"La Lega del bene" - Salvatore Di Giacomo La ristrutturazione del vecchio centro storico nel XIX secolo La Napoli che se ne andò di Bruno J. R. Nicolaus Napoli è stata da sempre una città tanto stupenda quanto difficile da gestire: se ne accorsero presto gli accorti amministratori romani, i quali, a scanso di peg giori guai ed equivoci, preferirono concederle subito la massima autonomia, assieme ad uno statuto speciale ed al permesso di continuare ad usare illimitatamente il greco accanto al latino - lingua ufficiale dell’Impero. Il continuo incremento della popolazione napoletana nel corso dei secoli non fece che aumentare le difficoltà di gestione della città e mise tragicamente in evidenza tutte le carenze socio-economiche e sanitarie. Molto si parlò e discusse e poco o nulla si fece, sia sotto il regime borbonico sia sotto quello sabaudo: in numerevoli furono invece studi e progetti teorici per una ristrutturazione urbanistica - tra l’altro già proget tata da Ferdinando IV, a metà ‘800 e mai realizzata. Nella situazione igienica precaria nella quale volgeva la città, le malattie infettive dilagarono a macchia d’o lio, colpendo inesorabilmente i quartieri più poveri ed affollati: tubercolosi, tifo, paratifo, epatiti di vario tipo divennero endemici falcidiando i più deboli – vecchi, bambini e ragazzi - e furono responsabili di grandi sof ferenze; non c’è da meravigliarsi, quindi, se un altro terribile morbo, che flagellò ripetutamente l’Europa nel XIX secolo – il colera – scoppiasse a Napoli ben quattro volte nel giro di un solo trentennio (nel 1855, 1866, 1873 e 1884). La congestione dei quartieri bas si, l’insufficienza della rete fognaria, la scarsa igiene personale e la scarsezza di acqua potabile, furono ripe tutamente indicati come probabili cause o concause di queste ricorrenti, tristi evenienze e dell’alta mortalità. L’epidemia di colera del 1884 insorse, come spesso accade, all’improvviso: dilagò con rapidità ed estre Epidemia di colera del 1884 ma violenza nei quartieri bassi della città ed in misura minore negli altri. Fu allora, che le autorità cittadine - messe alle strette da stampa e pubblica opinione - fu rono costrette a mettere in atto gl’interventi più urgen ti: la creazione di una rete fognaria efficace; la realizza zione dell’ acquedotto del Serino; lo sventramento e la bonifica dei quartieri bassi; la costruzione di una strada principale dalla stazione centrale al centro cittadino (Rettifilo) e una rete viaria minore ad essa afferente. In quest’ambito si decise anche, seppure a malincuo re, l’abbattimento di numerosi edifici, tra i quali alcuni di grandissimo valore storico, onde far posto al corso Umberto, alle piazze Nicola Amore e Giovanni Bovio (piazza Borsa) e alla Galleria Umberto I1. 1 In realtà alle spalle dei grandi palazzi umbertini la situazione rimase immutata. 38 La Rassegna d’Ischia n. 4/2014 La pianificazione e la realizzazione di queste opere fu tutt’altro che facile: tanti furono gli ostacoli e i tra bocchetti messi di traverso da lobby e partiti, contrari al cambiamento e disponibili solo a soluzioni parziali e di proprio interesse. Molto efficace si rivelò, quindi, l’opera di persuasio ne di alcuni organi di stampa, tra i quali andrebbe ci tata una popolare rivista settimanale - LA LEGA DEL BENE - edita a Napoli ed in vendita in tutto il Regno al prezzo di centesimi 5: così proponeva - la Lega - in prima pagina, i suoi nobili ed encomiabili scopi: «Nel nostro paese sono partiti come tutti gli altri. Essi si combattono ora con maggiore ora con minore ferocia, sempre con pari slealtà. Ma v’è un terreno comune sul quale s’intendono sempre i caporioni di questi partiti, ed è il terreno dell’affare. Allora tu li vedi, l’occhio scintillante, le labbra tumide, la fronte increspata, il volto spietato. Manca loro un coltello fra i denti per parere omicidi. Contro questa lega del male molti vorrebbero che offrissero un asilo le leggi, altri l’Autorità politica, altri la solerzia del Magistrato, altri novelli freni meno politici e più morali. Per me, credo che a schiacciare le cento teste di questa lega del male, basterebbe il raccogliere insieme tutti i galantuomini in una Lega del Bene». Salvatore Di Giacomo – uno dei napoletani più brillanti a cavallo del XIX-XX secolo - collaborò at tivamente alla Lega: egli così si esprimeva in un suo memorabile articolo sulla ristrutturazione del vecchio centro storico, del quale si riproduce un estratto2: La Napoli che se ne andrà La Galleria Santa Brigida «A proposito di santa Brigida […] diamo un’occhiata alla zona, che la galleria verrà a bonificare». Vico Rotto S. Carlo