Motoracconto
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Il “piccolo Tibet”
A caccia di emozioni nell’India del nord
attraverso il Lahul, lo Spiti, lo Zangskar
e il Ladakh.
Le ruote di un gruppo di Royal Enfield
Bullet, mentre attraversano le lande
desolate di questi ambienti tibetani allo
stato puro, sembrano danzare al ritmo
di una musica lontana nel tempo...
Testo di Claudio Cardelli, foto di Alessia Travaglini
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“Bikes are here Sirrr...”
È la voce metallica e arrotata
del fido Imran, il meccanico,
che mi chiama al telefono nel
primo sonno. Sono a Manali,
India del nord, alle pendici del
Passo del Rothang: un muro di
tornanti fino 4.000 metri che
sovrasta la ormai non più ridente cittadina dell’Himachal
Pradesh. L’anagrafe mi avvantaggia nell’esperienza e per me
questi luoghi sono ormai consueti. Capito a Manali da oltre
trent’anni e l’ho vista trasformarsi da piccolo borgo montano, meta esclusiva di
romantici e perduti hippies, a
centro di vacanze per l’emergente middle class indiana.
L’ho visto coprirsi di una colata di brutto cemento e far
sparire le poche vestigia di un
tempo, quando era l’ultimo
avamposto indiano prima del
“grande salto” nel transhimalaya.
Dopo il passo e le ultime conifere alle sue pendici, ecco
lande brulle e disperate, montagne colossali, deserti pietrosi, mandrie di yak, nomadi,
pastori, monasteri buddisti.
È il “piccolo Tibet” indiano: il
Lahul, lo Spiti, lo Zangskar e il
Ladakh... Vecchi reami autonomi. Viaggio nel tempo oltre
che nello spazio, ambienti tibetani allo stato puro, ancora
oggi in grado di produrre emozioni e suggestioni rare, specie
se attraversati in sella al mito
su due ruote dell’India indipendente post gandhiana: la
Royal Enfield Bullet.
Con questa motocicletta ho
iniziato una relazione amorosa
sin dal nostro primo incontro,
nel lontano 1977, quando, osservandola da vicino e sen-
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tendo il suo tum tum pieno e
rotondo, notai la grande somiglianza con la Matchless 350
bellica di famiglia su cui compii i “primi passi”da inguaribile biker; non ancora
dodicenne, in barba ai carabinieri e alla polizia stradale di
Secchiano Marecchia, mio
paese natio.
Uscite segrete la mattina alle 4
per riportarla in garage alle 6 e
infilarmi di nuovo sotto le coperte facendo finta di nulla…
un odore tutto suo, il silenziatore azionato dalla piccola leva
sotto la sella, il telaio rigido e
la forcella telescopica, una
delle prime, sulla ruota anteriore e poi quell’olio nero decorante ogni fessura e angolo
del motore... Sì, la Bullet era
una parente stretta della mia
G3L. Stessa terra d’origine,
stesso DNA.
Tipico monocilindrico inglese,
cambio separato, linee sobrie e
robuste. Rumore, anzi suono,
entusiasmante, poderoso, sicuro, lento e riflessivo: l’ideale
per le strade dell’India, dove la
velocità è l’ultimo degli obiettivi. Non potevo non amarla
da subito.
Nel 1984 la noleggiai la prima
volta a Dharamsala per fare un
giretto nella valle di Kangra assieme al mio amico Ulisse. Da
diversi anni ogni mio viaggio
in India è concepibile solo se
salgo sul “proiettile” di Sua
Maestà Britannica trapiantato
nella fabbrica di Madras, oggi
Chennai.
Sulla Enfield ho ritrovato l’entusiasmo dei primi viaggi degli
anni Settanta. Entusiasmo che
ho condiviso con tanti amici
medici e colleghi con cui negli
ultimi anni ho organizzato dei
Qui sotto: verso il monastero di
Lamayuru, sicuramente il più
bello di tutto il Ladakh.
campi di diagnosi e prevenzione cardiovascolare tra i rifugiati tibetani. Entusiasmo
che, come in questo momento,
sto condividendo con la mia
“prole” allargata. Figli, Francesco e Riccardo, le loro fidanzate, Maggie e Alessia, e il
nipote Guido. Ad attenderci in
India l’amico Davide Cacciatore, già orgoglioso proprietario di una fiammante Bullet
tutta cromata. I miei ragazzi
non sono dei bikers: uno gira
con una vecchia Vespa 50 portata a 90cc e l’altro con un triste Scarabeo.. Ma sono in
gamba e l’India ce l’hanno ne
sangue visto che in casa l’hanno respirata sin dalla nascita. Noi suoniamo insieme in
una band, i Rangzen, con cui
abbiamo fatto un piccolo tour
in India nel 2000 e ci siamo
esibiti davanti al Dalai Lama e
10.000 tibetani.
