Francesco Martucci Clavica Appunti di Economia dell’Ambiente Indice 1 2 3 4 Dall’Economia Politica all’Economia dell’Ambiente 1.1 La dottrina economica classica . . . . . . . . . . 1.1.1 Adam Smith . . . . . . . . . . . . . . . 1.1.2 T. R. Malthus . . . . . . . . . . . . . . . 1.1.3 David Ricardo . . . . . . . . . . . . . . 1.1.4 Mill e il riformismo . . . . . . . . . . . . 1.2 L’economia neoclassica . . . . . . . . . . . . . . 1.3 L’economia dell’ambiente . . . . . . . . . . . . 1.4 Il modello di bilancio dei materiali . . . . . . . . . . . . . . . . Lo sviluppo sostenibile 2.1 Il concetto di sostenibilità . . . . . . . . . . . . . . 2.2 Sistemi economici e sostenibilità . . . . . . . . . . 2.3 Misurazione dello sviluppo . . . . . . . . . . . . . 2.4 Crescita e ambiente: la curva di Kuznets ambientale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4 . 4 . 5 . 6 . 8 . 8 . 9 . 10 . 12 . . . . 18 . 18 . 21 . 22 . 24 Analisi economica ed ambiente 3.1 Il valore dei beni ambientali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2 I metodi di valutazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3 La valutazione del capitale naturale ottimale . . . . . . . . . . . 3.4 Contabilità nazionale e contabilità ambientale . . . . . . . . . . 3.5 Il degrado ambientale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.6 I meccanismi di mercato per il raggiungimento dell’inquinamento ottimale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.7 Tasse e inquinamento ottimale . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.8 Standard e sussidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.9 I permessi negoziabili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 . 31 . 32 . 34 . 35 . 37 . 40 . 42 . 44 . 45 Lo sfruttamento delle risorse 48 4.1 Le risorse naturali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48 4.2 Le risorse rinnovabili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50 2 4.3 4.4 4.5 Sfruttamento e fattore tempo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56 L’estinzione delle risorse naturali . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 Le risorse non rinnovabili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58 3 Capitolo 1 Dall’Economia Politica all’Economia dell’Ambiente 1.1 La dottrina economica classica La concezione dello sviluppo e del progresso espressa dalla dottrina economica nel corso della storia si è modificata nel tempo secondo l’evoluzione del contesto storico dei sistemi economici. Nell’alto medio evo l’attività produttiva e di consumo si attestava su livelli che generalmente possiamo considerare corrispondenti all’autoconsumo ed al semplice sostentamento; anche se non sono mai scomparsi i commerci, l’economia feudale si basava su comunità il cui obiettivo era l’autosufficienza. Nel tardo medio evo i traffici si sviluppano sempre di più anche su scala internazionale, grazie alle imprese delle nascenti compagnie di commercio; un ulteriore impulso verrà della colonizzazione di territori fuori dall’Europa all’inizio dell’Era moderna. In un simile contesto, il concetto di sviluppo si determina a partire dall’analisi degli effetti del commercio sull’economia dei paesi; in pratica, lo sviluppo corrisponde all’incremento della ricchezza dovuto al surplus di bilancia commerciale; surplus che si manifesta nella variazione delle riserve auree, dato che il sistema dei pagamenti si basa sulla circolazione aurea. 1 Nel diciottesimo secolo, in Francia, si sviluppa una nuova dottrina economica, i cui promotori sono detti ”fisiocratici”; tale dottrina prende corpo da uno studio eseguito da François Quesnai (1694-1774). Egli era un medico di corte di Luigi XV, ma si interessava di studi economici. La sua attenzione si concentrò in parti1 L’emissione di moneta, privilegio di varie autorità non necessariamente coincidenti con una amministrazione statale, avveniva con il conio di oro e argento (altri metalli per monete di basso valore). Conseguentemente, la moneta non era uno strumento di pagamento come lo intendiamo correntemente, ma una vera e propria merce di scambio con un suo valore intrinseco dato dal suo stesso contenuto metallico, che l’emittente aveva l’onere di garantire. 4 colare sullo studio dei flussi di prodotti e di redditi tra i vari settori economici; il risultato fu una descrizione (nota come ”Tableau Economique”) che raggruppava questi ultimi in tre gruppi, il primo comprendente il settore agricolo, il secondo quello manifatturiero, il terzo la classe dei proprietari fondiari, percettori di rendite. Sulla base delle sue osservazioni, Quesnai considerò che il comparto manifatturiero, eseguendo una semplice trasformazione di merci in altre merci, non produceva valore aggiunto; il settore agricolo, invece, era quello capace di creare un sovrappiù (evidentemente considerato in termini fisici, ed osservabile nel semplice fatto che una data quantità di prodotto utilizzato come semente all’inizio del ciclo produttivo, ne fornisce una molto maggiore al termine). La classe dei percettori di rendita, ovviamente, non ha una funzione produttiva ma esclusivamente di consumo del sovrappiù agricolo e di sostegno alla domanda di prodotti manifatturieri. Il secolo diciottesimo è anche quello della definita maturazione della rivoluzione scientifica, dell’approccio meccanicistico, della filosofia utilitarista, tanto che sarà ricordato con l’appellativo di “Età dei lumi”. Verso la fine di questo secolo si afferma una nuova dottrina economica, la cosiddetta economia classica, che costituisce la nascita dell’economia politica moderna. I suoi massimi esponenti furono Adam Smith (1723-1790), seguito da Thomas Robert Malthus (1766-1834) e David Ricardo (1772-1823) e, in ultimo, John Stuart Mill (1806-1873); oltre a Karl Marx, le cui teorie però non terremo in considerazione per esigenze di sintesi. 1.1.1 Adam Smith Smith è l’antesignano del movimento; nel 1776 pubblica la sua “Ricerca sulla natura e la ricchezza delle Nazioni”. La visione fisiocratica della produzione di un sovrappiù limitata al settore agricolo è superata; il lavoro umano viene individuato come l’origine della creazione di valore in ogni attività produttiva, e questo sarà una considerazione condivisa dagli altri pensatori classici, che sul lavoro tenteranno di costruire una teoria in grado di spiegare come si determina il valore di una merce. Smith, permeato dello spirito scientifico della sua epoca, osserva la realtà della prima rivoluzione industriale, di cui colse questi importanti aspetti: la grande accumulazione di capitale nelle mani di privati, i capitalisti, che mettevano mezzi e strumenti di produzione, in cambio di un rendimento adeguato, a disposizione degli imprenditori; questi, titolari dell’attività di impresa, organizzavano nuovi e più sofisticati processi produttivi, caratterizzati in particolar modo dalla crescente specializzazione e divisione dei compiti. Davanti a tali mutamenti, Smith concepisce una società che funziona come un organismo, meglio ancora come una macchina, le cui parti si comportano seguendo delle leggi naturali. In conseguenza, i fenomeni ed i comportamenti degli individui nel mondo economico vengono 5 giustificati dalla presenza di siffatte leggi; in particolare l’attività di impresa, con l’obiettivo del profitto, origine della creazione di risorse che vengono reinvestite, e quindi causa dell’accumulazione di capitale in grado di espandere l’attività produttiva poiché permette la divisione del lavoro e, più in generale, perché introduce i benefici del progresso tecnologico. Uno dei fenomeni discendenti dalle leggi di natura è l’individualismo; scrive Smith, “non è dalla benevolenza del macellaio, del produttore di birra, del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal riguardo che essi prestano ai loro interessi”. Ma le già citate leggi di natura fanno sı̀ che il raggiungimento degli interessi privati comporti il raggiungimento di interessi più generali. Nel pensiero smithiano la concezione di sviluppo come aumento dello stock di capitale e incremento del prodotto è senz’altro più coerente con un’accezione moderna del termine; quanto alla sua durevolezza, Smith considerava che fosse limitata ad una fase transitoria, mentre il lungo periodo sarebbe stato contraddistinto dallo stato stazionario, in cui gli investimenti sarebbero serviti solo al rimpiazzo di capitali esistenti. Questa ipotesi fu sostenuta anche dai suoi successori, che però considerarono in modo più approfondito la presenza di vincoli allo sviluppo. 1.1.2 T. R. Malthus Come si evince dall’osservazione delle date di nascita, Malthus e Ricardo appartengono alla generazione successiva, e assistono al raggiungimento della fase di maturità della prima rivoluzione industriale, cosicché notano l’insorgere di conflitti interni al sistema economico, in seguito al quale gli stessi giungeranno a prendere schieramenti diversi in ambito politico e dottrinario. Malthus è noto, in particolare, per il suo “Saggi sul principio della popolazione” (1798), opera che avrà una notevole diffusione e avrà effetto anche nelle scienze biologiche, recepito nel pensiero di Charles Darwin. Il punto di partenza dell’analisi malthusiana è nel ritmo di crescita della popolazione: egli individua l’incremento demografico naturale, privo di limiti e vincoli esterni, crescente secondo i termini di una progressione geometrica; d’altro canto, la produzione alimentare può crescere, secondo Malthus, solo secondo una progressione aritmetica 2 . In questo modo, qualunque sia la situazione iniziale di popolazione e disponibilità di risorse alimentari, si arriva per necessità ad una situazione in cui la maggior parte della popolazione ha a disposizione nulla più che le risorse necessarie alla sua mera sussistenza; d’altra parte, un aumento di 2 La progressione geometrica è una serie di numeri in cui è costante il rapporto tra ognuno e il successivo – es. 1, 2, 4, 8; nella progressione aritmetica è invece costante la differenza tra ogni numero e il precedente – es. 2, 4, 6, 8. 6 risorse disponibili per tale parte della popolazione avrà come effetto necessario la crescita della popolazione, che tale aumento stesso induce; fino ad arrivare, nuovamente, ad una situazione di risorse pro capite a livello di sussistenza. Evidentemente, crescite ulteriori della popolazione creerebbero effetti quali la fame, che innescherebbero variazioni di segno opposto, fino alla situazione di equilibrio sopra descritta. Tutto ciò comporterebbe, secondo Malthus, conseguenze di natura sociale sintetizzate nella frase enunciata nell’opera sopra citata: “Le inevitabili leggi di natura decretano che tutte le società saranno divise in una classe di proprietari ed una di lavoratori”. In questo modo, Malthus introduce la presenza di vincoli “ambientali” allo sviluppo economico. L’analisi di Malthus introduce anche un elemento di instabilità intrinseco al sistema, nel senso che le “leggi” che regolano la crescita della popolazione possono far sı̀ che l’attività economica si attesti stabilmente ad un livello tale che la domanda aggregata di merci sia stabilmente inferiore alla produzione. Come accennato nella trattazione del pensiero smithiano, l’accumulazione di capitale consente il progresso tecnologico ed in particolare la divisione dei compiti tra i lavoratori, con la conseguenza di un aumento della produttività e di un’elevata crescita di produzione di merci; effetto collaterale è l’aumento dei redditi e delle risorse disponibili per la classe lavoratrice che viene seguito da un “naturale” incremento della sua numerosità, che riporta i salari al livello corrispondente alla semplice sussistenza dei lavoratori. In questo modo, dai lavoratori viene espressa una domanda di merci ridotta rispetto a quella del periodo contrassegnato dai redditi in espansione e perciò è possibile che l’offerta di merci ecceda la relativa domanda, che viene sostenuta unicamente dalla propensione al consumo della classe percettrice di rendite fondiarie. Questa fosca visione dell’economia spinge Malthus a sostenere politiche economiche a sostegno della classe dei proprietari terrieri, contro gli interessi dei capitalisti, ed in particolare le leggi del grano, varate nel Regno Unito agli inizi del diciannovesimo secolo; dette leggi introducevano restrizioni e tariffe che impedivano l’importazione di cereali che, sui mercati internazionali, avevano prezzi più bassi rispetto a quelli della produzione britannica. L’idea di Malthus circa la possibilità di livelli di domanda di merci insufficiente rispetto alla capacità produttiva fu sicuramente male argomentata, ma non era priva di senso; essa fu sviluppata pienamente solo più di un secolo dopo, dal grande economista inglese John Maynard Keynes, che suggerı̀ le opportune misure di politica economica per risolvere il problema. All’epoca, invece, furono abilmente controbattute dai contemporanei, e Malthus fu superato sia sul piano dottrinario che politico dal suo grande rivale, Ricardo. 7 1.1.3 David Ricardo Malthus aveva evidenziato che alcuni vincoli di natura ambientale, quali la limitatezza di terreni coltivabili, potrebbero porre un vincolo alla crescita e allo sviluppo. Ricardo individuò il vincolo con maggior precisione, considerando il problema non in termini assoluti ma relativi: il problema non era solo di scarsità di suoli, ma di differente grado dio fertilità degli stessi. Evidentemente alcuni suoli sono più fertili di altri, ed è quindi conveniente che vengano messi a coltura per primi; man mano che aumenta la richiesta di prodotti agricoli, diventa conveniente l’utilizzo di terreni via via meno fertili, e la concorrenza tra imprenditori agricoli garantirà ai proprietari di terreni più fertili rendite più elevate rispetto a quelle percepite dai proprietari dei terreni meno fertili; questo renderà uguale il profitto realizzato dagli imprenditori agricoli. Con l’aumento della richiesta e l’utilizzo di terreni meno produttivi, i profitti vengono compressi fino ad annullarsi, perché per espandere la produzione gli imprenditori hanno bisogno di più terreni, ma se aumenta la richiesta di terreni aumentano le rendite dei proprietari; d’altra parte, i salari hanno un livello minimo corrispondente a quello di sussistenza dei lavoratori. Il profitto, nello stato finale del sistema economico, è quindi nullo per gli operatori del settore agricolo. Le leggi della concorrenza impongono, però, che i profitti siano uguali per i settori produttivi diversi, perché la presenza di tassi di profitto diversi comporta che alcuni operatori si sposteranno da un settore ad un altro, riducendo l’offerta di merci di un settore ed aumentandone un’altra; questo porta alla riduzione dei prezzi per il settore dove la produzione aumenta e l’incremento dei prezzi dove la produzione diminuisce, finché i tassi di profitto si eguagliano. La dottrina ricardiana è notevolmente più sofisticata rispetto a quella degli altri pensatori classici; tuttavia, gli sforzi di Ricardo di elaborare una completa teoria del valore per spiegare la formazione dei prezzi non è coronata da successo; resta però il grosso sforzo per definire con maggior precisione la distribuzione dei redditi tra i vari operatori del sistema economico, sintetizzato da una frase contenuta nella sua opera “Principi di economia politica e della tassazione” (I ed. 1817, II ed. 1819, III ed. 1821): “Determinare le leggi che regolano la distribuzione è il problema principale in economia politica”. 1.1.4 Mill e il riformismo John Stuart Mill è l’ultimo dei grandi pensatori classici. Nato dopo la morte del precursore Smith, posteriore anche a Malthus e Ricardo, la sua visione era ottimista e riformista. Dall’evoluzione del sistema politico ed economico, Mill evinse che gli istituti giuridici, le convenzioni sociali, le istituzioni politiche proprie della sua epoca storica non potevano essere considerate permanenti ed immutabili: 8 “Non ci si deve aspettare che la divisione della razza umana in due classi ereditarie, datori di lavoro e lavoratori, possa essere mantenuta per sempre” (“Principi di economia politica”, 1848). Pertanto, anche la distribuzione dei redditi tra salari, profitti e rendite non è costante nel tempo, e la condizione della classe lavoratrice può migliorare nel tempo. Lo stato stazionario, obiettivo della fase evolutiva del sistema economico per tutti i pensatori classici, per Mill diventa una situazione che può essere desiderabile, contrassegnata dalla presenza di una quantità di capitali (macchine, infrastrutture, alloggi ecc.) sufficiente per tutti in presenza di una popolazione in equilibrio demografico e con la creazione di un sovrappiù di risorse disponibili per l’educazione, l’arte e, in generale, per esigenze di carattere “secondario” più elevate. 