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Cultura
La “tomba di Stesicoro”
nascosta nel convento
Lo storico inglese Roger J.A. Wilson quasi
in conclusione del suo intervento, parlò
di un particolare edificio funebre di età
romana. Lo studioso lo definì “poco conosciuto” in quanto, disse, “giace inaccessibile” in una caserma in piazza Carlo
Alberto, e subito dopo affermò che di
esso sopravviveva “solo l’angolo a nord
est”. Wilson si riferiva evidentemente a
quello spicchio di monumento che è comunemente ed erroneamente ricordato
come la tomba di Stesicoro e i cui resti,
costituiti da due muri rivestiti da conci
lavici, si possono ancora osservare nel
chiostro dell’ex convento carmelitano
della Vergine Maria SS Annunziata.
Nell’ex monastero
dei Benedettini,
sede della
Facoltà di Lettere
e Filosofia
di Catania,
nel maggio del
lontano 1942,
si tenne il
congresso della
società italiana
per lo studio
dell’antichità
classica
(S.I.S.A.C.).
Il tema era
la storia di
Catania, dalle
origini sino
all’età romana e
tardo-antica
I catanesi, quel convento, non lo hanno mai chiamato così; poco importa che
la chiesa (tra le più grandi e piene di
storia della città) sia anche Santuario
Mariano e che sia stato il più grande
cenobio della città dopo il monastero
benedettino di S. Nicolò; per loro il
complesso dei padri Carmelitani è sempre stato a Maronna ‘o Càmminu, ma soprattutto il riferimento toponomastico
preminente è stato ed è riservato alla grande piazza antistante: a fera ‘o luni. Ma la
nostra breve storia ha inizio proprio nel
1992 quando all’interno dell’ex convento, oggi sede del Distretto militare di
Catania, venne riportata alla luce, eviden-
La parte visibile della cosidetta
“tomba di Stesicoro”
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Cultura
temente all’insaputa di Wilson, un’altra
porzione di quello stesso edificio funebre
oggetto del suo intervento al convegno.
I lavori erano già stati avviati nel 1990
dal Genio militare sotto il controllo della
Soprintendenza di Catania ma qualche
anno dopo, durante la ristrutturazione interna dei locali della caserma (proprio
quelli prospicienti piazza Carlo Alberto),
un capomastro individuò, sotto l’intonaco di un muro settecentesco del convento una parete rivestita di conci lavici squadrati; era riemerso il proseguimento della parete già osservata da Wilson, cioè
un’altra piccola porzione di quello stesso
edificio funebre visibile nel cortile della
caserma è già oggetto delle osservazioni
dell’archeologo Guido Libertini che nel
1925 portò i resti di tale monumento all’attenzione degli studiosi, mettendoli in
relazione (erroneamente) con le notizie
delle fonti letterarie antiche connesse al
sepolcro del poeta greco Stesicoro e al
quale fa riferimento la tradizione anche
in merito alla figura del vescovo di Catania, San Leone II il taumaturgo, e in merito alla prima deposizione della patrona
della città, Sant’Agata. L’importanza del
ritrovamento fu subito chiara: del monumento esisteva ancora un’altra parte,
quindi ora si ponevano nuovi interrogativi. Si poteva definire già quella una scoperta, ma fortunatamente un ufficiale in
servizio in quella caserma intuì che ci doveva essere dell’altro e decise di intraprendere delle vere e proprie indagini che sono
andate oltre quell’iniziale ritrovamento,
documentando la successiva individuazione delle altre pareti perimetrali della tomba e del tipo di fondamenta, studiando la
tecnica costruttiva di quel che è rimasto
della volta e di altri particolari probabilmente attinenti alle successive fasi di
riutilizzo. I risultati di tale indagine sono
stati, da recente, presentati in un libro del
dottor Corrado Rubino, dal titolo “Il sepolcro inaccessibile” e pubblicato dalla
Mare Nostrum Edizioni. L’autore del libro è un ufficiale dell’Esercito, studioso
di topografia antica e in servizio presso la
caserma “Santangelo Fulci”.