Il primo, che s’incontra a destra, lungo la via Roma, camminando da S.Ferdinando verso la strada S. Brigi da, è il Vico Rotto S. Carlo, vico molto recente, molto sporco, molto oscuro di sera, con alcune orizzontali in fondo, a primo piano, con un caffè e alcune canove fre quentate da persone all’apparenza equivoche, con uno dei fianchi del trapezoidale palazzo Cirella che ne for ma uno dei lati e, perché senza botteghe, salvo sei verso Toledo, ne aumenta l’oscurità; con una caciolia, Donna Rosina, nella prima delle botteghe, di cui la merce più appariscente sono le provole; e una cantina speciale, con un'esposizione di secolari aranci fenomenalmente 2 Salvatore Di Giacomo: La Napoli che se ne andrà – La Galleria di Santa Brigida in “ La lega del bene”, anno I, n. 29 (1886) pp.3-5. grossi nella vetrina, e un cameriere, non meno speciale per l’eterno sonno che lo fa parlare senza conchiudere e sentire senza intendere: una cantina che ha una sto ria e che è la nota cantina di Salvatore, tanto nota a quella borghesia notturna napoletana che non ama fare un'operazione col credito fondiario prima di andare a cenare al Caffè di Europa, o di assistere al Gran Caffè allo spettacolo del biondo uomo del corso pubblico con una forchetta dimenticata in bocca e un pezzo di carne fra i denti, abbandonato completamente nelle braccia di Morfeo, col rischio di trovarsi diventato, sveglian dosi, un autentico uomo della forchetta. Al n°6 abita una sorella di Florenzano […] Al n°8 vi è una donna Giovannina, che è sola, sola, come nella canzone tarantina; ma che viceversa poi, formando come il nucleo di un esercito, trovasi in gra do, dal primo all’ultimo piano, di soddisfare ai giusti desideri di avanscoperta di un intero reggimento di cavalleria. Nel caffè sottoposto, che ho accennato, si giuocava fino a iersera a giuochi leciti, secondo il per messo, e forse, senza permesso, anche agli illeciti: ora gli è stato tolto anche il lecito dalla Questura. Al n°11 abita il noto pittore de Falco. In fondo al vico, è il muro, con le relative predette orizzontali al n°22 1°piano e una cambia moneta di rimpetto nella via che non le lascia desiderare - par lo della parte plastica, perché per i costumi la cambia moneta è certamente una onesta donna - tanto più che la guarda costantemente con occhio de suonno, nire, appassiunate, un simpatico, giovine, e robusto Cerbe ro, che potrebbe anche avariarmi le costole, se il notaio Scotti Ugo, suo vicino e che non ha pagato ancora l’ab bonamento alla Lega, gli desse a leggere la medesima. Le orizzontali sono 3 e le dirige Clementina Alfano. Il Vico Rotto S. Carlo non può essere, per la sua stes sa denominazione, anteriore al 1737. Le Guide del 1690 mostrano, che esso non esistesse in quell’epoca né dalla parte di Toledo, né dalla parte della Strada che anche allora conduceva, senza chiamarsi di S. Carlo, dalla Piazza del Palazzo Vecchio, oggi Largo di Palaz zo, alla vasta Piazza del Castello, in seguito Largo del Castello, oggi Piazza Municipio. Vico della Cagliandese Arrivati al muro, che sembra ostruire il Vico Rotto S. Carlo, questo volge obliquamente – veramente rotto – a destra e sbocca nella Strada S. Carlo; e continua a sinistra nel Vico della Cagliandese, dove un portonci no, n°12, con scaletta di marmo, conduce ad un tempio al 1°piano, ufficiato da 5 vestali, sotto la guida della somma sacerdotessa Maria Ferrara. In questo vico vi è una cantina, come ve ne sono nei due, che esso unisce, cioè nel Vico Rotto e nel Vico delle Campane. Nel 1669 vi era anche una cantina alla Cagliandese. La Rassegna d’Ischia n. 4/2014 39 È uno dei 20 quartieri, in cui era divisa la città per la vendita del vino al minuto, che allora si dava in appal to, era detto il Quartiere della Cagliandese, e conte neva le seguenti cantine e taverne come rilevatosi da un bando del marchese di Crispano regio consigliere delegato […] Il Capasso, nel suo libro Sulla circoscrizione civile ed ecclesiastica ecc. ritiene che la taverna della Caglian dese del XVI secolo fosse dov’è oggi il Vico Rotto S. Carlo. Ci troveremmo dunque nella trattoria di Salva tore: la trattoria, che non ha bisogno né di Salvatore né di Trattoria, e solo dell’indicazione del luogo per essere specificata. - Dove andiamo a cenare? - Al Vico Rotto; e si comprende che, di tutte le mezze trattorie e canove del Vico Rotto, non si parla che della trattoria di Sal vatore. Vico delle Campane Si chiamava così per un'antica fonderia di campa ne, che vi era ancora nel 1690: il che dimostra, che in origine il luogo sorse per tutto, fuorché per essere, come oggi, di ricreazione ai nottambuli di tutte