LA STORIA DI ARGO E
ULISSE
Raccontata e illustrata dalla
classe V
Di Via S. Uguzzone
• Questa è una storia d’amore, di guerra e
di avventura tratta dal libro di Mino Milani.
• Le avventure dell’Odissea e il viaggio del
suo protagonista sullo sfondo.
• Lo stretto legame tra un uomo e il suo
cane, in primo piano.
• L’amore che unisce Argo al suo padrone
Ulisse è più forte della morte.
PAURA DEI CANI
• Paura dei cani. Sì, l’aveva, fino ad allora solamente
Anceo, l’uomo che lo addestrava alle armi, se ne era
accorto. Gli altri li aveva sempre ingannati senza fatica:
quando un cane gli si avvicinava, fingendo di scherzare
s’era sempre tirato indietro o gli aveva gettato un pezzo
di pane per allontanarlo. Per lui i cani erano soltanto
quello: animali pronti a mordere e quindi pericolosi.
Perché? Perché, se tanti altri ragazzi, anche suoi amici,
avevano cani con i quali passeggiavano, giocavano,
correvano? Perché se c’era gente, giovane, vecchia, che
con i cani addirittura parlava?
• Ma come era possibile parlare con i cani?
• Questo Ulisse proprio non lo capiva, anzi, gli sembrava
una cosa pazza o almeno stravagante.
ULISSE INCONTRA ARGO
• Ulisse sedette con le spalle contro un tronco.
• E solo allora si accorse d’avere ancora con se il
cucciolo che aveva strappato alla terra.
• Ne fu stupefatto: quasi non vi credette, dapprima.
Un cane! Lui aveva preso un cane, se l’era tenuto
stretto e adesso lo teneva là, tra le mani. Possibile?
• Certo, possibile. Guardò, ancora stupefatto, quel
cucciolo che aveva salvato.
• Un piccolo cucciolo, cosi piccolo che l’avrebbe
potuto tenere sul palmo della mano. Aveva muso
aguzzo, lunghe orecchie, coda corta, zampette che
tremavano, occhi pieni di terriccio e di lagrime.
AMICIA TRA ULISSE E ARGO
• Ulisse gli sorrise: che cos’hai
da tremare? - Mormorò, - Non
devi aver paura di me, non
devi aver più paura di nulla,
adesso.
• Tutto
cambiò,
da
quel
momento.
• Parve al giovane Ulisse che il
mondo si fosse fatto più bello.
Non appena poteva, andava a
passeggiare per l’isola con il
suo cagnolino, che diveniva
grosso a vista d’occhio.
• Erano sempre insieme; ed ecco quello che fino
ad allora era mancato a Ulisse: un compagno
con il quale dividere non le parole (di amici ne
aveva e con essi parlava ogni giorno), ma i
pensieri o almeno certi pensieri. Non sempre un
ragazzo, o un uomo, può tenere certe idee
segrete solo per sé: deve rivelarle parlando.
Ulisse parlavo con Argo. Durante le passeggiate
gli parlava, gli confidava i suoi desideri e le sue
speranze, i suoi sogni e anche le sue paure; e
concludeva sempre dicendo: - Hai capito, Argo?
STORIE DI CACCIA
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Argo era davvero un cacciatore nato, e
apprese ben presto quello che Ulisse
voleva da lui. Nel giro di qualche
settimana imparò a entrare nella
foresta senza alcun rumore.
Capì di dover fiutare la selvaggina e di
annunciarla al padrone fermandosi di
colpo e guardando fisso verso il punto
nel quale essa si trovava; capì che a
un segnale, doveva stanare la lepre
spaventandola e facendola uscire dal
nascondiglio, in modo che il padrone
potesse vederla bene, prendere la
mira e scagliare la sua freccia.
Sapeva anche che non doveva
mangiare la lepre o la colomba trafitti
dal dardo, ma prenderli per i denti e
portarli al padrone.
Era
felice
quando
Ulisse
gli
mormorava: - Bravo, bravo, Argo – e
lo carezzava.
Si sentiva pieno di gioia senza limite.
Tutto avrebbe fatto, per il suo padrone.
IL TEMPO DELL’AMORE
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Erano passati cinque anni. Erano stati anni meravigliosi, per Argo. Il vecchio
Laerte, con la moglie Anticlea, s’era ritirato in una casa di campagna,
passando la corona ad Ulisse: Argo era dunque il cane del re.
Amava molto la regina Penelope. Argo le si accucciava accanto e
quietamente abbassava il capo tra le zampe. Tutti credevano che dormisse:
in realtà era più sveglio che mai. Le sue orecchie non perdevano un solo
rumore, i suoi occhi erano soltanto socchiusi e non perdevano un
movimento.
