LO PSICOLOGO
E L’OBBLIGO DI TESTIMONIANZA
di Fulvio Frati
Presidente dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna
Componente della Commissione Deontologica del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi italiani
E’ sempre più frequente, per gli Psicologi del nostro Paese, che nel corso della propria attività professionale
si venga prima o poi chiamati a rendere “testimonianza” per elementi relativi al proprio lavoro ed in qualche modo
collegati, anche indirettamente, a fatti rispetto ai quali le Autorità preposte abbiano già avviato o stiano avviando
procedimenti amministrativi o giuridici, di tipo sia civile che penale.
Il presente lavoro si pone quindi il compito di cercare di indicare, a quei Colleghi che si vengano a trovare in
tali situazioni di convocazione a scopo testimoniale da parte delle competenti Autorità, quali linee di comportamento
adottare al fine di non incorrere in violazioni delle norme al riguardo vigenti, e ciò al fine di individuare in ogni
singola fattispecie quali obblighi e quali divieti, a volte anche confliggenti tra di loro, l’attuale complesso di norme
giuridiche e deontologiche preveda al riguardo.
In un mio precedente lavoro (“Il comportamento dello Psicologo nei casi di presunto
abuso sessuale nei confronti di minori”, pubblicato sul n.9 di Gennaio 2001 del “Bollettino
d’informazione dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna”, sul n. 3 di Aprile 2002 del
Giornale dell’Ordine Nazionale degli Psicologi “La Professione di Psicologo” e sul n. 3 di
Maggio 2002 di “AUPI Notizie“) ho affrontato in relazione a quanto previsto dagli artt. 361,
362 e 365 del Codice Penale attualmente vigente nel nostro Paese, ed in termini anche
generali e non solo circoscritti a tali tipi di reati di abuso sessuale, il problema dell’obbligo
o meno di “denuncia” o di “referto” nel caso in cui, nell’esercizio dell’attività professionale
di Psicologo, si venga a conoscenza di fatti che possano ragionevolmente costituire reato
e per i quali non si sia ancora manifestato, da parte delle varie Autorità specificatamente
competenti in merito, alcun segnale di diretto interessamento per quanto lo Psicologo
stesso possa aver saputo al riguardo. E’ tuttavia anche possibile che, nel corso della
propria attività professionale di Psicologi, si venga invece chiamati a rendere
“testimonianza” per elementi relativi al proprio lavoro ed in qualche modo collegati,
anche indirettamente, a fatti rispetto ai quali le Autorità preposte abbiano già avviato o
stiano avviando procedimenti amministrativi o giuridici, di tipo sia civile che penale.
Il presente lavoro si pone quindi il compito di cercare di indicare, a quei Colleghi che
si vengano a trovare in tali situazioni di convocazione a scopo testimoniale da parte delle
competenti Autorità, quali linee di comportamento adottare al fine di non incorrere in
violazioni delle essenziali norme - sia specificatamente deontologiche sia, più
genericamente, giuridiche - al riguardo vigenti.
Occorre innanzitutto evidenziare, al riguardo, che questa tematica è
esplicitamente affrontata dall’art. 12 del vigente Codice Deontologico degli
Psicologi italiani, il quale si collega più o meno direttamente agli articoli 11, 13 e 15 del
Codice Deontologico medesimo. Di questo specifico articolo 12 e degli altri tre articoli del
nostro C.D. ad esso in qualche modo collegati, pertanto, si riporta qui di seguito il relativo
testo integrale.
Articolo 11 Codice Deontologico degli Psicologi italiani
Lo psicologo è strettamente tenuto al segreto professionale. Pertanto non rivela notizie,
fatti o informazioni apprese in ragione del suo rapporto professionale, né informa circa le
prestazioni professionali effettuate o programmate, a meno che non ricorrano le ipotesi
previste dagli articoli seguenti.
Articolo 12 Codice Deontologico degli Psicologi italiani
Lo psicologo si astiene dal rendere testimonianza su fatti di cui è venuto a conoscenza in
ragione del suo rapporto professionale.
Lo psicologo può derogare all’obbligo di mantenere il segreto professionale, anche in caso
di testimonianza, esclusivamente in presenza di valido e dimostrabile consenso del
destinatario della sua prestazione. Valuta, comunque, l’opportunità di fare uso di tale
consenso, considerando preminente la tutela psicologica dello stesso.
Articolo 13 Codice Deontologico degli Psicologi italiani
Nel caso di obbligo di referto o di obbligo di denuncia, lo psicologo limita allo stretto
necessario il riferimento di quanto appreso in ragione del proprio rapporto professionale, ai
fini della tutela psicologica del soggetto.
Negli altri casi, valuta con attenzione la necessità di derogare totalmente o parzialmente
alla propria doverosa riservatezza, qualora si prospettino gravi pericoli perla vita o per la
salute psicofisica del soggetto e/o di terzi.
Articolo 15 Codice Deontologico degli Psicologi italiani
Nel caso di collaborazione con altri soggetti parimenti tenuti al segreto professionale, lo
psicologo può condividere soltanto le informazioni strettamente necessarie in relazione al
tipo di collaborazione.
Oltre a questi quattro articoli del vigente Codice Deontologico degli Psicologi italiani
sono da tenere oltremodo presenti, relativamente al tema che oggi intendo qui affrontare,
anche varie altre norme giuridiche, tra le quali occorre citare, in primo luogo, almeno gli
articoli 622 (“Rivelazione di segreto professionale”) e 326 (“Rivelazione ed utilizzazione
di segreti d’ufficio”) del Codice Penale attualmente vigente nel nostro Paese. Anche di
ambedue queste norme si riporta pertanto qui di seguito l’attuale testo completo.
Art. 622 Codice Penale - Rivelazione di segreto professionale
Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria
professione o arte, di un segreto, lo rivela senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio
o altrui profitto, è punito se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un
anno o con la multa da L 60.000 a 1 milione (c.p.326).
Il delitto è punibile a querela della persona offesa (c.p.120-126).
La pena è aggravata se il fatto è commesso da amministratori, direttori generali, sindaci o
liquidatori o se è commesso da chi svolge la revisione contabile della società (comma
aggiunto dall'articolo 2 del decreto legislativo n. 61 del 2002).
Art. 326 Codice Penale - Rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio
1. Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri
inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di
ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza,
è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
2. Se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno.
3. Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare a
sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie di ufficio,
le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da due a cinque anni. Se il
fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o
di cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni.