1.2 L’economia neoclassica I pensatori classici individuarono, come accennato nella sintesi del pensiero di Smith, nel lavoro umano l’origine del valore delle cose, e cercarono in questa direzione di sviluppare una coerente teoria dei prezzi. Pensatori dell’epoca seguente abbandonarono questo indirizzo e si concentrarono sull’utilità. Anche in precedenza si era pensato di procedere in questo senso; una definizione rigorosa di utilità era già sviluppata dai filosofi del diciottesimo secolo: “Per utilità si intende quella proprietà di un oggetto qualsiasi di produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità [ ...] o di impedire l’accadimento di pena, male o infelicità a colui del cui interesse si tratta” (J. Bentham, 1780). Non si era però riusciti a risolvere un problema che rendeva impossibile legare utilità e valore: Adam Smith aveva già commentato il paradosso, secondo il quale l’acqua ha una utilità immensa, ma un valore basso se non nullo; il diamante, pur avendo un’utilità bassa, se non nulla, ha un valore immenso. I pensatori successivi, in particolare Stanley Jevons (1835-1882), Carl Menger (1840-1921), chiarirono l’equivoco che generava il paradosso: l’acqua che ci serve per soddisfare un nostro fabbisogno ha una utilità elevata, ma ulteriori quantità di acqua disponibili hanno una utilità bassa, oppure nulla o addirittura negativa. Per creare una teoria del valore, bisogna considerare l’utilità ”marginale” di incrementi successivi di ogni merce. Gli economisti neoclassici, nella costruzione della loro teoria, considerano che gli individui operano, in ogni circostanza, una massimizzazione della loro utilità nel proprio esclusivo interesse; già Bentham aveva scritto, nel 1780, che “in condizioni normali di vita, in ogni essere umano, l’interesse proprio predomina su tutti gli altri interessi messi insieme”. D’altra parte, l’azione individuale, con il movente razionale della massimizzazione dell’utilità, porta ai benefici collettivi come già in passato avevano affermato i loro predecessori; l’individualismo verrà esal9 tato, tanto da rendere preferibile la neutralità dell’autorità a qualunque intervento, anche concepito con criteri utilitaristici. Su queste basi, pubblicando le loro opere intorno al 1870, i pensatori neoclassici costruiranno un modello teorico destinato a diventare immediatamente la dottrina economica dominante per quasi un secolo; ciò anche perché si rendeva disponibile, a beneficio della classe borghese, uno strumento scientifico sofisticato per combattere anche sul piano dottrinario la teoria marxista. Non bisogna dimenticare che questi sono anni di lotte politiche e sociali, che portano anche alla realizzazione della Comune di Parigi del 1870. Con questo approccio, uno dei massimi esponenti della teoria neoclassica, Leon Walras (1834-1910) costruı̀ un modello formalizzato con funzioni di utilità e di produzione che, sottoposte a massimizzazione, fornivano un sistema di equazioni determinato, che aveva per soluzione una serie di prezzi e quantità di merci che rendeva simultaneamente in equilibrio tutti i mercati, vale a dire che rendeva eguali fra loro domanda e offerta per qualunque bene prodotto, o risorsa impiegata nella produzione. L’opera walrasiana è una costruzione teorica molto ardita ed elegante, che sulla base di alcune ipotesi, dimostrava che il sistema capitalista aveva in se stesso meccanismi e forze di mercato tali da permettergli di raggiungere una situazione di massima efficienza nella distribuzione dei redditi e delle risorse. Va detto che queste ipotesi saranno oggetto di critica nel periodo successivo, ma, come detto, questa teoria riuscirà ad affermarsi, portando con sé, tra le altre conseguenze, il fatto che la teoria economica privilegerà l’aspetto dello scambio delle risorse rispetto a quello della accumulazione; l’efficienza sarà considerata con maggiore attenzione rispetto all’equità e alla giustizia, e minore attenzione sarà dedicata ai problemi e ai limiti dello sviluppo fino al 1970. In questi anni, infatti, saranno evidenti problemi di disponibilità di risorse e fenomeni di inquinamento; la risposta della teoria economica dominante sarà di considerare la crescita come sempre realizzabile e comunque opportuna; accetterà, tutt’al più, il fatto che sia necessario rimuovere possibili ostacoli che impediscano ai mercati di giungere autonomamente alla situazione di equilibrio, ripristinando in tal modo la loro funzione auto-regolatrice e quindi la capacità di giungere alla massima efficienza. 1.3 L’economia dell’ambiente L’ambientalismo nasce negli anni ’60 nei paesi più sviluppati; il fenomeno ha origine con la accresciuta consapevolezza dei problemi di degrado ambientale; la possibilità stessa di una crescita economica senza limiti venne messa in discussione, anche per effetto delle critiche mosse alla teoria economica dominante in seguito all’osservazione di disoccupazione persistente negli anni trenta: cosa che 10 adombrava la fiducia nella capacità dei mercati di raggiungere in autonomia una situazione di equilibrio ottimale caratterizzata dall’utilizzo e dalla distribuzione più efficiente di tutte le risorse. Il dibattito sulla crescita riconsidera, tra i problemi prioritari, la presenza di risorse limitate rispetto agli utilizzi possibili; fra i suoi effetti vi è la nascita, con la conferenza di Stoccolma del 1972, del Programma Ambientale delle Nazioni Unite (UNEP). In origine l’attenzione ai problemi ambientali non collegati con la soddisfazione di bisogni primari è limitata ai Paesi dell’Occidente, ma negli anni seguenti anche i Paesi in via di sviluppo hanno iniziato a annoverare la salvaguardia dell’ambiente tra le priorità di intervento dello Stato in economia. Ancora nel 1972 accade che un gruppo di economisti, noto come club di Roma, pubblica “I limiti allo sviluppo”–[11]–, che sarà la guida di un orientamento neo-malthusiano che nega la possibilità di sviluppo nel lungo periodo, affermando invece la necessità di mantenere il sistema economico in stato stazionario o, addirittura, di ridurre il livello di attività economica. Altre opere, in netta reazione a queste tesi estremiste in senso ecologista, assumeranno invece un orientamento opposto, rifiutando i limiti fisici allo sviluppo, ritenendo le risorse naturali sufficienti per una crescita di lungo periodo, e soprattutto esprimendo fiducia nei meccanismi di mercato. Un ruolo guida per questo orientamento nettamente “tecnocentrico” è assegnato all’opera “The resourceful Earth” (J. Simon e H. Kahn, 1984). In questo lungo dibattito, pertanto, si vengono a formare quattro filoni principali di pensiero, che comprenderanno le varie anime e le diverse teorie della cosiddetta economia dell’ambiente; possiamo indicarle dividendo da un lato visioni ”tecnocentriche” estreme e moderate, e dall’altro visioni ambientaliste ed ecologiste. Queste differiscono tra loro nel grado di priorità assegnato alla conservazione delle risorse ambientali, con gli ecologisti nettamente schierati per una stretta preservazione delle stesse, con un loro utilizzo a livelli minimi; i primi assegnano ai beni ambientali un valore strumentale oltre a quello intrinseco, che i secondi valuteranno con assoluta priorità. Gli ambientalisti considerano l’ambiente naturale regolato da una fitta rete di legami tra i vari fenomeni naturali, tale da apparire come una sorta di unico essere vivente, di cui le varie parti sono legate da un rapporto organico (cosiddetta “ipotesi Gaia”); gli ecologisti spingeranno il ”gaianismo” finanche a sostenere i principi della bioetica, che prevedono la presenza di diritti della natura indipendenti dalla presenza di corrispondenti diritti degli uomini verso altri uomini. Una descrizione schematica è raffigurata nella tabella 1.1, tratta da [18]. 11 1.4 Il modello di bilancio dei materiali Abbiamo visto come, negli anni 70, si sviluppa un dibattito che ha come effetto l’introduzione delle problematiche ambientali nell’ambito di indagine dell’economia politica; gli strumenti tipici di questa disciplina vengono adattati alle nuove ricerche ed altri verranno introdotti. Uno dei più sofisticati è costituito dal modello di bilancio dei materiali, di cui si evidenziano schematicamente alcune caratteristiche. Tradizionalmente, il sistema economico era considerato, in passato, come in questo schema: sono presi in esame i sottosistemi della produzione (contrassegnato con la lettera P), che fornisce beni di consumo (lettera C) e beni di capitale (K) destinati a rientrare nel processo produttivo. I beni di consumo forniscono ai consumatori una certa utilità, ed il loro approccio massimizzante determinerà la composizione dei prodotti offerti dalle imprese. Questa visione non considera l’apporto fornito dall’ambiente in termini di risorse naturali; apporto fondamentale, invece, nell’analisi dell’economia dell’ambiente, che viene introdotto nello schema successivo, ove per maggior semplicità trascuriamo i beni di capitale (K): qui il flusso di attività economica ha origine nel- l’ambiente naturale (N), con la raccolta o l’estrazione di risorse naturali, soggette ad attività di trasformazione (P) per la produzione di merci (C). A questo punto, si nota che tutte le attività in questione (estrazione/raccolta, trasformazione, consumo) hanno come fenomeno collaterale la dispersione di materiali ed energia, che genericamente chiameremo la produzione di rifiuti. Nel diagramma sono indicati rispettivamente con Rn, Rp, Rc tali prodotti delle attività di raccolta/estrazione, di trasformazione, di consumo. Questa estensione introduce nell’analisi gli effetti di alcune leggi della fisica, quali la legge di conservazione della massa e dell’energia, quest’ultima con le implicazioni del primo e secondo principio della termodinamica. 12 La legge di conservazione della massa ci dice che la materia estratta dall’ambiente ed inserita nel ciclo economico non può essere distrutta ma solamente trasformata in una massa equivalente di altra materia, e cioè - ai fini della nostra analisi - in rifiuti; quanto all’energia, la stessa viene trasformata da una forma all’altra ogni volta che viene utilizzata, ed in seguito a dette trasformazioni non è più disponibile per il processo che ha determinato la trasformazione. In pratica, l’energia sprigionata, ad es. dalla combustione di un carburante nel funzionamento di un motore non è utilizzabile nuovamente, è necessario introdurre nel motore ulteriori quantità di carburante per permettere il funzionamento. Questo significa che il flusso dei rifiuti (contrassegnato con R) prodotto nelle tre fasi dell’attività economica è destinato a scaricarsi nell’ambiente, a parte una certa quantità che sarà possibile riciclare: il riciclaggio, evidenziato con la lettera r, rende una parte dei rifiuti nuovamente disponibili per l’attività economica; l’aspetto è indicato nel grafico con la freccia che va da r a R, che rappresenta una riduzione dello sfruttamento delle risorse naturali. A questo proposito, evidenziamo come queste possano dividersi tra risorse rinnovabili (RR) e non rinnovabili (RNR); queste ultime sono disponibili in quantità più o meno scarse, ma comunque limitate: nel 13 momento in cui vengono utilizzate, il loro stock è destinato alla riduzione; le risorse rinnovabili, anche quando utilizzate, rimangono disponibili grazie alla capacità dell’ambiente di rigenerarne in tempi brevi, purché il loro utilizzo “u” sia inferiore o tutt’al più uguale al tasso di crescita “p”; in altre parole, anche se le risorse so- no rinnovabili, in quanto i cicli naturali permettono loro di ricrescere, un utilizzo eccessivo può causarne l’esaurimento; ad esempio, il taglio di alberi ad un ritmo più elevato della loro ricrescita, o la pesca di pesce in quantità maggiore del loro incremento naturale, comportano la scomparsa del bosco e del banco di pesca. Il quadro completo di tutti questi collegamenti tra economia e ambiente è descritto in figura 1.1. L’origine del complesso delle attività è sempre in N, l’ambiente naturale, che fornisce risorse al settore della trasformazione (industria, agricoltura, artigianato), che produce i beni di consumo; un flusso di materia e di energia ha origine sia nel momento della raccolta delle risorse, sia nell’attività produttiva, sia nel consumo, R, ed ha come destinazione nuovamente l’ambiente, ora contrassegnato con A ad indicare la sua capacità di assimilare e trasformare la materia. La capacità di assorbimento di rifiuti ha un limite; finché questi si mantengono ), l’ambiente riesce a smaltire una parte entro detto limite (indicato con della materia che raccoglie, rendendola di nuovo disponibile per le sue proprie funzioni (pensiamo alla trasformazione dei rifiuti organici in humus, che rende più fertile il suolo) e, in definitiva, accrescendo la sua capacità di fornire risorse all’attività umana; simile è l’attività svolta dall’uomo con il riciclaggio, che però può esso stesso comportare procedimenti inquinanti. Il flusso R può essere invece maggiore della capacità di assimilazione, cosı̀ da aumentare nel tempo la quantità di materia di scarto non smaltita dall’ambiente; questo comporta un degrado delle sue funzioni, ed in definitiva un effetto negativo sulla sua stessa capacità di fornire risorse all’attività produttiva (effetto indicato con la freccia con il segno negativo sul lato sinistro della figura). Possiamo introdurre anche un effetto diretto dell’ambiente sull’utilità del consumatore. Per semplicità sono considerati gli effetti che si sviluppano attraverso la bellezza del paesaggio, in altre parole il fatto che i consumatori traggano una maggiore utilità da un ambiente incontaminato piuttosto che da un ambiente degradato; anche altri effetti possono, però, essere considerati, per es. quelli sulla salute. 