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III COMMISSIONE
La seduta comincia alle 14.50.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Propongo che la pubblicità della seduta sia assicurata anche
attraverso impianti audiovisivi a circuito
chiuso.
Se non vi sono obiezioni, rimane cosı̀
stabilito.
(Cosı̀ rimane stabilito).
Audizione del sottosegretario di Stato per
gli affari esteri, Rino Serri, sui conflitti
africani, con particolare riferimento a
Congo, Corno d’Africa, Sierra Leone ed
ex Zaire.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca
l’audizione del sottosegretario di Stato per
gli affari esteri, Rino Serri, sui conflitti
africani, con particolare riferimento a
Congo, Corno d’Africa, Sierra Leone ed ex
Zaire.
Ringrazio il sottosegretario per aver
accolto il nostro invito e gli cedo subito la
parola.
RINO SERRI, Sottosegretario di Stato
per gli affari esteri. Vi ringrazio per
l’attenzione e per la sensibilità politica che
avete manifestato convocandomi per questa audizione. Sapete meglio di me che
l’Africa è abbastanza emarginata nell’attenzione dell’opinione pubblica e soprattutto della comunità internazionale; forse
una certa marginalizzazione potrebbe
spiegarsi in questo momento in cui è in
atto una crisi acutissima vicino alle nostre
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frontiere, ma si riferisce ad un processo
più ampio in corso da un certo periodo di
tempo, che manifesta segni di ritorno ad
una visione marginale dell’Africa nella
comunità internazionale e persino segni
evidenti di ritorno di quanto è stato
definito da qualche studioso come « afropessimismo ». Se ciò avvenisse sarebbe un
grave errore soprattutto per un paese
come l’Italia: se continuasse ad esistere un
elemento di marginalità economica del
continente nel suo complesso (come dirò,
ci sono delle eccezioni) e se si consolidasse una tendenza che purtroppo si è
manifestata nell’ultimo periodo ad una
ripresa e ad un’estensione dei conflitti,
anche di carattere interstatale e non più
solo delle guerre civili di assestamento
all’interno di singoli paesi; se, come dicevo, questa duplice tendenza – marginalità economica ed estensione dei conflitti
– si confermasse e si ampliasse credo che
per il mondo non potrebbero non discenderne gravi conseguenze, in parte già
visibili. Purtroppo non ci sono ancora
segni tangibili di un’inversione di questa
tendenza.
Le conseguenze sarebbero gravi in
primo luogo per i pericoli derivanti dal
terrorismo, dalle attività criminali o illegali e dal commercio delle armi, che trova
in Africa un punto particolarmente trainante, anche se poi la produzione avviene
altrove. Si verificherebbe una pressione
costante di profughi, che a volte sono non
centinaia di migliaia, ma milioni e si
accentuerebbero i problemi delle migrazioni. In sostanza si creerebbe un clima di
insicurezza concernente non soltanto i
rapporti tra gli Stati ma anche la conduzione della vita sociale e civile a livello
mondiale. Oltre ai problemi della sicu-
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rezza, anche le prospettive di sviluppo
economico per l’Europa e soprattutto per
un paese come l’Italia non potranno essere stabili e forti a lunga scadenza se non
guardando allo sviluppo possibile e auspicabile del continente africano, altrimenti
anche per noi lo sviluppo economico ed il
mercato avrebbero un limite pesantissimo
nell’arretratezza del continente africano.
Oggi quindi, sulla base degli ultimi
eventi, si impongono ulteriori, nuove riflessioni sull’Africa. Non molto tempo fa
si parlava di ripresa (si è accennato anche
al « rinascimento africano ») e c’erano
speranze, fatti ed elementi che sembravano disegnare questa prospettiva, a cui
credo nessuno di noi voglia rinunciare,
anche se oggi dobbiamo valutarne tutte le
difficoltà. Abbiamo avuto un periodo, che
potremmo definire una terza fase, dopo la
battaglia anticoloniale e la conquista dell’indipendenza, dopo un lungo periodo di
tempo in cui – seconda fase – l’Africa è
rimasta dentro una logica dei blocchi
militari contrapposti; abbiamo avuto una
terza fase in cui sembrava aprirsi un
periodo caratterizzato da un maggiore
pragmatismo, da un certo sviluppo economico in alcune aree, da regimi più
democratici, a cominciare dalla grande
esperienza che il Sudafrica aveva rappresentato per tutti, da processi di integrazione regionale che sembravano assorbire
le tensioni che si sviluppavano tra Stati o
tra etnie; si cominciava a ragionare seriamente non solo sull’organizzazione dell’unità africana, già esistente, ma anche
sull’organizzazione di forze di pace, di
prevenzione dei conflitti, di interventi di
peace keeping e di peace enforcing compiuti direttamente da forze africane.
Si è trattato di una fase – ripeto –
durata un certo tempo, che ora è rimessa
in discussione (non voglio dire che sia
finita); dobbiamo fare molto rapidamente
una riflessione per riprendere quel cammino, cercando di evitare che fatti negativi lo interrompano definitivamente. Occorre capire quali siano le ragioni che
hanno provocato questo processo; ne indico alcune sulle quali riflettere.