L’efficace titolo del suo volume fa riferimento alla particolare collocazione del
monumento in quanto si trova proprio
nel cortile interno della caserma intitola○
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ta alla Medaglia d’Oro catanese “Antonio Santangelo Fulci” e quindi la sua fruizione, nonostante la piena disponibilità
sempre dimostrata da parte dei vertici
militari, non è certamente immediata (ma
del resto, a Catania, neanche i monumenti cosiddetti aperti al pubblico sono facilmente visitabili).
È l’annosa storia dei beni culturali che
ricadono in aree di proprietà private o in
aree di demanio militare. L’autore del libro vuole contribuire a rendere “meno
sconosciuto” ai catanesi questo grande
monumento e a fornire agli studiosi, che
lo hanno identificato come tomba romana, gli elementi per poterlo inserire nei
contesti topografico, archeologico e storico della città. Purtroppo, la natura
episodica delle notizie sulle aree di
necropoli attorno alla città antica, la loro
non omogeneità e la persistenza dell’insediamento urbano moderno su quello
antico, sono stati fattori negativi per gli
studi archeologici e topografici che appaiono ardui anche per altre aree del tessuto urbano. Proprio in quest’area, a
nord-est di piazza Stesicoro, gli interventi urbanistici ed infrastrutturali della città sono stati di notevole entità sia per la
grande superficie interessata che per la
profondità. Lo studio di questo grande
monumento funerario della Catania romana è stato affrontato con metodi moderni, il più possibile basati su criteri di
oggettività documentaria. In questo ambito particolarmente importante è il rilievo completo e l’analisi tecnica del monumento, prima mai realizzati, che costituiscono la base di uno studio che amplia il campo di indagine, prendendo in
considerazione l’intero settore nordorientale della città antica e considerando i rapporti tra necropoli ed area urbana. L’accurato studio della tecnica edilizia consente inoltre di avanzare ipotesi sulla tipologia e sulla discussa cronologia del
monumento, di cui viene proposto un
inquadramento cronologico nell’ambito
della metà/seconda metà del II secolo
d.C., (cioè tra gli imperatori Marco
Aurelio e Settimio Severo) rigettando finalmente e conclusivamente qualsiasi riferimento all’età arcaica ed al poeta
Stesicoro, vissuto circa 560 anni prima
della morte di Cristo.
M.P.
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si tratta di uno
dei monumenti
sepolcrali più
grandi e meglio
conservati della
città, che
tradizionalmente
viene identificato
come tomba
del poeta greco
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Cultura
Sul palcoscenico la lingua siciliana
La seconda Rassegna teatrale contemporanea
in lingua siciliana è stata un successo, con venti compagnie e associazioni che hanno portato in scena i testi classici del repertorio in
lingua siciliana: da “U sapiti com’è” a “San
Giovanni decollato”, da “Mprestimi a to
muggheri” a “L’eredità dello zio canonico”,
tanto per citare alcune opere che vengono
riproposte sempre con successo da decenni
da compagnie amatoriali e di attori professionisti. Non si è trattato solo dell’offerta di
un cartellone teatrale ma di una operazione
culturale a tutti gli effetti che ha evidenziato,
soprattutto alle nuove generazioni, l’importanza del patrimonio linguistico siciliano e,
quindi, di una peculiarità culturale e storica
dell’Isola del Sole. Una manifestazione, quella allestita dall’assessorato provinciale alle Politiche culturali, che ha registrato il pubblico
delle grandi occasioni, con circa mille spettatori per ognuna delle 28 serate in calendario:
un ottimo viatico perciò, verso la valorizzazione di un teatro sottovalutato e spesso
emarginato, ma che ha confermato gli altissimi indici di gradimento di pubblico e critica.
Un teatro amatoriale, a volte ingiustamente
considerato minore, al centro di una vera e
propria “operazione dignità”, grazie alla quale le rappresentazioni in lingua siciliana e, in
generale, le tradizioni culturali della provincia etnea hanno riconquistato un posto di primissimo piano. Nell’ambito del cartellone,
anche una iniziativa particolare dell’assessorato alle Politiche culturali che ha voluto promuovere e valorizzare l’arancia rossa, uno dei
prodotti tipici locali maggiormente rappresentativi: in un tripudio di gusto e profumo
di agrumi, all’ingresso del padiglione C1 del-
Ci vediamo
a teatro!
