Non invoco al mio canto Ettore, o Clio Nè la dotta Calliope, o Melpomena, Nè men soccorso chieggio al biondo Dio Che co suoi rai m’infonda larga vena Voi supremo Monarca, e giusto, e pio Prego, date al mio petto forza, e lena, Possa cantar vita, martirio, e morte Di Cristoforo Santo invitto, e forte. Se l’arte avessi, e il saper di quei dui; Che al suo nome la fama il ciglio inarca, L’un sormontò alle stelle, e i regni bui Tutti spirò senza passar la barca; Quel che tanto risaltò co’ versi sui La donna sua che gl’involò la parca, Poco, o nulla direi di si gran Santo, Benche avessi d’Anfion la cetra, o il canto Tu cavalier di Cristo, suo campione Sprezzator della morte, e dei tormenti Che trionfando in quell’alta magione Ti specchi in fronte al ver Dio delle genti, Godi tra quelle angeliche legione Le celesti armonìe, gli eterni accenti, Accogli da un vil servo tuo divoto Gli umili versi miei, che t’offro in voto. Fu eroe cananeo per quanto ho visto Scritto in quella reproba nazione, Di quella Cana, che conobbe Cristo, Ma incapace di fede e religione, Uom più feroce al mondo non fu visto Quasi di forte superò Sansone Terribil fu di aspetto, e di gran core Col guardo a Marte posto avria terrore. Serviva in corte il cavalier pregiato Di cana il Re infedel con sommo onore, Ed era da ciascun temuto, e amato Per l’estrema bellezza, e il gran valore, Udì, che in parte lungi, e alieno stato 3 Si trova un Re a questo superiore Di forze, disegnò da quel partire, Ed a questo gran Re voler servire Era sto Re magnanimo, e cortese, Il cavaliero accolse in lieta cera. Dominava ampj regni, e assai paese, La fè seguia di Cristo, e santa, vera, E per Gesù molte guerre intraprese Contro gente idolatra, iniqua, e fiera, Tanto amava Cristoforo di core, Che seco lo bramava a tutte l’ore. Fece un giorno sto Re una gran festa Con suoni, e canti di grata armonia, Per sollevarla, mentre ordinò questa, E invitò il fior della sua baronia Sedea pomposo col diadema in testa, Al suo canto Cristoforo assistia, Fra quelle degne, e divote canzone Spesso il nome s’udia del fier dragone. La mano in fronte subito ponea: Col segno della Croce si segnava Il saggio Re, Cristoforo vedea, Ma non sapendo quel che dinotava, Che il lume della fede non avea Si accostò al Re, cosi li addimandava Cosa vuol dir Signor quando sentite Tal nome vi segnate, e impallidite? Rispose il Re, ch’era pien di bontade, Sai perchè mi armo Cristoforo mio Col segno, che Gesù per sua pietade Lasciò qui in terra l’amoroso Iddio, Che il rio demon con la sua falsitate Si disperda da me vada in oblio, Son tante le sue insidie, e di tal sorte, Temo gl’inganni suoi più della morte Cristoforo rispose con ardire Tanta possanza ha sto rio demonio fiero, 4 Di dar spavento a voi mio degno sire Che di tante provincie avete impero? Forzato son da te voler partire, S’io credessi cercare il mondo intero, Quando stende la terra e abbraccia il mare Vuò sto diavol servir, seco vuò stare. Senza punto indugiar comiato prese Dal Re qual n’ebbe sommo dispiacere Caminando deserti e stran paese, Abitato da mostri, e orribil fiere, Gli si fè incontro un che parea cortese, Di grave aspetto, e nobili maniere Era questo il demonio, e prese avea Forma di uom grande, e così li dicea Tempo e qui ch’io Cristofor t’ho aspettato Dal di, che tu bramast’esser de’ miei, Rispose il cavalier tutto turbato Dove me conoscesti, e tu chi sei? Pluto son io quel tanto nominato Principe dell’abisso, e saper dei, Ch’al tremendo mio nome la natura Paventa, il mondo, ed ogni creatura. Io te vado cercando, or sei tu quello, Che sol col nome empi di tema il mondo Fedele a te sarò più che fratello: Per tal ti accetto disse il spirto immondo Chiedi se sai quanto ha di buono, e bello La terra, e il mar dentro al suo sen fecondo, Farò siano a’ tuoi cenni obbedienti Il fato, la fortuna, e gli elementi. Veggio che sei magnanimo, ed in vero Il tuo parlar cortese assai mi aggrada, Ti giuro in realtà da