IL CINEMA VISIONARIO DI LARS VON TRIER
di Giuseppe Russo
1.
Ad ormai trent’anni dal suo primo lungometraggio compiuto e distribuito
(Befrielsesbilleder, meglio noto col titolo inglese Image of relief, 1982), è possibile
ricercare i nuclei delle problematiche fondamentali al fondo della cinematografia di
Lars von Trier, autore proteiforme e visionario come pochi. A partire da The
Kingdom (1994), che in quanto destinato alla televisione gli ha permesso di
allargare il proprio pubblico, von Trier si è presentato come un disturbatore di
pubbliche certezze, uno «spaventa-famiglie», come allora lo definì Mario Sesti1, ed
è forse all’interno di questa etichetta che vanno ricercati gli aggregati mentali che
si addensano nella nebulosa della sua mente creativa.
Rendere friabile ed incerto il terreno sotto i piedi dello spettatore è chiaramente
uno tra i massimi divertimenti del cineasta, qualcosa a cui non riesce a resistere né
vuole farlo. Questo principio motore elementare ha occasione di esprimersi, in
1
M. Sesti, Il caso von Trier, in: «L’Espresso» del 4 settembre 1997.
alcuni film nei confronti di temi inerenti la vita quotidiana ed apparentemente
marginali, in altri sull’essenza stessa della struttura sociale, sulla sua origine e
soprattutto sulla sua legittimità. Lungo entrambe le direttrici il regista ama, non
tanto suscitare scandalo (quello è per lui, più che altro, uno strumento), quanto
mostrare l’illusorietà dei fondamenti sui quali poggiano alcune certezze individuali
e collettive trattate di volta in volta. Questo versante della sua vis polemica
possiede di sicuro anche una forte radice autobiografica, dato che il regista è figlio
unico di una coppia di naturisti che si consideravano orgogliosi del loro
comunismo e del loro ateismo, ma che poi lo iscrissero ad un istituto (la Lundtofte
Skole di Lyngby-Taarbæk) a quel tempo noto per i suoi sistemi pedagogici molto
autoritari. Dunque, fin dalla prima adolescenza von Trier ha vissuto sulla propria
pelle le sensazione di Verfremdung che scaturisce dal trovarsi fra due estremi: i
campi nudisti, dove le regole erano considerate gli unici corpi estranei e da tenere
lontani, e il sistema di disciplinamento di stampo quasi prussiano. Molto
probabilmente, già allora deve aver iniziato a manifestarsi nel giovane Lars una
forte diffidenza nei confronti di entrambi gli estremi: l’allegra anarchia flower
power e i dispositivi tradizionali di irreggimentazione.
Quando il futuro regista abbandona la Lundtofte Skole, a 15 anni, e
ovviamente con l’approvazione degli stessi genitori che lo avevano iscritto, ha già
avuto i primi contatti con il mondo dello spettacolo, ha recitato un piccolo ruolo in
un serial TV, e ha anche già deciso di tentare il concorso per entrare al prestigioso
Danske Filmskole2 di Copenhagen, dove riesce ad accedere nel 1979 e gira i suoi
primi cortometraggi, fino al 1983, quando abbandona l’Istituto dopo aver
completato il rito di passaggio obbligato, ossia la realizzazione del suo primo
lungometraggio in 35 mm., il suddetto Befrielsesbilleder, prodotto proprio dal
Danske Filmskole e dalla radio DR.
