L’arte e gli artisti
š Dario D’Antoni ›
A.s 2013.2014
Non esiste in realtà una cosa chiamata arte.
Esistono solo gli artisti: uomini che un tempo con terra colorata
tracciavano alla meglio le forme del bisonte sulle pareti delle caverne e oggi
comprano i colori e disegnano gli affissi pubblicitari per le stazioni della
metropolitana, e nel corso dei secoli fecero parecchie altre cose.
Non c’è alcun male a definire arte tutte queste attività, purché si tenga
presente che questa parola può significare cose assai diverse a seconda del
tempo e del luogo, e ci si renda conto che
non esiste arte con la A
maiuscola, quell’arte con la A maiuscola che oggi è diventata una specie
di spauracchio o di feticcio. Si può rovinare un artista sostenendo che la sua
opera è ottima a modo suo, ma non è Arte, e si può confondere chiunque
abbia trovato bello un quadro dicendogli che non si trattava di Arte ma di
qualcos’altro.
Però probabilmente non esistono modi sbagliati di godere di un quadro
o di una statua. A uno piacerà un paesaggio perché gli ricorda la sua casa,
a un altro un ritratto perché gli ricorda un amico: in questo non c’è alcun
male.
Tutti noi, vedendo un quadro, siamo indotti a ricordare mille cose
capaci di influire sulle nostre reazioni. Fin tanto che tali ricordi ci aiutano a
godere di ciò che vediamo, non c’è da preoccuparsi. Ma quando qualche
ricordo di scarso valore diventa un pregiudizio, quando istintivamente ci
scostiamo da un mirabile quadro di soggetto alpino solo perché non ci piace
l’alpinismo, allora abbiamo il dovere di frugare nella nostra mente per
scoprire la ragione di un’avversione capace di neutralizzare un piacere che
altrimenti avremmo avuto. Ci sono ragioni sbagliate per
non
godere di
un’opera d’arte.
Molti desiderano vedere nei quadri ciò che amano nella realtà: è una
preferenza naturalissima. A noi tutti piace la bellezza della natura, e siamo
grati a quegli artisti che nelle loro opere ce l’hanno conservata e
tramandata.
Quando il grande pittore fiammingo Rubens fece un disegno del suo
bambino, era orgoglioso della sua bellezza e
voleva che anche noi l’ammirassimo. Ma
questa preferenza per i soggetti piacevoli e
suggestivi può essere dannosa, se ci induce a
rifiutare opere che non risultano
immediatamente attraenti.
Il grande pittore tedesco Albrecht
Dürer disegnò sua madre con un amore
senza dubbio pari a quello di Rubens per il suo
paffuto figlioletto. Il suo fedele studio della
vecchiaia e dello sfacelo può
Peter paul rubens
forse colpire e respingere, ma se
Ritratto del figlio nicola, 1620
vinciamo questa prima sensazione
di ripugnanza, ne saremo
ampiamente compensati poiché nella sua spietata sincerità- il
disegno di Dürer è un’opera
grandiosa: la bellezza di un quadro,
Albrecht dÜrer
Ritratto della madre, 1514
come vedremo, non sta nella bellezza del
soggetto.
Non sappiamo se i monelli che lo
spagnolo Murillo amava dipingere fossero
davvero belli, ma indubbiamente egli li ha
saputo rendere molto affascinanti.
Bartolomé Esteban Murillo
monelli, 1675
D’altra parte forse molti
troverebbero insignificante la
bambina del mirabile interno
olandese di
Pieter de Hooch,
mentre si tratta pur sempre di un
quadro di notevole interesse.
Pieter de hooch
Interno con donna che sbuccia mele, 1663
La difficoltà sta forse nella
gamma così estesa dei gusti e dei
canoni che determinano la
bellezza. I due quadri sottostanti
vennero entrambi dipinti nel ‘400
ed entrambi rappresentano angeli
che suonano il liuto. Molti, per la
grazia seducente e il fascino, preferiranno l’opera italiana di Melozzo
a quella del suo contemporaneo
Hans Memling.
da Forlì
Ma sono belle entrambe.