le clas si della sezione S. Ferdinando. All’angolo verso Tole do, ha esso infatti la Trattoria de’ Giardini di Torino, nel piano più matto che sia mai stato schiacciato da un primo piano nobile: trattoria stabilita dopo il 1860: coll’ostricaro giù, dirimpetto al portone di entrata, col suo elegante banco di marmo e le sue arselle che ne coprono la superficie superiore. Più giù a sinistra, la nota Antica pizzeria col suo ban co di marmo, e le sue stanze da mangiare, di rimpetto, a destra. Un po’ più giù, una cappella – con una finestra accanto munita d’inferriata: finestra che fa da campani le – raccoglie la sera i fedeli. È la cappella di S. Anna. Viene poi il Vico della Cagliandese, che apre la co municazione col Vico Rotto. All’angolo con esso, al n°58, con balconi che affacciano nello stesso Vico delle Campane e in quello della Cagliandese, un’altra cappella a primo piano con 4 suore, diretta dalla priora Teresa de Santis, fa una concorrenza notturna spietata alla vicina cappella di S. Anna. Le due campanelle an nunciano a martello dalla finestra circa due ore di notte la benedizione; e nell’altra cappella, dove si penetra dal portoncino n°58 e si ascende comodamente per la marmorea scalinata, si benedice Domino in laetitia. Pare che nel secolo scorso il Vico delle Campane ed il Vico Rotto ospitassero come oggi le stesse clausu re. Nel popolo napoletano vive, in fatti, ancora una sconcia tradizione: che la regina Maria Carolina e la marchesa di San Marco facessero scommessa a chi guadagnerebbe di più, esponendo la propria bellezza all’uso degli avventori d’uno di quei templi afrodisia 40 La Rassegna d’Ischia n. 4/2014 ci: sconosciuta l’una e l’altra, aggiungesi il particolare, che la regina guadagnasse nella serata 18 ducati e la marchesa 16. Il fatto, dopo aver vissuto un secolo nei discorsi del trivio, fu raccolto da uno storico francese e da uno paesano, e se esso non è vero, rivela il concetto in cui la amica di Emma Liona e la sua corte erano tenute dal popolo di Napoli. Più giù vi è una stalla di vacche, e più giù ancora un vicoletto cieco, che è chiamato da tutti, come con nome proprio, Il vico che non spunta, privo di tabella. In questo vico continua la numerazione del Vico delle Campane, e al numero su mattone nuovo marmoreo segnato 43, infilando un pulito portoncino, per scala di marmo, si passa in un primo piano, che con le sue per siane verdi semichiuse affaccia da questa parte e dalla parte del Vico delle Campane, per lasciar vedere e non vedere, attraverso le grate della clausura, 5 monachel le, che obbediscono al pastorale abbaziale di Maria Cuomo. Poco più giù, al n°38, abitava in casa propria il de Bourcard, nipote del maresciallo di Ferdinando IV Emanuele de Bourcard, che fece le due campagne di Roma del1798 e del 1800, e a cagione del quale il generale Mcdonald scrisse a Mack le male parole, che noi pubblicammo nel n°28 della Lega. Francesco de Bourcard, che possedeva la casa al n°38, era il compilatore dell’opera illustrata Napoli e contorni. Aveva una buona biblioteca di cose napole tane al piano matto, mentre egli abitava al primo. Il Cafiero, che amava reclutare i più competenti per il suo giornale, gli fece scrivere articoli sugli edifici di Napo li; e il de Bourcard descrisse il palazzo di Donn’Anna ed alcun altro monumento nel Corriere del Mattino. Egli è morto l’anno scorso: questo uomo aveva un idea fissa che ne rivelava l’animo nobile: purgare l’avo di quel malaugurato proclama del 1798, nel quale pro metteva di uccidere un prigioniero francese per ogni colpo che avrebbe tirato Castel S. Angelo. Il Vico delle Campane continua fra canove e taverne, fin dove si chiamava Largo del Castello e poi Piazza Municipio, lasciandosi sulla sinistra il Nuovo Vico III S. Brigida (già Piazza Municipio). Quant’è bello quel vico sostituito ad una piazza! Bo nificamento alla rovescia! Vico S. Antonio Abbate Il Vico S. Antonio Abbate non è il vico delle taverne, delle cantine e dei caffè di ultimo ordine, come il Vico Rotto S. Carlo e il Vico delle Campane – che sono stati sempre tali, anche a tempo dei Borboni. In compenso però è sporco, più privo di luce, e di livello disugua le. Appena entratovi da Toledo, sulla mano destra, dal portone n°49 si sale ad un primo piano, dove 5 ciprigne riconoscono come maestra, nella pratica dei sacrifici, Carolina Petito. Anticamente questo vico era abitato da fabbricanti di polvere da sparo. Nel 1690 essi non vi erano più, ma il luogo si chiamava ancora Vico dei polveristi. Anche questo prova, che la zona fra S. Carlo, Toledo e S. Bri gida, non venne su come dipendenza, in certo modo, del vicino