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Talune ragioni sono di carattere macroeconomico: il complesso del continente
si trova di nuovo in una certa difficoltà
economica e fatica ad entrare nei processi
di globalizzazione dell’economia. È abbastanza visibile il fatto che il mercato
interno è debolissimo, senza una crescita
consistente; a volte ci sono paesi che
riescono a mettersi in ordine con i criteri
macroeconomici indicati dal Fondo monetario internazionale, ma ciò avviene a
volte a spese di una riduzione degli
stanziamenti per la scuola, la sanità e gli
altri momenti sociali. In certe aree si
verificano dei processi di arretramento, e
la questione è talmente visibile che la
stessa Banca mondiale (qualche settimana
fa ho avuto occasione di recarmi a Berlino
e di incontrarmi con il presidente della
Banca mondiale, Wolfensohn) sta rivedendo le politiche che aveva attuato in
Africa, riproponendo in primo piano l’esigenza di progetti di sviluppo che contengano la componente sociale, perché in sua
mancanza solo apparentemente si crea un
meccanismo economico più sano. Ripeto,
la Banca mondiale sta cercando di correggere tali politiche.
È tornata in primo piano la questione
del peso del debito: se il debito di questi
paesi « mangia » una parte o a volte la
totalità delle esportazioni, il rischio è che
lo sviluppo non possa innescarsi; secondo
le organizzazioni finanziarie, la situazione
potrebbe aver raggiunto un livello di non
sostenibilità, e quindi bisogna affrontare il
problema sul piano di una valutazione
internazionale non lasciata al singolo
Stato o al rapporto tra lo Stato e il Fondo
monetario internazionale. Non c’è dubbio
– terzo elemento – che dopo la fine dei
blocchi (qualche esperienza l’abbiamo anche noi in Europa) si sono liberate tensioni etniche e statuali che prima erano
frenate da altri fattori e che innescano
anche elementi di conflitto, aggiungendosi
alle altre ragioni di cui ho parlato.
Emerge forse – è questo un elemento su
cui riflettere – una tendenza a generare
conflitti che hanno come posta in gioco
l’egemonia in certe aree, anche tra Stati
africani. Uso il termine « forse », utiliz-
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zando una formula dubitativa, anche se la
storia europea di altre epoche dimostra
che spesso si attraversano fasi in cui uno
Stato od un altro in una certa area
ritengono di avere un ruolo egemonico e
quindi si servono della pressione delle
armi.
C’è una spinta che proviene da interessi che mal si conciliano con una
legalità nazionale, statuale ed internazionale. Pensate che alcuni conflitti – Angola
o Sierra Leone – sono, ma soltanto in
parte, collegati anche al commercio dei
diamanti, al fatto cioè che in quei paesi
esiste una risorsa importante; oppure interessi di varia natura tendono a volte a
creare condizioni per cui in taluni paesi
africani si verifica una situazione – definiamola cosı̀ – di non Stato, di mancanza
della legalità, di poteri legati solo ad
alcuni interessi di etnie, di clan e di
gruppi economici; questa tendenza presenta qualche sintomo di emersione, e
bisogna combatterla in tempo. La Somalia
già da sette anni non è più Stato, non ha
più leggi, non ha più niente, ma una
tendenza analoga è presente nel CongoKinshasa, un enorme paese, quasi un
continente; se in quell’area arrivassimo al
non Stato sarebbe una catastrofe per
l’intera Africa...
PRESIDENTE. Come dissoluzione delle
istituzioni.
RINO SERRI, Sottosegretario di Stato
per gli affari esteri. Sı̀, come dissoluzione
delle istituzioni, come frammentazione in
tanti poteri.
MICHELE RALLO. Ci sono tribù.
RINO SERRI, Sottosegretario di Stato
per gli affari esteri. Sono tribù, sono
gruppi, sono etnie, ma sono anche poteri
economici. Il commercio clandestino delle
armi, in queste condizioni, è praticamente
libero, diventa un fatto quasi organico. È
questo il motivo per cui occorre valutare
bene i pericoli, senza essere presi dall’« afropessimismo », da questa sorta di rinuncia e di distacco, cercando il modo di
reagire.
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Occorre pertanto una riflessione sulle
politiche economiche, che già è stata
avviata (ho citato prima la Banca mondiale); occorre inoltre una riflessione sulla
ripresa della cooperazione allo sviluppo,
anche su basi nuove, calcolando che il
puro meccanismo commerciale, anche se
integrato a livello mondiale, per un continente che conosce le arretratezze dell’Africa, senza un sostegno per lo sviluppo,
non basta ad integrarlo, anzi a volte
rischia di emarginarlo ancora di più.
Bisogna rivedere attentamente le politiche
del debito: ci avviciniamo al vertice dei G8
di Colonia, che ha il tema all’ordine del
giorno; anche l’Italia sta discutendo su
cosa fare, con iniziative che si aggiungano
a quelle delle organizzazioni internazionali: sulle politiche del debito, questa è
certamente una necessità.
Stiamo discutendo nell’Unione europea
la nuova convenzione di Lomè, che dovrà
essere firmata entro la fine di quest’anno
e che riguarda soprattutto l’Africa. È
previsto un vertice Europa-Africa per la
prima metà del 2000, che rappresenterebbe il primo vertice dell’Europa con
quel continente; sapete meglio di me che
il rapporto dei paesi europei con l’Africa
è stato prevalentemente a livello di singole
potenze (compresa quella italiana), che
derivava più dalla storia coloniale che
dalla fase attuale. Il vertice euroafricano
potrebbe rappresentare un passaggio di
qualità, ma richiede un’adeguata preparazione.
L’Italia ha sviluppato un nuovo impegno politico, in questo periodo. Ci sono
elementi di ripresa della nostra attenzione
per quanto riguarda la cooperazione allo
sviluppo con l’Africa; occorrono sforzi
finanziari se vogliamo intervenire efficacemente in alcuni conflitti, per tentare di
risolverli. Credo che la riforma del regolamento del ministero, cui voi avete contribuito, con la formazione delle direzioni
geografiche possa consentire un’attenzione
più costante e meditata all’Africa.
Passo ora ai singoli punti, sulla base
del quadro che vi ho illustrato.