cavaliero Per te voglio impugnar sempre la spada Seguimi li soggiunse il spirito fiero Cosi ne gian per una larga strada, Che biforenta in due si dispartia 5 Di legno una gran croce ivi apparia. Dimmi disse il guerrier, che segno è quello Che mai tal cosa vidi in vita mia, Alzando l’occhio il spirto mio a Dio rubello Le spalle a un tratto alla croce volgia, Vomitò dalla bocca un mongibello Di fiamme, ed a Cristofor rispondìa Ahimè, che persi la fatica, e il frutto, Forza m’ è qui che io ti dichiari il tutto Di Cristo il mio nemico ecco il gran segno Che mi forza e flagella a tutte l’ore Volle morir sopra quel duro legno, Per aggiungere a me pena, e dolore, Adunque Cristo è uom di te più degno, Mentre l’insegna sua ti dà terrore Si dicea il cavalier te ne puoi ìre, Io ti lascio e a Gesù voglio servire. Nel sentir tal risposta il maledetto Gettò un urlo tremendo, e disperato, Precipitossi con ira e dispetto Nel cieco abisso schernito, e beffato Di lì partissi il cavalier perfetto Caminò molti dì stanco e affannato, Giunse alfin dove stava un’eremita Di costumi innocenti e santa vita. A quell’aspetto indomito e feroce Restò quasi il romito spaventato, Fecesi a un tratto il segno della croce, E con stupore lo tenea guardato: Lo salutò Cristoforo con voce Benigna, non temer perch’io sia armato: Son uomo anch’io, benchè a te paja grande, Dimmi, se abita Cristo in queste bande. Sentendo il solitario nominare Cristo fonte di nostra salvazione Chi sia Gesù figliuol ti vuò narrare Cominciò a farli un alto e bel sermone 6 Stava il gueriero intento ad ascoltare Di Dio le sante, e divine ragioni, L’amor, che fe calar dal cielo in terra, Per salvar noi dare all’inferno guerra. Dissegli poi la gloria dei Beati, Che il buon Gesù comparte nel suo impero, Quali siano le pene dei dannati, L’orme seguir del mondo mensognero: Poi li soggiunse e di mestier che pati, Domi te stesso e il senso lusinghiero Adorando con digiuni e se ciò farai Questo Cristo che brami tu vedrai. Padre rispose il forte cavaliero, Credo con viva fede a ogni tuo detto, Con animo costante e cor sincero Voglio Cristo servir con puro affetto, Ma troppa penitenza hai dico il vero, Che tu m imponi e farla non prometto Costumato io don tal cosa fare, Di stare in ginocchion, nè digiunare. Il santo vecchio subito rispose, Se proseguir vorrai l’eterna gloria, Dici non poter far ciò, ch’io t’impose Ora t’ho da insegnar più materia Spine a te sembran, ma poi saran rose E di te lascerai santa memoria, Mira il gran fiume Nil che di qui appare Come orgoglioso dà tributo al mare. Giungon là pellegrin da molte bande Come ciascun li guida sua ventura, Largo il fiume e il suo letto, il corso grande Nessun varcarlo a piè quel s’assicura Or tu, che sei di forze si ammirande, Non d’uom ma d’un colosso è tua statura, Stabil tu sei di prender tale incarco, Quelli passar dall’uno all’altro varco. Se ciò farai con carità, ed amore 7 Tal opera a Dio darai sommo cnntento . Questo farò rispose di buon cuore Mentre il tutto sia a Cristo in piacimento, L’impiegherò mie forze a tutte l’ore Non cnrerò piogge, tempeste, e vento, Passerò chi vorrà le torbid’acque, Che di giovare a tuoi sempre mi piacque. Tu che fai qui si riggida astinenza, Prega per me il Signor, che mi dimostri La via dell’umiltà, della pazienza, Mi faccia cittadin degli alti chiostri; Dal buo romito poi prese licenza Giunto al gran fiume, qui depose gli nostri L’armature dich’io fregiate d’oro Qual portava per pompa, e suo decoro. Su in piccol colla del fiume alla riva Fabricossi una cella; e li si stava , Qualunque passeggier che li veniva Sopra le spalle sue tutti passava Un smisurato abate in man stringeva Il gran corso dell’acque superava, Appunto a proporzion di sua statura Ventidue palmi era alto di misura. In opra così pia, e gradita Cristofor i suoi giorni ne menava, Quel Cristo sommo ben, bontà infinita Sempre nella sua mente contemplava; Stando una notte in sua cella romita, Udì una voce