regio palazzo, ma come una specie di borgo del non lontano castello e delle sue caserme. Qualche gran guaio dovette mutare il nome di Polveristi in quel lo di S. Antonio Abbate; del resto, i due nomi indicano semplicemente un protetto e un protettore. Oggi, più che dei Polveristi o di S. Antonio, potrebbe chiamarsi Vico della Venere Pandemia, perché a sinistra, verso lo sbocco nel Vico III S. Brigida, dal portone n°23 per una scaletta si sale ad un Parnaso, dove 4 muse cir condano un Apollo in gonnella che si chiama Caterina Ventriglia. E per premunirsi dallo scandalo di queste abitatrici dell’ignobile Elicona, gli abitanti del 1°piano nel palazzo di rincontro han dovuto elevare un para vento di latta all’angolo del balcone. Mentre i poeti della prosa salgono d’ora in ora sul Parnaso, un bottaio fa pacificamente il suo mestiere, giù all’angolo. Vichi di S. Brigida Quasi a metà della sua lunghezza, il Vico S. Anto nio Abbate riceve a sinistra i più graditi effluvi dallo sbocco in esso del Vico I S. Brigida: noto ad ogni buon napoletano come un vico tutto assorbito in una latrina […] È il solo sfogo, dal lato destro, di questa strada: uno sfogo imperiale; uno sfogo dei tempi di Vespasia no; né ha altra apertura sul suo lato destro la larga via che prende il nome dalla santa svedese. Sicché, a quel la altezza, al comando: a destra riga, un povero soldato non troverebbe altra guida sulla quale allinearsi, che l’enorme e anche ai ciechi di Caravaggio visibile, latri na […] Ed in fatti, ai miei tempi – tempi barbari – tutti e tre i vichi: Campane, S. Antonio e II S. Brigida sboc cavano in quella larga spianata, che era il Largo del Castello, che i tempi civili chiamarono Piazza Municipio, e che poi, sotto il consolato Giura-Alvino, divenne arena di misfatti, l’uno dei quali grida ancora vendetta al trono dell’Altissimo: parlo del misfatto Capone. Il misfatto edilizio Capone gettato a qualche metro di distanza dagli sbocchi dei tre vichi, dei due ultimi spe cialmente, toglie loro aria e luce. Il delitto è rubricato dalla tabella: un vico, e stretto, soggetto alle inonda zioni notturne, boulevard delle vicine sacerdotesse del luridume, sostituito ad una spianata, di cui solo Corfù aveva l’eguale. La Piazzetta di porto a tre ore di notte, trapiantata nel centro di Napoli civile! […] Vuol dire, che col tempo, il rione S. Brigida, in vece di migliorare ha sempre peggiorato. Disponendo si bellamente verso Toledo con belli palazzi, che, con temporaneamente toglievano aria e luce a tutto ciò che essi si rimanevano indietro». Francesco de Bourcard: Usi e costumi di Napoli e contorni Figlio di Gaetano Rodolfo (secondogenito maschio di don Emanuele de Bourcard, Capitano generale na poletano) e di Clementina Viglia, Francesco nasceva il 23 Marzo 1821, alla Riviera di Chiaia, nel palazzo di famiglia situato al numero civico 168 - accanto al palazzo del Duca di Caivano - prospiciente alla Villa Reale e alla lunga spiaggia, che si estendeva dalla Tor retta a Palazzo Sirignano e poi al Castel dell’Ovo, ga rantendo libero accesso allo splendido, pescosissimo mare1. È sempre stata una delle vie più belle e salubri della città, la Riviera di Chiaia, tutta aria e sole con un’incantevole vista sul golfo: così vicina alla riva e senza protezioni, da poter essere perfino inondata dal mare in tempesta: attorno al XVI secolo – si raccon ta - una gigantesca onda anomala proveniente dalle bocche di Capri (un vero tsunami) superò il litorale raggiungendo la piazzetta, che si trova parecchi metri più in alto e che oggi si chiama piazza dei Martiri. Dopo questi disastri, un’ampia fetta di terra tra il 1 Nell’ambito dei lavori di ristrutturazione della città, la spiaggia ed una lunga fetta di mare furono ricoperti di sassi frammisti a terra (grande colmata) sulla quale fu indi costruita la via Caracciolo attuale. La Riviera di Chiaia nella prima metà dell'800 mare e la filiera di case della riviera fu ricoperta di alberi e piante: in mezzo alla sabbia, saltò fuori, come d’incanto, una macchia di verde stretta e lunga; una piccola oasi, che avrebbe fatto da scudo alla furia dei flutti. Alla fine del parco, nei pressi di Mergellina si trova tuttora un edificio alto e stretto, tutto tinto di La Rassegna d’Ischia n. 4/2014 41 bianco chiamato Torretta. Fu costruito a causa dei tur chi – si dice - che allora venivano a frotte a fare bottino di oro e di donne, sbarcando di notte su di una spiaggia del tutto indifesa. Costruita apposta per fare da guardia alla Riviera, la Torretta avrebbe meritato un nome più serio, un nome che incutesse rispetto; ma il suo pacifico aspetto scon sigliò ogni