Fu felice, come può esserlo un cane, quando (dopo due strani giorni
d’agitazione, con donne che andavano e venivano nelle stanze di Penelope,
e con Ulisse che camminava taciturno in su e in giù e non badava più a
nulla) s’era fatto un gran silenzio e in esso erano risuonati quei lamenti non
diversi da quelli dei cuccioli che avevano appena aperto gli occhi. Erano i
vagiti di un bambino appena nato: lo seppe quando vide Ulisse uscire dalla
reggia esultante, tenendo alto nelle forte mani suo figlio e annunciando alla
folla in attesa: - È nato il principe Telemaco!
ODORE DI PARTENZA
• - Argo, se hai paura, ti lascio, a
casa e non ti porto in guerra
con me. Capito?
• Argo s’immobilizzò, gli occhi
d’un tratto scintillanti. Sì, aveva
capito; il padrone aveva
minacciato di lasciarlo a casa,
andandosene da solo in guerra
chissà dove. Tacque e restò
perfettamente in mobile senza
un solo guaito, mentre il
padrone gli detergeva la ferita.
• Quando la cosa fu fatta, Ulisse
fece: - Ecco, adesso le cose
vanno meglio. Andiamo al
porto, Argo. Vediamo come
procedono i preparativi.
LA GUERRA SI AVVICINA
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Qualche giorno più tardi, mentre sedevano alla tavola, Ulisse mormorò:
- Anche tu fai come le altre donne di Itaca, Penelope? Anche tu non parli? La giovane
regina cercò di sorridere, ma non vi riuscì. Rispose con una domanda:
- Hai visto mai Elena, moglie di Menelao re di Sparta? –Sì, una volta, un paio di anni
fa.
- È bella come dicono?
- È molto bella, certo.
Al punto di … di provocare una guerra?
Ulisse si strinse nelle spalle:
- Non lo so. So invece che se fosse fuggita ad Atene, piuttosto che a Troia, la guerra
non ci sarebbe. I Greci vogliono distruggere Troia, Penelope, e quella di Elena è una
scusa. Tu, in ogni modo, sei più bella.
Penelope sorrise :
Dicono che tu sei molto astuto, Ulisse, ed è vero, e io so che sai mentire bene.
Ma ora, dimmi la verità -. Si oscurò in volto e chiese:
Quella contro Troia sarà una guerra lunga, vero?
Sì, credo di sì.
Sarete lontani … Un anno? Due? – Penelope parlava con un filo di voce.
Un anno, due. Ma forse tre.
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T’aspetterò. Andrò ogni giorno alla Punta del Mattino, a guardare il mare, a
vedere se…Penelope non poté continuare, perché con dolcezza Ulisse le posò l’indice
sulle labbra; mormorò poi:
Non devi farlo, Penelope. O non devi farlo prima di un anno. Argo!Esclamò, perché il cane era entrato impetuosamente, e latrava guardandolo
con occhi pieni d’allarme.
Seguirono il cane fino al promontorio dell’ulivo, e restarono a guardare in
silenzio il mare.
Penelope chiese:
Allora… è la partenza?
Ulisse prese la moglie tra le braccia.
I PREPARATIVI PER IL VIAGGIO
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Nel giro di tre mesi, furono pronte
dodici navi, ognuna capace di
portare sessanta guerrieri ognuna
con vele nuove e volenterosi:
Troia era molto lontana, il viaggio
sarebbe
stato
assai
lungo.
All’eccitazione dei primi giorni
erano seguiti una calma pesante e
un gran silenzio.
A non parlare erano soprattutto le
donne, che di lì a un po’
avrebbero visto partire i figli, i
mariti, e i fidanzati non era la
prima guerra che Itaca e le sue
isole affrontava, quella: non
sarebbe stata una guerra come le
altre.
Questo tutti lo sapevano.
ULISSE PARTE PER LA GUERRA
DI TROIA
• Poco dopo la nave, sotto la
spinta dei remi, si staccò dalla
riva.
• Argo, immobile sotto l’albero,
la guardava.
• Restò a guardarla fino a
quando non fu che un punto
lontano e indistinto sul mare.
Restò ancora là, immobile.
All’orizzonte tremolante non si
vide più nulla.
• Solo allora, avvilito, deluso,
ferito si mosse e s’avviò
adagio alla reggia
IL PRIMO ANNO DI GUERRA
•
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Era trascorso un anno, dalla
partenza di Ulisse.
I greci erano sbarcati sulla costa
troiana, avevano tirato a secco le
navi, preparandosi a piantare le
loro tende di fronte alle orgogliose
mura della città, che si vedeva là,
infondo, alta e possente.
