Sè di speranza fontana vivace
Itinerari Mariani tra Fede e Storia
Alessandro Chiello
Centro Internazionale di Documentazione Alpina
“Terre Alte - Oscellana”
La presente pubblicazione é stata realizzata grazie al Progetto “Rutas Marianas” attivato nell’ambito
del Programma di Iniziativa Comunitaria Leader Plus 2000 - 2007 Sezione 2, Misura 2.2
“Cooperanzione Transnazionale”.
Il progetto intende promuovere i territori in cui sono presenti Santuari ed Eremi dedicati al culto
mariano attraverso la valorizzazione del patrimonio tradizionale e culturale in modo da potenziare
le risorse endogene locali ottenendo lo sviluppo rurale integrato nelle zone d’intervento.
Partner del Progetto
ASOCIACIÓN MONEGROS
22260, Grañén, Huesca, Aragón, España
G.A.L Azione Ossola
28845 Domodossola, VCO, Italia
Asociación Montañas del Teleno
24793, Valderrey, León, España
NORORMA, Asociación para el Desarrollo Rural de la Comarca Nororiental de Málaga
23900, Archidona, Málaga, España
ATAHCA, Associaçao de Desenvolvimento das Terras Altas do Homem, Cávado e Ave
ADAE, Associaçao de Desenvolvimento da Alta Estremadura
EDER, Consorcio para las Estrategias de Desarrollo de la Ribera Navarra
31500 Tudela, Navarra, España
Asociación para el Desarrollo Rural de la Rioja Suroriental
26580 Arnedo, La Rioja, España
Testo a cura di Alessandro Chiello
Responsabile progetto: Prof. Carlo Teruzzi
Apparato fotografico: Maria Letizia Panighetti e Ferruccio Sbaffi
Grafica: Anna Vittoria Rossano
Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore
Per lo cui caldo ne l’etterna pace
Così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridiana face
Di caritate, e giuso, intra i mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia ed a te non ricorre,
sua distanza vuol volar sanz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
A chi domanda, ma molte fiate
Liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, il te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.
(Dante, Paradiso, XXXIII, 1-21)
PRESENTAZIONE
L
o splendido Inno alla Vergine che Dante fa pronunciare a S. Bernardo nell’ultimo
canto del Paradiso, risuona dopo secoli carico della sua bellezza e verità.
La figura della Madonna, semplice fanciulla di Nazareth, il cui “si” ha cambiato il corso
della storia e i destini della vita di ogni uomo, è stata il punto di riferimento”caldo”
e sicuro per il popolo cristiano nei due millenni della sua storia. Dalla sua prima
apparizione, quella della “Virgen del Pilar” a Saragozza, fino ad oggi, la devozione
mariana ha permeato di sé lo scandire del tempo, i ritmi di vita, l’espressione artistica,
i luoghi di culto e dunque di popolo, il sentimento dei cuori...
La Madonna ha dato speranza a milioni di uomini, anzi è la sorgente della speranza,
“fontana vivace” della speranza, così come ebbe a sottolineare mons. Luigi Giussani
in occasione dell’intervento conclusivo al Meeting di Rimini il 24 Agosto 2002: “Tra
tutte le genti dell’universo sei fontana vivace di speranza, sei una sorgente continua
della speranza, riproponi di continuo la speranza come significato del tutto, come
luce della luce, come colore del colore, come l’altro dell’altro... la speranza è l’unica
stazione in cui il grande treno dell’eterno si ferma un istante. “Sei di speranza fontana
vivace”. Senza speranza, infatti, non esiste possibilità di vita... La figura della Madonna
è proprio la figura della speranza, la certezza che dentro i padiglioni - direbbero i
medioevali - dell’universo sei la sorgente di acqua che si sente, che va giorno e notte,
notte e giorno...”. E proprio a questa speranza sono rimaste tenacemente attaccate le
nostre genti, vivendo le cappelle, le chiese e i santuari che secolo dopo secolo sono
stati costruiti, come luoghi in cui visibilmente, “carnalmente” manifestare la propria
fede, ma soprattutto in cui far riposare il proprio cuore. A quei luoghi, attraverso un
itinerario che è insieme reale e ideale, è dedicato questo libro, affinché la conoscenza
del patrimonio storico-artistico sia occasione per risentire e riguastare il senso
profondo della storia che attraverso di essi si racconta e che vive attraverso di noi nel
presente.
Prof. Carlo Teruzzi
Responsabile Progetto
INTRODUZIONE
I
n un’epoca contrassegnata da un’apparente crisi di valori e sentimenti religiosi, abbondano nei media e sui giornali titoli allarmanti che testimonierebbero un momento
difficile del Cristianesimo, delle sue istituzioni e dei suoi pastori. Allarmi giustificati o
meno, una sola tradizione cattolica pare non conoscere crisi o forme di disaffezione:
la devozione mariana.
Spesso la figura di Maria è stata forse edulcorata da troppe immaginette che ci hanno
fatto dimenticare l’importanza della sua funzione in quel disegno salvifico che è la
base stessa della fede cattolica. Facciamo nostre le parole del noto scrittore Vittorio
Messori, il quale afferma che “(Maria)... per la prospettiva della fede è un abisso di mistero;
è una persona umana come noi e al contempo è strumento indispensabile per l’evento di gran lunga
maggiore, l’incarnazione di Dio stesso”. E ricordiamo la convinzione di San Luigi Grignion de Monfort, che nei primi decenni del Settecento metteva in risalto la necessità
di tale devozione: “E’ per mezzo della Santissima Vergine Maria che Gesù Cristo è venuto al
mondo, ed è ancora per mezzo di lei che egli deve regnare nel mondo”.
Questa fondamentale figura della nostra religione ha messo in imbarazzo molti teologi ed intellettuali del passato, alcuni dei quali consideravano la “mariologia” come
“il tumore del Cristianesimo”, non certo seguiti in questo dai devoti fedeli che, in ogni
tempo e in ogni luogo, si sono affidati alla Vergine nei momenti difficili della loro
esistenza.
Lourdes, Fatima, Guadalupe, Loreto, tanto per citare i più noti luoghi in cui il culto
di Maria ha prodotto gli esiti più clamorosi, ma anche santuari minori sparsi ormai in
ogni regione del nostro pianeta si segnalano per l’incessante e silenzioso pellegrinaggio di fedeli, ansiosi di affidare le proprie preghiere e i propri affanni alla Madonna.
Anche l’Ossola non è stata immune da questa particolare ed affascinante forma di
venerazione: “... In questa regione il culto e la divozione alla Madre di Dio si è espresso in modo
particolare, non solo perchè il popolo ossolano frequenta i santuari a Lei dedicati, ma soprattutto
perche la Vergine stessa si è compiaciuta con fatti straordinari di manifestare evidente predilezione
per questa terra”. Così il professor Tullio Bertamini, insigne storico della terra d’Ossola
sottolinea una peculiarità tra le tante che caratterizzano questo territorio.
L’Ossola è una terra di antico passaggio, un insieme eterogeneo nel quale emerge la
bellezza di un ambiente paesaggistico reso superbo dalla maestosità delle Alpi, quinte
naturali di una storia lunga e travagliata che ha forgiato una popolazione indomita e
gagliarda.
Abbiamo la preziosa testimonianza di numerose leggende legate alla dure condizioni
di vita dei nostri antenati, alle prese con le quotidiane sfide della montagna e dei ca-
pricci meteorologici che sono una costante storica delle nostre valli.
Inondazioni (le tremende “buzze”), malattie, devastanti scorribande di armate di belligeranti di passaggio, problemi quotidiani di una terra non molto generosa dal punto
di vista economico sono alcune delle più frequenti angustie storiche degli abitanti
delle nostre terre. In questo quadro si può comprendere meglio il bisogno di conforto e di protezione espresse dalla profonda e radicata venerazione per Colei che “tutte
le generazioni chiameranno beata”.
Questa profonda devozione ha fatto sorgere Santuari mariani in molti paesi della
nostra valle e, se consideriamo anche le modeste ma comunque affascinanti cappelle
che segnano i sentieri e le mulattiere delle nostre montagne, praticamente non esiste
una zona di questa regione esente da questo fenomeno.
E’ questo, infatti, un fenomeno molto antico che ha trovato nuova linfa vitale in quei
cruciali decenni del secondo Cinquecento che gli storici chiamano “Controriforma”,
o più propriamente “Riforma cattolica”, nei quali “si assiste in Europa ad una forte ripresa
della pietà popolare, con l’accentuazione di dottrine e di forme di culto specificatamente cattoliche, in
funzione anti-protestante. Le confraternite rifiorenti promuovono, in maniera sempre più consistente,
processioni e pellegrinaggi, mentre viene ovunque crescendo la devozione alla Madonna con il recupero dei vecchi Santuari e la nascita di nuovi centri di devozione nelle diverse nazioni”.
In queste pagine ci soffermeremo sulle più importanti manifestazioni del culto mariano, concretizzate in alcuni edifici sacri che hanno impreziosito i nostri paesi con
notevoli strutture architettoniche ed affascinanti tradizioni che sono parte integrante
della nostra storia e della nostra fede: la chiesa della Madonna della Neve di Domodossola, il santuario del Boden di Ornavasso, in valle Anzasca la Madonna della
Neve di Bannio Anzino e la Madonna della Gurva di Calasca, in valle Antigorio la
Madonna della Vita di Mozzio e, infine, la testimonianza più conosciuta dell’Ossola:
la Madonna del Sangue di Re in val Vigezzo.
Miracoli, leggende, tradizioni, arte e soprattutto la semplice fede di generazioni di
ossolani sono i pilastri e le colonne che hanno sostenuto questi eremi di pace, che
ancora oggi incantano con la loro storia e la loro bellezza.
Oggi come nei tempi passati sono visitati da un incessante numero di visitatori, certo
richiamati anche dalle attrattive storiche e artistiche che essi contengono, ma soprattutto per supplicare l’intercessione alla Santa Vergine per la “diversione delle calamità et
maligni influssi”.
Andiamo alla loro scoperta.
Santuario
della Madonna della Neve
a Domodossola
Santuario
della Madonna della Neve
a Domodossola
U
na bella passeggiata nel centro
storico del capoluogo ossolano è certamente una piacevole esperienza, per
alcuni una sorpresa: la bella chiesa
parrocchiale, l’elegante palazzo Silva,
la vivace piazza del Mercato con i suoi
edifici ricchi di memorie antiche, la loggia del Vescovo, la torretta medioevale,
le piazzette e i vicoli selciati di ciottoli.
Al di fuori di questo perimetro si è sviluppata la città moderna. Solitamente
il classico percorso per il turista o per
l’occasionale ricercatore di attrattive
prevede in seguito una puntata al colle
Mattarella attraverso la straordinaria
Via Crucis, che si snoda sulle sue pendici, per culminare nella sacra atmosfera
del Monte Calvario con la chiesa del SS.
Crocifisso e gli edifici dell’Istituto della
Carità voluta da quel grande uomo di
fede e di ingegno che fu il Beato Antonio Rosmini.
Un’edificante e poetica camminata, ben
protetti da un folto bosco di querce e
castagni, sotto il quale si avverte la sensazione che il tempo con i suoi affanni
si sia fermato.
Tra questi due poli attrattivi è consigliabile una sosta sul sagrato di un’elegante
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chiesa dedicata alla Madonna della Neve, che sorge in una piazza circondata da case
private e dai due grandiosi edifici, il prestigioso Collegio Mellerio Rosmini, che si erge
proprio davanti al tempio sacro e il Collegio Antonio Rosmini più a fianco. E sono gli
stessi Padri rosminiani ad officiare nella chiesa bella e ben curata di cui ricordiamo la
storia prestigiosa che fa di essa il più antico Santuario dell’Ossola.
I documenti e le carte antiche che riguardano il luogo sacro ci parlano di molti eventi
legati alla storia del capoluogo, e soprattutto ci informano di una cura e di una dedizione speciale che gli ossolani non fecero mai mancare alla Madonna della Neve,
dimostrazione di un’attenzione e di un sentimento molto radicato nei confronti di
Colei che certo è oggetto di una delle devozioni più antiche della nostra terra.
Osservando la costruzione ai giorni nostri, stupisce il fatto che essa per secoli è stata
circondata dal verde dei prati “tra filari di vigne e piante vedendo scorrere vicino a sè il torrente
Bogna”. Infatti lo storico borgo di Domodossola si è sviluppato verso il colle Mattarella solo negli ultimi due secoli.
Anticamente il luogo dove in seguito sarebbe stato eretto il santuario era occupato
dall’alveo del torrente Bogna, che, solo a partire dal 1297, a causa dei detriti accumulatisi in una delle occasionali piene, devierà verso l’attuale corso che segna il confine
tra i comuni di Domodossola e Crevoladossola, all’altezza di Bisate. Nei pressi dell’attuale chiesa si congiungeva la strada che scendeva dal colle Mattarella con la gloriosa e storica Via Francisca, che conduceva al Sempione e quindi verso la Francia.