14 Figura 1.1: schema dei flussi di materia ed energia tra ambiente e sistema economico nell’approccio di bilancio dei materiali - modificato da [14]. (−) N RNR RR (−) u>p R A r (+) U C P u<p (+) (−) degrado R>A R<A (−) utilità flusso di materia/energia Il modello, sia pure nella descrizione schematica sopra esposta, individua immediatamente l’origine dei possibili vincoli ambientali allo sviluppo: 1. la presenza di risorse non rinnovabili; 2. l’utilizzo di risorse rinnovabili con un intensità eccessiva rispetto alla capa; cità di riproduzione 3. la produzione di ”rifiuti” in eccesso rispetto alla capacità di assorbimento del sistema . Nell’insieme di relazioni sopra descritte, il progresso tecnico può agire nel senso di ridurre lo sfruttamento di risorse e l’emissione di materia nell’ambiente, 15 ma può provocare anche gli effetti opposti; la crescita demografica opera nel senso di un aumento del peso dell’attività umana sull’ambiente. Il sistema, cosı̀ considerato, è un sistema chiuso: esaurisce al suo interno le catene di cause ed effetti, che hanno un andamento circolare virtuoso o vizioso. Boulding, nel suo saggio “The spaceship Earth” del 1966, lo descrive come un’astronave, che compie un viaggio disponendo delle solo scorte che contiene e ricevendo dall’esterno una sola risorsa, l’energia solare. La riduzione delle scorte provocherà la diminuzione delle probabilità di sopravvivenza dell’equipaggio. Un’altra considerazione sul modello sopra descritto riguarda il flusso di materia ed energia dalle attività umane all’ambiente: non è possibile eliminare questo flusso per effetto delle citate leggi fisiche, per le quali la massa dei rifiuti è pari a quella delle risorse immesse nei cicli produttivi e di consumo; ciò vale per le materie prime, i carburanti ecc.; si può considerare la possibilità di ridurlo, attraverso varie forme di riciclaggio, ma si deve considerare che questo è esso stesso un’attività di trasformazione che richiede risorse ed energia; in particolare, il riciclaggio è maggiormente conveniente nelle fasi di trasformazione industriale, nelle quali è possibile recuperare elevate quantità di materia concentrata fisicamente in un luogo coincidente con l’area delle installazioni industriali; in pratica, si tratta di un flusso di residui interno allo stesso processo produttivo che li genera; ancora, il riciclaggio può essere conveniente nella fase della distribuzione delle merci, permettendo il recupero di un’elevata quantità di materiali da imballaggio. Diventa invece particolarmente problematico il recupero dei residui dell’attività di consumo, dato che questa è diffusa su tutto il territorio occupato dai consumatori. In ogni caso, anche se il sistema economico fosse attrezzato per il recupero di tutta la materia trasformata e consumata, le leggi della fisica ci impediscono un riciclaggio totale. Infatti, consideriamo che l’attività del sistema produttivo consiste nell’assumere materie prime e trasformarle in prodotti, che poi diventeranno i rifiuti; questo avviene impiegando energia, che viene trasformata da una forma ad un’altra (es.: energia potenziale - energia cinetica - calore). Se anche fosse tecnicamente possibile recuperare tutti i residui e trasformarli nuovamente nei materiali iniziali, questo non potrebbe avvenire con il reimpiego della stessa energia che, nella sua trasformazione, passa da uno stato caratterizzato da una maggiore utilizzabilità ad uno a bassa utilizzabilità. L’energia utilizzata, in altre parole, non è comunque riciclabile, il recupero delle sostanze residue deve avvenire, se può, con l’impiego di ulteriori risorse. In ogni caso, che la tecnica può rendere non conveniente questa trasformazione in termini di bilancio tra risorse necessarie al riciclaggio e risorse prodotte dal medesimo. E’ evidente, quindi, che il processo di creazione di materia di scarto e, in definitiva, di inquinamento, sia connaturato ed ineliminabile in ogni attività umana. 16 17 Sostenibilità molto debole PARADIGMI DI SOSTENIBILITÀ sostenibilità debole Sostenibilità forte Sostenibilità molto forte Accettazione della bioetica (diritti/interessi morali conferiti a tutte le specie non umane e perfino alle parti abiotiche dell’ambiente); la natura ha un valore intrinseco (cioè indipendente dall’esperienza umana) Estensione del ragionamento etico: tema della preoccupazione altruista - equità intergenerazionale e intragenerazionale (nei riguardi cioè delle prossime generazioni e dei contemporanei poveri); la natura ha un valore strumentale Ulteriore estensione del ragionamento etico: gli interessi collettivi hanno la precedenza su quelli degli individui; gli ecosistemi hanno un valore primario e la componente funzioni e servizi ha un valore secondario Sostegno al ragionamento etico tradizionale: diritti e interessi degli esseri umani contemporanei; la natura ha un valore strumentale (il valore cioè riconosciuto per gli uomini) È imperativa una riduzione di scala; per alcuni vale un’interpretazione letterale di Gaia come un’entità personalizzata cui sono dovuti obblighi morali Nessun aumento di scala. Attenzione sul “sistema” - molto importante la salute dell’intero ecosistema; ipotesi di Gaia Distacco tra crescita e fabbisogno di risorse naturali, ma rifiuto della possibilità di sostituibilità infinita. Regola di sostenibilità: capitale costante. Necessari modifiche di scala Postulato della facoltà di mercati liberi e non vincolati, unitamente al progresso tecnico, di assicurare capacità di sostituzione infinite che saranno in grado di mitigare tutti i vincoli derivanti da “scarsità/limiti” (fonti e discariche ambientali) ETICA Riduzione della scala dell’economia e della popolazione Crescita economica nulla; crescita della popolazione nulla preservazione Crescita economica modificata (sistema contabile “verde” modificato per misurare il PIL) di Obiettivo primario di politica economica: massimizzare la crescita economica (es. massimizzazione del PIL) STRATEGIE DI GESTIONE Posizione estrema Economia rigorosamente verde, rigidamente vincolata per ridurre al minimo il prelievo delle risorse Posizione di salvaguardia delle risorse Ecocentrico radicale Economia profondamente verde, di stato stazionario, regolata da norme macroambientali e integrata da SIE Economia anti-verde, mercati liberi e non vincolati TIPOLOGIE ECONOMICHE Posizione di gestione e di conservazione delle risorse Ecocentrico moderato Economia verde, mercati guidati da strumenti di incentivazione economica (SIE: tasse e contributi etc.) Sfruttamento delle risorse, posizione orientata allo sviluppo CARATTERISTICHE VERDI Tecnocentrico moderato Tabella 1.1: Posizioni ideologiche sull’ambiente Tecnocentrico radicale Capitolo 2 Lo sviluppo sostenibile 2.1 Il concetto di sostenibilit à Dalle considerazioni precedenti sorge spontaneo il dubbio se lo sviluppo economico sia compatibile con la capacità che l’ambiente ha di sostenerlo nel lungo periodo. Il problema è, in particolare, non tanto (o non solo) se sia garantita la sopravvivenza del genere umano in un futuro remoto, ma se il livello di attività economica e di benessere possa essere mantenuto nel tempo e non essere condannato ad una riduzione. Varie ipotesi sono state avanzate in risposta a questo riguardo, ma una dimostrazione sulla possibilità o meno che una situazione di equilibrio del sistema economico sia anche durevole non esiste. Il dibattito, nel corso degli anni ’80, ha affrontato il tema della sostenibilità dello sviluppo economico evidenziando, come abbiamo visto, posizioni molto diverse tra loro, che possiamo riassumere, per semplicità, suddividendole tra quelle che sostengono che le capacità del progresso tecnico e dell’organizzazione dei mercati finiranno per prevalere sui vincoli ambientali, e quelle che individuano limiti severi all’attività economica ed al processo di sviluppo. Al loro interno emergono ulteriori differenze. Nel primo gruppo, infatti, si trovano i sostenitori della libera azione delle forze di mercato, capaci di sostituire le risorse che diventano scarse ed economicamente non convenienti con altre più disponibili e convenienti: chiameremo sostenibilità molto debole il criterio di valutazione dei vincoli allo sviluppo connaturato a questa posizione; vi sono anche coloro che ammettono l’esistenza di fallimenti dei mercati nella loro azione di allocazione ottimale delle risorse, che reputano necessario un intervento pubblico per rimuoverne le cause o stimolarne l’azione, ma continuano ad ammettere che la tecnica disponibile attualmente o in futuro consentirà, sia pure senza limiti, la sostituzione di risorse naturali che si dovessero rendere più scarse con altre più convenienti; d’altra par- 18 te, considerano anche che possa essere necessario intervenire per correggere in qualche misura il livello di attività economica per soddisfare i vincoli imposti da uno sviluppo durevole (chiameremo sostenibilità debole il loro approccio), oppure per limitare il peso della crescita demografica. Nel secondo gruppo, invece, si schierano coloro che individuano nell’ambiente una serie di vincoli, tali per cui la loro soddisfazione comporti un’interruzione del processo di crescita economica (sostenibilità forte) se non, addirittura, una generale riduzione rispetto all’attuale livello di attività. Con riferimento ad un dibattito molto attuale, il rispetto dei limiti posti dal protocollo di Kyoto potrebbe configurarsi come un intervento che risponde ai criteri della sostenibilità debole se fosse realizzato con un aumento degli investimenti in presenza di crescita della produzione; ai criteri di sostenibilità forte qualora comportasse riduzione della crescita, ovvero della s. molto forte se implicasse la riduzione della produzione industriale. Questa varietà di posizioni ha fornito un’analoga varietà di definizioni della sostenibilità; tra di esse, una delle più importanti è dovuta alla Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo (W.C.E.D.) del 1987, nota anche come commissione Brundtland, secondo la quale è sostenibile “uno sviluppo che soddisfa le esigenze del presente senza compromettere la possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. Questa definizione implica un’attenzione ai criteri di equità, considerati sia in ambito di attualità, che nell’ottica intergenerazionale. Con riferimento alle distinzioni sopra introdotte, si tratta di una definizione fondata su criteri di sostenibilità debole. Criteri di sostenibilità deboli o forti forniscono, ovviamente, diversi modelli di sviluppo. La sostenibilità debole, implica la possibilità di sostituzione tra risorse naturali e capitale prodotto dall’uomo; i suoi sostenitori considerano, anzi, che le risorse naturali, come già accennato, costituiscono esse stesse una forma di capitale disponibile per qualsiasi processo produttivo assieme ad altri input, in una combinazione che può variare secondo la convenienza economica degli utenti. In prima approssimazione, possiamo ammettere che risorse più scarse avranno un prezzo relativamente più elevato rispetto a quelle disponibili, rendendo maggiormente convenienti queste ultime. Un aumento delle quantità di capitale “non scarso” tale da compensare la riduzione di quello “scarso” permetterà di mantenere almeno costante il livello di attività economica, risolve con la soluzione del capitale costante il problema dell’equità intergenerazionale, almeno nell’ipotesi che l’incremento demografico non sia superiore all’aumento della produttività dovuto al progresso tecnico. In merito alla sostituzione tra risorse naturali e capitale prodotto, ricordiamo che essa è effettivamente avvenuta con il progresso tecnico: con il passaggio da uno stato primordiale, in cui l’uomo viveva di raccolta e di caccia, utilizzando come fonti di energia il sole e la combustione di sostanze vegetali rinnovabili, ed impiegando animali come mezzi di trasporto; ad uno stadio industriale, in cui l’energia è ricavata dai combustibili fossili o dall’uranio, e 19 l’impiego di macchine in sostituzione della forza animale (ed anche umana). Al contrario, i criteri di sostenibilità forte si basano sul rifiuto della sostituibilità tra risorse naturali e capitale prodotto, in luogo di una complementarità degli stessi; vale a dire, ove risorse naturali e macchine intervengano congiuntamente in un processo produttivo, le seconde non possono integralmente sostituire le prime; se un banco di pesca viene integralmente sfruttato, fino all’estinzione delle specie ittiche, a nulla vale l’incremento del capitale sotto forma di attrezzature per la pesca. Come si può vedere da questi esempi, la sostituibilità è in realtà possibile, ma non illimitata; una maggiore o minore fiducia nella capacità della tecnica nel conseguimento della sostenibilità costituisce quindi la discriminante tra le visioni tecnocentriche e quelle degli ecologisti; che, d’altra parte, evidenziano la presenza del carattere di multifunzionalità delle risorse naturali, nel senso che queste hanno un’importanza data dagli effetti nell’ecosistema oltre a quella che assumono per l’uso umano. In conseguenza, chi adotta criteri di sostenibilità forte giunge ad ammettere che non basta mantenere costante lo stock di capitale aggregato (risorse naturali e prodotte) per assicurare il mantenimento del livello di benessere, ma che occorre rispettare il vincolo più severo del mantenimento di uno stock di capitale, composto di risorse naturali, esso stesso non decrescente. Possiamo riassumere i paradigmi di sviluppo discendenti dai diversi criteri di sostenibilità nella figura 2.1, nella quale rappresentiamo sull’asse delle ascisse la quantità di risorse naturali (o capitale naturale Kn), ed in ordinata il livello di vita LDV (o benessere per la popolazione). Ammettendo che non sia neanche possibile la vita in assenza di risorse naturali, sarà comunque necessaria una quantità critica di risorse naturali, che indichiamo con Kmin. La sostenibilità forte è rappresentata dalla retta che passa per i punti A e B, in quanto prevede che aumenti del livello di vita sono possibili solo con più elevate disponibilità di risorse naturali; la retta rappresenta, quindi, un sentiero di crescita in cui capitale naturale e sviluppo sono complementari. La sostenibilità debole, con la sostituzione (tradeoff) tra capitale naturale e prodotto, ammetterà in ogni punto della stessa retta la possibilità di aumentare il benessere come nel punto W, in cui è possibile muoversi verso X rinunciando a quantità di capitale naturale, sostituendole con capitale prodotto; ciò fino ad arrivare a Z, a cui corrisponde il livello critico di risorse naturali, al di sotto del quale non è possibile scendere. Posizioni intermedie possono essere raffigurate dall’area racchiusa tra le due rette WQ e WP, in cui è possibile considerare aumenti del livello di vita con diverse quantità di capitale naturale o, al limite, in costanza delle risorse naturali disponibili (retta WP). 20 Figura 2.1: paradigmi di sostenibilità: complementarità e trade-off tra sviluppo e preservazione del capitale naturale P LDV #+ $ X Z complementarità Q W !B % A "0 Y trade−off & K min Kn − 2.2 Sistemi economici e sostenibilit à Come abbiamo visto, il criterio di sostenibilità debole prevede la costanza dello stock di capitale composto da risorse naturali e prodotti (macchine, infrastrutture ecc.). Come è noto, le risorse di capitale, in assenza di investimenti, non sono costanti nel tempo, in quanto qualunque prodotto non è eterno, ma ha una durata limitata nel tempo; per i macchinari, la durata è di alcuni cicli produttivi, ed anche edifici, strade ed ogni tipo di infrastrutture, hanno una “vita tecnica” limitata dal degrado che presentano con il passare del tempo. E’ necessario, quindi, procedere ad investimenti successivi per rimpiazzare il capitale degradato, i macchinari obsoleti ecc. per mantenere lo stock di capitale costante. Allo stesso modo, anche tra le risorse naturali si presentano situazioni di degrado, riduzione di disponibilità ecc. di fronte alle quali è necessario fare “investimenti”. Pertanto, dopo aver stimato la quantità di capitale che è necessario rimpiazzare in un anno, possiamo 21 ipotizzare che un sistema economico sia sostenibile se la quota di prodotto nazionale lordo risparmiata sia adeguata all’investimento necessario per il reintegro cosı̀ calcolato. Mutuando un concetto dalla contabilità aziendale, è necessario che il sistema faccia degli ammortamenti; in caso contrario, il capitale va incontro ad un deperimento fino ad esaurirsi. Nella tabella 2.1 indichiamo per alcuni paesi la quantità di capitali e di risorse naturali, in percentuale su prodotto nazionale lordo (PNL) che è necessario investire per contrastare il naturale deperimento; indichiamo la misura del risparmio, in termini di PNL, che ogni paese effettua nell’anno. Il criterio di sostenibilità debole, corrispondente alla costanza dello stock di capitale aggregato, è soddisfatto se il risparmio è maggiore del deperimento del capitale. Possiamo osservare che il criterio è riscontrabile pienamente in alcuni paesi (Giappone, Costa Rica, Paesi Bassi etc.), in altri è appena soddisfatto (USA, Polonia, Brasile) o incerto (Regno Unito, Messico, Filippine); in tre casi non è assolutamente soddisfatto. 