Lo stesso giorno dello sbarco,
Ettore aveva condotto i suoi
guerrieri al primo attacco contro i
nemici; Ulisse e gli Itacesi si erano
trovati in combattimento quando
ancora avevano i sandali bagnati
d’acqua di mare s’era sparso il
primo sangue, e tutta via s’erano
anche alzate le prime tende.
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•
Il supremo capo dei Greci,
Agamennone, aveva ordinato che
tutto attorno alle tende si
piantasse una grande palizzata;
per
procurarsi
il
legname
necessario, i Greci avevano
abbattuto un’intera foresta che
sorgeva sulle vicine colline.
Nel giro di sei mesi, alle grandi
pietre che cingevano Troia s’erano
contrapposti i tronchi formidabili
che proteggevano il campo greco.
I comandanti dei vari contingenti si
radunavano ogni giorno per
discutere le operazioni da farsi.
Ogni giorno gruppi di cavalieri
galoppavano verso Troia, si
scontravano
coi
nemici,
uccidevano ed erano uccisi.
S’era compreso subito che la
guerra sarebbe stata lunga e dura.
Dalla Punta del Mattino, ogni
giorno Argo guardava il mare.
NOSTALGIA
• C’era ad Itaca un promontorio che si spingeva a picco sul mare: la
Punta del Mattino,
• lo chiamavano, perché di là lo sguardo spaziava verso oriente e
quindi, quando il sole
• sorgeva, lo si vedeva emergere dalla linea dell’orizzonte come un
perfetto disco scintillante. Ogni giorno, dalla partenza delle navi,
Argo si recò sulla Punta del Mattino, e là s’ accucciava sotto un
grande olivo stormente, e guardava il mare.
• Non si stancava di guardarlo, gli occhi fissi alla incerta linea sulla
quale esso incontrava il cielo. Laggiù era scomparsa la nave del suo
adorato padrone: laggiù quindi, egli sarebbe tornato. Un giorno
sarebbe apparsa la sua nave, carica di trofei di guerra e del bottino
della vittoria, e sarebbe stato bello vederla avvicinarsi; e vedere poi
il padrone scendere per primo…
LA LUNGA GUERRA CONTRO
TROIA
• Era trascorso il secondo anno di guerra.
• Era come se vi fossero due città, ora, una
davanti all’altra. I Greci avevano tentato di
portarsi più davanti e di serrare Troia d’assedio,
ma avevano presto abbandonato l’idea.
Impossibile rimanere troppo a lungo fuori dalla
palizzata, non v’era da mangiare, a torno a Troia
e nemmeno da bere perché tutte le sorgenti e
pozzi erano stati avvelenati.
• In settimane e settimane nulla accadeva: per
ingannare il tempo i Greci organizzavano gare di
corsa, di lotta, di salto, e lo stesso facevano i
Troiani nella loro città.
• Poi, forti schiere contrapposte
andavano l’una contro l’altra
nella pianura, si davano
battaglia, e di nuovo l’aspro
terreno
beveva
giovane
sangue.
• Se i Greci avevano fiducia
nella vittoria, i Troiani non
credevano alla sconfitta: il
nemico, imprigionato nel suo
stesso campo, tra il mare e
l’imprendibile Troia, sarebbe
stato prima o poi costretto ad
andarsene.
10 ANNI DI GUERRA
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Sette, otto, nove anni di guerra. Nessuno dei guerrieri greci era più come
quand’era partito. La guerra aveva reso tutti più forti, più duri, più crudeli.
Tutti ormai stanchi di combattere, nessuno però voleva cedere.
Il decimo anno fu il più duro, ma fu quello decisivo. Cominciò male per i
Greci perché, avendo litigato con Agamennone, Achille si rifiutò di tornare in
battaglia, depose le armi e con i suoi guerrieri rimase nel suo campo, come
un indifferente spettatore della guerra. Ma quando Achille seppe che
Patroclo, suo diletto amico, era stato ucciso in battaglia per mano di Ettore,
fu travolto dal dolore; il dolore si tramutò in terribile ira di guerra: riprese le
armi, pensando ben più a vendicare la morte dell’amico che non alla guerra.
Il giovane eroe fece strage di nemici, affrontando e uccidendo lo stesso
Ettore, di cui straziò il cadavere, legandolo sul carro, e trascinandolo nella
polvere attorno all’atterrita Troia.
Nemmeno questo, tuttavia bastò a far cadere la città. Gli altri figli di Priamo
continuarono nella difesa: e toccò a Paride, il rapitore della bella Elena, di
far vendetta di Ettore. Una sua freccia colpì e uccise Achille.
La guerra dunque continuò.
Finché non intervenne Ulisse con la sua astuzia.