Può richieder maggior tempo scoprire la bellezza intrinseca dell’angelo di
Memling, ma quando quella sua leggera goffaggine non ci disturberà più lo
troveremo delizioso.
Melozzo da forlì
Angelo (part.), 1480
Hans memling
Angeli (part.), 1490
Ciò che vale per la bellezza vale anche per l’espressione, e infatti
sovente è proprio l’espressione di una figura a farci amare o detestare il
quadro. Ad alcuni piace un’espressione facilmente comprensibile, in grado
quindi di commuovere profondamente.
Quando
Guido Reni, pittore del Seicento, dipinse il
suo Cristo con corona di spine, indubbiamente
voleva che lo spettatore vedesse in quel volto tutto il
tormento dell’uomo e tutta la gloria della Passione.
Molti, nei secoli successivi, hanno tratto forza e
conforto da questa rappresentazione del Salvatore:
il sentimento che in essa si esprime è così potente
ed esplicito che copie di quest’opera si possono
trovare in semplici chiesette o in case isolate tra
persone del tutto profane in fatto di arte, che
magari non han mai
Guido reni
Cristo con corona di spine, 1640 s e n t i t o n o m i n a r e
Guido Reni.
Ma anche se questa intensa espressione di
sentimenti ci attrae, non dobbiamo per tale
motivo trascurare opere il cui intimo
significato è forse meno facilmente
accessibile.
Il pittore medievale italiano che dipinse la
Croce della figura accanto sentiva il tema
della Passione con la stessa sincerità di Reni. Per
comprendere i suoi sentimenti, però, dobbiamo
Maestro toscano
prima renderci conto dei suoi metodi di
Croce dipinta, part. Con , 1173-1225
disegno. Una volta compresi questi diversi
linguaggi, possiamo anche preferire opere in cui l’espressione sia meno
ovvia che in Guido Reni. Proprio come si può preferire gente di poche
parole e gesti, che affascina perché lascia spazio all’immaginazione, così ci
si può appassionare a quadri e sculture in cui esistono margini per riflettere e
lasciarsi affascinare.
Nei periodi più “primitivi”, quando gli artisti erano meno abili di
adesso nella rappresentazione di volti e gesti umani, è tanto più
commovente vedere come tentassero, comunque, di esprimere il
sentimento che li colpiva. Ma a questo punto spesso ci si arresta di fronte a
un’altra difficoltà. Si vuole ammirare
l’abilità dell’artista nella rappresentazione
delle cose così come sono. Si
preferiscono le pitture che sembrano
“vere”. Certo questa è una
Albrecht durer
Lepre, 1502
considerazione importante: la pazienza e
la bravura volte a rendere con fedeltà il
mondo visibile sono senz’altro da
ammirare.
Grandi artisti del passato hanno
dedicato molte fatiche a opere nelle quali
è riprodotto accuratamente ogni minimo
particolare. La lepre ritratta ad
acquerello da Durer è uno degli
esempi più famosi di questa
amorevole pazienza.
Ma chi potrebbe affermare
che il disegno di un elefante di
Rembrandt è necessariamente
meno buono perché
mostra un minor numero Rembrandt van rjin
Elefante, 1637
di particolari? In realtà
Rembrandt era un mago tale da farci percepire la pelle grinzosa
dell’elefante con pochi tratti di carboncino.
Ma non è soltanto il disegno sommario ad urtare coloro che vogliono i
quadri “veri”. Essi biasimano ancor più le opere che giudicano scorrette
quando esse appartengono a un periodo moderno, a un periodo in cui
l’artista avrebbe dovuto “essere capace di far meglio”.