2.3 Misurazione dello sviluppo Nel paragrafo precedente si è mostrato come si possa valutare se un sistema economico rispetti o meno il requisito della sostenibilità, ma resta aperto il problema se questo stia seguendo un sentiero di sviluppo. Ai nostri fini, per risolvere la questione è necessaria una definizione di sviluppo. Gli economisti ricorrono generalmente ad una definizione operativa attraverso indicatori, che devono mostrarsi non decrescenti nel tempo. In questo senso vengono tradizionalmente utilizzate le misure del Prodotto interno lordo (PIL) e del Prodotto nazionale lordo (PNL), in particolare rapportato alla numerosità della popolazione. Queste due variabili sono tra loro differenti in quanto la prima misura i redditi derivanti dall’attività produttiva svolta sul territorio nazionale; alla sua determinazione, dal punto di vista logico, possiamo giungere considerando che acquistando un bene o un servizio, il prezzo che paghiamo serve per remunerare i fattori produttivi, cioè lavoro (a fronte del quale vengono pagati salari, stipendi etc.) e capitale (interessi e profitti), nonché altri prodotti e servizi che vengono impiegati nella produzione; per questi viene pagato un prezzo che può essere suddiviso allo stesso modo tra redditi e prezzo di altri beni e servizi, e cosı̀ via; questo meccanismo si interrompe per i beni di importazione, che costituiscono reddito prodotto all’esterno del sistema economico nazionale (ovviamente, vengono invece considerate le esportazioni, i cui ricavi costituiscono reddito prodotto all’interno). Pertanto, la produzione di beni e servizi implica, nella contabilità nazionale, la distribuzione di redditi per un totale pari all’importo complessivo degli scambi di beni e servizi, al netto delle importazioni. Il PIL è un utile indice del livello di attività economica, ma per estrapolare il benessere della società cui si riferisce è necessario considerare che 22 Tabella 2.1: Rispetto dei criteri di sostenibilità debole in alcuni paesi(un’economia è sostenibile se il suo risparmio è maggiore del degrado del capitale prodotto e di quello naturale) S DCu DCn Z Brasile 20 7 10 +3 Costa Rica 26 3 8 +15 Cecoslovacchia 30 10 7 13 Germania 26 12 4 +10 Ungheria 26 10 5 +11 Giappone 33 14 2 +17 Paesi Bassi 25 10 1 +14 Polonia 30 11 3 +3 USA 18 12 3 +3 Zimbabwe 24 10 5 +9 Messico 24 12 12 0 Filippine 15 11 4 0 Regno Unito 18 12 6 0 Etiopia 3 1 9 -7 Indonesia 20 5 17 -2 Mali -4 4 6 -14 S=risparmio in percentuale sul PNL; DCu=degrado del capitale prodotto (percentuale sul PNL); DCn=stima del degrado del capitale naturale (percentuale sul PNL); Z=test di sostenibilità (sostenibilità rispettata se maggiore di zero). Per la Germania il calcolo è limitato al territorio della ex R.F.T. (World Bank, 1995, Monitoring Environmental Progress, Washington DC: World Bank) parte di questi redditi viene percepito da stranieri (lavoratori transfrontalieri, ma anche investitori che, per i loro capitali impiegati nel Paese percepiscono profitti e interessi); cosı̀ come soggetti residenti (lavoratori e investitori) possono percepire redditi prodotti all’estero. Se dal PIL sottraiamo i redditi in vario modo distribuiti all’estero ed aggiungiamo quelli percepiti dall’estero, in prima approssimazione ricaviamo il PNL, che costituisce un indicatore dello sviluppo più utile del precedente, soprattutto se rapportato alla numerosità della popolazione. D’altra parte, il concetto può essere esteso con il riferimento ad indicatori diversi, quali l’istruzione, la salute o misure del grado di libertà delle persone. Quest’orientamento viene seguito nella definizione dell’indice dello sviluppo umano (HDI) del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP). Questo indice viene calcolato considerando il raggiungimento di una combinazione di obiettivi diversi, come il tasso di alfabetizzazione, la vita media, il PNL pro capite, e 23 non dà luogo a una misura cardinale (passibile di operazioni quali il rapporto tra due valori) ma ordinale: in pratica, si tratta di una graduatoria in cui diversi paesi vengono inseriti, mostrando che una nazione può aver raggiunto uno sviluppo maggiore rispetto ad un’altra, ma senza la possibilità di dire quanto. La tabella 2.2 mostra alcuni indici di sviluppo per il periodo 1990 - 1995 (fonte: OCSE, 1992). 1990 1 Giappone 2 Svezia 3 Svizzera 4 P. Bassi 5 Canada 6 Norvegia 7 Australia 8 Francia 9 Danimarca 10 R. Unito 14 Italia 16 Spagna 18 20 22 Tabella 2.2: Indici di sviluppo 1991 1992 1993 Giappone Canada Islanda Svezia Svizzera Norvegia USA P. Bassi Australia Francia Canada Giappone Norvegia Svizzera Svezia USA Australia Francia P. Bassi R. Unito Giappone Canada Norvegia Svizzera Svezia USA Australia Francia P. Bassi R. Unito Italia Spagna 1994 1995 Canada Svizzera Giappone Svezia Norvegia Francia Australia USA P. Bassi R. Unito Canada USA Giappone P. Bassi Finlandia Islanda Norvegia Francia Spagna Svezia Italia Italia 2.4 Crescita e ambiente: la curva di Kuznets ambientale In tema di sostenibilità dello sviluppo, ed in particolare della relazione tra sviluppo economico e degrado ambientale, ha trovato ampio spazio il dibattito su un approccio fondato sull’ipotesi che, in una prima fase dello sviluppo economico (contraddistinta dai più bassi livelli di reddito pro capite) la crescita si accompagna ad un forte impatto ambientale, perché gli individui ritengono fondamentale il bisogno di posti di lavoro e redditi più elevati, e le risorse disponibili per la protezione dell’ambiente sono insufficienti: di conseguenza, le regolamentazioni in materia di ambiente sono deboli. Tuttavia, l’ipotesi di fondo prevede anche che successivamente, quando il livello del reddito raggiunge una certa soglia, lo stesso 24 inquinamento tende a diminuire. In presenza della crescita del reddito disponibile, l’utilità marginale del consumo è costante o decrescente; invece la disutilità marginale dell’inquinamento è crescente, cosı̀ come l’entità del suo danno marginale ed il costo marginale della riduzione dell’inquinamento; inoltre, i settori industriali chiave tendono ad essere più “puliti”, le preferenze per la salvaguardia dell’ambiente aumentano e le regolamentazioni si fanno più vincolanti. Queste ipotesi possono essere rappresentate graficamente con una curva a forma di campana, cioè crescente fino al raggiungimento del suo massimo (in corrispondenza del valore soglia del reddito pro capite) e quindi decrescente per livelli di reddito crescenti. Data la sua somiglianza alla curva introdotta in uno studio di Kuznets del 1955, che descrive un analogo andamento dell’indice di concentrazione del reddito in corrispondenza dei diversi livelli di reddito pro capite, la funzione è stata battezzata EKC - environmental Kuznets curve. La EKC è stata sviluppata originariamente da Grossman e Krueger (1991), nell’ambito delle ricerche sugli effetti potenziali del NAFTA (north american free trade association). Tuttavia, l’idea che la crescita economica fosse necessaria al mantenimento o al miglioramento delle risorse ambientali è contenuta nell’idea di sviluppo sostenibile già promulgata dalla WCED in “Our Common Future” (1987). La EKC è stata resa popolare dalla Banca Mondiale attraverso il World Development Report del 1992. In quella sede si sosteneva che “L’opinione che una accresciuta attività economica inevitabilmente danneggia l’ambiente è basata su ipotesi statiche sulla tecnologia, i gusti dei consumatori e sugli investimenti per l’ambiente” 1 e “All’aumentare dei redditi, la domanda di miglioramenti nella qualità dell’ambiente crescerà, cosı̀ come le risorse disponibili per i relativi investimenti” 2 . All’inizio degli anni ’90 altri autori sostenevano una visione più radicale, secondo la quale l’unico modo per proteggere l’ambiente, nella maggior parte dei Paesi, sarebbe il perseguimento di un veloce sviluppo economico, sebbene la prima fase della crescita sia riconosciuta dannosa per l’ambiente (Beckerman, 1992) “there is clear evidence that, although economic growth usually leads to environmental degradation in the early stages of the process, in the end the best - and probably the only - way to attain a decent environment in most countries is to become rich.”; questa posizione è riassunta dalla massima “grow first, clean up later” (prima cresci, poi fai pulizia). Tuttavia, se il modello è corretto, le prospettive ambientali dei Paesi in via di sviluppo sono tutt’altro che serene, visto che, secondo la Banca Mondiale, il reddito annuo pro capite in 59 Paesi a basso reddito era di soli 449 dollari, mentre in 52 Paesi a reddito medio-basso era di 1.786 dollari. Questi paesi sarebbero piuttosto lontani dalla soglia (generalmente compresa in una fascia tra i 5.000 e gli 8.000 ' 1 “The view that greater economic activity inevitably hurts the environment is based on static assumptions about technology, tastes and environmental investments” (p. 38). 2 “As incomes rise, the demand for improvements in environmental quality will increase, as will the resources available for investment” (p. 39). 25 dollari) del massimo inquinamento. Secondo il modello dell’EKC, questi Paesi sarebbero esposti ad aumento dell’inquinamento e del degrado ambientale per diversi decenni, sebbene essi sopportino costi da inquinamento già alti; tuttavia, un filone critico “ottimista” sostiene che la EKC starebbe progressivamente appiattendosi e spostando il suo massimo verso sinistra (vale a dire in corrispondenza di livelli di reddito meno elevati). La figura 2.2 rappresenta una EKC stimata per le emissioni di anidride solforosa in 55 Paesi sviluppati ed in via di sviluppo e mostra come, relativamente a tali Paesi, le emissioni crescano con lo sviluppo dell’economia, almeno fino a quanto i redditi pro capite non arrivano a circa 3 mila dollari. Successivamente, le emissioni pro capite decrescono al raggiungimento di redditi più elevati. Figura 2.2: EKC stimata per le emissioni di biossido di zolfo In ascisse: reddito nazionale lordo pro capite in dollari; in ordinate: emissioni in kg pro capite. Fonte: Panayotou, 1993 Figura EKC Nota: in ascisse: reddito nazionale lordo pro capite in dollari; in ordinate: emissioni in kg pro capite. Fonte: Panayotou, T., 1993. In assenza di cambiamenti nelle tecnologie disponibili, un mero aumento di 26 scala di attività economica avrebbe come risultato un aumento proporzionale dell’inquinamento e di altri impatti ambientali: ciò è chiamato effetto di scala. L’opinione tradizionale che considera crescita e protezione ambientale due obiettivi incompatibili farebbe riferimento, secondo i sostenitori del modello EKC, al solo effetto di scala; tuttavia, essi affermano, per alti livelli di reddito, cambiamenti strutturali verso industrie information intensive e servizi, accoppiati con maggiori preoccupazioni per l’ambiente, regolamentazioni, migliori tecnologie e più elevate spese per protezione ambientale hanno, come risultato, un livellamento ed una riduzione graduale del degrado ambientale. Pertanto, la EKC è “spiegata” da questi fattori: 1. scala di produzione (per date tecnologie e combinazioni di input e output); 2. le varie industrie hanno diverso impatto ambientale e, con la crescita, varia la combinazione di output; 3. cambiamenti negli input comportano la sostituzione di input ad alto impatto ambientale con altri ad impatto più contenuto; 4. il progresso tecnologico comporta due ordini di cambiamenti: (a) aumento dell’efficienza (minore quantità di input per realizzare la stessa quantità di output); (b) riduzione delle emissioni di sostanze inquinanti nei diversi processi produttivi. Variazioni in questi fattori possono essere indotte da modifiche che lo sviluppo economico comporta su altre variabili: la regolamentazione ambientale, la sensibilità verso i problemi ambientali, educazione. Molte critiche sono state rivolte alla EKC: in effetti, le sue applicazioni empiriche hanno prodotto risultati che hanno ottenuto tutt’altro che l’accordo degli economisti. Diversi studi, infatti, hanno sviluppato modelli teorici che, sulla base di differenti ipotesi semplificative, avevano come risultato una funzione che lega varie forme di inquinamento e livelli di reddito, rappresentabile graficamente con una curva a forma di campana. Tuttavia, tale risultato non risulta necessario, ma dipendente dalle ipotesi iniziali e dal valore attribuito a determinati parametri. Alcuni risultati empirici hanno evidenziato la possibilità di descrivere la funzione con la forma della EKC, ma solo per particolari sostanze inquinanti, generalmente caratterizzate da un impatto locale e non globale. Ciò è compatibile con la teoria economica, in quanto l’impatto locale viene internalizzato in una singola economia o regione, dando luogo a interventi del mercato o dell’autorità in ordine alla sua riduzione; perché un simile 27 meccanismo sia in grado di operare su scala internazionale devono essere superate difficoltà di ordine superiore. Inoltre, alcuni studi hanno evidenziato soltanto relazioni ambigue tra la variabile esplicativa del degrado ambientale ed il livello del reddito, mentre in altri casi la funzione appare sicuramente monotona crescente. Studi più recenti individuano una relazione monotona crescente anche per il SO2 cosı̀ come per il CO2, anche se non è generalmente esclusa la presenza di turning point nelle funzioni che legano emissioni e reddito. Risultati generalmente diversi si sono avuti tra gli studi sulle emissioni di sostanze inquinanti e studi sulle loro concentrazioni. Sembra maggiormente suffragata dai dati la tendenza alla riduzione delle concentrazioni a partire da livelli medi di reddito, mentre le emissioni sembrano essere sempre crescenti. Alcune critiche all’approccio EKC sono state fatte sul piano della consistenza dei risultati con la teoria econometrica, riducendone la significatività; altre, invece, riguardano il fondamento teorico. Arrow (et al., 1995) sostiene che il modello di EKC presentato nel World Development Report del 1992 ed altrove, assume che non ci sia un feedback dal danno ambientale all’attività economica, essendo il reddito assunto come esogeno. In altre parole, è esclusa la possibilità che il danno ambientale possa essere tanto grave da interrompere il processo di crescita; inoltre, i fenomeni irreversibili non sono considerati in grado di poter ridurre il livello del reddito in futuro. Ciò vale ad assumere che l’economia sia su un sentiero di sviluppo sostenibile. Se cosı̀ non è, più alti livelli di attività economica, là dove si stia verificando un degrado ambientale, possono essere controproducenti. Altra considerazione può essere fatta sull’approccio unidimensionale, che costituisce un problema in quanto gli interventi per la riduzione della concentrazione di sostanze inquinanti possono semplicemente aver modificato il mix di emissioni in generale, come effettivamente sarebbe successo per le emissioni di zolfo e azoto - sostituite da maggiori emissioni di biossido di carbonio e rifiuti solidi. Inoltre, bisogna tener presente la differenza tra impatto ambientale della produzione e del consumo. In effetti, la crescita economica porta alla modifica della specializzazione produttiva, che nei Paesi sviluppati privilegia le attività information intensive. Tuttavia, l’aumento del reddito può accompagnarsi a nuove combinazione dei consumi tali per cui il consumo di prodotti realizzati con processi che hanno un impatto ambientale più elevato sono in proporzione minori, ma in valore assoluto costanti o crescenti; ciò che, semplicemente, avviene in questi casi è che la funzione dell’inquinamento rispetto al reddito ha la forma prevista dal modello EKC, ma solo perché si consumano prodotti che provengono da produzioni eseguite in altre aree. La teoria economica (modello di Hekscher-Ohlin) suggerisce che, in assenza di barriere al libero commercio internazionale, si specializzino in produzioni che facciano uso intensivo delle risorse maggiormente disponibili (lavoro e risorse naturali), laddove quelli sviluppati si specializzano in produzioni ad alta intensità di capitale umano e capitale prodotto. Se questo spiega la forma della EKC, allora la cre28 scita economica dei Paesi in via di sviluppo semplicemente incontrerà maggiori difficoltà a ridurre le concentrazioni e le emissioni di sostanze inquinanti, perché ad un certo punto - non sarà più possibile procedere attraverso l’outsourcing delle produzioni ad elevato impatto ambientale. Infine, alcuni autori (Dasgupta et al., 2002) hanno stimato un modello che considera come variabili esplicative, oltre al livello del reddito, anche misure di governance in materia ambientale, condizioni di natura geografiche e climatiche che determinano la sensibilità rispetto ai fattori inquinanti, la densità di popolazione ed il livello di attività economica in settori ad alto impatto ambientale. I risultati mostrano che, in questo caso, il reddito risulta avere un effetto variabile, mentre fattori quali la governance e le condizioni geoclimatiche hanno effetti molto meno ambigui. Nelle simulazioni, il modello mostra che questi due