IL CAVALLO DI TROIA
• I Greci fecero come aveva detto Ulisse.
• Fabbricarono un gigantesco cavallo di legno, nel cui ventre si
nascosero i più audaci tra i capitani; tutti gli altri, con tutte le
navi, salparono abbandonando il campo e mostrando di
rinunciare all’assedio di Troia.
• Proprio come aveva detto Ulisse, i Troiani uscirono guardinghi
dalla città, s’avvicinarono al grande cavallo che i Greci avevano
lasciato sulla spiaggia quale dono a Poseidone. Lo trascinarono
nella città, non sapendo di trascinare, con esso, anche i più
terribili dei loro nemici.
• A notte fonda, costoro uscirono dal cavallo, abbatterono le
sentinelle, aprirono le porte di Troia: a un segnale, tutte le navi
greche tornarono.
• Troia fu invasa e distrutta.
• La guerra, che la forza delle armi non era riuscita a concludere,
fu conclusa dall’astuzia di Ulisse.
IL VIAGGIO DI RITORNO
• Quando Troia fu un cumulo di rovine, i Greci
alzarono le vele e tornarono alla loro terra. Argo
attendeva sulla Punta del Mattino.
• Non poteva certo sapere che il suo modo di
comportarsi durante la caccia aveva ispirato al suo
padrone l’idea di prendere Troia. Nella sua mente
però. Tornava spesso il ricordo delle cacce al
cinghiale … come lontani erano quei tempi,sempre
più lontani!
• La notizia della caduta di Troia si sparse rapida.
• Ad Itaca l’emozione fu grande. Ulisse stava
rientrando finalmente a casa. Sua era la gloria!
Argo era corso alla punta del Mattino, s’era messo
sotto l’olivo e aveva fissato gli occhi all’orizzonte.
Nessuna nave, ancora. Ma era questione di
settimane, di qualche mese e la flotta sarebbe
apparsa. Argo sentiva il cuore pulsargli forte nel
petto. Il padrone stava tornando!
L’ISOLA DEI CICLOPI
• Le dodici navi di Ulisse avevano fatto rotta a Nord,
giungendo in una strana terra, sovrastata da un
monte dal quale salivano al cielo colonne di densi
vapori grigi: - Un vulcano, - aveva mormorato
qualcuno, - potremmo essere dunque nell’isola dei
Ciclopi …
• I Ciclopi: giganti con un solo occhio nel mezzo della
fronte, pastori di capre e pecore, ma selvaggi,
feroci e capaci di nutrirsi di carne umana.
• Ulisse ne aveva sentito parlare e volle andarli a
vedere, lasciando le navi in una piccola baia,
prendendo terra con dodici compagni, e avviandosi
senz’altro verso la caverna che apriva nella
montagna la sua bocca nera e sinistra.
• Quanto seguì fu terribile.
POLIFEMO
•
•
Ulisse e i suoi vennero sorpresi
dal ciclope Polifemo che, furioso
di vederli nella grotta ove
conservava le sue cose, le sue
greggi e i suoi formaggi, agguantò
due Itacesi, li sfracello contro la
roccia, li divorò, per poi sazio
addormentarsi, dopo aver chiuso
l’ingresso della sua tana con un
macigno
così
enorme
che
nemmeno cento uomini avrebbero
potuto smuovere.
Il mattino seguente, il ciclope
uccise e mangiò altri due uomini,
per poi togliere il macigno e
sospingere fuori il suo gregge; lo
stesso fece a sera, quando tornò.
•
•
•
Quella stessa orrenda sorte
sarebbe toccata a Ulisse e ai suoi
compagni superstiti, se egli non
avesse
impiegato
la
sua
intelligenza e la sua astuzia:
mentre Polifemo dormiva, infatti,
lo accecò piantandogli un tronco
rovente nell’unico occhio.
Sfuggiti alle mani del ciclope, che
urlando di dolore e di disperazione
rabbiosamente
frugava
la
caverna, Ulisse e i suoi uscirono
da quella tetra prigione, tenendosi
aggrappati al lungo vello del
ventre delle pecore.
Polifemo, ormai cieco, chiese
vendetta a Poseidone, suo padre:
- Vendicami! Non lasciare che
Ulisse torni alla sua isola! O se
ritornerà. Fa’ in modo che sia
ridotto ad essere un mendicante!
LA MAGA CIRCE
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La nave d’Ulisse era approdata, di lì a qualche tempo, all’isola Eea, il
piccolo regno di Circe, la maga.
Aleggiava, in quell’isola, un senso di mistero; Ulisse l’aveva sentito, e aveva
deciso di procedere all’esplorazione del posto con molta cautela, dividendo i
suoi uomini in due schiere, una guidata da lui, l’altra del fedele Eurìloco.