Per quanto riguarda il Corno d’Africa,
non voglio ripercorrere tutta la storia,
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perché sarebbe molto lunga. Ho già accennato alla Somalia, ad una crisi che
dura ormai da tempo; dopo la caduta del
regime di Siad Barre non è intervenuta
una ripresa e l’intervento dell’ONU, per le
ragioni note, ha avuto un esito negativo.
Da allora non si riesce a determinare una
ripresa della situazione, nonostante un
impegno serio dell’Italia; credo di essere
l’unico uomo di governo dei paesi europei
e statunitensi ad essersi recato a Mogadiscio, anche se non c’è più uno Stato, un
governo, la legge. Attualmente tentiamo di
seguire una strada di questo genere: è in
atto un processo di pacificazione che ha
investito alcune aree sulle quali si sta
lavorando (Somalia del nord, Migiurtinia
ed altre piccole aree) e si è tentato
faticosamente un accordo a Mogadiscio.
Occorre lavorare su questa base non più
fondandosi solo sull’incontro tra i vari
leader somali, andando ad un incrocio tra
il ruolo che hanno alcuni leader ed i
processi che emergono dalla società, tentando di pacificare la società e di sostenere tale pacificazione anche con aiuti
concreti, arrivando ad una conferenza
nazionale che possa ridare vita ad uno
Stato somalo su base federalista con forti
autonomie, perché il tipo di Stato prima
esistente non sembra essere oggi minimamente praticabile.
PRESIDENTE. Scusi, sottosegretario
Serri, ci vuole spiegare, nel corso della sua
esposizione, quale sia il livello di istituzionalizzazione di questi colloqui al punto
da avere gli stessi forza operativa o
comunque di impegno ?
RINO SERRI, Sottosegretario di Stato
per gli affari esteri. Signor presidente, lei
pone una domanda molto giusta. C’è stata
una fase in cui di questi colloqui se ne
svolgevano a decine in tutte le capitali del
mondo, meno che a Roma, perché fino
adesso l’Italia ha evitato questa sorta di
turismo diplomatico un po’ eccessivo di
alcuni gruppi somali. Noi abbiamo chiesto
con forza di agire in Somalia: c’è per
esempio un’assemblea rappresentativa
nell’ex Somaliland che comincia ad avere
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una sua struttura; c’è un primo tentativo,
un po’ più arretrato, in Migiurtinia e nel
cosiddetto Puntland. Nel Benadir si era
arrivati vicino ad un accordo; ci sono altre
aree pacificate che hanno delle espressioni
anche istituzionali. Il problema è riuscire
a consolidare questi processi e, su questa
base, anche incontrandosi con i leader che
mantengono un certo peso, dare vita ad
un processo di carattere nazionale. Qual è
un piccolo elemento di ottimismo ? Noi –
l’Italia ha lavorato per questo, in modo
particolare – abbiamo tentato di congiungere tutti gli sforzi internazionali sulla
Somalia, perché – diciamolo francamente
– si parlavano lingue molto diverse tra
Etiopia, Egitto, Italia, mondo arabo. Attraverso il meccanismo del forum dei
partner dell’IGAD e il gruppo Somalia,
abbiamo creato una convergenza tra tutti
questi 19 paesi, l’abbiamo allargato all’Egitto, oltre ai paesi IGAD, Etiopia,
Eritrea e cosı̀ via. Ora esiste una certa
convergenza internazionale: questo può
essere un elemento di stimolo per impedire che le differenze dei singoli paesi,
grandi o piccoli, siano un alibi per certi
gruppi somali, e per spingere tutti insieme
per andare alla ricostituzione – ripeto –
su base federale di uno Stato somalo.
Nel Corno d’Africa c’è la questione
Sudan: il 20 aprile prossimo dovrebbero
riprendere a Nairobi le trattative per la
soluzione del gravissimo conflitto sudanese che dura da oltre trent’anni. Purtroppo proprio questa mattina ho ricevuto
notizie che mettono in forse la ripresa di
tali trattative, cui abbiamo lavorato per
mesi; è infatti avvenuto un episodio veramente grave: di sei esponenti della
Croce rossa presenti nel sud Sudan, due
(europei) sono stati liberati, mentre quattro (sudanesi) sono stati uccisi. Ciò ha
creato una condizione per cui, alla vigilia
delle trattative, sembra difficile portare le
due parti alle trattative di pace sotto
mediazione keniota.
MICHELE RALLO. Uccisi da chi ?
RINO SERRI, Sottosegretario di Stato
per gli affari esteri. Le accuse sono rivolte
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ai guerriglieri del sud Sudan, ma si tratta
di accuse che non sono in grado di
verificare e che sono state smentite dai
guerriglieri. Alcuni hanno parlato di spie.
Sapete come sia difficile in questi casi
sapere la verità. Tuttavia, anche con questa preoccupazione che vi sto esprimendo,
nell’ultima riunione tenutasi ad Oslo, Italia e Norvegia, che sono copresidenti di un
gruppo Sudan per tentare di riprendere le
trattative per arrivare alla pace, hanno
avanzato delle proposte, anche con aiuti
economici e con strutture che agevolino la
mediazione, con il sostegno di tutti paesi,
compresi gli Stati Uniti d’America (fatto in
parte nuovo sulla questione sudanese). Ciò
consente di ritenere che anche se non
dovessero cominciare il 20 aprile, le trattative potrebbero riprendere più avanti
ma non interrompersi del tutto.