cambiamento e qualsiasi epico nome: Torretta va bene – si disse – e Torretta fino ad oggi restò. Anche Palazzo Caravita di Sirignano, all’altro capo della riviera, ha due belle torrette sul tetto: torre di vedetta, si chiama pomposamente quella sul lato orienta le. Perché tante torri, in una tanto pacifica via? Colpa dei turchi, ovviamente. D’accordo, seppure resterebbe da dimostrare, se queste torri e torrette veramente ten nero a bada i pirati: erano solo dei turchi sprovvisti, che arrivavano costeggiando la riva orientale del gol fo, mentre, tanti secoli addietro, c’erano ben più feroci La Torretta etruschi e fenici, a calare dal nord a ridosso di Procida ed Ischia, doppiando Capo Miseno2. *** Francesco de Bourcard, da sempre intimamente le gato all’anima partenopea, ebbe il gran merito di saper cogliere le sfumature più tenui della cultura locale e di descriverne con rara sensibilità pregi e difetti. Quando scriveva della città, sembrava che egli parlasse, reci tasse e cantasse allo stesso momento; con gran finezza e fantasia tratteggiava quanto vedeva e ascoltava, tutto quanto sentiva: le tantissime strade e stradine; il labi rinto di vie, viuzze, vialoni, viottoli e vicoli; le rampe, salite e discese; le innumerevoli chiese, le statue, gli affreschi e i monumenti; i palazzi e i più umili bassi; le canzoni più melodiose; il cielo, la luna, le stelle, il sole ed il mare ovviamente assieme all’alba e al tramonto. 2 Da Wikipedia: «Palazzo Caravita di Sirignano fu il primo edificio ad essere eretto alla Riviera di Chiaia nel XVI secolo, per desiderio del marchese Alarçon, generale spagnolo; a quel periodo risale la sua parte più antica, la torre di vedetta all’angolo orientale. 42 La Rassegna d’Ischia n. 4/2014 Nei periodici articoli e nelle memorie, si sente il bat tito del cuore ed il fremito dell’anima sua: ci metteva l’anima - Francesco - quando scriveva. Rileggendo i suoi scritti, ti accorgi che sono dei variopinti quadretti, dipinti con parole melodiose come canzoni invece che con i colori: ti riportano addietro nel tempo, a un'epo ca e ad una società scomparse per sempre. Francesco provava un amore profondo e sincero per la città natale ed i suoi abitanti, sentimento che traspare tra le sue righe. Nel prologo al suo splendido libro, così descri veva la sua città ed i napoletani3: «… in Napoli il cielo è quasi sempre puro e sereno: l’aria vi è salubre e libera, e non vi si sentono mai gli estremi del caldo e del freddo: nulla si può immaginare di più delizioso quanto una bella giornata d’inverno a Napoli. Questo sito, in cui la natura fa mostra di tutte le sue bellezze, questo cielo che ha una sembianza sì ridente ed una quasi perpetua dolcezza di stagioni, questi elementi diciamo così docili, che espongono gli abitanti a minori bisogni della vita, se non sempre formano le anime forti e pazienti, danno però grande energia al cuore, ed eccitano una felice illusione alle facoltà dell’anima. Sembra che qui più che altrove si creino gli ingegni per la musica, la pittura, la poesia… L'origine di Napoli è così antica che si perde nella oscurità delle favole della più remota età. Tutta l’antichità è di accordo che una Sirena detta Partenope avesse edificato su questo lido una città dandole il suo nome…Napoli (città nuova) fu così detta, per quanto si crede, allorché venne la colonia Ateniese… e quindi prevalse il nome di Napoli… e nell’antichità non viene conosciuta che come città greca…». «…Le strade di Napoli, oltre all’essere in gran parte irregolari, anguste e senza proporzione con l’altezza degli edifici, non sono tutte ben livellate con un dolce pendio…fra strade, vie, vichi, vicoletti, larghi, salite, calate, rampe, sopportici, fondaci, se ne contano più che 1400… nel 1792 furono la prima volta messe su’ cantoni delle strade le iscrizioni dei loro nomi e si affissero i numeri a tutte le porte… La illuminazione notturna cominciò a Napoli nel 1806. Prima la divozione suppliva al difetto di polizia, giacché per tutti gli angoli di strade si vedono immagini della Vergine o dei Santi con fanali mantenuti accesi dalla pietà dei complateari: i fanali pubblici che illuminano la città sono più di 1925 e le principali strade sono tutte illuminate a gas… Si può dire che a Napoli vi siano quasi tutte le arti e manifatture e che molte di esse siano in stato florido… per la sua situazione, per la sua popolazione e per le 3 Francesco de Bourcard, Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, Napoli, 1866 sue ricchezze, Napoli, potrebbe esercitare il più florido commercio… In Napoli, come quasi per tutta l’Europa, si possono fare tre distinzioni