sue parti risultano completamente distrutti». E subito dopo: «Non sono emersi elementi di dubbio sull’efficienza dell’aereo e delle sue parti prima dell’impatto».
E poi: «L’equipaggio era in buone condizioni fisiche», mentre poche pagine prima si legge che «erano affievoliti i normali processi della sfera intellettiva del comandante».
Nell’inchiesta Lino, dice l’Anpac, manca ogni indicazione
di importanti impianti e relativi strumenti riguardanti la
pressurizzazione, l’apparato antincendio, gli altimetri barometrici, le indicazioni sui motori, il condizionamento, i
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generatori elettrici. E dato il tipo di incidente, un’importanza particolare assumono le regolazioni delle luci degli
strumenti, la regolazione delle luci in cabina, la posizione
delle poltrone di guida e del tecnico di volo. «Ma di tutto
questo», scrive l’Anpac, «la commissione non ha fatto
cenno. Nulla è stato detto sul ritrovamento e sulla localizzazione dei corpi; sul ritrovamento eventuale di cartine di procedura, di manuali, di documenti di bordo, del
piano di carico e di centraggio. Non sono stati citati ritrovamenti di orologi e la mancanza di dati certi mette in discussione tutti i rilevamenti di tempi successivi alle
22.10».
E ancora: «Non si è tenuto conto delle osservazioni del
controllore di servizio [Terrano, nda] che parla di suoi
tentativi di contatto radio che non compaiono sulle registrazioni. C’è da notare, infine, che se il pilota non segnala eventuali avarie a bordo, non si può escludere che le
avarie in realtà ci siano». Per ultimo, la commissione Lino, che pure addebita ai piloti la responsabilità della sciagura, «è convinta, oltre ogni ragionevole dubbio, che
l’equipaggio non sia incorso nell’errore di identificazione
dell’aeroporto». Che è invece quanto stabilirà il processo
dieci anni dopo.
Tra le numerose osservazioni dell’Anpac alla relazione Lino, c’è un addebito non secondario: la commissione non
ha preso in considerazione «l’ipotesi di eventuali azioni
delittuose che avrebbero potuto verificarsi nel breve
tempo dopo l’ultima comunicazione», liquidandole come
«improbabili».
A cadaveri ancora caldi, la commissione Lino aveva inchiodato i piloti. Ecco alcuni passaggi: «L’osservanza da
parte di entrambi dei compiti previsti per ciascuno di es51
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
si dal manuale d’impiego, avrebbe potuto contribuire a
evitare tale manovra». Bartoli viene accusato di «mancanza di supervisione: non è intervenuto per correggere
la manovra, quasi fosse stato mentalmente assente in
quell’ultimo minuto». Ma nelle conclusioni la commissione evidenzia che comunque l’equipaggio ha senz’altro
identificato l’aeroporto. Dunque? I fattori determinanti
dell’incidente sono i seguenti, dice il generale Lino: «La
mancata osservanza del circuito di traffico aeroportuale
e dei compiti previsti dal manuale». E, quali fattori concorrenti, «quel particolare stato di distrazione ricorrente
del comandante Bartoli evidenziatosi in quella giornata,
e la insufficiente osservazione all’esterno».
Dini, considerato dalla commissione «un elemento idoneo alle mansioni di co-pilota», è il destinatario di «alcuni giudizi globali», si esprimono così i commissari, «che
hanno messo in luce qualche lacuna tecnica e talune imprecisioni, nonché certe riserve sul suo temperamento e
sulla sua mentalità. Ben preparato e sicuro di sé, in realtà era poco riflessivo, sicché a volte prendeva decisioni
poco ortodosse, forse per presunzione o per leggerezza.
Non aveva attitudini al comando e mostrava di ritenere
che le iniziative da lui prese nell’espletamento dei suoi
compiti fossero sempre vagliate dal comandante». E ancora: «Dini poteva essere un buon collaboratore, se costantemente controllato, ma di non completo affidamento qualora lasciato libero di prendere iniziative». Chi abbia fornito tutte queste indicazioni alla commissione Lino, non è dato saperlo.
E torniamo a Bartoli: «È sempre stato giudicato di buone
capacità, talvolta anche superiori alla media, sia come pilota che come comandante». Ma ecco che anche per Bar52
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toli si riportano «alcuni giudizi globali» – quali saranno?
– nei quali si attesta che «aveva raggiunto un limite che
non sarebbe stato suscettibile di ulteriore miglioramento, soprattutto a causa della non eccessiva meticolosità
nell’espletamento delle sue funzioni». La sua gestione di
comando «è stata giudicata più volte troppo fiduciosa nei
confronti dell’equipaggio e in particolare del co-pilota,
tale da farlo apparire ai co-piloti stessi molto liberale».
La commissione scava nella carriera di Bartoli e scopre
una mancata collisione con un Fokker 27 dell’Ati, quando il comandante, durante due settimane di ferie, aveva
pilotato da Milano a Roma a Lusaka e da Roma a Brindisi un Siai 208 di una compagnia diversa dall’Alitalia. Poi,
sempre secondo la commissione, in volo il pilota non faceva uso di lenti, come avrebbe dovuto dal ’70 e in ogni
caso «non ne aveva due paia come prescritto dalle norme Oaci9». Al comandante erano stati riscontrati cinque
decimi di miopia per occhio e 2.25 decimi di ipermetropia e astigmatismo.
Il profilo di Bartoli è uno dei capitoli più approfonditi dalla commissione, che in quindici giorni ha dovuto esaminare tutti gli aspetti della sciagura, valutare le condizioni
dell’aeroporto e, non dimentichiamolo, dattiloscrivere il
rapporto. L’analisi psico-comportamentale sul comandante si chiude con la ricostruzione del suo volo precedente, il Catania-Roma di quello stesso pomeriggio: «Ha
commesso molte imprecisioni sia nella forma che nel
contenuto dei messaggi. Imprecisioni indicative di poca
concentrazione, come se si fossero affievoliti, per motivi
imprecisabili, i normali processi della sfera intellettiva».
9. Organizzazione dell’aviazione civile internazionale, che ha sede in Canada. L’acronimo inglese è Icao.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
Della commissione, oltre a Lino, fanno parte tecnici, ingegneri e un medico militare. I tratti psicologici e caratteriali dei due piloti sembrano tagliati con l’accetta. Il
rappresentante dell’Anpac, il comandante Guglielmo
Ferretti, avversa le conclusioni, ma l’esito rimase lo stesso. La relazione esclude l’ipotesi di «eventi esterni» o di
guasti meccanici come causa dell’incidente. Gli unici responsabili sono i piloti. Va sottolineato che l’inchiesta si
conclude senza che nessuno abbia mai pensato di eseguire un’indagine balistica sui corpi o sulle parti dell’aereo,
analisi che sarebbero servite a verificare l’eventuale presenza di esplosivo.
Subito dopo l’incidente, viene anche insinuato che Bartoli e Dini fossero ubriachi, tanto che i parenti delle vittime
chiedono e ottengono che sui due piloti venga eseguita
l’autopsia, affidata all’équipe guidata dal professor Ideale
Del Carpio, che comprende Marco Stassi, Paolo Procaccianti, Iginio Maggiordomo e Paolo Giaccone. Quest’ultimo, a cui è intitolato il Policlinico di Palermo, sarà ucciso dalla mafia l’11 agosto 1981 per essersi rifiutato di
cambiare il referto di un’impronta digitale lasciata da un
killer durante un conflitto a fuoco costato quattro morti.
I medici legali, che compiono anche un’analisi tossicologica, escludono la presenza di alcool e di droghe nel sangue. «Dai miei ricordi», dice Paolo Procaccianti, «i cadaveri erano molto traumatizzati, ma non presentavano
ustioni compatibili con un’esplosione a bordo. A quel
tempo, però, mi occupai degli esami tossicologici e non
partecipai alle ispezioni cadaveriche, che fecero altri colleghi di indubbio valore». Alla domanda se oggi sia ancora possibile, riesumando un cadavere, trovare eventuali
tracce di esplosivo, Procaccianti spiega che, se i resti so54
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no ben conservati, anche dopo quarant’anni è possibile.
Tutto dipende dallo stato della pelle, ci sono corpi che si
corificano, e su questi si possono compiere analisi attendibili.
Quanto agli esami tossicologici sui piloti, il risultato diede esito negativo. Eppure, il 7 settembre 2009, durante
una nostra visita nei luoghi del disastro, una coppia di
anziani incontrata lungo il percorso, a Piano Margi, ricordando la notte della sciagura dice, senza alcuna esitazione, che il pilota era ubriaco: «Gli piaceva bere», aggiunge l’uomo in tono confidenziale. Erano passati trentasette anni, ma le leggende non hanno scadenza.
La sciagura è talmente poco spiegabile che la sentenza
conclude così: «Ogni congettura è confinata nel campo
delle ipotesi, ognuna teoricamente possibile, nessuna però dimostrabile con certezza». E ancora: «Gli errori gravissimi dei piloti sono in contrasto con le doti di professionalità degli stessi e con la conoscenza della zona montuosa da parte di Bartoli […]. La condotta di volo dei piloti, qualunque sia la spiegazione ad essa data, si impone
quale causa unica ed esclusiva nella produzione dell’evento».
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CAPITOLO V
IL POLIZIOTTO LA CHIAMA STRAGE
Quelle su Dini e Bartoli sono le uniche autopsie autorizzate dai magistrati. Intanto, tutti i cadaveri vengono lentamente recuperati, portati nell’obitorio dell’istituto di
medicina legale del Policlinico di Palermo, dove i parenti iniziano il pietoso compito del riconoscimento. Un corpo, quello del regista Franco Indovina (noto alle cronache dei rotocalchi per la sua storia d’amore con la principessa Soraya, l’ex moglie dello scià di Persia, Reza Pahlevi), sarà trovato a brandelli. Indovina aveva cominciato
come aiuto regista di Michelangelo Antonioni e nel ’64
aveva firmato un episodio, Latin lover, del film I tre volti, dove Soraya recitava con Alberto Sordi. Aveva un fratello pilota d’aerei, il quale faceva parte dell’equipaggio
che, all’indomani del referendum che diede all’Italia la
sua attuale forma repubblicana, accompagnò nell’esilio di
Cascais l’ultimo re Umberto II.
Tra la folla dei parenti davanti alla camera mortuaria del
Policlinico di Palermo, c’è anche un uomo in manette,
guardato a vista dai carabinieri. Si chiama Giusto Sciarabba, finito nel carcere dell’Ucciardone nella retata che
ha portato in galera gli esponenti della cosiddetta “nuova mafia”. Cerca la sua donna, Renate Heichlinger, tedesca di Amburgo, 36 anni, che il 10 maggio avrebbe dovuto sposare in carcere.
Le bare sono contrassegnate da un numero e da una lettera. Sulla 12 T è scritto: «Sesso femminile; effetti personali: una fede, una cintura, una fascia elastica di lana; al56
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l’interno della fede inciso: Concettina e Lillo, 16-6-1937».
Mentre davanti al Policlinico c’è un via vai di parenti, curiosi e giornalisti, il funzionario dell’Alitalia Ottaviano
Canzini sente l’urgenza di comunicare alla stampa che la
sua azienda provvederà a tutto, e – rivolgendosi al giornalista del “Corriere della sera” Matteo Collura, futuro
biografo di Leonardo Sciascia – dice: «Scriva, la prego,
che paghiamo tutto noi ai parenti delle vittime: il viaggio,
le casse, i funerali, ogni cosa». Ma gli esborsi dell’Alitalia
non erano poi così generosi: centomila lire per ogni valigia, cinque milioni per passeggero, 400 milioni per i sette membri dell’equipaggio; a fronte di un risarcimento assicurativo a favore della compagnia di 2 miliardi e 600
milioni.
Le vittime sono a piedi scalzi. Togliere le scarpe è una
delle procedure previste negli atterraggi di emergenza,
per evitare che i passeggeri possano sfondare gli scivoli
gonfiabili o ferirsi durante le operazioni di evacuazione.
Resta difficile stabilire se le calzature siano state volontariamente tolte o strappate via dall’urto. Oggi sorge
spontanea una domanda: qualcuno verificò se le stringhe
fossero slacciate? Quesito banale, anche questo senza risposta.
Quando viene ritrovata la salma del giovane Vyckpaleck,
il ragazzo stringe ancora nel pugno un crocifisso. A ricordare questo particolare è il farmacista Governanti. C’è un
altro dettaglio a cui è difficile attribuire un preciso significato: nella tasca della giacca di una delle vittime fu trovato un biglietto scritto a mano, senza un destinatario; vi
si leggeva: «Non doveva finire così».
Ma se ci fosse stato un problema a bordo, perché il comandante non l’ha comunicato alla torre di controllo?
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
Quei circa due minuti di black out nei collegamenti radio
restano l’elemento più inspiegabile della vicenda. Bartoli
non solo blocca ogni comunicazione con la torre di controllo, ma chiamato da quest’ultima non accenna alcuna
risposta. È accaduto qualcosa che ha mandato in tilt le
comunicazioni radio? Quei due minuti di silenzio hanno
forse inghiottito la verità sulla sciagura. Le ipotesi sul
blocco del collegamento radio possono essere infinite;
ma quella che sembra la più banale, un cono d’ombra che
ha impedito la comunicazione, si rivela come un’altra delle infinite coincidenze sfortunate capitate quella sera, un
po’ troppe. Nei cinque voli compiuti per simulare quello
fatale della sera del 5 maggio non risulta alcuna difficoltà di comunicazione radio fra la torre di controllo e l’aereo nel tratto che precede il luogo dell’impatto, pur avendo i tecnici percorso tutte le possibili traiettorie che
avrebbe potuto compiere l’AZ 112.
Cos’è accaduto in cabina in quei due minuti? Se i piloti
non avessero avuto alcuna percezione del pericolo imminente e avessero volato in condizioni di “normalità”, non
sarebbe stato altrettanto normale rispondere alle insistenti chiamate della torre di controllo?
Di eventi esterni, quelli prontamente esclusi dalla commissione Lino, parlarono due giorni dopo l’agenzia di
stampa “Reuters” e alcuni giornali inglesi come il “Sunday Express” e il “Sunday Telegraph”, che citavano fonti
di polizia. Si disse che la mafia aveva tutto l’interesse a
provocare il disastro, perché tra i 115 passeggeri di quel
volo c’erano due uomini che le avrebbero procurato danni: il comandante della Guardia di finanza di Palermo,
Antonio Fontanelli, e il magistrato Ignazio Alcamo. Quest’ultimo, che faceva parte della sezione per le misure di
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prevenzione, aveva proposto il soggiorno obbligato per il
costruttore Francesco Vassallo e per Ninetta Bagarella,
compagna dell’allora latitante Totò Riina, l’uomo che sarebbe diventato il capo incontrastato della mafia e che
aveva fatto perdere le proprie tracce nel marzo ’70. Vassallo, meno noto ai più, ex carrettiere diventato costruttore, fu uno degli artefici del sacco edilizio di Palermo,
quando la politica cittadina era in mano ai democristiani
Salvo Lima e Giovanni Gioia. Per la troika più disinvolta
della politica e degli affari palermitani fu coniato l’acronimo Valigio, con le iniziali dei loro cognomi. Quanto alla richiesta di confino per la Bagarella, inutile dire che la mafia non la prese bene, soprattutto il giovane fratello di Ninetta, Leoluca, che ebbe modo di mostrare, nello stile
che si addiceva a un boss in erba, tutto il risentimento
che provava nei confronti di Alcamo, il quale ricevette
minacce telefoniche da Bagarella, poi arrestato nel ’95. Il
provvedimento del magistrato nei confronti della donna
di un mafioso – Riina l’avrebbe sposata in segreto nel
maggio ’73, in una cerimonia clandestina e soltanto religiosa officiata da padre Agostino Coppola, il confessore
di Cosa nostra, amico e complice di Luciano Liggio, finito in galera un anno dopo aver officiato quelle nozze –
non aveva precedenti in Sicilia, dove per parecchi anni
ancora la non esistenza della mafia sarebbe stata data
per definizione.
Tra i passeggeri di quel volo c’è anche un uomo che conosce qualche segreto della Prima Repubblica. Si chiama
Letterio Maggiore. Era stato il medico di Salvatore Giuliano e aveva contribuito all’arresto di Gaspare Pisciotta,
il luogotenente del bandito di Montelepre, la cui banda
aveva compiuto la strage di Portella della Ginestra, nel
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
’47, sparando sulla folla radunata nel pianoro per festeggiare il Primo maggio, uccidendo undici persone e ferendone ventisette.
Il dottor Maggiore è un personaggio defilato, che ama vivere nell’ombra. Le notizie che lo riguardano sono sporadiche. Si sa che è stato medico condotto a Montelepre
negli anni in cui vi scorrazzava la banda Giuliano. Nato a
Ustica, da una donna slava confinata nell’isola durante il
Ventennio, con molta probabilità ha avuto una parte di
primo piano nella cattura di Gaspare Pisciotta, portata a
termine dal dirigente della squadra mobile di Palermo
Michele Gambino insieme all’allora prefetto del capoluogo siciliano, Angelo Vicari, nominato successivamente
capo della Polizia.
Maggiore e Vicari avevano avuto una serie di incontri lontano da occhi indiscreti, in una villa nell’isola di Ustica.
Forse era uno dei pochi a conoscere la vera storia di
quella che è considerata la prima strage di Stato, a cui seguirono una serie di altri misteri, come l’uccisione di Giuliano, avvenuta il 5 luglio 1950 a Castelvetrano, nella più
pasticciata messa in scena prodotta nel Paese del melodramma; e come la stessa cattura di Pisciotta, avvelenato in carcere il 9 febbraio 1954.
Prima della strage di Portella della Ginestra, Maggiore
andò negli Stati Uniti. Le sue vicende sono ben raccontate nel libro di Angelo La Bella e Rosa Mecarolo, Portella
della Ginestra, la strage che ha cambiato la storia
d’Italia10. Tra i documenti trovati nella cella di Pisciotta
c’è una lettera di Maggiore, datata 14 ottobre 1953; proviene dall’America ed è destinata a Pisciotta attraverso
10. Edito da Teti, Milano, 2003.
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Giuseppe Barone, studente di medicina di Montelepre,
un giovane di 27 anni che dirà di aver conosciuto il dottore durante il periodo in cui esercitava nel suo paese. Il
19 marzo 1954, poco più di un mese dopo la morte di Pisciotta, Barone viene interrogato. Lo stesso giorno vengono perquisite le sue due case, a Montelepre e a Palermo.
Lo studente aveva fatto recapitare a Pisciotta la lettera di
Maggiore trovata in carcere. In quella missiva viene consigliato al detenuto di attenersi alla versione “concordata”. Grazie ai buoni uffici di qualche secondino, il medico
aveva più volte fatto visita al vice di Giuliano durante il
suo periodo di detenzione e aveva capito, o gli era stato
detto, che Pisciotta aveva intenzione di ritrattare le dichiarazioni rese al processo di Viterbo sui mandanti della strage di Portella, dove aveva pronunciato la frase sibillina «siamo il padre, il figlio e lo spirito santo», che
fuor di metafora significava che tra banditi, magistratura
e forze dell’ordine esisteva una sorta di patto.
Del resto, alcuni passaggi sono ormai consegnati alla storia, come la lettera di Giuliano trovata in tasca a un uomo della banda che avrebbe dovuto imbucarla e indirizzata al procuratore generale di Palermo, nella quale il
suo autore ringraziava il magistrato per averlo ricevuto.
Pisciotta pensa a un nuovo memoriale, ma il medico cerca di convincerlo ad attenersi alla versione nota e lo invita a ricusare il collegio difensivo, costituito dagli avvocati De Lisi e Crisafulli. Pisciotta farà a meno del primo, ma
terrà il secondo. Maggiore gli aveva consigliato un nome,
Aldo Berna, del Foro di Palermo, rampollo di una dinastia di avvocati dello studio Berna-Filangeri. Franco Berna fu anche l’avvocato di Luciano Liggio.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
Nel ’77 Crisafulli rende nota una lettera che Pisciotta gli
aveva inviato il 15 giugno 1953: «Carissimo avvocato, oggi inaspettatamente spunta fuori un fungo, non so se velenoso o buono. La cosa è molto delicata. La prego di lasciare ogni cosa e di precipitarsi a Palermo». Crisafulli
non andò. Ventiquattro anni dopo, l’avvocato commentò
così quell’episodio: «Nei mesi successivi alla lettera del
fungo, Pisciotta deve aver creduto alle promesse di libertà, di fuga o di espatrio. Oggi sappiamo che dietro quelle
promesse si nascondeva la tagliola del 9 febbraio», il giorno in cui qualcuno avvelenò il suo caffè.
Il fratello di Pisciotta, Pietro, guidava una squadra di netturbini a Palermo, nella zona fra il teatro Massimo e via
Maqueda. Chi l’ha conosciuto ricorda che aveva un atteggiamento da capo e che faceva valere le sue mansioni. Interrogato dal sostituto procuratore, spiegò che Maggiore
aveva detto anche a lui che Gaspare avrebbe fatto meglio
a cambiare difensore, suggerendogli il nome di Berna e
sottolineando che era il caso di fare in fretta, altrimenti
sarebbe stato troppo tardi. Il magistrato che interrogò
Pietro Pisciotta è Pietro Scaglione, ucciso il 5 maggio
1971 a Palermo, esattamente un anno prima della sciagura aerea. Da lì a qualche settimana, Scaglione si sarebbe
dovuto trasferire in Puglia.
Letterio Maggiore morirà a Montagna Longa, luogo che in
linea d’aria dista qualche chilometro da Montelepre. La
sua morte lascia intatti i misteri della strage del ’47 e dell’avvelenamento di Pisciotta.
In una lettera sequestrata a casa di Barone, il medico
scrive da Brooklyn – quartier generale degli immigrati arrivati da Montelepre, dove risiede al civico 1841 della
Settantatreesima Strada – e parla così della morte di Pi62
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sciotta: «Credo che qualcuno interessato abbia conosciuto i propositi di Gaspare e lo ha fatto liquidare. Noi due
possiamo guardare con la fronte alta. Non siamo gente di
queste cose». Tornato dagli Stati Uniti, nessuno lo interrogò. Scaglione si era limitato a sentire Pietro Pisciotta,
la madre Rosalia Lombardo e Giuseppe Barone.
Sulla sciagura di Montagna Longa la tesi dell’attentato
non entrò mai tra le ipotesi di indagine giudiziaria, neanche quando il vicequestore di Trapani, Giuseppe Peri,
nell’agosto del 1977 inviò a sette procure un rapporto investigativo che, partendo da quattro sequestri di persona e altrettanti omicidi di magistrati, tra cui Scaglione,
disegnò un quadro che metteva insieme eversione nera e
mafia. Quell’informativa faceva rientrare la sciagura di
Montagna Longa nella categoria delle stragi. Nel rapporto, di cui parleremo ampiamente più avanti, vengono denunciate trentuno persone. Inutile dire che Peri fu trasferito dal suo ufficio, grazie al “contributo” – non sapremo mai se esplicito o no – del questore del tempo Vanni
Aiello, del suo collega Giuseppe Varchi, il cui nome fu poi
trovato tra gli iscritti alla loggia massonica P2 di Licio
Gelli (tessera 908), e di un magistrato della procura di
Marsala, Salvatore Cassata, anche lui piduista (tessera
903).
Del rapporto Peri si sarebbe persa la memoria se la tenace Maria Eleonora Fais, sorella di Angela, giornalista de
“L’Ora” e di “Paese Sera”, una delle vittime della sciagura, non avesse provato in tutti i modi a rintracciarlo. A
trovare quelle 33 pagine dattiloscritte fu, alla fine del ’91,
il magistrato Paolo Borsellino, allora procuratore di Marsala, il quale non fece in tempo (sarebbe stato ucciso nel63
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
la strage di via D’Amelio, a Palermo, il 19 luglio 1992) ad
approfondirne i contenuti e a consegnarlo alla Fais, che
ne ebbe una copia soltanto nel ’97 dall’allora capo della
procura di Marsala, Antonio Silvio Sciuto. Nel marzo
2001 l’Istituto Gramsci siciliano lo pubblicò a proprie
spese.
Quando Peri spedì il suo rapporto a otto procure, a Catania era ancora in corso il processo di primo grado sulla
sciagura di Montagna Longa, finito nel tribunale etneo
già nell’agosto ’72, per decisione della Cassazione: a Palermo, infatti, dove le indagini erano condotte dall’allora
procuratore Giovanni Pizzillo (inizialmente con lui lavorarono parecchi pm: Rizzo, Signorino, Aliquò, Virga,
Agnello, Terranova), il processo non si sarebbe potuto
svolgere perché tra le vittime c’era un magistrato di quel
distretto, Ignazio Alcamo, appunto.
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CAPITOLO VI
IL FARO POGGIATO DOVE CAPITA
Esclusa la pista dell’attentato o del sabotaggio, rimasero
in piedi i filoni indirizzati ad appurare la funzionalità degli apparati radioelettrici di Punta Raisi: l’Ndb, il Vor, il
faro di avvicinamento a luce verde (non funzionante dal
7 dicembre 1971), il faro di aerodromo (guasto dal 7 settembre 1971), un altro apparecchio luminoso che emette una luce bianca e verde. Grande spazio fu dedicato alla traiettoria del Dc 8, ma inspiegabilmente passò in secondo piano l’altra dimensione, quella per cui un aereo è
diverso da una nave, da un treno, da un’automobile: la
quota. Nessuna perizia fu fatta sugli altimetri, anche solo per capire se fossero funzionanti.