In realtà non c’è alcun mistero in queste deformazioni della natura che
tante proteste sollevano nelle discussioni sull’arte moderna. Chiunque abbia
presente le produzioni di Walt Disney o i fumetti sa già che, a volte, c’è
una buona ragione se le cose vengono disegnate diverse da come sono,
mutate o deformate in un senso o nell’altro. Topolino non sembra un topo
vero, eppure nessuno scrive ai giornali lettere indignate sulla lunghezza
della sua coda. Chi entra nell’incantato mondo Disney non si preoccupa
dell’Arte con la A maiuscola. Non guarda i suoi film con gli stessi pregiudizi
che ostenta ad una mostra di arte moderna. Ma se un artista moderno
disegna a modo suo, lo si considera un individuo improvvisato che non sa
fare niente di meglio.
Si può pensare ciò che si vuole degli artisti moderni, ma si deve
riconoscere loro tanta fiducia da presumerli almeno
Pablo picasso
capaci di disegnare “correttamente”. Se non lo
Chioccia con pulcini, 1942
fanno, le loro ragioni possono essere assai simili a
quelle di Walt Disney.
Ecco qui rappresentata una Chioccia con
pulcini, per illustrare le pagine dell’Historie naturelle,
realizzata dal più famoso
esponente dell’arte
moderna,
Pablo Picasso.
Nessuno certo potrebbe
riscontrare errori in questa
i n c a n t e v o l e
rappresentazione di una
chioccia in mezzo ai suoi lanugginosi pulcini.
Però, nel disegnare un gallo, lo stesso Picasso
non si accontentò di renderne semplicemente
l’aspetto: volle esprimerne l’aggressività, la vanità e la
stupidità. In altre parole, ricorse alla caricatura.
Pablo picasso
Galletto, 1938
Ma che grande e persuasiva caricatura ne
ha ricavato!
Quando ci sembra che un quadro pecchi nella somiglianza con la
realtà o con l’esattezza dei particolari, dobbiamo sempre domandarci in
primo luogo se l’artista non abbia avuto le sue ragioni per modificare
l’aspetto di ciò che ha visto, e son ragioni che approfondiremo sempre di più
man mano che la storia dell’arte verrà svolgendosi sotto i nostri occhi.
In secondo luogo, non dobbiamo mai condannare un’opera per il fatto
di essere disegnata non correttamente, a meno che non ci sia la certezza di
avere noi ragione e il pittore torto. Siamo tutti propensi a troncare il giudizio
subito, dicendo “le cose non hanno questo aspetto”, e abbiamo la strana
abitudine di credere che la natura appaia sempre come nei quadri
tradizionali.
Ma una sorprendente scoperta, che risale a non molti anni fa, può
facilmente dimostrare l’infondatezza di questa teoria. Per secoli e secoli
migliaia di persone hanno guardato i cavalli al galoppo, hanno assistito a
gare ippiche e a
cacce, hanno
posseduto pitture e
stampe sportive con
cavalli lanciati alla
carica
nelle
battaglie o lanciati
in corsa dietro ai
segugi. Nessuno
sembra aver mai
notato
come
effettivamente
appaia un cavallo in
corsa.
Théodore gericault
Le corse a Epsom, 1821
Pittori e incisori li
hanno sempre
rappresentati con le
zampe protese, così come li dipinse il celebre pittore francese Théodore
Gericault nel XIX secolo, in una famosa rappresentazione delle corse di
Espsom.
Cinquant’anni dopo, quando
la macchina fotografica fu
abbastanza perfezionata da
consentire istantanee di cavalli
in rapido movimento, fu
dimostrato che pittori e
pubblico avevano sempre
avuto torto: nessun cavallo
lanciato al galoppo si è mai
mosso nel modo che noi
crediamo”naturale”. Il cavallo
Eadweard Muybridge
ripiega alternativamente le
Cavallo al galoppo, 1872
zampe via via che si staccano
dal suolo, e se riflettiamo per un istante ci rendiamo conto che non potrebbe
fare diversamente. Eppure quando i pittori cominciarono a valersi di questa
nuova scoperta dipingendo i cavalli in movimento esattamente come sono in
realtà, tutti criticarono i quadri perché sembravano sbagliati.