Nei primi Ottanta ancora non è del tutto chiaro che l’argomento principale
della sua concezione cinematografica sarà il grande mistero antropologico: come
possano gli esseri umani vivere insieme nonostante l’infondatezza delle strutture
destinate a garantire l’ordine? E ancora non è chiaro nemmeno al regista che i
risultati migliori, su questo campo tematico, li otterrà nei momenti in cui lascerà
libera di esprimersi la sua immaginazione visionaria. Tuttavia, il percorso è già
tracciato, e infatti molte immagini di Befrielsesbilleder presentano una carica di
suggestione estetica elevatissima, anche se confezionata in forme e soluzioni
ancora acerbe e parzialmente ancorate alla cinematografia angloamericana dei
primi anni ’80. La scelta di virare in monocromia dominante variabile (ocra, verde
2
http://www.filmskolen.dk/
foresta, rosso scarlatto, etc.) molte sequenze realizzate sia in interni che in esterni,
soprattutto per enfatizzare le diverse bande di oscillazione del diagramma ideale
della tensione drammaturgica
del film, manifesta chiaramente
una notevole attenzione alle
suggestioni che le immagini
dovrebbero provocare nello
spettatore. Dopo tutto, quelli
sono stati gli anni nei quali si è
verificato
un
massiccio
fenomeno di riflusso nella
cinematografia internazionale:
terminati gli anni ’70 –
caratterizzati, fra le altre cose,
anche da una massiccia predilezione per le realizzazioni off, nelle strade e nei
palazzi, all’insegna di un realismo dal forte impatto visivo su entrambe le sponde
dell’Atlantico – i registi tornano negli studios e cercano di farsi venire nuove idee
metabolizzando le lezioni di maestri come Tarkovskij o Fassbinder.
2.
Ma è nella trilogia Forbrydelsens element (1984), Epidemic (1987), Europa
(1991), che la tendenza visionaria del cineasta decolla e comincia a raggiungere i
suoi primi risultati notevoli, anche se alternati a momenti meno riusciti. L’Europa
sommersa da acque fetide e stagnanti di Forbrydelsens element, un immenso
territorio che ha rimosso
il proprio passato e
sembra destinato ormai
alla deriva morale oltre
che materiale, è in parte
pensata e ripresa con
modalità che ricordano
Blade Runner, ma è anche
il nonluogo augeiano sul
quale si verifica la
momentanea «coesistenza
di individualità distinte, simili e indifferenti le une alle altre»3. Su questo spazio
3
M. Augé, Nonluoghi. Introduzione ad un’antropologia della surmodernità, a cura di D.
Rolland, Milano, Eleuthera 2005, p. 97.
molto particolare, infatti, il protagonista, un detective che si illude di essere anche
psicologo, si sposta incessantemente nel tentativo di catturare un serial killer
applicando il metodo Stanislavskij, in modo da entrare nella sua mente e ipotizzare
dove possa essersi nascosto. L’ubiquità delle sostanze liquide incrementa
l’insensatezza di questa ricerca e aumenta lo spessore della dimensione onirica del
film, nel quale sembra davvero concretizzarsi un concetto ottimamente espresso da
Foucault nella sua introduzione a Le rêve et l’existence di Leo Binswanger, ossia
che «la plastica immaginaria del sogno è la forma della contraddizione del senso
che rivela»4. In questo caso, esattamente come in Europa (1991), le immagini che
inducono a pensare ad una costruzione onirica tendono nello stesso momento a
slittare verso l’elaborazione visionaria alla Swedenborg, e di esse può essere detto
ciò che R.W Emerson disse dei syner del grande mistico svedese, ossia che vanno
trattate «con precauzione. È dannoso scolpire queste evanescenti immagini del
pensiero. Vere nella transizione, diventano false se si fissano. Per avere un giusto
concetto di Swedenborg è necessario un genio quasi uguale al suo»5, cosa che
potrebbe tranquillamente essere detta anche di Lars von Trier. Ma, trattandosi di
cinematografia e non di letteratura mistica, l’ipotesi di una opposizione
inconciliabile vero/falso dipendente dalla durata dello sguardo o dalla sua intensità,
qui salta del tutto: non deve esserci una simile linea di demarcazione, laddove è
proprio l’efficacia dell’immagine in quanto tale a penetrare nella sensibilità dello
spettatore e a rendere morbida la plastica onirica cui accennava Foucault.
Il bianco e nero di Epidemic
(1987), interpretato dallo
stesso von Trier insieme a
Niels Vørsel e a Udo Kier,
magari non ottiene lo stesso
effetto, tuttavia può essere
considerato
una
prima
soluzione alternativa a
quella praticata negli altri
due film della trilogia.