Il cambiamento di direzione del fiume comportò un sostanziale mutamento del panorama, con quella fetta di territorio sottratta alle tumultuose acque e tramutata in
prati (fu infatti denominato “prato ossolano”) e campi ben presto resi coltivabili.
Questo è lo scenario in cui sorse il santuario della Madonna, presumibilmente preceduto da una delle tante cappelle o piccoli oratori che costellavano la regione ossolana. La stupenda immagine della Vergine, datata 1372, che adesso onora l’altare
del tempio era in un primo tempo esposta alla venerazione dei fedeli in un modesto
oratorio.
Passiamo alle certezze storiche: il primo documento che nomina la chiesa è datato
1441, ma si tratta ancora dell’oratorio di piccole dimensioni nel quale comunque è
possibile celebrare la Messa. Ben presto tale spazio risulta insufficiente per il gran
numero di fedeli che vengono ad implorare grazia dalla Beata Vergine; quindi nel
1490 le autorità cittadine decidono di edificare un tempio vero e proprio. Non conosciamo l’epoca in cui esso venne consacrato mentre sappiamo da un documento
d’archivio del 1544 che la chiesa era preceduta da un portichetto. Addirittura dagli atti
della visita pastorale del 1582 da parte del vescovo di Novara possiamo ricavare una
sommaria descrizione: “lunga 35 braccia (21 metri), larga 22 ( 13 m) in parte in volta e in
parte con soffitto, con porta sul frontespizio dalla quale si discende per nove gradini, con altra porta
a settentrione dalla quale si discende per sette gradini”. Un’abside voltata conclude l’unica
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navata e una balaustra di ferro separa il presbiterio dal resto della chiesa.
Un inventario del 1643 ci informa inoltre che “oltre il portico che si vede davanti è longa
dalla porta d’avanti fino al muro del choro brazza 40 et larga 40”.
La forma attuale del tempio è dovuta principalmente agli interventi atti a salvarla
dalla furia delle acque del Bogna che, periodicamente, non ne volevano sapere di
scorrere placide nel nuovo corso, e quindi si riversavano nell’antico alveo mettendo
in pericolo il santuario della Madonna della Neve, spesso allagato e pericolosamente
circondato dai detriti che le tumultuanti acque trascinavano con sè.
Sono rimaste negli annali le inondazioni del “rapace Torrente” del 1526, nel quale fu
in pericolo lo stesso Borgo, del 1531, del 1588, del 1600, del 1612. In una di queste
drammatiche esondazioni si guastarono inesorabilmente gli affreschi cinquecenteschi,
preziosa opera di Fermo Stella, valentissimo pittore lombardo ed esponente di punta
della scuola del celebre Gaudenzio Ferrari. Di questo dotato artista potete ammirare
in Ossola la decorazione del presbiterio e del battistero della chiesa dei santi Pietro e
Paolo di Crevoladossola e un bel trittico nella chiesa parrocchiale di Masera.
E proprio dalla costanza nel difendere e nel proteggere il sacro tempio possiamo
misurare l’importanza della devozione alla Madonna della Neve.
Per decenni intorno alle mura del santuario si accumulò tanto di quel materiale alluvionale, che per entrarvi bisognava scendere dodici gradini, tanto era alto il dislivello
tra il piano della chiesa e quello del terreno circostante. Nemmeno servì a molto la
costruzione nel 1622 di bastioni protettivi formati da pesanti blocchi di pietra.
Nel 1626 si arrivò quindi all’inevitabile decisione di ricostruire il tempio, naturalmente più in alto rispetto al precedente livello, anzi sfruttando proprio la cinta muraria di
protezione. Fondamentale l’opera di Giovanni Capis, oltre che storico e giureconsulto di meritata fama, fabbriciere che per questo tempio, insieme all’arciprete Giovanni
Leydi, molto si spese nell’affannosa ricerca dei fondi necessari.
Fu innanzitutto elevato il coro di tre metri, fu aggiunta una modesta sacrestia ai piedi
del campanile, si ritagliò il vecchio muro sul quale era stata dipinta, qualche secolo
prima, la venerata immagine della Madonna per collocarla nella parete del nuovo
coro.
Nel 1628 si completarono i lavori alzando i muri perimetrali del restante corpo della
chiesa e rinforzando il nuovo pavimento, che si poggiò sui sostegni delle volte dei
cinque sepolcri che vennero disposti nel piano della vecchia struttura. Nei primi mesi
del 1630 i lavori poterono dirsi terminati con la costruzione della volta a botte della
navata e delle nuove finestre.
Pochi anni dopo (1640) un’altra piena del Bogna non recò danni al nuovo santuario,
dimostrazione che l’opera di ricostruzione aveva ottenuto i risultati che i notabili e i
fedeli avevano auspicato per tanto tempo.
Il campanile fu costruito a partire dall’ultimo decennio del Cinquecento con una’al14
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tezza inferiore rispetto a quello attuale e presentava un tetto a cuspide, fedele alla
tradizione ossolana. La torre attuale è frutto degli ampliamenti portati a termine nel
1608 con l’innalzamento della cella campanaria sormontata da una cupola in piode.
Vi alloggiano ancora le tre campane originarie, collocate la prima nel 1596 e le altre
due nel 1638.
Nei secoli a venire non si esaurì l’interessamento della popolazione e del clero per
questo importante luogo sacro e molte opere di decorazione e di abbellimento furono realizzate da valenti artisti, come vedremo in seguito. Ancora oggi noi possiamo
ammirare i frutti di queste fatiche, tese interamente a glorificare il tempio della Madonna della Neve, che i domesi non hanno mai smesso di venerare.
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Opere e manufatti d’arte.
Una sensazione di elegante decoro ci coglie appena varcata la soglia. Il santuario della
Madonna della Neve offre momenti di raccoglimento, di pace e soprattutto di silenzio, al riparo dai rumori del vivace quartiere “scolastico” sorto intorno ad esso.
Il visitatore può ammirare un congruo numero di opere d’arte di notevole fattura.
La più antica e affascinante testimonianza è rappresentata soprattutto dalla stessa
venerata immagine della Madonna, con in braccio il Bambino benedicente, finemente abbigliata con un raffinato mantello abbellito da decorazioni floreali, che da
secoli campeggia sull’altare maggiore dell’attuale costruzione, così come un tempo
nell’antica cappella, sorta fuori dalle mura del Borgo, per dare conforto e protezione
ai nostri antenati.
Rivela subito i suoi caratteri antichi grazie anche ad un recente restauro (1987) che ha
permesso, oltre che una corretta lettura stilistica, anche il ritrovamento di un’iscrizione che riporta, con le tradizionali cifre romane, la data di esecuzione, il 1372. L’affresco, mirabile per la fluente raffinatezza goticheggiante, è stato eseguito su una parete
muraria composta da materiale prelevato dal fiume e unito da uno scarso strato di
malta.
Vale la pena riportare le parole con le quali il Capis ci descrive le delicate operazioni
che permisero di porre il prezioso affresco nella nuova sede muraria, nel lontano 3
maggio 1627: “… Fu necessario alzare l’Imagine della Beata Vergine dipinta sopra il muro,
quale con buona diligenza tagliata, et leuata fuori del muro, et incastrata, si leuò in alto per molte
braccia intiera, et senz’alcuna offesa, con grande stupore de tutti… il tutto riuscì felicemente”.
Mentre appaiono più recenti le belle tavole che la cingono, con le rappresentazioni
dei santi patroni Gervasio e Protasio con le consuete insegne militaresche che ne
contraddistinguono l’iconografia, “figure di nobile fattura e ricche di colore e d’ornati finissimi”, plasmate dalle più vigorose pennellate del pittore varesino Francesco de Tatti,
firmate nel 1516. Interessante la predella sottostante con la raffigurazione del Cristo
e degli Apostoli. Un trittico notevolissimo, inserito nella piccola e affascinante ancona cinquecentesca, a sua volta contenuta nella più grande e altrettanto pregevole
opera, terminata nel 1632 dal maestro Tiberino da Arona. Ci soffermiamo davanti a
questo prezioso altare per ammirare la sontuosa ancona del Tiberino, sostenuta da
un robusto basamento finemente ornato con formelle e fregi antopomorfi, dal quale
si ergono quattro esili colonne di stile corinzio, che sorreggono un frontone “interrotto” al centro dalla figura del Padre Eterno, scortato da due angeli e completato
con le sculture dei Santi Gioacchino ed Anna, genitori della Vergine, appoggiati sugli
spioventi del frontone. Pregevole sintesi di misura classica e di ridondanza barocca
che orna uno degli altari più rilevanti dal punto di vista artistico dell’intera vallata.
Le pareti laterali del presbiterio sono occupate da due grandi tele: alla destra dell’alta18
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re abbiamo un quadro votivo commissionato da Cipriano Capis durante la peste del
1630, che si fece raffigurare in ginocchio ai piedi di San Biagio dal pittore Ferabosco
che lo ultimò nel 1638. Alle spalle dei protagonisti, immersi in un fosco e drammatico paesaggio, sono narrati quattro eventi della vita del Santo. Sulla parete opposta ci
sorprende una notevole tela, datata 1639, del pittore fiorentino Luigi Reali, Lo Sposalizio della Vergine, ambientata in una navata di chiesa e mirabile per l’intensa stesura
cromatica. La decorazione della volta del presbiterio, eseguita negli anni tra il 1633 e
il 1640, si vivacizza con le esuberanti cornici di stucchi che delimitano alcuni affreschi, purtroppo eccessivamente ritoccati, i quali, secondo il Ramoni sono da ascrivere
nell’opera del pittore di Craveggia Carlo Mellerio.
Ai lati del presbiterio notiamo le sue sculture lignee: nella nicchia alla sinistra del coro,
la Madonna con Bambino benedicente, eseguita nel 1698; dalla parte opposta, San
Giuseppe, offerta votiva voluta dalla popolazione dopo la peste del 1630.
Alziamo lo sguardo per osservare i pregevoli medaglioni, Sant’Anna che ammaestra la
figlia e La Visitazione, che decorano la volta della navata, dipinti nel 1881 dai valenti
pittori vigezzini Bernardino Peretti, figlio del grande Lorenzo e autore anche della decorazione della cappella del collegio Mellerio Rosmini, e Antonio Cotti. Una
cooperazione artistica “in affettuosa e feconda collaborazione” che ha prodotto altri lavori
di pregio, quali gli affreschi della parrocchiale di Villette. All’esterno vale la pena di
soffermarsi davanti alla porta d’ingresso del tempio, datata 1903, impreziosita dagli
intagli di Lorenzo Darioli e dalle formelle bronzee dello scultore Lusardi. Viene pregevolmente sormontata dall’affresco del Mellerio con la raffigurazione del Miracolo
della neve sull’Esquilino, opera del 1674. Il pittore vigezzino è noto per diversi interventi, primo fra tutti la decorazione del portale della chiesa parrocchiale del capoluogo.
Ai lati della porta, sotto le due ampie finestre rettangolari, ci sono due interessanti
testimonianze dell’antica cappella della Madonna della Neve: due pannelli in pietra
serpentina che fungevano da stipiti, ornati da raffinate candelabre. Nel bel mezzo
del timpano che sovrasta il portale possiamo ammirare un altro manufatto di questo
materiale, un tondo con un Cristo benedicente, anch’esso presumibilmente facente
parte dell’antica cappella che onorava la Vergine prima delle successive costruzioni.
Passeggiando all’esterno di queste mura, possiamo osservare altre manifestazioni
artistiche di un certo pregio, come l’espressiva immagine della Madonna scolpita in
marmo di Crevola nella metà del Quattrocento, che il Bertamini avvicina alle statue
che danno lustro alla facciata della bella chiesa parrocchiale di San Pietro di Crevoladossola, attualmente protetta in un’edicoletta sul lato meridionale della struttura.
Queste sono le bellezze che potete ancora ammirare nel santuario della Madonna
della Neve, a perenne testimonianza della grande importanza che i cittadini domesi le
hanno attribuito nel corso dei secoli, come ci conferma lo scritto del Capis del 1643:
“Questa chiesa fu sempre tenuta in tutti li tempi non solo dall’habitatori del Borgo, ma di tutta
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l’Ossola in grandissima devozione et veneratione con concorso di popoli intieri, quali sono convenuti
et convengono ordinariamente in processione et altri modi a dimandare nelli lor bisogni... sì che anco
al presente è stimata come sempre fu la più frequentata et celebre devotione di tutta l’Ossola”.
L’origine della devozione alla Madonna della Neve
Qualcuno potrebbe pensare che il culto della Madonna della Neve trovi la sua giustificazione in qualche edificante leggenda tramandata oralmente dai nostri antenati,
che riguardi un’apparizione o un evento miracoloso che abbia a che fare con le cime
candidamente imbiancate dalle nevi perenni che caratterizzano l’arco alpino.