Questo, indubbiamente, è un esempio estremo, ma errori simili non
sono poi tanto rari come a prima vista sembrerebbe. Siamo tutti propensi ad
accettare come esatti solo i colori e le forme convenzionali.
I bambini, a volte, credono che le stelle debbano essere a forma di
stella, per quanto in realtà non lo siano affatto. La gente che insiste perchè in
un quadro il cielo sia azzurro e l’erba verde non differisce molto da quei
bambini. Spesso queste persone si indignano perché vedono colori diversi in
un quadro, ma se fosse possibile una buona volta dimenticare tutto ciò che
abbiamo udito del cielo azzurro e dei verdi prati e guardare il mondo come
se, appena giunti da un altro pianeta in un viaggio di scoperta, lo vedessimo
per la prima volta, ecco che gli oggetti ci apparirebbero suscettibili delle
coloriture più varie e sorprendenti. Ora, i pittori a volte si sentono come in un
viaggio di scoperta. Essi vogliono una visione fresca del mondo, fuori da ogni
conoscenza scontata, da ogni pregiudizio sulla carne rosea, sulle mele gialle
o rosse.
Non è facile staccarsi da queste idee preconcette, ma gli artisti che
meglio ci riescono creano spesso le opere più interessanti. Sono gli artisti che
ci insegnano a vedere nella natura bellezze nuove che mai avremmo
sognato. Se li seguiamo e impariamo da loro, perfino guardare dalla finestra
potrà diventare un’avventura emozionante.
Non c’è peggior ostacolo al godimento delle grandi opere d’arte dei
nostri pregiudizi. Una pittura che è difforme dalle nostre idee viene spesso
marchiata come “non esatta”. Quanto più spesso vediamo rappresentata in
arte una vicenda, tanto più ci persuadiamo che essa debba essere sempre
rappresentata nella medesima maniera.
Se poi parliamo di soggetti biblici, è facilissimo sollevare grandi
polemiche: benché le Scritture nulla dicano dell’aspetto fisico di Gesù,
benché Dio stesso non possa essere immaginato in forma umana e benché si
sappia che furono gli artisti del passato a fornire le immagini alle quali ci siamo
abituati, molti credono che staccandosi da quelle forme tradizionali e
codificate sia una bestemmia.
In realtà, furono proprio gli artisti immersi nelle Sacre Scritture con la
massima devozione e attenzione a tentare di crearsi delle visioni
completamente nuove della storia sacra.
Cercarono di dimenticare tutti i quadri visti, di immaginare il momento in
cui il Bambin Gesù fu posto nella mangiatoia e i pastori vennero ad adorarlo o
quando un pescatore cominciò a predicare il Vangelo.
Questo sforzo di leggere l’antico testo con sguardo del tutto nuovo,
vergine, ha scandalizzato e offeso più volte la gente poco riflessiva.
Un tipico “scandalo” di questo tipo divampò anche intorno al
Caravaggio, un artista rivoluzionario, coraggioso e di straordinario talento.
Gli era stato ordinato un quadro di San Matteo per l’altare di una
chiesa romana. Il santo doveva essere rappresentato nell’atto di scrivere il
Vangelo, e per mostrare che i Vangeli erano la parola divina, doveva essergli
posto accanto l’angelo ispiratore.
caravaggio
San matteo, 1602 (versione respinta)
Il Caravaggio, un giovane artista
altamente talentuoso ed intransigente,
cercò di raffigurarsi la scena di un
povero e semplice operaio, un
semplice pubblicano,improvvisamente
alle prese con un libro da scrivere.