L’inchiesta si muove partendo da un assunto: l’errore dei
piloti. Gli altri attori del disastro entrano come eventuali
corresponsabili. Diciamo subito che alcuni saranno prosciolti nel corso dell’istruttoria e quelli rinviati a giudizio
verranno assolti.
Prima del gennaio ’72, a Punta Raisi c’era un radiofaro, il
Pal, sintonizzato sulla frequenza 355.5 Kc/s, posizionato
un chilometro e mezzo più a est rispetto a un altro strumento, il Prs, sulla frequenza 329, attivo la sera dell’incidente, ma di cui i piloti del Dc 8 non si sarebbero avvalsi. Il 26 gennaio 1972, il Pal era stato trasferito su Monte
Gradara, a dieci miglia dall’aeroporto, verso sud.
Bartoli, che non aveva mai volato con Dini, aveva effettuato l’ultimo viaggio per Palermo il 13 aprile 1972 (sempre con un Dc 8 e sempre alla stessa ora) assistito dal
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
collega Guido Klug. In quella data il registratore di volo,
passato al setaccio dagli inquirenti, aveva evidenziato
una manovra perfetta.
Lo spostamento del Pal, dice l’inchiesta, non era stato recepito a dovere da tutti i piloti. Il Prs, inoltre, nella sua
nuova collocazione subiva interferenze di altri radiofari.
Tredici piloti, ascoltati dai magistrati, avevano riferito
questo inconveniente. Uno di loro, Omero Pattaro, atterrato a Punta Raisi la notte del 4 maggio 1972, alla vigilia
dell’incidente, aveva spiegato che in quella occasione
non era riuscito a sintonizzarsi sul Prs e quando l’aveva
fatto lo strumento gli indicava, in certi momenti, una verticale fittizia di Punta Raisi. Sull’episodio, il pilota aveva
inoltrato un rapporto all’Itav, l’ispettorato delle telecomunicazioni per l’assistenza al volo.
Le condizioni degli apparati radioelettrici furono esaminate dai tre periti d’ufficio del tribunale di Catania, il comandante dell’Alitalia Francesco Barchitta e i professori
dell’Università di Roma Antonino La Rosa e Renato Vannutelli che depositarono due distinte relazioni il 5 ottobre 1976 e il 3 febbraio 1981. La prima perizia, che durò
sedici mesi, gettò nello sconforto i familiari delle vittime:
i tecnici individuavano come unici responsabili della sciagura i piloti, imputando loro una manovra sbagliata, scagionando i funzionari dell’aviazione civile, il direttore dell’aeroporto e i militari che avevano il compito di gestire
le strumentazioni aeroportuali. Il pm Aldo Grassi accusò
il colpo e spiegò che quella perizia non avrebbe certo archiviato il procedimento penale.
Un processo, in effetti, si svolse. I dieci anni trascorsi prima di arrivare a una sentenza si spiegano non soltanto
con la lentezza della giustizia italiana, ma anche con le
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interminabili disquisizioni su argomenti risultati poi marginali, ma che costituirono il perno del processo, tutto incentrato su tre imputati, responsabili del mancato funzionamento del faro di aerodromo. Giovanni Carignano,
direttore dell’aeroporto, Arcangelo Paoletti, capo del secondo servizio aeroporti della direzione generale dell’aviazione civile, e Luigi Sodini, alla guida del ventiduesimo ufficio della stessa direzione, furono processati a
causa dell’unica accusa rimasta in piedi: il non funzionamento degli apparati luminosi. Gli altri indiziati di concorso nel disastro e di omicidio colposo, gli ufficiali dell’Itav, Sebastiano Freri e Giuseppe Canipari, responsabili
del settore da cui dipendevano l’installazione e il funzionamento dei radiofari, furono prosciolti perché si accertò che i piloti quella sera non si erano serviti dell’Ndb di
Punta Raisi, considerato mal funzionante e poco affidabile. Fuori dal processo rimase anche il sergente maggiore
Terrano, inizialmente accusato di non aver comunicato ai
piloti che erano su una traiettoria sbagliata.
Il faro d’aerodromo fu il protagonista del processo. Può
un aereo cadere se una luce di segnalazione non funziona? I piloti definirono il faro «di ausilio», di «grande ausilio», «di ausilio determinante». Ma sembra che servisse a
molto poco. Secondo i periti che stilarono la relazione nel
’76, la luce del faro serviva, tutt’al più, a identificare l’aeroporto per il «navigante lontano»; man mano che l’aereo
si avvicinava, la luce del faro veniva sovrastata da quella
dello scalo. Ma subito dopo aggiungevano che «nel caso
vi fosse stato errore nell’individuazione dell’aeroporto, la
mancanza del faro avrebbe potuto avere contribuito a
non correggere tale errore».
I periti – e sarà un atteggiamento ricorrente in tutta que67
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
sta vicenda – alternano certezze a cautele. Poco dopo, gli
stessi tecnici, infatti, sottolineano che in assenza del faro
erano atterrati a Punta Raisi oltre mille aerei e nessun
equipaggio si era mai lamentato: nel brogliaccio dei reclami era stato segnalato di tutto, ma nessuno aveva mai
avuto qualcosa da ridire sul non funzionamento dello
strumento luminoso. La conclusione è che «la mancanza
del faro non sembra poter determinare pericolosi intervalli nell’assistenza ai piloti». Ma più avanti i tecnici aggiungono che la mancanza del faro, associata al fatto
contingente che anche il radiofaro in quel periodo funzionava imperfettamente, «dava presumibilmente luogo
a qualche difficoltà nell’individuazione dell’aeroporto».
Non è finita: Arcangelo Paoletti, uno degli imputati, aveva tirato fuori un verbale del Comitato di sicurezza operativa dell’aeroporto, datato 16 settembre 1975, nel quale l’organismo faceva suo un parere dell’Anpac sull’inutilità del faro di aerodromo nelle fasi di avvicinamento e atterraggio. Sulla questione, i giudici scrivono nella sentenza: «Devonsi ridimensionare le enfatiche dichiarazioni
dei piloti, che in vari atti del processo definiscono il faro
di aerodromo costituente “ausilio”, “grande ausilio”, “ausilio determinante” e che, pur tuttavia, nel periodo di
inefficienza del faro non si avvalsero mai del brogliaccio
dei reclami». Insomma, il faro d’aerodromo, da un lato
serviva, dall’altro non serviva. Nel Paese delle mancate
verità, allora e ora trionfano le opinioni.
Gli inglesi, invece, avevano le idee chiare sulla pericolosità dello scalo e ritenevano Punta Raisi uno dei tre più
pericolosi aeroporti dell’area del Mediterraneo, insieme
ad Alghero in Sardegna e a Girona in Spagna. Nel luglio
’70, la Balpa, l’associazione dei piloti britannici, aveva da68
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to l’allarme in un documento diffuso dalla stampa nel
quale si affermava che, a causa di una radioassistenza
non adeguata, Punta Raisi «dovrebbe essere bandito a
tutte le operazioni notturne».
L’aeroporto anticipò il nuovo stile urbanistico della città,
ispirato all’estemporaneità. Sette mesi prima dell’incidente del ’72 e due mesi dopo la sciagura, il faro dello
scalo, per dirne una, rimase spento, fino a quando il direttore dell’aeroporto, sollecitato a provvedere al suo
funzionamento, lo piazzò a terra, prendendosi persino
qualche complimento per la brillante idea, definita nella
sentenza dei giudici «un rimedio all’italiana». La ditta
che avrebbe dovuto realizzare il traliccio su cui posizionare il faro, si limitò a vincere l’appalto, ma non ad eseguire l’opera. La Regione, responsabile per le infrastrutture aeroportuali, aveva suggerito di piazzarlo sul tetto di
un edificio in costruzione.
È interessante quanto ha riferito ai magistrati Giovanni
Carignano, direttore dell’aeroporto: «Effettivamente, in
data 26 giugno ’72, io presi autonomamente l’iniziativa,
rientrando nell’ambito delle mie competenze, di installare provvisoriamente il faro di aerodromo in modo da renderlo funzionante. Preciso che presi tale iniziativa in
quanto mi resi conto che, nonostante le reiterate sollecitazioni telefoniche fatte all’ufficio regionale aeroporti,
nonché alla ditta vincitrice della gara d’appalto, le opere
per l’installazione del nuovo traliccio andavano per le
lunghe, tanto che erano già trascorsi circa nove mesi dallo smantellamento dell’originario faro, mesi durante i
quali l’aeroporto era rimasto privo del faro. A seguito di
tale mia iniziativa, chiesi all’ufficio regionale aeroporti se
fosse stato possibile, in mancanza del traliccio, ubicare
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
provvisoriamente il faro in un qualsiasi sito della zona aeroportuale. L’ufficio comunicava a me che il faro poteva
essere provvisoriamente installato sul solaio di copertura del locale adibito a nuovo centro trasmittente. Poiché
tale manufatto non era stato ancora collaudato, e poiché
per posizionarvi sopra il faro di aerodromo occorreva prima costruire una soletta in cemento per l’ancoraggio del
medesimo, ebbi perplessità sull’opportunità di ubicare
provvisoriamente colà il faro, ed allora, previe intese telefoniche con l’ingegner Salvi dell’ufficio aeroporti presso la direzione generale dell’Aviazione civile di Roma, decisi di posizionare provvisoriamente il faro a terra, su una
soletta di cemento armato appositamente costruita».
Ai magistrati non resta che definire «umoristico» il fonogramma che impone a Carignano di ripristinare il servizio.
Un carteggio, dicono i giudici nella sentenza di primo grado, «che induce ad amare riflessioni sulle disfunzioni di
una burocrazia che non sa districarsi nel gioco delle competenze fra Stato e Regione, fra ufficio 22 e ufficio 23. La
risposta di Carignano è in sintonia con i tempi di cotanto
sfascio burocratico, e per il momento appaga tutti».
Ma vediamo cosa pensano i piloti di questa soluzione. Riportiamo un lancio dell’agenzia “Air Press” del 9 gennaio
1982: «Le affermazioni che vorrebbero che il faro di aerodromo serva all’identificazione dell’aeroporto sono
inattendibili, in quanto a identificare l’aerodromo serve
semmai il faro di identificazione… L’affermazione che il
faro luminoso di aerodromo potesse essere installato al
suolo, privo del suo traliccio, è quella che più d’ogni altra
fa comprendere la mancata conoscenza tecnica di chi la
postula. Infatti, il faro di aerodromo deve essere installato in una posizione certa, ad una certa altezza dal suolo
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e con un’inclinazione del suo fascio luminoso in modo
che esso stesso non possa costituire un ben più grave pericolo, e cioè quello dell’abbagliamento notturno della visione dei piloti impegnati nelle manovre d’avvicinamento, d’atterraggio, di decollo e di rullaggio sull’aeroporto
stesso e nelle sue immediate vicinanze». Era questo il
tasso di competenza dei responsabili dell’aeroporto.
Sembra incredibile che dieci anni di indagini abbiano
ruotato intorno a una lampadina spenta, per stabilire,
alla fine, che nulla sarebbe cambiato se fosse stata accesa.
Quando lo scalo di Punta Raisi entrò in esercizio, c’erano
due piste. Tuttavia, per anni quella principale non poté
essere utilizzata perché la torre di controllo, tirata su alla meglio, era troppo bassa e non si riusciva a scorgere
l’inizio della pista. Per montare il “cappello” della torre
passò un anno e intanto si bloccarono i lavori della terza
pista, quella cosiddetta dello Scirocco, per costruire la
quale occorreva chiudere l’unica in uso. Quando fu pronta la nuova torre, si innescò un contenzioso tra Stato e
Regione su come procedere al collaudo. Superato questo
scoglio, si scoprì che mancava l’impianto di illuminazione
ai lati della pista dello Scirocco e quando fu realizzato
venne a galla un’altra magagna: non c’era il faro di segnalazione su Monte Palmeto, a ridosso dell’aeroporto, mancanza che determinò l’utilizzo della pista soltanto di giorno. Dopo l’ennesimo accomodamento, venne fuori un
problema ancor più grave: sotto il punto di impatto della
pista principale che per anni era rimasta chiusa – gli aerei atterravano su un raccordo secondario – c’era una voragine che aveva portato al cedimento del manto. Il colpo d’occhio finale era l’edificio dell’aerostazione, una
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
specie di cantiere in abbandono, dove non funzionava
quasi nulla, neanche la macchina del caffè, spesso sostituita con la moka poggiata su una spiritiera, un fornellino alimentato ad alcool.
L’aereo di Bartoli e Dini, un gigante dei cieli, usato in genere per le traversate transoceaniche e per i voli di medio raggio, solo da poco era impiegato per i voli di piccolo raggio. È un veliero dell’aria, uno dei più sicuri mai utilizzati dall’aviazione civile e uno dei più longevi, costruito, nei vari modelli, in 556 esemplari. Ha quattro motori
Rolls Royce e un record di cui fregiarsi: fu il primo modello commerciale a superare la barriera del suono, raggiungendo, il 21 agosto del 1961, la velocità record di
1063 chilometri orari a 12.600 metri. In quella stessa occasione si portò alla quota di 15.875 metri, anch’essa record per un velivolo commerciale.
Il Dc 8 era un po’ l’orgoglio della nostra compagnia di
bandiera che ne aveva acquistati dodici dalla società costruttrice, la Douglas, ed era finito sul famoso “Gronchi
rosa”, il francobollo con l’effige dell’allora presidente della Repubblica per celebrare i collegamenti di linea tra il
nostro paese e l’America. La prima emissione di quel
francobollo, che conteneva un errore successivamente
corretto, ha quotazioni altissime e si rivelò una fortuna
per i pochi filatelici che ne vennero in possesso.
Il Dc 8 che si è disintegrato su Montagna Longa era stato costruito nel ’61, modello 43, targato I-DIWB; portava
il nome di Antonio Pigafetta, uno che navigava con Magellano e che finì ammazzato dai turchi. Ma il giorno dopo la sciagura, fra le tante cose dette e altrettante taciute, si sostenne che quell’aereo non era adatto a voli di
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corto raggio e ad atterraggi in un aeroporto di periferia
come quello di Palermo, dove le poche strumentazioni
sorgevano tra le erbacce brucate da qualche pecora.
L’aereo aveva le luci d’atterraggio accese, i flap11 erano
sulla posizione 25 gradi, cioè quella prevista per l’atterraggio. Ma i piloti, secondo i periti, non avevano visto le
luci dell’aeroporto sulla destra, né i fari di pericolo su
Monte Pecoraro attaccato allo scalo. E per questo ritenevano che la pista fosse più a sud, traditi anche dalla nuova posizione del radiofaro.
Bartoli, insomma, pensava di dirigersi su Punta Raisi,
mentre andava verso Monte Gradara. Questo perché, è la
spiegazione degli esperti, il pilota era ingannato dalle sue
vecchie esperienze e credeva che lo strumento di Monte
Gradara fosse quello di Punta Raisi, dismesso a gennaio.
Ma se Bartoli aveva volato su Palermo solo tre settimane
prima, il 13 aprile, quando quel radiofaro era già stato spostato? All’obiezione i periti, e poi il tribunale, rispondono
che durante quel volo avrebbe potuto non accorgersi dello spostamento, dato che alle radio assistenze, in quella
precedente occasione, era addetto il suo collega Klug.
Bartoli avrebbe sommato a questa distrazione anche la
mancata lettura del Notam12 su cui era stato già da un
pezzo segnalato lo spostamento del radiofaro. A tali manchevolezze, il collegio dei periti aggiunge il mancato uso
delle lenti, dato per scontato anche in questa occasione.
Ma c’è una testimonianza che aumenta le perplessità sull’ipotetica traiettoria che avrebbe portato l’aereo fino a
Monte Gradara: è quella del comandante Atza che volan11. I flap sono estensioni dell’ala che servono ad aumentare la portanza a basse velocità. Secondo i calcoli, il Dc 8 Alitalia in quella fase volava a circa 180 miglia all’ora, ovvero circa 290 chilometri orari.
12. Notice to the airman, ovvero avviso ai naviganti.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
do sopra le nubi incorse nell’errore di identificazione dell’aeroporto e lo oltrepassò. Ma fu in grado di correggere
la traiettoria perché si accorse, dall’esame di uno strumento di bordo, di essere a circa metà strada tra il Vor
collocato sulla montagna e Punta Raisi. Dini e Bartoli, se
davvero hanno fatto quel percorso, non avrebbero attribuito alcun valore – ennesimo, imperdonabile errore – alle indicazione dello strumento di bordo, proseguendo come se niente fosse verso sud e a quota bassissima. Per
Atza era stato facile rimediare, perché per Bartoli sarebbe dovuto esser così difficile?
Le indicazioni della cartina fornita dall’Alitalia nel Route
manual e aggiornata al 29 gennaio 1972 prevedono un
avvicinamento parzialmente manuale oppure completamente a contatto visivo. L’annuncio dato da Bartoli alla
torre di controllo («lascia 5000 piedi e riporterà sottovento per la 25 sinistra») secondo i periti «fa inequivocabilmente ritenere che il pilota ha rinunciato all’avvicinamento strumentale ed ha invece deciso per l’avvicinamento a contatto visivo col suolo». Ma quale suolo avrebbe visto Bartoli?
Alle infinite “distrazioni” del comandante si aggiungono
le scarse attrezzature dell’aeroporto nelle radioassistenze, la mancanza di verifiche radar della posizione dell’aereo da parte della torre di controllo «e altri fattori umani
e anomali non potuti accertare», dicono i giudici.
A questo punto è utile soffermarci sugli strumenti tecnici,
che hanno avuto un’importanza determinante per gli esiti
del processo. Il ricevitore dei segnali radio dell’aereo si
chiama Adf. Il Dc 8 ne aveva due. Uno era sintonizzato su
una frequenza compresa fra 350 e 359 Kc/s, l’altro fra 250
e 259 Kc/s. I periti hanno così ritenuto che il ricevitore del74
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l’aereo fosse sintonizzato sul radiofaro situato su Monte
Gradara, che trasmette alla frequenza di 355.5 Kc/s, e che
i piloti non si fossero avvalsi dell’altro strumento piazzato
nell’aeroporto, il Prs, la cui frequenza è 329 Kc/s. Ma un
perito di parte civile ha fatto notare che da Roma a Palermo non c’è un solo strumento che trasmette tra 250 e 259
Kc/s e che, inoltre, è improbabile che uno dei due Adf non
sia mai stato utilizzato per l’intera tratta. E ipotizza che il
potenziometro dell’Adf si trovasse su quella frequenza
perché i piloti avevano tentato in tutti i modi di connettersi con il Prs e non riuscendoci avessero desistito, lasciando la sintonizzazione in un punto qualunque.
Proviamo a sintetizzare il ragionamento: ammesso che
nella manovra di avvicinamento Bartoli e Dini avessero
scambiato il radiofaro di Punta Raisi con quello di Monte
Gradara, man mano che si avvicinavano all’aeroporto
avrebbero dovuto accorgersi, guardando gli strumenti di
bordo, che il riferimento era errato. Tutti sanno che l’aeroporto di Palermo è sul mare: superata la linea di costa,
infatti, ci si aspetta di trovare la pista. Se questo non accade, qualcosa non va. E qualora non avessero visto l’aeroporto perché distratti, il radar meteo a bordo dell’aereo
(che ha anche una funzione di ground mapping, proprio quella su cui era attivato) avrebbe segnalato loro il
passaggio dal mare alla terra. Invece vanno avanti sulla
stessa direttrice per quasi dieci miglia, senza guardare
nulla, neanche l’altimetro.
All’epoca del disastro, secondo i periti, Punta Raisi non
era equipaggiato «né per un completo avvicinamento
strumentale, né per alcun tipo di atterraggio strumentale,
cosicché, prima di iniziare qualsiasi manovra, l’aeroporto
doveva essere perfettamente individuato a vista».
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Sopralluogo di investigatori e magistrati a Montagna Longa.
La sentenza della Cassazione, a pagina 23, è ancora più
esplicita sull’argomento: «Il pilota», si legge, «prima di iniziare la manovra d’atterraggio, avrebbe dovuto individuare a vista la pista, per effettuare senza alcun ausilio strumentale l’inserimento nel circuito di traffico per la pista».
La Cassazione dà atto ai giudici di merito di non essersi
discostati dagli accertamenti dei periti d’ufficio, che collegano la mancata individuazione della pista a un errore
dei piloti, che si comportano come se fossero sulla verticale di Punta Raisi, senza esserlo. Cosa avrebbero avvistato? Come si può scambiare un luogo buio per una pista?
Non si può ed è ancora la Cassazione a sottolinearlo:
«L’esperimento di un volo notturno, in condizioni di oscu76
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rità analoghe a quelle esistenti la sera del 5 maggio, diede
esito negativo, nel senso che non erano state individuate
luci nella zona, confondibili con quelle dell’aeroporto».
La necessità dell’atterraggio a vista era dovuta al non
perfetto funzionamento dei due radiofari, che in alcuni
settori del quadrante magnetico avevano coefficienti
d’inaffidabilità elevati: il Pal di circa 30 gradi, il Prs addirittura di 90 gradi. Tutto questo ai piloti veniva segnalato sui Notam. Quando il Pal fu spostato, dicono sempre i
periti, le prove di funzionalità, «da parte di personale per
nulla specializzato», durarono appena due giorni. Logica
vuole che la scarsa affidabilità degli strumenti è un motivo in più per aumentare la concentrazione dei piloti.
Quella di Monte Gradara, secondo l’errata convinzione
dei piloti, doveva essere, per dirla in gergo aeronautico,
“la virata base” (cioè l’ultima virata per posizionare l’aereo sul sentiero finale per l’atterraggio) che avrebbe condotto il mezzo “in finale”, cioè all’atterraggio. Bartoli e
Dini volavano a vista, scollegati dalla torre di controllo,
senza comunicazioni radio. Sapevano che in quell’aeroporto i radiofari erano da ausilio alla vista e che occorreva guardare fuori dal finestrino. E se le condizioni meteo
non lo consentivano, bisognava lasciarsi guidare dalla
torre di controllo. L’allora presidente dell’Anpac, Adalberto Pellegrino, dirà ai magistrati che «a Punta Raisi
l’atterraggio doveva essere fatto a vista, con qualunque
tipo d’aereo, per la mancanza a terra di apparecchiature
quali il Vor, l’Ils, il sistema di controllo radar».
L’inchiesta disse che Bartoli e Dini non si erano serviti del
Prs 329, e questo scagionò i responsabili dell’Itav che si sarebbero dovuti curare dell’efficienza di questo strumento,
essendo venuto meno – secondo i giudici – il nesso di cau77
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
salità tra il disastro e il cattivo funzionamento del Prs. Non
averlo utilizzato, sembra più un atto di saggezza che una
leggerezza, se si pensa che il comandante Giacomo Mancuso, riferendosi a tre voli da lui compiuti tra il 7 e il 9 febbraio 1972, scrisse sul brogliaccio-reclami: «Il Prs 329 non
dà affidamento. Il Pal 355 invece, può essere sintonizzato
a grande distanza ed è molto meno influenzato dalle condizioni meteo avverse». Poi aggiunse: «Esso è stato riposizionato in una località montagnosa e questo potrebbe indurre qualche pilota non aggiornato e in particolari difficoltà ad effettuare la procedura sull’aeroporto senza tenere conto delle nuove posizioni, con conseguenze inimmaginabili». Sembrerebbe una profezia e invece, come molti
hanno fatto notare, le difficoltà rappresentate dalla caotica organizzazione degli strumenti, ben conosciuta dai piloti – soprattutto da quelli come Bartoli che frequentavano
quelle piste da tempo – garantiva un supplemento d’attenzione, tanto che Mancuso non si era fatto ingannare dai capricciosi segnali delle frequenze.
Ma se il radiofaro di avvicinamento Prs 329 funzionava
male, a causa della sua disposizione, perché fu installato
in quel punto? Ce lo spiega, anzi non se lo spiega, il tenente colonnello dell’Aeronautica Alfio Lorenzini, ascoltato dai pm di Catania il 18 luglio 1973: «Avevamo indicato una posizione completamente opposta. Constato
con meraviglia che non è stata tenuta in considerazione».
Ma ritorniamo all’ipotesi dei periti: Dini e Bartoli passano
sulla verticale (sbagliata) di Monte Gradara e iniziano la
manovra d’atterraggio virando a destra. Possibile che neanche allora si accorgano che sotto di loro non c’erano né il
Tirreno né le luci dell’aeroporto? Piuttosto che continuare
la virata a destra per iniziare il circuito d’atterraggio, avreb78
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bero avuto la possibilità di dirigersi verso il mare, lungo una
traiettoria dove le cime delle colline sono ben più basse degli oltre 900 metri di Montagna Longa. Invece, iniziata la virata non cambiano più traiettoria e vanno a schiantarsi.
Il 7 maggio 1972, intervistato da “La Stampa”, il direttore
dell’aeroporto Carignano dice: «La cosa sconcertante è
che l’aereo non aveva nessun motivo per sorvolare la zona
in cui è precipitato». A meno che non ci sia finito perché
era incontrollabile. Ecco il punto rimasto sempre oscuro.