All’argomento della testimonianza riservano importanti spazi specifici, inoltre, sia il
Codice di Procedura Penale che il Codice di Procedura Civile attualmente vigenti nel
nostro Paese: in particolare, il nostro Codice di Procedura Penale dedica ad esso i propri
articoli ricompresi tra il n. 194 ed il n. 207, vale a dire l’intero Capo I (“Testimonianza”) del
Titolo II (“Mezzi di prova”) della Parte Prima del proprio Libro Terzo (“Prove”), mentre il
nostro Codice di Procedura Civile riserva a questo stesso argomento l’intero Paragrafo 8
(“Della prova per testimoni”) della Sezione III (“Dell'istruzione probatoria”) del Capo II
(“Dell'istruzione della causa”) del Titolo I (“Del procedimento davanti al Tribunale”) del
proprio Libro Secondo (“Del processo di cognizione”), vale a dire i propri articoli ricompresi
tra l’art. 244 e l’art. 257.
Sono pertanto da tenere ben presenti in questa sede innanzitutto, oltre agli articoli
del Codice Deontologico e del Codice Penale sopra riportati, anche alcuni articoli appunto
ricompresi tra l’art. 194 (“Oggetto e limiti della testimonianza”) e l’art. 207 (“Testimoni
sospettati di falsità o reticenza. Testimoni renitenti”) del nostro attuale Codice di Procedura
Penale: in particolar modo, per ciò che qui interessa, l’art. 198 (“Obblighi del testimone”),
l’art. 200 (“Segreto professionale”) e l’art. 201 (“Segreto di ufficio”) dello stesso. Occorre
peraltro, a questo proposito, ricordare che la Legge 1 marzo 2001 n. 63 “Modifiche al
codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della
prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'art. 111 della costituzione” ha
introdotto numerose variazioni proprio a varie norme in materia di testimonianza presenti
all’interno del Codice Penale e di quello di Procedura Penale: con tale legge non sono stati
però modificati né i sopra riportati articoli 622 e 326 del Codice Penale né gli articoli 198,
200 e 201 del Codice di Procedura Penale, bensì varie altre norme di legge tra le quali vi
sono proprio alcuni altri articoli inseriti anch’essi, come gli ultimi tre qui citati, all’interno del
Capo I del Titolo II della Parte Prima del Libro Terzo del Codice di Procedura Penale.
Con tale doverosa precisazione si riportano qui di seguito, nella loro forma
attualmente vigente, alcuni articoli del nostro attuale Codice di Procedura Penale
ricompresi tra il suo art. 194 ed il suo art. 207, i quali si ritengono particolarmente
significativi per l’argomento che si intende in questa sede affrontare.
Art. 194 Codice di Procedura Penale - Oggetto e limiti della testimonianza
1. Il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova (187). Non può
deporre sulla moralità dell’imputato (234-3), salvo che si tratti di fatti specifici, idonei a
qualificarne la personalità (133 c.p.) in relazione al reato e alla pericolosità sociale (203
c.p.).
2. L’esame può estendersi anche ai rapporti di parentela e di interesse che intercorrono tra
il testimone e le parti o altri testimoni nonché alle circostanze il cui accertamento è
necessario per valutarne la credibilità. La deposizione sui fatti che servono a definire la
personalità della persona offesa dal reato è ammessa solo quando il fatto dell’imputato
deve essere valutato in relazione al comportamento di quella persona.
3. Il testimone è esaminato su fatti determinati (499). Non può deporre sulle voci correnti
nel pubblico (2343) né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile
scinderli dalla deposizione sui fatti.
Art. 198 Codice di Procedura Penale - Obblighi del testimone
l. Il testimone ha l’obbligo di presentarsi al giudice e di attenersi alle prescrizioni date dal
medesimo per le esigenze processuali e di rispondere secondo verità (497) alle domande
che gli sono rivolte.
2. Il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere
una sua responsabilità penale.
Art. 200 Codice di Procedura Penale - Segreto professionale
1. Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del
proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne
all’autorità giudiziaria (331, 334):
a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico
italiano;
b) gli avvocati, i procuratori legali, i consulenti tecnici (2224 coord.) e i notai;
c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione
sanitaria;
d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal
deporre determinata dal segreto professionale .
2. Il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi
dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari. Se risulta infondata,
ordina che il testimone deponga.
3. Le disposizioni previste dai commi 1 e 2 si applicano ai giornalisti professionisti iscritti
nell’albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno
avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione ( 1957). Tuttavia se
le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro
veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il
giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni.
Art. 201 Codice di Procedura Penale - Segreto di ufficio
1. Salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria (331), i pubblici
ufficiali (357 c.p.), i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio (358 c.p.)
hanno l’obbligo di astenersi dal deporre (204) su fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio
che devono rimanere segreti (326 c.p.).
2. Si applicano le disposizioni dell’art. 200 commi 2 e 3.
Art. 207 Codice di Procedura Penale - Testimoni sospettati di falsità o reticenza.
Testimoni renitenti
1. Se nel corso dell’esame un testimone rende dichiarazioni contraddittorie, incomplete o
contrastanti con le prove già acquisite, il presidente o il giudice glielo fa rilevare
rinnovandogli, se del caso, l’avvertimento previsto dall’art. 497 comma 2. Allo stesso
avvertimento provvede se un testimone rifiuta di deporre fuori dei casi espressamente
previsti dalla legge e, se il testimone persiste nel rifiuto, dispone l’immediata trasmissione
degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge (476).
2. Con la decisione che definisce la fase processuale in cui il testimone ha prestato il suo
ufficio, il giudice, se ravvisa indizi del reato previsto dall’art. 372 c.p., ne informa il pubblico
ministero trasmettendogli i relativi atti.
Per quanto riguarda l’argomento che in questa sede mi sono ripromesso di
approfondire, vale a dire, appunto, l’obbligo o meno di testimonianza da parte dello
Psicologo in relazione a fatti appresi durante lo svolgimento della propria attività
professionale, .mi sembra necessario citare ancora in questa sede almeno il più
importante riferimento a tale tema presente all’interno delle “Disposizioni sul processo
penale a carico di imputati minorenni” approvate con Decreto del Presidente della
Repubblica n. 448 del 22 Settembre 1998, riportandone integralmente in questa sede il
testo del suo art.9.