Quanto al conflitto Etiopia-Eritrea,
sempre nel Corno d’Africa, sapete che il
conflitto si è manifestato su una disputa
territoriale su un’area che era amministrata dagli etiopici – mi riferisco a
Badme – ma rivendicata dagli eritrei,
anche sulla base di vecchie carte coloniali
cui del resto fa riferimento l’Organizzazione dell’unità africana. Forse è questo
uno dei conflitti in cui agiscono anche
elementi di ruolo e di egemonia nell’area
complessivamente interessata, perché è
difficile identificare specifiche ragioni, oltre quelle territoriali, che sono visibili. Il
problema dello sbocco al mare dell’Etiopia è stato additato da alcuni osservatori
come una delle cause, ma gli etiopi
negano nel modo più assoluto questo
presunto obiettivo del conflitto. Quando
c’è un conflitto di questa portata tra due
paesi che fino al 1993 erano un solo
paese, con due gruppi dirigenti che hanno
condotto insieme la battaglia contro il
regime di Menghistu, la situazione è difficile. Il fronte di liberazione eritreo e
quello del Tigrai erano come fratelli, e,
come potete immaginare, uno scontro tra
fratelli è molto difficile da gestire. Il
ministro Dini, il Presidente Scalfaro ed io
stesso, a più riprese, abbiamo fatto moltissimo, ma la questione è faticosa. Adesso
il conflitto è in una fase di stallo, non si
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spara. Ieri ho ricevuto un ministro dell’Eritrea, cui ho chiesto notizie più aggiornate, il quale mi ha confermato la
situazione. Ambedue i paesi si accusano di
continuare ad armarsi e di prepararsi a
nuovi scontri; ambedue i paesi hanno
dichiarato di accettare il piano OUA:
prima l’Etiopia e, dopo l’ultimo scontro a
Badme, che avrebbe visto una prevalenza
etiope, anche l’Eritrea ha dichiarato di
accettare il piano. Nonostante ciò, le
trattative non si sono avviate. Stiamo
operando per tentare di sostenere l’OUA e
spingerla a cominciare immediatamente la
dislocazione degli osservatori internazionali prevista dal piano, anche prima che
la trattativa tra i due paesi possa dispiegarsi su tutti gli argomenti. Sembra infatti
che una delle questioni non facili sia
proprio l’avvio della trattativa tra i due
gruppi dirigenti. Sul piano internazionale
sembra esservi uno sforzo congiunto. Devo
naturalmente essere cauto, ma non pare
che si sia di fronte ad un’utilizzazione
strumentale del conflitto da parte di
qualcuno. Certamente l’Italia non intende
utilizzare questo conflitto ed opera per
risolverlo; tende a mantenere – ripeto,
con fatica – un rapporto di fiducia con
entrambi i paesi. Lo sforzo di aiuto è lo
stesso e prestiamo attenzione, nell’emergenza, anche ai profughi e agli espulsi (più
in Eritrea da parte dell’Etiopia che viceversa). Contiamo di continuare in questa
direzione anche in sede ONU e Unione
europea.
Questione dei Grandi laghi. Conoscete
tutti la crisi del Congo. Attualmente Angola, Zimbabwe, Namibia e Ciad sostengono il governo di Kinshasa; sembra che
truppe ugandesi siano presenti nella zona
est per garantire una sicurezza che non
ritengono più assicurata – questa è la loro
valutazione – da parte del governo di
Kinshasa. Tutto questo non è nato casualmente; la storia dice che in quell’area si
sono prodotte effettive ragioni di insicurezza sia per il Ruanda (non possiamo
dimenticare il drammatico genocidio che
ha comportato l’uccisione in pochi mesi di
700-800 mila persone) sia per la stessa
Uganda.
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Dietro pressione di molti (dell’Unione
europea e dell’Italia in particolare: come
sapete, il presidente Kabila è stato a
Roma oltre che a Parigi e Bruxelles), il
presidente Kabila ha dichiarato la disponibilità ad aprire un dialogo nazionale che
coinvolga tutti, sia gli ex mobutisti, sia gli
attuali ribelli. Si tratta di un passo che
abbiamo sollecitato perché la soluzione
della crisi del Congo-Kinshasa può avvenire solo garantendo la sicurezza di tutti
i paesi confinanti, ad est (Ruanda e
Uganda) e ad ovest (Angola ed altri). Da
un lato si pone quindi il problema della
sicurezza di tutti gli Stati, dall’altro quello
dell’integrità territoriale del Congo e di un
governo che in questa fase non può che
essere rappresentativo, se non di tutti,
quanto meno di una larga parte. Sembra
che questa indicazione del dialogo inizialmente sia stata accolta da molte forze
dell’opposizione; un’ipotesi circolata è che
il dialogo nazionale avvenga a Kinshasa
oppure a Roma. Alcuni amici – la comunità di Sant’Egidio in particolare – stanno
lavorando a questo progetto con il pieno
sostegno del governo. Abbiamo fatto alcuni passi nei confronti di diversi paesi
vicini per sentire quale fosse il loro
atteggiamento di fronte ad una eventuale
scelta di un « facilitatore » che operasse a
Roma. Abbiamo avuto finora risposte positive; vedremo se la situazione, irta di
difficoltà, potrà ora procedere. Avviare a
soluzione, anche solo lentamente, la crisi
della Repubblica democratica del Congo
significherebbe imprimere una spinta decisiva alla pacificazione in tutta l’Africa.
Vengo ora alla questione dell’Angola.
Vi è uno stretto collegamento tra la crisi
che preesisteva in Angola e quella attuale
del Congo. Purtroppo l’accordo di Lusaka
non è stato realizzato. Le Nazioni Unite,
attraverso molte risoluzioni, hanno giudicato che la responsabilità fondamentale
della non attuazione di quell’accordo sia
stata dell’UNITA e del suo capo Savimbi
in modo particolare. Attualmente è purtroppo ripresa la guerra, anche da parte
dell’UNITA, dotata di una rinnovata e
forte dotazione di armi. La guerra si è
rapidamente allargata in tutta un’area del
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paese e tende a non essere di breve
durata. La comunità internazionale (le
Nazioni Unite, l’Unione europea e l’Italia)
mantiene una ferma posizione riguardo
alla realizzazione degli accordi di Lusaka,
accordi che però – devo dirlo onestamente – sembrano oggi più lontani nella
loro attuazione rispetto a qualche mese
fa. Come sapete l’ONU si è ritirata e
siamo nel pieno del confronto militare.