che a se lo chiamava, Vien Cristoforo per l’amor di Dio Passami tu che puoi di là dal rio. Sbalzò fuor della cella in un momento. E con l’orecchie innante l’ascoltava, Dove venia tal voce e tal lamento, E inverso il fiome subito calava Era turbato il Ciel con tuoni e vento, Che un orribil tempesta minacciava, 8 Varcò dall’altra parte: e li vedea Un piccol fanciullin, che l’attendea Figlio qual rio accidente or qui ti mena In si tard’ o re e in tempo spietato, Chi ti guidò su questa molle arena, E come dalle fiere sei scampato! Uom se vuoi far mia voglia sazia, e piena Passami, e non tardar dall’altro lato, Posto che tu m’avrai sul’altra via, Io ti farò saper quale mi sia. Sopra le forti spalle si ponea Il fanciul per condurlo all’altro varco, Prodigioso portento allor vedea Gonfiarsi il fiume, e crescerli l’incarco: Quasi alla gola l’acqua li giuugea ; Piegavasi il basto a guisa d’arco; Alfin tanto adoprò sua forza, ed arte, Che salvo lo condusse all’altra parte. Pose il fanciullo a terra in sul sentiero, Con gran stupor volgendo a lui la fronte; Nel passarti figliuol, diceagli in vero Parvemi aver sulle mie spalle un monte Poco un monte diss’io ma un mondo intiero Rispose il bel fanciul con voglie pronte, Nè il mondo sol sopra di te hai portato, Ma ancor’ il suo creator, che l’ha creato. Sappi che Cristo io son, il Verbo Eterno Che bramasti veder con tanto ardore, In croce io trionfai di morte, e Inferno, Sgombrai dal mondo cecità, ed errore, Calato or son dal mio soglio superno, Venni teco a scherzar con tanto amore, Quanto di starno hai visto tu in essenza Faccio per dimostrar la mia potenza. Basti finor che qui sei dimorato Sotto si laboriose e gravi some. Nell’eterna mia mente ho decretato 9 Farti predicator del mio gran nome, Sublime sede in Ciel t’ho preparato, Gir ti convien tra gente inique, indome, Li soffrirai strazj tormenti e morte, Per giunger lieto poi nella mia corte. Gente infinita a me convertirai, Che nell’idolatria sommersa or giace, E che sia il ver qui in terra pianterai Il baston con tua man forte e tenace. Tutto fiorito a giorno lo vedrai Ti lascio in Ciel t’aspetto e resta in pace Sparve il Signor, più ratto che baleno Tornò l’aria tranquilla e il Ciel sereno. Ecco che a nome tuo mio Redentore Pianto la verga, e quanto hai detto sia, Faccia sto secco legno il frutto e il fiore Così fiorisca in voi l’anima mia; Della notte avanzava ancor due ore Tornò in cella a posar finchè apparia Sul celeste balcon dell’Oriente La foriera del dì alba ridente. Sparver la stella in Ciel co’ suoi splendori Ch’ormai col carro d’or giungea l’aurora, Lieta venia spargendo rose e fiori, Di porpureo colore il cielo indora Cristofor sorge al par coi loro ardori Con suo stupor mirò quel tronco allora. Qual poc’ anzi piantò arido e asciutto, Carco di vaghi fior, di fronde e frutto. Dopo aver mille volte e più baciato La pianta da quel loco ei fa partita Gir dove il Ciel l’avea predestinato, Sacrificare a Dio l’alma, e la vita, Nel gran regno di Licia fu arrivato In Samo città nobile e fiorita, Colma d’ogn’arteillustre , e di ogni ingegno Sdeeva capo e metropoli del regno I0 Era di Licia assoluto Signore Un uomo crudel che Degno si nomava Fù dei cristiani un fier persecutore Nell’empia idolatria sommerso stava, Sentì il Santo in la piazza un gran rumore Turba infinita e con orror guardava, Che il crudo Re con tormenti inumani Facea martirizzar molti Cristiani. Spintosi avanti a quelli alzò la voce Anime avventurose or non temete Sti crudi assalti e questa pena atroce Coronate di palme oggi sarete Versate il sangue per chi lo sparse in croce Che per l’eternità giubilerete, A se Cristo vi chiama in canto e tn riso Le delizie a goder del Paradiso All’improvvisa voce a tal sermone Il popol tutti intento il rimirava A molti penetrò tal orazione, Altri per uomo pazzo lo stimava, Si pone il santo in terra in ginocchione Spirami tu Signor nella mia mente Che possa predicar a questa gente. Sentissi