fattori sarebbero già sufficienti, anche escludendo il reddito pro capite, per spiegare l’alto livello di inquinamento dell’aria in molte città dei Paesi in via di sviluppo con popolazione oltre i centomila abitanti; e, inoltre, spiegherebbero pure come alcune di esse mostrino invece una qualità dell’aria comparabile con quelle dei Paesi OCSE. Questo approccio considera che i miglioramenti ambientali siano possibili anche in Paesi in via di sviluppo; in effetti, in alcuni di essi sono state riscontrate una certa attenzione ed efficacia delle politiche ambientali, che i ricercatori della Banca Mondiale misurano in livelli crescenti da 1 a 6 (per 134 Paesi a basso e medio reddito, cfr. tabella). Secondo gli stessi autori, sebbene la regolamentazione delle risorse ambientali cresca con l’aumentare del reddito pro capite, tuttavia l’incremento maggiore si avrebbe per livelli di reddito ancora bassi mentre, al margine, ulteriori restrizioni sarebbero più modeste. Importante è anche la riduzione dei sussidi a produzioni ad alto impatto ambientale, in seguito alla liberalizzazione di settori economici; è da notare che si trovano anche esempi di regolamentazione informale o decentralizzata (che rappresentano applicazioni del teorema di Coase). Sembra, pertanto, errato l’assunto secondo il quale i Paesi in via di sviluppo siano privi di capacità di regolamentazione in materia ambientale. Ulteriori segnali emersi nei più recenti studi sembrano individuare in fattori time related quali i progressi tecnologici, ed in particolare quelli diretti specificamente alla riduzione delle emissioni, che si verificano tanto nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo; questo anche se le innovazioni sono introdotte in anticipo nei primi, e dagli altri con un ritardo relativamente breve. Per esempio, la Cina sta adottando gli standard dell’Unione Europea per l’inquinamento automobilistico con un ritardo di circa 10 anni, a fronte di un ritardo molto superiore nel reddito pro capite (Gallagher, 2003); inoltre, lo stesso Paese avrebbe ridotto le emissioni di SOx e CO2 in anni recenti (Diesendorf, 2003). Per quanto detto finora, il modello EKC non sembra costituire una relazione causale tale da fornire il fondamento per una politica economica. Destinare tutte le risorse alla crescita, in altre parole, potrebbe non essere affatto una scelta ottimale. Il raggiungimento del punto di svolta nella curva, infatti, potrebbe avvenire 29 Tabella 2.3: Rating della capacità istituzionale della World Bank e classi di reddito classe di rating fascia di reddito n.ro Paesi media 1 2,5 3 3,5 4 4,5 5 6 percentuale paesi per classe di rating basso 58 2,89 5 29 43 19 2 2 0 0 medio basso 49 3,41 0 10 27 39 20 4 0 0 medio alto 27 4,24 0 4 15 15 26 7 19 15 Totale 134 3,35 2 17 31 25 13 4 4 3 Fonte: Dasgupta (et al.), 2004. solo dopo la realizzazione di danni irreversibili; di ciò si dovrebbe tenere conto soprattutto in considerazione del fatto che le condizioni globali in cui avviene la crescita dei Paesi in via di sviluppo non coincide affatto con quelle in cui si è verificata la crescita dei Paesi sviluppati. Ad esempio, la concentrazione di gas serra è molto più elevata oggi che nel periodo in cui si è avviata l’industrializzazione dei Paesi sviluppati. In questo senso, inoltre, è criticabile la scelta (contenuta anche nei protocolli di Kyoto) di lasciare i Paesi in via di sviluppo “liberi di inquinare” mantenendo il peso della riduzione delle emissioni sui soli Paesi sviluppati; tanto più per la presenza di esternalità su larga scala geografica. La sostenibilità dovrebbe essere invece un obiettivo di politica economica a tutti i livelli di sviluppo. 30 Capitolo 3 Analisi economica ed ambiente 3.1 Il valore dei beni ambientali Il benessere di una società può ragionevolmente essere considerato dipendente, oltre che dalle variabili economiche e sociali in precedenza osservate, dal livello di conservazione o di degrado dell’ambiente in cui vivono, sia esso urbano che naturale. La misurazione di queste variabili pone livelli di difficoltà crescenti passando dall’ambito economico a quello sociale ed, infine, a quello ambientale; con riferimento all’analisi economica, il problema principale è costituito dalla determinazione del valore. In effetti, il concetto di valore è difficilmente collegato anche in astratto all’ambiente ed alle sue risorse; non siamo abituati a ragionare in termini di prezzo considerando aspetti quali la bellezza dei paesaggi, delle specie animali, della biodiversità, della natura in generale; più semplice è quantificare i fenomeni in termini fisici, il che però presenta limitata utilità se dobbiamo procedere ad una valutazione dei costi e dei benefici tra preservazione ed utilizzi alternativi di risorse naturali; in questo caso, infatti, dobbiamo disporre di unità di misura omogenee perché siano tra loro confrontabili. Il ragionamento in termini di valore monetario è una risposta a questa necessità; d’altra parte, questa si scontra con l’assenza di mercati, per la gran parte delle risorse naturali, che consentano di misurare un prezzo e di calcolare una domanda. Allo stesso modo dovremo procedere per la misurazione del degrado ambientale; il fatto che un’attività produttiva possa aumentare la quantità di agenti inquinanti nell’acqua non ci basta a stabilire a priori se sia preferibile avviare tale attività, o rinunciare ai benefici economici che essa comporterebbe, o se sia preferibile rinunciare ai benefici di un’attività in corso per ottenere un minore degrado ambientale. Constatata la necessità di determinare il valore economico delle risorse naturali e dei beni ambientali in generale, notiamo che questo dipende da varie com- 31 ponenti. Il valore economico totale (VET) comprende, in primis, un valore d’uso reale, legato quindi ad un utilizzo effettivo della risorsa o del bene ambientale; in buona parte dei casi è quello più semplice da misurare, proprio grazie al rapporto manifesto tra l’individuo e l’oggetto. Una seconda componente è costituita dal valore di opzione: questo è legato alla possibilità che un individuo tragga beneficio da un eventuale utilizzo futuro, proprio o da parte di altri individui–ciò corrisponde alla volontà di lasciare un’eredità, oppure al sentimento altruistico che fa valutare favorevolmente la soddisfazione di necessità altrui (ad esempio, la sensibilità dimostrata nei confronti di popolazioni lontane come indios amazzonici, maori, eskimesi o delle tribù nomadi dell’Africa). Una terza componente non è legata ad alcun tipo di fruizione di qualsiasi individuo: chiameremo tale componente “valore intrinseco”. L’importanza di questa componente risulta dal fatto che gli individui spesso desiderano che specie animali ed ecosistemi siano preservati sic et simpliciter, ciascuno di noi può considerare opportuno che sopravvivano i panda giganti ed i gorilla, anche se non si aspetta di vederne mai uno in libertà nel suo ambiente naturale (a maggior ragione quando tale sopravvivenza è condizionata all’esclusione di una fruizione). 3.2 I metodi di valutazione Per i beni oggetto di scambio sul mercato è facile assistere alla determinazione del prezzo ed è possibile anche la definizione della relativa domanda, sotto forma di funzione del prezzo stesso; quest’ultima costituisce, a sua volta, una descrizione approssimativa della funzione di utilità, per gli individui, del bene stesso. In assenza di tali mercati, misurare tale domanda (e tale utilità) è molto complesso. In molti casi gli individui potrebbero essi stessi non conoscere l’utilità di un bene; per esempio, buona parte delle sostanze inquinanti è sconosciuta ai più, cosı̀ come lo sono i loro effetti sul nostro organismo. È verosimile, quindi, che noi possiamo non essere in grado di valutare quanto sia utile, per noi, un abbattimento di una certa percentuale della quantità di benzene nell’aria; conoscendo il rapporto funzionale tra tale variabile ed il numero di casi di individui colpiti da malattie ad essa collegate, la valutazione di tale utilità diventa più semplice. In questo caso, possiamo misurare sperimentalmente l’utilità collegata alla riduzione del numero dei malati, o, in altre parole, il valore della prevenzione dalle malattie; oppure tentare di stimare direttamente l’utilità (il valore) della riduzione dell’agente inquinante. In generale, il primo dei due approcci costituisce un metodo indiretto di valutazione dei beni ambientali, il secondo un metodo diretto. Definito come sopra accennato il metodo di valutazione, gli economisti utilizzano due diversi approcci; il primo porta alla misurazione della variabile attra32 verso una funzione di domanda, il secondo, invece, non è legato ad una funzione di domanda. Gli approcci attraverso la funzione di domanda fanno ricorso alle preferenze espresse o rivelate. Le prime sono ricostruite con metodi sperimentali, che consistono praticamente in interviste mirate a far rivelare una misurazione dell’utilità che permette di compilare una scheda di richiesta di un certo bene; dall’aggregazione di dette schede si risale ad una curva di domanda. Le preferenze rivelate vengono misurate nei cosiddetti mercati surrogati. L’utilità di un bene, per esempio, può riflettersi in quella di un altro bene; se entrambi sono oggetto di scambio, questo può far sorgere fenomeni di complementarità o di trade-off tra la domanda di un bene e quella dell’altro. In caso uno dei due non sia, invece, scambiabile su un mercato, il secondo potrà mostrare, nella determinazione del prezzo, l’effetto dell’utilità del primo. Le tecniche di misurazione del valore utilizzate sono quelle della valutazione contingente, del prezzo edonistico, dei costi di spostamento. La valutazione contingente è il metodo analitico che sfrutta le preferenze espresse. Gli intervistati devono dichiarare la loro disponibilità a pagare per evitare un certo fenomeno di degrado, o per conservare un certo ambiente naturale; in alternativa, può essere richiesta la loro disponibilità a ricevere un indennizzo per accettare un certo degrado ambientale. Le preferenze rivelate vengono misurate con le altre due tecniche; il prezzo edonistico, in particolare, fa riferimento al mercato surrogato. Un esempio caratteristico è quello del valore dei beni ambientali misurato attraverso il prezzo degli immobili; questo, infatti, risente di vari elementi quali la presenza di riserve naturali o parchi, o di elementi di degrado; l’effetto di tali variabili si manifesta differenziando il prezzo di immobili equivalenti. Tramite una regressione statistica è possibile stimare il valore attribuito a tali elementi. L’analisi dei costi di spostamento inferisce il valore attribuito ai beni ambientali sulla spesa effettuata per la loro fruizione: ad es., il valore di una riserva naturale può essere stimato sulla base dei costi sostenuti per la loro visita. Approcci senza funzione di domanda si basano su fenomeni quali: risposta alla dose: corrisponde all’esempio precedente degli effetti di variazioni di un agente patogeno sulla salute degli individui. È necessario che siano note le relazioni quantitative sottostanti, a livello fisico, chimico e biologico; quando ciò si verifica, è possibile dare un valore alla variazione di detto agente in base agli effetti economici che questo induce. In altre parole, se disponiamo di una stima dei casi di una certa malattia in funzione di una certa dose della sostanza che la causa, il valore della variazione di quest’ultima corrisponde alla variazione della spesa sanitaria corrispondente. costi di sostituzione: Il valore di una risorsa ambientale, quale può essere una riserva naturale in una zona umida, può essere approssimato al costo della 33 realizzazione di analoghe condizioni in un altro sito. In pratica, destinando una certa area ad una data attività, si viene a perdere un certo habitat; questo potrebbe essere ricreato altrove, ma ciò comporterebbe un costo; costi di opportunità: il mantenimento delle condizioni in cui si trova una certa area comporta la rinuncia ai benefici economici degli utilizzi alternativi; comportamento riduttivo: in presenza di un elemento degradante gli individui mettono in atto comportamenti tendenti a limitarne gli effetti, che hanno un costo; per esempio, se non si può eliminare una fonte di rumore, è necessaria l’installazione di dispositivi che aumentino l’isolamento acustico. 3.3 La valutazione del capitale naturale ottimale L’attribuzione di un valore ai beni ambientali permette di considerarli all’interno di un approccio ottimizzante; ad esempio, metodi analitici tradizionali possono essere utilizzati per valutare quale sia lo stock ottimale di capitale naturale. Nel capitolo precedente si è visto che il capitale naturale debba essere conservato (secondo il criterio della sostenibilità forte) o tutt’al più ridotto in misura non superiore all’incremento di capitale prodotto. Ora diventa concettualmente possibile definire la quantità ottimale a prescindere dallo stock effettivamente esistente. Il metodo analitico in questione appartiene alla dottrina marginalista neoclassica, che individua il punto di ottimo nella situazione in cui un incremento marginale di capitale naturale produce benefici marginali inferiori ai costi (marginali), ed è descritto in figura 3.1, in cui sono rappresentati sull’asse delle ascisse lo stock di capitale naturale Kn, sulle ordinate il valore economico totale (VET) e i costi C (costi opportunità legati alla rinuncia ai benefici dovuti ad utilizzi alternativi delle risorse naturali). La curva che descrive il VET è crescente al crescere di Kn, ma la sua pendenza si riduce: questo riflette il principio dell’utilità marginale decrescente; in altre parole, il valore attribuito ad una unità iniziale di Kn è elevato, ma aggiungendo via via altre quantità, il valore attribuito all’incremento al margine di Kn è sempre più ridotto. L’andamento della curva che rappresenta il costo C del mantenimento dello stock di Kn è opposto, in quanto la curva cresce con una pendenza sempre maggiore perché in corrispondenza del massimo stock di Kn una sua riduzione per un impiego alternativo può comportare un certo rendimento, ma successivi utilizzi alternativi avranno rendimenti via via più bassi. Il punto di equilibrio è indicato con K*n ed è caratterizzato da un uguale incremento di C e VET per una variazione infinitesimale di Kn; questo significa che a sinistra di K*n c’è convenienza a incrementare lo stock esistente, dal momento 34 Figura 3.1: determinazione dello stock di capitale ottimale C, VET C K *n ) K* (VET n che l’aumento dei benefici sarà superiore a quello dei costi; a destra di K*n ci troveremo in una situazione in cui troveremo preferibile sacrificare capitale naturale per avere benefici alternativi di entità superiore. 