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LA RIVISTA DELLA SCUOLA
Anno XX1X, 1/31 marzo 2008, n. 7
Ricerche storiche
PA L A Z Z O L O AC R E I D E
Acre, prima colonia
N
arra Michele Amari che nell’estate dell’825 Ased-IbnForait in marcia su Siracusa, dopo aver percorso “La
strada romana della costiera meridionale, oltrepassò il
Salso e imboccò la strada dei monti, giungendo a
Palazzolo, l’antica Acri” e qui riscuoté una prima taglia di cinquantamila soldi d’oro. E mentre riorganizzava l’esercito, i cittadini d’Ortigia dal canto loro allestivano le difese per resistere all’assedio. Ma le
cose non andarono per il verso giusto per il cadì, che ferito in battaglia, morì sul campo senza raggiungere la meta.
È uno dei casi in cui l’ellenica colonia si trovò coinvolta nelle sorti
della madrepatria che, come tutta la Sicilia, florido granaio, era considerata facile terra di conquista ricca di monumenti e di preziose riserve. A partire dalla seconda guerra punica, vi attinsero i pretori e i proconsoli dei vari governi pre-costantiniani, con l’unica eccezione forse
di quello di Alessandro Severo (222-235 d. C.), giovane mistico che
sognava di unificare le religioni, sotto il quale gli stati e i villaggi vassalli, e quindi anche Acre, vissero un periodo di relativo benessere.
Nel 395, con la divisione dell’impero romano, la Trinacria fu assegnata ai Bizantini, che cominciarono a dissanguarla. Il fenomeno si perpetuò per tutto il Basso Impero, specialmente con le invasioni barbariche, dai Franchi di Prodo (278-280) agli Ostrogoti di Odoacre, che
proprio ad Ortigia lasciarono una propria guarnigione (491). Siracusa
restò sempre nel mirino dei predatori: occupata da Belisario, nel 663
vi s’insediò Costante II con la sua splendida corte e la nominò Capitale dell’Impero d’Oriente. Ma l’improvvido bizantino, che a Roma
aveva manomesso le ultime tegole di bronzo dorato al Pantheon, fu
fiscalmente duro, intransigente e vessatore, e un giorno lo trovarono
stecchito nella vasca da bagno piena d’acqua bollente (668). Corse
precipitoso per vendicarlo il figlio Costantino IV, ma tutto finì lì, la
Capitale fu riportata a Costantinopoli e i siracusani rimasero soli in
balìa delle frequenti incursioni arabe, per sfuggire alle quali cercarono
riparo nelle campagne, nel cimiteri sotterranei, o catacombe, e nelle
necropoli. I sepolcri a baldacchino o a tegurium scavati nelle latomie
dell’Intagliata e dell’Intagliatella, che sono una delle attrazioni principali delle antichità acrensi, probabilmente furono adibiti a ricoveri
durante quelle persecuzioni. Il 21 maggio dell’878 Siracusa venne
assediata dai Musulmani dalle parti della vecchia Cattedrale (il Tempio di Minerva adattato a basilica) ed espugnata con crudeltà e stragi
degne di un novello Marcello, che nel 212 non risparmiò la vita di
Archimede né quella di donne e bambini.
Ma torniamo alla cronaca della sosta di Ased a Palazzolo per chiederci se in quella drammatica circostanza l’antico “castrum” abbia
subito la sorte delle 98 città dell’isola, saccheggiate e incendiate dal
furore saraceno e se gli abitanti siano stati indotti ad abbandonare il
vecchio sito per ricostruirne un altro a valle sul costone che si affaccia sull’Anapo, proprio “là dove - scriveva Luigi Bernabò Brea - un
isolato torrione offriva comode possibilità di difesa”. Se la poderosa
“fortezza” esisteva davvero a quei tempi, anche i Nornanni dovettero
servirsene. Ma è un’ipotesi che ha bisogno di riscontri. Ruggero I
d’Altavilla, fratello di Roberto il Guiscardo e primo conte di Sicilia e
di Calabria (1031-1101), dopo aver sopraffatto gli ultimi covi nemici
di Val di Noto difesi disperatamente dallo sceicco Benavert, ed ottenuto da Urbano II il privilegio della Legazia Apostolica, fondò le
Diocesi di Catania e di Siracusa affidandole rispettivamente alle cure
di Angerio e Ruggero (decano della Chiesa di Troina). Fa rilevare
Rosario Gregorio: “Provvide egli in prima di appannaggi ossia di
convenienti patrimoni la sua real famiglia e diè a Giordano Siracusa
e Noto, Ragusa a Goffredo”.