Bisognerà vedere se si riaprirà una possibilità di seguire una strada che non sia
esclusivamente o prevalentemente quella
militare; una strada di questo genere non
potrebbe tuttavia essere intrapresa che
sulla base degli accordi di Lusaka. Tali
accordi sono stati infatti realizzati dopo
molti anni di preparazione; mettere tutto
in discussione significherebbe passare da
una trattativa a una guerra e viceversa,
rischiando di continuare cosı̀ all’infinito.
Questa è la condizione non facile nella
quale ci si trova in questo momento in
Angola. Come sapete l’Italia aveva – ed ha
tuttora – ampie relazioni con questo
paese; avevamo avviato anche progetti di
cooperazione e di collaborazione economica e commerciale. La soluzione del
conflitto angolano rappresenta una componente essenziale che contribuirebbe alla
soluzione del conflitto nel Congo ed alla
stabilizzazione del Congo-Brazeville che,
come sapete, è passato anche di recente
attraverso una guerra pesante.
Vi sono notizie relativamente positive
per quanto riguarda il Burundi. Il dialogo
nazionale, facilitato da Nyerere (con la
collaborazione della comunità di Sant’Egidio e del nostro paese) sembra procedere
bene e la pacificazione in Burundi sembra
avanzare.
Non è cosı̀ – o almeno lo è solo in
parte – in Sierra Leone, dove solo di
recente si è aperta una possibilità di
colloquio tra il presidente Kabbah e il
capo del RUF. Abbiamo affrontato tale
questione con il presidente eletto della
Nigeria, Obasanjo, venuto di recente in
Italia (la Nigeria gioca un ruolo fondamentale anche con le truppe ECOWAS); si
tratta di una situazione molto difficile,
rispetto alla quale sussiste l’impegno della
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Comunità europea. Come sapete, la guerra
civile è tuttora durissima. Il vescovo di
Makeni, monsignor Biguzzi, ed altri missionari ci hanno riferito fatti drammatici;
nonostante l’Italia non abbia tradizionali
collegamenti con quel paese, fornisce il
proprio contributo. La situazione si presenta comunque ancora difficile.
In Guinea Bissau siamo un po’ più
avanti ed il dialogo avviato ha condotto ad
un accordo; Francia e Portogallo sono
impegnati su questo versante e l’Italia
fornisce un contributo anche economico.
Si è discusso della possibilità di utilizzare
strutture logistiche per sostenere presenze
internazionali. Poiché si tratta, in particolare, di un aereo della difesa, in considerazione di quanto sta avvenendo in
Kosovo non sono ora in grado di dire
come si svilupperà la vicenda. Lo sviluppo
in parte positivo della situazione è stato
molto facilitato dal compianto vescovo di
Bissau, monsignor Ferrazzetta, un italiano, che ha lavorato con intensità alla
mediazione; anche secondo il giudizio del
presidente eletto della Nigeria sembra che
sussistano le condizioni per uno sviluppo
positivo.
Una valutazione più ampia dovrebbe
coinvolgere – ecco un elemento di novità
che vi prego di aiutarci ad approfondire –
l’Africa mediterranea. Siamo abituati a
parlare di Africa pensando solo a quella
subsahariana, ma esiste anche un’Africa
mediterranea. Da quando seguo con attenzione questi argomenti ho osservato
nel corso degli anni un aumento dell’interesse dei paesi arabi mediterranei verso
l’Africa. Penso in primo luogo all’Egitto,
con il quale abbiamo una buona collaborazione in atto anche sui problemi africani; penso per alcuni aspetti alla Tunisia;
penso, in particolare, alla Libia, che ha
prodotto una serie di iniziative verso i
paesi africani ed ha proposto di recente al
ministro Dini una collaborazione tra Italia
e Libia su una serie di punti di crisi, e
non, della politica africana. Credo che
sviluppare una collaborazione tra Italia e
Libia in alcune aree africane potrebbe
essere di notevole utilità.
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Domani si svolgeranno le elezioni in
Algeria, che avrà dal mese di luglio, per
un anno, la presidenza dell’OUA. Nel
corso di tale periodo si potrebbe arrivare
al vertice euroafricano. L’Italia segue con
grande attenzione la vicenda algerina.
Sono stato tre settimane fa in Algeria per
la terza volta e il voto – come sapete i
candidati alla presidenza sono sette –
sembra essere effettivo. Vedremo poi
quale sarà il grado di partecipazione. La
campagna elettorale si è sviluppata ampiamente e l’elezione potrebbe rappresentare l’uscita del paese da una fase difficile.
L’Algeria, per il ruolo e il peso che ha,
potrebbe diventare un punto importante
dell’Africa mediterranea.
A ciò si ricollega la questione dello
sviluppo dei nostri rapporti con il Marocco; rapporti molto positivi, anche se il
Governo italiano ha sempre sottolineato
anche con il Marocco (senza che ciò sia
ragione di tensioni) che occorre portare a
soluzione la questione del Sahara occidentale, come stabilito dal piano dell’ONU
e dal recente accordo Baker. Ci auguriamo che si possa procedere in tale
direzione. La celebrazione del referendum
è stata purtroppo rinviata al prossimo
dicembre; ci auguriamo possa andare in
porto perché se cosı̀ fosse si potrà rilanciare l’ipotesi anche dell’Unione magrebina (UMA).