a un tratto il cor tutto avvampato Di Spirito Santo e di celeste ardore Subito in piedi allor si fu drizzato, Si pose a predicar con tal fervore Nuovo Paolo parea dal Ciel calato Usciagli dalla faccia un gran splendore Piantò in terra il baston che in mano avea E al popol infedel così dicea. Gente di Samo che con odio e rancore I seguaci di Cristo trucidate A voi mi manda qui suo ambasciatore Che la sua santa legge voi accettiate Per darvi luce, e a Gesù gloria, e onore II Comando questo legno il qual mirate Che in virtù di quel Dio che puote il tutto Qui produca in un punto, e fiore e frutto. Il baston che pria secco, e inaridito In un punto cangiò scorsa, e colore, Si convertì in un albero fiorito, Meraviglie inaudite e di stupore, A tal prodigio il popolo atterrito Pietà chiedea a Dio con gran dolore Dieci mila persone ei fece acquisto In quel primo sermon, dandole a Cristo. I sozzi sacerdoti al re n’andorno Pieni d’astio, di tosco inviperiti, Contro del Santo così favellorno, Giunto è un falso cristiano in questi liti Predica il tristo culto a onta, e scorno De’ nostri Dei gran gente ha convertiti E se scandolo si grave or non provedi, Nostra legge è caduta e tu lo vedi Non so se colaggiù nel cieco averno Il trifance Latrante incatenato, O pur la nei rigor del crudo verno, Borea soffiò si orribile è spietato Tal sembrava il tiranno e nell’esterno Mostra quanto abbia il santo predicato Comanda, e dice or fate, che il fellone Avanti a me, condotto sia in prigione. Spedisce un stuol di cento armati fanti, Giunto la dove il Santo predicava Con veri esempj e documenti santi Quei novelli cristiani ammaestrava, Si fece il capo di quei sbirri avanti Al Santo, e in cotal guisa gli parlava, Qui per ordin del Re venuti siamo Che avanti a lui menar noi ti dobbiamo Son sempre pronto il vostro Re obbedire Rispose il santo, adiamo allegramente I2 Ma se il Re di vedermi ha il suo desire Che occorrea qui mandar tanta gran gente, Che quando ancor non volessi venire Non temo le vostr’ armi ruginente. Seguite l’ordin regio in lieta pace E voi fate di me quel che vi piace. Come fieri ministri si avventorno Al servo di Gesù senza pietade Con urti e pugni in tal guisa il pestorno Come fa agricoltor le secche biade Avanti al crudo re tosto menorno, Sedea nel trono in regia maestade Restò il tiranno attonito, e ammirato Vadere un uom si grande e smisurato. Come io già dissi il barbaro sedea, Pluto in mezzo alle furie rassembrava, Molti Satrapi intorno al seggio avea Con torbid’occhio il santo rimirava, La destra al fiero mento si tenea La lunga e folta barba si lisciava, Dopo alquanto tener le luci fisse, Ruppe il grave silenzio e così disse. Dimmi, d’onde ne vieni e dove vai, Com’è il tuo nome, e di qual parte sei, Che i regni sollevar così ben sai Sedur le genti e schernir nostri Dei, Chi fu, che a far t’indusse, e come mai, Ardisti tu contro gli editti miei Venir a predicar dentro di Samo Di Cristo il culto il qual noi sempre odiamo Alza la fronte e al re risponde e dice Il Santo Cavalier con volto audace, Dove io ne venga il dire a me non lice. E là n’andrò dove al mio Cristo piace; Cristoforo m’appello, anch’io infelice Fui mentre vissi in tenebre fallace In abisso sepolto oscuro e nero, I3 Come sei tu che non conosci il vero Cananeo son dì schiatta e non venn’io A sollevarti il regno come dici, Bensì a mostrarti in che stato empio, e rio Giaci tu coi tuoi popoli infelici, E perchè crudo sei, rubelle a Dio, Poichè tanto perseguiti i tuoi amici Acciò tu lasci, hammi Dio qui mandato. La tua perfidia, e il grave tuo peccato. Ripigliò il re con morbide parole, Dunque nascesti nel regno di Cana, Terra di quante illustra, e scalda il sole Non vi è di lei più fertile e più sana E che tu sii mia mente creder vuole Non di gente plebea, sozza, e villana L’aspetto tuo mi da argomento certo, Che tu sei cavalier dentro di merito. Poichè ti veggio, si forte, e membruto Bramo se vuoi, che meco or qui ti resti