di classi, cioè di nobiltà, di ceto medio e di plebe; distinzioni oggi meno notabili che in altri tempi… Gli abitanti di Napoli, che vivono sotto un clima salubre e ridente, che ritraggono da un feracissimo terreno i prodotti più opportuni alla vita umana, sono dediti naturalmente a festive allegrezze, e molti disposti e corrivi alla pigrizia e alla mollezza…mostrano grande golosità… e la qualità più spiccata di essere portati al fracassio: va di leggieri in collera e di leggieri si calma…parla ad alta voce, è curioso, vuol decidere di tutto…la spensieratezza è un’altra qualità, la quale più che dal clima deriva dalla facilità della sussistenza e degli impieghi… sono pure vivi, ciarlieri, gesticolatori all’eccesso. Le danze, i canti, i suoni formano un gusto continuo e generale… Il dialetto del popolo napoletano vien creduto goffo da quelli che non l’hanno né esaminato né compreso… l’ingenita allegria e la ridente natura…han creato un linguaggio scherzevole e buffonesco, ma nello stesso tempo pieno di immagini, di grazie, di bei concetti. Di sali e di proverbi… Napoli fu anticamente celebre per le scienze e per le belle lettere… se nelle altre belle arti vari paesi d’Italia possono pretendere il primato, nella musica nessuno può contendere con Napoli…». *** La popolazione del quartiere di Chiaia era fatta di pescatori e gente di mare; gente semplice, avvezza fin dall’infanzia, a passare la giornata ignuda dentro l’acqua - elemento prediletto dal quale nessuno riusciva a cavarli: i signori, invece, quelli veri, quelli che da vano agli occhi - per le scarpe a punta, gli abiti ricer cati ed i cocchi sfarzosi - venivano alla Riviera a fare villeggiatura o, in altre parole, a fare quattro passi e a rifornirsi di pesce fresco. Si riconoscevano da lontano le carrozze fregiate sui lati con gli stemmi variopinti delle casate; arrivavano in una nuvola di polvere cigo lando e strisciando sull’arena con un sibilo strano, op pure sobbalzando con un tonfo sordo sul duro selciato: subito accorrevano le popolane vociando; arrivavano in frotte correndo e vantando a gran voce le qualità del proprio pescato4. Pesce di tutte le razze, grandezze, forme e colori: un limite non c’era alla pesca, essen do il mare tanto pescoso da soddisfare i bisogni delle famiglie. Non avevano vita grama i pescatori a quei tempi, raccontava Nicola Maresca nella commedia La 4 Benedetto Croce, Storie e leggende napoletane, Adelphi Edizioni 1993. Milla: descriveva argutamente la vita e le loro fatiche; i litigi, le frodi frequenti alla gabella; i piccoli furti di affamati garzoni ad avidi e tirchi padroni. Da secoli, l’esistenza proseguiva tranquilla sul litorale, finché, un giorno, Ferdinando IV non prese una storica decisio ne: il 9 Giugno 1778, emise un decreto reale e diede un colpo di spugna a quel vecchio, stupendo e pacifico sito: annunciò la creazione di un nuovissimo, unico ed aristocratico Real Passeggio di Chiaia. A tambur battente, l’architetto di corte, Vanvitelli – nipote del più famoso costruttore della Reggia di Caserta - dise gnò, una pianta della neo Villa, formata di cinque viali spaziosi. Incuranti delle usuali lentezze burocratiche e senza tanti complimenti furono espropriati i suoli occorrenti: la dogana fu trasferita poco lontano, men tre il casino degli Invitti veniva raso al suolo; i lava toi delle donne furono rimossi nonostante le loro urla ed il rischio di un’ insurrezione violenta, l’amatissima Cappelletta di don Rocco, infine, fu demolita fino alla base. Un’intera brigata di giardinieri provetti spuntò fuori dal nulla: come d’incanto, furono piantate decine e decine di tigli con viti intrecciate, mentre dalla sera alla mattina spuntavano gli alberi nuovi, molti dei qua li di altissimo fusto. Ai lati dello stupendo cancello di ferro battuto, messo di guardia all’entrata, tutto ornato di borchie d’ottone lucente, qualcuno piazzò due gros si casini di ruvida pietra: pieni di botteghe, terrazze e cantine da appaltare ai migliori offerenti, onde instal lare servizi di bar e trattoria; di bigliardo e sorbette ria, di bottiglieria ed altra galanteria. L’intenzione del costruttore nobilissima era: servire solo gente civile. La villa fu dichiarata sito reale: l’entrata permessa di giorno e di notte solo a persone decentemente vestite; severamente proibita alle genti di livrea, ai poveri, agli scalzi ed impropriamente vestiti. Presso popolo e popolino, grande fu il successo di questa nobile impresa reale: subito ben accetta e af follata di bellissima gente, desiderosa solamente di mettersi in mostra. Evviva la vanità. Nei decenni che seguirono, la Villa reale fu