Art. 9 Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448
“Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati
minorenni” - Accertamenti sulla personalità del minorenne
1. Il pubblico ministero e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse
personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l'imputabilità e
il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le
adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili.
2. Agli stessi fini il pubblico ministero e il giudice possono sempre assumere informazioni
da persone che abbiano avuto rapporti con il minorenne e sentire il parere di esperti,
anche senza alcuna formalità.
In ogni caso, a parte quanto previsto dall’art. 9 sopra riportato che si discosta in
modo significativo da quanto disposto dalle corrispondenti norme di procedura penale
vigenti per gli imputati adulti, per tutte le altre disposizioni riguardante l’obbligo di
testimonianza da parte della Psicologo nei procedimenti penali riguardanti imputati
minorenni vale di fatto quanto più dettagliatamente espresso al riguardo dalla normativa,
già in parte sopra riportata, che si applica per gli imputati maggiori degli anni 18.
Appare infine necessario riportare in questa sede, oltre a ciò che è stato evidenziato
finora per l’ambito penale, anche alcuni articoli ricompresi tra l’art. 244 (“Modo di
deduzione”) e l’art. 257 (“Assunzione di nuovi testimoni e rinnovazione dell'esame”) del
Codice di Procedura Civile: in particolar modo, per ciò che qui interessa, l’art. 249
(“Facoltà d'astensione”), l’art. 250 (“Intimazione ai testimoni”), l’art. 255 (“Mancata
comparizione dei testimoni”) e l’art. 256 (“Rifiuto di deporre e falsità della testimonianza).
Art. 249 Codice di Procedura Civile - Facoltà d'astensione
Si applicano all'audizione dei testimoni le disposizioni degli articoli 351 e 352 del codice di
procedura penale relative alla facoltà d'astensione dei testimoni. (Si vedano, attualmente,
gli artt. 199 nuovo c.p.p. per la facoltà di astensione e gli artt. 200 e 204 stesso codice per
l’obbigo di astenersi a causa di segreto professionale o di Stato).
Art. 250 Codice di Procedura Civile - Intimazione ai testimoni
L'ufficiale giudiziario, su richiesta della parte interessata, intima ai testimoni ammessi dal
giudice istruttore di comparire nel luogo, nel giorno e nell'ora fissati, indicando il giudice
che assume la prova e la causa nella quale debbono essere sentiti.
Art. 255 Codice di Procedura Civile - Mancata comparizione dei testimoni
Se il testimone regolarmente intimato non si presenta, il giudice istruttore può ordinare una
nuova intimazione oppure disporne l'accompagnamento all'udienza stessa o ad altra
successiva. Con la medesima ordinanza lo condanna a una pena pecuniaria non inferiore
a lire quattrocento e non superiore a lire ottomila, oltre che alle spese causate dalla
mancata presentazione.
Se il testimone si trova nell'impossibilità di presentarsi o ne è esentato dalla legge o dalle
convenzioni internazionali, il giudice si reca nella sua abitazione o nel suo ufficio; e, se
questi sono situati fuori della circoscrizione del tribunale, delega all'esame il pretore del
luogo.
Art. 256 Codice di Procedura Civile - Rifiuto di deporre e falsità della testimonianza
Se il testimone, presentandosi, rifiuta di giurare o di deporre senza giustificato motivo, o se
vi è fondato sospetto che egli non abbia detto la verità o sia stato reticente, il giudice
istruttore lo denuncia al pubblico ministero, al quale trasmette copia del processo verbale.
Il giudice può anche ordinare l'arresto del testimone.
Per completezza informativa, va comunque ricordato che nell’ordinamento
giudiziario del nostro Paese non sono previste soltanto una Giustizia Penale ed una
Giustizia Civile, ma esiste anche una Giustizia Amministrativa (regolata in modo
particolare dalla Legge n. 1034 del 6 dicembre 1971) che ha fondamentalmente il compito
di accertare la correttezza o meno degli atti compiuti dalla pubblica Amministrazione. Sino
a pochi anni fa, tuttavia, i processi amministrativi si svolgevano esclusivamente attraverso
l’analisi degli atti formali e degli altri scritti al riguardo presentati dalle parti in causa, e non
prevedevano quindi alcuna forma di testimonianza personale diretta. Tale possibilità è
stata poi introdotta dalla più recente Legge n. 205 del 21 luglio 2000 (“Disposizioni in
materia di giustizia amministrativa”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 173 del 26 luglio
2000), per cui ora la testimonianza è ammessa anche nei procedimenti avviati e condotti
dalla Magistratura Amministrativa. A tale forma di acquisizione della testimonianza in sede
di Giustizia amministrativa, comunque, si applicano le medesime procedure previste per i
procedimenti di tipo civile, e le norme da tenere presenti in tale sede per quanto concerne
il coinvolgimento in qualità di testimoni di persone che possono essere venute a
conoscenza di fatti rilevanti ai fini processuali durante l’esercizio della loro attività
professionale di Psicologo risultano quindi essere, di fatto, i medesimi articoli del Codice di
Procedura Civile già sopra trascritti.
Dall’analisi complessiva di tutte le norme giuridiche sopra riportate,
indipendentemente dal fatto che ciascuna di esse sia in realtà più specificatamente
riferibile all’ambito deontologico, a quello civile o amministrativo oppure, infine, a quello
penale, emerge comunque in primo luogo una loro sostanziale convergenza rispetto a due
concetti fondamentali:
1) Alcune figure professionali, per la loro specifica natura sanitaria (tra le quali
dovrebbero quindi sicuramente ricadere sia quella dello Psicoterapeuta sia quella dello
Psicologo Clinico) o comunque per il fatto che svolgano una particolare “professione od
arte” regolate da un apposito Albo e Codice Deontologico (e tra le quali dovrebbe quindi
ricadere anche quella di Psicologo “tout-court”), sono di norma tenute all’ “obbligo di
segreto professionale”, cioè non possono di regola rivelare a nessuno, e quindi nemmeno
a chi avendone facoltà li interroga in qualità di testimoni, notizie segrete o comunque
riservate apprese nel corso della propria attività professionale. In caso contrario esse
commettono un reato penale in violazione dell’art. 622 c.p., ed eventualmente anche
dell’art. 326 c.p. se esse sono “pubblici ufficiali” o “incaricati di pubblico servizio” (qualifica
che nel caso dello Psicologo può essere sicuramente attribuita ai dipendenti o ai
convenzionati con il Servizio Sanitario Nazionale, a chi svolge funzioni di C.T.U. ecc.).