Sarai con ricchi don riconosciuto, A alto a me sedrai tu ancor fra questi Contro la nostra legge, e il mio statuto. Di lesa maestà tu m’offendesti, Pur ti vuò perdonar s’ora ti mostri Genuflesso a incensar gl’idoli nostri. Degli eserciti miei di terra, e mare Ti farò capitan dei capitani Con ampia potestà di comandare La verga ti darò colle mie mani Ma prìa vo che tu debba detestare La falsa, e sciocca setta dei cristiani; Se ciò neghi di far, far puoi disegno Di provar l’ira mia, ed il mio sdegno. Farò romperti l’ossa. e lacerarti Con dure verghe e pettini pungenti Gl’occhi e la lingua a forza sbarbicarti, Con tenaglie infuocate e ferri ardenti 14 Godrò cader semivivo sbranarti Da feroci Leon tigri e serpenti, Qual Fallari ed Atteo vieppiù crudele Sarò sempre a tuoi pianti, e tue querele. Sorrise il santo, è al tiranno rispose, Che il suo finto parlar tosto comprese, E disse a me proponesti assai cose, Or con fiere minaccie ed or cortese Cinsi la spada e ver ma la depose Che Dio chiamommi a più sublimi imprese Godrò il sangue versar, ne gia m’attristn Di morir da tue man per il mio Cristo. In van offristi a me ricchezze e onori, Perchè all’idoli tui perversi e infami Pieghi il ginocchio e riverente adori Pazzo se il credi, e da me questo brami? Che tardi a preparar crudi rasori Inventa aspri martir troncami i stami Che ad onta tua mi vedrai più costante, Tu un cor di tigre, e un petto di diamante. Ma quanto mi dispiace a te veder In man di Belzebù mostro d’averno, Stolto non vedi ti farà cadere In alma, e in corpo al precipizio eterno Del vero Dio, che le celesti sfere Regge a governa ti fai beffe e scherno A lui che ti creò volgi i tuoi sguardi, E no agl’altri idoli tuoi trtsti e bugiardi. Volea il Santo più dirgli, acciò il feroce Tiranno a Dio pieghi la dura mente Come un’aspido sordo in guado atroce Drizzossi in piè d’ira e di sdegno ardente Perdere questo, grida ad alta voce Sia chiuso in duro carcere dolente; Se sprezzò i miei favor provi il rigore Degli Dei nostri empio bestemmiatore. Corse al suo cenno allor la vil sbirraglia I5 Presero il Santo e con minaccie ed onte Come soleva far simil canaglia La faccia percuotendoli e la fronte Fra se pensò il tiran s’ ei puole o voglia Farlo cader prima che il sol tramonte Tentar vuol nuove insidie e nuove frodi Per far che dal suo Dio l’amore di snodi. A se chiamò due fide concubine Qual si servia ne’ suoi lascivi amori Loquaci nel parlar scaltrice e fine Di sua setta seguiano i falsi errori, Eran d’aspetto vago e peregrine Che mai tal pinse Apel coi suoi colori Vennero entrambi al Re con fronte lieta Una Aquillina fu; l’altra Niceta. Dissegli il tristo Re mie fide e amate Oggi in voi fondo ogni speranza mia A gran impresa io vuo che vi accingiate A pro di nostra legge e santa e pia Giunto è un gran uomo in la nostra cittate Di gran valor, d’estrema gagliardia Che lasciasse sua fe, perche è cristiano Lo tentai l’allettai, ma sempre invano La dove ìl tengo preso e custodito Gitene con bei modi e con destrezza, Con il vostro parlar dolce, e condito Arte e inganno aggiungerete alla bellezza Cercate indurlo all’amoroso invito, Forse gustando in voi simil dolcezza Facil sarà, che tale in pensier crede Lasci sua setta e abbraccia nostra fede Rispose prontamente, inclito Sire Per sì lieve cagion qui ci chiamasti A te stà il comandar: noi l’obbedire Come altre volte ben sperimentasti Adempito sarà ogni tuo desidere Quieta la mente e questo or tanto basti I6 Col tuo reggio favor Signor n’ andiamo, L’adescheremo come un pesce all’ amo. Di pomposi ornamenti si addobborno Le scaltre donne, e girno alla prigione Fra duri ceppi e folte guardie intorno Trovorno il santo stando in orazione Avido il guardo entrambe in lui fissorno Fingendo tenerezza, e compassione, E poi con un parlar plen di magagna Rivoltossi Aquillina alla compagna. Che farem noi cara Niceta mia Misere sconsolate, e derelitte, Piangerem qui la tua sciagura e mia Così immerse nel