Su “Air Press” del 9 gennaio 1982, partendo dalla nota
inefficienza dei fari di aerodromo e di identificazione, un
pilota commenta così l’ipotesi accreditata per l’incidente:
«Sarebbe come se di notte un automobilista, debitamente preavvisato dell’esistenza di una porzione di strada
franata e segnalata solo con delle luci catarifrangenti,
precipitasse in un burrone dopo aver voluto affrontare il
pur possibile passaggio sulla rimanente carreggiata,
avendo intenzionalmente spento i fari della sua automobile». E spiega che la fase di volo a vista compiuta da Bartoli si era resa necessaria proprio a causa del non funzionamento delle apparecchiature aeroportuali. Ma fidarsi
degli occhi presuppone che l’obiettivo sia visibile: «Tutta
questa fase di volo a vista, liberamente prescelta, si svolgeva, per la nota inefficienza dei fari Abn e Ibn aeroportuali, a completa discrezionalità dei piloti». Insomma, se
l’atterraggio doveva compiersi a vista, era ovvio che i piloti avessero individuato la pista.
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CAPITOLO VII
SE IL FATTO È UN’OPINIONE
Abbiamo visto che, prima dell’impatto, Bartoli comunica
via radio di trovarsi sulla verticale di Punta Raisi. La conferma ce la dà l’addetto alla torre di controllo, il sergente Terrano, che parlando con Roma dice di aver visto «la
112», che però si dirigeva verso le montagne. Nel corso
del processo, l’inequivocabile frase di Terrano sarà da lui
stesso definita una «interpretazione soggettiva». Ma se
diamo per buona questa “interpretazione”, o questo flusso di coscienza del sergente maggiore, nel momento in
cui il comandante comunica di essere in vista dell’aeroporto si trova davvero in quel punto, tanto che il Dc 8 è
sotto l’osservazione visiva, se non di Terrano, della signora D’Anna, la testimone che descrive con cura di dettagli
il passaggio dell’aereo sopra la sua testa. Ma il giudice
istruttore, nell’atto che proscioglie l’addetto alla torre di
controllo, si esprime così: «È emerso che Terrano non affermava fatti da lui constatati, ma avanzava delle ipotesi
sulla perdita di contatto radio con l’aereo». I giudici riterranno inverosimile, inoltre, che l’aereo si trovasse effettivamente sulla verticale dell’aeroporto, dove “verticale”
non è un riferimento geometrico, ma sta a significare che
ha identificato e visto l’aeroporto.
Al processo non resta che attribuire ai piloti tutti gli errori, almeno quattro: profondità (non sapevano di trovarsi 10 miglia più a sud e non hanno consultato gli strumenti di bordo che indicavano la posizione dal radiofaro
e, dunque, dall’aeroporto), traiettoria (hanno persevera80
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to nella manovra sbagliata), visione (non hanno guardato all’esterno e non si sono accorti che sotto c’era la montagna), udito (non hanno sentito l’allarme acustico che
l’altimetro emette quando si scende a una quota più bassa di quella stabilita). Tutto questo si addice al profilo di
due piloti esperti, coadiuvati in cabina da un motorista,
anch’egli con un brevetto di volo?
Ecco che cosa dicono alcuni colleghi di Bartoli ai magistrati di Palermo il 26 maggio 1972: «Era un uomo equilibrato e posso affermare che come pilota era superiore
alla media» (Pasquale Mancini); «era quanto mai equilibrato e prudente» (Luciano Caldarini); «ne ho un ottimo
ricordo sul piano professionale e umano» (Adriano Zini).
Quanto al mancato uso delle lenti, imputato a Bartoli sia
nel rapporto Lino, sia nell’inchiesta di Catania, due suoi
colleghi, Maurizio Tomassoni e Amilcare Filipponi, che
avevano volato con lui, escludono che il pilota avesse
gravi problemi di vista: «Solo una volta, su un Dc 6, di
notte, gli ho visto mettere lenti da riposo», dirà Filipponi, «non portava occhiali da vista e vedeva bene, come ho
potuto desumere essendo suo amico».
La vedova Bartoli, Bianca Fachini, il 27 maggio confermerà ai pm di Palermo di aver incontrato il marito a Fiumicino poco prima che si imbarcasse sul volo per Punta
Raisi: «Era in perfette condizioni fisiche e psichiche.
Quella mattina si era alzato verso le 10. Alle 11 eravamo
andati a ritirare il progetto di una casa che intendevamo
costruire. Poi aveva pranzato e subito dopo era andato a
riposare fin verso le 15.15, quando era andato in aeroporto per il volo Roma-Catania». La signora l’aveva visto l’ultima volta a Fiumicino, dove si era recata per accompagnare i figli che andavano a Trieste dai nonni materni.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
Qualcuno disse che a Fiumicino i coniugi Bartoli litigarono, davanti ad alcuni colleghi del pilota, non si sa per
quale ragione. Ma questo episodio – al pari dell’incredibile leggenda sui piloti ubriachi – passò di bocca in bocca
senza mai arrivare in un’aula di giustizia o finire sulle carte. Ma, probabilmente, è servito alla commissione Lino
per insinuare la tesi sulle alterate condizioni psichiche
del comandante.
Quanto agli occhiali, Bartoli li portava, dice la moglie,
«solo quando si sentiva un po’ stanco. Non li usava né per
leggere né per guidare l’auto». Nella borsa, che lei gli
preparava, ne aveva sempre un paio. Durante i voli non
cenava, aspettava sempre di tornare a casa.
Per quanto riguarda Dini, il comandante Giorgio Gobbi il
3 giugno dice ai magistrati che alcune volte gli aveva affidato i comandi e aveva assolto i suoi compiti con capacità.
La vedova di Dini, Paola Ghignoni, aveva spiegato che il
suo era un matrimonio felice, avevano due bambini di
uno e due anni, e che il marito era un tipo piuttosto calmo ed equilibrato e non portava occhiali. Le osservazioni medico-legali esclusero qualunque problema di salute.
«Perché tanto accanimento?», si chiede nel 2009 la vedova Dini in un’intervista televisiva alla trasmissione della
Rai Chi l’ha visto?. «Forse è stato il modo più semplice
per chiudere la vicenda». Mentre la sorella del pilota, nel
corso della stessa trasmissione, dice: «Un funzionario
dell’Alitalia mi propose una somma di denaro». Dichiarazioni rimaste lì, come la richiesta di Adriana Scaccianoce, figlia di una delle vittime, Giacomo, di riesumare il
corpo del genitore per appurare finalmente se si può
escludere un’ipotesi diversa da quella dell’incidente.
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CAPITOLO VIII
LA TERRA DI NESSUNO
Le osservazioni dei periti contengono elementi di grande
interesse per quanto riguarda la procedura d’atterraggio,
tanto che a leggerli diventa davvero difficile convincersi
che Bartoli e Dini potessero ignorare la loro posizione.
Alla domanda del giudice istruttore se i piloti avessero
effettuato una procedura strumentale di avvicinamento o
una a vista, gli esperti rispondono che l’annuncio di Bartoli («lascia 5000 piedi e riporterà sottovento per la 25 sinistra») «fa inequivocabilmente ritenere che il pilota ha
rinunciato all’avvicinamento strumentale e ha invece deciso per l’avvicinamento a contatto visivo col suolo». Se è
così, i piloti avevano individuato la pista e non potevano
certo cercarla altrove, dieci miglia più avanti dove, sì,
c’era il radiofaro di Monte Gradara, ma immerso nel buio
delle montagne e a una distanza non visibile dalla posizione in cui l’aereo si trovava durante l’ultima comunicazione. Ecco un altro punto oscuro.
Scriverà nel ’92 Adalberto Pellegrino, per anni presidente dell’Anpac e pilota di grande esperienza, nel suo libro
Trappole nel cielo13: «La commissione d’inchiesta tecnico formale e la magistratura non seppero trovare altri responsabili della sciagura che i due piloti, sui quali – senza alcun elemento oggettivo – venne rovesciato tutto il
peso della responsabilità professionale e morale».
L’opinione di Pellegrino sull’aeroporto palermitano è la
13. Edito da Sugarco, Milano, 1992
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
seguente: «È il contributo italiano al trattato su come non
dovrebbe venire costruito un aeroporto destinato all’aviazione civile». Localizzato ed edificato a seguito di valutazioni che nulla avevano a che fare con l’aeronautica. E ancora: «La pista principale venne ricavata a ridosso del
monte Pecoraro che sovrasta l’intera zona aeroportuale –
dista solamente mezzo miglio dalle sue pendici – assoggettandola ai venti di caduta [il fenomeno del wind shear, tornato alla ribalta dopo l’incidente in atterraggio di
un volo Win Jet, avvenuto il 24 settembre 2010, nda] che
scendono dal rilievo verso il circuito, rinforzandosi e arricchendosi in un imprevedibile susseguirsi di raffiche
che rende problematica – e qualche volta impossibile – la
manovra di atterraggio degli aeroplani». Ma, nonostante
tutto, allo scalo fu dato il nome di aeroporto internazionale. Col passare degli anni, le lettere cubitali che lo indicavano caddero o si scheggiarono, così il tempo provvide a
declassarlo a qualcosa come “orto nazionale”.
Sei anni dopo la sciagura di Montagna Longa, il 23 dicembre 1978, 37 minuti e 59 secondi dopo la mezzanotte, un
altro aereo, il Dc 9 Alitalia “Isola di Stromboli” con il numero di volo AZ 4128, proveniente da Roma con 129 persone a bordo, finì in mare quando era a due miglia da
Punta Raisi. Spirava un forte vento da sud e pioveva. Soltanto ventuno passeggeri si salvarono perché soccorsi da
due pescherecci che si trovavano in quella zona. Ben 108
persone, compresi i cinque membri dell’equipaggio, morirono. Manco a dirlo, la responsabilità primaria dell’incidente anche questa volta fu attribuita ai piloti. Nello Fais,
ingegnere, fratello di una delle vittime della sciagura del
’72, si chiese, con amara ironia, perché tutti i piloti sbagliano a Palermo.
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Già, perché? La scelta di costruire un aeroporto a Punta
Raisi è una delle tante, incomprensibili storie siciliane e
comincia nel ’53, quando il governo nazionale decide di
finanziare la realizzazione di un nuovo scalo. L’allora presidente della Regione Franco Restivo, futuro ministro,
coglie la palla al balzo e candida Palermo. Lo Stato tirerà
fuori il 60%, la Regione la parte restante. Si costituisce
un consorzio che raggruppa la stessa Regione, il Comune
di Palermo, la Camera di commercio, la Provincia, la Cassa di Risparmio e il Banco di Sicilia. Il nuovo organismo è
presieduto dal sindaco Gioacchino Scaduto, il suo vice è
Alfredo Terrasi, presidente della Camera di commercio,
uno squalo dell’edilizia che aveva fatto fortuna con una
colossale speculazione immobiliare sui terreni di alcuni
suoi familiari, in un’area che si chiama Girata delle Rose,
a ovest di Palermo, proprio in direzione di Punta Raisi.
Su quelle terre, dice nel ’64 il deputato comunista Pio La
Torre, si è deciso gran parte dell’avvenire dello sviluppo
urbanistico. Per fare un favore a Terrasi, si ritardò prima
l’approvazione del piano regolatore e poi la sua applicazione, proprio per dare precedenza ai piani di iniziativa
privata come quelli della famiglia Terrasi. Del consorzio
fanno parte alcuni tecnici, tra questi l’ingegner Iaforte e
il capo dell’ufficio tecnico del Comune, Vincenzo Nicoletti, padre del futuro segretario regionale della Dc, Rosario, morto suicida a metà degli anni Ottanta. Il consorzio
istituisce una commissione, che sulla carta dovrebbe essere un organo terzo, e invece ne fanno parte alcuni componenti del consorzio stesso, che ricoprono il doppio
ruolo di controllori e controllati. Il primo atto della commissione è quello di non dare seguito al concorso internazionale per realizzare il progetto, contravvenendo a un
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
passaggio scritto a chiare lettere nel bando redatto dal
governo nazionale.
Quando qualcuno individua Buonfornello – un’area pianeggiante a circa 50 chilometri da Palermo – come possibile sito per realizzare lo scalo, ecco che la commissione mette il primo paletto: l’aeroporto deve essere costruito nel raggio di 30 chilometri dalla città. Il ministero,
attraverso un suo rappresentante, propone così un luogo
che rientri entro questa distanza: la pianura tra Ficarazzi e Bagheria, Torre Corsara, a est di Palermo. Il professor Sebastiano D’Agostino prepara un progetto, subito
avversato da qualche proprietario terriero della zona, geloso dei propri agrumeti e degli investimenti fatti sui terreni. D’Agostino dimostra che soltanto il 30 per cento dei
60 ettari destinati al futuro aeroporto è coltivato ad arance e avanza il sospetto che il problema principale sia costituito da un gruppo di mafiosi che intende continuare a
lucrare sui pozzi d’acqua abusivi della zona, usati per irrigare le campagne; un bene pubblico diventato proprietà di Cosa nostra, che vende l’acqua come i titoli della
Borsa, imponendo ogni mattina, in regime di assoluto
monopolio, un prezzo diverso e sempre più alto.
Il consorzio, che avversa il progetto D’Agostino, non perde tempo e nel ’55 mette nero su bianco le sue decisioni:
l’aeroporto si farà a Punta Raisi, dove i terreni brulli, sui
quali nessuno ha speso una lira, potranno dare ai proprietari buoni introiti. Inizia la corsa all’acquisto: allevatori e contadini, ignari di quanto sta accadendo, vendono
le loro pietraie a improvvisati acquirenti, a mille lire al
metro quadro, stupiti che qualcuno possa essere interessato a quelle terre aride e improduttive. Ancora non sanno che lì dovrà sorgere un aeroporto e poi un’autostrada,
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e dopo ancora una moltitudine di ville e villette allietate
dal rombo dei jet. Il sì a Punta Raisi arriva un anno dopo,
nel ’56, quando alla presidenza della Regione si insedia il
democristiano Giuseppe Alessi, l’avvocato di Caltanissetta nel cui studio nacque la Democrazia cristiana. Il 15
marzo di quell’anno vengono piazzati nell’area gli anemometri e dieci giorni dopo, mentre gli strumenti che misurano i venti danno risultati da brivido, viene presentato il
progetto.
Nelle motivazioni della scelta, la commissione tecnica
spiega che l’altra ipotesi, quella di Ficarazzi, è troppo dispendiosa: otto miliardi contro i cinque di Punta Raisi.
Inutile dire che il prezzo finale sarà più del doppio, cioè
undici miliardi. Ma la ragione principale viene pronunciata con un’impudenza da veri impostori: a Ficarazzi, dice
la commissione, lo scalo è chiuso tra monte Grifone e
monte Gibilforni. Le due alture, in verità, distano cinque
e sedici chilometri dall’eventuale aeroporto. A Punta Raisi, invece, la pista principale si trova soltanto a ottocento metri da monte Pecoraro, che rappresenta la propaggine più vicina alla costa della catena montuosa che comprende anche Montagna Longa.
Il nuovo ministro dei Trasporti, Taviani, vuol vederci
chiaro – si fa per dire – e istituisce il solito organismo pletorico a cui l’Italia ha tante volte affidato il compito di annacquare ogni polemica, una super commissione per valutare il progetto. Il 20 settembre 1956 i tecnici si riuniscono, sono fior di generali dell’aeronautica, piloti, tecnici, gente dell’aria alla quale basterebbe dare un’occhiata
a Punta Raisi per capire che quello è il posto sbagliato.
Ma l’unico a dire no sarà il generale Gallo. Qualche mese
dopo, l’assessore regionale ai Lavori pubblici, Rosario
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
Lanza, presenta all’Assemblea regionale siciliana la legge
che finanzia l’opera: tre miliardi è l’apporto dell’amministrazione siciliana, due li tirerà fuori lo Stato. Nel 2004 la
stessa Assemblea, forse per un inconscio senso di colpa,
estese ai familiari dei morti di Montagna Longa i benefici
previsti per i parenti delle vittime di mafia, che ebbero
così la possibilità di essere assunti nei ranghi dell’amministrazione.
Aggiudicato l’appalto con uno sconto del 29 per cento, su
una base d’asta di cinque miliardi, il ribasso fu subito azzerato da una perizia suppletiva presentata dalla ditta
appaltatrice, la Sab di Roma. Iniziava così la costruzione
dell’aeroporto, che ancora per qualche tempo dopo
l’inaugurazione si poteva raggiungere in auto solo dopo
aver attraversato un tratto di strada sterrata, costeggiata
da muretti di pietra a secco.
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CAPITOLO IX
COLPEVOLI? SOLO IMPRUDENTI
Al processo di Catania si disquisì lungamente sugli apparati tecnici dello scalo di Punta Raisi e sul mancato recepimento nel nostro ordinamento delle norme contenute
nella Convenzione Oaci. Per i cultori della materia, il processo stabilì che l’Italia si era limitata a recepire la Convenzione, ma non i contenuti degli allegati. Gli imputati,
dunque, in assenza di precise disposizioni attuative, non
avevano commesso reati, tutt’al più avevano «violato comuni norme di prudenza», sentenziò il tribunale.
Dare addosso all’aeroporto di Punta Raisi era fin troppo
facile. I periti, rispondendo alle domande del giudice
istruttore sullo scalo palermitano, osservarono che si trovava in una zona malagevole, sia per la presenza delle
montagne, sia perché disturbato dai venti di caduta, diversi da un capo all’altro della pista. Inoltre, «la rapida
variazione mare-pista-montagna dà luogo spesso ad illusioni ottiche». Nessuno risponde alla domanda sul perché sia stato costruito proprio lì, nel territorio di Cinisi, il
paese dei “Cento passi”, dove governava il boss Gaetano
“Tano” Badalamenti, l’uomo che nel ’77 diede l’ordine di
uccidere il militante di Lotta Continua Peppino Impastato, che dai microfoni di “Radio Aut” salutava ogni mattina il boss riverito da tutti chiamandolo “Tano Seduto”.
In verità, la ragione era semplice e imbarazzante: l’aeroporto segnò l’area di espansione della città che si sviluppò – forse il termine è inappropriato – verso ovest, dove
i terreni, di cui la borghesia mafiosa aveva fatto incetta,
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moltiplicarono il loro valore. Fu preso di mira ogni angolo del territorio, comprese le aree demaniali. Oggi, il paesaggio ai lati dell’autostrada che da Palermo conduce a
Punta Raisi, dove l’aeroporto ha preso il nome FalconeBorsellino, è una cortina di cemento che si estende quasi senza soluzione di continuità e separa i viaggiatori dal
mare. La stessa separatezza è riprodotta a Palermo, dove abbandono e stravagante edilizia riducono al minimo
il contatto tra il mare e i suoi abitanti.
Nel 1960, l’anno in cui l’aeroporto diventa operativo e i
palazzi sorgono come funghi, a Palermo l’emigrazione supera l’immigrazione. Il saldo negativo resterà quasi continuamente inalterato fino ai nostri giorni. Però, in una
società squilibrata, in cui la ricchezza illegale la faceva da
padrona, si continuerà a costruire. Il calcestruzzo divorerà tutto, compresa la famosa Conca d’Oro. Leonardo
Sciascia, qualche anno prima di morire, pubblicò un illuminante articolo su “Spazio e Società”, la rivista diretta
dall’architetto Giancarlo De Carlo (uno degli estensori
del Piano Programma, strumento urbanistico che non
ebbe mai attuazione nel capoluogo siciliano), nel quale
spiegò con la sua solita lucidità come il territorio fosse
stato devastato da un’avanzata inarrestabile di costruzioni che partivano dal mare, invadevano la piana e si arrampicavano su per i monti. Un accerchiamento del territorio secondo una strategia quasi militare, una sorta di
assedio di Stalingrado dei palazzinari.
Ma erano tempi in cui il cemento era una specie di divinità. Anche i periti di Montagna Longa ne erano in qualche modo convinti, quando nella loro relazione scrissero
che «l’importanza di uno scalo aereo è tale che spesso,
pur di averlo, viene approntato il minimo di attrezzatura
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per renderlo agibile». Forse serviva alla fuga dei palermitani in cerca di lavoro, perché proprio a partire dal ’60 ricomincia l’ondata migratoria verso il nord del Paese e
verso l’Europa continentale. Per tutti gli anni Sessanta,
oltre quindicimila persone lasciavano ogni anno Palermo
per cercare lavoro altrove, mentre la città ergeva cantieri ovunque e Vito Ciancimino coronava, sia pure per poche settimane, il sogno di diventare sindaco. Quando, nel
gennaio del ’71, l’ex barbiere di Corleone fu costretto a
dimettersi per le faide interne alla Dc, gli successe Giacomo Marchello. Al momento dell’incidente di Montagna
Longa è lui il sindaco di Palermo, che di mestiere aveva
fatto per trentasei anni il colonnello dell’aviazione.
Il 10 dicembre 1981, il giudice istruttore Cacciatore rinvia a giudizio per omicidio colposo plurimo il direttore
dell’aeroporto Giovanni Carignano e i dirigenti dell’aviazione civile Luigi Sodini e Arcangelo Paoletti. Oltre agli
imputati prosciolti in istruttoria (Freri, Canipari e Terrano), ce n’è un altro, il direttore generale dell’aviazione civile Felice Santini, deceduto nel 1978, contro il quale non
si poté procedere «per morte del reo».
Il dibattimento sulla sciagura di Montagna Longa inizia il
15 aprile 1982, quattro mesi dopo la sentenza del giudice istruttore, e si conclude il 27 aprile con l’assoluzione
degli imputati, per i quali il pm Grassi aveva richiesto una
pena detentiva di quattro anni e l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, chiedendo poi tre anni di condono per entrambe le pene. Il giudice Giustino Iezzi, dopo sei ore di camera di consiglio, legge il dispositivo della sentenza. Sono le 16.30. Tutti assolti.
L’imputato Carignano, presente in aula, si guarda intorno
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e dice: «Meraviglioso». Renato Ciccarelli, avvocato di
parte civile, si porta una mano alla fronte e dice: «Trasecolato».
Delle ventiquattro parti civili, in rappresentanza di otto
vittime, due (le famiglie Fais e Salatiello) si ritireranno
polemicamente nel corso del processo, mentre la vedova Bartoli ricusa il pm Grassi e si vede respingere la richiesta.
Dopo la sentenza, l’Anpac si esprime così sugli esiti: «Il
Processo è anche il titolo di un romanzo di Kafka, che
l’occasione ci ha fatto ricordare prepotentemente. Purtroppo. Iniziato a Catania il 15 aprile, con la previsione di
almeno quindici udienze, il giudizio per l’incidente di
Montagna Longa si è chiuso frettolosamente il 27 seguente dopo sole cinque sessioni. Fin dalla seconda
udienza, come già ricordato e per l’aria che tirava, alcune parti civili avevano abbandonato il processo. […] Sono passati più di dieci anni da quel 5 maggio ’72, un periodo lunghissimo, soprattutto per chi attendeva giustizia, nel corso del quale sono state dette e scritte tante
cose sull’incidente, sull’aeroporto, sui piloti. Cose per lo
più approssimate, come è costume in Italia quando si
parla di aviazione civile. In questo caso, però, c’è stata
anche malafede e incoscienza. Molte girandole, infatti,
hanno schizzato i loro umori a ruota libera, molti “specialisti” freschi di giornata si sono esibiti senza pudore. In
tutti questi aspiranti gesucristo è comune ed evidente la
presunzione di sapere esattamente perché e come è successo l’incidente dell’AZ 112. Non importa se le diverse
verità sono in contrasto tra di loro, non importa se non
esiste una dinamica certa dei fatti, non importa se, fin
dall’inizio, non sono stati disponibili elementi oggettivi
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quali registrazione Fdr, testimonianze attendibili, tracce
radar eccetera. Non importa. Basta concludere dicendo
che la colpa è dei piloti. Se questa è una diagnosi tranquillizzante e liberatoria persino per dei piloti, figuriamoci per gli altri. […] Per l’incidente di Montagna Longa, dopo un’inchiesta tecnico-formale incredibile (non è stata
accertata nemmeno l’ora esatta dell’impatto e non si sa
che quota segnavano gli altimetri), dopo due requisitorie
contraddittorie, che però con le varie perizie sono durate quasi dieci anni, ci attendevamo, almeno in fase processuale, conclusioni diverse e una definitiva identificazione delle molteplici responsabilità che hanno causato il
disastro».
Nel ’72, a proposito della commissione ministeriale presieduta da Lino, l’Anpac aveva fatto notare «la presenza
in maggioranza di membri appartenenti ad amministrazioni direttamente responsabili delle deficienze della nostra aviazione civile», concludendo che questo «suscita
dubbi sul procedere e sulla conclusione dei lavori».
Il 2 giugno 1983 inizia il processo d’appello a Catania.
Procuratore generale è Filippo Di Cataldo. I giudici di secondo grado il 13 giugno confermano la sentenza. L’8 ottobre, Di Cataldo ricorre in Cassazione. Nel ricorso scrive: «È stato violato il principio della retta motivazione
della sentenza, per travisamento di fatto, omessa valutazione di circostanze, mancanza di contraddittorietà della
motivazione nella parte in cui la corte non ritiene la sussistenza del nesso causale tra il comportamento degli imputati e l’evento».
Il 4 aprile 1984 la quinta sezione penale della Cassazione
respinge il ricorso. Sono passati undici anni e undici mesi, un numero che non porta bene all’aviazione.
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Neanche il 1972 fu una data felice: si verificarono in tutto il mondo ben 84 incidenti aerei con 2546 morti. La
sciagura più grave, che avvenne sempre in fase d’atterraggio, si verificò a Mosca quando un Ilyushin 62 dell’Aeroflot si schiantò con 174 persone a bordo. In quell’anno,
altri tre Dc 8 furono coinvolti in incidenti: quelli della Jal
giapponese a Delhi il 14 giugno (ottantaquattro morti e
quattro sopravvissuti) e a Mosca il 28 novembre (sessantuno morti); quello della ecuadoregna Aviaco a Las Palmas, nelle Canarie, il 5 luglio, che provocò dieci morti.