Mentre nelle altre due pellicole si eccede volutamente e programmaticamente nella
costruzione di visioni irrealistiche realizzate con gamme cromatiche da
allucinazione universale e che vogliono trasmettere la sensazione dell’assenza di
4
M. Foucault, Il sogno, a cura di M Colò, Milano, R. Cortina 2003, p. 9.
R.W. Emerson, Uomini rappresentativi, a cura di M. Pastore, Torino, F.lli Bocca 1904, p.
115.
5
vie d’uscita, qui si eccede con pari premeditazione in un iperrealismo da false
documentary, evidenziato anche dalla presenza per l’intera durata del montato del
titolo in caratteri maiuscoli in alto a sinistra del campo, seguito perfino dal logo del
copyright. I temi non sono però diversi: la morte, la malattia, l’abbandono, la
deriva, la sopravvivenza dopo la fine della tenuta del collante sociale, il
comportamento delle persone quando le regole saltano o si dissolvono per cause di
forza maggiore. La trama insiste ulteriormente sulla falsa dinamica finzione/realtà,
in quanto nel film la storia che il regista e il suo sceneggiatore stanno cercando di
realizzare diventa realtà intorno a loro, li assedia, li perseguita, li minaccia, ma un
po’ li prende anche in giro e si lascia prendere in giro. Dunque il regista, con
Epidemic, senza per questo abbassare i livelli di aspettative rispetto agli altri due
film della trilogia europea, comincia anche a mostrare una forte insofferenza verso
la ripetizione, insofferenza destinata a crescere nel tempo.
3.
Ottenuto un discreto successo di critica internazionale con la sua trilogia, von Trier
comincia a far parlare di sé anche per le sue occasionali dichiarazioni politically
uncorrect. Lo scopo di questa strategia comunicativa non è soltanto quello di
ottenere una maggiore visibilità, che comunque esiste così come esiste in molti
uomini dello show biz. Però c’è anche la curiosità di misurare le reazioni degli
umani sui quali si interroga, rispetto alle sue provocazioni6. È ben nota infatti
l’inclinazione esibizionista del regista, ma gli scandali che ogni tanto suscita vanno
considerati un effetto di questa curiosità antropologica, non certo una causa.
Questa combinazione di interesse artistico ed egolatria non rappresenta certo
un fenomeno cinematografico nuovo né tanto meno originale. Innumerevoli
potrebbero essere gli antecedenti elencabili, a partire da Stroheim (che il cineasta
danese ha più volte rivendicato come uno dei suoi maggiori precursori, e al quale
ha “scippato” l’idea di preporre la particella nobiliare al cognome, che in realtà è
semplicemente Trier), ma nel suo caso – certo non sempre, ma nemmeno in poche
circostanze – i risultati appaiono davvero geniali e quasi sempre votati al primato
dell’elemento visionario.
Nel 1995 Lars von Trier e Thomas Vinterberg firmano il famoso e discusso
manifesto estetico del loro movimento, noto come Dogma 95, il cui testo è
6
Tra queste, la dichiarazione risalente al 1996 in cui afferma di non prendere mai aerei
perché ne avrebbe troppa paura, e di viaggiare solo in auto, dalla quale deve scendere ogni
2-3 ore per sentire il terreno ancora presente sotto i propri piedi. Pare che non sia mai stato
vero, oppure che si sia trattato di una fobia precedente e di breve durata. Si tratta
chiaramente di depistaggi informativi a scopo pubblicitario.
disponibile in rete7. Anche questo è un modo per far parlare di sé, dopo tutto, dato
che fra i dieci punti-chiave della dottrina ce ne sono alcuni (divieto di riprendere
scene violente o che prevedano spargimento di sangue, ma anche abolizione di
filtri e supporti ottici) che lo stesso von Trier sarà il primo a non rispettare. Né
potrebbe essere altrimenti, dal momento che il regista danese è troppo incontenibile
per poter accettare troppo vincoli operativi nel suo modo di girare. Va poi ribadita
la sensazione che, in fondo, il cineasta si diverta sempre molto nel suo lavoro, che
prenda sempre un po’ in giro il pubblico poiché questo lo aiuta a perfezionare le
sue realizzazioni, e che pertanto attribuirgli un eccesso di serietà sia
sostanzialmente sbagliato, forse perfino fuorviante. Se, dunque, aggiungiamo
questo fattore alla forza propulsiva principale della sua opera, che è pur sempre la
demolizione di alcune certezze sulle quali la società occidentale si regge e si
perpetua, otteniamo il ritratto di un cineasta realmente e letteralmente antiborghese,
il che davvero non è poco, di questi tempi. Anche per questa ragione non conviene
tanto trattare la sua opera secondo una mera scansione cronologica, che non appare
particolarmente significativa, quanto secondo quegli aggregati tematici cui si
accennava all’inizio e che dovrebbero formare le costanti della sua parabola
creativa.