duol vinte e trafitte Soggiunse l’altra or segua sorte ria Che stanca non fumai nel dar sconfitte Mi sia propizio amor Giove il tonante Che in questa ria prigion trovo il mio amante Disse Aquilina or sarà mancomale Che tu vorrai rapirmi il mio amatore Sto tuo vano pensier metti in non cale Cangerem l’amistà in odio e rancore Vorrai tu qui mostrarti a me rivale Io che li conoscerei la vita il core Giuro di nò pel faretrato Iddio, Che Cristoforo ha da esser mio. Ben s’avidde Cristofor dell’inganno, Di tanta sfacciataggine, e il pensier loro. In faccia si velò di un bianco panno. Disse signor, che reggi il divin coro, Vedi in che laberinto, ed in qual danno Sia la mia vita, e in che strano martoro Queste rie donne impudiche e sfacciate Voglion che io perda in lor mia castitade Tu che il Quatriduan risuscitasti Maddalena drizzasti al ver sentiero La vedovella ebrea intatta serbasti I7 Dal superbo Oloferne iniquo e fiero Dalal falsa calunnia liberasti Il suo Gioseffo di virtù specchio vero Scampa me ancor signor, che a te conviene Dal canto de ste circi empie Sirene. Sol con il raggio tuo del bel sereno Poi mostrar tua possanza, e il tuo valore Non consentir mio Dio che adento freno Trabocchin l’alme al tenebroso orrore, Purga i lascivi cor l’impuro seno, E vibra un dardo del divino amore Confessin qui, si furono a te rubelle Te il vero Dio, lor tue umili ancelle. Pietà Signor de sto cerve smarrite Seguiva orando lacrimante e fioco, Resrar le donne attonite ammutite, Non osavan parlar punto nè poco Miranvansi l’un l’altra impallidite, Sentiansi liquefar da un dolce foco, Foco di fè, di carità, e d’amore, E prorupper piangendo in tal tenore. O uom non già mortal, ma ben divino, Che tal sei nel parlar noi ben vediamo Quel Dio somma Sapienza unico e trine Genuflesse pentite ecco adoriamo Gl’Idoli falsi, il senso empio, e ferino, Mondo, pompe, e ricchezze or detestiamo Che teco esser vogliamo fide consorte Nei martir nei travagli, e nella morte. Segua il tiranno barbaro e spietato Di arrotar ferri, e insanguinar la mano Ci dia morte, il morir sia dolce e grato Che per Gesù patir sempre vogliamo: Venne un ceffo di porco, un disgraziato Uom di quella carcere guardiano, Viste le donne fatte a Dio fedele, Corse a darne l’avviso al Re crudele I8 Ma chi potrebbe dir l’ira, e il dolore, Sentendo a Dio le donne esser converse Ben lo puoi giudicar saggio lettore D’un sanguigno rossor la faccia asperse, Ambi le man mordeasi per furore, In mar di crudeltà tutto s’immerse, E quelle sante donne avventurate A se le fe venir strette e legate. Ai perfide, e ribelle meretrici Così dunque da voi vengo schernito? Pessime maliarde incantatrici Da chi mi fidai più resto tradito: Presto porgete agl’Idol sacrificj, Se non tornate al vostro antico rito, Dal petto trarvi vuò l’anime fuore, Vive sbranarvi e divorarvi il core. Lascia, disser le donne, il tuo rancore. Signor agl’Idol tui tanto pregiatì Sacrificar vogliam con tal fervore Che mai si udì nei secoli passati; Fate adunar nel tempio a loro onore I principi, i baroni, e i magistrati, Riuscirebbe l’opra assai più buona Vi fosse ancor la tua real persona. Ben lo credè il tiranno empio e fellone Fa in un punto adunar la sua gran corte E nel tempio portarsi si dispone, E far condurre le donne saggie, e forte; Non restò cavalier, o pur barone, Cittadino o plebeo d’ogni vil sorte, D’ogni età, d’ogni sesso a quell’indizio, Anziosi di veder tal sagrifizio, Stava in mezzo al tempio un sontuoso Altar di ricche gemme e d’oro ornato, Di marmo vi era un grand’Idol famoso, Che Ostrogor in lor lingua era chiamato; un demonio infernal dentro era ascoso, I9 Dava risposte essendo interrogato, Con tal riputazion quel spirto indegno: Che adorato vania da tutto il regno Con intrepido cor pronta, e sicura Drizzossi in piè Niceta, e arditamente Da’ suoi fianchi si sciolse la cintura, Lanciolla al collo all’Idol di repente, E disse, mostro rio, che in tal figura Laido ti chiudesti e