Così dipinse san Matteo calvo, con i
piedi nudi e polverosi, che afferra
goffamente il grosso volume e aggrotta
preoccupato la fronte nell’insolito sforzo
della scrittura. Al suo fianco dipinse un
angelo adolescente, che sembra
appena giunto dall’alto e che
dolcemente gli guida la mano come
può fare un maestro con il bambino.
Quando il Caravaggio consegnò
il quadro alla chiesa sul cui altare
doveva essere appeso, suscitò
scandalo per quella presunta
mancanza di rispetto. Il dipinto non fu
accettato e il Caravaggio dovette
ricominciare da capo. Non volendo
però correre ulteriori rischi, si attenne
rigorosamente alle idee più
convenzionali circa l’aspetto di un
angelo o di un santo. Ne risultò un buon
quadro, perché il Caravaggio si era
sforzato di farlo sembrare vivace e
interessante, ma lo sentiamo meno
spontaneo e coerente del primo.
caravaggio
San matteo, 1602 (versione accettata)
Questo episodio esemplifica il danno che possono fare coloro che
respingono e criticano le opere d’arte in base a ragioni sbagliate. E, ciò che
più importa, ci dimostra che quanto siamo soliti definire “opera d’arte” non è il
risultato di un’opera misteriosa, bensì un oggetto fatto dall’uomo per l’uomo.
Un quadro sembra così lontano quando è appeso con cornice e vetro
alla parete. E nei nostri musei è vietato, a ragione, toccare gli oggetti esposti.
Ma originariamente essi furono creati per essere toccati, maneggiati e
contrattati, per essere oggetti di litigi e di preoccupazioni. Ricordiamo ancora
che ogni tratto è il risultato di una decisione dell’artista; che egli dovette
meditarlo e trasformarlo più volte; che forse si domandò se doveva lasciar così
quell’albero nello sfondo oppure ridipingerlo, che forse si compiacque di una
felice pennellata capace di dare uno splendore improvviso e inatteso a una
nube incendiata dal sole, e che solo controvoglia vi aggiunse le figure per le
insistenze dell’acquirente. Infatti, la maggior parte dei quadri e delle statue
che si trovano appese ai muri dei musei o allineate nei corridoi delle gallerie
d’arte non era affatto destinata ad essere esposta. Fu creata per una
circostanza ben determinata e con un fine ben preciso che l’artista aveva in
mente al momento di mettersi all’opera.
D’altronde, i concetti di bellezza e di espressività di cui si occupano i
profani raramente vengono presi in considerazione dagli artisti.
Probabilmente non è stato sempre così, ma fu così per molti secoli e ancora
oggi è così. La ragione sta in parte nel fatto che gli artisti sono spesso uomini
timidi che troverebbero imbarazzante l’uso di parole impegnative come
“bellezza”. Si sentirebbero alquanto presuntuosi se parlassero di “esprimere le
loro emozioni” o usassero altre formule del genere. Sono cose sottintese di cui
trovano superfluo discutere.
C’è però da dire che, nelle preoccupazioni quotidiane degli artisti, idee
come la “bellezza”, il “sentimento”, le “emozioni”, contano molto meno di
quanto i profani non siano portati a credere. Ciò che l’artista pensa quando
progetta il quadro, l’edificio o la statua e traccia uno schizzo, o si
domanda quando ha finito di operare è assai più difficile da tradurre in
parole. Forse egli si domanderebbe se tutto è “a posto”. Ora, soltanto
comprendendo che cosa egli intende con queste parole capiremmo i suoi veri
fini.