Tale venerazione invece, trova il suo punto di partenza in un’infuocata estate romana di quel fondamentale IV secolo della nostra era, in cui il Cristianesimo si afferma definitivamente nelle strutture dell’ormai agonizzante impero romano. Nel 313
l’imperatore Costantino decreta la libertà di culto per i Cristiani e quindi la fine delle
persecuzioni e della clandestinità. A fine secolo un altro imperatore, Teodosio, con
l’editto di Tessalonica (380), eleva il Cristianesimo a religione di stato, ponendo al
bando ogni pratica pagana. L’anno che ci interessa è il 352, durante il quale comincia
il tormentato pontificato di papa Liberio, protagonista, insieme al notabile romano
Giovanni, della storia che ci interessa.
Costui non ha avuto la benedizione di avere dei figli cui destinare i suoi averi, perciò,
nella sera che precede il fatidico 5 agosto, discute con la moglie su come impiegare le
sue sostanze in opere misericordiose. In sogno gli appare la Santa Vergine che consiglia alla pia coppia di costruire un grande tempio a lei dedicato; per una miracolosa
coincidenza la stessa apparizione compare in sogno al Sommo Pontefice. Il giorno
dopo sul colle Esquilino, il luogo indicato dalla Madonna, si danno appuntamento
i nostri protagonisti che, con immenso stupore, lo trovano coperto da una coltre di
neve, segno tangibile della volontà celeste, che impone di costruire il sacro edificio
proprio in quel punto. E’ quindi su quell’insigne colle romano che sorgerà la chiesa
di Santa Maria ad Nives, la cosiddetta basilica Liberiana, che un secolo dopo sarà
ricostruita secondo le monumentali forme della basilica di Santa Maria Maggiore, il
più grande tempio dedicato al culto mariano.
Non essendo il miracolo della Neve comprovato da nessun documento storico, la
Chiesa Cattolica non lo riconosce, e nel calendario liturgico la festa del 5 agosto è
deindicata come Dedicazione di Santa Maria Maggiore. Questo non ha certo impedito il propagarsi di questa affascinante tradizione, e tra il XV e il XVIII secolo in tutta
la Cristianità sono sorti numerosi edifici sacri che nel loro titolo si richiamano a questa antica leggenda romana. In Ossola possiamo ricordare quelli di Bannio Anzino, di
cui ci occuperemo, e sempre in valle Anzasca anche a Borca troviamo un oratorio che
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onora la Madonna della Neve. E così nelle altre valli, a Trasquera, Salecchio, Baceno,
senza citare gli altari o le cappelle di montagna.
Seguendo questa affascinante tradizione, proprio il 5 di agosto si festeggia la Madonna della Neve, uno degli appuntamenti più sentiti e partecipati della storia religiosa
delle vallate ossolane, tanto che sono rimaste nella storia le processioni che lo coronavano. Ecco come il Bertamini rievoca, con la consueta efficacia, l’atmosfera di uno
di questi festeggiamenti:
“Nelle notti precedenti il giorno della festa veniva tutto illuminato all’interno e all’esterno, con padelloni di olio e cera distribuiti un po’ dovunque, sull’atrio come sul campanile. Sull’ampio sagrato
si riunivano le corali e le comitive dei pellegrini, la sera della vigilia della festa, attorno ad un gran
falò che dava il segnale a tutta la valle, al modo antico. L’aria rimbombava degli spari dei mortaretti
e del suono delle campane. Per queste feste popolari non si lesinavano spese. Dal 1700 in avanti
parrebbe che tutte le spese dell’amministrazione andassero per i fuochi di artificio e per i falò”.
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Santuario
della Madonna del Boden
ad Ornavasso
Santuario
della Madonna del Boden
ad Ornavasso
U
na delle caratteristiche che
colpiscono gli occhi dei viaggiatori che risalgono questa porzione
del territorio settentrionale del
Piemonte è il marcato e repentino
contrasto tra i placidi e ondulati
paesaggi del lago Maggiore e i sublimi scenari della cintura alpestre
che si erge a protezione del bacino
idrografico del Toce.
L’ingresso nelle terre ossolane è
sottolineato da questa peculiare
caratteristica: i morbidi toni che
si specchiano nelle acque del lago
segnano il passo di fronte all’incantato stupore delle intense modulazioni delle sommità rocciose.
Risalendo la sponda destra del
fiume ossolano, ci accoglie Ornavasso, vivace centro commerciale
e cittadina di antica fondazione. Il
toponimo stesso ci ricorda le sue
origini tedesche, o più propriamente walser, dal nome dei coraggiosi colonizzatori
provenienti dalla valle del Rodano, che a partire dal XIII secolo, si insediarono nelle
impervie regioni alpine abbandonate dai signori italici, rifondando una vera e propria “civiltà della montagna”. Si spinsero anche a valle come nel caso di “Und-wasser”.
Ancora più antichi i resti scoperti nel corso dell’Ottocento in una necropoli che gli
archeologi hanno attribuito a popolazioni celtiche, le prime documentate nel territorio ossolano, preziose testimonianze che fanno di Ornavasso uno dei nuclei abitativi
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più antichi dell’intera vallata.
Negli ultimi secoli della nostra era un ricorrente motivo di visita a questo interessante
paese della bassa Ossola è stato, ed è tuttora, il pellegrinaggio al Santuario della Madonna del Boden, frutto di una radicata devozione che ha segnato profondamente la
storia religiosa non solo di Ornavasso, ma della regione tutta.
Percorriamo la strada che dal moderno centro si snoda sul monte che sovrasta il
Paese, e che si incunea nella valle del Boden sino a raggiungere le pendici del monte
Massone. Prima del Santuario, la visita ci riserva altre due notevoli testimonianze
architettoniche che la fede cristiana ha eretto nei tempi passati: innanzitutto la chiesa
parrocchiale di San Nicola, con la sua calda facciata in marmo “di gusto eccellente”.
E poco più in alto l’imponente chiesa della Madonna della Guardia, dalla particolare
pianta centrale, lasciata incompiuta, e dirimpetto, in posizione dominante, la bella
torre di guardia che, oltre ai naturali compiti di difesa e di sorveglianza, svolse la funzione di torre campanaria alla contigua struttura. Passiamo oltre e dopo qualche tornante, ben protetta e circondata dalla rigogliosa vegetazione del bosco di montagna,
adagiata su un ampio spiazzo (in tedesco “Boden” vuol dire pianura… appunto),
ecco la meta, ancora oggi, del devoto pellegrinaggio di molti fedeli.
Il santuario si presenta ai nostri occhi con l’aspetto architettonico, che ha assunto
dopo numerosi lavori che ne hanno più volte trasformato l’aspetto originario. Seguiamone il travagliato percorso storico. Il primo edificio che sorse in mezzo a questa
folta boscaglia è documentato nel 1530, due anni dopo i fatti miracolosi che riferiremo in seguito, quando fu inaugurata una modesta chiesetta ad unica navata, lunga 14
metri e larga 8. Questo piccolo edificio fu dedicato al culto della Natività della Beata
Vergine e Monsignor Arcimboldo, vescovo di Novara, concesse il permesso di celebrarvi la Santa Messa.
Nel 1672 si cominciano i lavori per la costruzione delle cappelle della Via Crucis sulla
nuova strada aperta verso il Boden e della Cappella della Madonna dei Sette Dolori,
la cui forma attuale risale al 1733.
Naturalmente la fama di questo luogo attira un gran numero di pellegrini, rendendo
ben presto insufficiente lo spazio dell’edificio cinquecentesco, cosicché nel 1671 si
decide di ampliarlo con l’aggiunta di due cappelle ai lati dell’altare maggiore, intitolate
a San Giulio e a San Bartolomeo (dedicata in seguito, a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, a San Fermo), e ben presto fornite di adeguati altari decorati. In tal modo
l’impianto viene modificato tanto da assumere la pianta a croce latina. La costruzione
viene dotata altresì di una sacrestia sulla parete meridionale e di un’abitazione per il
custode del santuario.
Si provvede inoltre a rendere maggiormente decoroso l’ingresso della struttura, con
la costruzione di un bell’atrio sostenuto da quattro colonne di marmo, sormontate da
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un architrave con eleganti fasce marmoree.
L’impianto a tre navate così come lo osserviamo ai nostri tempi, è dovuto alla decisa
ristrutturazione messa in atto in occasione del terzo centenario nel 1825, sulle indicazioni del parroco di Ornavasso don Giovanni De Mattei di Celio. L’aggiunta dei
corridoi laterali che si affiancarono alla navata originaria comportò lo spostamento
delle cappelle laterali in capo alle nuove strutture.
L’altare maggiore che ci accoglie al centro della costruzione è datato 1837, quando
venne donato dal conte Ambrogio Nava, autore anche del progetto nonché amministratore della fabbrica del Duomo di Milano, a ricordo della storica unione tra il Ducato milanese e l’Ossola, di cui i preziosi marmi dello stesso Duomo costituiscono la
simbolica testimonianza.
Dietro lo stesso altare un’iscrizione scolpita nel marmo ricorda questo prestigioso
omaggio.
ILLUSTRISSIMUS – COMES – D – AMBROSIUS NAVA
MEDIOLANENSIS
CELEBRIS – ARCHITECTON
HUIUS – ALTARIS – DIAGRAMMA – A – SE – FACT
DONO – DEDIT
SUISQUE. SUMPTIBUS. B.M.V. IMAGINEM
RENOVARE - CURAVIT
AN. MDCCCXXXVII
Nel 1863 fu alzata la volta del coro, precedentemente più bassa e sormontata dagli
alloggi del custode, armonizzandola con il resto della costruzione. Il secolo si conclude con il tracciato della strada carrozzabile, ultimato nel 1892, e con la sistemazione
dello spazio antistante la facciata, uno spiazzo erboso che precede l’ingresso alle
mura sacre, dove una poetica fontana offre un tocco d’amenità alla veduta generale
del nostro santuario.
Nel 1931, infine, venne sistemato il coro, dietro all’altare maggiore, con un impianto
circolare che ben si adatta all’intero complesso, in particolare alla piccola cupola che
fu alzata sopra l’altare nel 1952. Sei anni appresso si procedette al rifacimento delle
cappelle della Via Crucis, con i nuovi affreschi dipinti dal novarese Cesare Mussi.
In tempi più recenti fu completata ed allargata la strada che conduce al Santuario e
fu ampliato lo spazio alla sinistra della struttura per offrire un parcheggio più ampio
ai visitatori.
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Opere e manufatti d’arte
La semplicità è la caratteristica principale di questo luogo di culto mariano.
Non sono conservate opere artistiche di pregio assoluto, e lo stesso edificio non colpisce certo per la ricchezza degli ornati o per attrattive artistiche particolari. Eppure
il complesso, armoniosamente inserito nell’ambiente naturale, con la sua discreta
modestia pare veramente esprimere il senso vero di una devozione genuina e pura,
che non ha bisogno di orpelli magniloquenti per manifestare la sua intensità.
Basta sedersi per qualche minuto su una panchina del sagrato erboso che accoglie
la raffinata fontana, osservare la facciata intonacata con un delicato color avorio ed
immergersi nel silenzio che circonda questo eremo, per comprendere la forza dei secolari sentimenti di riconoscenza e di fervore che hanno permesso l’edificazione, la
conservazione e la cura di questo santuario.
L’entrata al tempio ci riserva la stessa impressione di pace e di quiete, in cui la decorazione non va oltre l’essenzialità dei due altari marmorei delle cappelle laterali e
degli affreschi delle pareti, che vivacizzano appena le calde e rustiche tinte dell’intonaco. Prezioso invece l’apparato marmoreo dell’altare maggiore che campeggia al
centro del tempio e che accoglie la venerata immagine della Vergine col Bambino,
la cui effigie richiama quella originaria, protetta dall’antica cappella. Il rifacimento fu
eseguito dal pittore locale Giovanni Antonio Lavarini, autore anche dei restauri della
cappella della Madonna del Sasso nel 1527. Decoro e misura anche in questa scarna
rappresentazione della Vergine, che si adatta alla perfezione alla spontanea naturalezza dell’intero complesso.
Dietro l’altare possiamo notare una piccola scultura in legno molto danneggiata dal
tempo, alta circa 30 centimetri, raffigurante la Madonna Incoronata; anch’essa un
tempo era esposta alla devozione dei fedeli nella primitiva cappella del Boden, come
testimonia la seguente iscrizione marmorea:
QUESTA STATUINA
E’ IL PRINCIPIO DI QUESTO
S. LOCHO SIN DEL ANNO
1530
Gli affreschi che oggi possiamo osservare sulle pareti del santuario sono opera di
Ernesto Bergagna della scuola “Beato Angelico” di Milano, che nel 1956, dopo un
triennio di lavoro, portò a termine il ciclo con le Storie della vita di Maria.