Fu questi a scoprire in un silente bosco il palazzo dove Circe viveva: era
custodito da lupi, leoni, bestie feroci: ma che feroci non erano e che, visti
gli uomini, si erano fatte loro incontro uggiolando come cani.
Eurìcolo s’era allarmato; e quando subito dopo le porte del palazzo s’erano
aperte, e sfolgorante di bellezza era apparsa Circe, che aveva invitato tutti
ad entrare e a sedere alla sua tavola, egli diffidente non s’era fatta avanti.
Nascosto, poi, aveva visto ciò che era accaduto: dopo un lauto banchetto,
Circe aveva offerto agli ospiti uno strano liquore, strano davvero perché chi
l’aveva bevuto, al tocco di una bacchetta che la maga teneva nella mano,
s’era trasformato in maiale.
Era stato un branco di maiali quello che Circe, sprezzante e crudele, aveva
sospinto in un recinto pieno di fango …
ULISSE E TIRESIA
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“Vai oltre il ritorno.
Porta sulle spalle un remo,
abbandona la casa e vai errante nel sole fino a gente che non batte il
dorso del mare,
che non conosce i cibi conditi col sale, che confonderà il remo con un
ventilabro, Il rastrello per spargere intorno sementi
per pettinarle nelle crine dei venti.
Lì poserai il remo, offrirai sacrifici a Poseidone.
La morte ti coglierà dal mare,
consunto da splendente vecchiezza, tra gente felice attorno.
Questo ti dico senza tema né dubbio”
ARGO ALLA PUNTA DEL MATTINO
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Ogni giorno, prima dell’alba,
usciva dal cortile della reggia e
andava svelto alla Punta del
Mattino: svelto, per non perdere
nemmeno un minuto di luce;
restava là sotto l’olivo fino al
tramonto, poi rassegnato tornava
a casa.
Anche se lo sapevano, i servi gli
chiedevano: - Dove sei stato,
cagnaccio? –
E la regina Penelope gli
mormorava:
- È inutile andare alla Punta, Argo,
prima che torni dovrà passare
molto tempo…Ma lui sapeva che il giorno
seguente avrebbe fatto lo stesso.
La gente s’era abituata a vederlo
compiere quella strada.
Dopo un po’, anzi, smisero di
chiamarlo Argo e lo chiamarono “Il
cane della Punta del Mattino”.
LE SIRENE
• Ebbene, quando la nave era
stata sul punto di passare
davanti all’isola delle sirene,
Ulisse aveva ordinato ai suoi
uomini di turarsi le orecchie
con tappi di cera, perché
fossero
sordi
al
canto
irresistibile: ma lui, ansioso di
udirlo, s’era fatto legare
all’albero maestro: - Mi vedrete
parlare - aveva detto, - E forse
smaniare: non badate a me.
Non udrete la mia voce, ma
sappiate che vi ordino solo di
remare con più forza.
• Così era accaduto; legato
all’albero, Ulisse aveva udito il
canto delle sirene, era stato
conquistato, stregato vinto da
esso: aveva gridato che lo
sciogliessero, per gettarsi poi
in mare e nuotare fino all’isola
incantata dalla quale esse lo
chiamavano: ma i suoi, fedeli
agli ordini, avevano remato
con maggior lena, fino a
quando le voci delle irresistibili
fanciulle non s’erano intese
più. Così Ulisse fu l’unico
uomo a sentir le sirene cantare
e a restare vivo.
ULISSE E LE VACCHE SACRE
• Ma le sventure non erano finite.
• Superato lo stretto tra Scilla e Cariddi, Ulisse e superstiti infatti
erano giunti nell’isola di Tinacria: “Laggiù, - aveva ammonito Circe, vedrete splendide mandrie, bellissimi greggi: attenti a non abbattere,
per saziare la vostra fame, nemmeno una di quegli animali! Sono
sacri a Zeus. Chi alza su di essi la mano, è destinato ad essere
inesorabilmente distrutto”.
• Ulisse aveva dunque ordinato ai suoi di non
toccare quelle giovenche sacre a Zeus, quegli
splendidi tori, quei vitelli che liberi
pascolavano in verdissimi prati, e per qualche
tempo i suoi ordini erano stati rispettati; ma
un giorno che egli profondamente dormiva, i
suoi uomini avevano disubbidito, catturando,
macellando ed arrostendo diversi di quei
sacri animali.