fier serpente Io spero in cristo oggi scoprir tuoi inganni E affascinasti noi tanti, tant’anni. Ti commando da parte di quel Dio da: a capov. Qual fulminotti dal celeste ospizio, Di signorsi fe servo umile e pio. Volle in croce morir con reo supplizio, Presto partì di qua demonio rio, Immonda arpia, sentina d’ogni vizio, Torna laggiù fra le tartaree schiere In eterno penar fra l’ombre nere. Crollò quel tempio, e tosto il terremoto Udissi allor per tutta la cittade, Stupito ognun restò fisso, ed immoto Con spavento, e terror tema e pietate Cadde precipitoso, e non a vuoto L’idolo, il spirto pien di falsitade Fuggì, lasciando oltre il comun terrore Fumo, vampa, fetor, pianto e stridore. Di nuovo il re vedendosi schernito , E l’Idol volle in pezzi sminuzzato, Contro le donne acceso e inviperito, Fremean d’ira, e di sdegno indiavolato; Orso parea dai cacciator ferito, Un’indominto toro entro il steccato, Che ne’ corni ha la morte, agl’occhi il foco Uguagliarlo a tai bestie io direi poco, Fë accender un gran fuoco in quell’istante Vi fe gettar Niceta con ruina, 20 Con catene di ferro aspre, e pesante Fe crudelmente batter Aquilina, O miracol di Dio: nemmen le piante S’ arse, e scottò quella donna divina: Stette cinque ore in tal fiamma penosa N’ uscì fresca e vermiglia come rosa. Soprafatto il tiranno, non per questo Lascia l’innata sua ferocitate, Voltossi ai manigoldi e disse or presto. Prendete queste inique e scellerate, Con spettacolo atroce, empio, e funesto Per tutta la città sian trascinate, Mi si tolga d’innanzi un tal pesta, Ad ambedue troncata sia la testa. Non ebbe appena la crudel sentenza Data il tiranno, a un tratto s’avventorono I tristi manigoldi e in sua presenza Per le mani e pei piedi ambo legorno, E con impeto fiero e gran violenza Per tutta la città le trascinorno Che a spettacol si fiero fin l’insensate Pietre di quelle vie n’ebber pietate. Giunte a loco festose, giubilanti, Sotto il gran taglio offrir le proprie teste Cadder recise si, ma in suoni e canti L’alme volaro alla magion celeste Ma tu, che temerario ognor ti vanti Saper di Dio gli arcani, or mira in queste Che avanti emuleggiar con Flora, e Frine, Or son spose di Cristo alte, e divine. Fece dunque il tiranno scarcerare Il Santo, e venire in mezzo a folte schiere? Fellon, disse, venisti a perturbare Ogni mostro contento, ogni piacere? Aspra vendetta sopra te vuò fare, Che n’apprendiam pietà l’ircane fiere E a forza di tormenti e gran supplici 2I Vuò ch’egli faccia all’Idol sacrificj Abbiate in odio il mondo, e la natura, Barbaro micidial, fiera spietata, Poichè di cristo la fè santa, e pura, Qelle due sante donne hanno abbracciata. Gli dasti morte cosi acerba, e dura, D’esser fin dalle tigri detestata: Sei indegno d’esser re, men d’esser uomo Perfido mostro, e scellerato uomo A si fatta risposta il fier tiranno Die di piglio alla barba, e con tormento Tanta se ne carpi con duolo, e danno Che fe la man barbuta, e calvo il mento Percuoteva col piede il regio scanno Bestemmiava se stesso ogni elemento Fece nudo cristoforo spogliare E a una dura colonna il fè legare. Da quattro manigoldi di gran lena, Con gran verghe di ferro arroventate Batter lo fè, che non ho spirto appena In volerti narrar tal crudeltade; Il sangue uscia da ogni piagata vena Ai colpi dell’orribili sferzate, Perche dove arrivava una di quelle L’osso frangea le carni e la pelle. Stancati i manigoldi in tale offizio, Ma non sazio il tiranno a tormentare, Preparò poscia un più crudel supplicio, Fece una grand’incudine arrecare Tutta infuocata, ed ho fier giudizio, Per farlo sopra quella indi assettare Ed un’elmo scaldar fè con tempesta Per volerglielo porre in su la testa. Ma non permise Dio, che il tutto puole Fosse in tal guisa il servo suo cruciato: Tosto spedì dall’alta empirea mole Spirito celeste un cherubino alato, 22 All’improviso lampo alcun non puole L’occhio fissar; ma indietro rovesciato Cader, ed anche il Re pien di tremore A una