Nelle lunette sono illustrati l’Annunciazione, la Presentazione di Gesù al tempio, Gesù tra i
dottori, le nozze di Cana, Maria ai piedi della croce, la Pentecoste; nella cupoletta, seguendo
una consolidata tradizione, l’Incoronazione della Vergine.
Nelle pareti del coro sono raffigurati i tre episodi del miracolo che ispirò la costruzione del santuario.
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Questi dipinti si fanno ammirare soprattutto per il
gusto sobrio e misurato con cui l’artista ha saputo
materializzare la particolarità di questa devozione
popolare, e per l’armonia con cui si rapporta al contesto architettonico, più che per la qualità artistica
in sé.
L’emozione più intensa che riserva la visita all’interno del santuario è senza dubbio l’osservazione dei
numerosi quadretti dipinti “per grazia ricevuta” appesi in due ambienti adiacenti la sacrestia, i cosiddetti
ex voto. Sono stati catalogati recentemente secondo
l’epoca di realizzazione e il materiale sul quale sono
stati eseguiti; dal Settecento al Novecento sono stati
contati 1147 ex voto con una vasta tipologia di esecuzione: olio su tavola, olio su metallo, tempera su
cartone, olio su tela, carboncino su cartone, immagini ricamate, cuori d’argento o di
metallo, quadri con foto.
Una vera e propria galleria d’arte popolare che, giova ricordarlo, fin dai tempi dell’impero romano ha affiancato l’arte ufficiale, aulica e spesso retorica, registrando i sentimenti più genuini e originali di una comunità e della sua storia. Naturalmente sono
testimoniate le grazie elargite negli ultimi tre secoli per intercessione della Vergine del
Boden, nelle situazioni più disparate: guarigioni da malattie, protezione in rovinose
cadute da altezze considerevoli, in incidenti stradali, annegamenti, bombardamenti
ed eventi bellici, incendi. Sono registrati anche fatti che hanno interessato l’intera
popolazione, come la disastrosa alluvione, che colpì le vallate ossolane nel 1612, o le
carestie come quella del 1817.
Il più antico ex voto è del 1707 e descrive il salvataggio da un nubifragio.
Spicca ed affascina il netto contrasto tra la povera semplicità di questo tempio e la
ricchezza delle testimonianze di cui queste tavolette votive si fanno portavoce, che
manifestano il forte influsso della Madonna del Boden nella religiosità di questa regione e il suo radicamento in essa. Riportiamo una significativa pagina ottocentesca
del sacerdote Gaetano Borghini, autore di uno dei più importanti studi sul santuario
e sulla sua storia, in cui viene descritto lo stupore di un visitatore alla vista di questi
quadretti quando essi erano ancora appesi e visibili all’interno della chiesa:
“…se chi visita il Santuario uno sguardo vi getta intorno alle sacre pareti del tempio, e si fa a
sindacarne gli appesi voti, e le tele rappresentanti le grazie ricevute, non può fare a meno, che non
divota ammirazione rilevare come, mercè il favore della Vergine del monte Boden, sia stata ridonata
la vista ai ciechi, il vigore ai languidi, la favella ai mutoli, l’udito ai sordi, il senno agli impazziti e
frenetici, e l’uso dei membri agli attratti. Vi scorge fuggire da’ corpi infermi le malattie pericolose,
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ed eziandio mortali, represse le emoragie ed i flussi di sangue, moltissime sterili ottener la fecondità,
altre il latte per nutrir la prole, e molte già pericolanti ne’ parti felicemente sgravarsi; vede inoltre
persone cadute e da luoghi altissimi e scoscesi, senza riportar alcun danno; altre salvate dal rovinare
ne’ precipizii; altre da fiere voraci, e da sinistri di ladronecci ed assassinii; altri dal fuoco e dalle
acque”.
Una curiosità: insieme ai quadretti donati dai fedeli delle nostre valli, possiamo osservarne tre provenienti da altre aree geografiche quali il Belgio, la Svizzera e l’America
del sud.
Oltre che testimonianze di fede e di devozione, gli ex voto rappresentano preziose
documentazioni storiche che consentono di osservare il mutare dei costumi e delle
condizioni di vita delle generazioni passate.
L’origine del culto della Madonna del Boden.
Come per Fatima, all’origine della devozione della Madonna del Boden è la miracolosa esperienza vissuta da una pastorella nel remoto 7 settembre del 1528. Dopo
una giornata trascorsa come tante altre ad accudire e sorvegliare il suo gregge, la
giovane Maria della Torre si assopisce proprio nei dintorni della piccola radura chia-
mata Boden, dove sorge da tempo una modesta cappella, con una rassicurante effigie
della Madonna in trono con il Bambino Gesù in braccio, un piccolo ripiano con una
statuetta della Vergine Incoronata. Per la dura vita dei contadini e dei pastori che
trascorrevano tante ore su questi sentieri impervi, la cappella che proteggeva la Sacra
Immagine doveva rappresentare un momento di pausa, di preghiera e soprattutto di
protezione dalle tante avversità cui erano soggette le popolazioni locali.
La pastorella, nel cuore della notte, si ridesta dal suo torpore immersa nell’oscurità e
con il gregge disperso. Sola e disperata, invoca l’aiuto della Madonna. Mentre cerca di
raggiungere un sentiero conosciuto, scivola e precipita in un burrone, ed ecco che un
improvviso bagliore la circonda, ed essa atterra in fondo al precipizio completamente illesa. Dopo essersi ripresa, si accorge di trovarsi vicino alla cappella del Boden,
intorno alla quale si trova tranquillo e beato il suo bestiame. Sopraggiungono anche
i soccorsi inviati dalla famiglia alla sua ricerca, tutti si stupiscono di ritrovarla sana
e salva e circondata da un insolito bagliore luminoso, segno visibile dell’intervento
prodigioso che di lì a poco sarà conosciuta in tutta la regione.
Come abbiamo visto, due anni dopo questo avvenimento si costruì una chiesetta in
luogo della precedente cappella, principiando così una storia di fede e di devozione
che dura, inalterata, tuttora.
Non si contano le processioni e gli attestati che documentano l’importanza di questo
santuario nella storia religiosa e sociale dell’Ossola: feste solenni, pratiche devozionali, visite penitenziali, tra le quali l’affascinante tradizione del pellegrinaggio a piedi
scalzi salendo al Boden lungo la Via Crucis, e la nascita di nuovi luoghi dediti alla
venerazione della Madonna del Boden nella regione ossolana e non solo (si ha notizia
di una cappella così titolata nella parrocchia di Suez, in Egitto).
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Santuario
della Madonna della Gurva
a Calasca Castiglione
Santuario
della Madonna della Gurva
a Calasca Castiglione
A
ssolute bellezze della natura ci
attendono risalendo il corso del fiume
Anza sino alla maestosa e sublime parete orientale del Monte Rosa. La valle
Anzasca non offre soltanto incantevoli
spettacoli ambientali, ma anche pregevoli luoghi di culto. Tra questi spiccano due santuari dedicati al culto della
Vergine Maria e posti a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro.
Storicamente dipendente dalla pieve
di Vergonte, l’organizzazione ecclesiastica della valle si concentrò in seguito
intorno alla parrocchia di Bannio per
poi seguire la stessa politica di decentramento attuata nelle altre valli del
territorio ossolano.
Il primo centro importante che incontriamo risalendo la valle è Calasca
Castiglione, vasto comune che comprende numerose frazioni, alcune molto belle dal punto vista panoramico. La nostra
attenzione si concentra su un edificio sacro costruito in un luogo per lo meno curioso: su uno sperone roccioso adagiato sulla riva destra dell’Anza, in un sito isolato nella località denominata Gurva, toponimo che indica una forra e che richiama proprio
la conformazione morfologica delle rocce che in questo punto stringono il passaggio
delle acque del fiume. Scendiamo dalla strada posta sulla riva sinistra, e attraverso
un breve sentiero ci troviamo di fronte al ponte che ci permette di raggiungere il bel
santuario così “miracolosamente” inserito in un ambiente naturale a prima vista disagevole. Il ponte che pittorescamente si erge sulle acque ha una storia molto antica
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con varie ricostruzioni; quello attuale è stato ricomposto nel 1543. Tra i grossi massi
bagnati dai flutti dell’Anza, ora calmi e placidi, ora burrascosi e violenti, e le pendici
dell’imponente catena montuosa in cui si apre la valle Segnara, ecco il nostro santuario, che da più di tre secoli conserva la sacra effigie della Vergine, “dispensiera di grazie
e quindi oggetto di sincera venerazione e di dolce e consolante ricordo pei calaschesi”.
Prima del nostro santuario, esisteva in quel luogo fin dal Cinquecento una piccola
edicola con un affresco illustrante una Madonna delle Grazie, come in tantissimi altri
punti delle nostre montagne. Il luogo non era scelto a caso, anzi era uso abbastanza
frequente quello di erigere cappelle votive nei pressi di un ponte o di un sentiero, per
chiedere protezione dalle calamità naturali e dai malintenzionati. Oggi forse possono
far sorridere tali premure e tali soluzioni, ma non era certo così nei tempi antichi,
quando l’invocare Dio, i Santi e la Madonna era il solo conforto dei viandanti e della
povera gente che viveva in queste località impervie. Ben presto questa modesta cappella, e soprattutto l’immagine santa della Vergine “di umile pennello”, acquisirono una
considerazione tale nella pietà popolare, da consigliare di costruire un edificio che
meglio li proteggesse.
Il 15 agosto 1635, al tempo del parroco don Giovanni Raspini, fu posta la prima
pietra della nuova cappella che incluse l’originaria edicola, il tutto alla presenza di
un folto numero di fedeli e degli altri sacerdoti dei paesi limitrofi. Si volle in seguito
affiancare a questa un oratorio che permettesse lo svolgimento delle funzioni sacre
e che rispondesse alle esigenze devozionali dei fedeli. Vista la presenza del grosso
masso che ancora oggi attira la nostra attenzione, e la forra sottostante in cui passavano i vorticosi flutti del fiume, i costruttori seppero sfruttare al meglio lo spazio
disponibile superando le oggettive difficoltà ambientali. Pochi anni dopo, la terribile
inondazione del 1640, che fece enormi danni in tutta la valle, confermò la bontà di
queste soluzioni architettoniche, lasciando illeso il ponte e l’erigenda chiesa della
Gurva. L’anno seguente l’opera fu portata a termine.
La planimetria del santuario è relativamente semplice con una navata unica rettangolare alla quale si affianca nella parete sinistra la cappella con il miracoloso affresco
della Madonna.
La struttura fu in seguito completata con l’aggiunta di una piccola cappella nel lato
destro, un campaniletto sopra il tetto di fianco al frontone della facciata, una sacrestia
e infine, nel XIX secolo, l’arioso portico sostenuto da due colonne e due pilastri che
precede la facciata e protegge l’ingresso del tempio e la strada fino al ponte.
Per chi si accosta alla chiesa provenendo proprio dal ponte, l’affacciarsi alla prima
finestra regala subito la suggestiva visione della Madonna delle Grazie.
La struttura austera e semplice, con il suo intonaco caratterizzato da una tenue tinta
giallognola e dai riflessi argentei delle piode dei tetti, è ben integrata in questo lembo
di terra ricavato tra il bosco, le rocce della montagna, l’enorme masso di un’antica
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frana e le acque del fiume.
L’interno non è molto decorato, come si conviene ad un oratorio di montagna, eppure nella sua modestia d’insieme riesce a farsi ammirare.
L’altare ligneo in capo alla navata, dignitoso nelle sue dorature e nei suoi rilievi, conserva una pregevole tela del 1648 che raffigura l’Assunzione della Vergine; nella sacrestia
abbiamo un notevole armadio di legno datato 1639 e nella cappella di destra una statua settecentesca della Vergine, che viene onorata in processione durante la festività
dell’Assunta. La parte inferiore delle pareti interne è rivestita da pannelli lignei per
difendere i fedeli dall’umidità e dal freddo.
La cappella con la vetusta immagine miracolosa della Vergine, alla quale in tempi più
recenti sono state aggiunte le figure di San Giuseppe e di San Giovanni Battista, conserva ancora alcuni dei numerosi ex voto che un tempo ornavano l’intera costruzione. All’esterno, sopra il portale osserviamo l’affresco dell’Assunta eseguito nel 1787
da Lorenzo Peracino, valente artista già attivo in valle e in Ossola, a Bognanco per
esempio, nella decorazione della parrocchiale di San Lorenzo.