Ni viremu o
tiatru!
Questo l’invito che
l’Amministrazione
provinciale
ha rivolto
al grande pubblico
che segue
con affetto
e attenzione le
manifestazioni
al Centro
Le Ciminiere,
confermatosi
davvero come la
“casa degli artisti”
provenienti
da tutto
il territorio
provinciale.
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le Ciminiere, l’invito a “nutrirsi” non solo di
cultura ma anche dei sapori del territorio
etneo, baciato dalla natura in termini di produzioni di eccellenza. E, al termine della rassegna, attestati di partecipazione per le compagnie e le associazioni impegnate nella
riscoperta della lingua e della tradizione siciliana. In ordine, hanno proposto spettacoli
l’associazione Suggestioni Ansonica (Catania)
“L’aceddu ‘nda jaggia”; Tre Fontane (Piedimonte) “U sapiti com’è”; associazione Caf
(Aci Catena) “Liolà” di Luigi Pirandello; compagnia Capuana (Paternò) “A famigghia
difittusa”; Dolci e Gabbati (Catania) “Che
sera stasera”; La casa di creta (San Pietro
Clarenza) “I cunti de ciancianeddi”; gruppo
teatrale Magma (Catania) “A ricchizza di
Peppe Nappa”; Città teatro (Biancavilla) “I
turchi” di Pippo Marchese; Ars Comediaque
(Aci S. Antonio) “Dyscolos” di Menandro;
Anspi Odeon (Gravina) “Giovedì dalle dieci
a mezzodì”; Cgs Karol (S. Gregorio) “Glauco”
di Luigi Pirandello; Animosa e Ambrosiana
(castiglione) “I due gemelli” di Plauto; gruppo Campagna (Catania) “L’isola del sole”; Dimensione Scena (Catania) “Cuntu di la Sicilia”; Res Nova (Aci Castello) “I promessi sposi” adattamento di Aldo Lo Castro; associazione Pennino (Calatabiano) “Cercasi jennuru
disperatamente”; associazione Musco
(Fiumefreddo) “Mprestimi a to muggheri”;
Sotto il tocco (S. Giovanni La Punta) “Tuoni, fulmini e saette” di Carlo Mangiù; Girovaghi (Giarre) “Il fumo negli occhi”; Filodrammatica Grasso (Aci Catena) “L’eredità
dello zio canonico” di Russo Giusti; associazione Parisi (Macchia di Giarre) “A caccia du
cumpari”; associazione Gli Etnei (Catania) “
Miseria e nobiltà”. La seconda edizione della
Rassegna teatrale contemporanea in lingua siciliana ha previsto anche momenti dedicati
ai bambini, con spettacoli e animazioni pensati proprio per loro: la variegata offerta è stata
premiata con una ottima affluenza di pubblico che ha conosciuto o ritrovato sul palco delle
Ciminiere gli attori più o meno famosi che
calcano le scene in giro per i centri della Sicilia. Un modo nuovo e diverso anche per questi ultimi per dialogare con il pubblico e stabilire un legame che, per i contenuti e il valore intrinseco, rappresenta un innovativo patto artistico e culturale.
M. P. di S.
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Il fascino del cantastorie
custodito in un museo
Una Sicilia dimenticata e per certi versi
sconosciuta alle nuove generazioni, la Sicilia cioè dei Cantastorie, torna prepotentemente alla ribalta grazie a due iniziative di pregio portate avanti con lungimiranza dalla Provincia di Catania tramite
l’assessorato alle Politiche culturali.
Due operazioni strategiche: vediamole nel
dettaglio. La prima ha portato
all’acquisizione delle opere del maestro
Francesco Trincale, originario di Militello
Val di Catania, ma conosciuto dal grande pubblico soprattutto per la sua attività artistica a Milano, dove ha fatto conoscere la tradizione della sua terra attraverso quest’arte popolare e che, proprio
recentemente, ha ricevuto il vitalizio straordinario da parte dello Stato.