Una di queste è senz’altro di provenienza religiosa, e potremmo definirla il
“capolinea della secolarizzazione”. A von Trier interessa, non tanto verificare cosa
resti dell’elemento religioso nell’uomo postmoderno, che secondo gli studiosi di
questa materia sta vivendo piuttosto una «deprivatizzazione della religione»8,
quanto sondare le forme che i surrogati del sacro assumono una volta che si è data
per irreversibile e per “consumata” la svolta del secolarismo nelle sue ultime
convulsioni possibili. Poiché il punto di vista non è quello di un uomo sorretto
dalla fede ma quello di uno scettico incapace di suggerire la retta via da prendere, e
tuttavia certo dell’assurdità della strada scelta dal mondo, ecco che le immagini
non vorranno tanto alludere a realtà parallele che avrebbero potuto essere e non
sono a causa della società, ma più spesso si soffermeranno in maniera insistente sul
ciò-che-è, dato per fatale ma allo stesso tempo per fatalmente errato, o peggio
corrotto. L’assenza di soluzioni alternative permette al regista di affondare meglio
il coltello in quelle praticate, mostrandone gli elementi perversi, ambigui o
semplicemente falsi.
7
http://it.wikipedia.org/wiki/Dogma_95#Film_aderenti_al_Dogma_95 (versione bilingue:
inglese e italiana).
8
J. Casanova, Oltre la secolarizzazione, a cura di M. Pisati, Bologna, Il Mulino 2000, p.
379.
La stessa dimensione del sacrificio – che è una delle costanti, da Le onde del
destino (Breaking the Waves, 1996, prima pellicola realizzata dopo il manifesto di
Dogma 95) a Melancholia (2011), passando per Dancer in the Dark (2000) –
risulta spogliata fin dall’origine di qualsiasi connotato enunciativo e si propone
come mera diagnosi, fredda e priva di vie d’uscita. Quando certa critica accusò
Breaking the Waves di sorridere al Cattolicesimo in un’anacronistica variante
flagellatoria, non si era resa conto che al centro di quel film non c’è affatto la
parabola della santa-prostituta votata al martirio, bensì il complesso dei fattori
sociali che tale parabola determinano. Il che tuttavia non ne fa nemmeno un’opera
biecamente strutturalista, anche perché la focalizzazione non è per niente neutrale e
la collettività che governa lo sviluppo degli eventi è vistosamente condannata, e lo
è sia dalla stessa suddivisione del film in capitoli secondo una scansione molto
solenne sia dall’apparato visionario che agita soltanto la protagonista e non
riguarda nessuno di quanti le stanno attorno. Tanto che, nel godere al momento
della purificazione per condanna e conseguente estinzione della “diversa”
(declinazione del principio classico del capro espiatorio), la comunità ammutolisce
e si rinchiude in una forma di autismo che è chiara ammissione di colpevolezza. È
la colpevolezza del sacrificatore, che interessa a Lars von Trier; non l’innocenza
della vittima. Inoltre, la colpa è presentata come inesorabile esattamente come le
conseguenze del suo esercitarsi sulla vita di Bess determinandone il sacrificio, in
quanto due movimenti diastolici dello stesso organo malato, che è poi il cuore della
società in quanto tale.
A sua volta, la vittima non è
mai realmente innocente, o
quanto meno la sua
innocenza apparente non è
circondata da quell’aura di
purezza
che
ci
si
aspetterebbe se davvero di
innocenza
si
trattasse.