2) Tale norma di carattere generale può essere tuttavia derogata in caso di valido e
dimostrabile “consenso informato” della persona da cui le notizie da considerarsi segrete o
comunque riservate sono state riferite, oppure, anche in assenza di tale consenso
informato, da un Giudice che, sulla base della considerazione per la quale possa essere in
alcune circostanze da considerarsi prevalente l’interesse generale del dover rendere
giustizia ad una vittima rispetto all’interesse individuale relativo all’inviolabilità del segreto,
obblighi con apposito atto a testimoniare il professionista che conosce tali notizie segrete o
comunque riservate.
E’ quindi da evidenziare, in primo luogo, che nessuna Autorità al di fuori di un
Giudice o di un Presidente di Tribunale può mai ordinare ad uno Psicologo di rendere
testimonianza su fatti che lo Psicologo stesso ha appreso durante lo svolgimento della
propria attività professionale. Ciò, tuttavia, non esime affatto ogni Psicologo che sia
convocato in qualunque sede a ciò riconosciuta dallo Stato al fine di rendere
testimonianza dal presentarsi nell’ora e nel luogo indicati nella convocazione stessa: in
caso contrario, infatti, il Giudice o il Presidente del Tribunale può disporne
“l'accompagnamento all'udienza stessa o ad altra successiva”, sia che si tratti di un
procedimento di tipo penale sia che si tratti di un procedimento di tipo civile o
amministrativo. In tutti questi casi, pertanto, è opportuno che, di norma, lo Psicologo
convocato per rendere testimonianza si presenti spontaneamente nel luogo e nell’ora
indicatigli, al fine di prevenire la possibilità di un accompagnamento coatto che
sicuramente non giova né all’immagine sociale del singolo professionista né a quella della
professione complessivamente intesa.
Una prima doverosa precisazione, al riguardo, va tuttavia operata in riferimento
all’eventualità per nulla remota che uno Psicologo – specialmente se operante nel territorio
italiano o comunque europeo – venga chiamato a testimoniare da un Giudice
appartenente non ad una Corte di tipo Penale, Civile o Amministrativo, bensì del Tribunale
della Sacra Rota, Tribunale della Curia romana detto originariamente (cioè nel secolo XII,
quando con ogni probabilità esso venne istituito) “Audentia Sacri Palatii”. Il nome “Rota”,
che compare per la prima volta nel 1337, secondo alcuni pare sia dovuto al fatto che i
rotoli contenenti la documentazione delle cause venivano posti su un sostegno girevole;
secondo i più, potrebbe derivare dal fatto che gli uditori sedevano in cerchio; secondo altri
ancora, dal fatto che le cause venivano giudicate a turno. Oggi la “Sacra Rota” è un
tribunale collegiale che giudica per turni di tre “uditori” (o “Videntibus omnibus”); il più
anziano di questi svolge le funzioni di Presidente della Corte, e normalmente è ponente ed
eventualmente anche istruttore della causa. Di norma la “Sacra Rota”, secondo il Codice
di Diritto canonico, è tribunale di appello e giudica in seconda istanza le cause definite in
primo grado dai tribunali ordinari e deferite alla Santa Sede per legittimo appello; tuttavia
può anche giudicare in terza istanza le cause già trattate in appello dalla stessa Sacra
Rota, da altro tribunale ecclesiastico e dal tribunale ecclesiastico della Città del Vaticano,
e giudica inoltre in prima istanza sia quelle cause che il romano pontefice avoca a sé e poi
affida ad essa sia, sempre in prima istanza, i vescovi (salvo l’eccezione stabilita del can.
1419, par. 2), gli abati e i superiori generali di istituti religiosi e di diritto pontificio. In alcuni
tra questi tipi di procedimento, e particolarmente in quelli concernenti l’eventuale
annullamento di un matrimonio contratto con il rito religioso, non è quindi strano che il
Presidente della Corte di questo Tribunale specificatamente incaricata di giudicare in
relazione alla causa in corso convochi in qualità di testimone uno Psicologo che può avere
in qualche modo avuto tra i propri clienti o pazienti una delle parti in causa, ad esempio
uno dei coniugi: ma in questi casi, non avendo questo Tribunale alcuna autorità di tipo
penale o civile ma solo una funzione di tipo religioso, allo Psicologo eventualmente
convocato non solo non compete alcun obbligo di presentarsi dinanzi a tale Corte (e se
non lo fa non può sicuramente essere costretto a farlo attraverso l’utilizzo della Forza
Pubblica), ma se lo facesse senza aver prima acquisito al riguardo un apposito consenso
informato scritto da parte del proprio cliente coinvolto in tale causa ricadrebbe
evidentemente in una palese violazione della norma penale sull’obbligo di segreto
professionale (art. 622 C. P. sopra riportato, e, nel caso che egli sia pubblico dipendente
o comunque incaricato di pubblico servizio, anche art. 326 C.P.) nonché dell’art. 12 del
proprio Codice Deontologico, esponendosi quindi sia alle conseguenti sanzioni sia
disciplinari che penali conseguenti a tali norme.
Diverso è, invece, il caso dello Psicologo che venga chiamato a rendere
testimonianza da parte di un’Autorità riconosciuta come tale ai fini penali, civili o
amministrativi da parte dello Stato italiano. In tutti questi casi, al fine di prevenire al meglio
il rischio di essere poi invitato a presentarsi di fronte a tale Autorità attraverso l’azione
della Forza Pubblica – situazione che, come già si è sottolineato, sicuramente non giova
nè all’immagine sociale del singolo professionista né a quella della professione
complessivamente intesa – è sicuramente opportuno che lo Psicologo si presenti
sollecitamente e spontaneamente di fronte a tale Autorità, al fine di chiarire in via
preliminare con chi la rappresenta i propri doveri ed i propri limiti a lui imposti dalle vigenti
normative deontologiche e penali in materia di segreto professionale.