La seconda è l’avvio dell’iter per la costituzione del Museo del Cantastorie a Riposto, grazie ad una sinergia della Provincia con la locale Associazione Il
Cantastorie, che ha la sua punta di diamante nel noto cantastorie Luigi Di Pino,
e il comune marinaro.
L’idea forte, nel primo caso, è quella di
realizzare un museo stabile del vasto archivio storico delle opere collezionate dal
maestro Trincale durante l’arco di circa
50 anni di attività nel mondo e già acquistate dall’Ente. La collezione comprende i cartelloni dipinti con i protagonisti delle storie narrate, la versione
discografica delle ballate che accompagnavano le immagini e la chitarra che le
musicava, la documentazione cartacea di
elaborazione dei testi, la rassegna stampa
sull’opera e l’attività del cantastorie, i supporti sui quali stendeva nelle piazze le tele
coloratissime.
La storia della Sicilia e dei Siciliani raccontata così attraverso le canzoni e la poesia del maestro Trincale: la tradizione e
l’arte popolare diventa uno strumento
magnifico per la riscoperta, salvaguardia,
tutela e trasmissione alle generazioni future dell’enorme patrimonio culturale.
Un aspetto non trascurabile riguarda il
linguaggio: Trincale utilizza una costruzione e una impalcatura linguistica sem○
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plice, efficace, che arriva direttamente al
cuore e, quando utilizza la sua lingua natale, il Siciliano, riesce a trasferire ed evocare tempi e atmosfere ormai entrate nella storia. Un esempio per tutti è la
Barunissa di Carini. Negli anni 70
Trincale disegnò un cartello, volendo dimostrare, attraverso uno spettacolo appositamente proposto nelle scuole e nelle
Università, non solo la radice storica dei
cantastorie siciliani, ma a come essi si richiamavano alle storie leggendarie e
passionali.
Partendo appunto dal 1600, quando nel
feudo di Carini del barone di Palermo
Cesare Lanza accadde il fatto, ad oggi,
mettendo in “parallelo” questa storia della Barunissa di Carini, con la ballata della principessa Diana, composta da
Trincale subito dopo la morte di Diana e
Dody Al Fajed, si può vedere come prevalgono gli stessi intrecci e sentimenti,
fino ad arrivare alle morti misteriose.
La vita e l’opera di Trincale costituiscono
un percorso così importante da essere
oggetto di tesi di laurea in Lettere da parte di Lorenzo Raimondi, laurea conseguita alla Statale di Milano.
Per quanto riguarda il Museo del
Cantastorie, esso rappresenta un ottimo
punto di partenza per tramandare alle generazioni future i contenuti prestigiosi e
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Il “vecchio”
Franco Trincale
e il “giovane”
Luigi Di Pino,
protagonisti di
un originale
progetto
voluto
dall’Amministrazione lombardo
per dare un
futuro ad una
tradizione
secolare
Luigi Di Pino
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Cultura
autorevolissimi di cultura popolare, oggetto di studio e interpretazione da parte
dei tanti e bravi cantastorie della fascia
jonica.
Riposto, culla dell’indimenticato Orazio
Strano rende così omaggio all’arte del
“cuntare” e ai “cunti” popolari, grazie ad
un progetto che vedrà allestire presso il
prestigioso Palazzo Cosentino il fondo del
nuovo museo, interamente dedicato ai
grandi maestri siciliani.
Grazie ad un accordo con l’Associazione
“Il Cantastorie” che possiede una quantità straordinaria di materiale, la Provincia e il Comune hanno dato vita a questo
progetto che permette di conservare nel
tempo, anche con una forte valenza didattica, l’epopea narrata dai cantastorie.
La complessa operazione, com’è stato già
annunciato, parte dalla realizzazione di
una mostra permanente per poi approdare allo status di Museo, magari
attingendo economicamente anche ai
fondi Por 2007-2013.