• Quando Ulisse s’era destato ed aveva visto i
suoi banchettare, un’angoscia infinita era
scesa su di lui: - Zeus, - aveva gridato al
cielo,- non io t’ho offeso! Non io sono
colpevole! E voi, sciagurati, voi che non avete
rispettato i miei comandi, avanti, mettete in
mare la nave! Via subito di qui, dove
commettereste altre follie! Forse, Zeus avrà
pietà di noi …
• No. Zeus non avrà
avuto pietà di loro.
• Il fulmine che egli
scagliò sulla nave,
incendiandola
ed
affondandola in un
turbine di schiuma,
solo un uomo tra tutti
risparmiò: Ulisse
CALIPSO
•
•
Faccia all’ingiù nella sabbia,
Ulisse sarebbe probabilmente
morto, se Calipso non lo avesse
visto, non fosse accorsa a
sollevarlo, a medicargli le ferite,
non gli avesse dato da bere e da
mangiare. L’aveva poi condotto
nella
grotta
dove
abitava,
nascosta da un intrico di verdi
alberi, e di cespugli fioriti, tra i
quali scorrevano ruscelli d’acqua
freschissima.
Era, quella di Calipso, un’isola
tanto
remota
quanto
bella:
bianche
spiagge,
rilucenti
scogliere, boschi, prati fioriti, alberi
carichi di frutta. Vi s’udiva solo il
rumore del mare, del vento, e il
cinguettio degli uccelli.
•
•
•
•
•
•
Un posto meraviglioso, per viverci;
e la ninfa era bella, con i lunghi
capelli
biondi,
e
cantava
dolcissimamente : il suo canto non
era però traditore, come quello
delle Sirene.
Ella non voleva tenere Ulisse
come prigioniero: ma come ospite.
E dove sarebbe potuto andare,
Ulisse, senza una nave?
Come avrebbe potuto riprendere il
mare? Dov’era, l’isola di Calipso?
In quale mare?
E dov’era la sua Itaca? Quale
rotta avrebbe dovuto seguire, per
giungervi?
Così Ulisse s’arrese.
Rimase diversi anni con Calipso,
cui era riconoscente. Ma col
cuore, era altrove: era ad Itaca,
nella sua reggia, con Penelope,
con Telemaco; era nelle sue
foreste, con Argo…
ULISSE NELLA TERRA DEI FEACI
• In diciassette giorni, Ulisse fu
in vista d’una grande isola, che
raggiunse anche se
Poseidone, irriducibile nella
vendetta, suscitò una bufera
che mandò in frantumi la
zattera.
• Naufrago, ma salvo, Ulisse si
trovò nella terra dei Feaci, che
lo accolsero con onore,
udirono da lui il racconto delle
sue incredibili avventure, e di lì
a qualche giorno apprestarono
la nave destinata a
raggiungere Itaca.
ITACA FINALMENTE!
• La stella del mattino brillava
chiarissima.
• Non v’era una sola nube, nel
cielo. Il mare era calmo e
liscio, e in esso si specchiava
Itaca.
• C’era in Itaca una piccola baia,
la baia di Forchis: due punte di
costa rocciose si protendevano
nel mare, come braccia tese a
dar benvenuto alle navi; anche
quando lo Ionio s’agitava livido
di tempesta, nella baia l’acqua
era tranquilla.
• Fu dritta alla baia di Forchis che andò la
nave dei Feaci, trasportando il dormiente
Ulisse, che deposero sotto i rami d’un
antico ulivo, tra le foglie secche, sulla
morbida sabbia.
• Accanto a lui, in un mucchio prezioso,
sistemarono i doni che gli avevano fatto.
• Poi ripresero il mare.
RITORNO A ITACA
• Ulisse si destò quando il sole era ormai alto nel
cielo. Ancora seduto sulla sabbia, si guardò
introno. “Dove sono?” si chiese.
• Non riconosceva Itaca: da troppo tempo ne era
lontano. Pensò: “Se questa fosse Itaca, Argo
m’avrebbe fiutato, sarebbe già venuto da me
…”
• Argo. Ma era ancora vivo? I cani non vivono
più di vent’anni e proprio vent’anni lui era stato
lontano … Lo prese un senso di malinconia.
IL RACCONTO DI EUMEO
•
•
•
Ulisse pensò di fingersi straniero e si tolse l’abito che indossava, lo fece a
brandelli, lo calpestò, rivestendosi poi con quegli stracci; si coprì il capo on
la polvere, imbiancando i capelli, prese un ramo, e reggendosi ad esso
come un bastone, andò curvo e zoppicando verso la casa di Eumeo.
Eumeo accolse Ulisse, nella sua casa, prese qualche pezzo di carne, lo
pose su alcune foglie e lo porse a Ulisse: - Mangia vecchio, devi essere
forte, se vuoi ascoltare la brutta storia che sto per narrarti.