3.4 Contabilità nazionale e contabilit à ambientale Come accennato nel capitolo precedente, gli indicatori tradizionalmente in uso per approssimare il livello di benessere sono il PIL e il PNL pro capite. Molti economisti fanno notare che se, da una parte, la creazione di valore distribuito sotto forma di redditi può avere un effetto positivo sul benessere, dall’altra abbiamo creazioni o distruzioni di valore che non vengono misurate, ma hanno anche esse effetto sul benessere degli individui. Un aspetto complesso della questione è legato anche al problema della distribuzione dei redditi: è verosimile la considerazione che la creazione di redditi non è correlata alla misura in cui gli individui subiscono la distruzione di valore di be35 ni e servizi non compresi nella contabilità nazionale. Un esempio di ciò potrebbe essere il cambio di destinazione d’uso di un’area da bene comune, ove sia possibile la raccolta di frutti e prodotti vari, o il pascolo, a terreno agricolo. La comunità che in un primo momento usufruisce di beni e servizi gratuiti, deve acquistarli sul mercato; questo significa che la contabilità nazionale rileva un aumento degli scambi, ma il benessere della comunità in questione non è necessariamente aumentato (se i redditi generati vengono distribuiti anche al suo esterno, il benessere sarà probabilmente ridotto). Più in generale, gli interventi dell’uomo che riguardano l’ambiente naturale sono valutati in modo distorto se si utilizzano esclusivamente i criteri della contabilità nazionale. Alcuni economisti si preoccupano di verificare se attività che hanno un elevato impatto ambientale creino o meno ricchezza una volta che si consideri anche il valore dei beni e dei servizi forniti dall’ambiente naturale. Al riguardo, un’analisi ( [2]) è stata condotta su studi sul valore marginale di beni e servizi forniti da vari biomi ragionevolmente intatti, nonché sui beni e servizi prodotti dalla conversione delle stesse aree; fra essi sono stati selezionati quelli relativi a 5 biomi, corrispondenti alle foreste tropicali in Malesia e nel Camerun, le distese di mangrovie in Tailandia, la barriera corallina nelle Filippine e le zone umide in Canada. Nel primo caso, il VET dell’ambiente naturale intatto appare superiore del 14% rispetto al valore degli stessi suoli sottoposti a deforestazione; per quanto riguarda l’economia dell’area del monte Camerun, gli studi evidenziavano la convenienza, per i privati, alla conversione dei suoli adibiti al taglio del legname (condotto con limitato impatto ambientale) all’attività agricola su piccola scala; il VET, comprendente i benefici considerati in modo più esteso, è però superiore del 18% nel primo caso; quanto ad attività ad alto impatto ambientale, quale la deforestazione per la messa a coltura di palme da olio, si è visto che i redditi prodotti dipendevano da distorsioni del mercato. La sostituzione delle acquacolture alle mangrovie sembra sia giustificata solamente da benefici privati e di breve periodo, ma per la comunità nel complesso si manifestano costi che limiterebbero in grande misura i guadagni; ciò per la perdita di legname e carbone vegetale, raccolta di frutti, pesca, protezione dalle tempeste. Il VET del bioma intatto supererebbe del 70% quello delle analoghe aree convertite ad allevamento di gamberi (USD 60.400 contro USD 16.700 per ettaro). Nelle Filippine la pesca condotta con tecniche distruttive porta vantaggi individuali immediati, ma in breve tempo anche questi si riducono fino ad essere inferiori a quelli prodotti da tecniche sostenibili. Considerando anche gli effetti collaterali del degrado dei fondali, quali la perdita di protezione delle coste e di attrattive turistiche, il VET dell’area sottoposta ad attività a basso impatto ambientale supera del 75% quello corrispondente dell’area sottoposta ad attività degradante. In Canada si è evidenziato che la bonifica di zone umide, pur fornendo aree ad alta produttività agricola, porta a benefici privati largamente dipendenti dai sussidi forniti per la bonifica ed 36 il VET appare più elevato di circa il 60%. Dall’analisi sopra delineata, appare chiaro che per eseguire il confronto tra ambiente naturale intatto ed aree sottoposte a conversione abbiamo scarsi dati empirici disponibili, tanto che solo quattro biomi sono stati presi in considerazione, ed al loro interno solo aree limitate sono state descritte. Nei casi presi in considerazione, d’altra parte, sembrerebbe che la perdita di beni e servizi non scambiabili sul mercato superi abbondantemente i benefici economici forniti dalle merci prodotte in modo insostenibile . Questo non vuol dire che in generale sia necessariamente vero che la preservazione dell’ambiente naturale sia conveniente; probabilmente è stato vero il contrario in passato, ma la sia pur scarsa rappresentatività dei casi descritti fa pensare che spesso la conversione degli habitat rimasti non sia non conveniente in ottica di sostenibilità. D’altra parte, la perdita di superfici di ambienti naturali intatti, nonostante i benefici globali che essi comportano, prosegue; ciò per vari motivi, tra i quali: 1. scarsità di informazioni; manca una valutazione di come l’ambiente fornisca molti beni e servizi, come pure di come essi cambino in seguito all’azione umana; 2. i fallimenti del mercato, che esclude quei fattori non soggetti a transazione commerciale, ma che generalmente rivestono una grande utilità per la società, sia su scala locale che globale, mentre possono avere effetto limitato o nullo sui soggetti che traggono beneficio dalla conversione dell’ambiente naturale; 3. interventi distorsivi dell’autorità di politica economica, che portano alla crescita artificiosa dei benefici dell’attività ad alto impatto ambientale; una stima di tali interventi su scala globale, mostrano un effetto perverso sia sul piano economico che ecologico, porta a valutarne l’importo complessivo tra i 950 e i 1.950 miliardi di dollari per anno ( [3], e [12]). Per conservare riserve naturali, la spesa globale in dollari USA del 2000 è di 6,5 miliardi, di cui il 50% nei soli Stati Uniti. + , 3.5 Il degrado ambientale Nell’analisi economica, l’inquinamento ed il degrado ambientale in generale dipendono sia da qualunque effetto fisico, chimico e biologico sull’ambiente, che da una sua conseguenza sull’uomo, che si configura in una perdita di benessere. Tale perdita rappresenta, per gli individui e per la società, un particolare tipo di costo che può gravare in tutto o in parte su soggetti estranei alla causa di tale fenomeno: in particolare ciò accade nell’ambito dell’attività produttiva. L’emissione di sostanze inquinanti, per esempio, si configura come lo sfruttamento di un fattore produttivo non retribuito:, ciò in quanto l’ambiente fornisce un servizio con il suo assorbimento di tali emissioni. Se queste avvengono in misura eccessiva rispetto alla capacità di smaltimento, si verifica un fenomeno di degrado che può avere effetti di vario tipo: alcuni strettamente economici, quali danni ad altre at37 tività produttive (pensiamo al caso di scarichi in acque necessarie ad usi civili o agricoli o all’itticoltura). In questo caso, si dice che l’attività inquinante genera diseconomie esterne o esternalità negative. Al contrario, l’impiego di un suolo per la riforestazione destinata al taglio sostenibile del legname può produrre benefici alla collettività, collegati alla difesa dall’erosione dei suoli, riduzione degli ossidi di carbonio, aumento della fauna, incremento della produzione apicola: in questi casi si hanno ecomie esterne o esternalità positive. Dal punto di vista economico, quindi, si prendono in considerazione i casi in cui si verificano esternalità, e queste non vengono compensate. In astratto, è possibile infatti che le diseconomie esterne possano essere indennizzate da parte di chi le genera, il che comporta che il costo viene internalizzato. Nella descrizione del modello di bilancio dei materiali si è evidenziato come qualunque tipo di attività, dalla raccolta alla trasformazione ed al consumo, producano un rilascio di materia ed energia nell’ambiente e come ciò sia inevitabile per limiti imposti dalla fisica; pertanto, possiamo affermare che sia impossibile eliminare tali esternalità: possiamo però interrogarci su quali siano i loro livelli ottimali da un punto di vista economico. L’approccio analitico è analogo a quello utilizzato per la valutazione del livello ottimale dello stock di capitale naturale; in figura 3.2 è indicato sull’asse delle ascisse il livello di attività economica, espresso in quantità di output; in ordinata, costi e benefici corrispondenti. La retta CME indica il costo aggiuntivo relativo alle diseconomie esterne procurate da una variazione incrementale della produzione; in questo esempio, è crescente al crescere di Q, il che sottintende che il costo totale delle diseconomie esterne cresce in misura più che proporzionale rispetto all’aumento del livello della produzione che le genera. Questo non è necessariamente legato ad un aumento più che proporzionale delle emissioni in termini fisici; in altre parole, possiamo immaginare che raddoppiando il prodotto di un’attività industriale, le emissioni inquinanti crescano in misura anche inferiore al doppio; d’altra parte, le accresciute emissioni di sostanze inquinanti possono invece indurre effetti in misura superiore al doppio. Ciò può facilmente verificarsi qualora vi sia il superamento di soglie; il rilascio di sostanze nocive al di sotto di una certo valore soglia può provocare un certo numero di casi di reazione patologica, ma il suo superamento verosimilmente comporterà un aumento di detti casi eccedente l’incremento delle sostanze inquinanti. La retta PM indica invece il profitto marginale per il privato che esercita l’attività in questione: vale a dire, un’unità aggiuntiva di prodotto procurerà un certo profitto, ma un’ulteriore variazione ne assicurerà uno inferiore. Ciò consegue ad alcuni assunti tradizionalmente accolti dalla teoria economica neoclassica, la cui trattazione esula dagli obiettivi di questo corso. 1 1 si può comunque considerare che la curva di domanda aggregata di un certo prodotto è de- 38 .Costi, /benefici Figura 3.2: Il livello di inquinamento ottimale .CME PM D A B C Q -2 Q 0 3 Q1 Agendo secondo la logica di massimizzare il profitto, il soggetto produttore sceglierà di aumentare il suo output fino a che il profitto marginale sia maggiore di zero; oltre non avrà convenienza, perché l’effetto di un incremento ulteriore sarà di ridurre i profitti totali; prima, invece, non si troverebbe in una condizione ottimale, perché ulteriori incrementi porterebbero ad un aumento dei profitti. In figura 3.2 la scelta del produttore è indicata con Q1. Questa rappresenta una situazione di ottimo nel caso non ci siano diseconomie esterne, come invece accade nel caso che stiamo esaminando. La società nel complesso, infatti, sta sostenendo dei costi legati all’attività di produzione di Q. Se questi vengono presi in considerazione, l’obiettivo della massimizzazione diventa la differenza tra i profitti ed i costi da diseconomie esterne. crescente rispetto al prezzo, maggiori quantità di prodotto vengono richieste solo ad un prezzo inferiore, il che significa che un aumento dell’offerta provoca la diminuzione del prezzo di mercato, che si applica a tutte le unità di prodotto offerte. Questo significa che i ricavi pxQ aumenteranno con l’aumentare di Q, ma solo finché l’effetto della riduzione di p diventerà preponderante. Per approfondimenti, si rimanda ai manuali di economia politica, fra i quali [19]. 39 A livello intuitivo, se in Q = 0 abbiamo che il profitto di un’unità di Q supera il costo esterno, ci sarà convenienza a produrre quella unità; e, ancora, se una ulteriore unità di prodotto assicura un profitto marginale superiore al corrispondente costo marginale, si manterrà la convenienza ad espandere la produzione; ciò fino al punto in cui si avrà che un’unità aggiuntiva di prodotto porterà ad un incremento al margine del profitto inferiore a quello del costo esterno. Da questo momento in poi, la differenza tra costi e profitti inizierà a diminuire 2 . Graficamente, ciò è rappresentato dalla differenza tra l’area compresa tra le due rispettive curve e l’asse delle ascisse. Nel punto di ottimo Q2 si ha la massima differenza tra profitti e costi, differenza corrispondente alla superficie del triangolo contrassegnato con A, essendo B il triangolo la cui superficie misura i costi totali esterni. In figura 3.2, aumentando l’offerta da Q2 a Q3 il costo totale delle esternalità aumenta in misura pari alla superficie del trapezio C + D, mentre i profitti totali aumentano solamente di C. L’analisi sopra descritta ci ha mostrato come si possa individuare un livello di produzione corrispondente a una quantità di esternalità negative ottimali da un punto di vista economico. La questione è, ora, di capire come il sistema economico possa raggiungere tale livello ottimale. Gli economisti hanno individuato varie soluzioni, corrispondenti a meccanismi di mercato o ad interventi dell’autorità. 3.6 I meccanismi di mercato per il raggiungimento dell’inquinamento ottimale La prima risposta al quesito precedente si deve ad un saggio di Ronald Coase del 1960. Coase sostenne che, se è vero che i mercati possono non garantire il raggiungimento del livello ottimale di diseconomie esterne, essi possono comunque esservi spinti senza che si renda necessaria una regolamentazione attiva degli stessi da parte dell’autorità di politica economica, corrispondente agli interventi che saranno esaminati nei paragrafi successivi. La soluzione proposta da Coase per dimostrare questo teorema consiste nella introduzione di diritti di proprietà. In altre parole, possiamo immaginare che i soggetti colpiti dalle diseconomie esterne siano titolari di un diritto di proprietà su qualche bene, diritto che viene leso dalla creazione delle esternalità negative, allo stesso modo in cui il titolare di una concessione per l’impiego itticolo o balneare di un area viene danneggiato da chi vi immette scarichi inquinanti. In questo caso, il danneggiato ha il diritto ad ottenere dalla controparte che 2 Ciò nell’ipotesi che le curve di profitto e di costo siano monotone, cioè abbiano nel primo caso una pendenza sempre decrescente, e nel secondo caso sempre crescente. 40 essa elimini il danno, oppure lo rifonda in modo congruo. Sfruttando i diritti di proprietà, i danneggiati possono esigere un risarcimento, che, se corrisposto, ha l’effetto di internalizzare le diseconomie, integrandole all’interno della funzione di produzione. Il procedimento massimizzante analizzato nel paragrafo precedente, pertanto, viene effettivamente svolto dal soggetto produttore: nel programmare il livello di output dell’impresa, terrà in considerazione il costo degli indennizzi, pari a quello sostenuto dalla collettività per effetto delle diseconomie esterne, fissando la produzione al livello Q2 della figura 3.2. Possiamo immaginare anche il caso di diritti di proprietà la cui titolarità appartiene all’inquinatore: in questo caso, chi subisce l’inquinamento avrà convenienza, dal punto di vista economico, a procedere ad una transazione con l’inquinatore, spingendolo a rinunciare ad una quota dell’attività produttiva, compensando la conseguente perdita di profitto. In altre parole, se il produttore ha interesse a fissare la produzione al livello Q1 indicato in figura 3.3, la collettività ha interesse a ottenere la riduzione fino al punto q, pagando un indennizzo i; questo perché al livello q il costo marginale sostenuto è più elevato, essendo pari a c. D’altra parte, questo vale per indennizzi corrispondenti ad ulteriori rinunce di produzione, fino a che non si arriva al livello Q2, a sinistra del quale il costo marginale delle diseconomie esterne è superato dal costo della compensazione a cui il produttore avrebbe diritto. Il risparmio per la collettività è dato dall’area del triangolo contrassegnato con lettera R, in quanto grazie alla compensazione essa perde costi da diseconomie negative pari all’area del quadrilatero compreso tra l’asse delle ascisse, la curva CME ed i segmenti che hanno origine in Q1 e Q2, mentre i costi effettivamente sostenuti corrispondono alla minore superficie del triangolo compreso tra le ascisse, la curva PM ed il segmento con origine in Q2 (che corrisponde al profitto globale a cui rinuncia il produttore passando da Q1 a Q2. Si può osservare che, nella realtà, questo tipo di transazione avviene raramente. I sostenitori dell’indipendenza del mercato spiegano questa circostanza con i cosiddetti costi di transazione; procedere ad una compensazione di questo tipo comporterebbe dei costi, perciò questa si verifica solo se si ha convenienza ad sostenerli. Le transazioni non avvengono perché il risparmio R è inferiore ai costi di transazione, perciò –secondo questi economisti– il sistema si trova in una posizione ottimale anche in loro assenza. Di fatto, proprio la presenza di costi di transazione elevati può spiegare la necessità di interventi diretti dello Stato sul mercato. Altre ragioni per tale intervento hanno origine dalla difficoltà ad individuare le parti interessate; ciò per diverse ragioni, quali: 1. mancanza di informazioni: gli individui possono non essere al corrente delle cause che originano le esternalità, anche perché spesso è effettivamente difficile stabilire le relazioni causali 41 .Costi, Figura 3.3: la compensazione ed il livello ottimale di esternalità /benefici .CME c 1PM R i Q -2 q Q1 sottostanti a livello fisico, chimico e biologico; 2. gli effetti possono riversarsi sulle generazioni future, che possono non essere adeguatamente rappresentate allo stato attuale; 3. proprietà comuni: gli individui potrebbero non essere titolari dei diritti se non a livello collettivo. In questo caso possono originarsi comportamenti competitivi che portano ad un risultato non ottimale; 4. le minacce di ingresso: alcuni soggetti potrebbero entrare sul mercato, minacciando di avviare un’attività, al solo scopo di ottenere una compensazione a fronte di una rinuncia fittizia. 