Una volta giunto di fronte all’Autorità che lo ha convocato affinché renda
testimonianza, tuttavia, lo Psicologo ha il dovere di informarla immediatamente che, se
già non dispone di uno specifico consenso informato scritto e sulla base di quanto previsto
sia dal Codice Penale che dal proprio Codice Deontologico, è rigorosamente tenuto al
rispetto del segreto professionale ed incorre nel rischio di sanzioni sia penali sia
disciplinari se infrange tale divieto rendendo testimonianza. A questo punto, nel caso che
l’Autorità in questione non sia un Giudice (ma sia, ad esempio, un Ufficiale di Polizia
giudiziaria che stia svolgendo indagini, oppure un funzionario di Pubblica Sicurezza
operante su mandato di un Pubblico Ministero) essa deve solo prendere atto di tale
obbligo dello Psicologo, senza alcuna possibilità di “obbligarlo” a testimoniare; nel caso si
tratti di un Giudice o di un Presidente di Tribunale, invece, possono originarsi alcune
differenti possibilità, che vanno ad una ad una specificate ed esaminate.
Prima di entrare nel merito di ciascuna di esse, comunque, vale la pena di
sottolineare una norma di comportamento generalmente valida, per lo Psicologo, in tutti i
casi in cui si prospetti la possibilità che egli venga chiamato a testimoniare in relazione a
quanto appreso durante la propria attività professionale, vale a dire quanto prescritto
dall’art.12 del vigente Codice deontologico degli Psicologi italiani e già sopra riportato, Il
secondo comma di tale articolo afferma infatti che “Lo psicologo può derogare all’obbligo
di mantenere il segreto professionale, anche in caso di testimonianza, esclusivamente in
presenza di valido e dimostrabile consenso del destinatario della sua prestazione”. Inoltre,
il successivo e finale periodo del medesimo art. 12 C.D. stabilisce che lo Psicologo, anche
in caso di valido e dimostrabile consenso alla propria testimonianza reso da parte del
destinatario della sua prestazione, “valuta, comunque, l’opportunità di fare uso di tale
consenso, considerando preminente la tutela psicologica dello stesso”.
Ed è proprio al fine di evitare che eventuali violazioni non autorizzate del segreto
professionale, a seguito di richiesta di testimonianza, sortiscano effetti dannosi per
l’equilibrio ed il benessere psicologico del soggetto che va anche in questa sede
considerata come fondamentale la soluzione indicata dall’art. 12 del Codice Deontologico,
e cioè il consenso informato. Occorre cioè, non appena lo Psicologo venga a conoscenza
del fatto di essere stato chiamato da una qualunque Autorità a rendere testimonianza su
notizie apprese nel corso della propria attività professionale con una specifica persona o
uno specifico gruppo di persone (ad es. coppia, famiglia, comunità ecc.) che lo Psicologo
ne parli direttamente con quella o quelle specifiche persone, al fine di valutare con loro, ed
eventualmente acquisire da loro, quel consenso informato alla testimonianza che più di
ogni altra cosa lo garantirebbe rispetto a qualunque rischio sia disciplinare sia
amministrativo, civile o penale. Ottenendo tale consenso informato, infatti, lo Psicologo
potrebbe effettuare con la massima serenità la dovuta testimonianza all’Autorità, sicuro di
non infrangere in alcun modo il dovere di riservatezza proprio in quanto preventivamente
abilitato a farlo dal proprio assistito o dai propri assistiti dopo averli, a propria volta, resi
edotti delle conseguenze della propria eventuale testimonianza.
Viceversa, senza aver ottenuto tale consenso allo Psicologo non è di norma possibile
prestare alcun tipo di testimonianza, perché da un lato ciò infrangerebbe il rapporto di
fiducia col proprio assistito e minerebbe quindi alla base il fondamentale presupposti di
qualunque ulteriore futuro lavoro con lui, e dall’altro lo esporrebbe sia ad una concreta
sanzione disciplinare da parte del proprio Ordine territoriale di appartenenza per violazione
dell’art. 12 del C.D. sia a non meno pesanti conseguenze da parte della Giustizia ordinaria
per violazione dell’ art. 622 (ed eventualmente anche dell’art. 326) del Codice Penale.
E’ a questo punto, tuttavia, che occorre distinguere – sulla base delle differenti
fattispecie previste dal Codice di procedura Civile (che come ho già detto si applica anche
ai casi relativi a procedimenti condotti dalla Giustizia Amministrativa) da un lato e dal
Codice di Procedura Penale dall’altro, attraverso gli specifici articoli sopra al riguardo già
riportati – che cosa può accadere allo Psicologo che non ottenga dal proprio assistito tale
consenso, e che ciò nonostante si trovi ad essere convocato a rendere testimonianza non
di fronte ad una qualsiasi pubblica Autorità, ma più specificatamente ad un Giudice o ad
un Presidente di Tribunale.
Come ho già sopra sottolineato, infatti, una volta giunto di fronte ad un Giudice o ad
un Presidente di Tribunale che lo ha convocato affinché renda testimonianza lo Psicologo
ha il dovere di informarlo immediatamente che, se già non dispone di uno specifico
consenso informato scritto e sulla base di quanto previsto sia dal Codice Penale che dal
proprio Codice Deontologico, egli è rigorosamente tenuto al rispetto del segreto
professionale ed incorre nel rischio di sanzioni sia penali sia disciplinari se infrange tale
divieto rendendo testimonianza. Anche nel caso opposto, nell’ipotesi cioè che lo Psicologo
disponga di tale consenso, egli deve far comunque rilevare sin dall’inizio a tale Giudice o
Presidente di Tribunale che l’ultima parte dell’art. 12 del proprio Codice Deontologico gli
impone, comunque, di rivelare soltanto ciò che, per il fatto stesso di essere reso noto, non
provochi alcun tipo di negativa conseguenza rispetto all’equilibrio ed al benessere
psicologico del soggetto stesso.
E’ quindi a questo punto che si originano alcune differenti possibilità, come sopra
anticipavo, nel caso che il Giudice o Presidente del Tribunale al quale lo Psicologo si trova
di fronte stia operando in un contesto giudiziario di tipo Civile o Amministrativo, da un lato,
oppure Penale dall’altro.