La Libia è uscita dalla fase dell’embargo – fatto ampiamente positivo –;
l’Algeria sta per andare al voto; se si
risolvesse il problema del Sahara occidentale potrebbero esservi le condizioni nell’Africa del nord per avviare quei processi
di integrazione che potrebbero essere
molto importanti per l’Europa, per il
dialogo euromediterraneo e per l’Italia in
particolare in considerazione della sua
collocazione geografica. Di quest’ultimo
fatto occorre tenere conto. La politica
verso l’Africa a volte va fatta sotto voce,
senza essere in prima linea, ma per un
paese come l’Italia si tratta di una scelta
fondamentale della nostra politica estera.
La sponda sud del Mediterraneo e il
continente che ci sta dietro sono importanti; occorre lavorare molto su questo
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versante anche prima di ottenere visibili
risultati, ma a mio avviso l’impegno deve
aumentare e non diminuire in rapporto
alle difficoltà. Questa è la linea che il
Governo tende ad attuare.
PRESIDENTE. La ringrazio, signor sottosegretario, non solo per galateo parlamentare ma anche perché debbo darle atto
dell’impegno, della passione e della concretezza che esprime con le sue parole.
Hanno chiesto di intervenire gli onorevoli Zacchera, Rivolta, Bianchi e Pezzoni. Per l’importanza del tema in discussione non intendo limitare i tempi di
intervento. Sapete tuttavia che alle 16
dovremo concludere i nostri lavori. Potremo pertanto proseguire il dibattito fino
a quell’ora per poi riprenderlo la prossima settimana.
MARCO ZACCHERA. Una delle domande che intendo rivolgere al sottosegretario e al presidente riguarda il senso
della nostra Commissione. Discutiamo
oggi un tema estremamente rilevante,
come il sottosegretario ha ribadito anche
al termine del suo intervento. A mio
avviso siamo qui non solo per esaminare
i commi degli articoli di qualche legge ma
anche per fare qualcosa di buono per il
mondo e sono convinto del fatto che il
nostro paese possa fare davvero qualcosa
di buono in un continente rispetto al
quale non è difficile quella sorta di
« afropessimismo » di cui ha parlato il
sottosegretario, che sa meglio di me come
tutti gli indici di sviluppo siano al ribasso
e come sia difficile guardare alla situazione con spirito positivo.
Condivido una parte della relazione del
sottosegretario e non concordo invece su
altre sue affermazioni. Condivido, in particolare, le sue osservazioni sulla Banca
mondiale e sul fatto che occorre fare in
modo di rinegoziare il debito dei paesi
africani. Sono poi assolutamente d’accordo – colgo con piacere quanto ha
affermato in merito al debolissimo mercato interno e al fatto che, anche per
responsabilità della Banca mondiale, molti
governi non hanno la possibilità di fornire
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servizi alla popolazione – che uno dei
maggiori problemi dell’Africa sia la « caduta » degli Stati. Purtroppo quasi ovunque nel continente africano gli Stati non
hanno più una reale consistenza sotto il
profilo organizzativo. Anche in paesi come
il Kenya, all’avanguardia fino a qualche
anno fa, il 50 per cento del territorio è
privo di presenza dello Stato; lo stesso
vale per il Sudan, per l’Uganda e per tanti
altri paesi. Se non esiste polizia alla quale
fare riferimento in caso di reati, se non si
ha la minima possibilità di tutelare i
propri diritti, lo Stato non esiste, e se il
giudice civile, notoriamente corrotto, non
dà risposte, la situazione è senza soluzione ! Dobbiamo chiederci cosa possiamo
fare concretamente in proposito. Innanzitutto dobbiamo aiutare gli Stati ad esistere. Quando con il collega Bianchi visitammo il bombardato Parlamento del
Ruanda chiedemmo al presidente di quell’istituzione cosa avremmo potuto fare per
loro. Ci rispose che se avessimo inviato
penne e fogli di carta avremmo già dato
una mano, perché il Parlamento del
Ruanda non aveva neppure la cancelleria !
Un paese che voglia davvero intervenire
sul continente africano deve tenere conto
di tutte le risposte che possono essere
fornite con un minimo impegno di carattere economico.
Un punto che il sottosegretario non ha
affrontato e che va invece a mio avviso
toccato con forza – e non solo in questa
sede – è quello delle responsabilità internazionali. Dobbiamo smetterla di dire che
in Africa ci si uccide a vicenda perché ci
sono gli hutu e i tutsi, perché quando si
arriva a questo non si è che all’ultimo
anello della catena ! Dobbiamo prendere
in considerazione seriamente le responsabilità mondiali geopolitiche ed economiche
che stanno dietro le crisi dell’Africa,
altrimenti non ne verremo fuori. Non
possiamo dire che in Angola non si sta di
fatto facendo una guerra tra le parti
perché si vogliono mettere le mani sui
bacini di petrolio presenti sulla costa e si
ordina quindi al Governo angolano di
andare dove c’è l’UNITA per controllare
l’industria del petrolio, con la conse-
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guenza che le estrazioni sono ipotecate
fino al 2005 per comprare armi ! Se
l’Italia vuole essere un paese serio queste
cose devono essere dette anche ai propri
alleati e anche se si tratta di fatti spiacevoli. Le responsabilità della Francia nel
conflitto dei Grandi laghi esistono e bisogna avere il coraggio di affrontarle; lo
stesso vale per le responsabilità dell’ONU,
che in Burundi e in Ruanda, quando nel
1993-1994 c’erano speranze di pace, non
ha tutelato i presidenti regolarmente
eletti, che sono stati scannati e uccisi da
50 persone ubriache, fatto che ha poi dato
l’avvio alla guerra civile.