3.7 Tasse e inquinamento ottimale Una seconda risposta al quesito su come arrivare ai livelli economicamente ottimali di inquinamento, o più in generale di degrado, prevede l’intervento diretto dello Stato nel fissare un obiettivo e costringere il mercato a raggiungerlo attraverso lo strumento fiscale. 42 .Costi, /benefici Figura 3.4: tasse e livello ottimale di inquinamento .CME 1PM 2t Q -2 PM−t Q1 Tale soluzione è stata fornita nel 1920 da Arthur C. Pigou (1877-1959), e lo strumento proposto prende da lui il nome di tassa pigouviana. A livello teorico (nella realtà il meccanismo vene adottato in maniera semplificata rispetto a quello ideale), l’autorità potrebbe fissare una tassa t in modo da ridurre il profitto marginale, che dalla differenza tra prezzo e costo marginali diventa la differenza tra prezzo e somma di costi e tassa. In figura 3.4 questo viene descritto con uno spostamento della curva PM verso sinistra e verso il basso. La tassa ottimale t viene fissata ad un livello pari al costo marginale esterno in corrispondenza della quantità di output ottimale, Q2; in questo modo, in corrispondenza di tale livello, si annulla il profitto marginale e il produttore non ha convenienza a spingersi oltre. Anche questo meccanismo presenta delle difficoltà: l’autorità dovrebbe essere al corrente, per intervenire in modo efficiente, sia della funzione di costo delle diseconomie esterne, sia della funzione di profitto (o, nel caso i soggetti inquinanti non siano imprese, della corrispondente funzione di domanda –o in generale di 43 .Costi, /benefici Figura 3.5: standard e inquinamento ottimale .CME PM m m1 S Q2 Q 03 Q1 beneficio– di beni o servizi che generano le esternalità da ridurre) in modo da poter fissare con precisione il livello t della tassa ottimale. Inoltre, ragionando in termini di diritti di proprietà, la tassa potrebbe colpire i titolari di tali diritti, i quali avrebbero piuttosto diritto ad un risarcimento in cambio della riduzione di produzione. Infine, la tassa impone un costo che potrebbe superare quello delle esternalità. Nel caso della figura 3.4, infatti, il costo dell’imposizione sul produttore delle esternalità è pari all’area del rettangolo che ha la base in 0, Q2, e l’altezza pari a t, mentre il costo totale delle esternalità è pari alla minore area del triangolo con pari base ed altezza. 3.8 Standard e sussidi La fissazione di uno standard di inquinamento è un intervento alternativo per la limitazione delle emissioni di sostanze inquinanti; avviene mediante la definizione 44 di un limite fisico alle stesse, per esempio indicando la quantità massima di una sostanza per metro cubo di aria o acqua, o di decibel di rumore etc. Per funzionare, il meccanismo (descritto in figura 3.5) deve prevedere un’opera di controllo del rispetto dello standard, nonché una sanzione in caso di inosservanza; inoltre, perché questo sia fissato ad un livello ottimale, sono necessarie le stesse informazioni richieste per la definizione della tassa pigouviana ottimale; altrimenti, il risultato sarà solo casualmente corrispondente al livello ottimale. La sanzione deve essere tale da non rendere conveniente il superamento della soglia contraddistinta con S; d’altra parte, l’imposizione della sanzione è aleatoria, perciò la probabilità matematica della multa stessa (l’importo della sanzione moltiplicato per la sua probabilità) potrebbe essere pari a m1 e quindi insufficiente, e convincere il produttore a spingersi fino al livello Q3. Il costo di funzionamento del meccanismo, dovuto all’attività di controllo ed a quella amministrativa o giudiziaria relativa alla sanzione, potrebbero non differire sostanzialmente dal caso della tassa pigouviana. Lo standard è però insostituibile nel caso della proibizione totale. Definire una tassa per un’attività che non deve essere svolta, infatti, non ha senso. La riduzione dell’inquinamento potrebbe avvenire anche attraverso sussidi mirati alla sostituzione di tecnologie ad alto impatto con altre a minore impatto ambientale; un effetto collaterale del sussidio, però, è quello di ridurre il prezzo di offerta del prodotto, il che può comportare un’espansione della produzione per soddisfare una domanda più elevata. La conseguenza potrebbe quindi essere un aumento dell’attività inquinante che più che compensi la riduzione di emissioni ottenuta con l’impiego di tecnologie più efficienti. 3.9 I permessi negoziabili I permessi di inquinamento sono stati teorizzati nel 1968 da J. H. Dales; il funzionamento di questo strumento è simile a quello dello standard, in quanto l’autorità politica deve individuare una quantità ottimale di emissioni, il cui raggiungimento viene ottenuto con il rilascio di permessi di inquinamento, per i quali esiste di fatto un mercato in cui possono essere acquistati e venduti. Il livello ottimale di inquinamento può essere individuato, con il metodo già descritto nel presente capitolo, nel punto in cui il profitto marginale del produttore ed il costo marginale delle diseconomie esterne sono uguali. Possiamo però introdurre un’estensione: può essere che in alternativa alla rinuncia ad una quota dell’output, il produttore possa adottare delle misure per la rimozione delle esternalità, che siano economicamente convenienti. In altre parole, per ridurre la quantità di sostanze inquinanti da Q1 a Q2 il 45 Figura 3.6: i permessi negoziabili Costi 3CME c CR 4 Qp Q2 Q1 produttore pagherà un prezzo che potrà essere la rinuncia al profitto collegato alla quantità di prodotti corrispondenti a Q1, oppure il costo degli interventi alternativi. In figura 3.6 la curva CR costituisce, quindi, la meno onerosa tra le due alternative per la riduzione unitaria marginale di sostanza inquinante. Essa rappresenta, inoltre, la disponibilità a pagare per avere l’autorizzazione ad emettere una certa quantità di sostanze inquinanti: infatti, per ottenere il permesso di produrre fino al livello Qp il produttore è disposto a pagare il prezzo c; un prezzo maggiore renderebbe meno conveniente acquistare le autorizzazioni, in quanto il profitto marginale associato sarebbe inferiore (o, in alternativa, il produttore potrebbe intervenire con misure alternative di riduzione meno costose). Ad un prezzo più basso di c, invece, il produttore desidererebbe acquistare una maggiore quantità di permessi, per espandere la produzione fino al punto in cui il profitto marginale uguaglia tale prezzo. Il sistema dei permessi negoziabili, associato ad un meccanismo di vendita all’asta degli stessi, garantisce almeno a livello teorico la fissazione di un prezzo efficiente degli stessi; la possibilità di scambio premia gli operatori dotati di 46 tecnologia più efficiente, che possono cedere i permessi sul mercato ad un prezzo superiore al costo della riduzione delle emissioni; l’asta competitiva annullerebbe gli effetti dell’inflazione sul prezzo dei permessi. Contrariamente alla tassa pigouviana, questo strumento permette di correlare la quantità di emissioni alla potenzialità dei recettori; in altre parole, in zone nelle quali l’ambiente garantisce una maggior capacità di smaltimento sarà possibile rilasciare una maggior quantità di permessi e, d’altra parte, questi potranno essere limitati dalla presenza eccessiva di altre sostanze inquinanti. Inoltre, il meccanismo consente la definizione chiara delle alternative di costo per il soggetto produttore, chiamato ad assumere decisioni sulle strategie da seguire per la riduzione delle sostanze inquinanti. Nella realtà esistono diversi tipi di permessi negoziabili: Ambient Permit System: i permessi definiscono la quantità di sostanze inquinanti che possono essere presenti in corrispondenza di determinate aree ricettrici e della relativa necessità di abbattimento, non necessariamente uguale ovunque; Emission Permit System: i permessi vengono emessi in relazione alla fonte di emissioni e non strettamente collegati con gli effetti prodotti sulle aree ricettrici; Pollution Offset: i permessi definiscono un limite alle emissioni e valgono per un’area definita. Gli APS permettono una sintonia fine tra obiettivi e strumenti, nel senso che in ogni zona possono essere autorizzate emissioni in modo da raggiungere risultati diversificati; d’altra parte, il mercato dei permessi può diventare eccessivamente frazionato, ed anche la gestione dei permessi può diventare eccessivamente complicata per l’autorità politica. Gli EPS sono più semplici da gestire e la loro omogeneità rende unico il mercato de permessi; d’altra parte difficilmente possono aver efficacia in microzone in cui si concentrano maggiormente le fonti di emissione, che determinano livelli di concentrazione elevati in rapporto alle capacità di assorbimento dell’ambiente. Nella realtà, l’APS è praticamente irrealizzabile; l’EPS è effettivamente impiegato, ma gli studi sui confronti con gli strumenti alternativi forniscono indicazioni contrastanti. Per i sistemi PO non sono state ancora diffuse verifiche empiriche. 47 Capitolo 4 Lo sfruttamento delle risorse 4.1 Le risorse naturali Le risorse naturali sono beni e servizi che l’ambiente fornisce all’attività umana; normalmente, siamo abituati ad un punto di vista –piuttosto riduttivo, come si vedrà in seguito– che si limita a prendere in considerazione quelle oggetto di scambio sui mercati e che entrano nel processo di produzione in qualità di materie prime. Le risorse naturali possono essere rinnovabili o non rinnovabili. Le risorse rinnovabili sono caratterizzate dalla capacità intrinseca di accrescimento, propria del mondo animale e vegetale; un esempio particolarmente semplice di risorsa rinnovabile è dato dal patrimonio ittico. Se, allo stato attuale, è disponibile un dato numero di milioni di unità, l’attività di pesca indurrà una riduzione di questo numero, con un effetto contrapposto a quello delle nascite. Il risultato potrebbe essere quello di un’aumento, di una diminuzione o anche della stazionarietà della disponibilità di pesce nell’anno successivo. Generalmente vengono incluse tra le risorse rinnovabili anche quelle appartenenti ad un altro tipo, caratterizzato invece da un flusso continuo (energia solare, eolica, geotermica, correnti marine ecc.), sottintendendo che lo stock disponibile corrisponde al flusso in un’unità di tempo (per esempio, kilowatt/ora). La peculiarità di queste ultime è che generalmente l’intervento dell’uomo in un dato momento può essere considerato ininfluente sulla disponibilità della risorsa in un periodo successivo, anche se questo non significa che il maggiore o minore grado di sfruttamento non abbia effetti sull’ambiente: un impianto per la produzione fotoelettrica costituirà comunque un elemento di perturbazione dell’ambiente naturale. Semplicemente, stiamo prendendo in considerazione il fatto che la disponibilità in un dato momento è indipendente dall’utilizzo nei periodi precedenti. Per le risorse rinnovabili, questo non è vero: il grado di sfruttamento incide sullo stock esistente, sul flusso che questo è in grado di generare ed, infine, sulla 48 disponibilità nei periodi successivi. Mentre le risorse a flusso continuo possono essere considerate inesauribili nell’orizzonte temporale dell’attività umana, le risorse rinnovabili possono essere esaurite, anche nel breve termine. Le risorse non rinnovabili presentano invece la caratteristica della disponibilità decrescente in seguito all’utilizzo: è il caso delle risorse minerarie. Nell’analisi economica, un aspetto fondamentale relativo alle risorse naturali è costituito dalla scarsità. Il problema, come abbiamo visto nel primo capitolo, si è posto già agli albori della teoria economica. Il punto di vista più radicale, consistente con la visione malthusiana, lo considera in termini assoluti, come mancanza di risorse tale da indurre una riduzione della popolazione fino al livello sostenibile. Un approccio neomalthusiano ipotizza che il livello di sfruttamento delle risorse naturali possa introdurre un tale livello di degrado ambientale da provocare lo stesso effetto. Un punto di vista ricardiano, invece, considera l’effetto della scarsità di una risorsa nell’aumento del suo prezzo di mercato, che induce effetti di sostituzione della risorsa scarsa con altre più abbondanti, oltre a rendere più conveniente l’attività di recupero e riciclaggio. Secondo i punti di vista, gli approcci alla valutazione della scarsità possono essere ricondotti alla misurazione in termini fisici o in termini economici. Un esempio del primo caso è costituito dall’opera di Meadows, a cui si devono le stime riportate nella tabella 4.1, tratta da [18]. In tabella 4.1, sono riportati, in corrispondenza di ciascun materiale, la stima degli anni necessari al suo esaurimento, sulla base delle proiezioni dei consumi in base ai dati storici e delle riserve R allora conosciute, nonché di ipotetiche risorse pari a 5 volte tale valore. È evidente che, se tali stime fossero state corrette, molte di queste riserve sarebbero già esaurite. Studi e previsioni che hanno seguito queTabella 4.1: indici di esaurimento in anni (R=riserve note) R 5xR R Alluminio 31 55 Molibdeno 34 Cromo 94 154 Gas naturale 22 Carbone 111 150 Nickel 53 Cobalto 60 148 Petrolio 20 Rame 21 48 Platino 47 Oro 9 29 Argento 13 Ferro 93 173 Stagno 15 Piombo 21 64 Tungsteno 28 Manganese 46 94 Zinco 18 Fonte: [11], tratto da [18]. 49 5xR 45 49 96 50 85 42 61 72 50 sto approccio sono stati confutati dall’accrescimento delle riserve disponibili in seguito alle esplorazioni; inoltre, spesso gli stessi consumi hanno avuto nel tempo incrementi minori di quelli simulati con le proiezioni a partire da dati storici. Gli approcci basati sul prezzo e sul costo mirano ad individuare la scarsità nell’aumento dei prezzi di mercato reali (al netto degli incrementi dovuti ad inflazione) o nell’aumento dei costi reali di estrazione o raccolta. Tal studi non hanno, finora, dato responsi concordi sull’aumento della scarsità delle risorse. 