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CAPITOLO X
UNA CROCE SULL’INCHIESTA
Per il primo anniversario della strage, quando su Montagna Longa fu eretta una croce con i nomi delle 115 vittime, il pm di Catania Vincenzo D’Agata (che con il collega Pietro Vitaliti, subentrato a Lorenzo Inserra, coordinava le indagini) aveva assicurato che a giugno il lavoro dei
magistrati sarebbe stato concluso: «Un’ultima cosa importante che ci resta da fare», spiegò, «è un’ispezione dei
luoghi dell’incidente». In un’intervista a “L’Ora” (il giornale che nella strage aveva perso, oltre ad Angela Fais,
anche Alberto Scandone e l’ex direttore Francesco Crispi), Inserra dirà: «A noi era arrivato da Palermo un fascicolo e sopra, come accusati, c’erano i nomi di Bartoli
e Dini». Inserra aveva lasciato l’inchiesta il 14 marzo
1973, quando era passato a un collegio giudicante dello
stesso tribunale di Catania.
La procura del capoluogo siciliano, prima che il processo
fosse trasferito a Catania, chiese all’Alitalia i nastri di
quindici scatole nere di aerei su cui aveva volato Bartoli,
che furono esaminati dai periti nominati dal tribunale, gli
ingegneri Salvatore Di Tommaso, Orazio Scrofani e Santi
Lupo. In quei nastri non trovarono nulla. Mentre non si
saprà mai che cosa era inciso nella scatola nera dell’AZ
112, perché il flight recorder, che fu trovato, aveva il nastro strappato in corrispondenza di un tempo di volo di
circa sette ore dalla sua installazione, avvenuta il 30 aprile 1972 alle 17. «Se ne deduce», scriverà la commissione
Lino, «che il registratore ha cessato di registrare il primo
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maggio». La sostituzione del nastro si sarebbe dovuta effettuare il giorno dopo l’incidente. Quando qualcuno si
chiese se un apparecchio così importante può incepparsi come un mangianastri senza che il guasto venga segnalato, la risposta tecnica è stata che la ruota di avvolgimento continuava a funzionare, mentre il nastro era
spezzato. In quelle condizioni nessuno poteva accorgersene, soprattutto perché la spia che segnalava il funzionamento della scatola nera continuava a dare luce verde.
Se ne deduce – e anche questa si somma a tutte le altre
coincidenze a senso unico – che chi ha progettato il
flight recorder non ha previsto tra i guasti segnalabili
dalla spia lo strappo del nastro.
Dopo il ritrovamento, la scatola nera fu affidata al colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, ucciso dalla mafia
il 20 agosto 1977, che la portò a Roma nei laboratori dell’Alitalia. Nelle officine della compagnia di bandiera si recò, per assistere alla lettura della scatola, anche il pm Aldo Rizzo e fu proprio lui a comunicare il giorno dopo al
procuratore Pizzillo lo sconcertante risultato dell’operazione. La procura si riunì per mezza giornata e si sparse
la voce che i magistrati avessero intenzione di aprire
un’inchiesta per indagare su quell’improbabile fatto che
metteva una pietra sopra l’accertamento della verità.
Non se ne fece nulla.
Ma davvero ci si può non accorgere di un nastro strappato? A quel tempo la scatola nera era una macchina abbastanza semplice, funzionava con un nastro che registrava
in analogico e conteneva – come quella attuale, molto più
evoluta e con funzioni digitali – due piste: il registratore
delle voci di cabina e quello dei parametri di volo. Sorprende però che nessuno si sia accorto del guasto alla sia
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pur rudimentale scatola nera, perché il segnale di funzionamento è legato non alla bobina che trascina il nastro –
che sappiamo continuava a girare a vuoto – ma alla bobina trascinata. Non può che essere così: il movimento o
l’arresto di quest’ultima è il dato che può segnalare con
sicurezza il funzionamento di entrambe le bobine e dunque dello strumento; è il cedimento del nastro ad assicurare che la registrazione avviene. È una considerazione
talmente di buon senso che sembra impossibile non vi
abbia pensato nessuno.
Per non parlare del fatto che esiste un concetto ben noto alla cibernetica e che si chiama retroazione o feedback. In un manuale, pubblicato a Boston nel 1950 e in
Italia nel ’6614, il semplice principio viene spiegato così:
«Il comando della macchina, sulla base del suo funzionamento effettivo, anziché del suo comportamento previsto, è conosciuto come retroazione e implica che i membri sensori, messi in azione dai membri motori, svolgano
una funzione di rivelatori o segnalatori, cioè di elementi
che indicano il comportamento della macchina».
Anche la semplice freccia dell’automobile, una volta che
viene azionata dalla leva accanto al volante, non è detto
che funzioni: chi ci assicura che la lampadina non sia fulminata o che un contatto sia ossidato? E infatti, il segnale della freccia sul cruscotto si accende e si spegne con
un ritmo prestabilito che ne indica il corretto funzionamento. Qualora si verificasse un guasto, il ritmo sarà diverso – più accelerato o più lento – o addirittura il segnale scompare. Non basta, insomma, azionare la leva per
essere certi di aver effettivamente inserito la freccia; ri14. Robert Wiener, Introduzione alla cibernetica, Boringhieri, Torino, 1966.
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ceveremo un’indicazione, sulla base di un parametro noto, che ci darà la certezza del suo funzionamento.
Si può credere che la scatola nera del Dc 8 fosse meno
evoluta della freccia di un’auto? Nel ’72 il flight recorder
aveva sedici anni di vita: era stato inventato nel 1956 dall’australiano David Warren, recentemente scomparso, e
prodotto in serie in Inghilterra a partire dal 1960. Qualche
anno dopo, divenne uno strumento obbligatorio per tutti
gli aerei. Da un’evoluzione all’altra, oggi è in grado di resistere per mezz’ora a temperature fino a 1100 gradi.
Ma la scatola nera del Dc 8 non si è guastata per l’impatto, al quale ha perfettamente resistito; era non funzionante e da ben sette ore, secondo quanto risulta dall’inchiesta.
La serie di sfortunate coincidenze non si ferma al nastro
spezzato della scatola nera: a Fiumicino il personale di
terra non aveva ritirato prima del decollo – per un malinteso, si disse – la copia delle annotazioni tecniche dove i
piloti segnano le eventuali anomalie riscontrate nei voli
precedenti. Si tratta del cosiddetto libro di ferro, costituito da cinquanta pagine numerate di colore bianco,
giallo, verde e blu. A Fiumicino l’equipaggio avrebbe dovuto consegnare i fogli verdi e quelli gialli, che riportavano le annotazioni del precedente volo; lì dovevano essere segnalate le anomalie o i guasti riscontrati nell’aeromobile, compreso il mancato funzionamento della scatola nera. Ma del libro di ferro non si sa nulla.
Ce ne sarebbero di elementi per far sorgere qualche dubbio, anche a distanza di anni, e invece ognuno ha mantenuto la propria posizione.
Il 7 maggio 2002, vent’anni dopo la sentenza di Catania,
l’ingegner Di Tommaso, uno dei tre periti di Palermo, in98
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tervistato da “La Repubblica” non sembra minimamente
disposto a rivalutare i fatti, anche alla luce degli esiti del
processo. Insiste sulla propria versione: «Al comando del
velivolo c’era il secondo pilota, mai atterrato a Palermo.
Il comandante era alle comunicazioni: nel volo precedente [il Catania-Roma di quello stesso giorno, nda] aveva
commesso una serie di errori e si era sfiorata una collisione». Di questa sfiorata collisione non c’è traccia nelle
carte processuali ancora disponibili. E ancora: «A Palermo accadde che Bartoli comunicò alla torre di controllo
che stava effettuando una virata a destra per entrare sulla pista 25 sinistra. Dini interpretò diversamente quella
indicazione, virò dalla parte opposta, abbassò i flap di 25
gradi e quando vide la montagna davanti tentò di riattaccare».
Non fu solo colpa dei piloti, secondo il perito: «A terra
non c’era nulla che potesse correggere quell’errore. L’addetto alla torre disse di aver visto l’aereo dirigersi verso
la montagna, poi sostenne che era una sua deduzione».
Di Tommaso aggiunge un episodio inedito: «Con i resti si
composero 115 vittime. Poi fu trovata una hostess». Sul
numero dei morti ci sono versioni contrastanti: si disse
che mancava un cadavere, poi ritrovato; ma della vittima
in più non si era mai parlato e non si trovano attualmente riscontri. Infine, il perito aggiunge che tra le vittime
«c’era un signore che aveva escogitato un sistema per localizzare un aereo in caso di caduta. Tornava da Roma
per brevettare quella sua invenzione». È la sciagura delle coincidenze.
Chi, tornando da Roma il giorno precedente, il 4 maggio
1972, ebbe il sospetto di un clima non proprio sereno fu
l’ingegner Martino Taviano, che il 10 maggio inviò una
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lettera al procuratore Pizzillo, scrivendo che a Fiumicino
era stato perquisito, insieme ad altri passeggeri. Viaggiatore abituale, Taviano non aveva mai assistito a queste
procedure di sicurezza e sentì il bisogno di informare la
magistratura. L’Alitalia, interrogata sulla vicenda, spiegò
che si trattava di normale routine. Non è escluso che anche negli aeroporti italiani fosse scattato l’allarme a causa del dirottamento, quello stesso giorno, di un Dc 9 in
volo da Ankara a Istanbul da parte di quattro turchi che
costrinsero l’aereo ad atterrare a Sofia. Così come non è
escluso che ci fosse anche un allarme in Italia su possibili attentati. Qualcuno parlò, per esempio, di possibili vendette del terrorismo nero per la mancata liberazione dell’ufficiale delle SS Herbert Kappler, rinchiuso nel carcere
militare di Gaeta, da dove riuscirà a scappare.
Misteri che aleggiano da quarant’anni sulle vite di chi in
quella tragedia ha perso mogli, mariti, padri, madri, figli,
amici. Storie troppo grandi in un Paese che si fa piccino
e si immiserisce ogni volta che gli viene chiesto di generare verità, quella che la piccola Maria Teresa, sei anni al
tempo della sciagura, chiedeva alla sua maestra: «Dove
sono mamma e papà, perché non tornano?». Mamma e
papà erano Calogero Cammarata e Concetta Capozzi,
morti con altri due figli a Montagna Longa. Maria Teresa
era stata adottata dalla coppia qualche anno prima e
quella mattina non era partita perché sull’aereo erano rimasti solo quattro posti, così i genitori l’avevano lasciata
a casa della maestra.
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CAPITOLO XI
LA MANOVRA FOLLE
Chiuso il processo penale, che non vede coinvolta la
compagnia di bandiera, rimane in piedi il procedimento
civile, concluso nel 1985. L’Alitalia è condannata al risarcimento dei danni. La sentenza è della prima sezione del
tribunale di Palermo. Il risarcimento riguarderà soltanto
le due famiglie delle vittime che avevano rifiutato la transazione con la compagnia: i Fais per la morte di Angela e
i Salatiello per quella di Elisabetta.
La lunga vicenda dei risarcimenti ebbe risvolti paradossali: a un anno dalla sciagura, l’Alitalia aveva trovato un
accordo con il 43 per cento degli eredi delle vittime. Le
norme del tempo, riportate in piccolo dietro ogni biglietto aereo, prevedevano risarcimenti di soli cinque milioni
di lire in caso di morte per incidente sulle tratte nazionali. Alcuni chiesero cifre fino a ottanta volte superiori.
L’Alitalia non trovò di meglio che citare in giudizio alcune famiglie delle vittime. Un’azione legale di questo tipo
non aveva precedenti nella storia giudiziaria del Paese.
Maria Eleonora Fais pensa di chiedere la riapertura del
processo. Non ha mai smesso di cercare la verità sulla
sciagura e ricorda il clima da guerra civile di quegli anni,
nei quali, in Sicilia, gruppi di terroristi neri giocavano alla guerra nei campi paramilitari. Uno di questi fu scoperto a Bellolampo, dove c’è una grande discarica di rifiuti,
in una zona a sud di Palermo non lontana in linea d’aria
da Montagna Longa.
Il rapporto Peri, divulgato nel 2001, convince la Fais che
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sia arrivato il momento di riaprire il processo. Vent’anni
prima, durante l’istruttoria, le parti civili chiesero una
perizia sul nastro registrato della torre di controllo, per
analizzare alcune pause o cancellature che si interponevano nel dialogo dei due controllori di volo. Secondo la
Fais, «dall’inchiesta Lino potrebbe venire l’ipotesi del
possibile atto doloso contro l’aeromobile, che mandò in
avaria i meccanismi. Il comandante Ferretti, che faceva
parte della commissione d’inchiesta ministeriale in rappresentanza dell’Anpac, avanzò il sospetto di una esplosione nella carlinga. Sappiamo, da quello che è venuto
fuori dopo, che l’eversione nera aveva buone basi in Sicilia, come dimostra la presenza stabile di terroristi da un
capo all’altro dell’Isola. Non dimentichiamo che nel ’72, il
27 ottobre, a Ragusa fu ucciso un collega di mia sorella
Angela, il corrispondente de “L’Ora” Giovanni Spampinato, per mano di Roberto Campria, figlio del presidente
del tribunale di Ragusa».
Spampinato stava indagando sull’omicidio di un possidente e antiquario legato ad ambienti di destra, Angelo
Tumino, e nutriva forti sospetti su Campria.
In quegli anni il clima non è rassicurante. Se l’agenzia
“Reuters” un paio di giorni dopo l’incidente di Montagna
Longa parla di attentato, secondo Maria Eleonora Fais «sarebbe stato utile considerare anche questa pista. Ma l’indagine sembra conclusa ancor prima di cominciare: non è
stata effettuata nessuna perizia balistica, per esempio. Così come non si procedette ad accertamenti tra i più semplici: i magistrati non si posero il problema di sapere chi aveva sostituito il nastro della scatola nera, risultato strappato e inservibile. Il nome del tecnico che esegue questi lavori, di norma, è annotato nei registri dell’Alitalia».
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Quando Angela Fais morì a Montagna Longa aveva 27 anni. Nella sua agenda bruciacchiata dal kerosene del Dc 8,
e trovata fra i rottami, alla data del 5 maggio c’era una sola annotazione: 14-20. Era il suo orario di lavoro a “Paese Sera”, dove si era trasferita dopo alcuni anni passati a
“L’Ora”. A riconoscere il suo corpo, sul luogo della sciagura, fu il giornalista Francesco “Ciccio” La Licata, poi diventato autorevole firma de “La Stampa”. La Licata quella notte salì sulla montagna insieme a un collega de
“L’Ora”, Gianni Lo Monaco, il quale durante il cammino
cadde e si ruppe una gamba. Non c’era molto da fare: il
giovane cronista trovò una coperta e la mise addosso a
Lo Monaco, poi avvertì i vigili del fuoco, che solo l’indomani poterono andare a recuperare con una barella il ferito, il quale trascorse la notte seduto su un pietrone attendendo i soccorsi. Ciccio proseguì la sua scalata e arrivato sul pianoro, nel buio pesto, attese che facesse giorno. Alle prime luci si accorse che attorno a lui c’erano solo cadaveri: «Accanto al corpo di Angela», ricorda, «trovai il suo passaporto».
Durante la notte, dice ancora La Licata, «Carlo Alberto
Dalla Chiesa, che conduceva le indagini, diede ordine di
non far avvicinare nessuno nella zona e ordinò di sparare contro gli intrusi. Si temeva l’arrivo di sciacalli, questa
fu la versione ufficiale. Gli spari ci furono, a valle del pianoro, dove erano finiti pezzi dell’aereo e cadaveri. Il colonnello Nannavecchia si precipitò lungo il dirupo, rischiando la pelle, pur di fermare la gente che nel frattempo era riuscita a salire sulla montagna». La Licata rimase tre giorni a Montagna Longa, e quando raccoglieva
un po’ di notizie scendeva giù, a piedi, e dettava le informazioni al giornale da una cabina telefonica. Poi risaliva.
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La borsa di Angela non era bruciata e non lo erano neanche i suoi documenti personali. Era di pelle e aveva la
cerniera scardinata, «come se avesse subito lo spostamento d’aria», dice la sorella, «provocato da un’esplosione. Le pillole Optalidon erano sfarinate così come le penne biro Bic, che sembravano frantumate a colpi di martello su un’incudine. Facendo in seguito delle prove d’impatto in laboratorio, anche a 300 chilometri orari non si
raggiunsero questi risultati, perché il peso specifico delle Bic e delle compresse è bassissimo e solo un’esplosione può provocare tali esiti. Anche le condizioni di molti
corpi erano compatibili con l’esplosione, ma al procuratore Pizzillo e ai suoi sostituti non venne in mente di farli analizzare per verificare se fossero presenti tracce di
esplosivo. Nessuno fece quell’accertamento che, trentacinque anni dopo l’incidente nel quale Enrico Mattei aveva trovato la morte nei cieli di Bescapè, si rivelò decisivo
per capire, proprio grazie alle analisi sul cadavere riesumato, quanto era accaduto all’aereo che trasportava il
presidente dell’Eni».
Angela Fais aveva cominciato la sua carriera giornalistica nella sede di Palermo de “l’Unità”, in via Velasquez. A
dirigere la redazione c’era Federico Farkas, che fu il portavoce di Luigi Longo. Angela aveva la rara dote di farsi
voler bene da tutti, dal direttore al fattorino. La sua capacità di entrare in relazione con la gente era un valore
aggiunto per ogni posto dove lavorava. La settimana precedente, con lo stesso volo, aveva portato a Palermo i flani e le pellicole de “l’Unità domenicale”, per consentire di
stampare in fretta il supplemento del giornale in vista
delle imminenti elezioni. I suoi colleghi ricordano che era
arrivata trafelata nella tipografia de “L’Ora”, con un pac104
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co che era più grande di lei, il “Topolino”, come la chiamavano al lavoro.
Quando passò a “L’Ora”, Angela aveva conosciuto un ragazzino che di mestiere faceva lo scippatore. Era un tipo
sveglio, intelligente. Angela lo convocava ogni giorno al
giornale e gli dava qualche spicciolo per mangiare, cercando di distrarlo dalla sua attività. Non sappiamo se
quel ragazzino abbia poi desistito dai suoi propositi criminali, ma ai funerali fu visto in lacrime accanto alla bara di Angela.
La Fais faceva parte di un gruppo di belle promesse del
giornalismo: con lei era arrivato nel glorioso giornale di
piazzetta Napoli – fondato dalla famiglia Florio nel lontano 1900 e chiuso nel 1992 – anche Alberto Scandone, il
quale proveniva dall’area cattolica. Scandone, pure lui
morto nella sciagura, si infatuò di quel quotidiano comunista che trattava a pesci in faccia la mafia e il malaffare,
e il suo sogno era quello di scrivere la cronaca dell’incontro che più auspicava, quello tra Paolo VI ed Enrico Berlinguer, che nella sua fantasia si sarebbe dovuto svolgere, in un futuro non lontano, nei giardini del Vaticano.
Quando Angela arriva a Roma, entra a far parte di un ristretto gruppo di persone fidate che stanno intorno a
Berlinguer. Ricorda la sorella Maria Eleonora: «I Berlinguer erano amici di famiglia. Frequentavano casa di mia
madre, in Sardegna. Il ’72 era un periodo in cui il partito
andava a tentoni, nel Paese c’era un’aria irrespirabile.
Berlinguer non dormiva mai nello stesso posto: il partito
aveva attrezzato alcuni piccoli appartamenti, a Roma, dove i dirigenti passavano la notte, evitando di restare a
lungo nello stesso luogo. Angela era al corrente di tutto
questo. Mi parlava dei frequenti incontri del segretario
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
del Pci con Aldo Moro, del suo tentativo di convincere il
leader democristiano ad appoggiare la causa dei palestinesi. Non ho mai saputo perché quel giorno Angela avesse cambiato idea e non fosse più partita con il volo del
pomeriggio, dove era prenotata. L’amministratore di
“Paese Sera”, Amerigo Terenzi, mi spiegò che aveva insistito per trovare un posto sull’ultimo aereo per Palermo.
Gli chiese, addirittura, se poteva usare il suo nome all’Alitalia per trovare posto. All’aeroporto l’accompagnò
un collega, Walter Buzzoli, che aveva un’Alfa Romeo spider. Mi è sempre rimasto il dubbio che quel pomeriggio
fosse accaduto qualcosa di importante. So che Angela
stava cercando di dare una mano a Giovanni Spampinato
per le sue inchieste sul terrorismo nero a Ragusa e che
cercava notizie sul neofascista Vittorio Quintavalle. Si
muoveva con circospezione, annotava i fatti che la convincevano poco e aveva fiuto per le persone. Da anni cerco di capire. Quando penso a quel nastro inutilizzabile
della scatola nera, mi chiedo perché mai nessuno abbia
cercato di stabilire chi fece l’ultima manutenzione, chi lo
montò. Un giornalista polacco, Anthony Jerkov, disse a
persone del Pci che a Fiumicino lavorava un neofascista
noto ai servizi segreti, un certo Julio Beccarini, che aveva la residenza a Beirut. Ho chiesto, senza avere mai risposte, se avesse a che fare con quel volo».
Il nome Julio, ma non il cognome, rientra nei tardivi ricordi di Alberto Volo, ex estremista di destra, personaggio che nelle aule giudiziarie si è creato la fama di depistatore, come afferma Rosario Priore, il giudice che si è
occupato della strage di Ustica, il quale, esponendo nelle conclusioni della sentenza-ordinanza alcune dichiarazioni di Volo riguardo alla strage del 1980 e ad altri epi106
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sodi, conclude che sono talmente paradossali da non
aver bisogno di alcun commento. Volo oggi ha poco più
di sessant’anni, vive a Palermo e recentemente è stato
coinvolto in un’inchiesta per diplomi falsi. Durante un incontro con la Fais, le riferisce che anche lui doveva essere sull’aereo che si è schiantato a Montagna Longa e rivela la sua convinzione che si trattò di una strage ordita da
Gladio, l’organizzazione paramilitare che operava in Italia
ai tempi della guerra fredda. Nel maggio 2007 la notizia
finisce sul sito Comincialitalia.net, che intervista la
Fais. A giro di posta, alle 10.23 del 9 maggio, Volo interviene nel dibattito che si apre sul sito e che produce giudizi taglienti sull’ex estremista, inviando un commento e
scusandosi «per aver causato dissidi e, quindi, aver dato
ragione a chi mi accusa d’essere un provocatore». E aggiunge: «Non è vero che io non abbia rivelato chi mi impedì di prendere quell’aereo maledetto: si chiamava Donatella come la signora Papi, era una hostess dell’Alitalia
ed abitava in via dei Giornalisti, 21 a Roma – Monte Mario. Il cognome, per quanti sforzi faccia ed abbia fatto,
non riesco a ricordarlo. Escludo che Donatella avesse alcuna cognizione di quanto stava per accadere, posto che
ci incontrammo in aerostazione nell’imminenza della partenza, proprio perché aveva accompagnato lì la sua migliore amica, l’hostess Brigitte, che in quel volo perse la
vita. Se Donatella avesse avuto la benché minima cognizione dell’imminente tragedia avrebbe salvato la vita alla
sua amica piuttosto che a me. La sua amica Brigitte aveva preso il posto di una collega che si era data malata all’ultimo momento e di cui sarebbe facilissimo scoprire
l’identità, se se ne avesse voglia! L’hostess che si era data ammalata e sfuggì alla morte, “usciva” con un certo Ju107
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
lio che lavorava all’aeroscalo. Ecco la verità, pura e semplice! Ecco su cosa si dovrebbe riflettere e discutere!».
Nell’autunno 2009, chi scrive si è messo in contatto con
l’avvocato di Stefano Volo per chiedergli se il suo cliente
fosse interessato a chiarire quanto riportato nel sito, ma
l’ex estremista ha rifiutato, adducendo problemi di salute – da anni è malato – e lamentando le riserve espresse
da più parti su di lui e sui suoi racconti che riguardano le
trame della Prima Repubblica.
A parte la scarsa memoria di Volo sui cognomi – che contrasta con la precisione dell’indirizzo indicato nel suo intervento, via dei Giornalisti 21 –, non c’è alcuna hostess
Brigitte che sia salita su quel Dc 8 in sostituzione di una
collega. Il nome che si avvicina di più a Brigitte è Beatrice, che di cognome fa De Moulin.
Il giorno dopo il suo intervento, Volo manda al sito un altro commento che va in rete alle 13.06: «Nessuno risponde, nessuno riflette... nessuno discute... e se dico che
sembriamo tanti struzzi... vengo insultato, vilipeso e tacciato da sporco fascista». I puntini di sospensione sono di
Volo e lo sfogo si chiude con nove punti esclamativi.
Riportiamo le parole dell’ex estremista di destra per evitare che la sua ricostruzione continui a essere uno dei
tanti “si dice” che periodicamente si aggiungono a una vicenda tragica che ha soltanto bisogno di verità.
La Fais, che nel corso di questi anni ha tentato di raccogliere quante più notizie possibili, spiega che Volo si è
spinto a dirle di aver ceduto il proprio posto in aereo alla sorella.