Quando sono stato eletto deputato nel
1994 ero in Burundi e non è stato
piacevole avere i kalashnikov puntati contro di me ! Nel 1993 sarebbero bastati 50
soldati dell’ONU perché nel Burundi non
succedesse nulla, ed oggi avremmo forse
una democrazia di sei anni al governo del
paese e avremmo risolto tantissimi problemi in quella regione. Moltissime responsabilità internazionali degli Stati
Uniti, delle grandi multinazionali, vanno
espresse. Il sottosegretario avrà sicuramente letto – altrimenti glielo regalo
volentieri – il libro di Cavaliere Balcani
d’Africa, che contiene la descrizione di
fatti che fanno accapponare la pelle.
Esistono anche responsabilità della mafia
italiana; Musumbue è infatti un centro di
scambio di società off shore dove conveniva mantenere una situazione di estremo
degrado, trattandosi di un posto adatto
allo scambio di soldi e di denaro.
Vengo ora ai quattro scenari delineati.
Il Corno d’Africa, innanzitutto. Chiedo che
in quell’area l’Italia faccia di più. Il
sottosegretario Serri ce la mette tutta, ma
temo che a buona parte del Governo
italiano del Corno d’Africa non importi
nulla o quasi. Nei confronti di Somalia,
Etiopia ed Eritrea l’Italia può giocare un
ruolo infinitamente superiore a quello di
tutti gli altri paesi europei, e di questo
dobbiamo assumerci la responsabilità. Vi
sono in Somalia realtà che funzionano (le
microregioni autonome, per esempio), ma
è un anno che propongo alla Commissione
di organizzare a mie spese una visita in
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quei luoghi per capire come funzionino
quelle realtà e che cosa si possa fare; si
tratta di luoghi dove, addirittura, si parla
italiano. Come deputato di questo paese
mi sento responsabile per il futuro del
Corno d’Africa; se il Congo non è un’area
geopoliticamente vicina, lo è invece il
Corno d’Africa, e ribadisco che dobbiamo
fare di più per quell’area. Vent’anni fa
abbiamo buttato via centinaia di miliardi
facendo in questa zona delle vere porcherie attraverso la cooperazione internazionale. Non si può passare dal troppo al
nulla e, anche in considerazione del ruolo
della nostra Commissione, invito a guardare con maggiore attenzione a queste
situazioni. Non dico che il Corno d’Africa
debba diventare un protettorato italiano:
stando bene attenti – bene sta operando
il Governo italiano –, guardando dall’alto
la situazione dobbiamo però svolgere una
funzione di garanzia. L’ambasciatore ad
Addis Abeba, Ricoveri, mi ha detto che
dall’Etiopia hanno espulso tutti i cittadini
eritrei, che si ritrovano ad essere apolidi;
non sono infatti riconosciuti dagli eritrei
perché erano in Etiopia.
RINO SERRI, Sottosegretario di Stato
per gli affari esteri. Gli espulsi sono 56
mila. Gli eritrei in Etiopia sono circa 250
mila.
MARCO ZACCHERA. L’Italia deve
porsi come garante di queste situazioni
perché altrimenti queste persone neppure
volendo potranno trovare una collocazione. Si ritrovano nel mezzo di una
guerra in un paese ostile senza nessuna
tutela come cittadini.
Sorvolo sull’area dei Grandi laghi
perché le notizie fornite dal sottosegretario sono sostanzialmente condivisibili. Vi
sono però scelte politiche da fare. Per
esempio, non condivido del tutto la scelta
dell’Italia di ospitare Kabila; per lo meno
avremmo dovuto fare pesare molto di più
l’ospitalità a Kabila. Se infatti Milosevic è
un macellaio, non è che un dilettante a
confronto del presidente Kabila. Se la
contabilità si fa in riferimento alle migliaia di morti, ebbene il Congo è in pole
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position per vincere lo scudetto. Dobbiamo essere più cauti nel dare credibilità
internazionale a criminali dittatori (Kabila come Mobutu e tutti gli altri) perché il
parametro nuovo con cui la Banca mondiale deve assolutamente rinegoziare i
crediti è quello dei diritti umani; non
bisogna più fare riferimento solo agli
indici di bilancio. Se in uno Stato non
vengono riconosciuti almeno in modo minimale i diritti umani, non gli si concedono aiuti; l’unico rimedio è ricattarli.
Sappiamo che la corruzione « mangia »
un’alta percentuale degli aiuti, quindi questa gente vuole avere sovvenzioni perché
può guadagnarci direttamente. Non riusciremo a controllare la corruzione, ma
quantomeno cerchiamo di condizionare la
concessione di questi aiuti al rispetto dei
diritti umani.
PRESIDENTE. È un criterio di pregiudizialità.
MARCO ZACCHERA. Questo avviene
in Africa come purtroppo in tanti altri
paesi, e penso che il sottosegretario condivida quello che dico.
Per quanto riguarda l’Angola, non ci
siamo. Sottosegretario Serri, lei non era
presente in aula un mese fa quando mi è
stata fornita risposta a due mie interrogazioni sull’Angola da parte del sottosegretario Ranieri, che le ha lette non
sapendo neppure quali fossero i problemi
in discussione. La prego, se non l’ha
ancora fatto, di leggersele. Mi rifiuto di
pensare che se lei avesse dovuto rispondere a tali interrogazioni in aula avrebbe
letto quelle dichiarazioni, scritte da persone che evidentemente avevano dei preconcetti sulla situazione dell’Angola; se
invece devo ritenere che rappresentino la
volontà del Governo, critico totalmente il
modo di fornire le risposte. È arduo dire
che il leader dell’opposizione a Luanda si
è fatto sparare dai suoi amici di partito,
perché è molto probabile che le cose non
siano andate in questo modo. Dire che la
colpa sia tutta dell’UNITA è una falsità: se
ne avessi il tempo mi piacerebbe leggere
alcuni passi di Nigrizia di questo mese (se
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vuole le posso consegnare la mia copia)
che sono veramente disarmanti: Nigrizia è
autorevole dal punto di vista dell’analisi
politica di quanto avviene in Africa, e dà
la colpa a tutti, non soltanto all’UNITA,
perché anche Dos Santos ha le sue responsabilità in questa situazione.