Tant’è vero che sia Bess
(Emily Watson) in Breaking
the Waves che Grace
(Nicole
Kidman)
in
Dogville, non solo accettano pigramente la prostituzione come Calvario
improbabile, ma per percorrere la via della loro assurda espiazione devono
accentuare i lati più inverosimili dei rispettivi caratteri apparendo, la prima poco
meno che una demente in balìa delle onde che danno il titolo alla sua vicenda, la
seconda un’improbabile montanista divorata da un fuoco penitenziale che può
estinguersi solo scontando la pena della mortificazione sessuale prima di ribaltare
la situazione; ma in entrambe le storie si allude non poco all’eventualità di una
conciliazione masochistica delle due pulsioni. Tutt’altro che due sante, insomma;
semmai, due esibizioniste represse e malriuscite ma fortemente soggettivizzate, due
fuochi analoghi di quella medesima ellisse antropologica che vede all’estremo
opposto l’individuo compiutamente inquadrato nell’organizzazione sociale9.
In altre parole, il solo fatto che esista un soggetto (individuale o collettivo) che
si proclami autorizzato a decidere su un qualunque aspetto della vita di un altro
soggetto è, nella visione di von Trier, un abominio, qualcosa di drasticamente
incompatibile con la stessa natura dell’uomo e che lo fa precipitare in un abisso.
Già in Image of relief il momento in cui la donna dà inizio alla tortura del suo
uomo presenta questa duplicità: lo spettatore è disorientato e non riesce a capire da
che parte stia la ragione, semplicemente perché non sta da nessuna parte. L’atto
stesso che fa intervenire un soggetto sull’altro rende impossibile il mantenimento
di un rapporto, tanto meno l’instaurazione di un’etica. Il marcio sta nel
meccanismo sociale in quanto tale, non nei suoi singoli (e sempre sostituibili) attori
o vittime.
4.
C’è dunque un filo rosso che collega idealmente questo problema alla più densa
riflessione di Dogville (2003), opera che avrebbe dovuto avviare una nuova trilogia
del regista, stavolta dedicata all’America, progetto che sembra però abbandonato
dopo l’incolore Manderlay (2005). L’umanità qui rappresentata non è una semplice
parodia di quella che dovrebbe essere una giovane comunità borghese, ma piuttosto
una specie di gioco delle parti al cui centro è situato il meccanismo sociale nella
sua nudità, e nella sua nudità questo meccanismo non può nascondere la propria,
fallimentare assurdità. La comunità non è difettosa in quanto agitata da tensioni
primitive, né perché basata sul teatro delle apparenze che nasconde orrori comuni o
particolari. La comunità è impossibile semplicemente perché, da un lato gli uomini
non possiedono la moralità sufficiente a formarla, e dall’altro si basa su una
violenza assolutamente incontenibile, una violenza che non può essere mimetizzata
o tenuta a freno più del tempo convenuto fra i personaggi recitanti.
9
Tuttavia fa riflettere che siano due donne, come lo è Medea nel film omonimo del 1987,
mentre l’efferatezza e la violenza sono in linea di principio due arti maschili, nel cinema di
Lars von Trier, tranne che in Antichrist. In ciò vi è forse più classicismo di quanto egli
stesso vorrebbe.
Ma l’immoralità e la violenza sono spesso due facce della stessa medaglia,
quando non sono addirittura la stessa faccia, né un incremento etico potrebbe in
alcun caso venire in soccorso all’Homo Dogvilliensis rendendo la vita sociale
finalmente possibile, come per un incantesimo.