4.2 Le risorse rinnovabili Le risorse naturali, anche avendo capacità di rigenerazione, non possono accrescersi all’infinito; arriveranno ad un livello massimo compatibile con l’ambiente che le ospita (il loro habitat) e successivamente le variazioni in aumento saranno solo tali da compensare quelle in diminuzione, vale a dire che nasceranno nuove unità in quantità pari a quelle che muoiono nello stesso periodo di tempo. Senza alterazioni dell’habitat il livello della risorsa si manterrà in equilibrio statico. D’altra parte, possiamo considerare che generalmente esiste anche un limite inferiore allo stock delle risorse rinnovabili, al di sotto del quale le stesse non saranno in grado di assicurare un tasso di riproduzione tale da permettere l’accrescimento dello stock, che anzi tenderà all’estinzione. L’andamento dello stock di una risorsa rinnovabile è rappresentato dalla figura 4.1. In figura 4.1 è rappresentato in asse delle ascisse il tempo; nelle ordinate, il livello N dello stock di una risorsa rinnovabile; Nmin rappresenta il livello critico, al di sotto del quale questa tenderà all’estinzione (sentiero descritto dalla curva decrescente con origine in Nmin); al di sopra di tale livello, invece, verosimilmente inizierà a crescere a tassi crescenti fino a che non inizierà ad essere più restrittivo il vincolo costituito dalla competizione nello sfruttamento di un habitat da parte di altre risorse, e quindi il tasso di crescita inizierà a calare: la pendenza della curva inizia a diminuire, fino ad assestarsi in corrispondenza della retta che ha origine in Nmax. La capacità di riprodursi implica che lo sfruttamento della risorsa, entro certi limiti, è compatibile con il suo mantenimento nel lungo periodo; se l’andamento dello stock nel tempo è effettivamente quello descritto in figura 4.1, addirittura una riduzione dello stock rispetto al suo livello massimo è associato a un più elevato tasso di crescita, perciò dopo una iniziale riduzione, il livello si mantiene stabile. Ciò è quanto può accadere, ad esempio, nello sfruttamento di un banco di pesca: con lo sfruttamento, la quantità di pesce si riduce, ma la minore competizione per la sussistenza all’interno dei branchi permette un maggior tasso di sopravvivenza alle singole unità, e questo permette il mantenimento della produttività; in 50 Figura 4.1: Evoluzione delle risorse rinnovabili N max N min 0 t presenza di uno sfruttamento eccessivo, il banco di pesca può depauperarsi fino a che il numero di unità cala ad un livello tale da procurare danni irreparabili al banco. L’andamento del tasso di crescita della risorsa, se vale l’ipotesi sottostante alla figura 4.1, è rappresentato dalla figura 4.2, che evidenzia come un livello inferiore al limite imposto dall’ambiente sia associato ad un tasso di crescita massimo, che rappresenta la massima produttività “compatibile” della risorsa. Questo vuol dire che, a quel dato livello, la raccolta massima sostenibile nel tempo corrisponde, in percentuale sulla disponibilità globale, esattamente al tasso di crescita A: la raccolta della risorsa eguaglia il suo accrescimento nell’unità di tempo, e lo stock si mantiene costante. Lo sfruttamento della risorsa viene rappresentato dalla figura 4.3, in cui il fascio di rette che partono dall’origine rappresentano le possibilità di raccolta con 51 Figura 4.2: andamento del tasso di crescita A 0 N min N max differente grado di intensità. Per semplicità, consideriamo che il processo produttivo impieghi, oltre la risorsa naturale, soltanto il lavoro, e che la funzione di produzione possa essere rappresentata dal prodotto tra la quantità di lavoro e la risorsa naturale disponibile, e che tale prodotto sia costante: questo permette di rappresentare la funzione con una retta, il cui coefficiente angolare consiste con la quantità di lavoro l; l’output corrisponde al valore in ordinata in corrispondenza del dato stock di risorsa naturale. Nella figura 4.3 una quantità di lavoro l1 porta alla riduzione della risorsa al livello N1, e produce una quantità di output R1; la raccolta R è compatibile con il mantenimento dello stock nel tempo, perché eguaglia la ricrescita A. Aumentando la quantità di lavoro impiegata, lo stock si riduce al livello N2, che permette una produzione più elevata anche con il vincolo della sostenibilità, perché la ricrescita 52 ; Figura 4.3: sfruttamento della risorsa l6 A, R =R 9 = =R : R8 : 69 l l5 4 4 5 3 6l 8 R2 3 6l 7 2 R1 0 N 5min <N: 5 6l 1 <N9 <N8 <N7 <N 4 3 2 1 N max è più elevata. Quantità di lavoro che riducano lo stock ad un livello inferiore a quello corrispondente alla massima produttività possono ancora soddisfare, con un prodotto inferiore, il vincolo della sostenibilità; si può però verificare il caso dello sfruttamento eccessivamente intensivo, effettuato impiegando una elevata quantità di lavoro (l6). Questo comporta che il prelievo effettuato sarà sempre maggiore della ricrescita, rendendo lo sfruttamento insostenibile con la riduzione dello stock al di sotto del suo livello critico. Se invece rappresentiamo il prodotto R in funzione della quantità di lavoro impiegata, come in figura 4.4, otteniamo una rappresentazione alternativa della funzione di produzione, che per quantità di lavoro “incompatibili” assume valori, sull’asse delle ascisse, superiori al tasso di ricrescita, il che comporta un decremento continuo della risorsa fino al suo esaurimento. Nella figura 4.4 lo sfruttamento incompatibile è osservabile per quantità di la53 Figura 4.4: sfruttamento della risorsa R, A R L1 L2 L 3 L 4 L5 L6 L voro superiori al l6, in corrispondenza delle quali la curva R si mantiene superiore a quella che rappresenta la capacità di ricrescita A. Infine, consideriamo cosa accade in conseguenza ai comportamenti massimizzanti il profitto. Nel nostro esempio, oltre alla risorsa naturale la produzione impiega lavoro; la funzione di costo sarà costituita dal prodotto tra il salario w e la quantità di lavoro l; possiamo assumere w costante, in quanto dovuto a forze di mercato che interessano anche altri settori di produzione; in questo caso, la rappresentazione della funzione consisterà in una retta crescente dall’origine degli assi cartesiani. Il ricavo G sarà dato dal prodotto tra il prezzo p e la quantità raccolta; se, per semplicità, consideriamo costante anche p, la funzione dei ricavi sarà una semplice trasformata lineare di R, come precedentemente descritta in figura 4.4. In figura 4.5 abbiamo la rappresentazione delle curve di costo e di ricavo. Il comportamento ottimizzante dei soggetti produttori porta a diversi risultati. Supponiamo che i salari siano fissati a w1; in caso di monopolio, o comunque in 54 Figura 4.5: sfruttamento, costi e ricavi R, A ?w 1 ?w> 2 R L1 L2 L3 L4 L presenza di restrizioni all’ingresso di nuovi operatori nel settore produttivo, la massimizzazione del profitto limiterebbe la produzione all’impiego di quantità di lavoro pari a l1, perché un ulteriore, piccolo incremento della produzione sarà più che compensato dall’incremento dei costi. In regime di concorrenza perfetta, nuovi operatori potrebbero entrare nel settore, finché tutti i ricavi vengono distribuiti come salari (si ricordi che in questo esempio semplificato, non ci sono altri fattori da remunerare), cosı̀ che si giunga al livello l2. Se il salario scende ad un livello w2, si ha una diminuzione dei costi con la creazione di nuovi profitti; in regime di concorrenza perfetta si avrebbe un ulteriore ingresso di nuovi produttori, ed il lavoro impiegato potrebbe salire a l4, che è superiore a quello corrispondente al massimo livello compatibile. Un basso costo di sfruttamento, in relazione al prezzo dei prodotti ottenuti dalla risorsa in questione, spinge quindi ad uno sfruttamento insostenibile della stessa. In questo caso, è necessario un rimedio: 1. si può ipotizzare che il mercato sia talmente efficiente da incorporare nel prezzo le aspettative circa la futura riduzione della risorsa; al 55 contrario, si può immaginare che le aspettative abbiano un effetto opposto, spingendo a comportamenti di accaparramento; 2. si può assumere l’intervento dello Stato, con strumenti simili a quelli descritti nel capitolo precedente, per ridurre lo sfruttamento entro limiti sostenibili. 4.3 Sfruttamento e fattore tempo L’analisi svolta nel paragrafo precedente si limita alla statica comparata, non descrive, cioè, il sentiero di assestamento da una posizione di equilibrio ad una nuova (o la transizione dall’equilibrio allo sfruttamento insostenibile e, quindi, all’esaurimento della risorsa. In modo semplificato, il tempo può essere introdotto facendo alcune precisazioni circa l’esempio dello sfruttamento delle riserve ittiche. Immaginiamo che l’accrescimento A della riserva allo stato attuale sia pari, in di pesce attualmente disponibile darebbe percentuale, al tasso a; una quantità luogo, grazie alla riproduzione e crescita, ad una quantità R1 data da: BA @ BADCEF@ HGJILK MA Il valore di , nell’anno successivo, è ottenuto moltiplicando per il prezzo corrente nel periodo, a sua volta pari al prezzo attuale oltre una variazione che può essere positiva, negativa o nulla. XAOBA @ NAOBAPCQF@ RGSITK UV@ RGSITW Il valore di rappresenta il montante, nell’anno successivo, del valore della quantità di pesce . Nel periodo attuale, i pescatori, scegliendo di produrre il valore , sostengono un costo di opportunità, vale a dire la rinuncia al valore nel periodo successivo; tale decisione conviene se il valore attuale di è minore di ; l’indifferenza tra le due possibilità si avrà in caso di uguaglianza, che rappresenta quindi la situazione ottimale nella scelta temporale (limitatamente al punto di vista del produttore). Imponendo tale uguaglianza, la precedente diventa XAOBA V @YF@\ @]F@ ZAR[A ^@_F@`C F@ RGSITK UV@ RGSITW GJIba c@_F@ e moltiplicandoli da cui, dividendo entrambi i membri dell’equazione per per (1+s) si ottiene GSILa C HGdITW \ HGJILK e quindi a C GdITKITW ITKBedW Mf G 56 che diventa a C W e[HGSILK ILK (4.1) La precedente equazione dice che, in equilibrio, il tasso di sconto, al quale viene attualizzato il valore futuro dello stock della risorsa, deve eguagliare la somma algebrica tra l’incremento del valore dello stock –dato da – e l’incremento naturale a della risorsa. Tassi di sconto più elevati comporterebbero un minor valore attuale di e quindi una maggior convenienza allo sfruttamento immediato. Questo significa che, introdotto un certo tasso di sconto, dato dai rendimenti di attività alternative, se una risorsa naturale ha un tasso di riproduzione relativamente basso, le forze di mercato spingeranno comunque verso uno sfruttamento eccessivo, con tendenza all’esaurimento della risorsa. D’altra parte, l’equazione 4.1 non ci mostra, nel tasso di sconto, uno strumento per l’intervento a salvaguardia della risorsa, nel senso che tassi di sconto meno elevati possono essere uno stimolo ad investire per aumentare la capacità produttiva ed accelerare il processo di esaurimento della risorsa stessa. L’intervento dell’autorità, in presenza del fallimento del mercato, dovrebbe seguire gli schemi già noti della fissazione di standard di salvaguardia, di imposte etc. che, nella 4.1 si manifesterebbero attraverso gli effetti su dp. W e\RGgIhK ZARBA 4.4 L’estinzione delle risorse naturali In seguito a quanto detto finora, l’estinzione delle risorse naturali è riconducibile a: 1. le risorse possono essere raccolte ad un costo relativamente basso, come accade nel caso del bracconaggio; 2. lo sconto applicato nelle decisioni di sfruttamento è elevato; 3. la condizione di libero accesso alle risorse può accentuare il loro sfruttamento; 4. le risorse naturali rinnovabili presentano un grado di interdipendenza, perciò lo sfruttamento di una può influire negativamente su un’altra e causarne l’estinzione; 5. sebbene molte specie abbiano un prezzo pari a zero, e quindi non siano sfruttate direttamente, accade che venga invece sottoposto a conversione per usi alternativi il loro habitat: la deforestazione per il taglio del legname e l’impiego agricolo o zootecnico del suolo comporta la riduzione ed il pericolo di estinzione di varie specie; 6. nell’analisi delle decisioni di sfruttamento, il prezzo di riferimento –il prezzo di mercato– corrisponde a quello espresso in corrispondenza della richiesta di consumo di una certa quantità della risorsa, e non al valore assegnato alla sua conservazione (valore di opzione o intrinseco). Come si vede, solo alcune cause sono riconducibili ad una decisione di massimizzazione del profitto nello sfruttamento di una risorsa; altre sono invece da ricollegarsi ad esternalità negative, in quanto lo sfruttamento di una risorsa produce una riduzione di altre per le quali non viene pagato un prezzo. 57 L’allarme lanciato dagli ambientalisti dipende dal fatto che non si conosce l’effetto dell’esaurimento delle risorse naturali sui trend evolutivi; se pure si può ammettere che la scelta di rinunciare ad una risorsa naturale possa essere opportuna all’interno di un’analisi economica ottimizzante, le riserve su tale opportunità sorgono quando si prende in considerazione valori di opzione o intrinseci, e qualora si ammettano le nostre lacune sulle conseguenze di natura biologica; queste ultime possono avere un notevole rilievo dal punto di vista economico per diversi motivi: 1. la perdita potrebbe riguardare specie vegetali o animali da cui sia possibile ricavare sostanze e materiali utili per l’uomo; 2. la biodiversità ha un valore aggiunto nell’attività agricola e zootecnica; l’impoverimento del patrimonio genetico comporta danni all’attività economica a causa di malattie e cali di rendimento; 3. le varie specie viventi, nel rapporto organico del complesso ecosistema, svolgono una funzione di sostegno alla vita; molta parte di questa funzione si svolge attraverso meccanismi non ancora noti. Sebbene sia possibile concepire, a livello logico, che la sostituzione delle risorse naturali con capitale prodotto possa ovviare a questi problemi, una buona ragione per indurre alla cautela è data dall’irreversibilità dei fenomeni di estinzione. 4.5 Le risorse non rinnovabili Per le risorse non rinnovabili, non esiste una capacità di riproduzione, in quanto o l’orizzonte temporale non è compatibile con l’azione dell’uomo, o perché le risorse si sono formate durante il raffreddamento della crosta terrestre e quindi la fase di produzione è definitivamente chiusa. L’equazione 4.1, in questo caso, diventa W iC a (4.2) che significa che lo sfruttamento delle risorse deve essere tale da rendere la variazione del suo prezzo pari al tasso di sconto; in altre parole, se il tasso di riferimento è dell’8 La 4.2 è chiamata “regola di Hotelling” dal nome dell’economista Harold Hotelling, che la enunciò nel 1931 dopo aver effettuato studi sull’economia del settore minerario. Si noti che nella 4.1, come nella 4.2, sono trascurati i costi di raccolta/estrazione; qualora questi vengano presi in considerazione, il prezzo della risorsa è dato dal prezzo di mercato del prodotto estratto, meno il costo di estrazione: jkClmfon 58 e la 4.2 diventa W jhC a (4.3) La differenza tra prezzo di mercato e costo di estrazione viene chiamata royalty con riferimento al diritto del sovrano al pagamento di una rendita per lo sfruttamento delle risorse minerarie. Il valore della royalty tende a crescere in virtù dell’aumentata scarsità della risorsa; il processo di estrazione, che riduce la disponibilità di quest’ultima, deve essere tale da implicare una variazione che soddisfi la 4.3. Come già notato a proposito dello sfruttamento delle risorse rinnovabili, la 4.3 non introduce uno strumento, ma segnala un sentiero ottimale di variazione delle riserve; diminuzioni del tasso di sconto potrebbero aver effetti incerti, in quanto la politica di prezzo della risorsa viene controbilanciata dal possibile aumento della richiesta. Possiamo chiederci, ora, come si ponga il problema della esauribilità delle risorse con la sostenibilità del sistema economico. Un’economia basata su risorse non rinnovabili dovrebbe apparire insostenibile. Tuttavia, ciò non è necessariamente vero: R. Solow (1974) e Stiglitz (1979) hanno dimostrato che è possibile che il livello dei consumi, in termini reali, restino costanti nel tempo se sono soddisfatte, alternativamente, le seguenti condizioni: Wj 1. l’elasticità di sostituzione 1 tra il capitale naturale (le risorse naturali utilizzate nella funzione di produzione) ed il capitale prodotto dall’uomo sia maggiore di uno, oppure 2. l’elasticità di sostituzione è pari all’unità, e la quota di capitale prodotto impiegato nella produzione del PNL è maggiore della quota di capitale naturale; oppure 3. l’innovazione tecnologica è tale da bilanciare l’effetto del tasso di sconto. Un’altra proposta, consistente nell’investimento delle rendite dovute allo sfruttamento della risorsa non rinnovabile in accumulazione di capitale, sotto certe condizioni è possibile che si generi un livello di consumi pro capite costante, sempre che la popolazione non cresca nel tempo (Hartwick, 1977). Questo corrisponde al criterio debole della sostenibilità, che impone uno stock di capitale costante (al netto degli effetti del progresso tecnico, che ne riduce il fabbisogno, e della crescita demografica, che lo aumenta). Va detto che le dimostrazioni si reggono sul presupposto che siano soddisfatte condizioni piuttosto restrittive, fra le quali quelle sulla elasticità di sostituzione tra capitale naturale e capitale prodotto. 1 L’elasticità di sostituzione consiste nella variazione percentuale di un fattore necessaria per compensare una variazione percentuale unitaria di un altro fattore; tale valore dipende dalla funzione di produzione e dall’attuale composizione degli input utilizzati 59 Bibliografia [1] Arrow, K., Bolin, B., Costanza, R., Dasgupta, P., Folke, C., Holling, C. S., Jansson, B-O., Levin, S., Mäler, K-G., Perrings, C., Pimentel D., 1995, Economic growth, carrying capacity, and the environment. Science, 268: 520-521. 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