46
L’origine del culto alla Madonna della Gurva
Ma torniamo indietro nel tempo, e cioè all’epoca in cui al posto di questo grazioso
santuario esisteva solamente una cappella con una delle tante immagini della Vergine
Maria, raffigurata con le frequenti caratteristiche iconografiche della Madonna delle
Grazie. I pastori e gli abituali passanti attraversavano il ponte e, prima di avviarsi
lungo il sentiero che conduce alla valle Segnara, rivolgevano al dipinto sacro uno
sguardo di supplica o si fermavano per una veloce preghiera, prima di immergersi
nelle fatiche quotidiane. Fin qui, nulla di strano. Furono alcuni eventi straordinari che
fecero accrescere in maniera straordinaria la fama e la devozione per questa cappella.
In primo luogo, nei primi anni del Seicento, la caduta di un enorme macigno dalle
falde della montagna che domina questo tratto dell’Anza causò una frana che lasciò
incredibilmente illesi sia il ponte sia la cappella. Lo stesso masso ancora oggi ci sorprende a ridosso delle mura del santuario e “pare quasi sospeso perché non vedesi punto di
appoggio”.
Naturalmente grande fu l’impressione sulla popolazione della valle, ben conscia dei
rovinosi danni che un tale avvenimento può recare all’ambiente naturale e ai paesini
del fondovalle.
Un altro infausto episodio che sicuramente farà lievitare la devozione alla Madonna
della Gurva è rappresentato da quella calamità che interesserà buona parte dell’Italia
settentrionale, e che sarà resa celebre nelle pagine più toccanti de “I Promessi Sposi”:
la peste del 1630, che fece numerose vittime anche in Ossola. Quanti voti, quante
suppliche alla venerata effigie… quante Grazie per cui essere riconoscenti, dopo
che l’aria della valle fu liberata dal tremendo morbo! Ed ecco rinnovate le attenzioni
verso il luogo sacro che meritava certo un decoro maggiore, con l’edificazione di un
oratorio che contenesse la preziosa immagine.
Anche sulla costruzione di questo nuovo edificio si è tramandata una leggenda che
gli storici hanno spesso citato, e che conferma l’alone di mistero e di sacralità che si
era concentrato in questo tratto del fiume della valle Anzasca. Ecco la celebre pagina
di Agostino Sandretti, prezioso custode delle memorie storiche dei calaschesi: “Ecco,
dice la leggenda, sorgere due partiti: uno voleva la nuova fabbrica a destra dell’Anza, dove si scorge
l’attuale, a fianco del muricciolo della Vergine e dell’enorme masso, l’altro la voleva nell’ampio prato che si estende a sinistra del fiume; infine, bilanciati i due partiti, tenuto forse calcolo del terreno
favorevole, sia per la sicurezza contro le piene dell’Anza, sia per il terreno adatto per le processioni,
prevalse il secondo partito. Giunto il tempo propizio, correva l’anno 1635, una domenica, dopo le
funzioni religiose, la popolazione intera di Calasca scampata alla peste, si riversa tutta alla Gurva
e con gran lena si dà a trasportare dal letto dell’Anza il materiale necessario per le fondamenta
dell’erigendo Santuario. Ma ecco che al mattino successivo, così la leggenda, si sparge la novella di
un gran miracolo; i sassi estratti dal fiume e con gran fatica portati alla riva sinistra sono scomparsi
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e colà non rimane traccia alcuna; e come per incanto si scorgono sulla riva destra proprio accanto al
muricciolo della Vergine. Miracolo! Miracolo! La Madonna della Gurva ha parlato! La Vergine
si elesse il luogo di sua dimora!”.
Così la leggenda e la tradizione, ma stranamente un fatto di maggior rilevanza storica,
e di maggior consistenza religiosa, è stato trascurato dagli storici, solo recentemente
il professor Bertamini, assiduo e competente studioso delle nostre valli, ha divulgato
un documento che getta una nuova luce sulla devozione sviluppatasi su queste frastagliate rive dell’Anza.
Ne citiamo i passi più significativi: “Nota delli miracoli della SS. Vergine fatti nel luogo della
Gurva di Calasca della Valeanzasca. 15 agosto 1635…
Faccio fede io infrascritto e con giuramento… la vigilia del glorioso martire S. Lorenzo, che fu alli
9 agosto 1635, essendo andato ad accompagnare la processione di S. Ambrogio della valle Antrona… ad una santa Immagine della Beata Vergine situata alle radici d’un ponte di pietra sopra il
fiume Anza sotto la terra di Calasca… mentre verso hora di nona ingenochiato avanti detta Immagine con tutto il popolo, che ben arrivava al numero di trecento persone, porgevo preghiere a Sua
Divina Maestà vidi apertamente che nell’ombelico di quella Venerabile Immagine della B. Vergine
apparvero prima due gocce di sangue; onde di ciò meravigliato, trovandomi fra molti… gli mostrai
detto sangue, di che essi et gli altri assieme si hebbero meraviglia, allegrezza e compunzione… ecco
che appresso dette goccie, apparvero gocciole maggiori e assai più colorite verso il fiume e puoco dopo
apparve un mezzo circolo di sangue a mano destra, verso il monte et un altro mezzo circolo assai
più grande a mano manca verso il fiume… alla faccia della Beata Vergine, che tutta si mutava, hor
dimostrandosi sanguigna, hor pallida et hor tornava nel stato di prima…”.
Un miracolo vero e proprio, certificato da un documento redatto dal sacerdote don
Antonio Fontana e controfirmato dai tanti testimoni oculari, tra i quali un notaio e
un chirurgo. Un miracolo che meglio spiega il fervore di una devozione che non ha
temuto di costruire un edificio sacro in un punto tanto disagevole e per giunta sotto
la costante minaccia di intemperie naturali, come poi in seguito in effetti accadde,
senza alcun danno per la struttura… quasi a confermare la speciale Grazia che pare
veramente proteggere e preservare questo santuario con la sua gloriosa storia e le sue
affascinanti tradizioni.
Tra le consuetudini più caratteristiche dobbiamo certo ricordare la folkloristica presenza della Milizia tradizionale nel giorno della festa del santuario che venne fissata
il 15 agosto di ogni anno, lo stesso della celebrazione dell’Assunta. Per la genesi di
questo storico corpo armato, che fortunatamente è attivo solo a contorno delle celebrazioni religiose di Calasca e Bannio Anzino, vi rimandiamo al prossimo capitolo.
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Santuario
della Madonna della Neve
a Bannio Anzino
Santuario
della Madonna della Neve
a Bannio Anzino
P
ochi chilometri più a monte del
santuario della Gurva, possiamo ammirare un’altra significativa testimonianza
del culto mariano, anch’esso particolarmente affascinante per la sua ricca
storia e il suo intenso radicamento nella
cultura della popolazione locale: la Madonna della Neve di Bannio, con il suo
santuario immerso nella pace di un fitto
bosco di querce e di castagni.
Oltre all’aspetto puramente sacro della
devozione, ci permettiamo di segnalare
questo luogo per il sereno ed incontaminato fascino di una passeggiata veramente speciale: quella che, partendo
dalla chiesa parrocchiale di Bannio, ci
conduce attraverso un rilassante sentiero segnato dalle cappelle della Via
Crucis sino al santuario vero e proprio.
Un’esperienza in cui arte, natura e fede si alleano per regalarci momenti di pace e di
bellezza.
Giunti al centro di Bannio, la cui amministrazione municipale ai nostri tempi è unita
ad Anzino, il nostro sguardo è subito attratto dall’imponente mole della chiesa parrocchiale di San Bartolomeo. Fu costruita poco dopo l’anno Mille, in stile romanico,
nel posto adesso occupato dal presbiterio dell’attuale struttura, e ricostruita verso la
metà del Seicento, in stile barocco. Risulta molto importante dal punto di vista storico in quanto fu la chiesa plebana della valle, quando alla fine del XIII secolo si rese
autonoma dalla storica pieve di Vergonte.
Per quanto riguarda il contesto artistico, conserva fra le sue pareti, a capo della cap55
pella ospitata all’inizio del transetto settentrionale, una delle più belle opere presenti
sul territorio ossolano: un crocefisso bronzeo “di ignoto scultore fiammingo”, risalente
al Settecento. Dietro la chiesa si trova il cimitero, oltre il quale si apre il bel sentiero
attorniato da un vasto campo erboso. A margine di questa romantica mulattiera immersa nel verde, i devoti locali decisero di erigere le cappelle della Via Crucis, in modo
da creare un significativo collegamento sacro tra la chiesa parrocchiale e il santuario,
un vero e proprio percorso processionale segnato dalle 14 stazioni della Passione di
Gesù Cristo, che culmina nel Mistero del Cristo Morto dell’ultima cappella, contigua
al santuario della Madonna della Neve.
L’opera, maestosa ma assai onerosa per la piccola comunità di Bannio, fu cominciata
nel 1721 e comunque portata a termine nel giro di pochi anni, grazie alle generose
offerte di alcune famiglie. Nel 1770 fu costruito e anche un bel portale d’ingresso
che fu decorato nell’anno seguente; quello attuale venne eretto e firmato da Giovanni
Antonio Bracchini nel 1862.
Al termine della mulattiera ci attende il santuario vero e proprio, “monumento insigne
della devozione dei Banniesi alla Vergine”, preceduto dall’amena radura erbosa che funge
da piazzetta.
Anticamente al suo posto sorgeva una cappella dedicata alla Vergine, documentata
alla fine del Cinquecento, ma certamente esistente da epoca più remota, con il curioso appellativo di “cappella dul Gil”, cappella del Gelo, un nome che sottolineava il rigido clima di quel luogo nei lunghi mesi invernali. Eppure era un sito caro ai fedeli di
Bannio, che nei decenni iniziali del Seicento dedicarono molte attenzioni al restauro
e all’ingrandimento di questa cappella, che già cominciava a fregiarsi di numerosi ex
voto, segni di un rilevante numero di grazie ricevute.
“La licenza e facoltà di rifabbricare il sacello od Oratorio del Gelo che ora è rovinato e che intendono
fabbricare di nuovo con l’ampiezza modo e forma che si possa in futuro celebrarvi la S. Messa”:
così nell’aprile del 1613 la comunità parrocchiale di Bannio richiedeva il permesso
al Vescovo di provvedere ad un adeguamento della struttura poco consona ad una
devozione sempre più importante.
Durante la visita pastorale del 1618 l’Oratorio risulta non ancora ultimato; solo nel
1622 fu possibile ottenere l’autorizzazione per poter celebrare le funzioni sacre e,
secondo una ben nota tradizione, il 5 agosto di quell’anno fu inaugurato con grande
concorso di popolo e con la partecipazione della “Milizia della terra” di recente istituzione (1614): una grande festa religiosa e popolare che pose le basi per una delle
tradizioni più gloriose della regione ossolana, affascinante ancora ai nostri giorni.
Naturalmente la costruzione doveva essere completata, infatti al momento della solenne inaugurazione risultava formata dal prolungamento della vecchia cappella, che
fungeva quindi da presbiterio, orientato ad est mentre il resto del corpo della struttura
guardava a ponente: un oratorio ancora poco consono alla sua funzione e soprattutto
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disarmonico nelle sue forme, in quanto la cappella risultava troppo bassa rispetto
al resto della chiesa. Non per niente il resoconto della visita pastorale del vescovo
Giovanni Pietro Volpi del 16 agosto 1627 ne imponeva le modifiche necessarie, che
poterono essere messe in opera mutando l’orientamento, spostando così l’altare ad
occidente: “il qual sito è più eminente e non si può abbassare a causa della roccia su cui è fondata
la stessa chiesa, e nel luogo dove è il presente altare vogliono fare il vestibolo e un’ampia piazza
che sarà assai comoda per la moltitudine del popolo che viene alla chiesa”. Il primitivo coro fu
quindi abbattuto per far spazio all’atrio del portale principale, che fu affiancato dalle
due finestre rettangolari che, permettono al fedele di osservare l’interno del tempio e
rivolgere le rituali preghiere anche quando questo è chiuso.
Le direttive vescovili imposero anche i miglioramenti nel decoro generale dell’oratorio:
“Questa chiesa si provvegga quanto prima di una campana la quale si farà collocare in locho comodo
che non possa impedire la chiesa. Il pavimento si faccia quanto prima ove manca. Li muri della chiesa si facciano quanto prima incalcinare et imbianchire. Alle finestre che non hanno telare gli faccino
fare nel tempo di tre mesi almeno di tela cerata, e nell’istesso termine si faccia fare un vaso decente
et alla forma di marmo per l’acqua benedetta. Per conservare il calice si faccia fare un armariotto
vestito di seta nel termine di un mese”.
Nel 1629 prende forma il santuario così come lo possiamo ammirare ai nostri giorni,
con l’antistante spazio erboso che ben si presta a ricevere i tanti visitatori e ad ospitare le numerose manifestazioni religiose e folkloristiche che da sempre attirano fedeli
da ogni parte della valle e della regione. Dal 1723 vi fu costruita anche una fontana
denominata “della Samaritana”, dall’episodio evangelico rappresentato sul prospetto.