Su posizioni politiche inconciliabili con quelle di Volo, la
Fais, a suo tempo militante del Pci, rimprovera al suo ex
partito di non aver mai preso in considerazione l’ipotesi
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dell’attentato. Su sei interrogazioni parlamentari presentate sulla vicenda, non compare mai una pista diversa da
quella dell’incidente, causato dalle cattive condizioni dello scalo e delle strumentazioni a terra. La principale attenuante è la condizione dell’aeroporto di Palermo, che come abbiamo visto non era esattamente degna di uno scalo passeggeri. Autore di quelle interrogazioni fu un amico di famiglia dei Fais, Pio La Torre, ucciso dalla mafia
nel 1982. Il parlamentare comunista nella seduta della
Camera del 19 luglio 1972 pronunciò un intervento durissimo sugli esiti dell’inchiesta ministeriale: «Si concentra
tutta l’attenzione sulle responsabilità soggettive del pilota Bartoli, definito distratto e lassista, e del suo secondo,
definito press’a poco un menomato psichico. Vi sarebbe
da domandarsi come con queste note di qualifica si potessero mantenere al pilotaggio di un Dc 8, di un quadrigetto di linea, persone di tal genere. Non ritengo che sia
il caso di infierire in questo modo sulla memoria di persone che sono cadute nello svolgimento del loro lavoro,
per cercare di evitare temi più scottanti».
Con gli aeroporti, La Torre non ha mai avuto un buon
rapporto, neanche da morto: lo scalo di Comiso, a lui intitolato in ricordo delle battaglie contro l’installazione dei
missili Nato in Sicilia, recentemente ha ripreso il vecchio
nome “Vincenzo Magliocco”, grazie all’imbarazzante decisione di un sindaco di centrodestra.
Considerata dai vertici del partito una persona fin troppo esuberante – Sciascia, probabilmente, l’avrebbe definita di tenace concetto –, Maria Eleonora Fais, donna minuta e dai tratti fieri, non smette di cercare la verità e
non ha alcuna intenzione di fermarsi. Detesta apparire e
mostra di non credere nel “dovere” di ricordare che ap109
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
paga quanti ritengono di assolvere al proprio compito
semplicemente commemorando. Preferisce coltivare il
vizio della verità.
Nel trentottesimo anniversario della sciagura, mentre
Carini era in campagna elettorale per le comunali, in una
giornata incerta tra pioggerella e un timido sole, siamo
andati di mattina nella piazza del paese e abbiamo chiesto a un passante se sapesse di una cerimonia per ricordare le vittime del disastro aereo di Montagna Longa.
«Non ne so niente», risponde l’uomo, «ma posso chiamare l’assessore alla cultura». Estratto dalla tasca un voluminoso telefonino d’altri tempi, intavola un colloquio con
il politico e ripete a voce alta: «Lei non ne sa niente. Ho
capito. Forse c’è una messa». Finita la breve conversazione telefonica, dice: «Forse c’è una messa, ma il portone del duomo è chiuso». La cerimonia religiosa ci sarà nel
tardo pomeriggio, quando alcuni parenti delle vittime
tornano da Montagna Longa, dove sono stati condotti da
due jeep della Forestale. Qualcuno tira fuori un vecchio
ricordo e racconta un episodio già noto. Tutti cercano
ancora una qualche verità. È così ogni anno, a cominciare dal primo anniversario, quando sul luogo della strage
fu realizzata una croce in metallo, di sette tonnellate e
mezzo, alta dodici metri. Quel giorno del ’73 spirava vento di scirocco, un gruppo di parenti delle vittime, alle
quattro del pomeriggio, si recò sulla montagna con le
Campagnole della forestale e, come riportano le cronache del tempo, anche con una Fiat 850 e una Volkswagen
Maggiolino. A un anno di distanza, molti rottami erano
ancora sparsi qua e là: le ruote del carrello, la coda del
Dc 8, pezzi di lamiera. Più tardi l’arciprete di Carini, don
Vincenzo Badalamenti, officiò una messa nel duomo alla
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quale parteciparono i parenti delle vittime e poche autorità: il procuratore Pizzillo, il sindaco di Palermo, Giacomo Marchello, quello di Carini, Giovanni Finazzo, e il capogruppo della Dc al Consiglio provinciale di Palermo,
Francesco Sturzo, che sottolineò il contributo dell’amministrazione – un milione di lire – per la realizzazione della croce; mentre il presidente della Regione Vincenzo
Giummarra inviò un telegramma. Dall’anno successivo
spettò solo ai parenti ricordare.
In quel 1973 i testimoni oculari dell’incidente, già ascoltati dagli investigatori e dai magistrati, continuarono a fornire ai cronisti la stessa versione resa poco dopo l’incidente: l’aereo, avvolto in una palla di fuoco, solo successivamente si era schiantato contro Montagna Longa. Nel corso degli anni, però, qualcuno cominciò a ricredersi.
I periti si sono più volte interrogati sulla traiettoria dell’aereo, ma si sono mai fermati a riflettere sul perché si
trovasse proprio in quel punto e, soprattutto, a quella
quota? Per errore, d’accordo: ma la quantità di questi errori è tale da dover per forza generare qualche sospetto.
I piloti sono troppo colpevoli per poter essere colpevoli.
Erano in quel punto, e questo è un dato. Ma perché a
quella quota? La quota esclude il posto e il posto esclude
la quota. Chi manovra un aereo non può trovarsi in un
punto per caso, deve sapere dove si trova. Un dato topografico può essere un’opinione? Quale disorientamento
può cogliere una coppia di piloti esperti, che poco prima
aveva comunicato di essere sulla verticale dell’aeroporto?
L’inchiesta si è impigrita sul preconcetto dell’errore umano – possibile, plausibile, persino probabile – ma eravamo davanti al più grave disastro aereo del Paese e sarebbe stato utile indagare in ogni direzione e prendere in
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
considerazione persino l’ipotesi di una saetta di Giove.
Invece, rimane vaga anche l’ora dell’impatto, «alquanto
incerta», scrivono i periti nella relazione consegnata al
giudice istruttore il 17 luglio 1978, «sebbene dovesse esistere un centinaio di orologi, fra quelli dei passeggeri,
quelli dell’equipaggio e quelli di bordo. Negli atti del processo a disposizione non si riscontra alcun riferimento a
tale fonte, la quale poteva, mediamente, essere più probante di altre. L’ora di passaggio sull’aeroporto è anch’essa incerta […]. Perdono quindi significato i tempi di percorrenza aeroporto-punto d’impatto».
Ma gli orologi c’erano, eccome: nella relazione stilata dall’allora comandante dei vigili del fuoco, Gioacchino Furitano, se ne parla in maniera esplicita. Ecco cosa scrive
Furitano: «Durante le operazioni recuperati denaro, orologi, chiavi, accendisigari che venivano consegnati al maresciallo dei Carabinieri Di Benedetto». Che fine hanno
fatto?
Il comandante dei vigili, tra i primi ad arrivare sul luogo
della tragedia, mette nero su bianco, e senza alcuna ambiguità, che la direzione di provenienza dell’aereo era da
ovest, lato Terrasini: «Localizzati i rottami dell’aereo o visto le tracce del fatto, si poteva così ricostruire la meccanica del sinistro: l’aereo, proveniente da ponente, cioè
dal lato di Terrasini, aveva urtato strisciando sul crinale
di Montagna Longa, in corrispondenza della freccia indicata sullo schizzo planimetrico [che manca dagli archivi
dei vigili del fuoco di Palermo, nda]; i motori avevano lasciato una lunga traccia sul pianoro; un’ala con due motori o parte della fusoliera, venivano proiettati oltre il pianoro, rotolando sulla fiancata di levante della montagna
in direzione di Carini; il resto della fusoliera si era disin112
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tegrata proiettando in varie zone il dolorante carico umano: alcuni corpi erano rotolati, assieme all’ala, sul versante di Carini. Verso quest’ultima direzione sono stati proiettati in fiamme un’ala, due motori e parte della carlinga, il che ha dato la falsa impressione ai testimoni che si
trovavano a Carini, che l’aereo procedesse con incendio
a bordo e che successivamente si fosse schiantato contro
la montagna».
A terra ci sono delle tracce inequivocabili, quelle delle
gondole dei motori e della fusoliera. Secondo la testimonianza dei coniugi Governanti, sembrerebbe che la
posizione del relitto, con prua a 100 gradi, possa essere
stata determinata dalla rotazione subita dall’aereo dopo
l’impatto contro la roccia dell’ala sinistra, che si è spezzata. I due testimoni hanno visto bene: quando dicono
che il Dc 8, proveniente dal mare, si avvicinava al punto dell’impatto correndo quasi parallelamente alla montagna, affermano il vero. La linea della catena montuosa, infatti, disegna una curva che da ovest procede verso sud-est. L’altezza del costone montuoso cresce da
ponente verso levante, consentendo a un osservatore
che si trova a terra di seguire il tragitto dell’aereo fino
a quando non incrocia il crinale e scompare dietro la
montagna a una quota di circa 935 metri (95 in meno
della cima più alta), dove è avvenuto lo schianto. Il lato
di ponente è lo stesso in cui il sergente Terrano avrebbe visto l’aereo, tanto che le ricerche cominciano proprio da lì. È anche il punto indicato da un’altra testimone, la signora D’Anna. Insomma, il Dc 8, secondo questa
ricostruzione, non è mai arrivato a Monte Gradara, dove avrebbe iniziato la procedura d’atterraggio. Non ha
tentato alcun atterraggio, semplicemente si è schianta113
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
to, lungo la sua improbabile traiettoria, contro il primo
ostacolo incontrato.
Se questo è il percorso seguito dal Dc 8, perché altri due
testimoni, i poliziotti Foti e Manfrè, dicono di aver visto
l’aereo all’altezza dello svincolo autostradale di Carini, a
est dell’aeroporto, attraversare la linea di costa? I due
giungono in aeroporto, secondo la loro stessa ricostruzione, intorno alle 22.20. La distanza tra Carini e Punta Raisi
è di circa dieci chilometri e occorrono poco meno di dieci
minuti per percorrerla. I poliziotti potrebbero aver visto
un altro aereo in quel punto dell’autostrada, probabilmente il Catania-Palermo atterrato intorno alle 22.10 sulla pista 25, in uso quella sera, alla quale si accedeva proprio dal
lato di Carini. Anche l’AZ 112 avrebbe dovuto compiere lo
stesso percorso, così come aveva annunciato Bartoli alla
torre di controllo, prima che le comunicazioni radio si interrompessero per i due minuti precedenti all’impatto.
Da che cosa è stata determinata la posizione “folle” del
Dc 8, come la definiscono i giudici, che infatti non credono che l’aereo si trovasse a ovest dell’aeroporto?
Probabilmente non lo sapremo mai.
A quel tempo, negli anni della guerra fredda, a Marsala,
vicino all’aeroporto militare di Trapani Birgi c’era uno dei
due sistemi radar di difesa aerea presenti in Sicilia; l’altro si trovava a Mezzogregorio, tra Augusta e Siracusa.
L’intero Mediterraneo era, inoltre, controllato da aerei
pattugliatori Atlantic della Nato, che si levavano in volo
da Sigonella, e dai Grumman dell’aeronautica militare
italiana di stanza a Birgi. Il monitoraggio dell’area era garantito ventiquattr’ore su ventiquattro in un periodo in
cui la strategia di difesa era quasi del tutto orientata al
controllo dei sommergibili sovietici che dal Mar Nero, at114
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traverso il Bosforo e lo Stretto dei Dardanelli, arrivavano
nel Mediterraneo. Uno scenario da Ottobre Rosso, che
nulla lasciava al caso.
Non c’è alcuna ragione per ritenere che la sera del 5 maggio il radar di Marsala fosse spento e che i militari sonnecchiassero o fossero poco interessati a seguire quello
che accadeva sopra le loro teste. Per il radar, un aereo è
un oggetto che si muove nell’aria, poco importa che si
tratti di un mezzo civile o militare. Se così non fosse, saremmo in presenza di un grave “buco” nell’apparato di
difesa. Il tracciato radar dell’AZ 112 è stato dunque registrato dalla difesa aerea di Marsala: non si può lasciare
nei cieli un oggetto senza controllo.
A Marsala in quel periodo era installato un radar del tipo
Anfps 8, con una portata attorno alle 500 miglia. La distanza tra Marsala e Punta Raisi è di circa 50 miglia. Lo
strumento ha un raggio di trasmissione cosecante quadra, definizione un po’ astrusa ma che indica semplicemente la sorgente e la direzione del segnale e che rassicura sul fatto che un aereo, a qualunque quota si trovi, è
compreso nel lobo di radiazione dello strumento.
Facciamo un passo indietro: quando l’AZ 112 decolla da
Fiumicino il primo radar che lo avvista è quello di Licola,
vicino a Napoli. È lì che vengono certificati i dati del volo.
Il Dc 8 è un aereo civile partito da un aeroporto italiano e
viene classificato come “F”, cioè Friendly. Quando Licola
lo “consegna” a Marsala, il Centro di difesa aerea sa tutto
di quel puntino che si muove sui monitor. Sa, soprattutto,
che non si tratta di uno “Z”, che sta per Zombie (un velivolo non identificato), né di un “X Ray”, un aereo nemico
da inseguire con i caccia intercettatori per contrastarne
l’eventuale minaccia alla sicurezza del Paese.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
Ma un aereo civile, anche se non desta allarmi, va comunque seguito: se precipita, se scompare dai monitor,
qualcuno lo deve sapere. Ed ecco come viene seguita, in
questo caso da Marsala, la navigazione di un volo fino alla sua destinazione: il radar fornisce due indicazioni su
altrettanti monitor, la prima individua la posizione sul
piano e si chiama Ppi (Plan position indicator), la seconda Rhi (Range height position) e indica la quota.
L’operatore al Ppi conosce la posizione, quello all’Rhi la
quota. Dall’insieme dei due dati si ha la cosiddetta “vestizione” della traccia radar, cioè l’informazione completa in
un determinato momento dell’aereo preso in esame.
Stiamo parlando del 1972; oggi, ovviamente, nell’era dei
computer, le procedure sono molto più semplici.
Il sistema di controllo radar a Marsala è di tipo foneticomanuale: ottenuti a voce i dati dagli operatori che stanno ai monitor, un aviere marcatore riporta la posizione
dell’aereo su un grande pannello di plexiglass: quello di
Marsala era dieci metri di base e quattro d’altezza. Sul
pannello è raffigurata in scala l’intera area geografica di
competenza del Centro, divisa in quadranti, ognuno dei
quali comprende 60 miglia quadrate. Gli avieri marcatori
materializzano su questa lavagna trasparente le coordinate geografiche in cui l’aereo in questione si trova nel
momento preso in considerazione, tracciando una freccia che ne indica la precisa localizzazione e la direzione.
L’operazione viene ripetuta e aggiornata più volte e, soprattutto, viene annotata a penna su un registro che si
chiama DA1, in cui figura l’ora, la quota, la velocità, il
tempo trascorso dal decollo. A fine percorso, quando
l’aereo è atterrato, l’operazione viene conclusa e ogni
dettaglio rimane scritto nel registro.
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Uniti i vari punti, si finisce per conoscere la precisa rotta
dell’aereo, l’orario, la traccia, la posizione geografica.
Mettendo insieme le varie “fotografie” ne viene fuori la
traiettoria.
Il registro DA1, che non è un bloc notes, ma un volume
stampato dal Poligrafico dello Stato e che ha una forma
simile a uno spesso album da disegno (un rettangolo con
la base molto più lunga dell’altezza), quando ha esaurito
le pagine viene consegnato al Terzo Soc (Sector operation center) di Martina Franca, in Puglia.
Solo a partire dal ’74 i tracciati radar a Marsala saranno
registrati sui nastri magnetici; ma nel ’72 il metodo di registrazione, che può sembrare arcaico, era persino più
indelebile: si sa, scripta manent.
Sarebbe stato semplice, dunque, anche a distanza di
tempo, provare a dare un’occhiata a quel registro per stabilire l’esatta traiettoria del Dc 8. Dalle carte dell’inchiesta non risulta che sia mai stato chiesto il tracciato radar.
Quel tracciato avrebbe permesso di individuare la traiettoria dell’aereo, senza dover ricorrere a ipotesi accademiche e a tesi probabilistiche che hanno allungato a dismisura i tempi del processo, senza mai arrivare a un dato preciso.
A voler fare la parte dell’avvocato del diavolo, si può supporre che Marsala abbia “abbandonato” l’AZ 112 prima
dello schianto, avvenuto intorno alle 22.23. Ma già dalle
prime indagini la commissione Lino si rammarica che
dalle 22.10, l’ora in cui Roma controllo lascia il Dc 8, ogni
ulteriore evento abbia una collocazione temporale approssimativa, mancando a Palermo il marcatore orario.
Non è pensabile che Marsala dalle 22.10 non abbia più
seguito l’aereo Alitalia; a meno che non si voglia pensare
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
che per un terzo della sua navigazione il volo sia stato lasciato al proprio destino. Eppure le indagini proseguono
come se il radar di Marsala non esistesse.
Sappiamo, inoltre, che l’AZ 112 nei due minuti che hanno preceduto lo schianto si è trasformato in un fantasma:
chi l’ha visto forse non l’ha visto; chi ha sentito il rumore
dei motori, forse non l’ha sentito. Due minuti di vuoto
che hanno preparato la tragedia. È qui il mistero: 120 secondi in cui un oggetto di 66 tonnellate, lungo 56 metri e
con un’apertura alare di 45, che sorvola l’area dell’aeroporto, scompare, per riapparire in frantumi sul pianoro
di una montagna.
Due minuti in cui si blocca la comunicazione radio e in
cui, probabilmente, anche gli altri strumenti di bordo
vanno in tilt. L’altimetro, per esempio: per quanto rudimentale fosse a quel tempo il suo funzionamento (era tarato sul Qnh, il valore della pressione atmosferica rilevata al terreno), davvero non ha dato alcuna indicazione ai
piloti? E le apparecchiature collegate con le radioassistenze (Adf, Loran, Vor) erano anch’esse fuori uso? Inoltre, un “buco” accidentale nelle comunicazioni radio è un
evento di bassissima probabilità, trascurabile.
C’è da considerare, inoltre, che il Centro di difesa aerea
di Marsala, oltre a seguire attraverso il radar la traiettoria degli aerei, ha anche la possibilità di comunicare via
radio con l’equipaggio. È accaduto, quella sera? Anche
questa domanda non ha risposta. Nell’immediatezza del
fatto, l’addetto della torre di controllo chiama Birgi, ma
non Marsala.
Il Dc 8 sembra fuori da ogni controllo: dalla cabina non
provengono voci e il suo appare un fantomatico viaggio al
termine della notte.
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Quel cenno all’aereo russo con il quale il Dc 8 ha avuto
una comunicazione radio è troppo generico, buttato lì
per caso nelle carte dell’inchiesta, per poter affermare
che nei cieli del Mediterraneo la sera del 5 maggio si aggirava un nemico. Ma di certo sappiamo che, a un certo
punto, si interrompono le comunicazioni tra il volo Alitalia e la torre di controllo; contemporaneamente l’aereo
prende una traiettoria che nulla ha a che vedere con
quella comunicata poco prima dal comandante Bartoli, il
quale dice di essere in allineamento con Punta Raisi; assume, invece, una traiettoria talmente folle che gli stessi
inquirenti si rifiutano di prenderla in considerazione o di
ritenerla minimamente probabile; tanto che, per giustificare l’impatto, devono considerarne una che abbia una
logica, che possa essere stata compiuta da esseri razionali quali si suppone siano tre piloti di una compagnia di
bandiera.
La mancata acquisizione del tracciato radar, il black out
delle comunicazioni radio, il nastro inservibile della scatola nera, la “ritrattazione” del controllore di volo sono
un numero talmente elevato di coincidenze negative che
nemmeno i più raffinati studi di stocastica riuscirebbero
a spiegare.
A proposito del DA1, anche nell’indagine sul disastro di
Ustica avvenuto nel 1980 il registro avrebbe potuto spiegare che cosa accadde quella sera del 27 giugno nei cieli
del Mediterraneo. Di quel documento, compilato nel centro radar di Licola, non si trovò traccia, ma almeno la magistratura, anche se otto anni dopo, aveva provato a cercarlo. E nel 1988, dopo che un aviere di stanza a Marsala telefonò in forma anonima a una trasmissione televisiva per raccontare la sua verità sulla strage di Ustica, l’al119
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
lora procuratore di Marsala Paolo Borsellino tentò di capire perché il radar del centro di difesa fosse spento.
L’aeronautica ha sempre sostenuto che quel giorno, a
causa di un’esercitazione, le strumentazioni avevano funzionato a fasi alterne e che quella sera a Marsala c’erano
solo due addetti. Borsellino appurò che ce n’erano ben
dieci, ma la risposta fu che otto, proprio in quel momento, erano in un’altra stanza.
A distanza di quarant’anni, non c’è più traccia del DA1 di
Marsala. La documentazione, infatti, con ogni probabilità
è stata distrutta: negli anni Ottanta lo stato maggiore dell’aeronautica ha emanato una disposizione che prevede,
passati quindici anni, la distruzione dei documenti archiviati in tutti i centri di difesa aerea. Dopo il 1987, dunque, il centro di Marsala, il cui hangar – dove erano depositati i documenti – è passato nella disponibilità dell’aeroporto di Birgi, non era più tenuto a conservare le
carte.
A cominciare dalla commissione ministeriale, che con
una velocità estranea al carattere sonnacchioso della giustizia italiana spiegò in fretta qual era la direzione da
prendere per spiegare l’incidente, nessuno ritenne di andare oltre.
Eppure il vicequestore di Trapani, Giuseppe Peri, provò
a gettare il sasso nello stagno con il suo rapporto: ebbe
come risposta il silenzio e in seguito il trasferimento. Con
il senno di poi, sappiamo che la parte sui sequestri di persona – la quasi totalità del contenuto di quel documento
– trovò ampio riscontro. Le sue ipotesi investigative non
erano frutto della fantasia, ma di un lavoro onesto e certosino. Il rapporto mafia-terrorismo è venuto spesso alla
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luce e fu una delle piste – abbandonata in fretta – per
spiegare l’omicidio del presidente della Regione siciliana
Piersanti Mattarella, avvenuto nel 1980.
Se non ci sono elementi per affermare che dietro la sciagura di Montagna Longa ci sia una pista terroristico-mafiosa o comunque diversa dal semplice errore umano, come lascia trapelare Peri, ci sono però molti elementi che
inducono a formulare ipotesi diverse dall’errore dei due
piloti. Ma al di là delle supposizioni, l’importanza di quel
rapporto consiste nell’invito ad allargare il raggio delle
indagini; un percorso che, se fosse stato intrapreso,
avrebbe probabilmente condotto a una qualche verità.
Nel 1976 Peri lavora a Trapani e intuisce – forse troppo
presto – che non esistono compartimenti stagni, distinzioni nette, e che la mafia, per esempio, non è l’antidoto
al terrorismo, ma è il terrorismo nella sua forma più “laica” e più pericolosa.
Il poliziotto guarda indietro nel tempo, al 5 maggio 1972,
e afferma che quello di Montagna Longa non è stato un
incidente, bensì una strage organizzata da esponenti del
terrorismo nero e uomini della mafia, il cui legame è rodato dalla serie di sequestri di persona programmati nell’ambito di una comune regia, con l’intento di creare la
cosiddetta strategia della tensione. La sua era una tesi
che non portava il timbro della verità, ma neanche quello della patacca. In ogni caso quel documento era una
sollecitazione ad approfondire la vicenda.
Peri a quel tempo non poteva sapere, anche se forse aveva intuito qualcosa, che in Sicilia, soprattutto dalle sue
parti, c’era una misteriosa e ramificata organizzazione, il
cui nome, Gladio, sarebbe diventato noto solo quindici
anni dopo. Non ci sono “cattivi” per definizione e Gladio
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
non fa eccezione; ma citarla serve a capire che la Sicilia
di quegli anni non era un posto da cartolina.
Nelle sterminate dichiarazione che Massimo Ciancimino
– figlio di Vito, ex sindaco mafioso di Palermo – ha fatto
ai magistrati della Dda, c’è un verbale che riguarda la
sciagura di Montagna Longa. Ciancimino afferma che su
quell’aereo viaggiava un uomo dei servizi segreti, di cui
non fa il nome. Quell’uomo era il superiore dell’ormai famoso signor Franco, un’entità tuttora misteriosa, anello
di collegamento tra lo Stato e la mafia nella presunta
trattativa che riguarda il periodo delle stragi del ’92. Don
Vito, anni dopo, avrebbe detto al figlio che il signor Franco era succeduto al suo superiore proprio dopo l’incidente di Montagna Longa.
Ma questo non è l’unico ricordo di Massimo Ciancimino
sulla sciagura: il 5 maggio 1972, quando lui aveva nove
anni, insieme alla famiglia stava andando all’esclusivo circolo Lauria di Mondello. Un uomo delle forze dell’ordine,
in motocicletta, li raggiunse lungo la strada, dicendo al
padre di chiamare subito l’allora sottosegretario Attilio
Ruffini, futuro ministro dei Trasporti e della Difesa: Ruffini avrebbe chiesto a don Vito di adoperarsi per fare in
modo che la stampa non si lanciasse in ricostruzioni fantasiose. Ma l’attendibilità delle dichiarazioni di Ciancimino jr, su questa e su innumerevoli altre vicende, è tutta
da chiarire.