Possiamo sperare di intenderlo, forse, solo valendoci della nostra
esperienza. Certo molti di noi non sono artisti, non hanno mai dipinto un
quadro e forse non verrà mai loro in mente di farlo. Ma questo non significa
necessariamente che non ci troveremo mai di fronte a problemi simili a quelli
di cui è intessuta la vita di un artista. Chiunque abbia provato a disporre un
mazzo di fiori mescolando e spostando le tinte, aggiungendo di qua e
togliendo di là, ha sperimentato lo strano piacere di equilibrare colori senza
sapere esattamente che specie di armonia volesse trarne. Sente solo che una
macchia di rosso qui può avere una grande importanza o che questo azzurro
sta bene da solo e “non va” con gli altri; all’improvviso un rametto di foglie
verdi farà apparire tutto “a posto”. “Non tocchiamolo più”, esclama. “Adesso
è perfetto”.
Non tutti, certo, hanno la medesima cura nella disposizione dei fiori, ma
a quasi tutti preme di mettere “a posto” qualcosa. Può essere soltanto
questione di trovare la giusta cintura da accordare con un certo vestito, o
addirittura la preoccupazione della porzione giusta di pietanza e contorno sul
piatto. In ogni caso, per banale che sia, sentiamo che una stupidaggine in più
può turbare l’equilibrio, e che solo una sistemazione è quella che doveva
essere. Ora, forse possiamo trovare fastidiosa una persona che si preoccupi
così tanto dei fiori, dei vestiti o del cibo, perchè, secondo noi, queste cose
non meritano tanta attenzione. Ma ciò che può essere una cattiva abitudine
nella vita reale e che, di conseguenza, viene soffocato e nascosto, ha la sua
ragion d’essere nel mondo dell’arte. Quando si tratta di combinar forme o
accordare colori, un artista deve sempre essere fastidioso, o meglio,
insoddisfatto all’estremo. Nei colori e nelle trame potrà scorgere sfumature
che noi quasi non noteremmo. Inoltre, il suo compito è infinitamente più
complesso di qualunque altro possa venir affrontato nella vita comune.
Egli non deve solo armonizzare due o tre colori, forme o gusti ma deve
destreggiarsi tra innumerevoli elementi. Ha sulla tela, letteralmente, centinaia
di tinte e di forme che deve accordare finché non siano “a posto”. Una
macchia verde potrà all’improvviso apparire troppo gialla, perchè è troppo
vicina a un turchino. Gli capiterà di sentire che tutto è compromesso, che nel
quadro c’è una nota stridente e che bisogna ricominciare da capo. Forse si
tormenterò su questo problema, forse vi passerà notti e notti insonni. Starà
davanti al quadro tutto il giorno, tentando di aggiungere un tocco di colore
qua o là, per poi di nuovo toglierlo, anche se io o un altro non avremmo mai
notato la differenza.
Ma quando è finalmente riuscito, sentiamo che egli ha prodotto qualcosa cui
nulla potrebbe essere aggiunto, qualcosa che è “a posto”. Un esempio di
perfezione nel nostro imperfettissimo mondo.
Prendiamo, ad esempio, una delle famose Madonne di Raffaello, la
Madonna del prato. È senza dubbio
raffaello
bellissima e affascinante. Le figure
sono straordinariamente delineate e
l’espressione della Vergine che guarda i
due fanciulli è indimenticabile.
Ma se osserviamo i primi abbozzi che
ne fece Raffaello cominciamo a capire
che non furono l’espressione e la
dolcezza le cose di cui si preoccupò
maggiormente, giacché queste erano
implicite.
Ciò che tentò e ritentò di ottenere fu il
giusto equilibrio
delle figure, il
la madonna del prato, 1505
rapporto esatto che avrebbe
determinato la massima
armonia dell’insieme. Negli
schizzi qui accanto, Raffaello
pensò prima di rappresentare il Bambin Gesù nell’atto
di staccarsi dalla madre, e poi provò a mettere in
diverse posizioni la testa della Vergine per adattarla al
movimento del bambino.