La costruzione fu completata definitivamente nei primi decenni del Settecento, con
l’erezione della cupola e la decorazione dell’intero complesso che fu affidata ad un
emerito pittore locale, Gerolamo Ferroni, formatosi a Roma sotto la guida di un
maestro del calibro di Carlo Maratta, tra i sommi interpreti della cultura barocca della
seconda metà del Seicento.
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Opere e manufatti d’arte
Il Ferroni si occupò del santuario senza soste tra il 1723 e il 1725.
Vale la pena soffermarsi ad ammirare i suoi affreschi che ornano le pareti interne, un
concentrato di mirabile e calibrata ispirazione che attenua con freschezza e vivacità il
rigore classicistico della formazione accademica dell’autore.
Nel presbiterio ecco dipinti i Misteri della Vergine Maria: L’Angelo Nunziante, la Madonna Annunziata, l’Immacolata, la Visitazione, la Natività, La Presentazione al Tempio, la
Madonna della Neve.
Sotto il bel cornicione decorato da stucchi abbiamo quattro affreschi che richiamano
la tradizione della Madonna della Neve, che già abbiamo incontrato per l’omonimo santuario domese, completamente ridipinti nei primissimi anni del Novecento
dal pittore di Vanzone Giuseppe De Giorgis, dopo che l’umidità aveva consunto le
pennellate del Ferroni. La cupola è ornata nei pennacchi da quattro Angeli, che nelle
iscrizioni dei cartigli che sorreggono ricordano i titoli della Vergine Maria: Ave Filia
Dei Patris, Ave Mater Dei Filii, Ave Sponsa Spiritus Sanctii, Ave Templum SS. Trinitatis.
Molto bello l’affresco dell’Incoronazione della Vergine Assunta che occupa la superficie
della cupola.
Altri affreschi erano state eseguite dal Ferroni nella parte inferiore delle pareti del
corpo della chiesa, ma anch’essi furono ridipinti dal De Giorgis. Ci riferiamo alla
Natività della Vergine e alla Morte della Vergine.
Alle importanti testimonianze di questo dotato artista locale vanno aggiunte le spontanee immagini dei molti ex voto che praticamente fanno da tappezzeria agli spazi
liberi delle pareti del santuario: centinaia di miracolosi interventi della Madonna registrati con semplicità e gratitudine.
Per celebrare il nuovo altare costruito nel 1629 fu posta in un’apposita nicchia la bella
statua in stucco della Vergine delle Grazie con Bambino in braccio, ancora oggi proposta alla venerazione dei devoti nella collocazione originaria.
Un’opera di alto valore è legata alla storia di questo santuario e attualmente conservata nella vicina e più sicura chiesa parrocchiale: stiamo parlando del bellissimo reliquiario d’argento scolpito con la forma di un busto della Vergine, datato 1733, come
ci ricorda un’iscrizione sulla base. Rappresenta uno degli innumerevoli doni che gli
emigrati banniesi fecero al loro paese natale, secondo una duratura consuetudine.
La preziosa suppellettile proveniente da Roma, opera di un artista di pregio della
capitale, fu corredata in seguito da un’altra importante donazione: alcune reliquie
della Madonna e di San Giuseppe, che così poterono essere aggiunte al precedente
omaggio.
Proprio il reliquiario diventerà col tempo protagonista di un’affascinante tradizione
di cui riferiremo nel seguente paragrafo.
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La “Nuvola”
Proprio il prezioso e pregevole busto-reliquiario, dono dei concittadini banniesi
emigrati nella capitale della Cristianità, divenne uno degli elementi fondamentali di
una tradizione ricca di fascino, che anche ai nostri giorni riesce ad emozionare i fedeli o i semplici visitatori: la discesa della “nuvola” che apre solennemente la festa
della Madonna della Neve, il 5 agosto di ogni anno. Una rappresentazione scenica
che, insieme alla presenza delle Milizie Tradizionali, fa di questa festività il momento
folkloristico più famoso dell’Ossola.
La discesa (e risalita) della “nuvola” trova la sua origine nel 1774, quando fu deciso
l’ampliamento della chiesa parrocchiale con la costruzione di un nuovo e più ampio
presbiterio, e sopra di esso di un’ariosa cupola, nella quale i fabbricieri predisposero
una nicchia decorata che potesse contenere il reliquiario, per poterlo riporre e farlo
scorrere al momento opportuno, mediante un verricello, verso l’altare su un particolare sostegno, una “nuvola di legno adorato ed inargentata”.
Un momento particolarmente suggestivo che, come dicevamo, apre la festa della Madonna della Neve, cui segue la processione con il trasporto della statua sino al santuario attraverso la Via Crucis. Negli anni Cinquanta del secolo scorso fu aggiunta da un
ispirato parroco, Giovanni Battista Bossi, un’ulteriore trovata scenografica, e cioè la
pioggia di petali di fiori, rigorosamente bianchi, a simulare la nevicata sul colle Esquilino che diede origine al fortunato culto della Madonna della Neve. Questa “candida
nevicata” cominciava nel momento in cui, al termine delle cerimonie, il reliquiario
tornava nel suo vano dopo la lenta risalita dall’altare. L’attuale nuvola, festosamente
decorata, fu realizzata dall’intagliatore di Vanzone Giuseppe Rabaglietti nel 1808 ed
inaugurata nelle festività di quello stesso anno. Un recente restauro (1999) ne ha rinnovato e consolidato le forme.
Le Milizie Tradizionali
La festa della Madonna della Neve, che si svolge la prima domenica di agosto a Bannio, il giorno di ferragosto a Calasca, festività dedicata alla Madonna dell’Assunta,
la seconda domenica sempre di agosto ad Antrogna in occasione della festa di San
Valentino, sono gli scenari in cui si fanno sentire con la loro folkloristica e suggestiva
presenza le truppe delle Milizie Tradizionali.
Un “esercito” bonario e comunque disciplinato che fa rivivere, con le sue salve di
cannone, le sue esercitazioni strategiche, le sfavillanti divise, i suoi ufficiali a cavallo,
le marce ritmate dai tamburi e i pifferi, una storica tradizione della valle Anzasca.
Nel 1614 la valle Anzasca, come tutto il territorio ossolano, è dominio spagnolo fa62
cendo parte del ducato milanese. Il governatore spagnolo dei possedimenti milanesi,
il marchese Hynoiosa, istituì con compiti prettamente militari la Milizia della Terra,
che fu composta strappando al lavoro dei campi uomini dai 18 ai 50 anni, che dovettero essere armati ed addestrati a spese delle comunità locali. Macugnaga, Ceppo
Morelli, Vanzone, Bannio, Anzino, Calasca e Castiglione dovettero fornire 390 militi,
che si aggiunsero agli altri elementi messi a disposizione degli altri centri del fondovalle ossolano, per un totale di 1452 uomini.
Questa milizia fu impiegata con funzioni difensive alla rocca di Angera e al passo di
Paglino, sulla strada del Sempione, nella dura contesa che vide contrapposte le truppe
spagnole e quelle sabaude tra il 1614 e il 1617.
Fortunatamente, in seguito, questa speciale istituzione militare si specializzò come
guardia d’onore nelle feste civili e religiose della valle o in particolari servizi di rappresentanza durante le visite pastorali dei vescovi.
Si è tramandata come prima uscita ufficiale la data del 5 agosto 1622 proprio davanti
al santuario della Madonna della Neve di Bannio, che ovviamente divenne il loro
principale centro di aggregazione, “il palladio della loro istituzione, deposito della loro storia
e delle loro bandiere”. Questa simbolica e incisiva presenza si rinnovò di anno in anno,
stabilendo un connubio strettissimo tra la festa religiosa e la Milizia Tradizionale, in
ricordo degli antichi legami medioevali tra fede e cavalleria armata a difesa di essa.
Dal 1876 la “Società per la Milizia Tradizionale di Bannio” protegge e perpetua i
nobili e affascinanti doveri di questa secolare istituzione,che rappresenta molto di più
che una semplice attrazione folkloristica.
L’attuale divisa richiama quella dell’esercito piemontese dell’Ottocento: calzoni rossi
con banda dorata, giubba blu con spalline dorate e il caratteristico cappello a due
punte. Una bella uniforme che soppiantò quella originale, che naturalmente era quella degli occupanti spagnoli.
Anche Calasca volle offrire i servizi della propria Milizia alle cerimonie liturgiche
della festa dell’Assunta, che si svolgeva nel bel Santuario della Gurva che abbiamo incontrato più a valle. La data fatidica in cui cominciò il sodalizio tra Milizia e festa alla
Gurva è quella della prima celebrazione solenne, e cioè il 15 agosto 1637. La divisa
per queste truppe ricalca invece quelle della Guardia imperiale napoleonica, e quindi
calzoni bianchi e giubba nera a coda decorata dalla pettorina rossa per gli ufficiali.
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Santuario
della Madonna della Vita
a Mozzio di Crodo
Santuario
della Madonna della Vita
a Mozzio di Crodo
I
l centro della devozione mariana della valle Antigorio è il piccolo
gioiello architettonico ed artistico
rappresentato dal santuario della Madonna della Vita di Mozzio.
Il paese si trova inglobato nel vasto
comune di Crodo e, insieme a Viceno e Cravegna, costituisce il trittico
delle graziose frazioni protette dalle
imponenti vette del Larone e del
Cistella. La vita religiosa di questa
comunità si concentra intorno alla
chiesa parrocchiale di San Giacomo
costruita intorno al Seicento sulle
ceneri di una cappella che risaliva al
secolo precedente. La separazione
dalla chiesa plebana di Santo Stefano
di Crodo avveniva nel 1578.
Ma il nostro interesse si concentra su
un altro edificio sacro, costruito più a
valle e precisamente in località Smeglio, dove, tra uno sparuto gruppo di abitazioni, si può ammirare il piccolo santuario
intitolato alla Madonna della Vita.
In questo caso l’origine di questa devozione è da ricercarsi lontana dalle nostre valli
e precisamente a Bologna, dove nella chiesa di Santa Maria della Vita si venerava una
quadro raffigurante la Vergine della Vita. Come è risaputo, le dure condizioni di vita
delle nostre valli e le conseguenti ristrettezze economiche favorirono dal Cinquecento in poi un’intensa emigrazione verso luoghi più favorevoli, e furono proprio gli
emigranti mozziesi a Bologna ad importare questa particolare devozione, che fece
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subito proseliti anche negli ameni scenari
della valle Antigorio.
Le fonti parlano di un certo “Gio. Antonio
De Nigris e quattro altri suoi compaesani”, che
molto si impegnarono per la costruzione
nella loro terra nativa di un luogo di culto
idoneo alla venerazione di una copia di un
quadro dedicato appunto alla Natività della Vergine, recentemente ritrovato nel capoluogo emiliano. Questi intrepidi devoti
portarono a Mozzio la prestigiosa copia,
che venne esposta, con tanto di decreto
di autorizzazione vescovile datato 25 febbraio 1619, sull’altare di una cappella votiva situata sul colle di Smeglio, e si prodigarono in seguito affinché si costruisse un
santuario che la proteggesse ed onorasse al
meglio. In origine la tela raffigurava la tradizionale iconografia della Madonna con
Bambino, ma i donatori fecero aggiungere
un San Rocco con il cane alla destra, e un
San Carlo Borromeo alla sinistra, tradizionali intercessori e protettori contro il flagello della peste che, come è noto, fu una delle peggiori piaghe di quel secolo.
I tempi di autorizzazione per l’ampliamento della cappella non furono certamente
veloci, e solo il 26 aprile del 1635 si poterono cominciare i lavori. La prima Messa fu
celebrata il 21 agosto del 1640.
La partecipazione degli abitanti e gli assidui pellegrinaggi testimoniano la devozione
dei fedeli ossolani, e quindi non stupiscono le cure e gli ampliamenti e, soprattutto,
l’adeguata ornamentazione di cui fu fatto oggetto nel corso dei decenni successivi.
Nel secolo dopo il tempio assume l’aspetto attuale, grazie alla feconda opera del
fabbriciere Giovanni Antonio Pisi, con l’aggiunta di un vestibolo al piccolo oratorio
preesistente, la sostituzione dell’altare della Madonna e la splendida decorazione datata 1751 di Giuseppe Mattia Borgnis, “giustamente annoverato fra i sommi dei vigezzini”,
uno dei migliori pittori ossolani della nostra storia artistica.
Un santuario modesto, nelle dimensioni, che oltre al vestibolo, annovera una piccola
navata e il presbiterio, sopra il quale svetta una cupoletta interamente affrescata dal
grande pittore.
Il Bertamini coglie perfettamente il gradevolissimo effetto che l’opera del Borgnis suscita nel visitatore: “E infatti entrando si ha subito una piacevole impressione di una bellissima
70
composizione dove le figure, le decorazioni ed i colori sono in perfetta armonia”. Il Ramoni nel
suo studio sui pittori vigezzini ne sottolinea la fastosità barocca “quale esigeva il gusto
del tempo”.