Nel 1101 la corona di Sicilia passa al figlio Ruggero II (10951154), mentre a Giordano succede Tancredi, “primo dominus” dell’araba Balansul: con questo nome il paese è indicato nel 1145 nella
Geografia dell’Edrisi, divenuto Placeolum nella bolla che Alessandro
III inviò nel 1168-69 al vescovo Parisio Spinelli, e Palatiolum nel
1170 nel decreto con cui Guglielmo II il Buono (figlio dodicenne di
Guglielmo il Malo tutelato dalla madre Margherita di Navarra) concedeva delle terre all’eremita Stefano. E qui, dopo una pausa di una
ventina d’anni, cominciano a delinearsi i primi elementi della storia
medievale di Palazzolo, per conoscere i quali rileggiamo “La Selva”
di P. Giacinto Leone (1693-1779) (del cui manoscritto Emanuele
Messina ha curato una elegante ristampa), per risalire ai primi signori che amministrarono il borgo ibleo, a partire da Alberto Pallavicino,
miles di Federico II, rimpiazzato nel 1198 da Pellegrino de Bolas e
successivamente da Alaimo da Lentini. Vita leggendaria, avventurosa
quella di Alaimo, vissuta quasi sempre tra l’ambizione e il tradimento. Amico di Manfredi, se ne allontana per sostenere gli Angioini, ma
li combatte a Messina meritando da Pietro III la nomina di Gran Giustiziere. Mal consigliato dalla moglie Matilde, torna a servire Re
Carlo facendo infuriare l’aragonese che senza tanti riperisamenti, lo
fa buttare “in mare del Maretimo dentro sacchi con li suoi nipoti”. Di
fronte ad atti di fellonia le leggi feudali erano spietate e intolleranti.
Della Baronia di Palazzolo fu investito il catalano Guglielmo de
Castellar e nel 1342, sotto Re Ludovico I, suo figlio Parisio de
Castellar e Peraportusa. Ne discendono: Roberto de Castellar (1360),
morto nel 1374, e D. Bartolomea de Castellar, che sposa Matteo Alagona da Lentini. Nel 1392 il loro primogenito Mazziotta si ribella col
padre all’autorità del sovrano ed incorre nella confisca dei beni a
vantaggio dello spagnolo Ponzio Alcalà ed Entenza. Da lui il feudo è
trasmesso alla figlia Franzina che, non intendendo risiedere in Sicilia, lo vende per ottomila fiorini a Giacomo Campolo (20 agosto
1399): al quale il Re, avendo contratto un debito di 28 mila fiorini,
concede il privilegio del “mero e misto imperio”. Una vera mazzata
per i poveri sudditi che così venivano giudicati da magistrati consensienti, processati e carcerati senza poter far valere i propri diritti. Fortuna volle che qualche anno dopo il Campolo, suscitato dal conte di
Modica Bernardo Cabrera (che aveva ricevuto dei torti dal Re), attuò
propositi d’insubordinazione costringendo Martino il Vecchio ad
armare un esercito ed a raggiungere Palazzolo per accamparsi sotto il
Castello, mentre gli abitanti facevano provviste di vettovaglie e di
mezzi di sussistenza, e il barone e il Cabrera schieravano i balestrieri
lungo le mura ed equipaggiavano i soldati con bombarde e polvere
da sparo. L’assedio si protrasse dal 18 gennaio al 12 febbraio del
1404 e non si sa se vi furono combattimenti e scontri cruenti. É
accertato però che la contesa si dissolse bonariamente per l’intervento diplomatico degli intermediari, e mentre il Cabrera, ch’era stato la
prima causa del conflitto, grazie ai suoi meriti precedenti, fu assolto
e riabilitato, sul cielo del Campòlo, al contrario, si addensavano nubi
nere come la notte.