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«Faccio appello a quanti hanno delle testimonianze dei cantastorie – ha commentato il cantastorie Di Pino – per eventuali donazioni o prestiti in maniera tale
da implementare costantemente questo
museo che appartiene alla collettività non
solo ripostese, ma di tutta la Sicilia. I
cantastorie possono essere richiamati come
i veri primi “giornali” dell’epoca con la
capacità di trasferire ad un pubblico vasto
e popolare fatti e storie che hanno da sempre colpito l’immaginario collettivo».
Con queste due percorsi la Provincia Regionale di Catania implementa l’offerta
museale nel territorio, grazie ai blasonati
musei dello Sbarco e del Cinema, ospitati al Centro Le Ciminiere e agli altri siti
espositivi presenti in diversi comuni, sia
del Calatino sia dell’area pedemontana.
Una Provincia, quella etnea, che si conferma così straordinaria culla culturale nel
bacino del Mediterraneo.
Marcello Proietto di Silvestro
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I martiri catanesi del 1837
Si immolarono per la Patria, o, se vogliamo, per quella voglia Autonomia alla
quale i siciliani hanno sempre aspirato. Il
pensiero corre inevitabilmente verso la
storia. I fatti a cui ci riferiamo, riguardano una delle pagine più nere, cruente e
controverse ch storia patria ricordi. L’arresto e la fucilazione degli otto patrioti
catanesi colpevoli di aver proclamato,
nell’agosto del 1837, l’indipendenza della Sicilia dai Borbone. Una storia di tradimenti e contro tradimenti, maturata in
pochi mesi: da giugno al settembre del
1837. Alla fine, gli otto martiri pagarono con la loro vita un desiderio di autonomia. Le fucilazioni vennero eseguite in
due diversi momenti sotto la facciata est
del Palazzo Reburdone: L’8 e il 16 settembre del 1837, come ricorda la lapide
fatta apporre in epoca post-unitaria nel
luogo dell’eccidio libertà che era stato
condiviso e appoggiato da altri; gli stessi
che alla fine, per timore, o per bieco opportunismo, si tirarono clamorosamente
indietro. Nel corso di questi eventi rivoluzionari, I nobili catanesi ebbero un ruo-
A 171 anni
dai fatti,
è ancora viva la
memoria di
quell’evento:
non soltanto
perché in città
fu il primo
tentativo
rivoluzionario
a favore del
Risorgimento,
quanto, invece,
per il suo triste
epilogo
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lo di primissimo piano e, purtroppo, in
questo caso, per niente positivo. Negli
anni dei primi fermenti risorgimentali,
anche a Catania si andava diffondendo la
carboneria. Nel 1812 era stato concesso
ai Siciliani di godere di un proprio Parlamento, ma fu un’esperienza di breve
durata. Esponenti della borghesia e nobili, cominciarono così a riunirsi. In particolare, il nobile Salvatore Tornabene nel
suo palazzo di via Ogninella, raccolse un
gruppo di giovani e professionisti che a
vario titolo risultavano inseriti nel tessuto produttivo della città. Frequentarono
la casa del Tornabene, tra gli altri: Diego
Fernandez, Giovan Battista Pensabene,
Salvatore Barbagallo Pittà, Giacinto Gulli
Pennetti, Gabriello Carnazza, Giuseppe
Caudullo Guarrera. Ogni pretesto risultò buono perché un semplice fermento
si trasformasse in rivoluzione. L’occasione giusta capitò allorquando a Palermo
scoppiarono i primi casi di colera. Si sparse la voce che erano stati agenti borbonici
a infettare volutamente la popolazione.