Per quanto riguarda infatti un’eventuale richiesta di testimonianza rivolta ad uno
Psicologo da parte di un Giudice chiamato a decidere relativamente ad un procedimento di
tipo Civile o Amministrativo, l’art. 249 del Codice di Procedura Civile (“Facoltà
d'astensione”) richiama direttamente l’art. 200 del Codice di Procedura Penale, anch’esso
relativo all’obbligo dei testimoni di astenersi a causa di segreto professionale, e quindi, in
tal caso, se lo Psicologo ritiene di non potere (in quanto privo del necessario consenso
informato da parte del proprio assistito) o di non dovere testimoniare (sulla base di quanto
previsto a sua volta dall’ultimo periodo dell’art. 12 C.D. e sopra già ripetutamente
evidenziato) al Giudice non resta che prendere atto di tale “giustificato motivo”
esplicitamente previsto dal sopra riportato art. 256 C.P.C., e di rinunciare quindi ad
acquisire la testimonianza dello Psicologo stesso senza alcuna conseguenza ulteriore per
quest’ultimo.
Nel caso invece che lo Psicologo si trovi ad essere chiamato a rendere
testimonianza da parte di un Giudice o di un Presidente di Tribunale relativamente ad un
procedimento di natura penale la Legge attualmente vigente non appare del tutto univoca
come quella invece vigente in materia di procedimenti civili o amministrativi. Occorre
pertanto distinguere, a questo proposito, tre differenti ulteriori casi particolari.
Nel caso il procedimento penale riguardi un soggetto tossicodipendente, in primo
luogo, la legge attualmente vigente (art. 120 D.P.R. n.309 del 9/10/1990) riconosce allo
Psicologo operante presso Servizi pubblici oppure presso Enti, Centri, Associazioni o
Gruppi convenzionati con il Servizio pubblico per le tossicodipendenze il totale diritto di
astenersi da qualunque tipo di testimonianza, anche nel caso si tratti di un procedimento
che veda tale soggetto accusato di reati previsti come tali dal Codice Penale: come
rilevano al riguardo Gulotta e Calvi (Il Codice Deontologico degli Psicologi commentato
articolo per articolo, Milano, Giuffrè, 1999, pag. 102) “si privilegia qui la necessità
terapeutica rispetto a quella giudiziaria”, il che poi è il medesimo principio che viene, con
altre parole, ribadito dal più volte qui ricordato ultimo periodo dell’art. 12 del nostro Codice
deontologico attualmente vigente.
Non tutta la normativa vigente in materia di procedimenti a carattere penale, tuttavia,
è ancora chiaramente scritta in termini che rendono esplicita in tale specifico contesto
procedurale l’universalità di tale principio. Esso tuttavia può ritenersi, nel nostro attuale
panorama giuridico, consolidato in maniera per certi aspetti analoga a quanto stabilito dal
D.P.R. 309/90 per i soggetti tossicodipendenti anche per quanto riguarda, ad esempio, i
soggetti minorenni, in quanto tutto lo spirito del D.P.R. n. 448 del 1988 (“Approvazione
delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”), anch’esso qui già in
precedenza citato, appare orientato a tutelare prioritariamente la salute e l’adeguato
sviluppo psicologico successivo di questi soggetti rispetto ad esigenze immediate di
accertamento della verità attraverso procedure che potrebbero invece comprometterlo.
Nel caso di soggetti maggiorenni non tossicodipendenti, infine, l’art. 200 del Codice
di Procedura Penale esonera dall’obbligo di “deporre su quanto hanno conosciuto per
ragione del proprio ministero, ufficio o professione” sia “i medici e i chirurghi, i farmacisti, le
ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria” (Comma 1 lettera c) sia “gli
esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal
deporre determinata dal segreto professionale” (Comma 1 lettera d).
Come quindi sopra già anticipavo, secondo la mia personale interpretazione, nella
prima di queste due fattispecie dovrebbero sicuramente ricadere, per la loro specifica
natura sanitaria, sia la figura professionale dello Psicoterapeuta sia quella dello Psicologo
Clinico, mentre nella seconda (vale a dire quella di professionisti che svolgano una
particolare “professione od arte” regolate da un apposito Albo e Codice Deontologico)
dovrebbe con altrettanta probabilità ricadere quella di Psicologo “tout-court”. Da tali
considerazioni, pertanto, ne discenderebbe che, di norma, nessun Giudice o Presidente di
Tribunale potrebbe di fatto obbligare a testimoniare (o, per meglio dire, assumere i
provvedimenti anche coercitivi al riguardo previsti dal sopra riportato art. 207 C.P.P. al fine
di obbligarlo a testimoniare) uno Psicologo convocato in un procedimento penale allo
scopo di rendere testimonianza relativamente a fatti o notizie appresi nel corso della
propria attività professionale che si rifiutasse di testimoniare o in base alla mancanza di un
consenso informato a lui concesso o in base alla propria personale valutazione che la
rivelazione di tali notizie o fatti potrebbe risultare rischiosa per la salute ed il benessere
psicofisico del soggetto che glie l’ha rivelata.
Tuttavia, occorre precisarlo, qualche Giudice o Presidente di Tribunale avrebbe
almeno due buone argomentazioni per confutare, almeno in prima istanza, tale mia
interpretazione “garantista” per lo Psicologo, e ciò sulla base dei seguenti elementi:
1) Né la figura professionale dello Psicologo “tout court” né quelle più “specialistiche” dello
Psicoterapeuta o dello Psicologo Clinico risultano in realtà inserite tra le “Professioni
sanitarie” esplicitamente citate nell’art. 99 del “Testo Unico delle Leggi Sanitarie”;
2) Né la legge istitutiva della Professione di Psicologo (L. 56/89) né le sue successive
modificazioni od integrazioni affermano all’interno del loro testo che tale figura
professionale ha l’obbligo di segreto professionale (a differenza di quanto avviene
all’interno di norme giuridiche relative ad altre figure professionali, tra le quali, ad esempio,
basterà citare le apposite "Disposizioni concernenti l’obbligo del segreto professionale per
gli Assistenti Sociali” emanate con la recente Legge 3 aprile 2001, n. 119).