Ora, non so se i giovani abbiano interesse a conoscere i risvolti di
questa storia, e farebbero bene a sfogliare le pagine dei testi locali
che ne parlano e la raccontano, in nome dei valori e dell’amore delle
proprie radici e della propria terra.
Il 9 aprile 1921 Paolo Orsi al Teatro Greco, nel concludere il suo
discorso alla Gioventù, esaltava Palazzolo, “città gentile ospitale,
discendente dalla piccola, ma non ingloriosa Acre”, che “tanto tesoro
racchiude di bellezza naturale e ricordi”. Ogni “zolla del suo suolo
assolutamente sacro deve essere calpestata, oserei dire, con venerazione”. Il noto archeologo, figlio della lontana Val Lagarina (18591935), legò il suo nome alla quarantennale esperienza vissuta in
parte tra scavi e ricerche nel territorio della prima colonia greca di
Siracusa, e quasi sempre mantenne con la nostra cittadina un rapporto affettivo, contemplativo, di vera amicizia.
Palazzolo nel secoli bui
Il Visconte Bernardo Cabrera (o Caprera) aveva sposato in Spagna
Timbore, figlia del Conte di Prades e di Giovanna sorella del Monblanch, e come fedele parente del Re, quindi, anche se riottoso e
indocile, non poteva essere trattato alla stessa stregua del Campolo.
Il 20 giugno 1392, Martino gli concesse la vasta Contea di Modica
appartenuta ai Chiaramonte, dicendogli: “Sigut ego in regno meo, et
tu in Comitatu tuo”. Fu la spinta perché egli facesse dei suoi possedimenti uno stato nello Stato, dove poter regnare in maniera autonoma
e indipendente. Sul suo stemma di famiglia fece incidere l’immagine
di una capra, simbolo di benessere, e i popolani cantarono:
“Capruzza, ca’ pi nui si’ capra r’oru,
rinnìllu se spirdiu lu tiempu amaru”
L’epoca aragonese fu una delle più turbolenti per la Sicilia per via
del “regio dominio che l’anarchia travolse nelle sue furibonde procelle” (dall’Anonimo Minore). Da una parte i Martini (il Duca di
Montblanch e suo figlio con la Regina Maria), dall’altra i vicarii, che
si scannavano tra loro, e gli insaziabili baroni che, divisi fra le fazioni dei latini e dei catalani, difendevano gelosamente i propri privilegi: or protetti ora scomunicati da Bonifacio IX, un papa bramoso di
denaro sino alla morte (Gregorovius). Insomma, un intreccio di nomi
e di fatti oscuri che condizionarono la vita sociale delle popolazioni
negli anni a cavallo tra i secoli XIV-XV. Uno dei più ribelli feudatari,
Andrea Chiaramonte, decapitato a Palermo, oltre alle sostanze, aveva
perso l’onore della famiglia, in quanto sua sorella Costanza, ritenuta
sterile dalla suocera Margherita, complice il Pontefice, era stata ripudiata da Re Ladislao di Napoli e costretta al concubinato. La cosa
non fu gradita al modicani che con sdegno cantarono:
“Viola Viulinu,
cunsìdira la nostra paisana!
Lu Papa ca la sciorsi di Rigina,
ci dissi: Figghia mia, fa’ la buttana! “
Lo stornello, raccolto a Chiaramonte Gulfi, secondo lo Sciascia e
riportato da Alessandro Italia a pag. 189 della sua opera, fu pubblicato nel 1907 da Eugenio Sortino-Trono Schininà ne “I Conti di Ragusa e della Contea di Modica” (Ed. Criscione, p. 155). Ma non è che,
eliminata la nemica casata dei Chiaramonte, Martino il Vecchio e
Martino il Giovane trovarono accoglienza favorevole ed esaltante nel
Rientri e restituzione
al ruolo di provenienza
Nota min. Prot. A00DGPER n. 3694 29 feb. 2008
Mobilità personale docente a.s. 2008/09 – Rientri e restituzione al ruolo di provenienza
Per venire incontro a numerose domande pervenute dagli Uffici
Scolastici Regionali e Provinciali, si comunica quanto segue: l’art. 5
– Rientri e restituzione al ruolo di provenienza – del C.C.N.I. prevede, per la prima volta tra i destinatari anche il personale docente, vincitore dei concorsi a cattedra nei licei classici e scientifici presso le
scuole militari.