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PARTE II
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CAPITOLO I
LA TESI DEL POLIZIOTTO
Cinque anni prima che fosse emessa la sentenza di primo
grado sulla sciagura di Montagna Longa, il vicequestore
Peri manda il suo rapporto a otto procure. È il 22 agosto
1977. Le carte attraversano l’Italia in lungo e in largo e finiscono nelle mani dei magistrati di Marsala, Trapani, Palermo, Agrigento, Taranto, Milano e Torino. Finiscono
anche sulla scrivania del diretto superiore di Peri, il questore Vanni Aiello, che il 18 novembre e il 12 dicembre
dell’anno precedente aveva ricevuto dal suo vice due informative. Ma se le prime comunicazioni scottavano, l’ultimo documento avrà ustionato le mani dei colleghi del
vicequestore.
Peri aveva diretto per due anni il commissariato di Alcamo, grosso centro del Trapanese. Lì aveva cominciato a
indagare sul rapimento di un notabile della provincia,
l’esattore Luigi Corleo, di Salemi, bloccato all’ora di pranzo del 17 luglio 1975 mentre tornava in auto nella sua casa di campagna. Un commando un po’ chiassoso, composto da una decina di uomini distribuiti su più macchine,
aveva circondato l’Alfa 2000 di Corleo, suocero di Nino
Salvo, che insieme al cugino Ignazio erediterà il business
delle esattorie in Sicilia. L’aggio percepito dalla loro società di riscossione tributi era il doppio rispetto a quello
praticato nel resto del Paese. I due, negli anni ruggenti
della Dc, diventeranno gli uomini più ricchi e discussi
dell’Isola.
Corleo non farà più ritorno a casa: morirà durante il se127
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
questro. Una silenziosa faida misurerà la potenza mafiosa dei rampanti cugini, arrestati nove anni dopo da Giovanni Falcone. Nino morirà in una clinica di Bellinzona
nel 1986 ed eviterà le aule di giustizia; Ignazio sarà ucciso nel 1992 dagli uomini di Totò Riina davanti al cancello della propria villa, dopo aver rimediato una condanna
per mafia al primo maxi processo contro Cosa nostra.
Il sequestro Corleo avvenne due settimane dopo il rapimento di Nicola Campisi, professore all’Università di Palermo, bloccato anche lui mentre era in auto sulla strada
che da Sciacca porta a Menfi, lungo la costa dell’Agrigentino. Il docente, già sequestrato una prima volta nel 1957,
rimase nelle mani dei rapitori per cinque settimane e fu rilasciato l’8 agosto dietro un riscatto di 700 milioni di lire.
Peri legò i due rapimenti a un terzo, avvenuto il precedente 13 gennaio a Lainate, nel Milanese, quando Egidio
Perfetti, l’industriale dei chewing gum “Brooklyn”, finì
per dieci giorni nelle mani dei banditi, che per la sua liberazione ottennero un riscatto miliardario.
Un quarto sequestro attirò l’attenzione di Peri, quello del
banchiere Luigi Mariano, avvenuto in Puglia, a Gallipoli,
sei giorni dopo il rapimento Corleo. Anche in quel caso fu
pagato un riscatto.
Il poliziotto aveva un’idea semplice sulla dinamica dei rapimenti e sulla distribuzione dei compiti: «Il sequestro
viene scomposto. Per le fasi più rischiose ci si serve di
elementi mafiosi, per trarre in inganno gli investigatori, i
quali pensano che sia opera di criminali locali. Sfugge così la cerchia di ideatori e conseguentemente anche il movente».
Cosa c’entrano i sequestri con Montagna Longa? Peri è
convinto che da qualche anno l’eversione di destra abbia
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rapporti con la mafia. I terroristi organizzano i rapimenti
per finanziarsi, Cosa nostra offre la manodopera. Entrambi hanno da guadagnarci e non solo economicamente: un clima di insicurezza crea le condizioni per sovvertire le istituzioni o per tenerle sotto ricatto.
Fa rientrare in questa strategia anche alcuni omicidi:
quello del procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione, avvenuto il 5 maggio 1971; del procuratore generale Francesco Coco (che aveva avuto assegnate
le indagini sull’assassinio di Scaglione) e del sostituto
procuratore Vittorio Occorsio, avvenuti rispettivamente
l’8 giugno 1976 a Genova e il 10 luglio dello stesso anno
a Roma. I bossoli trovati a terra dopo l’omicidio del pm
erano dello stesso calibro dei proiettili abbandonati sul
sedile di una delle auto usate per il sequestro Corleo.
Sul rapimento dell’esattore democristiano, a Peri non
sfuggono alcuni particolari significativi. Il boss di Salemi,
Salvatore Zizzo, classe 1910, che ha goduto nella sua lunga carriera di tutte le protezioni possibili da parte di politici, carabinieri, magistrati, era finalmente incappato in
qualche problema giudiziario. Ne erano passati di anni
dal lontano 1929, quando Zizzo fu per la prima volta denunciato dagli uomini dell’Arma per rapina, estorsione,
omicidio premeditato e assolto per insufficienza di prove,
formula che lo salverà spesso.
Il mafioso si trova al soggiorno obbligato a Quartu Sant’Elena, in Sardegna. Con lui c’è anche il nipote Salvatore Miceli, che avrà una brillante carriera di narcotrafficante e che solo nel 2009 è finito in manette in Venezuela. Il commissario scopre che, una settimana dopo il rapimento di Campisi, il boss si trova a Salemi in licenza. Il 17
luglio 1975, lo stesso giorno del sequestro Corleo, Zizzo
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
è ancora nel suo paese e ha da godersi altri cinque giorni di licenza, grazie a una proroga concessagli dal giudice istruttore. Ma il mafioso, quel giorno stesso, decide di
tornare al soggiorno obbligato, rinunciando a proseguire
la sua vacanza.
Peri nota che anche il nipote di Zizzo, Miceli, non se ne
sta a guardare e dà una mano a Luigi Martinesi, tra gli autori del sequestro Mariano. In quel periodo, infatti, si trasferisce con la moglie in Puglia, a Monticelli, la stessa zona in cui Mariano verrà tenuto segregato subito dopo il
rapimento. Miceli prende il nome di Salvatore Patti. Poco dopo, lui e la moglie si trasferiranno nella villa di uno
degli autori del sequestro, un certo Marcello Aloisi.
La “ditta” siciliana dei sequestratori comprende anche
altri nomi come Nicolò Messina, di Mazara del Vallo, nel
Trapanese, fermato il 20 agosto 1976 a Monreale con una
patente falsa e una banconota da centomila lire il cui numero di serie rimanda al denaro pagato per il rilascio di
Egidio Perfetti, il quale disse che uno dei due rapitori
aveva un marcato accento meridionale. Al momento dell’arresto, Messina è in compagnia di Vito Vannutelli e
Giuseppe Ferro, anche loro del Trapanese, inseguiti da
un mandato di cattura per il sequestro Campisi. Messina
sarà ucciso il 16 luglio 1977, tre giorni dopo la sua scarcerazione. Ferro, per scrupolo di cronaca, è uno dei personaggi che ha contribuito a chiarire il quadro della misteriosa strage della casermetta di Alcamo, dove nel 1976
furono assassinati due carabinieri.
Sul sequestro Corleo, Peri prende di mira il neofascista
Pierluigi Concutelli, al quale non sarà mai addebitata alcuna responsabilità nella vicenda. Nel rapporto spiega
che Concutelli aveva partecipato nel luglio ’72 alle eser130
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citazioni nel campo paramilitare di Menfi, nell’Agrigentino, e che aveva grande abilità nell’uso dei mitra. Aggiunge che una fonte confidenziale, nel luglio ’76, subito dopo l’omicidio di Vittorio Occorsio, ucciso il 10 dello stesso mese, suggeriva al nucleo antiterrorismo di Catania di
cercare Concutelli, autore dell’assassinio, a Salemi. L’anno precedente, il neofascista si era candidato a Palermo
alle elezioni amministrative.
Peri concludeva che nel Trapanese esisteva un’unica, potente organizzazione mafiosa facente capo a Salvatore
Zizzo, che aveva preso in appalto i quattro sequestri: due
in Sicilia, uno in Puglia e l’altro in Lombardia. I riscontri
erano dati dalla singolare circolazione delle banconote
tra personaggi tutti legati alla mafia del Trapanese e dalla presenza nei luoghi dei sequestri delle persone indiziate. Le finalità della mafia esulavano, secondo Peri, «dal
mero conseguimento del prezzo del riscatto». Non era
una questione di denaro, insomma, ma c’era qualcosa di
più. Il terrorismo nero e Cosa nostra avevano trovato
buone ragioni per un’alleanza.
La mafia, per volere dei boss dominanti in quel periodo
(Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti), aveva deciso
che la Sicilia doveva restare fuori dall’affare dei rapimenti. I sequestri erano permessi, ma lontano dall’Isola. Negli anni Settanta non è più così, qualcosa si rompe nonostante il governo della criminalità organizzata sia sempre
nelle stesse mani e nonostante il “ribelle” Luciano Liggio
finisca in carcere il 4 luglio 1974.
Le tesi del poliziotto non hanno molto a che spartire con
quelle dei carabinieri, che in un rapporto del nucleo
ispettivo di Palermo, inviato il 13 ottobre 1976 alla procura del capoluogo siciliano e a quella di Marsala, sosten131
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
gono che un certo Vito Cordio, scomparso il 2 luglio
1975, avrebbe chiesto alla cosca competente per territorio, cioè a quella di Zizzo, il permesso di rapire il notabile; ma la mafia non sarebbe stata d’accordo. Secondo Peri, dunque, Cosa nostra partecipa al sequestro; mentre
per i carabinieri vi si oppone. Un dettaglio non da poco.
Il poliziotto mostra anche di non credere che una serie di
eventi accaduti ad Alcamo, nel Trapanese, fossero riconducibili solo alla mafia. La sera del 26 aprile 1975 viene
ucciso un consigliere socialista, Antonino Piscitello.
Quella stessa notte vengono trovati quattordici candelotti di dinamite, che se fossero esplosi avrebbero provocato
una strage di innocenti. La mafia elimina i nemici, ma perché dovrebbe far saltare in aria mezzo quartiere in una
terra dove governa indisturbata? Il 28 maggio successivo
ammazzano ad Alcamo un assessore democristiano, Francesco Paolo Guarrasi, e il 22 giugno qualcuno tenta di uccidere due carabinieri a colpi di lupara, mentre transitano
su un’auto di servizio. Una vita un po’ troppo movimentata per una cittadina di cinquantamila abitanti, ordinatamente truffaldina, dove si fanno grandi affari col vino, raramente prodotto con l’uva. Alcamo detiene due record:
il più alto consumo pro capite di zucchero in Italia e il più
alto numero di automobili rispetto alla popolazione.
Il 26 gennaio 1976 due carabinieri, Carmine Apuzzo e
Salvatore Falcetta, vengono massacrati nella casermetta
di Alcamo Marina. A dare l’allarme sono gli uomini di
scorta di Giorgio Almirante che passano da lì tornando
da un comizio del segretario missino. La colpa viene data a un anarchico (piazza Fontana insegna), Giuseppe
Vesco, che si suicida in carcere prima della sentenza e
dopo aver fatto i nomi di tre complici: Vincenzo Ferran132
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telli, Gaetano Sant’Angelo, entrambi riparati all’estero, e
Giuseppe Gulotta, condannato all’ergastolo nel 1990. Solo una ventina di anni dopo un ex brigadiere che si era
occupato della strage, Renato Olino, stanco di mantenere un segreto così pesante, racconta che la pista anarchica era stata stabilita a tavolino dai carabinieri, i quali, a
suon di botte, avevano convinto i colpevoli designati a
confessare responsabilità che non avevano. Ottenuta la
revisione del processo, Gulotta è stato ritenuto estraneo
alla strage, e scarcerato, dalla sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria, emessa il 13 febbraio 2012.
Nel ’76 gli investigatori avevano tentato di tirare dentro,
senza riuscirvi, anche Peppino Impastato, il militante di
Lotta Continua che sarà ucciso due anni dopo dalla mafia. Il quadretto che disegna le responsabilità della sinistra extraparlamentare sembra perfetto e già collaudato.
Solo trentasei anni dopo avremmo appreso che si era
trattato di un depistaggio, ma Peri aveva intuito subito
che la ricostruzione ufficiale non funzionava.
L’uccisione dei due carabinieri aveva finito per gettare il
panico tra la popolazione. Nel suo rapporto il commissario descrive la cittadina di Alcamo come avvolta dalla
paura: «L’allarme in tutti gli strati della popolazione è
enorme, al massimo. I negozi di ferramenta e i fabbri incrementano i loro incassi per la vendita di chiavistelli e la
collocazione di sbarre metalliche per chiudere, la sera,
con sicurezza, dall’interno, porte, portoni e finestre delle
abitazioni private, onde scongiurare temuti assalti notturni nel cuore della notte, durante il sonno». Non sembra la descrizione di un dormiente paesone del Sud, governato dalla mafia che ha sempre saputo chi colpire e
che ha sempre mirato contro i propri nemici.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
Nella città governata dalla cosca capeggiata dalla famiglia Rimi, un po’ tutti si sentono nel mirino e sembra che
le “regole” di un tempo non funzionino più. Del resto, se
nella vicina Salemi un uomo come Corleo è stato rapito,
qualcosa ha turbato gli equilibri di sempre. Nel Trapanese, la geografia del potere mafioso era chiara a tutti: Zizzo governava a Salemi, Buccellato a Castellammare del
Golfo, Marino a Paceco, i fratelli Minore a Trapani. Dalle
loro roccaforti, le famiglie estendevano il controllo sull’intera provincia e non c’era un metro quadro di territorio non “sorvegliato”.
Gli attentati di Alcamo fanno capire all’acuto Peri che
qualcosa si è rotto. Il poliziotto guarda indietro negli anni e capisce che la Sicilia non è rimasta immune da quel
fenomeno che viene chiamato strategia della tensione.
Intuisce che la mafia non è stata a guardare mentre i
gruppi terroristici progettavano un nuovo assetto politico del Paese, anzi ha preso per tempo le misure per non
restare spiazzata davanti all’eventuale capovolgimento
degli equilibri istituzionali. È una buona ragione per allacciare un qualche rapporto con gli intrusi – dopo averlo fatto nel ’70 in occasione del tentato golpe Borghese –
perché serve a ribadire il suo potere sul territorio e a non
farsi sorprendere dai mutamenti.
A Palermo, il 15 maggio 1969 erano stati arrestati sette
membri della Giovane Italia, che da un mese andavano in
giro per la città a piazzare bombe nelle caserme dei carabinieri, nel carcere dell’Ucciardone e nella chiesa Regina
Pacis. Nel capoluogo siciliano si muove agilmente Pierluigi Concutelli; nella Sicilia orientale sono di casa il fondatore di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie e
Vittorio Quintavalle. I neofascisti, insomma, non si fer134
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mano a Reggio Calabria come ha creduto la pubblicistica
del tempo. Anche l’Isola è penetrabile, anzi, qui i referenti mafiosi mostrano una certa “laicità”, interessati come
sono a guadagnarci qualcosa.
A Sant’Anna, nella campagne fra Trapani ed Erice, Peri
aveva trovato una grande quantità di bossoli a terra in un
campo paramilitare dove si esercitavano i neofascisti.
Era un’ulteriore conferma che la mafia, padrona del territorio, conosceva e autorizzava quelle operazioni.
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CAPITOLO II
MEMORIE DEL SOTTOSCALA
Le ipotesi di Peri sulla sciagura del Dc 8 creano un po’ di
scandalo. Tra i passeggeri, lo ricordiamo, c’era il magistrato Ignazio Alcamo e anche per questa ragione il commissario avanza l’ipotesi di un attentato. Se quello di
Montagna Longa era stato classificato come un incidente, da quel momento lo scenario cambia; ma l’investigatore è l’unico a ritenere che ci sia altro e che quell’episodio sia stato l’inizio della saldatura tra potere mafioso e
terrorismo. Se si trattasse di una strage, insomma, sarebbe la più grave dell’era repubblicana: a Ustica, sull’aereo
dell’Itavia abbattuto il 27 giugno 1980, morirono 81 persone; a Montagna Longa, le vittime furono 115.
Peri non crede alle coincidenze e confronta la data dell’uccisione di Scaglione con quella della sciagura aerea:
entrambi gli eventi sono accaduti il 5 maggio, a distanza
di un anno l’uno dall’altro. Qualcuno ha voluto lasciare
una traccia, sospetta il poliziotto, per consentire di collegare i due episodi.
Come si è detto, Alcamo aveva firmato le misure di prevenzione per Francesco Vassallo e per Ninetta Bagarella.
Era un giudice coraggioso, riservato. Non aveva scorta e
per andare al lavoro utilizzava la sua Fiat 1500 nera. Cinque giorni dopo la sciagura avrebbe dovuto essere eletto
al Consiglio superiore della magistratura, che si riunì il
10 maggio. Il suo posto al Csm fu preso da Silvio Coco,
poi diventato senatore democristiano e sottosegretario
alla Giustizia.
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Quel 5 maggio, il giudice Alcamo era a Firenze. Un’auto
lo accompagnò a Fiumicino e riuscì a prendere l’aereo
grazie al ritardo del volo. Si sedette nei posti di coda, la
parte del velivolo che subì meno danni e infatti il suo corpo fu trovato quasi integro. Il riconoscimento lo compì
Carlo Alberto Dalla Chiesa, da poco tornato a Palermo
per dirigere la legione carabinieri.
Due giorni dopo la morte di Alcamo, Mario Francese, il
cronista che nel ’78 sarà ucciso dalla mafia per le sue inchieste, ricorda così il magistrato sul “Giornale di Sicilia”:
«I suoi interventi nulla concedevano al superfluo e al retorico. […] Si distinse nelle sedute della sezione speciale
Carlo Alberto Dalla Chiesa (a sinistra), a destra il pm Domenico Signorino.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
per le misure di prevenzione (presidente Giovanni Pizzillo) della Corte d’appello negli anni seguenti alla strage di
Ciaculli. […] Non fu mai incline al compromesso. Amò la
verità processuale ed ebbe il culto dell’obiettività non disgiunta da umanità. L’ultimo caso clamoroso da lui trattato: la proposta per il soggiorno obbligato del costruttore edile palermitano Francesco Vassallo. Anche in questa
occasione Alcamo dimostrò un senso spiccato di analisi e
una grande dose di coraggio».
Dopo la sua morte, nessuno pensò più di importunare
Vassallo, che non subì mai condanne e di anno in anno incrementava il proprio patrimonio. Il tema degli appalti
tornò tragicamente nell’agenda della magistratura otto
anni dopo con Gaetano Costa, il procuratore della Repubblica di Palermo ucciso il 6 agosto 1980 dopo aver firmato da solo (vista la titubanza dei suoi sostituti) cinquanta ordini di cattura per altrettanti mafiosi.
Il figlio di Ignazio Alcamo, Vittorio, aveva otto anni quando il padre morì. Oggi fa il giudice a Palermo. Da buon
magistrato non ha idee preconcette su quanto accaduto
a Montagna Longa, ma da tecnico riconosce che le indagini lasciarono a desiderare e ritiene che il motivo sia da
attribuire agli scarsi strumenti di cui disponevano gli investigatori del tempo.
Sulla vicenda di Montagna Longa, Peri non si sofferma a
lungo. Quando se ne occupa, il processo è ancora in corso, ma l’intera vicenda cade nel dimenticatoio. Con gli
elementi di cui dispone, Peri parte da alcune considerazioni: il pilota dell’AZ 112 – è la sua tesi – diede precedenza a un volo proveniente da Catania (un aereo dell’Ati era atterrato poco prima della sciagura a Punta Raisi e se ne trova traccia nelle comunicazioni della torre di
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controllo) e per questo ritardò di dieci minuti l’atterraggio. L’inchiesta stabilirà che il Roma-Palermo non diede
la precedenza a un altro volo, ma che semplicemente
l’AZ 112 aveva ritardato di 25 minuti il decollo. Un rapporto di polizia, del resto, è un atto riservato e preliminare all’apertura di un’eventuale inchiesta giudiziaria e non
ha il dono della precisione.
«L’attentatore, in possesso di una carica esplosiva ad orologeria, non voleva di certo la propria morte», si legge nel
rapporto, «ed approssimandosi il momento del contatto
delle due lancette e, quindi, dell’esplosione, non si autodenunziò al personale di bordo per ovviare alla deflagrazione
e i dieci minuti di ritardo dell’atterraggio avrebbero fatto
esplodere la carica a bordo. Ne discende che l’attentatore
non avrebbe voluto anche la sua morte e forse nemmeno la
strage, perché ne sarebbe stato coinvolto; avrebbe voluto
forse il danneggiamento dell’aereo già atterrato, allorquando tutti i passeggeri, lui compreso, fossero già scesi a terra». L’attentato così concepito, si chiede Peri, non sarebbe
bastato a screditare lo Stato alla vigilia delle elezioni?
Poi aggiunge altre considerazioni: alcuni cadaveri si presentavano disintegrati, cosa che non avviene a seguito di
urti violenti; parecchi cittadini di Carini videro l’aereo già
in fiamme; in caso di avarie agli strumenti di bordo il pilota avrebbe avuto dei secondi per segnalarle a terra, invece
l’improvvisa deflagrazione non gli ha dato il tempo di farlo.
La mancata rivendicazione dell’ipotetico attentato la
spiega così: «Nessuna trama eversiva l’avrebbe rivendicato: trattandosi di vittime innocenti non avrebbe conseguito consensi per screditare lo Stato alla vigilia delle
elezioni, anzi, avrebbe conseguito una condanna generale. Sarebbe stato rivendicato se fosse stato distrutto o
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
danneggiato soltanto l’aereo una volta atterrato». La situazione, insomma, era sfuggita di mano: un atto dimostrativo si era trasformato in una strage.
Peri non sembra avere un’idea precisa della dinamica,
piuttosto prova a costruire un’ipotesi, sperando che questa serva ad allargare le indagini. L’unica cosa di cui sembra certo è che le cose non sono andate come l’indagine
le ha descritte.
Il rapporto non ebbe fortuna. Per la prima volta comparve in un’aula di tribunale il 3 ottobre 1977, a Taranto, durante il processo per il rapimento Mariano eseguito da
una composita banda di fascisti, mafiosi e delinquenti comuni, che vedeva tra gli imputati il reo confesso Luigi
Martinesi, figlio dell’ex federale di Brindisi, e l’assassino
di Occorsio, Pierluigi Concutelli, il primo nome dei trentuno denunciati da Peri nel suo rapporto. Ma i giudici
non lo presero in considerazione, neanche quando Martinesi spiegò che i soldi del sequestro Mariano dovevano
servire a finanziare un movimento rivoluzionario neofascista e che in una riunione a Roma, nei primi mesi del
’75, erano stati decisi quattro rapimenti, avvalendosi della manovalanza mafiosa.
«Troppo grossa è questa bomba, capisco la riservatezza di
tutti a pronunciarsi», disse Peri a “L’Europeo” nell’ottobre
del ’77. E aggiunse: «Ho gettato le mie reti e come ogni
buon pescatore ho raccolto il pesce. E non si tratta di roba
congelata». Chi lo frequentava in quel periodo, ricorda che
era furibondo per la pubblicazione di notizie sul suo rapporto, finite oltre che su “L’Europeo” anche sul quotidiano
“Trapani Sera”, che ne pubblicò stralci l’8 ottobre 1977.
Il documento continuò a restare nei cassetti delle procure, ma dopo che i giornali avevano diffuso la notizia, arri140
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varono anche gli ingenerosi commenti della magistratura: a Taranto il pm del processo Mariano definisce “farneticanti” le ipotesi di Peri; il procuratore di Marsala, Francesco Coci, che gli aveva affidato l’approfondimento delle indagini sul sequestro Corleo, dice di essere rimasto
sorpreso da certe aggiunte non concordate preventivamente tra il suo ufficio e Peri; il procuratore di Trapani
Giuseppe Lumia definisce “generiche” le tesi di Peri; infine, il sostituto della procura di Palermo, Giusto Sciacchitano, dopo un incontro a Trapani con il poliziotto, lo
accusa di dilettantismo.
La scarsa fortuna del rapporto si trasformò in un problema per la carriera del poliziotto. Peri fu richiamato a Trapani il 12 aprile 1977 e vi rimase fino al 29 luglio 1978, il
giorno in cui, rientrato dalle ferie, dovette lasciare la sede. Così aveva deciso il ministero dopo un’ispezione condotta in estate, mentre Peri era in ferie. Sarà spedito in
un commissariato della provincia di Messina e poi a Palermo. Proverà a ribellarsi, trasmettendo al questore e al
prefetto di Trapani un’istanza nella quale chiede di essere ascoltato dal capo della polizia. Non accade niente.
L’8 febbraio 1979, il questore Vanni Aiello scrive un rapporto informativo su Peri ai colleghi di Palermo, e si
esprime così: «Peri è dotato di larga esperienza, di ottima preparazione giuridica e di capacità tecnico-professionali; ha evidenziato particolare zelo specie nei servizi
di polizia giudiziaria, e notevole attaccamento al lavoro.
Tuttavia, per il suo carattere introverso e la sua accentuata diffidenza, i suoi rapporti con gli ambienti dell’ufficio, in specie con colleghi e superiori, non sono stati dei
migliori, tanto da creare attriti e tensioni. Proprio in relazione di tali riflessi negativi, il dottor Peri è stato ogget141
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
to, nell’aprile del decorso anno, di un’inchiesta condotta
da un ispettore ministeriale nell’estate successiva. Si ritiene comunque, nel complesso, per quanto di competenza, che al dottor Peri possa essere attribuita la qualifica di ottimo». Un bel tappeto rosso per chi se ne va.