E cominciò a parlare. Gli disse di Argo. “Il cane di Ulisse, da quando il suo
padrone era partito, la bestia andava ogni giorno alla Punta del Mattino, e
stava lì a scrutare il mare per vedere se comparivano le dodici navi che
riportavano a casa il re… Non l’ho più visto, deve essere morto…”
LA TELA DI PENELOPE
•
•
E continuò col suo racconto, disse
dei Proci, dei pretendenti alla
mano di Penelope, di come
sfruttavano le ricchezze di Itaca
gozzovigliando nel palazzo di
Ulisse. “Penelope è fedele al suo
sposo, certa che tornerà, e fino ad
ora ha respinto tutte le offerte, i
doni e anche tutte le minacce dei
Proci, ma … non potrà continuare
a farlo perché qualcuno a svelato
ai pretendenti il segreto della
regina.
Vedi vecchio, Penelope aveva
trovato un sistema per rimandare
la sua decisione. Diceva ai Proci
che stava tessendo il lenzuolo
funebre per Laerte, il vecchio re,
padre di Ulisse, e che avrebbe
scelto chi sposare solo quando la
tela fosse finita.
•
Di giorno, davanti a tutti filava la tela,
di notte, segretamente, disfaceva il
lavoro.”
INCONTRO CON ARGO
•
•
•
•
•
•
Che cos’era quello che sentiva?
Perché il suo vecchio cuore s’era
messo a pulsare così? Perché
sembrava che il sangue gli si
rimescolasse nelle antiche vene?
Argo alzò adagio la testa e fiutò l’aria.
Nulla.
E che cos’era allora, quel senso
d’allarme che lo aveva preso? Che
cosa stava per accadere?
Forse il padrone …
La testa del cane tornò ad abbassarsi.
No. Il padrone non c’era più. Meglio
così. Non avrebbe voluto farsi vedere
da lui, ridotto com’era, vecchio
miserabile cane buono a nulla e pieno
di zecche e nutrito con ossa già
spolpate e poveri rifiuti buttati là,
accanto a quel cumulo di fradicia
paglia dal quale non riusciva più
nemmeno ad alzarsi.
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Eumeo e Ulisse giunsero davanti
alla reggia di marmo; e nel
rivedere la sua dimora, Ulisse fu
travolto dalla commozione. Eumeo
gli parlava ma Ulisse non aveva
udito neppure una parola.
Immobile, stava fissando verso la
grande porta della reggia.
Aveva visto Argo.
Argo.
Una stretta al cuore, un senso di
smarrimento.
Argo. Stava su quel mucchio di
vecchia paglia, addossata al
muro; magro, inzaccherato, con il
vecchio muso posato sulle due
zampe anteriori, gli occhi chiusi, in
un atteggiamento di
rassegnazione e d’abbandono;
era, pensò sgomento Ulisse, un
cane cui nessuno dava nulla e che
aspettava solo di morire.
• Lo rivide fulmineamente come quando lo aveva lasciato,
bello, forte, attento, scattante. Ah, quanto era mutato da
quello!
• Ulisse non aveva versato lacrime quando s’era accorto
d’essere a Itaca, non quando aveva saputo di ciò che
accadeva a sua moglie, né quando aveva visto suo figlio
Telemaco. Da anni non piangeva.
• Ora sentiva improvvise lacrime bagnargli le ciglia.
• “Non devo piangere, Argo” si disse; e con uno sforzo
supremo vinse l’impulso di correre verso il cane, di
chiamarlo, di abbracciarlo, di prendergli il muso tra le
mani: se l’avesse fatto, avrebbe rivelato chi era e
sarebbe stato perduto.
ARGO MUORE
• Improvvisamente Argo lo sentì, e un brivido lo scosse dalla testa alla
coda: un brivido ben più profondo di quello che aveva provato prima;
ben più di prima il vecchio cuore pulsò forte, e l’antico sangue gli
balzò nelle vene. Che cos’era?
• Argo allargò le narici, fiutò l’aria … Quell’odore che non sentiva da
anni … che accadeva? Era possibile, era vero? … Fiutò ancora: ma
quello … ma quello era … quello era l’odore del suo padrone! Il
brivido divenne più intenso, Argo aprì gli occhi, guardò …
• Eccolo. Ulisse, il padrone. Lui.
• Era lui, era tornato! Non c’erano errori; diverso da quando se ne era
andato, sì: un vecchio, sembrava; ma era lui, e lo stava guardando.
• Il brivido divenne solo gioia, Argo mosse la coda, e da quanto tempo
non lo faceva? Alzò le orecchie: era tutto così bello! La vita
ricominciava! Il padrone era tornato, era là, lo guardava, doveva
correre da lui …
• Argo cercò di muoversi, di alzarsi … Invano.