tanta gran luce a un tal splendore Tutti quei ferri accesi e preparati Ch’eran per dare al Santo tale asprezza Furon dall’Angel’ rotti e sbaragliati Dove i pezzi arrivar lasciar tristezza Molti restarono uccisi, altri piagati Pochi fur, che trovar scampo e salvezza Che mille, e più provar l’infausto giorno Fè dopo in Ciel l’Angiol di Dio ritorno. O incantator perverso il re dicia, Credi con li tuoi incanti oggi salvarti: Romperò il cor ad ogni tua magia, Che a più acerbi martir vuò esperimentarti Si piauti un palo alla presenza mia, Grida ai miuistri con prestezza, ed arti Vuò sia come un bersaglìo a quel legato Da quattrocento arcìer sia saettato, Fu piantato il gran palo in un momento Legorno il Santo con mille improperi Vennero armati il grave portamento Con gli archi tesi i destinati arcieri, Tenean l’occhi alla mira il guardo intento Scoccar tutti un punto arditi e fieri Tremò la terra, e per timore in cielo S’ascose tra le nubi il Dio di Delo. O grandezza di Dio, che quei pungenti Dardi nell’aer tutti si fermorno E quelle membra pure ed innocenti Del Santo macular pur non osorno Rivoltorno le punte e si repenti Verso l’infidi Arcier feron ritorno Un stral volo per dritta via maestra E il Re colpì nella pupilla destra. Cadde il tiranno indietro alla supina 23 Gridando ohimè infelice, ecco ch’io moro, Correte servi all’ultima rovina, Che più soffrir non posso un tal martoro Così comporti o sorte empia, e ferina Perda la vita, il regno e il mio decoro Maledetto quel di che assunsi al trono Maledetti li Dei quanti mai sono. Alaò la voce, e al re dolente disse Il Santo: temerario, e miscredente Ardisti osar quello, che in Ciel prefisse L’eterno Iddio nella sua pura mente Fammi troncar la testa, e queste risse Ahbiamo fin, sazia tua sete ardente E col mio sangue bagna la ferita Che per tua confusion vedrai guarita. Meglio per te non fossi nato Se non lasci infedel l’iniqua setta. Chiedi a Cristo perdon del tuo peccato Che con le braccia aperte ancor t’aspetta L’ebber dal palo subito slegato Per recidergli il capo con gran fretta Prostrassi il Santo in terra inginocchione E fece al sommo Dio questa orazione. Pietoso Iddio, che dal nulla creasti Ciel, sol, lnna , stelle, e gli elementi; Di quest’umana spoglia t’ammantasti, Soffristi oltraggi scherni, affanni e stenti, Col prezzo del tuo sangue noi comprasti Pecorelle smarrite, ore e languenti, Quest’alma che al tuo nome ebbe il lavoro Vittima al tuo gran nome oggi consacro Se verrà come credo alma divota Tua fè del pellegrino in questa valle, E non sia al ben oprar scarsa, ne vuota E la faccia ti volti e non le spalle Che invocando il mio nome abbia per dote Quanto chiede di giusto Signore dalle 24 Con la prodiga man i tuoi favori, Versa sopra di quella ampi tesori E se in battaglia il mio soccorso chiede In mar, in boschi, e in rapidi torrenti Quanto più derelitta allor si vede Sottralla tu da perigliosi stenti, Dai traditor sotto mentita fede D’empj sicarj e amici fraudolenti; Tua mercè, mio Signor goda tale sorte Che mai possa morir di mala morte. Finita l’orazione, offre ed inchina Il collo al manigoldo, onde quel fiero Vibrò il ferro qual lampo e con ruina Recise il capo a quel divin guerriero; Con una coppa d’oro s’avvicina Preso il sangue al Re torna il suo scudiero L’applicò dove il stral l’aveva piagato E il barbaro oh stupor; restò sanato. Sanato il Re, pentito del suo errore Fè collocare il corpo glorioso Entro una cassa d’argento, e di valore, E riporla in un tempio sontuoso A venerar la tomba e tutte l’ore Correa di Licia il popol numeroso E il Santo in breve alfin di quei dannati Cento cinquantamila al Ciel n’ha dati. Raccontarvi le grazie e i gran favori Ch’oprò il Signore per mezzo di tal Santo Dar vita ai morti, e risanar languori Di questo divo eroe fu gloria e vanto Vi vorria per narrar l’alti suoi onori Altra Musa, altro stile e miglior canto Di Cristoforo dir l’opre divine Lascio che altri le canti ed io fo fine. FINE