A seguito di richieste di chiarimenti sulla corretta gestione di tale
personale, si precisa che nei casi in cui il personale assegnato, presso
le scuole militari abbia perso la sede di titolarità, l’U.S.P. competente
deve acquisire la data di collocamento fuori ruolo, utilizzando il
codice “P034 – Collocamento fuori ruolo presso altri enti pubblici”.
Solo dopo aver acquisito la suddetta operazione, se il docente ha
presentato domanda di rientro, l’U.S.P. competente deve acquisire la
sede prescelta utilizzando il codice “R006 – rientro da collocamento
fuori ruolo presso altri enti pubblici”.
L’operazione si deve effettuare prima dell’inizio delle operazioni
di mobilità.
Il dirigente: Luciano Chiappetta
VINCENZO
di
l’impadronirsi del “siculo trono”, perché altri potenti signori cercarono di ostacolarli e fra questi Artale Alagona, successo al padre Manfredi nella Contea di Mistretta, che li ostacolò barricandosi nell’inespugnabile Castello di Aci (lo stesso che incendiato dal Guelfi napoletani nel 1326 alla vigilia d’una nevicata, ispirò il detto popolare:
“Doppu ca Jaci arsi, nivicáu”).
Ora, se questi erano i principali protagonisti della politica nel
Regno, nel borgo ibleo altri personaggi si alternarono sulla scena
della pubblica amministrazione con titoli di baroni che, sin da Federico di Svevia, per rappresentare ufficialmente l’autorità regia, si servivano di castellani, secreti, baiuoli, magistrati ed altri fidati sudditi e
vassalli (A. Italia ne fa un elenco dettagliato a pag. 328). Nel 1397
Palazzolo fu difeso dall’assedio di Guglielmo Raimondo Moncada,
Duca di Augusta, dal “miles” Mainitto Sortino II, primogenito di
Giullo Orsino di Roma, già coppiere imperiale. Uomo di illustri origini, ma poco conosciuto. Si sa che, chiamato a dirimere una contesa
tra Siracusa e Lentini, gli fu accordata la terra di Sortino (da cui presero i nomi i suoi due figli ed i futuri discendenti, compreso lo storico ragusano Eugenio Sortino-Trono Schininà, autore del testo che
citiamo spesso come fonte). Mainitto si accasò a Noto e il 28 marzo
1397 fu gratificato da Martino I con la concessione di alcuni tenimenti, fra cui il feudo di Bibino.
Altra sommersa figura nella nomenclatura del dominium locale
era quella di Guglielmo Boira (o Borgia), che nel 1401 risulta castellano ed essendo anch’egli indicato come civis palazzolese, è probabile che entrambi - opina Tonino Grimaldi -”abbiano ricoperto in tempi
successivi, la carica di ‘capitaneus’ che in quel tempo comportava,
con l’esercizio del potere politico e l’amministrazione della giustizia,
il governo della terra” (Studi Acrensi 1, p. 76). Di semplici amministratori quindi si tratta, non di Baroni, come attesta P. Giacinto Leone
(La Selva, p. 105). Il 2 marzo 1405 Giacomo Campolo fu condannato dal tribunale della Magna Curia a rinunciare al “castro Palacioli ac
feudo Bibinj” in favore di D. Bartolomea de Castellar che era rimasta
estranea al voltafaccia del marito Matteo Alagona e figlio Mazziotta
nel rapporti con gli Aragonesi: la quale ne fece donazione alla figlia
Eleonora (o Berlingaria) andata a nozze con Alvaro Casaponti ed
Eredia (1408). La dote però, non portò fortuna alla giovane Baronessa che, rimasta vedova senza prole sia del primo marito (1431) che
del secondo Pietro Ledesma (1450), decise di frazionare la signoria a
vantaggio dei figli del fratello Giovanni, assegnando così Palazzolo
ad Artale Alagona e Bibino Magno a Mazziotta (immagino che in
altri centri geografici gli stessi nomi non si ripetano di generazione
in generazione con tanta frequenza come nel Medioevo a Palazzolo).