Lo stesso successe a Siracusa. Qui addi-
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Cultura
rittura, dopo un pubblico manifesto
accusatorio firmato del barone Pancali,
alcuni soldati borbonici vennero barbaramente trucidati dal popolo, “perché si disse - colti sul fatto”. A nulla valse la
istituzione della commissione di vigilanza sanitaria proposta dall’istrionico Intendente della Provincia, principe di Manganelli. Di questo organismo, fecero parte anche il procuratore generale della Gran
corte civile Paolo Cumbo, il marchese di
Sangiuliano, Diego Fernandez, Gabriello
Carnazza e Salvatore Tornabene. Fu l’Intendente in persona a volere inserire anche esponenti civili, e ciò allo scopo di
far tacere chi aveva già avviato la caccia
all’untore. Bastò la notizia, poi rivelatasi
falsa, dell’insurrezione di Messina, per
innescare la rivolta (questa volta vera) a
Catania. La notte del 29 luglio il marchese di Sangiuliano seguito da un nutrito gruppo di uomini, al bagliore delle fiaccole e delle luminarie accese in ogni angolo delle strade,si recò dal comandate
borbonico Santaniello per chiedere la
consegna della guarnigione. Lo stesso capo
militare venne rinchiuso all’interno del
castello Ursino. L’ira popolare si sfogò abbattendo gli stemmi reali dei pubblici edifici e la statua di Francesco I ubicata a piazza degli studi (Odierna piazza dell’Università). Compiuta la prima fase senza eccessivo spargimento di sangue, venne rapidamente costituita una Giunta della
quale, oltre a esponenti della nobiltà, fecero parte i liberali più oltranzisti.
I rivoltosi tentarono di sollevare anche i
comuni vicini, ma la risposta fu alquanto
tiepida. Acireale che vantava la massima
lealtà alla Dinastia, oppose dura resistenza. Per quanto la situazione fosse ormai
sotto controllo dei rivoltosi, nell’aria cominciarono a serpeggiare strani timori. Il primo fu la temuta reazione da parte del sovrano. Ferdinando II seguì con la attenzione l’evolversi della situazione in Sicilia. Poi
ci fu da considerare l’enigmatico atteggiamento della nobiltà che se da un lato aveva
appoggiato le operazioni d’attacco, dall’altro si mostrò esitante rispetto al totale compimento del progetto rivoluzionario.
Un filo conduttore sembrò legare le due
questioni, e la risposta non tardò a venire. L’annunzio che il ministro generale
della polizia borbonica Del Carretto sta○
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va per salpare da Napoli alla volta di Palermo con un nutrito contingente di uomini, gettò il popolo nel panico. Il principe di Reburdone, d’accordo col Manganelli, il marchese di Sangiuliano e altri
membri della giunta provvisoria, improvvisamente cambiarono rotta; scesero nuovamente in piazza: questa volta i bersagli
furono gli stessi liberali coi quali, appena
pochi giorni prima avevano combattuto
fianco a fianco contro l’oppressore. Si trattò di un tradimento vero e proprio, che
si trascinò dietro la folla di tutti quei cittadini che non avevano mai visto di buon
occhio la rivoluzione. I ribelli più
oltranzisti vennero ammanettati, torturati
e incarcerati. Più tardi, sarebbero stati
consegnati alle autorità borboniche nel
frattempo riinsediati d’imperio dal Dal
Carretto. Il capo della polizia scese da
Palermo a Catania senza sparare un colpo, accolto quasi come un “liberatore”.
In poco meno di un mese fu imbastito il
processo ai rivoltosi che si celebrò nel
Reale Collegio Cutelli. Il verdetto fu terribile: Il letterato e noto giornalista Salvatore Barbagallo Pittà, l’avvocato
Gaetano Mazzaglia, Giovan Battista
Pensabene, Giacinto Gulli Pennetti, Giuseppe Caudullo Amore, e i commercianti Giuseppe Caudullo Guerrera, Angelo
Sgroi e Sebastiano Sciuto, vennero condannati alla fucilazione. Per molti altri le
pene variarono a diversi decenni di carcere duro. Pochissime le assoluzioni. Alcuni rivoltosi, tra cui il Fernandenz, per
salvarsi la vita, furono costretti all’esilio.
Santo Privitera
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Le fucilazioni
vennero eseguite
in due diversi
momenti sotto
la facciata est
del Palazzo
Reburdone:
L’8 e il 16 settembre
del 1837,
come ricorda
la lapide fatta
apporre in epoca
post-unitaria
nel luogo
dell’eccidio
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Catania PROVINCIA Euromediterranea
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La “tomba di Stesicoro” nascosta nel convento