ampliata fino alle attuali dimensioni, perdendo dopo la cacciata dei Borbone e la riunificazione del Regno, le caratteristiche ufficiali di sito reale. Dopo l’ultima guerra, rivolgendosi al po polo in un famoso discorso, Benedetto Croce si chie deva, cosa significasse quest’opera per i Napoletani; che cosa per noi italiani. Molto istruttiva, seppure un po’ deludente, fu la con clusione del sommo Maestro, che invece di rispondere direttamente, propose la paginetta di un libretto assai popolare in Germania, nel 1892, dove una borghesuc cia berlinese in visita turistica a Napoli, così descrive va la Villa al tramonto: «Più tardi il giardino s’illuminò con cento e cento La Rassegna d’Ischia n. 4/2014 43 Real passeggio di Chiaia a fine '700 fiammelle di gas. Le piante sono vere piante, non di zinco dipinte di verde! Il mare mormora giù presso il giardino; le onde accompagnano la musica, e, cessata questa, continuano a divertirsi da sole, come fa la gente. In mezzo al giardino si eleva un magnifico edificio bianco, le cui mura sono rischiarate dalle fiammelle di gas. Esso sta serio e silenzioso, come qualcosa di straniero, in mezzo a quel rumore, allo stridore delle ruote, al vocio degli uomini, alle melodie dell’orchestra. E straniero è in effetti :è la stazione zoologica, fondata dal Dr. Dohrn di Stettino, per il quale l’Impero germanico contribuì con centomila marchi e l’Accademia di Berlino fece costruire un piccolo vaporetto, atto alla pesca degli animali marini. Altri Stati vi concorsero, ma la stazione, tuttavia, è tedesca: quantunque offra opportunità di lavoro ai naturalisti di tutte le nazioni, un tedesco l’ha fondata, e perciò essa è tedesca. Il mio Carlo disse: ”Folleggia pure, o Napoli; gioisci a tua posta! In mezzo a tutto questo tumulto, nel più bel punto di Napoli, la Germania ha eretto un tempio alla Scienza: e ciò mi rallegra più di tutto onde tu vai superba. Perché? Perché l’onore della mia patria è il mio onore». Quando queste frasi gloriose furono scritte, nel 1892, noi e gli altri europei, ancora ignari della posta in gio co, continuavamo a trastullarci nel quotidiano, mentre era già in pectore una sanguinosa guerra mondiale con questa gente! *** Benedetto Croce studiò a fondo le opere di Francesco de Bourcard, lodandole spesso; in una nota dive nuta famosa, egli così proseguiva: 44 La Rassegna d’Ischia n. 4/2014 «“Usi e costumi…” sono un magnifico libro, che mi meraviglio di non veder lodato e celebrato e ricercato come si dovrebbe, e che forse adesso comincerà a svegliare attorno a sé questi meritati sentimenti, adesso che, come tanti altri libri, - dopo la rarefazione bibliopolica prodotta dalla guerra, - è diventato prezioso e quasi introvabile5. Contiene cento disegni acquerellati, di cui ben quarantasette sono di Filippo Palizzi, ventisei del Duclère e gli altri incisi per la maggior parte da Francesco Pisanti; e cento scritti illustrativi, composti da…” “E chi era Francesco de Bourcard? Un oriundo svizzero, nipote del maresciallo Emanuele de Bourcard, capitano generale del regno di Napoli… Il nipote, come accade nelle famiglie forestiere che si stabiliscono presso di noi, presto trasformate dall’ambiente, era del tutto napoletano di sentimenti e di abitudini, e amatore altresì della storia patria, collezionista di libri e manoscritti e documenti. Morì nel 1886 nel suo appartamento di vico alle Campane…” “… Il libro si cominciò a pubblicare nel 1847 e richiese per essere condotto a fine quasi venti anni, durante i quali solo la perseverante fermezza del suo compilatore poté vincere le difficoltà che venivano dall’indisciplina dei compilatori, artisti e letterati. Il libro attraversò le rivoluzioni del 1848-47 e del 185960,e giunse a compimento nel giugno del 1866. Si possono curiosamente osservare, in alcuni punti di esso, i segni dei rivolgimenti accaduti…” “… Oggi nel guardare le figure disegnate pel libro dal Palizzi e dagli altri artisti, par di vedere una Na5 Benedetto Croce, Nuove curiosità storiche, Riccardo Ricciardi Editore, Napoli 1922 poli fantasticamente travestita, una Napoli che più non esiste, ma della quale gli uomini della mia generazione ricordano molti aspetti, nella loro fanciullezza, ancora superstiti: la Napoli degli ultimi anni dei Borbone…” “… Che se poi si desiderasse di pascere anche gli orecchi, consiglierei (mi si consenta la disgressione) di recarsi alla Biblioteca Nazionale, nella sala dei manoscritti…un vocio assordante sale da quelle pagine: i gridi della più varia intonazione, modulazione e acutezza vi s’incrociano e si soverchiano l’un l’altro… sono centinaia e centinaia di simili voci, che