Nel caso particolare di Dogville, la problematica viene calata in una
idealizzazione archetipica della società americana, e perciò insiste sulla logica del
profitto come espressione circostanziale dello svolgimento. Anche per questa
ragione il personaggio di Grace risulta così volutamente fuorviante: sembrerebbe
inverosimile che un’intera collettività possa precipitare tanto in basso e mostrare il
suo vero volto per così poco, fino a pagarne le conseguenze nel grandguignolesco
colpo di scena finale. Certo, la taglia sulla testa della ragazza modifica degli
equilibri, ragion per cui deve essere lei a cominciare a “produrre” abbastanza
perché la collettività non ceda alla tentazione dello scambio, la cui convenienza è
piuttosto evidente. E poiché è giunta nel villaggio mentre era in fuga e non
possiede altri beni che il proprio corpo, deve necessariamente fare di questo il
proprio opificio, il che è quanto accade nella seconda parte del film. Ma proprio
quando tutti i membri della cittadina sono ormai coinvolti nel complicato progetto
di riduzione in schiavitù della ragazza, lo spettatore scopre che le cose non stavano
esattamente così, e che, anzi, avendo lei e non quella strana comunità carceraria un
concreto potere di vita e di morte sugli altri, Grace si era limitata a svolgere un
esercizio di comprensione del senso del potere che stava per assumere, alla fine del
quale non può che essere strage.
In Dogville l’elemento visionario è concepito in chiave minimalista e riguarda
il set in quanto tale, pensato
come qualcosa di simile ad
un Monopoli visto dall’alto,
nel tentativo di concentrare
in uno spazio ridottissimo –
volutamente simile ad un
palcoscenico teatrale sia per
le dimensioni che per la
ruvida consistenza della
superficie – l’intera rete
stradale di una piccola
città10. Ma all’interno di questa cornice abbastanza claustrofobica, è evidente che
von Trier ha voluto svolgere anzitutto una riflessione sull’origine stessa del potere
e della struttura sociale, che ha toccato il continente americano dopo essersi
soffermata sull’Europa nella trilogia di cui abbiamo parlato in precedenza, ma che
non è proseguita con analoga efficacia con la tappa successiva, Manderlay (2005),
opera piuttosto scialba, poco ispirata, in buona parte debitrice del sistema scenico
de L’opera da tre soldi di Brecht, e per di più priva di quella componente oblativa
che dà invece tanta sostanza a Dogville.
In realtà, anche la splendida Medea del 1987 – nata da una costola di una
scrittura di Dreyer abbandonata – faceva interferire il tema del sacrificio originario
con quello della violenza fondativa dell’ordine sociale, sebbene in quel film le
soluzioni estetiche pensate per le riprese fossero talmente suggestive da far
retrocedere in ordine di importanza l’elemento speculativo. E di certo ha molto a
che vedere, se non con l’origine del potere, quanto meno con il suo esercizio anche
il thriller ospedaliero The Kingdom (Riget, 1994, serial Tv in 8 puntate), dove il
registro è piuttosto affine al grottesco che non al drammatico ma non per questo è
meno incisivo. Si pensi ad esempio all’atmosfera di cospirazione che fa del
collegio dei docenti del Policlinico universitario una cupola mafiosa priva di ogni
etica: splendida ed illuminante trovata!
L’equilibrio tra componente sacrificale e potere dell’immagine, in fondo, può
essere interpretato anche come individuazione di un punto di equilibrio precario tra
10
Alcuni critici hanno osservato che questa soluzione scenica potrebbe essere stata mutuata
da Our Town (1938), pièce teatrale di Thornton Wilder molto nota negli anni Quaranta e
Cinquanta e più volte citata anche da Kurt Vonnegut nei suoi romanzi. Ma Lars von Trier
sostiene di non averne mai neppure sentito parlare. Il pubblico italiano conosce quest’opera
soprattutto per la riduzione televisiva realizzata nel 1968 da Silverio Blasi per la Rai.