L’atto di divisione del patrimonio fu approvato e confermato il 26
novembre 1451 da Alfonso V d’Aragona detto il Magnanimo, che sin
dal 1412 il Parlamento aveva inviato in Sicilia “comu re princhipali
et appartatu senza haviri dipendencia de altra parte”, cioè come
monarca assoluto e indipendente. Artale così, pur non essendo crede
diretto, divenne il primo barone del paese perpetuandovi la sovranità
degli Alagona. Da lui nacque Andrea Alagona che, rimasto orfano di
padre in tenera età, crebbe sotto la protezione dello zio Mazziotta.
Maggiorenne, sposò Elisabetta Santapau, Duchessa di Montemagno
e figlia del Marchese Ponzio di Licodia, generando i figli Artale,
Ponzio ed Eleonora (e non Belladama come asserisce erroneamente
l’Amico). Qui si chiude un primo capitolo della storia medievale di
Palazzolo che, scrisse Nicolino Zocco, “rientrato nella dominazione
degli Alagona, perde anche l’importanza per lo smembramento delle
baronie di Bibino-magno e successivamente per l’alienazione dei
feudi” (Notizie Storiche, p. 24).
La vita nel Castello era noiosa e monotona, specialmente quando
non c’erano gare, duelli, quintane e tornei, e per renderla “festosa e
gioconda” il signore organizzava spesso con i dignitari divertenti battute di caccia al cinghiale e alla capra selvatica lungo i sentieri scoscesi dell’Anapo o di Monte Lauro. Un giorno di novembre del 1489
il Barone Andrea cambiò zona e si portò a Giambra, e qui mentre si
addentrava negli anfratti boscosi, “un cinghiale sanguinante e grugnente, traversò le basse e torbide acque del torrente per nascondersi
nella macchia” a pochi passi da lui e dalla sua ciurma. Era stato il
Conte di Buscemi, Giovanni di Ventimiglia, a stanarlo e colpirlo, e
naturalmente ne pretese la restituzione. Ma la bestia aveva violato i
confini del territorio palazzolese e l’Alagona non intendeva cederla.
La disputa si arroventò e dalle parole si passò ai fatti: il Conte Giovanni, “in un eccesso d’ira lo colpì con lo scudiscio e l’altro non
esitò a saltargli addosso e lo pugnalò”. Un banale litigio finito male.
Gli astanti rimasero interdetti, senza parola: improvvisarono subito
una barella con rami d’albero e vi adagiarono la vittima per trasportarla a Buscemi, dove purtroppo giunse cadavere. Alessandro Italia
ne fa un racconto minuzioso e suggestivo che val la pena rileggere
(pag. 25). Ci fu un processo davanti alla Corte dei Pari e qui, come
nelle tragedie di Euripide, intervenne dall’alto il Deus ex machina
per risolvere l’ingarbugliata matassa: cioè, furono invocate le attenuanti generiche, la provocazione, l’offesa dell’onore, l’orgoglio
ferito, la tradizione, insomma, per farla corta, D. Andrea se la cavò
con l’assoluzione piena. Intanto, l’8 giugno 1490 a Buscemi, al
povero Conte, morto senza figli, successe il fratello Francesco.
Il Borgo e il Castello
Nell’Alto e Basso Medioevo il Feudatario viveva in un maniero
inespugnabile, rozzo e inospitale, mentre il Signore si accontentava
di una modesta dimora in una “casa palazzata”, circondato da sudditi
e fidati consiglieri. La figura del Barone s’inserisce tra l’uno e l’altro
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