Se a trasferimento avvenuto Aiello si prodiga in complimenti per Peri, il 20 aprile 1978, quando il ministero apre
la pratica ispettiva, il vicequestore vicario di Trapani,
quel Giuseppe Varchi che troveremo negli elenchi della
P2, scrive all’ispettore generale capo della polizia Francesco Saverio Romanelli, sollecitato da quest’ultimo,
spiegandogli di essere sempre stato gentile con Peri,
«male ricambiato, forse a causa della sua bocciatura agli
esami per commissario capo. Ha nutrito una ostilità velata da atteggiamenti di insofferenza. Ha mostrato la tendenza a disattendere i superiori e ad emarginarsi dai colleghi. Ad Alcamo, per timore di attentati, si pose in un
pregiudizievole isolamento, oltre a girare armato con
bombe a mano sull’auto… È stato da me diffidato a presentare al questore copia dei rapporti giudiziari da lui redatti, ma a quanto mi risulta non vi ha mai ottemperato».
Per finire, il prefetto Adolfo Pacillo gli assesta il colpo di
grazia, scrivendo il 5 gennaio 1978 al ministero e spiegando che Peri è poco più che un paranoico. C’è da fare
attenzione alla data: la lettera del prefetto precede di circa quattro mesi l’ispezione ministeriale e non è escluso
che ne sia la causa. Pacillo dice che «si rende indilazionabile il suo allontanamento da questa provincia», pur
essendo «a onor del vero, un funzionario di esperienza e
professionalmente capace, per cui potrebbe trovare proficuo impiego in altro ambiente». E aggiunge che Peri
«ha spacciato un banale fatto meccanico per un mostruo142
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so tentativo di sabotaggio, facendo una denuncia per tentato omicidio a carico della questura: di ciò si è avuta notizia dal procuratore di Trapani».
Di quale episodio parla il prefetto? A Trapani qualcuno
allentò i bulloni di una ruota dell’auto di servizio usata da
Peri. Era il 26 settembre 1977. Il giorno dopo il poliziotto scrive un promemoria sull’episodio e il 29 presenta alle procure di Marsala e di Trapani una formale denuncia,
rimasta nel cassetto:
Verso le 9.30 sono partito da Trapani con la solita autovettura della
questura, la Fiat 128 targata AG 76406, guidata dall’autista guardia
di P.S. Carofilo Domenico, diretto alla procura di Marsala, ove alle ore
10 dovevo partecipare ad una riunione presieduta dal sig. Procuratore della Repubblica dr. Coci, con l’intervento del sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, dr. Sciacchitano, del vice questore
della Criminalpol dr. Contrada1 e del dr. Peri Aldo della Mobile di Trapani. Pervenuti nella via Marsala di Trapani, ci siamo fermati a causa di un continuo rumore proveniente dal motore, lato destro, ed abbiamo controllato la staticità della ruota anteriore destra e, trovatala normale, abbiamo proseguito il viaggio a velocità ridotta, ritenendo trattarsi di guasto alla ventola del radiatore. Terminata la riunione verso le 13.30, il predetto autista, prima di riprendere il viaggio di
ritorno a Trapani, mi riferiva che un meccanico di Marsala aveva
ispezionato detta autovettura ed aveva trovato due bulloni della ruota anteriore sinistra molto svitati e gli altri due allentati e che, nella
circostanza, gli aveva detto: “come mai, correndo, non vi siete ammazzati?”. L’autista aveva risposto che aveva mantenuto una velocità di marcia ridotta. Il giorno successivo, 27 corrente, ho chiesto al capo garage della questura, maresciallo Moretti, chiarimenti, ed egli,
1. Bruno Contrada, che diventerà il numero tre del Sisde, nel 2007 sarà condannato a dieci anni, con
sentenza definitiva della Cassazione, per associazione esterna alla mafia.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
presenti diversi meccanici, mi ha riferito che alla autovettura in questione – che fino a venerdì scorso, 23 corrente, era normale avendola
io usata per Marsala – non era stata cambiata alcuna ruota perché
forata, né per altri motivi. Essendo egli capo garage, ciò non gli risultava da alcuna relazione, neppure orale. Pertanto non sapeva dare alcuna spiegazione all’allentamento dei bulloni della ruota anteriore sinistra e precisava che i bulloni, da sé, non possono allentarsi essendo la loro avvitatura in senso contrario alla direzione di marcia del veicolo. Ieri, accompagnato dalla guardia autista Carofilo Domenico, mi
sono presentato, con la stessa autovettura Fiat 128, al meccanico di
Marsala Ampola Vito, con officina in via Orazio 4, nelle adiacenze del
tribunale, per avere chiarimenti circa il grado di svitatura dei bulloni
della ruota anteriore sinistra da lui stesso constatato e poter, quindi,
formulare un giudizio sull’idoneità dello stratagemma escogitato per
commettere un reato, risultando esclusa l’ipotesi della dimenticanza
dell’avvitatura. Egli ha dimostrato, svitandoli fino al punto constatato, che due dei quattro bulloni della ruota in questione erano completamente svitati e che bastava una minima torsione per toglierli, mentre gli altri due erano molto svitati. Il suddetto meccanico, avuta conferma che detta ruota, da venerdì 23 corrente non era stata cambiata
per foratura e che, quindi, l’allentamento dei bulloni non era dovuto a
dimenticanza di avvitamento, ha tenuto a precisare che trattavasi di
“atto di sabotaggio”, poiché i bulloni, una volta avvitati bene, da soli
non possono svitarsi. Ribadiva, nella circostanza, il grave pericolo che
ha costituito durante il viaggio tale atto di sabotaggio. Infatti, lo svitamento dei bulloni della ruota anteriore sinistra avrebbe determinato, in caso di marcia veloce, un improvviso e pericoloso sbandamento
con invasione della corsia opposta e, data l’intensità del traffico sulla statale 115, un sicuro scontro frontale con altri automezzi, meno
probabile in caso di svitatura dei bulloni di una delle due ruote posteriori o di quella anteriore destra. Non si è verificato l’evento criminoso
voluto, perché il rumore della ruota allentata ha messo in allarme, du144
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rante la marcia, i componenti l’equipaggio, che hanno continuato il
viaggio a velocità ridotta, ritenendo trattarsi di lieve guasto alla ventola del radiatore. Se non fosse stato avvertito alcun rumore, procedendo a velocità sostenuta si sarebbe verificato certamente l’evento.
Nel promemoria stilato il 27 settembre, in coda agli appunti che riguardano i bulloni della ruota, Peri aggiunge:
«Della riunione suddetta [quella alla procura di Marsala,
nda] avevo informato, sabato decorso 24, il questore
Aiello e il dr. Peri Aldo. E tramite questi ne sarà venuto
a conoscenza il vicequestore dr. Varchi».
Il promemoria continua così:
A questo punto faccio presente quanto segue in relazione ad eventuali fatti che possano, nel futuro, mettere in pericolo la mia incolumità
personale. Tre o quattro giorni dopo l’omicidio del colonnello Russo,
avvenuto il 20 agosto ’77, nell’atrio della questura ho visto il giornalista de “L’Ora” Tanino Rizzuto che conversava con dr. Peri Aldo e col
maresciallo Fodale. Passando accanto e scambiata qualche parola
convenevole li ho salutati e mi sono avviato alla mia autovettura. Il
pomeriggio del giorno dopo sul giornale “L’Ora” ho letto, mentre mi
trovavo nell’ufficio del capo gabinetto facente funzioni dr. Bonura, un
articolo a firma di Tanino Rizzuto che collegava, a caratteri cubitali,
l’omicidio di Russo col sequestro Corleo, “le cui indagini sono condotte dal procuratore della Repubblica di Marsala, che si avvale di un
funzionario di P.S. della questura di Trapani da lui scelto”. Contemporaneamente mi ha chiamato il questore Aiello, il quale, nel comunicarmi di aver letto anch’egli detto articolo, mi confermava che
avrebbe telefonato al questore di Palermo per far richiamare il dr.
Contrada, che a suo giudizio, aveva fornito a “L’Ora” la suddetta notizia, avendo egli partecipato, alcuni mesi prima, a Marsala, ad una
riunione di indagini per sequestri di persona. Ho obiettato che la no145
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
tizia era partita da Trapani e non da Palermo e che il dr. Contrada non
poteva averla data, poiché “L’Ora” pubblica integralmente l’articolo
inviato dal corrispondente locale. Ho aggiunto che data la efferatezza recente dell’omicidio del colonnello Russo e del suo amico Costa,
non era opportuno pubblicare il particolare nei termini di cui sopra e
che si poteva fare aggiungere anche il nome e cognome del funzionario di P.S. se l’intenzione era quella di farlo uccidere. Uscito dalla
stanza del questore ho incontrato, nell’ufficio del capo gabinetto, il
dr. Peri Aldo, il quale, spontaneamente, comunicandomi la notizia de
“L’Ora” mi ha detto: “Io ieri ho parlato con Tanino Rizzuto, però non
gli ho detto il fatto del funzionario. Rizzuto ha anche parlato con Varchi, ma non so se la notizia l’ha fornita lui”. Evidentemente il dr. Peri Aldo non poteva negare l’incontro con Rizzuto del giorno prima,
avendolo notato io stesso nel cortile della questura conversare con il
giornalista Rizzuto, come anzidetto. Il giorno seguente mi presento
all’ufficio del dr. Varchi ed accenno a quanto pubblicato da “L’Ora”,
senza darne carico ad alcuno, né elevando sospetti. Il dr. Varchi spontaneamente mi ha detto: “Io l’altro ieri ero in permesso, ieri di riposo,
il giornalista Rizzuto non l’ho visto”, cadendo in contraddizione con
quanto affermato il giorno prima dal dr. Peri Aldo. Non ho fatto notare la contraddizione, e come se nulla fosse accaduto mi sono congedato. Alcuni giorni dopo, e precisamente il 13 corrente, il questore
Aiello mi ha convocato nel suo ufficio e, tra l’altro, mi ha comunicato che il capo della Polizia Parlato2, letto l’articolo in questione su
“L’Ora”, era intervenuto col questore di Palermo, il quale aveva ulteriormente richiamato il dr. Contrada che, a sua discolpa, attribuiva la
notizia data a “L’Ora” forse a qualche suo incauto sottufficiale. Ribadivo ancora che la notizia era stata data da Trapani e riferivo che il
dr. Varchi, da me richiesto di notizie in merito, mi aveva detto di non
2. Si tratta del prefetto Giuseppe Parlato, originario di Partanna, nel Trapanese, nominato alla guida della Polizia nel novembre precedente e sollevato dall’incarico nel gennaio del 1979, dopo l’evasione dei neofascisti Freda e Ventura.
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aver parlato col giornalista Rizzuto in quei giorni perché assente dall’ufficio, contraddicendo quanto affermato, invece, dal dr. Peri Aldo.
Il questore Aiello ribadiva che il dr. Peri Aldo aveva detto anche a lui
che il Varchi aveva parlato con Rizzuto e lamentava, infine, che nell’amministrazione della P.S. “leggerezze del genere non sono ammesse”. Alla mia osservazione che le mendaci affermazioni del dr. Varchi
mi inducevano a ritenere che una notizia del genere di quella data al
giornalista avrebbe potuto indirizzare anche sulla mia persona i killer del colonnello Russo, ammesso che il movente di detto omicidio
fosse l’insistenza nelle indagini sul sequestro Corleo da parte del
suddetto ufficiale – come affermato a caratteri cubitali nell’articolo
de “L’Ora” – il questore Aiello ribadiva che “leggerezze del genere non
sono ammesse”. Ribadivo, allora, che per le mendaci affermazioni
del dr. Varchi, scartavo l’ipotesi che la notizia fosse stata data per
“semplice leggerezza” anche da qualche collega – in tal caso perdonabile – e che incominciavo a credere sulla cattiveria dei propositi di
chi aveva dato la notizia su riportata. Non so se l’allentamento dei
bulloni dell’autovettura, bulloni che da soli non si possono svitare,
sia collegata a quanto sopra riferito, tenuto presente, anche in relazione alla sfera politica che investe il mio rapporto del 22, si fa presente che lo svitamento della ruota anteriore sinistra avrebbe determinato, in caso di marcia veloce, un pericoloso ed improvviso sbandamento, con invasione della corsia di marcia opposta e, data l’intensità del traffico sulla statale 115, un sicuro scontro frontale con
altri automezzi; non così in caso di svitamento dei bulloni di una delle due ruote posteriori o di quella anteriore destra.
Peri, in effetti, lavorava a Marsala alle indagini sul sequestro Corleo, e aveva sostituito in quel ruolo il colonnello
dei carabinieri Giuseppe Russo, l’ufficiale che nell’inchiesta di Montagna Longa aveva avuto una parte: era stata
consegnata proprio a lui, per portarla nei laboratori di
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
Roma, la scatola nera del Dc 8 recuperata il giorno dopo
la sciagura dal capitano dei carabinieri Savino, quella che
poi risultò inservibile a causa del nastro spezzato. Stupisce che Bruno Contrada, per quanto Peri non gli attribuisca alcuna colpa riguardo alla fuga di notizie, sia nel ’77
indicato come probabile responsabile di quella soffiata.
Evidentemente, tra i suoi colleghi non godeva di grande
reputazione già a quel tempo.
A metà del ’78, Peri fu trasferito alla questura di Palermo. La notte del primo gennaio 1982 morì. Aveva 54 anni, metà dei quali trascorsi in polizia. Lasciava la moglie,
morta nel settembre 2009, e due figli. Quella notte, dopo
aver brindato con i colleghi della questura e dopo la cena in famiglia, a Palermo, Peri aveva vomitato. Nessuno
pensò a un problema cardiaco e tutti ritennero che si
trattasse di indigestione. Invece, dissero i medici, era
stato un infarto. Il pomeriggio del 31 dicembre, fino a sera, era stato al lavoro. In seguito gli fu riconosciuta la
causa di servizio: lo stress aveva contribuito a stroncarlo.
Sul suo corpo non fu eseguita alcuna autopsia.
Negli appunti del poliziotto ricorre il nome di Aldo Peri.
Tra i due non c’era alcun rapporto di parentela e nessuna passione comune. Aldo Peri aveva una visione non
proprio ortodossa del suo mestiere e nel 1978 finì in galera con l’accusa di sfruttamento della prostituzione: percepiva “tangenti” da alcune prostitute. Fu sostituito da
Ninni Cassarà, il poliziotto che il 6 agosto 1985 sarà massacrato a Palermo da un commando mafioso.
Giuseppe Varchi, anche lui alla questura di Trapani, non
amava Giuseppe Peri, preferiva altri giri, come la Loggia
P2, “hobby” che coltivava insieme al procuratore capo di
Marsala Salvatore Cassata, che non si può annoverare tra
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i fan del vicequestore. Il piduista Cassata – morto il 18 agosto 1989 in quello che a prima vista era sembrato un incidente stradale, ma che qualche anno dopo il pentito Rosario Spatola rivelò essere un attentato – fu trasferito a Napoli dopo la censura del Csm scaturita dall’iscrizione alla
P2. Cassata, che aveva ignorato il rapporto Peri ma aveva
assegnato al suo autore le indagini sul rapimento Corleo,
mise una buona parola per trasferire altrove il poliziotto.
Di questo magistrato gli appassionati di musica pop ricorderanno il brano di una canzone di Roberto Vecchioni, che
aveva avuto il privilegio di essere arrestato proprio da lui,
con l’accusa di aver offerto uno spinello a un minorenne. Il
cantautore era finito in cella e il magistrato che lo aveva
mandato in galera, subito dopo era andato in ferie: “Signor
giudice,/le stelle sono chiare/per chi le può vedere,/magari stando al mare./Signor giudice,/chissà che sole:/si copra,
per favore, che le può far male”. Va detto, per la cronaca,
che Vecchioni fu assolto con formula piena.
I mafiologi sapranno, invece, che tra i parenti di Cassata
c’è Francesco Bonventre, suo cognato, arrestato nel
2002 nell’operazione “Peronospera” e tornato libero due
anni dopo tra la sua gente, a Marsala, che organizzò una
festa per la scarcerazione.
In un altro promemoria, datato 16 aprile 1977, Peri riporta una conversazione avuta con il questore Aiello il giorno precedente verso le 18, alla presenza di un funzionario dell’ufficio, il dottor Chiappisi. Peri esibisce al suo superiore una lettera del procuratore di Marsala, Coci, che
lo invita ad andare a Taranto sempre per le indagini che
riguardano i sequestri di persona. Nella città pugliese, il
poliziotto incontrerà il giudice istruttore Morelli che si
occupa del sequestro Mariano. Su quattro pagine di car149
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
ta protocollo, recanti la sua firma e finora inediti, il poliziotto riporta così quella conversazione che spiega la
qualità dei rapporti che intercorrevano con Aiello.
– Aiello: È una lettera anomala, anomala come è anomala la comunicazione con teleradio da lei fatta da Alcamo
sulla questione Concutelli [il riferimento è alle indagini
sui rapimenti, nda], ipotesi platonica.
– Peri: Farneticante l’ha definita lei a suo tempo. L’ipotesi non è né platonica né farneticante perché ha un riscontro obiettivo. Lei mi ha contestato che la comunicazione di tale ipotesi l’avrei dovuta fare da Alcamo con “cifrato”, ma ritenevo questo una contraddizione e non cosa necessaria, poiché alcuni giorni prima avevo letto sul
“Giornale di Sicilia” che personale del Nucleo antiterrorismo di Catania e della questura di Trapani (dr. Giuffrida
e Bonura) avevano ricercato il Concutelli Pier Luigi nel
territorio di Salemi e Castelvetrano, nelle stesse contrade ove era stato ricercato il sequestrato Corleo Luigi.
– Aiello: Che indagini deve fare a Taranto.
– Peri: Debbo leggere dei processi presso quel giudice
istruttore, in relazione alla ipotesi Concutelli-Corleo.
– Aiello: A Lecce sono stati eseguiti arresti, vi è qualcuno della provincia di Trapani?
– Peri: Non leggete i giornali? Alcuni giorni fa ho letto sul
“Giornale di Sicilia” che a Taranto, per il sequestro del
banchiere Mariano, sono state arrestate diverse persone,
elencate nel giornale stesso.
– Aiello: Vi è qualcuno della nostra provincia?
– Peri: Sì, lo so per averlo appreso dal “Giornale di Sicilia”. Vi è Miceli Salvatore da Salemi.
– Aiello: Chi pagherà le spese per il suo viaggio? Noi o la
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procura di Marsala? Bisogna chiedere l’autorizzazione al
Ministero dell’Interno. Qual è la prassi?
– Chiappisi: Non so. Sono indagini, andare a fare una perquisizione, un arresto.
– Peri: E anche sono indagini di polizia giudiziaria andare a Taranto o in altre città a prendere visione, leggendo,
di altri fatti delittuosi connessi o meno con altri delitti verificatesi in questa provincia. In occasione del sequestro
Caruso andai a Milano, a richiesta del Giudice istruttore
del tribunale di Palermo, e le spese mi furono rimborsate dal Ministero dell’Interno.
– Aiello: Chieda l’autorizzazione al ministero. Però allora
(novembre ’76) non informai il ministero, né l’antiterrorismo di Roma della sua ipotesi, perché la ritenevo platonica. Ed anche perché è in corso una proposta di ricompense [di rimborsi, nda] fatta da Immordino e segnalando la
sua ipotesi si cadeva in contraddizione. E se la faccio ora
la segnalazione al ministero per chiedere l’autorizzazione
per la sua partenza per Taranto, il ministero dirà: sono
quelli o questi i responsabili del sequestro Corleo?
– Peri: Sono fatti suoi. Io faccio il mio dovere.
– Chiappisi: E che dirà il dottor Santillo dell’antiterrorismo? Il vice questore dottor Varchi potrà concordare con
il dottor De Rosa del ministero una maniera…
– Aiello: L’autorizzazione deve chiederla il prefetto. Io
potrei dire, se richiesto, che lei parte per indagini richieste dalla procura di Marsala ed essendo le indagini coperte dal segreto d’ufficio, io non so il motivo per cui lei va
a Taranto.
– Peri: Io debbo andare a Taranto. Non mi interessa la
mancata comunicazione dell’ipotesi Concutelli al ministero, il quale potrebbe anche conoscere, in seguito, a
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
mezzo stampa, la natura delle indagini che saranno da
me svolte a Taranto. Il rimborso delle spese lo farà il Ministero dell’Interno o quello di Grazia e Giustizia.
– Aiello: Quanti giorni mancherà? Parte di lunedì, avrà
tutta la settimana a disposizione.
– Chiappisi: Parte il 26 corrente.
– Peri: (Non capendo tale differimento) No. La settimana entrante, il 19 o il 20 corrente, non prima, perché il 18
ho un impegno per un sopralluogo per un omicidio. Mancherò tre, quattro giorni.
– Aiello: Il ministero dando l’autorizzazione non fissa il
giorno. Può partire quando vuole. Mi lasci la lettera.
Ma chi era Giuseppe Peri? «Un uomo solo», dice il giornalista Aldo Virzì che lo conobbe e lo frequentò. «Ma la
sua era una solitudine speciale, consapevole, direi una
scelta. Non mi parlò mai male di nessun collega, di nessun magistrato. Era di poche parole, aveva grande intuito e rara intelligenza. Lavorava nelle stanze umide della
questura che si trovava in un vecchio convento. Fumava
senza sosta e considerando che le sue ore di veglia erano
tante, perché dormiva davvero poco, ho calcolato che
consumava da quattro a cinque pacchetti al giorno di
Esportazioni senza filtro.
«Per quanto riguarda il rapporto, ero certo di non poter
contare sulla sua collaborazione», ricorda Virzì, «e così
decisi di parlarne con i suoi colleghi Aiello e Varchi. Ma
ebbi la chiara sensazione che non fossero interessati al
contenuto delle sue indagini e fu in quel momento che
cominciai a capire quanto poco lo amassero in questura.
Non era solo una questione caratteriale. È vero, Peri non
faceva nulla per farsi voler bene: aveva le sue durezze,
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non rideva mai, tutt’al più accennava a un movimento
delle labbra, se non erano occupate da una sigaretta. Ma
il dato caratteriale non spiega il suo isolamento né il trasferimento, che non fu certo un premio alla carriera».
Il 5 ottobre 1977 Virzì pubblicò su “L’Ora” un articolo: “La
‘bomba’ del commissario, dal processo di Taranto rimbalzano molti misteri siciliani”. Nell’incipit scrive: «Perplessità, imbarazzo e sgomento si colgono nelle parole del
questore di Trapani Aiello, quando con le copie dei giornali nazionali che ne parlano, chiediamo conferma di un
rapporto della questura di Trapani inviato a quattro procure [in verità sono otto, nda] e nelle quali si ipotizza che
sarebbe stata un’unica organizzazione mista, tra delinquenza mafiosa ed elementi del fascismo nero nazionale,
a progettare e realizzare quattro dei più clamorosi sequestri di persona».
Nel corso del pezzo, Virzì scrive: «Il questore ci tiene subito a precisare che il rapporto non è dell’ufficio. […] Prima
di riceverci si è consultato per mezzora con tutto il suo
stato maggiore. […] Le sue dichiarazioni, si capisce, sono
state concordate. Si intuisce che non si dà molto credito al
rapporto. Inutile chiedere precisazioni: “Si rivolga al diretto interessato”, aggiunge, “ognuno di noi risponde dei suoi
atti”, facendo capire che Peri non la passerà liscia».
Aurelio Bruno, decano dei cronisti di giudiziaria di Palermo, che oggi ha novant’anni, ricorda così Peri: «Dopo il
suo trasferimento andai a trovarlo in questura. Gli avevano dato, ma solo sulla carta, l’incarico di dirigere la seconda divisione della polizia giudiziaria. Era in una stanza buia, un po’ umida. Ebbi l’impressione che l’avessero
isolato, anche fisicamente, relegato lì, in un angolo del
palazzo, dietro una vecchia scrivania».
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
Il più grande dei due figli di Peri, Benigno, che abbiamo
incontrato il 13 novembre 2009 a Trapani, dove vive, ricorda che il padre non parlava mai di lavoro: «A casa non
mostrava preoccupazioni o timori. Non so se lo faceva
con mia madre. Non l’ho mai sentito lamentarsi del suo
trasferimento a Palermo, dove era giunto dopo un precedente trasferimento in un commissariato di provincia.
Quando l’infarto lo uccise, il medico ci disse che forse si
sarebbe potuto salvare se avessimo capito che il suo non
era un semplice mal di stomaco. Ma quel malessere sembrava giustificabile, dopo il brindisi con i colleghi della
questura e dopo la cena di Capodanno. Come avremmo
potuto intuire che la situazione era grave? Non c’erano
medici in famiglia».
Roberto, il figlio minore di Peri, che nel ’76 aveva nove
anni, ricorda il ticchettio della Lettera 22 nello studio del
padre, che dopo cena e fino a notte si attardava per scrivere il suo rapporto. Quando divenne un po’ più grande
apprese che il papà poliziotto usava le ferie per continuare in santa pace il suo lavoro, per fare riscontri, recarsi
sui luoghi, incontrare persone. «Non so che compiti gli
abbiano assegnato ufficialmente quando lo trasferirono a
Palermo», dice Roberto Peri, «ma so che si occupava di
gestire l’ordine pubblico allo stadio della Favorita durante le partite di calcio. Certo, tenere calma la curva non mi
pare che avesse nulla a che fare con il suo lavoro precedente. Leggendo oggi quel rapporto e vedendo come sono andate le cose in Italia, sento un moto di orgoglio per
mio padre che ebbe il torto di avere ragione troppo presto, quando il suo metodo d’indagine e le sue conclusioni erano considerati eresie».