E’ tuttavia già presente, tra le Leggi in vigore nel nostro Paese, una norma che
assegna ad operatori di varie professionalità, tra le quali può in taluni casi certamente
ritrovarsi anche quella dello Psicologo, un chiaro “non obbligo di testimonianza”
assolutamente identico a quello di tutte le altre Professioni per le quali si applica invece
inequivocabilmente quanto previsto dall’art. 200 del Codice di Procedura Penale: si tratta
del comma 7 dell’art. 120 del D.P.R. 9 Ottobre 1990 n. 309 “Testo unico delle leggi in
materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”. Afferma testualmente tale comma:
“I dipendenti del servizio pubblico per le tossicodipendenze non possono essere
obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione della propria professione, né
davanti all’autorità giudiziaria né davanti ad altra autorità. Agli stessi si applicano le
disposizioni dell’articolo 200 del codice di procedura penale e si estendono le garanzie
previste per il difensore dalle disposizioni dell’art. 103 del codice di procedura penale in
quanto applicabili. La presente norma si applica anche a coloro che operano presso gli
enti, centri, associazioni o gruppi che hanno stipulato le convenzioni di cui all’articolo 117”,
vale a dire gli “Enti ausiliari” del “volontariato” e del “privato sociale” operanti nell’ambito
delle tossicodipendenze e a tal fine specificatamente riconosciuti con apposita
convenzione da parte delle Aziende Sanitarie Locali territorialmente competenti.
Questa norma di Legge, pertanto, assegna a tutti i dipendenti dei Ser.T. e delle altre
strutture autorizzate ad operare nell’ambito delle dipendenze patologiche, inclusi quindi
anche gli Psicologi che operano in tale ambito anche se, ovviamente, limitatamente alla
loro attività in tale specifico contesto, una completa autonomia rispetto all’obbligo di
sottostare o meno ad ogni specifica richiesta di testimonianza rivolta a loro da qualunque
Autorità, inclusa quella rappresentata da un Giudice incaricato di occuparsi di un
procedimento relativo alla presunta violazione di disposizioni del Codice Penale.
Si tratta tuttavia, almeno sino a questo momento (Maggio 2003), dell’unica norma di
legge vigente in Italia nella quale tale autonomia di scelta per lo Psicologo chiamato a
testimoniare all’interno di un procedimento a carattere penale sia chiaramente ed
inequivocabilmente espressa.
Per tutti gli altri casi di attività dello Psicologo, al di fuori del circoscritto ambito
relativo agli interventi di “prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento” nel settore delle
dipendenze patologiche, tale “autonomia di valutazione” da parte di un Professionista
Psicologo regolarmente iscritto all’Albo degli Psicologi Italiani rispetto ad una
convocazione rivoltagli da parte di un Giudice operante in ambito penale al fine di
richiedergli testimonianza non è di fatto, al momento attuale, esplicitamente riconosciuta
da alcuna norma di legge. Si può quindi al riguardo affermare che allo stato attuale, in tutte
le situazioni inerenti procedimenti penali che non vedono come imputati soggetti
tossicodipendenti o ex-tossicodipendenti conosciuti da uno Psicologo operante nel nostro
Paese in relazione alla propria attività professionale nel settore delle dipendenze
patologiche, lo Psicologo stesso è chiaramente obbligato a presentarsi di fronte al Giudice
che lo ha chiamato a testimoniare.
In conseguenza di tali considerazioni, pertanto, potrebbe di fatto verificarsi
concretamente la possibilità che uno Psicologo non specificatamente operante nell’ambito
delle tossicodipendenze, sentendosi deontologicamente impossibilitato a testimoniare nel
corso di un procedimento penale a carico di uno o più soggetti terzi in quanto privo del
necessario consenso informato oppure al fine di tutelare la loro salute ed il loro benessere
psicologico e psicofisico e comportandosi di conseguenza, corra il rischio di veder attivato
nei propri confronti dal Giudice o dal Presidente del Tribunale quanto previsto dall’art. 207
del Codice di Procedura Penale (Testimoni sospettati di falsità o reticenza. Testimoni
renitenti) e si senta quindi rivolgere da tale Autorità “l’avvertimento previsto dall’art. 497
comma 2” del C.P.P. stesso. In tale non frequentissima ma neppure impossibile ipotesi, al
fine di evitare che il Giudice allora disponga “l’immediata trasmissione degli atti al pubblico
ministero perché proceda a norma di legge” mettendo eventualmente in atto anche misure
di tipo coercitivo o comunque potenzialmente limitanti la propria libertà personale, lo
Psicologo può allora ribadire la propria posizione di rifiuto alla testimonianza attraverso le
seguenti argomentazioni:
1) Sebbene né la figura professionale dello Psicologo “tout court” né quelle più
“specialistiche” dello Psicoterapeuta o dello Psicologo Clinico risultino in effetti inserite tra
le “Professioni sanitarie” esplicitamente citate nell’art. 99 del “Testo Unico delle Leggi
Sanitarie”, ciò è essenzialmente dovuto al fatto che tale Testo risale ad un epoca (e
precisamente l’anno 1934) in cui “l’attività dello Psicologo era ai primordi e, possiamo dire,
sconosciuta al legislatore” (Gulotta e Calvi, cit., pag. 105);
2) Varie altre norme giuridiche successive hanno comunque chiaramente caratterizzato in
senso sanitario sia le attività specialistiche dello Psicoterapeuta e dello Psicologo Clinico
(ad es. il Decreto 21 Gennaio 1994 “Prestazioni sanitarie rese da professionisti esenti
dall’Imposta sul Valore Aggiunto”, pubblicato sulla G.U. del 2 Febbraio 1994, n.26) sia
quella dello Psicologo genericamente definito come tale in varie normative riguardanti le
figure professionali operanti all’interno del Servizio Sanitario Nazionale (ad es. il D.P.R. n.
761 del 20/12/1979);
3) La stessa Legge alla base di ogni altra norma giuridica dello Stato italiano, vale a dire la
Costituzione della Repubblica, pone con il proprio art. 32 la salute come “fondamentale
diritto dell'individuo e interesse della collettività”, e di questo principio non solo lo
Psicologo, ma anche lo stesso Giudice o Presidente del Tribunale devono tener conto
nell’esercizio della propria attività professionale. Pertanto, se anche la Costituzione stessa
(e non solo il proprio Codice Deontologico) impone allo Psicologo di tener conto della
tutela della salute dei cittadini, anche il Giudice nell’esercizio della sua funzione non può
prescindere dal fatto che il diritto alla salute va tutelato almeno in misura equivalente al
principio della corretta amministrazione della giustizia, e che nel procedimento penale in
corso ambedue i suddetti principi devono concorrere in modo che la tutela della salute dei
soggetti coinvolti non venga in alcun modo esposta ad alcun tipo di rischio.