Il Governo ha dato una risposta di
parte che assolutamente non condivido e
per la quale ho protestato, perché è stato
detto il falso su determinati fatti. Vorrei
capire quale sia la politica del Governo,
perché lei mi dice che nel Congo-Brazeville c’è una situazione instabile: va bene,
ma qual è l’esercito invasore, se non
quello angolano, che si è recato in CongoBrazeville a fare la rivoluzione ? Noi non
possiamo tenere rapporti con il Governo
angolano come se niente fosse, se questo
spedisce forze armate in un altro paese
dove c’è un presidente eletto al quale
portano via il potere. Dobbiamo assumere
delle posizioni. L’ONU non si è comportata come il Governo ha dichiarato in
aula, ma ha dato la colpa ad ambedue le
parti, denunciando il fatto che è stato il
Governo angolano a cacciare dall’Angola
gli osservatori dell’ONU. Allora, evitiamo
le polemiche, ma invitiamo il Governo a
rispondere in aula in altro modo; la
invito, signor sottosegretario, a leggere
quelle risposte e si renderà conto che
quanto affermo è ancora moderato.
Sul Sudan non ho nulla da aggiungere
a quanto detto; faccio presente che anche
in questo caso, giocando alla manovra
degli aiuti, quei pochi aiuti che penso
forniamo al Sudan, si verifica una situazione veramente di schiavitù.
Ho chiesto interventi forti in aula e in
questa Commissione sul problema dei
cristiani, perché nel Sudan è in atto una
pulizia etnico-religiosa: i cristiani si trovano da trent’anni a fare i guerriglieri
perché se sono scoperti vengono uccisi
tout court da estremisti islamici che
hanno la copertura totale – per quanto ne
so – da parte del governo di Khartoum.
Bisogna dirlo: non è che in tutte le guerre
le colpe siano al 50 per cento; sono in atto
degli aperti genocidi e delle politiche di
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pulizia etnica, purtroppo non soltanto in
Kosovo ma anche in altre aree (il Sudan
è uno di queste).
Non mi lascio andare all’autopessimismo; condivido ciò che lei ha detto, vale
a dire che l’Italia in Africa può fare di
più, ma a tal fine deve scegliere delle
priorità, in quanto non può occuparsi di
tutto. La zona che dobbiamo scegliere,
secondo me, è il Corno d’Africa, perché
abbiamo dei legami di carattere storico,
tenendo – insieme a tutti i paesi della
Comunità europea – delle posizioni di
maggiore fermezza in difesa dei diritti
umani in tutti i paesi di cui lei, signor
sottosegretario, ha parlato nella sua relazione, perché possiamo e dobbiamo fare
di più.
Concludendo, per quanto riguarda
l’Angola, chiediamo maggiore chiarezza da
parte di questo ambasciatore che non
conosco ma che ho visto su posizioni
abbastanza strane, leggendo le relazioni
che appaiono sulle riviste internazionali
specializzate; a questo punto, mi viene da
pensare che il Governo non abbia le idee
chiare oppure non abbia impartito ordini
chiari su come comportarsi in ordine al
conflitto angolano. La prego, signor sottosegretario, di leggere quelle risposte e di
fornirmi qualche chiarimento.
DARIO RIVOLTA. Signor presidente,
dalla relazione del sottosegretario Serri,
ancora più cupa in ordine al problema dei
diritti umani rispetto a quanto già si
conosceva, ma soprattutto dalle parole del
collega Zacchera, mi rendo conto che in
Africa la pulizia etnica è forse solo il più
lieve dei peccati concernenti i diritti
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umani. Se avessi ascoltato questa conversazione un mese fa sarei stato particolarmente preoccupato, cosı̀ come lo è giustamente il collega Zacchera, ma sentendola oggi, dopo quest’ultimo mese e soprattutto dopo gli interventi di ieri presso
la Camera dei deputati, in cui è stato
evidente a tutti come il tema dei diritti
umani, in maniera disinteressata, sia cosı̀
presente a tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento, mi sento molto più
tranquillo. Sono sicuro – e penso di poter
assicurare il collega Zacchera – che appena avremo risolto completamente questa « piccola grana » che abbiamo in Kosovo, la NATO, con il totale appoggio di
tutti i partiti presenti al Parlamento italiano, sarà in grado di intervenire in
Africa per risolvere quei « problemucoli »
che anche là si stanno ponendo.
PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole
Rivolta. Avrà anche tranquillizzato l’onorevole Zacchera, ma le posso assicurare
che ha creato angoscia in me.
Ringrazio il sottosegretario Serri per
aver aderito al nostro invito. Il seguito del
dibattito e la replica del sottosegretario di
Stato Serri sono rinviati ad altra seduta.
La seduta termina alle 15.55.
IL CONSIGLIERE CAPO DEL SERVIZIO
STENOGRAFIA
DOTT. VINCENZO ARISTA
Licenziato per la stampa
dal Servizio Stenografia il 22 aprile 1999.
STABILIMENTI TIPOGRAFICI CARLO COLOMBO
Stampato su carta riciclata ecologica
STC13-3AU-13
Lire 500
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