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CAPITOLO III
I SOSPETTI DI UN CRONISTA PERBENE
Qualche anno prima che Peri mettesse gli occhi sugli strani rapporti tra mafia ed eversione nera, il poco più che
ventenne giornalista Giovanni Spampinato, amico di Angela Fais, scoprì la presenza nel Ragusano di personaggi
come l’allora latitante Stefano Delle Chiaie e Vittorio Quintavalle, che aveva fatto parte della X Mas di Junio Valerio
Borghese e che fece perdere le sue tracce dopo essere stato sentito sul delitto del possidente Angelo Tumino. Prima
di essere ucciso, Spampinato aveva scritto che in Sicilia «si
preparava qualcosa di grosso». Campria, condannato per
l’omicidio del cronista, disse al maggiore della Guardia di
finanza Carlo Calvano che una persona insospettabile gli
aveva chiesto di corrompere dei finanzieri e di portare a
Palermo, dietro compenso, una valigia di cui non conosceva il contenuto. Calvano riferirà ai magistrati il contenuto
di quel colloquio, spiegando che l’operazione di cui gli aveva parlato Campria consisteva nel facilitare lo sbarco di
una nave proveniente dalla Jugoslavia con un quantitativo
di sigarette del valore di duecento milioni di lire, dieci dei
quali sarebbero andati a Campria. Quanto alla valigetta,
l’omicida di Spampinato sospettava che contenesse droga.
Sigarette e droga, soprattutto in quegli anni, spesso si rivelarono una copertura per il trasporto di armi.
Quella del Ragusano è sempre stata un’area governata da
giunte di sinistra, almeno fino a qualche anno fa, quando
roccaforti come Vittoria e Comiso cominciarono a cadere. Lì la destra ha sempre provato a infiltrarsi. Quando
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
nell’Italia degli anni Settanta si realizzavano false tessere
del Pci a uso dei terroristi neri, Ragusa conosceva già
quella tecnica: nel ’44, infatti, il fascista Renzo Renzi diventò segretario della Federazione comunista della città.
E sempre a Ragusa, in quegli anni, Salvatore Cilia, che
sarebbe diventato deputato regionale del Msi per due legislature e vicesegretario della Cisnal, fondò quella strana e trasversale associazione chiamata “Non partiamo”,
diventata il titolo di un libro dello stesso Cilia. Vi aderivano potenziali reclute di tutte le estrazioni, unite da un interessato e improvviso sentimento anti-militarista.
Di Giovanni Spampinato3 sono state trovate due lettere
del 1972 indirizzate ad Angela Fais. Portano le date del
28 febbraio e dell’11 marzo.
Ragusa, 28-2-’72
Cara Angela,
ti do altri elementi su Quintavalle, elementi che ho raccolto stamattina. Sono convinto che vale la pena andare a fondo nella faccenda, perché il nostro uomo è pieno di contraddizioni, e se il suo passato è burrascoso, il suo presente è, quanto meno, poco limpido. Quello che ho
scritto dall’inizio del caso Tumino (quando di Q. non si parlava) nella
settimana passata, anche se frutto di illazioni, si è rivelato puntualmente esatto. Avevo scritto che dietro il caso Tumino c’era qualcosa di
molto grosso; e poi, parlando di Delle Chiaie e Quintavalle, ho messo in
relazione la loro presenza con il delitto Tumino. Anche qui è venuta la
conferma: Quintavalle è stato interrogato, e la sua abitazione ragusana perquisita. Ora lui si mostra preoccupato, e la moglie, poco prima
che egli rientrasse a Roma mercoledì (è andato in macchina con uno
scagnozzo di Cilia) gli ha telefonato che «c’erano altri guai sul giorna3. Cfr. Alberto Spampinato, C’erano bei cani ma molto seri. Storia di mio fratello Giovanni ucciso per aver
scritto troppo, Ponte alle Grazie, Milano, 2009.
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le». Ma andiamo con ordine. Si chiama Vittorio, a Roma abita in viale
Carlo Felice, 6 (tel. 772807) e ha uno studio di pittore a Porta San Paolo. Qui è venuto poco prima di Natale, con la moglie e con il figlio Giulio Cesare di 16 anni (quello del tentativo di infiltrazione tra gli anarchici). È un tipo molto alto, 1 metro e 90. Da Natale si è allontanato solo per brevi periodi per fare delle scappate a Roma. La moglie e il figlio
sono rientrati ai primi di gennaio nella capitale. Dell’altro figlio di cui
è stata segnalata la presenza (un giovane di circa 25 anni coi baffi)
non ha mai fatto cenno alla famiglia che ha frequentato assiduamente (persone conosciute casualmente e assolutamente insospettabili).
Invece telefonavano, lui e la moglie, giornalmente ad un altro figlio,
Gaetano di 21 anni, studente universitario. Ora questo Gaetano sarebbe stato operato di emorroidi, e questo giustificherebbe una sua assenza più lunga del previsto (una settimana). Dice anche di avere due figlie femmine. Sostiene di essere laureato in pedagogia e di avere insegnato disegno e pittura a Roma, Firenze e Tokio (sic!). Dice di essere
maestro di karatè. Dice di vivere della vendita dei suoi quadri e ha mostrato assegni di mezzo milione. Ma a volte è costretto a ricorrere a prestiti. Ho visto tre suoi quadri, paesaggi (tra l’altro una chiesa dove si
sono svolti i funerali di un suo fratello, e lo studio di Porta San Paolo).
Non sono opere d’arte, lo stile è un po’ da cartoline tipo Ottocento, ma
mostrano una buona conoscenza della tecnica della prospettiva. Non fa
mistero di aver fatto parte della Decima Mas, anzi se ne vanta. Non ha
mai fatto il nome di Borghese. Dice di essere stato in carcere (controllare se è stato condannato nel ’46 con Borghese, e per quali reati). Dice di essere nato a Torino, da famiglia vittoriese. Conosce Cilia da vecchia data e l’anno scorso gli ha fatto dono per la campagna elettorale
di autoadesivi fluorescenti con la foto di Cilia. Che hanno appiccicato
su tutte le insegne stradali. Diceva di essere venuto a Ragusa per costruire un albergo di 250 stanze, con piscina su un terreno dell’avv.
Schembari, agrario e fascista. Ma nella zona non si possono realizzare
insediamenti turistici, e al comune nessuno sa niente del progetto. Di157
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
ce di avere litigato col figlio di questo Schembari, braccio destro di Cilia, tipo equivoco, perché quest’ultimo temeva che gli fregasse la moglie due mesi dopo il matrimonio, e questa vive a Gela. Dice che farà
da padrino al nascituro figlio di Cilia (ma Cilia è separato dalla moglie). Dice anche che rimane a Ragusa perché gli stanno preparando
una mostra di suoi quadri. Per la sera del delitto ha un alibi che regge:
è stato in compagnia di persone insospettabili dal primo pomeriggio
ininterrottamente fino alle 23, mentre il delitto sarebbe avvenuto tra le
19 e le 21. L’articolo su “L’Ora” di lunedì 6 lo ha mandato in bestia e si
è mostrato, negli ultimi giorni, preoccupato. Dice che gira molto e che
è un giorno qui e l’indomani in America. È sbruffone ma su certe cose
si controlla. Non ha fatto cenno agli articoli, come non ha fatto il nome
di Borghese. Questo quanto so fino a questo momento. Sto raccogliendo altre informazioni a Scicli e Vittoria. Penso che questo tizio sia implicato col traffico illecito di oggetti d’arte e pezzi archeologici, ma che
abbia una funzione politica precisa nelle file neofasciste.
Ciao, ciao, Giovanni Spampinato
Ragusa, 11 marzo 1972
Cara Angela,
eccoci a noi. Ti dico subito di cosa ho bisogno e così poi possiamo
passare ad altro. Compagni di Siracusa mi hanno fatto notare che il
Quintavalle che è qui a Ragusa era forse implicato nel crack finanziario di Valerio Borghese. Ora penso che per voi a Roma non dovrebbe essere difficile avere sue notizie. Lui ha affermato che nella capitale faceva il professore di disegno o pittura in un istituto artistico (è
riuscito a “’mpicari” qualche quadro anche qui). Ha un paio di figli,
o forse più. Mi hanno detto di svolgere indagini qui e a Vittoria, perché forse è nativo delle nostre parti (lui afferma di essere marchigiano, forse di Ancona). Se so altre notizie (dati anagrafici, ecc.) ti telefono senza dare troppo nell’orecchio. Qui a Ragusa e Siracusa, i fascisti sono irritati e preoccupati. Cilia ha fatto cenno a una querela
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che suoi camerati avrebbero intenzione di fare perché ho detto che
sono vicini ai trafficanti di droga. Una querela l’ha presentata il giudice Campria, per il caso Tumino (perché ho scritto che il figlio di un
magistrato era sotto torchio). Come vedi va tutto bene. Con Giacomo
si lavora alla perfezione, certo resta sempre il problema economico, il
lavoro mi assorbe molto e rende poco. Ieri Nino G. mi ha accennato
alla possibilità di una mia utilizzazione a Catania, sempre come collaboratore. Dovremmo parlarne con più precisione. Certo che, in un
modo o nell’altro, debbo trovare una sistemazione che mi consenta
un minimo di indipendenza economica. E questo, stando a Ragusa,
non credo sia possibile. Tra l’altro, ho la ragazza che studia a Roma,
e il fatto di vederci solo nelle feste crea problemi. Comunque, non so
proprio cosa farò. In questi ultimi tempi, grazie al continuo impegno,
sono piuttosto su di morale, ma a volte per lunghi periodi mi sento intrappolato e non vedo prospettive.
Ti scrivo queste cose anche perché tu mi hai spinto a farlo. E, dato
che ci sono, ti chiedo un consiglio: secondo te cosa mi conviene fare,
stare a Ragusa, andare a Catania o venire a Roma? Ma a Roma non
saprei proprio cosa fare. Tu che dici?
Cara Angela, torniamo al lavoro. Forse mi sono buttato troppo a corpo morto su questa faccenda e può essere rischioso, perché è come
camminare su un campo minato. Però credo che ne valga la pena
perché qualcosa sotto c’è e di non poco conto. E allora, tanto vale andare a fondo, per evitare di essere presi alla sprovvista.
A Roma come ti trovi? L’ultima volta che ci siamo visti a Palermo eri
molto contenta di questo trasferimento. Contaci pure, se vengo a Roma ci sentiamo e ci vediamo e potremo parlare un po’. Dovrei iscrivermi all’albo, ma nessuno ancora mi ha saputo dire esattamente cosa debbo fare.
Ciao, Giovanni Spampinato, Via Salvatore, 230 97100 Ragusa
Ultimora: Quintavalle è stato interrogato in relazione al caso Tumino.
Sempre più emozionante!
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Un articolo di Mario Genco, su “L’Ora” del 2 novembre
1972, tratteggia il profilo di Campria che si costituì nel
carcere di Ragusa subito dopo aver ucciso Spampinato,
con il quale era uscito in macchina. L’assassino, fingendo
di star male, chiese al giornalista che era alla guida di fermarsi con la sua Cinquecento nei paraggi del carcere di
Ragusa e lo freddò a colpi di pistola. Subito dopo bussò
alla porta della casa circondariale per costituirsi.
Un passaporto per la seminfermità mentale: questa è sembrata ieri la
strategia difensiva che Roberto Campria ha delineato (o diligentemente ripetuto?), durante le tre ore di interrogatorio al quale è stato sottoposto nel carcere di Modica dal sostituto procuratore generale Auletta.
Un interrogatorio contrappuntato da bugie, amnesia e lacrime.
Prima bugia: afferma di non aver mai né visto né conosciuto l’ex-marò
della Decima Mas Vittorio Quintavalle, la cui inquietante e finora indecifrata presenza nel Ragusano si riflette non poco sul delitto Tumino.
C’è tuttavia gente, a Ragusa, che riferisce di avere visto insieme
Campria, Tumino e Quintavalle. Sembra perfino che durante uno degli incontri di Giovanni Spampinato con Campria i due abbiano incontrato Quintavalle che Campria avrebbe chiamato fermandocisi a
chiacchierare. Allora: perché Campria dice di non conoscere il fascista Quintavalle, quando sa benissimo che un sacco di gente a Ragusa li ha visti insieme?
Seconda bugia: Campria dice di non avere avuto mai interessi né
contatti politici, specialmente verso destra. Ma non era uno dei pochi
amici dell’ingegner Angelo Tumino, la cui milizia politica nel Msi era
arcinota a tutti e quindi anche al Campria?
Negando i suoi contatti con gli ambienti della destra ragusana (Tumino,
si ricordi, era in rapporti non precari con l’onorevole missino Cilia, a sua
volta ben collegato al principe Borghese e ai tempi di “Ordine Nuovo”
anche con l’ultrà Pino Rauti); Roberto Campria tenta perfino di giocare
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la carta di un suo sinistrismo “in divenire” e rileva che gli unici discorsi politici egli li faceva proprio con Giovanni Spampinato.
Tutto ciò, sarebbe venuto fuori dall’interrogatorio di ieri, anche se le
indiscrezioni trapelano con molta difficoltà e non sono sempre controllabili. Le amnesie sono molto più numerose: in pratica, Roberto
Campria non ricorda quasi nulla. Della forsennata sparatoria con la
quale ha ucciso Giovanni Spampinato riesce a dire soltanto: “Non so
perché l’ho fatto. Io volevo bene a Giovanni, lo stimavo. La macchina
si fermò, io scesi e mi misi a sparare”.
È già tanto che ieri abbia detto almeno questo: perché la sera di venerdì, al sostituto procuratore Fera che gli chiedeva di dirgli il perché,
Campria non seppe o volle dire altro che: “Non ricordo più nulla”. Si
era creduto fino ad oggi che quella sera avesse detto più o meno:
l’ho ucciso perché lui aveva ucciso moralmente me, o qualcosa di simile. Macché, neanche questo disse: troppo tempestivo per essere
uno smemorato […].
Omicidio senza movente dunque omicidio di un folle: l’equazione difensiva è estremamente chiara, ma ci sembra altrettanto incredibile.
Soprattutto, conferma nell’ipotesi già fatta che Roberto Campria sia,
abilmente manovrato, costretto a coprire qualcuno. Ciò riconduce immediatamente al delitto Tumino, sul quale ieri il sostituto Procuratore Generale Auletta sembra abbia a lungo ma inutilmente insistito
durante l’interrogatorio, e alla trama nella quale quel delitto si maturò. Quella trama è nera, in uno sconcertante intreccio di interessi
che vanno dal commercio clandestino di materiale archeologico alla
vendita di quadri rubati, dal contrabbando al traffico di armi e esplosivi: tutto un vastissimo campo di indagini che nessuno finora ha
mai affrontato con un minimo di decisione. […].
Recentemente, lo storico Giuseppe Casarrubea, che ha
indagato sullo stragismo a partire da Portella della Ginestra, ha scritto di essere venuto in possesso di alcuni do161
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
cumenti redatti da appartenenti a opposti schieramenti
politici internazionali, il Kew Gardens britannico e l’Archivio nazionale dei Servizi di sicurezza di Budapest. In
quelle carte si legge che nella seconda metà degli anni
Settanta in Italia si stava organizzando un colpo di Stato
voluto dal Patto atlantico e che la Sicilia era tra le principali basi strategiche e militari. Che la preparazione di
questo piano fosse cominciata nel ’72, due anni dopo il
fallito golpe Borghese?
Peri, poco prima di morire, è stato sentito dalla commissione nazionale antimafia. Di quell’audizione, che avvenne a Palermo durante una trasferta della stessa commissione e che inizialmente fu segretata, non esistono verbali se non poche righe nelle quali si parla dell’acquisizione
del rapporto redatto dal poliziotto. A chiedere quell’audizione fu il giudice Cesare Terranova che nella sciagura di
Montagna Longa aveva perso la cognata Gabriella Giaconia, la donna che aveva raccontato con scetticismo agli
amici la predizione fattale da una chiromante incontrata
per strada: sarebbe morta quell’anno in un incidente aereo.
Terranova, dal ’76 al ’79, fu parlamentare, eletto nella lista del Pci, e componente della commissione antimafia.
Sarà ucciso nel settembre 1979. Sul rapporto Peri cala il
silenzio.
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I 115 MORTI
Rosario Adelfio, di Palermo, 26 anni.
Alfonso Alaimo, di Palermo, 42 anni.
Giuseppe Albergamo, di Palermo, 27 anni.
Ignazio Alcamo, di Palermo, 44 anni.
Pasquale Ales, di Palermo, 42 anni.
Lucia Armao, di Palermo, 47 anni.
Fabio Badalotti, di Mantova, 44 anni.
Roberto Bartoli, di Dovadola (Forlì), 41 anni.
Mario Bombonati, di Verona, 32 anni.
Lidia Borcich Tosi, di Palermo, 43 anni.
Rosario Borzì, di Paternò (Catania), 24 anni.
Filippo Buttitta, di Bagheria (Palermo), 32 anni.
Giacomo Buttitta, di Palermo, 57 anni.
Calogero Cammarata, di Caltanissetta, 60 anni.
Giovanni Cammarata, di Caltanissetta, 9 anni.
Silvana Cammarata, di Caltanissetta, 10 anni.
Maria Candia, di Palermo, 53 anni.
Fernando Cannizzaro, di Palermo, 27 anni.
Concetta Capozzi, di Caltanissetta, 61 anni.
Giuseppe Catalanotto, di Palermo, 36 anni.
Giovanni Cavataio, di Alcamo (Trapani), 41 anni.
Rosalia Chianello, di Palermo, 29 anni.
Pietro China, di Caltanissetta, 24 anni.
Antonio Cisarò, di Calatafimi (Trapani), 48 anni.
Carla Colajanni, di Palermo, 41 anni.
Olga Collizon, di Londra, 48 anni.
Elisabetta Criscuoli, di Palermo, 31 anni.
Pietro Criscuoli, di Palermo, 39 anni.
Francesco Crispi, di Palermo, 54 anni.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
Salvatore Culmone, di Palermo, 38 anni.
Salvatore D’Anna, di Palermo, 24 anni.
Armando De Bono, di Londra, 47 anni.
Nicolò De Luca, di Palermo, 58 anni.
Beatrice De Moulin, di Charleroy (Belgio), 24 anni.
Gino Di Fiore, di Roma, 28 anni.
Elisabetta Di Maggio, di Palermo, 50 anni.
Paolo Di Maio, di Mazara del Vallo (Trapani), 33 anni.
Bruno Dini, di Terranuova Bracciolini (Arezzo), 37 anni.
Giovanni Durante, di Palermo, 30 anni.
Angela Fais, di Palermo, 27 anni.
Alessandro Fanuele, di Palermo, 28 anni.
Ignazio Faso, di Terrasini (Palermo), 35 anni.
Giuseppe Filippi, di Milano, 30 anni.
Antonio Fontana, di Trapani, 25 anni.
Antonio Fontalelli, di Firenze, 48 anni.
Maria Galardi, di Palermo, 37 anni.
Cecilia Gallina, di Palermo, 30 anni.
Gioacchino Genuardi, di Palermo, 34 anni.
Gabriella Giaconia, di Palermo, 43 anni.
Ezio Gorbi Frattini, 16 anni, di Torino.
Giuseppa Graffagnino, di Palermo, 32 anni.
Paolo Grassadonia, di Palermo, 30 anni.
Mario Graziano, di Palermo, 20 anni.
Attanasio Greco, di Palermo, 31 anni.
Alessandro Guccione, di Palermo, 31 anni.
Giuseppe Guscio, di Palermo, 35 anni.
Renate Heichlinger, di Amburgo (Germania), 36 anni.
Franco Indovina, di Palermo, 42 anni.
Bernardette Labat Labourette, 29 anni
Giovanni La Rocca, di Palermo, 37 anni.
Filippo Lazzara, di Palermo, 26 anni.
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Mariella Leone, di Palermo, 42 anni.
Giovanni Lino, di Palermo, 46 anni.
Gaspare Lo Grasso, di Palermo, 21 anni.
Stefano Lo Presti, di Palermo, 68 anni.
Filippo Lorico, di Palermo, 27 anni.
Eliana Lucchesini, di Palermo, 35 anni.
Anna Maffei, di Roma, 40 anni.
Letterio Maggiore, di Ustica (Palermo), 50 anni.
Paola Graziella Magrini, di Milano, 23 anni.
Guido Magnolfi, di Palermo, 42 anni.
Vincenzo Martino, di Castelvetrano (Trapani), 45 anni.
Paola Massimi, di Terni, 25 anni.
Pamela Elizabeth Mc Carthy, di Londra, 22 anni.
Giuseppe Misuraca, di Palermo, 47 anni.
Lidia Mondì, di Palermo, 36 anni.
Giovanni Montalto, di Palermo, 30 anni.
Bruno Motta, di Rovigo, 40 anni.
Vincent Navarre, 32 anni.
Santo Novara, di Mazara del Vallo (Trapani), 45 anni.
Armando Pappalardo, di Terrasini (Palermo), 27 anni.
Giuseppina Paternostro, di Palermo, 32 anni.
Adriano Pescosolido, di Ceprano (Frosinone), 33 anni.
Francesco Pirrello, di Palermo, 21 anni.
Francesco Pomara, di Castelvetrano (Trapani), 25 anni.
Roberto Pottino, di Palermo, 25 anni.
Claudio Provenzano, di Palermo, 25 anni.
Adriana Pupella, di Palermo, 48 anni.
Gaetana Restivo, di Bagheria (Palermo), 24 anni.
Giuseppe Ricci, di Viterbo, 34 anni.
Bernardo Rizzo, di Palermo, 25 anni.
Alfonso Russo, di Agrigento, 33 anni.
Giuseppe Russo, di Agrigento, 61 anni.
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L’ULTIMO VOLO PER PUNTA RAISI
Elisabetta Salatiello, di Palermo, 27 anni.
Lelio Sammarco, di Palermo, 51 anni.
Giuseppina Savatteri, di Palermo, 20 anni.
Michele Savatteri, di Palermo, 23 anni.
Bianca Maria Savona, di Palermo, 20 anni.
Giacomo Scaccianoce, di Palermo, 44 anni.
Mario Scaglione, di Palermo, 48 anni.
Alberto Scandone, di Palermo, 29 anni.
Giuseppe Scialabba, di Trabia (Palermo), 25 anni.
Girolamo Tamburello, di Palermo, 23 anni.
Vincenzo Tiscini, di Palermo, 50 anni.
Giuseppe Travia, di Palermo, 30 anni.
Giovanni Trupiano, di Palermo, 45 anni.
Gaetano Vaccaro, di Palermo, 34 anni.
Carmelo Valvo, di Palermo, 49 anni.
Fulvio Visentini, di Palermo, 29 anni.
Francesco Volpe, di Palermo, 37 anni.
Cestmir Vycpaleck, di Torino, 23 anni.
Giuseppe Zaratti, di Palermo, 35 anni.
Vladimiro Zarbo, di Palermo, 35 anni.
Luigi Zuliani, di Palermo, 51 anni.
Willy Zwaenepoel, 42 anni.
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INDICE
Prefazione. Il silenzio parla di Giosuè Calaciura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3
Parte I . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
Capitolo I. La linea d’ombra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11
Capitolo II. Il silenzio radio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21
Capitolo III. A est di niente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30
Capitolo IV. Tutta colpa loro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49
Capitolo V. Il poliziotto la chiama strage . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56
Capitolo VI. Il faro poggiato dove capita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65
Capitolo VII. Se il fatto è un’opinione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 80
Capitolo VIII. La terra di nessuno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83
Capitolo IX. Colpevoli? Solo imprudenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89
Capitolo X. Una croce sull’inchiesta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95
Capitolo XI. La manovra folle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101
Parte II . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Capitolo I. La tesi del poliziotto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Capitolo II. Memorie del sottoscala . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Capitolo III. I sospetti di un cronista perbene . . . . . . . . . . . . . . . .
125
127
136
155
I 115 morti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163
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Ringraziamenti
Per la stesura di questo libro è stato fondamentale il supporto del comandante Fabrizio Lustri, che ringrazio per le sue osservazioni puntuali e per aver più volte corretto la rotta. Importante è stato il sostegno di Alfio Caruso e del “miglior fabbro”
Marina Di Leo. Numerose sono le persone che mi hanno fornito spunti e suggerimenti, alcune delle quali citate nel testo. Sono grato, inoltre, a Silvio Governali,
Gaia Villani, Gianfranco Criscenti, Patrizia Abbate, Nello Pogliese, Enzo Guidotto,
Vincenzo Sinapi, Debora Gagliardi, Lilli De Luca, Constanze Neumann, Marcello
Monterosso, Giovanni Castellammare, Renato Magazzù, Massimo Giannetti, Pino
Termini, Daniela Graziano, Anna Barba, Francesco Falco.
L’ULTIMO VOLO
PER PUNTA RAISI
di FRANCESCO TERRACINA
Redazione FABIO GIOVANNINI
Progetto grafico ANYONE!
Impaginazione ROBERTA ROSSI
© 2012 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri
Casella postale 97 – 01100 Viterbo
fax 0761.352751
e-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6222-285-3
Prima edizione: marzo 2012
Prima ristampa: settembre 2012
presso ARTI
GRAFICHE LA MODERNA (Roma)
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