Con tali argomentazioni, io credo, difficilmente uno Psicologo che si rifiutasse di
rendere testimonianza in un processo penale al fine esclusivo di non infrangere il rapporto
di fiducia che lega a lui il proprio paziente, consentendo così a quest’ultimo di consolidare
il proprio equilibrio e la propria salute psicologica e psicofisica, può realmente correre il
rischio di incorrere nelle misure previste dal sopra riportato articolo 207 del Codice di
Procedura Penale. Non vi è comunque, al riguardo, nessuna certezza, nessuna garanzia,
ed il nucleo del rischio contro cui gli Psicologi appaiono scontrarsi nel caso della richiesta
di una loro testimonianza in ambito penale è appunto rappresentato dal più volte sopra
ricordato art. 622 del Codice Penale, che prevede e descrive il reato di “rivelazione di
segreto professionale”. Tale articolo merita pertanto, in questa sede, un’ultima attenta
disamina, in quanto è appunto all’interno di esso che si trovano le motivazioni che sino ad
oggi hanno impedito allo Psicologo italiano di vedersi “tout court” riconosciuta la
discrezionalità di rendere o meno testimonianza all’interno di un procedimento a carattere
penale.
La fattispecie del reato previsto dall’art. 622 C.P. si configura, è opportuno
sottolinearlo, se il segreto viene rivelato “senza giusta causa”. E’ infatti un principio
comune ad ogni area del Diritto quello per cui nel concetto di “nocumento” non vi è
soltanto un aspetto “soggettivo”, nel senso di “danno” o “pericolo di danno” ad un
“soggetto”, ma anche quello “obiettivo” per cui il danno medesimo sia “ingiusto”, cioè,
appunto, “contrario al diritto”. Perciò vi è una stretta correlazione, nell’ipotesi prevista
dall’art. 622 C.P., tra la “giusta causa” della “rivelazione del segreto” e la possibilità del
“nocumento”: quando sussiste tale “giusta causa” il nocumento non è ingiusto (e quindi
non è nocumento in senso giuridico) e, viceversa, ogni volta che il nocumento è giusto vi è
giusta causa della rivelazione. In tali situazioni, quindi, il reato di “rivelazione di segreto
professionale” previsto dall’art. 622 C.P. non sussiste: ad esempio, la Corte di Cassazione
ha affermato che non risponde di tale reato il medico che riferisce ad una società di
assicurazione la presenza in una persona assicurata di una malattia che egli ha
precedentemente accertata come medico privato e di fiducia della persona medesima,
impedendo in tal modo a quest’ultima di percepire un indennizzo non dovuto (Cass., II,
15.12.1961, n. 542).
A questo punto appare sicuramente chiaro che per converso, allorquando viene
cioè meno la configurabilità della fattispecie di reato prevista dall’art. 622 C.P., viene meno
anche la principale delle motivazioni per le quali uno Psicologo possa non testimoniare, ed
è per tale motivo che sino a questo momento – con la sola già evidenziata eccezione
prevista dal comma 7 dell’art. 120 D.P.R. 309/90 – non è stata estesa anche agli esercenti
l’attività di Psicologo quella facoltà di astenersi dal rendere testimonianza in procedimenti
a carattere penale prevista, per altri professionisti, dall’art. 200 C.P.P.
Nel nostro Codice di Procedura Penale, infatti, sembra evidenziarsi con chiarezza il
fatto che il legislatore abbia sempre manifestato la generale tendenza a prevedere come
eccezionali le ipotesi di incompatibilità assoluta a testimoniare, considerando invece come
preminente rispetto ad esse il pubblico interesse dell’accertamento dei reati e delle
responsabilità ad essi relative. Tutto ciò lo si deduce appunto dal fatto che le ipotesi di
astensione dall’obbligo di testimonianza sono indicate tassativamente nell’art. 200 del
Codice di Procedura Penale, ove si elencano le categorie professionali tutelate e tra le
quali lo Psicologo non è previsto: inoltre, come già si è sottolineato, non si può far
inequivocabilmente rientrare tale professionista né tra gli “esercenti una professione
sanitaria” né tra gli “esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà
d’astenersi dal deporre”.
In conseguenza di tali considerazioni appare sicuramente possibile, eppur tuttavia
non sempre ed inequivocabilmente sostenibile, la sopra ipotizzata interpretazione
estensiva dell’art. 32 della Costituzione inerente il diritto alla Salute al fine di sostenere
l’importanza della segretezza delle informazioni note allo Psicologo ed il conseguente
obbligo di quest’ultimo di astenersi dalla testimonianza.
Da tutte queste considerazioni non può non discendere, dunque, che nel
procedimento penale purtroppo manca il fondamento normativo per suggerire di norma,
allo Psicologo che venga a trovarsi dinanzi ad una convocazione a scopo testimoniale, di
rifiutare la testimonianza al solo fine di non infrangere il rapporto di fiducia che lo lega al
proprio paziente.
In conclusione quindi, al fine di evitare al riguardo ogni decisivo margine di
discrezionalità tuttora evidentemente attribuito, in ambito penale, al Giudice e non allo
Psicologo, rimane evidente il fatto che proprio una chiara norma giuridica che consenta di
far rientrare esplicitamente la professione di Psicologo tra quelle per le quali è sancito per
legge l’obbligo del segreto professionale anche in caso di testimonianza in contesto
penale, oppure (tenendo comunque presente che l’una di queste due soluzioni non
esclude affatto l’altra) il riconoscimento per legge della professione di Psicologo “toutcourt” tra quelle classificabili a pieno titolo tra le professioni “sanitarie” (in quanto
primariamente tese in ogni area della propria attività - anche al di fuori di un setting
strettamente “psicoterapeutico” o comunque “clinico” - alla tutela ed alla promozione della
salute e del benessere delle persone), appare ormai oggi come un obiettivo non solo
auspicabile, ma probabilmente anche necessario, anche al fine di riaffermare
concretamente, nello stesso tempo, sia i diritti ed i doveri di chi intende svolgere questa
professione nel modo più efficace possibile, sia, soprattutto, le ragioni di chi intende
usufruire di prestazioni psicologiche per l’affermazione di quel diritto alla tutela del proprio
benessere e della propria salute che non solo il nostro Codice Deontologico, ma proprio lo
stesso art. 32 della Costituzione della Repubblica Italiana, oltre a numerose altre norme
giuridiche tuttora vigenti nel nostro Paese e che da esso discendono, già esplicitamente gli
riconosce.
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