Sul catino sopra il presbiterio possiamo ammirare la Vergine Assunta attorniata dai
dodici Apostoli, e nei pennacchi le quattro virtù cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza), mentre sul catino centrale dell’oratorio ci sorprende la raffigurazione
dell’ Incornazione della Vergine, fastosa e ridondante secondo il gusto, tutto barocco, di
“aprire” le volte delle chiese con rappresentazioni celesti di grande effetto: pensiamo
agli spettacolari soffitti romani di Pietro da Cortona (palazzo Barberini) o di padre
Andrea Pozzo (chiesa di Sant’Ignazio di Loyola).
Si tratta sicuramente di una delle opere migliori dell’artista vigezzino.
Sempre della sapiente mano del Borgnis sono le due tele poste sulle pareti laterali e
impreziosite da cornici di stucco di gusto barocco. Il primo rappresenta la Madonna e
Sant’Antonio da Padova con Bambino e Angioletti. Il secondo raffigura San Pietro, San Carlo
e San Francesco da Paola. Infine all’esterno, sopra il portale d’ingresso, in un medaglione
ovale ci accoglie una bella Natività della Vergine.
Nel 1850 fu ampliato lo spazio antistante il santuario e dieci anni dopo si provvide
all’Incoronazione della Vergine con corone benedette dal vescovo di Novara Filippo
Giacomo Gentile, celebrazione ripetuta esattamente un secolo dopo, con l’imposizione delle corone d’oro benedette da papa Giovanni XXIII.
Nella seconda metà dell’Ottocento si provvide a costruire il campanile le cui campane vennero inaugurate il 15 agosto del 1885.
Un piccolo gioiello. Ecco l’impressione che suscita la visita a questo santuario che
riesce a sorprendere nonostante la modestia delle dimensioni, che si mostrano inversamente proporzionali alla bellezza di un luogo sacro da sempre molto amato dalla
popolazione locale e dai pellegrini, che salgono ogni anno sino alle pendici del Cistella per venerare la Madonna della Vita.
Vi segnaliamo la bella processione per le vie del paese che anche ai nostri giorni celebra questa devozione con la partecipazioni delle affascinanti cavagnette che aggiungono un tocco di colore a questa secolare tradizione.
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Santuario
della Madonna del Sangue
a Re
Santuario
della Madonna del Sangue
a Re
I
l miracolo mariano più famoso e conosciuto si è verificato tra le
nostre montagne in valle Vigezzo.
Famoso e conosciuto soprattutto
per l’abbondante documentazione
storica che si è conservata negli
archivi e che ha tramandato con
dovizia i particolari narrati dai
testimoni oculari. Una fama che
ha travalicato ben presto i confini ossolani, favorendo un intenso
pellegrinaggio che continua incessantemente anche ai nostri giorni.
La minuscola località di Re si trova
sulla sponda sinistra del Melezzo
orientale, lungo la direttrice stradale che collega la valle Vigezzo
e il canton Ticino, tra le ripide
vallate che formano le cosiddette
Centovalli. Nella conca che ospita
il villaggio di Re spicca l’imponente mole dell’odierno Santuario, pregevole e degno custode delle reliquie e dei ricordi
del celeberrimo miracolo.
E per meglio comprendere tale devozione ripercorriamo i lontani eventi da cui si
sviluppò e da cui trasse origine, fatti che, ripetiamo, sono ampiamente documentati
da testimonianze contemporanee difficilmente confutabili.
Bisogna tornare indietro nel tempo sino al 29 aprile del 1494, quando Re non era
altro che un piccolo agglomerato di povere case, una comunità impoverita dalle
conseguenze dei conflitti in corso, primo fra tutti l’annoso scontro fra il Ducato di
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Milano e le milizie francesi. In quell’epoca su una parete esterna della chiesa parrocchiale titolata a San Maurizio si trovava una veneranda immagine della Madonna con
Bambino poppante, alla cui base recava una scritta “In Gremio Matris Sedet Sapientia Patris”, affrescata qualche decennio prima da un pittore di firma ignota ma dal
non trascurabile talento. E’ il cosiddetto “Pittore della Madonna di Re”, che lascerà
altre interessanti tracce della sua opera in altre località ossolane, nella chiesa di San
Quirico di Domodossola o in quella della Beata Assunta del Piaggio di Villadossola,
per esempio.
In quella serata primaverile alcuni ragazzi passano il tempo con il gioco della piodella
proprio sotto il portico della parrocchiale, a pochi passi quindi dalla immagine sacra
della Vergine. Il gioco non è favorevole ad uno di questi ragazzi, Giovanni detto lo
Zuccone, e come spesso accade in questi casi, la rabbia o la delusione per l’andamento della partita viene imputata ad un fattore esterno, piuttosto che alla propria imperizia, e lo “Zuccone” non trova di meglio che sfogarsi con l’affresco della Madonna
che campeggia sulla parete accanto a loro, scagliandogli contro la piodella, che colpisce il volto dipinto della Vergine all’altezza della fronte. Rimproverato dall’amico
Comolo di Londrago, lo sventurato “Zuccone” si pentì subito del suo stupido gesto,
che aveva prodotto una chiara impronta nel punto dell’impatto.
La serata volse al termine senza che nulla di strano fosse stato rivelato, tanto che “le
immagini delle Madonne e dei Santi hanno subito spesso maltrattamenti anche peggiori e quello
inflitto alla Madonna di Re dallo Zuccone non era che uno dei tanti”.
Eppure quella serata di aprile rimarrà perennemente scolpita nella lunga storia di Re
e della valle Vigezzo.
Anche il mattino dopo nessuno notò qualcosa di anomalo sotto il portico della chiesa
di San Maurizio, nemmeno il sacrista Stefano della Gisella quando venne a svolgere
i suoi compiti, se non una donna vestita di bianco inginocchiata a pregare davanti
alla immagine ferita della Madonna. La scambiò per una conoscente che abitava non
molto distante, e si ricordò in seguito che ella non rispose al suo saluto quando lui
entrò in chiesa. In serata qualcuno notò un singolare chiarore sotto il portico come
se qualcuno avesse acceso un cero davanti all’affresco, ma, essendo l’ora un po’ tarda,
nessuno si avvicinò per comprendere le ragioni di quell’insolito bagliore notturno.
Il mattino seguente, il devoto Bartolomeo de Leone della famiglia dei Franzinetti si
fermò davanti al volto della Madonna per la consueta preghiera mattutina, cui seguiva il rituale tocco dell’immagine e il bacio delle dita. E in questo momento il buon
Bartolomeo si accorse che qualcosa di eccezionale si stava verificando innanzi a lui.
Al tatto l’immagine, non ancora perfettamente illuminata dalle luci del giorno a causa
della posizione del portico, era bagnata, bagnata da un rivolo di sangue che fuoriusciva dalla fronte della Madonna, proprio dal punto in cui la piodella dello Zuccone
aveva aperto una piccola falla. Come prevedibile lo spavento e la sorpresa di questo
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parrocchiano furono enormi, così come quelle del curato don Giacomo, che accorse
ai richiami di Bartolomeo. Lo stesso curato cercò di raccogliere un po’ del sangue che
continuava a colare impregnando alcuni panni. Accorsero prontamente altri paesani
che, esterrefatti, videro quello che stava accadendo, e poterono testimoniare anche
l’intenso e sconosciuto profumo che il misterioso liquido emanava. Intervennero
anche le autorità locali, che predisposero una guardia continua all’immagine che
sanguinava in modo discontinuo, sia di giorno che di notte. Il suono delle campane
annunciava il ripetersi del fenomeno e il popolo accorreva pregando e acclamando la
Santa Vergine, che continuava a manifestarsi in modo così palese.
Il fatto si ripetè dal 29 aprile sino al 18 maggio seguente, con un’interruzione sino al
26 maggio, quando fu registrata un’altra miracolosa colata di sangue.
Da questa data le effusioni terminarono e l’immagine si asciugò, lasciando comunque
ben visibili le tracce del percorso del sangue lungo il volto della Madonna.
Ed eccoci ai resoconti più storicamente significativi.
Il vescovo di Novara inviò prontamente il suo vicario in Ossola, il canonico di Domodossola Antoniolo de Capis, ad accertarsi di quello che stava accadendo; anche le
autorità civili vollero sincerarsi di questo straordinario evento. Fu istituita una commissione composta da magistrati, notai, avvocati, che affiancarono alcuni sacerdoti
nel compito di indagare ufficialmente sullo strano episodio. La commissione presieduta dal potestà della valle, il dottore in legge Daniele Crespi, si recò sul posto, dove
potè osservare dal vivo il fenomeno in atto. Naturalmente subito furono approntate
delle indagini per scoprire una causa razionale di tale fenomeno, ed escludere che si
trattasse di imbroglio, artificio, scherzo o quant’altro.
Ogni indagine diede esito negativo, il fenomeno era di origine soprannaturale, poichè
non aveva alcuna spiegazione scientifica.
La commissione dovette testimoniare la causa soprannaturale, miracolosa, dell’effusione del sangue della Madonna di Re, e le preziose testimonianze recano le firme
dei più importanti notabili della valle, ben noti e registrati in altri documenti, quindi
attestazioni di sicuro affidamento storico e di valore storiografico.
Riportiamo anche alcune considerazioni documentate dal successore del potestà Daniele Crespi, il dottor Angelo Romano che, giunto in valle con “confessato pregiudizio
contro il miracolo”, dovette arrendersi alle numerose e attendibili testimonianze, redigendo un’ulteriore relazione con nuovi elementi a conforto dell’autenticità dell’evento miracoloso.
Ecco la sua conclusione: “Il processo del miracolo fu sottoscritto da molti notai, che ciascun
devoto della Vergine può leggere presso i venerabili rettori della chiesa. Questi testimoni degni di fede
dopo minuziosi esami hanno deposto di aver visto il miracolo della uscita del sangue in più giorni e
in varie riprese, così che il miracolo è chiarissimo, vero e non finto”.
Chiarissimo, vero e non finto: una dichiarazione abbastanza esplicita…
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E lo stesso dottor Romano può rendersi conto dell’enorme eco che i fatti di Re
provocarono non solo nel ristretto ambito dei confini ossolani. Un incessante pellegrinaggio si riversa per le strade della valle Vigezzo, dai versanti italiano ed elvetico
attraverso il limitrofo Ticino. Non passa molto tempo che nuovi miracoli vengono
elargiti grazie alla potente intercessione di quella che ormai è diventata per tutti i
fedeli la Madonna di Re. Ed ecco proliferare anche in questo santo luogo i segni del
riconoscimento dei tanti cristiani che si sono rivolti alla Vergine del Sangue: ex-voto
in forma di quadretti o, in seguito, di raffigurazioni di cera di varie parti del corpo
interessate da guarigioni miracolose spesso di grandezza naturale, lasciti testamentari
e offerte di varia natura.
Dalla chiesa di San Maurizio al Santuario di Re
La piccola e semplice chiesetta di San Maurizio, che aveva protetto tra le sue mura
l’immagine che avrebbe in seguito manifestato i segni dell’intervento miracoloso, si
dimostrò ovviamente troppo limitata nelle dimensione per potere accogliere i numerosi devoti che affluivano nel luogo del miracolo.
Subito si dovette procedere a recintare lo spazio attiguo all’immagine venerata, che,
non dimentichiamo, si trovava all’aperto, sulla facciata della chiesa parrocchiale. La
costruzione di una cappella che la proteggesse, insieme alle preziose reliquie, avanzò
abbastanza in fretta con l’abbattimento del portichetto e lo spostamento del portale
della chiesa nella parte più settentrionale della facciata, affinché si potesse predisporre un adeguato altare in quella porzione di parete che conteneva l’ormai celebre
affresco. Il nuovo altare venne consacrato nel corso del 1500 con il titolo di “Sancta
Maria ad Sanguinem” e la nuova cappella risultava quindi attigua, ma esterna, al resto
della chiesa. Una cappella quindi che ne rappresentava un allungamento, e con dimensioni che si avvicinavano alla struttura della chiesa stessa. La differenza fra le due
costruzioni consisteva nel fatto che presumibilmente la nuova cappella fosse voltata.
Nei primi decenni la struttura presentava un nuovo campanile appoggiato al lato settentrionale della cappella della Madonna del Sangue. Un nuovo portico rendeva più
decoroso e riparato l’ingresso del rinnovato complesso sacro.