sembrano compiere con l’opera del fonografo il cinematografo offerto dal de Bourcard…” *** Francesco de Bourcard condusse una vita ritirata, dedicata allo studio; egli divideva il suo tempo tra biblioteche ed archivi storici, tra chiese, esposizioni e monumenti: i suoi articoli e le tante pubblicazioni trovavano sempre ampio spazio nella stampa cittadi na. Non coltivò grandi amicizie – il de Bourcard – e poco si sa della sua vita privata, mentre era nota la sua passione per libri e manoscritti antichi, che era solito acquistare a qualsiasi prezzo: con l’andare degli anni e raccogliendo a destra e manca, aveva messo insieme una biblioteca privata ricca di rarissimi testi. Avvici nandosi alla fine, egli tentò ripetutamente di cedere l’intera collezione al Comune di Napoli - a prezzo di favore e con il solo obbligo di non disperderla: non ebbe successo e così passò gli ultimi tempi della sua vita nel terrore che i suoi amati libri divenissero preda di sciacalli avidi e ignoranti; cosa che avvenne come temuto6. Lasciata la lussuosa casa paterna alla Riviera di Chiaia, Francesco era andato ad abitare assieme al fratello nel centro storico della città, al numero civico 38 del vico delle Campane, situato in una delle zone caratteristiche ma più decrepite della città - quella tra via Toledo, piazza Municipio e Santa Brigida, più o meno sul sito dell’odierna Galleria Vittorio Emanuele, la quale non esisteva ancora, a quel tempo. Un anti quato quartiere - quello delle Campane - tra i primi ad essere demolito durante la ristrutturazione edilizia di fine ‘800 - così ricordata da Salvatore Di Giacomo “il vico delle Campane, il vico Rotto San Carlo e il vico Sant’Antonio Abate, questi tre cancerosi budelli che sono stati i primi ad essere strappati dalle viscere napoletane “. 6 Salvatore Di Giacomo (1860 –1934) è stato poeta, drammaturgo e saggista; autore di molte poesie di gran successo in dialetto napoletano - molte delle quali poi musicate: Scritti inediti e rari a cura di Costantino del Franco, Ente Provinciale per il Turismo Napoli 1961, p.135 Corriere di Napoli, 2-3 ottobre 1888. Una residenza senza pretese, bohémien - quella di vico Campane - sufficiente per chi non ha tante pretese e coltiva il gusto della semplicità: notevole il vantag gio di essere in pieno centro, ad un tiro di schioppo dal Museo e dalla redazione del Corriere, al quale Francesco dedicò l’intera esistenza: “… In qualunque più lurida stradicciola napoletana, il pezzetto di terrazza che la luna bacia, nelle notti serene, è sempre una gran gioia dolcemente assaporata, e tra’ i vasi di ruta e maggiorana, davanti al parapetto alto, su cui la serva mette a seccare delle fette di melanzane, al mite lume lunare, ogni buon napoletano si sente un Tibullo, e nella più tranquilla soddisfazione segue, con l’occhio astratto, le azzurrine spire di fumo della sua pipa da due centesimi…”. Così continuava Salvatore Di Giacomo in merito a Francesco de Bourcard ed al suo alloggio nel quartie re di Santa Brigida: “…Qualcuna delle famiglie onde i lari domestici ricordavano addirittura la fondazione di quelle mura, prima che queste colpisse il piccone si è sfasciata. Io ne ricordo una, sopra i cui componenti, Dickens avrebbe dato agli avidi lettori della sua prosa grigia la pagina più mite e malinconica d’un romanzo d’interno: i due fratelli de Bourcard, la loro vecchia serva, la figlia della loro serva e la casuccia luminosa e allegra che, a un quinto piano d’un palazzetto al vico Campane, come un lieto cassettino pieno di fiori avvizziti, alloggiava tanti ricordi e tante vecchie pene…7” “…Francesco de Bourcard io l’ho conosciuto al “Corriere del mattino”, cinque o sei anni fa. Era un buon vecchio tranquillo e sereno, fumava sigari toscani in bocchini di carta da due un soldo, e alla tavola rotonda della redazione si dava, silenziosamente alla lettura di tutti gli opuscoli che arrivavano al giornale. Eravamo, in quel tempo, giovani d’anni tutti, e, chissà forse anche di cuore. Cominciava, per noi, gaiamente, la vita dell’arte e del giornalismo, erano più dolci, più durature le illusioni, e nell’avvenire o ci si pensava sorridendo, o pur non ci si pensava per nulla. Il vecchio De Bourcard, che aveva poche parole per tutti e che scriveva soltanto di monumenti, considerato come un pezzo archeologico, allontanava la nostra gioventù. Finalmente anche lui s’allontanò, né più ricomparve, e nemmeno più comparirono nella famosa pagina letteraria le sue descrizioni delle chiese e dei palazzi di Napoli... Bruno J. R. Nicolaus 7 Salvatore di Giacomo, Uomini e libri vecchi, loc. cit La Rassegna d’Ischia n. 4/2014 45