due spinte opposte: centrifuga la prima, centripeta la seconda. L’una si rivolge al
mondo esterno partendo dalla pellicola, l’altra cerca di ipnotizzare lo spettatore
all’interno delle sequenze. Questo equilibrio, indubbiamente raggiunto in lavori
come Medea, Breaking the Waves o Dogville, è proprio ciò che salta del tutto in
Antichrist (2009), facendone uno dei film meno riusciti del regista danese. A
partire dal modo grossolano con cui è mostrata la morte del bambino nella parte
iniziale del film e dalla pretesa che questo incidente, avvenuto per puro egoismo
dei due genitori erotomani, debba trascinare in un vortice psicotico sia i
protagonisti (W. Dafoe e Ch. Gainsbourg) che lo spettatore, risulta abbastanza
evidente che questo film è stato realizzato soprattutto per un’esigenza di autoanalisi
del regista, che non ha mai nascosto di sentirsi spesso animato da una forte
tensione sadica che fatica ad esprimersi, ma che non riesce ad esprimersi nemmeno
in questo che dovrebbe essere il lavoro più sincero di von Trier, quello nel quale
egli si espone maggiormente. Come ha ben scritto Giancarlo Zappoli, che però alla
fine tende a salvare l’opera, «l’idea del film nasce da un lungo periodo di
depressione e finisce con il costituire una sorta di tentativo di terapia su grande
schermo»11. Il modo in cui si anima la natura intorno alla coppia intenta ad
autoflagellarsi, alla fin fine, si esaurisce in un delirio visionario del tutto sterile, che
imita palesemente le idee pensate da Sam Raimi trent’anni prima per La Casa (The
Evil Dead) e che non coinvolge lo spettatore se non in modo molto superficiale e
intermittente.
Ma l’equilibrio tra le due forze opposte saltato in Antichrist viene nuovamente
raggiunto, e in maniera piuttosto convincente, in Melancholia (2011), la pellicola
presentata in concorso al Festival di Cannes e che ha determinato il premio come
migliore interpretazione femminile a Kirsten Dunst e l’allontanamento come
persona non gradita a von Trier, per le sue dichiarazioni provocatorie contro Israele
e le misleading words a favore di Albert Speer e di Hitler. La battuta in conferenza
stampa il 18 maggio 2011 in risposta ad un cronista («What can I say? I understand
Hitler. He did some wrong things, absolutely, but I can see him sitting there in his
bunker at the end ... I sympathise with him, yes, a little bit») e subito diffusa dal
Guardian12, rappresenta forse il momento più alto raggiunto finora nella parabola
delle provocazioni collezionate dal regista. Va ribadito, a questo riguardo, che von
Trier ha creduto per buona parte della sua vita di essere figlio di un ebreo
ashkenazita, Ulf Trier, compagno per lunghi anni della madre Inger, la quale solo
sul letto di morte gli ha rivelato che invece Lars è figlio di un borghesissimo
11
G. Zappoli: http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=56922.
Il testo è sul sito del quotidiano britannico al seguente indirizzo:
http://www.guardian.co.uk/film/2011/may/18/lars-von-trier-cannes-2011-nazi-comments.
12
compositore di Copenhagen, che di lui non ha mai voluto saperne nulla. Da allora
deve essersi innescato un meccanismo di confronto/scontro con questa radice
ebraica che, data la psicologia molto particolare del cineasta, dopo anni di
riflessioni e punzecchiature, presumibilmente ha trovato modo di esplodere in una
cornice così palesemente inadatta come è il festival di Cannes e nei toni peggiori
possibili. E poiché un vero regista è sempre più bravo a dirigere gli attori che a
recitare, se in pochi hanno creduto che facesse sul serio nel momento in cui ha
parlato di Hitler in quei termini, ancor meno saranno stati disposti a credere alle
sue scuse tardive e con le quali può aver suscitato anzi l’impressione di essere
preoccupato più di evitare problemi alla distribuzione della pellicola che non di
aver offeso i 2.500 ebrei censiti nei registri delle sinagoghe danesi e tutte le altre
comunità ebraiche del vecchio continente.
Tornando al film, dato l’oggetto principale indagato da von Trier secondo la
nostra trattazione, ossia l’infondatezza delle strutture sociali, rispetto alle quali la
via di fuga privilegiata è di tipo solipsistico-visionario, prima o poi era inevitabile
che realizzasse una pellicola di argomento esplicitamente apocalittico. Di più, se
questo fosse l’ultimo lavoro nella produzione del regista danese, sarebbe un
eccellente modo per congedarsi dal suo pubblico. Ma allo stesso tempo, Lars von
Trier non sarebbe il diabolico geniaccio che è, se considerasse Melancholia il suo
saluto finale. L’argomento centrale di questo lungometraggio può essere
considerato la polisemia della nozione stessa di “fine del mondo”, da un punto di
vista interiore come esteriore; ragion per cui c’è bisogno di illustrare due vicende e
non una sola, che non saranno né simmetriche né equivalenti per valore e durata.