Secondo i resoconti delle visite pastorali, alla fine del Cinquecento lo spazio della
cappella risulta raddoppiato, segno tangibile delle dimensioni che aveva assunto la
devozione popolare della Madonna di Re, come testimonia un visitatore apostolico nel 1590: “per l’altare e verso l’immagine della Beatissima Vergine vi è una straordinaria
devozione e frequente concorso di popoli e all’altare si celebra spesso la Messa dal curato e talvolta
anche da altri sacerdoti per devozione”. “Un grande accorrere di gente” che in quegli anni può
ammirare una bellissima ancona in legno dorato, che circondava e rendeva onore
all’antica e venerata effigie. Nel 1597 il celebre e stimato monsignor Carlo Bascapè
visitò l’ormai famoso luogo sacro rimanendone assai impressionato (“ho visitato quel
luogo con mia molta consolatione”), e fornì delle accurate direttive per un’adeguata conservazione delle reliquie del miracolo e soprattutto della miracolosa immagine, nonché
per le celebrazioni ad essa dedicate: “L’Immagine della Beata Vergine miracolosa si copra
di qualche drappo, che si alzi et abbassi decentemente, quando si vuol mostrare detta immagine, né
si mostri senza il consenso del Curato; et s’accendano sempre due lumi, et tale officio faccia un sacerdote con cotta e scola”. Inoltre l’illustre porporato si dimostrò un attento e appassionato
divulgatore del miracoloso spargimento di sangue avvenuto un secolo prima, con la
pubblicazione di un opuscolo da distribuire in tutto il territorio della diocesi, in cui
veniva riportato il documento del potestà Romano e anche la riproduzione dell’immagine della Madonna del Sangue di Re.
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Questa iniziativa, insieme alle attestazioni di grazie che continuavano ad essere iscritte alla santa intercessione della Madonna del Sangue, non fece altro che aumentare
la fama e la gloria di Re e della sua chiesa, anzi ormai del suo santuario, che nei primissimi anni del Seicento subì una decisa ricostruzione che permettesse di accogliere
meglio la folla dei pellegrini.
Nel 1605 si iniziò con la ristrutturazione dello spazio anteriore della costruzione e
cioè quello della cappella della Madonna, la cui immagine era sempre conservata nella
porzione di muratura originale (e sempre lo sarà, nonostante alcune erronee notizie
raccolte da qualche storico). Fu ampliato e meglio disposto questo spazio che risulta
terminato già nel 1608. Dopodiché si mise mano alla vecchia chiesa di San Maurizio
che aveva conservato quell’aspetto disadorno e addirittura trascurato certamente
poco consono all’importanza che aveva assunto l’antistante cappella nel corso dei
decenni che seguirono il miracolo. Fu allungata ed ampliata secondo uno schema che
s’integrasse con il resto della struttura; venne completata con l’aggiunta di una nuova
struttura absidale e appena prima di essa furono aperte le cappelle della SS. Trinità nel
lato settentrionale, e quella dedicata a San Carlo Borromeo dalla parte opposta.
La parete con l’affresco della miracolosa effusione fu in parte demolita, con le dovute
cautele, in modo da lasciare isolata al centro della chiesa solo la porzione che conteneva l’immagine sacra.
Questa porzione di parete, insieme ad un’altra sul lato settentrionale, dove esternamente si appoggiava il campanile, furono le uniche parti delle strutture primitive che
sopravvissero. Anche la vecchia sacrestia fu completamente ricostruita.
Il santuario si ingrandisce dunque e, grazie alle cospicue donazioni dei devoti, si abbellisce di arredi e di opere d’arte di interessante valore. Il pulpito e gli stalli lignei del
coro, per esempio, furono intagliati dal maestro Andrea Grifanti di Arona nel 1620.
Si provvide anche a decorare la volta del coro con stucchi dorati e con l’opera dei
valenti pennelli di Carlo Mellerio, attivo a Re tra il 1652 e il 1654, e in seguito ad
ornare anche le recenti cappelle laterali. Tra il Seicento e il Settecento le attenzioni
sono concentrate sul campanile, che viene eretto staccato dal corpo della chiesa, in
sostituzione dell’antico, ed inaugurato nel 1703.
Nel 1773 furono trovate le risorse economiche per sostituire l’ancona lignea dell’altare della Madonna con una più prestigiosa di gusto barocco, realizzata con materiale
marmoreo; pochi anni dopo lo stesso altare fu recintato da una balaustra anch’essa
di marmo. Anche l’altare di San Maurizio fu sostituito con uno più aderente al nuovo
stile imperante. Sempre in quegli anni si pensò di dare maggior lustro all’altare della
Madonna, ampliandone lo spazio intorno e, mediante quattro pilastri, innalzando
una cupoletta, la cui superficie interna fu ben presto affrescata dal pittore ticinese
Giuseppe Torricelli, secondo l’attribuzione dello storico Giovanni De Maurizi, opera
“non priva di pregio” deperita purtroppo con il tempo.
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In questa occasione fu approntato un piccolo locale sopra la volta, in corrispondenza
dell’altare della Madonna, raggiungibile grazie ad una scaletta dalla sacrestia. Da questo modesto ambiente si poteva calare mediante un verricello il prezioso reliquiario
del Sangue del miracolo fino alla mensa dell’altare, in occasione dei solenni festeggiamenti.
Negli ultimi decenni del secolo s’intervenne sul pavimento, quanto mai bisognoso di
restauri.
Nel 1806 si realizzarono il portico e la nuova facciata del santuario, che si fregiarono
anche degli affreschi di Lorenzo Peretti, autore anche del quadro raffigurante San
Maurizio sull’altare omonimo.
Anche i terreni intorno al luogo sacro furono acquisiti dalle autorità religiose del
santuario, e furono utilizzati in funzione dell’accoglienza dei tanti che vollero avventurarsi in questa conca angusta, con la demolizione dei vetusti caseggiati che circondavano il piccolo santuario, rendendo disagevole lo svolgersi delle visite dei fedeli
nonché delle celebrazioni religiose.
Nel 1887 si decise di costruire un luogo adatto al ricevimento e all’accoglienza per
i pellegrini, quello che sarebbe stato l’Ospizio Barbieri, terminato e funzionante dal
1894. Anche per il santuario lo spazio esistente non bastava più per un’adeguata
accoglienza, e quindi s’affacciò l’esigenza di ampliarne la superficie, esigenza che fu
incarnata da un energico parroco, don Giovanni Antonio Peretti, che dedicò praticamente tutta la sua vita alla realizzazione di questo progetto.
E sarà nel corso del secolo scorso che il tempio assumerà le forme attuali, imponenti
e maestose così come si annunciano ai fedeli che ai nostri giorni giungono a Re. Nel
1922 fu posta la prima pietra della nuova costruzione, che secondo il progetto voluto e seguito con grande intensità dall’architetto Edoardo Collamarini (suo intimo e
irrinunciabile obiettivo: “Aver onorato Maria SS. del Sangue con un’opera d’arte non indegna
di figurare accanto alle antiche”) farà emergere un’opera architettonica che assomma vari
elementi del passato in una sintesi secondo alcuni discutibile, ma di certo interessante
e di grande effetto.
Il vecchio edificio, formato come sappiamo dalla chiesa di San Maurizio e dall’ampliamento della prima cappella della Madonna del Sangue, viene inglobato in un
grande tempio a pianta centrale, come nelle antiche basiliche paleocristiane, diviso
in tre navate, caratterizzato dalle massicce pareti che si elevano verso l’alto e che rimandano all’ariosa leggerezza delle cattedrali gotiche, in cui le arcate a sesto acuto e
a tutto sesto si avvicendano in una serrata ed affascinante alternanza. Quattro grossi
pilastri di forma cilindrica reggono le spinte della grande cupola (alta 46 metri con un
diametro di 14), circondata alla sua base da quattro semicupole laterali. La facciata,
maestosa anch’essa, è realizzata in granito e mostra forma spiccatamente goticheggiante, ha tre entrate in corrispondenza delle tre navate interne, e la principale, quella
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centrale, è protetta da un elegante protiro. Un ampio rosone si apre sopra il portale
maggiore. Un complesso che si affianca alla vecchia struttura, di cui diventa un elemento fondante, organizzato su uno spazio che ci riporta “al più solido ed elegante tipo
chiesastico, ch’è il bizantino”. Elemento unificante e fulcro del santuario è l’altare della
Madonna del Sangue, affrescata sul muro appartenente alla primitiva chiesa di San
Maurizio. I lavori procedettero per quasi quarant’anni, con la triste pausa degli anni di
guerra, sino al fatidico 5 agosto 1958, quando il tempio fu solennemente inaugurato
dal vescovo di Novara, monsignor Vincenzo Gremigni, con grande concorso di popolo e di autorità civili e religiose. Per volere di papa Pio XII l’opera venne insignita
del titolo di Basilica Minore.
Opere e manufatti d’arte
Tanti secoli di storia e di venerazione non potevano passare, senza che si accumulasse
un discreto numero di opere d’arte, nate per celebrare questo luogo così tanto amato
da generazioni di cristiani.
Il centro focale di tutto il complesso rimane chiaramente l’altare settecentesco che
protegge la sacra immagine, dietro il quale è stato appoggiato quello delle reliquie del
Sangue. Sopra di esso, sulla volta, campeggia il pregevole affresco di recente composizione del pittore Giulio Cesare Mussi, la Madonna del Sangue dispensatrice di
Grazie, caratterizzato da forme altamente espressive.
Ancora intatto il presbiterio della chiesa di San Maurizio, con i dipinti di Lorenzo
Peretti e i brani di affresco di Carlo Mellerio, di cui segnaliamo soprattutto le figure
dei quattro Evangelisti. Nel nuovo santuario ammiriamo, in corrispondenza delle
lunette sopra i tre ingressi della nuova facciata, i pregevoli mosaici disegnati dal pittore romano G.B. Conti e messi in posa da M.T. Monticelli nel 1961, e soprattutto il
portale in bronzo (1962) di Luigi Fornara, opera di alto valore artistico, con le rappresentazioni in parallelo della Passione del Cristo e del miracolo della Madonna del
Sangue. Recentemente (1985) anche i due ingressi laterali sono stati onorati da due
porte bronzee, egregie opere dello scultore Luigi Teruggi. Lo stesso artista realizzerà, pochi anni dopo, le altre due porte del nuovo tempio, riproponendo la chiarezza
e l’efficacia espressiva del proprio stile. La grande cupola centrale presenta quattro
tondi con gli affreschi degli Evangelisti del pittore Vanni Rossi (1956). I pilastri della
navata centrale sono decorati dalle bellissime formelle rettangolari in rame smaltato
di G.G. Del Forno, che ripropongono le quattordici stazioni della Via Crucis. Due
pregevoli sarcofagi in granito dello scultore Luigi Fornara conservano i resti di due
importanti prelati che, come abbiamo visto, occupano un posto di rilievo nella storia
di questo santuario: il vescovo Gremigni e l’indomito Giovanni Antonio Peretti, che
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dedicò la sua esistenza alla costruzione di questo tempio.
Negli ultimi decenni alcuni interventi ne migliorarono l’assetto complessivo, rendendolo più funzionale con la costruzione di una cripta sotto il presbiterio e la sistemazione dell’altare del nuovo tempio, consacrato nel 1991 dal vescovo Renato Corti.
In alcune salette laterali sono visibili i tanti ex voto, oltre trecento, il più antico dei
quali è datato 1658 proveniente dalla Germania. Essi continuano ad ammucchiarsi
senza posa, segno di una devozione che veramente non pare conoscere segni di
stanchezza e di crisi, come testimoniano le tante celebrazioni liturgiche nel corso
dell’anno, così come le processioni e i pellegrinaggi, tra i quali segnaliamo quello a
piedi che dal fondovalle arriva sino alle porte del santuario, organizzato ai primi di
settembre di ogni anno da Comunione e Liberazione con il concorso di molte parrocchie ossolane.
Un tempio che, con la mole imponente, è esso stesso un’opera d’arte che sorprende
ancora oggi i tanti visitatori, attirati certo dalla miracolosa potenza rappresentata da
quell’antico affresco, ma anche dalle linee maestose ed eleganti nello stesso tempo di
una delle più belle costruzioni della regione.
Bibliografia
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L. Tagliacarte, Memorie di Calasca, Novara 1897.
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INDICE
Presentazione
Introduzione
Santuario della Madonna della Neve a Domodossola
Santuario della Madonna del Boden ad Ornavasso
Santuario della Madonna della Gurva a Calasca Castiglione
Santuario della Madonna della Neve a Bannio Anzino.
Santuario della Madonna della Vita a Mozzio di Crodo
Santuario della Madonna del Sangue di Re
Bibliografia
p. 5
p. 7
p. 9
p. 27
p. 41
p. 53
p. 67
p. 79
p. 95
Ringraziamenti.
Si ringrazia per la collaborazione nella stesura di questo volume:
Il professor don Tullio Bertamini, la professoressa Silvana Pirazzi, il professor Carlo
Teruzzi, l’architetto Roberto Facciola, il dottore Marco Blardone, l’architetto Anna
Vittoria Rossano, il Gal Azione Ossola e il Centro di Documentazione Alpina di
Domodossola.
Per l’apparato fotografico si ringraziano Maria Letizia Panighetti e Ferruccio Sbaffi
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