Poi decise di rappresentare il bambino di scorcio con lo sguardo levato verso
la madre. Tentò ancora un’altra strada, introducendo il piccolo San Giovanni, ma
con il Bambino Gesù che invece di volgersi a lui guarda un altro punto fuori dal
quadro. Ancora pensò a una maternità tradizionale, col bambino che si lascia
avvolgere dalle braccia della madre. E poi cercò ancora altre soluzioni, e quasi
sembra spazientirsi dopo aver cercato di ruotare la testa in tante direzioni. Nei suoi
album di schizzi ci sono parecchi di questi fogli in cui cercò di equilibrare nel modo
migliore le tre figure. Ma se guardiamo di nuovo la stesura definitiva, constatiamo
che infine riuscì nel suo intento. Tutto appare ora nella giusta posizione, e l’equilibrio
e l’armonia che Raffaello raggiunse a prezzo di così dura fatica sono tanto naturali
e spontanei da passare quasi inosservati. Eppure proprio questa armonia rende
ancora più bella la Madonna e deliziosi i bambini.È affascinante seguire l’artista nel
suo sforzo di raggiungere l’equilibrio perfetto, eppure, se gli domandassimo perché
ha fatto questo o ha cambiato quello, forse non ce lo saprebbe spiegare. Egli non
segue regole prestabilite. Sente così, e basta. È pur vero che in certi periodi artisti e
critici hanno cercato di formulare le leggi della loro arte. Ma il risultato fu sempre
che artisti scadenti non ottennero nulla tentando di applicare queste leggi, mentre i
grandi maestri potevano infrangerle e raggiungere,
ciononostante, un’armonia impensata.
Quando il celebre pittore inglese Sir Joshua Reynolds
spiegò agli studenti della Royal Academy che l’azzurro
non deve apparire nel primo piano dei quadri, ma deve
essere riservato agli sfondi lontani e ai colli che sfumano
all’orizzonte, il suo rivale Thomas Gainsborough, a quanto
si dice, volendo dimostrare che queste regole
accademiche sono per lo più prive di senso, dipinse il
famoso Ragazzo in azzurro, il cui vestito al centro e in
primo piano si staglia splendidamente sul bruno caldo
dello sfondo. La verità è che riesce impossibile stabilire
regole precise, perché non si può mai conoscere in
anticipo l’effetto che l’artista vuole raggiungere. Forse si
Thomas Gainsborough
avvarrà anche di una nota stridente e discorde, se gli
Ragazzo in azzurro, 1750 ca.
accadrà di trovarla “a posto”. Divergenze e discussioni
ci inducono a guardare i quadri, e più li guardiamo, più
notiamo particolari che prima ci erano sfuggiti. Non essendoci regole per stabilire
quando una statua o un quadro sono “a posto”, è in genere impossibile spiegare a
parole il motivo esatto per cui ci sentiamo in presenza di una grande opera d’arte.
Ma ciò non significa che un’opera valga l’altra o che non ci possano
essere divergenze di gusto. Cominciamo a sviluppare in noi la capacità di
cogliere quel senso dell’armonia che ogni generazione di artisti si è sforzata di
raggiungere. Più sentiremo queste armonie, più ne godremo. È questo,
dopotutto, ciò che importa. Il vecchio proverbio che i gusti non si discutono
potrà essere vero: ciò non toglie che il gusto si possa sviluppare. È una
esperienza comune che chiunque può fare in ambito modesto. Per chi non è
abituato a bere il tè, una qualità equivale esattamente a un’altra. Ma se la
stessa persona avesse tempo, volontà e occasione di studiarne le possibili
varianti, potrebbe diventare un intenditore capace di distinguerne con
esattezza il tipo e la miscela preferiti, e la sua accresciuta conoscenza
favorirebbe molto il godimento delle qualità migliori. Lo stesso vale per la
fotografia: chiunque può utilizzare uno smartphone, un piccolo apparecchio
compatto e ultra-sottile, e cogliere immagini di buona qualità; ma se ci si
appassionerà alle caratteristiche tecniche, ai tempi di esposizione, all’utilizzo
dei filtri e degli adeguati software, gli scatti fotografici potrebbero aprire degli
scenari artistici impensati e imponderabili, capaci di emozionare quanto un
grande quadro o una scultura mirabile.