La prima ripete il plot di
Festen (1998) dell’amico
e
sodale
Vinterberg, non come
imitazione ma come
seconda esercitazione
sul medesimo spunto
(pratica prevista dal
manifesto Dogma 95);
e, dato che il mondo che
deve saltare è quello
della famiglia, la prima
parte risulta più breve e rapida sia come diegesi che come riprese. La seconda
coinvolge una volta e per sempre l’intero pianeta Terra, destinato ad essere
distrutto da un corpo celeste che dà il titolo al film e che, prima sembra allontanarsi
per la non troppo desiderata salvezza dei presenti, quindi fa il suo lavoro chiliastico
e pone termine alle ipocrite relazioni umani ancora esistenti. Dato un simile
argomento, non deve sorprendere che il livello visionario di certe immagini sia
tanto invasivo nel rapporto con il pubblico: deve esserlo per forza! Dürer non si
faceva mica tanti scrupoli nell’illustrare con le sue incisioni l’Apocalisse di
Giovanni; né se ne faceva Hieronymus Bosch nell’infittire di figure mostruose e di
combinazioni innaturali le sue tele sullo stesso argomento. Molti critici
(Mereghetti, Maltese, Escobar, Crespi) si sono detti estremamente delusi da questo
film, sia per la durata (135 min.), ritenuta eccessiva, che per certe scelte estetiche,
come la ripetizione anaforica della sequenza in slow motion in cui Justine si
trascina con l’abito da sposa sul prato, lottando contro l’inerzia di una natura ostile
e dalle tonalità molto preraffaellite, estetica chiaramente citata nella locandina à la
Millais. Ma un film sulla fine del mondo deve presentare certe caratteristiche in
termini di eccessi visivi, iterazioni di sequenze, ipertrofia del senso pittorico. E di
certo Lars von Trier era il regista adatto a realizzarlo in questo e usando
determinate tecniche di ripresa, proprio perché è per indole un regista eccessivo e
che in questa pellicola ha potuto superare i limiti del fattore oblativo individuale e
delle tessiture violente di una collettività circoscritta, per scatenarsi in una sola
volta contro l’intera umanità. Per uno come lui, era un’occasione troppo ghiotta;
per una deliziosa attrice come Kirsten Dunst, anche.
Dell’ormai 58enne cineasta si può forse dire, a questo punto, che la sua vicenda
artistica può esser fatta rientrare in una tradizione squisitamente nordica che a suo
tempo fu ben sintetizzata da Borges in uno dei suoi ultimi scritti: «Io credo che
tutto questo faccia parte del destino scandinavo, nel quale pare che ogni cosa
succeda come in un sogno in una sfera di cristallo. Per esempio, i Vichinghi
scoprono l’America diversi secoli prima di Colombo e non succede nulla. L’arte
del romanzo viene fondata in Islanda con la saga e questa invenzione non si
diffonde»13. Anche per apprezzare in modo compiuto e, se possibile, definitivo la
concezione cinematografica di Lars von Trier ci vorrà del tempo, e non è detto che
alla fine non saranno soprattutto alcuni elementi della sua eredità raccolti da altri,
ad essere collocati nelle caselle opportune. Ma per fortuna il cineasta danese è
ancora in piena attività, ha ancora molto da dire, e di certo la recente parentesi di
Nymphomaniac (2013) – di cui ci occuperemo in seguito – non rappresenta l’ultima
stazione di un percorso fatto di passi in avanti e soste, di lampi di genio e abissi
tremendi, di partenze per la tangente e ritorni sul percorso principale.
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J.L. Borges, Oral, a cura di A. Morino, Roma, Editori Riuniti 1981, p. 46.
Si può essere ragionevolmente certi che – data anche una certa tendenza
narcisistica piuttosto marcata – il cineasta danese non perderà l’occasione di far
parlare ulteriormente di sé nel prossimo futuro, magari dedicandosi a qualche
operazione inattesa e sorprendente, preceduta dai soliti comunicati stampa
fuorvianti. Staremo a vedere.
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Il cinema visionario di Lars von Trier