• Lo sgomento lo conquistò. Non riusciva a muoversi nemmeno ora
che vedeva il suo padrone: come era possibile? No, no, doveva
alzarsi, correre, mostrare d’averlo riconosciuto, di essere quello di
sempre …
• Chiamò a raccolta tutte le sue forze, e continuava a muovere la
coda; sì, padrone, ora corro da te, lo vedi? Muovo la coda, ti mostro
di essere felice, sono felice.
• Troppo felice. La troppa felicità uccide.
• Argo sentì qualcosa che si rompeva in lui; il fiato gli mancò, la luce
gli mancò; nell’ombra che scese rapida su di lui ebbe ancora la
visione del suo padrone.
• Poi più nulla.
• Ulisse comprese.
ULISSE E LA SUA BALIA
• Ulisse entrò nella reggia da mendicante straniero.
Nessuno lo riconobbe, anzi, venne deriso e
picchiato dai Proci. Penelope intervenne dicendo
che nella casa di Ulisse tutti avevano diritto ad
essere ben accolti. Così Penelope chiamò Euriclea
e le chiese di lavare i piedi allo straniero, come era
in uso a quel tempo.
• Euriclea era stata la balia di Ulisse e lo aveva visto
crescere. Con un bacile colmo d’acqua tiepida, gli
si avvicina. Inginocchiatasi davanti a lui, ancor
prima di cominciare a lavarlo mormora, con gli
occhi rossi di pianto: “Ah, straniero! Di tanta gente
che è venuta qui … ebbene, mai nessuno ho visto
che somigliasse tanto a Ulisse!”
• “Boh, i vecchi si somigliano tutti!”
•
“Dammi
dunque la tua gamba. Forse è proprio come dici
tu.”
• Ulisse porge la gamba ad Euriclea, che comincia a
lavarla. Ma, improvvisamente, l’eroe si ricorda d’avere,
proprio su quella gamba, una cicatrice, ricordo di una
apertagli dalla zanna di un cinghiale molti molti anni
prima, durante una partita di caccia, fatta con Argo.
• Euriclea ben conosceva quella cicatrice, perché cento e
cento volte gli aveva lavato le gambe …
• Fa per alzarsi. Troppo tardi. Lavando la gamba Euriclea
ha raggiunto la cicatrice, e la sta toccando, con mani che
tremano e la riconosce. Ha un brivido, lascia cadere
stupefatta e senza fiato, il piede di Ulisse; l’acqua del
bacile, urtato, si sparge per terra; con angoscia e gioia
insieme Euriclea sta per gridare, ma riesce soltanto a
balbettare.
ULISSE TENDE IL SUO ARCO
• La vendetta che l’accecato
ciclope Polifemo aveva
implorato, era stata compiuta
interamente da Poseidone, dio
del mare.
• Era entrato nel suo palazzo
come un mendicante, ora,
mentre tendeva l’arco,
pensava “ Nella vendetta per
le offese che Proci e servi
infedeli hanno fatto a me, a
mia moglie e a mio figlio,
vendicherò anche te, fedele
Argo”
ULISSE E TELEMACO AFFRONTANO I PROCI
• Con l’aiuto di
Telemaco, di Eumeo
e di qualche altro
servo fedele, Ulisse
sterminò i Proci
liberando dalle loro
prepotenze la sua
reggia e la sua isola.
ULISSE RIABBRACCIA PENELOPE
• Ulisse ritrovò intatto l’amore di Penelope.
• Stanco di battaglie, in Itaca visse da re, dopo
aver appeso al muro della grande sala le sue
armi.
• Non riprese però ad andare a caccia, come
aveva fatto in gioventù.
• E quando qualcuno gli diceva:
• - Ulisse, hanno visto un enorme cinghiale nel
bosco vicino alla baia di Taxos – rispondeva
soltanto con uno strano sorriso.
RICORDO DI ARGO
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•
Poi si alzava, e tutto solo andava fino alla
Punta del Mattino. Là, sotto il grande
olivo, aveva sepolto Argo, dopo averlo
liberato dalle zecche, dopo averlo lavato
e avvolto in un telo candido.
Sedeva sull’erba, guardava il mare, ne
ascoltava il rumore incessante, parlava
sommessamente, narrando episodi della
guerra di Troia, o del suo lunghissimo
viaggio di ritorno.
Qualche pastore che passava di là per
caso, vedendolo e sentendo la sua
bassa voce, rimaneva stupefatto, e
pensava “il re parla da solo”.
No, Ulisse non parlava da solo. Parlava
ad Argo, ed era cerco che il cane lo
ascoltasse.
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LA STORIA DI ARGO E ULISSE [modalità compatibilità]