Il gusto artistico è senz’altro qualcosa di assai più complesso del gusto per i
cibi o le bevande. Non si tratta di scoprire sapori vari e sottili, ma qualcosa di
più serio e di più importante. I grandi maestri hanno dato il meglio di sé nella
produzione dei loro capolavori, hanno sofferto, hanno sudato sangue per
realizzarle. Il meno che possiamo fare è cercare di comprendere i loro intenti.
Non si finisce mai di imparare, in arte. Ci sono sempre nuove cose da
scoprire. Ogni volta che ci poniamo davanti ad esse, le grandi opere ci
sembrano diverse, sembrano inesauribili ed imprevedibili proprio come veri
esseri umani. Formano un emozionante mondo a sé, con le sue strane leggi e i
suoi eventi. Nessuno può presumere di sapere tutto di esse, perché non potrà
mai. Forse nulla è più importante di una mente fresca per godere queste opere,
per poterne cogliere ogni allusione e saperne cogliere ogni nascosta armonia.
Una mente, soprattutto, non stipata di paroloni altisonanti e di frasi fatte. È
infinitamente meglio non sapere nulla di arte che avere quella
pseudocultura che origina lo snobismo.
Lo snobismo fa smarrire la pura capacità di godere l’arte, e a volte fa
definire “molto interessante” ciò che in realtà si trova repellente.
Adesso passeremo a trattare la storia dei grandi architetti, dei grandi
scultori e dei grandi pittori. La conoscenza di questa storia aiuterà a capire
perché questi artisti hanno lavorato in un certo senso e perché hanno mirato a
determinati effetti. Sarà soprattutto un eccellente modo di allenare l’occhio a
cogliere tutte le caratteristiche dell’opera d’arte e di affinare quindi la
sensibilità alle più sottili sfumature. Forse è l’unico modo per poter godere le
opere nel loro autonomo valore.
Ma non c’è strada senza pericoli: a volte si vedono nugoli di persone
percorrere le gallerie d’arte alla ricerca di questo o quel quadro famoso, salvo
poi, appena trovato, guardarlo appena e passare oltre senza nemmeno
riflettere sul perché della sua notorietà. È una specie di corto circuito mentale
che nulla ha a che vedere con il piacere estetico.
Chi acquisisce una certa conoscenza della storia dell’arte corre talvolta il
rischio di cadere in ‘trappole’ del genere. Vedendo un’opera d’arte non si
abbandona ad essa, ma preferisce cercare
nella mente l’etichetta appropriata. Forse
ha sentito dire che Rembrandt è famoso
per il suo chiaroscuro e allora, vedendo un
Rembrandt, esclama “Che meraviglioso
chiaroscuro!”, per poi passare al quadro
successivo. Ora, siamo tutti suscettibili di
cadere in tali ‘trappole’.
Lo studio della storia dell’arte dovrebbe
aprire gli occhi piuttosto che sciogliere le
rembrandt
lingue.
Autoritratto, 1628
Da quando i critici hanno cominciato a parlare
con linguaggi semplici e intuitivi, diffondendo
con proprietà i termini tecnici specifici,
parlare con intelligenza dell’arte non è più
difficile. Ma vedere un quadro con sguardo vergine ed avventurarsi in esso con un
viaggio di scoperta è impresa ben più ardua, ma anche ben più ricca di soddisfazioni.
Nessuno può prevedere con che cosa, dopo un simile viaggio, farà ritorno a casa.
Tutte le considerazioni sono rielaborate e sintetizzate da Dario D’Antoni.
Le citazioni sono liberamente tratte e adattate dal testo
Ernst H. Gombrich
Il mondo dell’arte (Verona 1952)
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