Insomma, ce n’è abbastanza
per tornare insieme a respirare
la vastità dei continenti, la spiritualità del buddismo del
Tibet e portare un po’ di soldi
alla nostra piccola scuola tibetana di Sumdho. La scuola
“più lontana del mondo” da
noi adottata già da diversi
anni.
Le quattro Bullet vengono scaricate dal camioncino dove
hanno viaggiato polverose da
Delhi sin qui.
Ho voluto evitare i pericolosi
540 chilometri di traffico delle
pianure e partire subito dai
piedi dell’Himalaya.
Un po’ di scuola guida su e giù
per la Valle del Bias, soprattutto per la guida a sinistra, ed
eccoci pronti in un frizzante
mattino di sole radioso per la
prima arrancata.
Le Bullet volano leggere e agili.
Lontano le nevi della barriera
del primo Himalaya.
Il Rothang svetta 2.000 metri
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In queste pagine: alcune foto del vivacissimo
“Ladakh Festival”. Sicuramente è un modo per assistere
al passaggio di tutti i costumi delle vallate circostanti.
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sopra Manali e, di fatto, è diviso in tre tratti. Il primo corre
sinuoso e riposante tra betulle
e conifere e abbandona lentamente la triste periferia di Manali. Lungo la strada piccole
baracche noleggiano pellicce
sintetiche e stivali di gomma
per affrontare le escursioni sul
ghiacciaio in cima al passo.
Il Rothang è un concentrato di
tutto: asfalto, buche, fango,
terra, neve, ghiaccio, massi
sulla strada. Insomma, come
benvenuto non c’è male. I ragazzi si divertono e assaporano già “l’altrove” che di qui
a poco ci verrà incontro nel
desolato Spiti. Massi giganteschi delimitano i tornanti, che
conquistano una parete verticale fino al ridente villaggetto
ristoro di Marhi. Una sequela
di piccoli bar e ristoranti ai
piedi di un tempio indù di
color giallo violento che si staglia, quasi accecante, contro
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un cielo blu notte, accanto a
dei chorten (monumenti funerari tibetani) e alle allegre bandierine buddiste tibetane. Qui
è tutto un mescolarsi di religioni e culti senza problemi di
alcun genere. Terre di confine
di climi, geologie, culture, lingue, razze, spiritualità diverse.
Dopo Mahri la strada, molto
esposta su burroni vertiginosi,
arranca tra frane e smottamenti fino alla sommità del
valico. Un po’ di macchine ministeriali e jeep militari preannunciano un personaggio di
rilevo. Si tratta del presidente
dello Stato Indiano dell’Himachal Pradesh. Viene ricevuto
proprio sul valico con le
sciarpe bianche di tradizione
tibetana. Scambiamo qualche
chiacchiera e mi chiede di
spiegargli cosa fa l’Associazione “Italia-Tibet” di cui mi
sono presentato come presidente.
Saluti cordiali e iniziamo a
scendere dall’altra parte, in direzione Spiti.
Spettacolo nello spettacolo, le
nostre Enfield filano via anche
sulle continue buche che ci
siamo quasi stancati di evitare.
Il paesaggio è desolato ma eccitante. A metà della infinita
fiancata della montagna ecco
un bivio: a sinistra Keylong e
Leh, a destra Kunzam La e la
Valle dello Spiti. Ed è qui che
siamo diretti. La nostra meta è
il “lago della Luna”, il Chandratal, a 4.400 metri di quota.
La qualità già bassa del manto
stradale precipita. In alcuni
punti la strada è ricavata nel
greto di un fiume e a volte non
si distingue dalla pietraia circostante. Di qua e di là massi
grandi come case raccontano
la giovinezza di queste montagne e la drammaticità della nascita del mondo. Sobbalzi,
guadi alle ginocchia, polvere
che ci riduce come dei fornai.
Nessuno cede di umore, anzi,
il tutto sta acquistando il sapore vero e proprio di una
grande sfida avventurosa. Inutile negare che ci divertiamo
come matti. Anche perché la
cordialità, i grandi saluti e i
sorrisi lungo la strada, ci confortano su qualche vago complesso del bara sahib che
fatalmente
ti
attanaglia
quando ti senti danaroso, e
quindi un po’ arrogante, in
questi mondi arcaici ed essenziali. In realtà gli indiani in generale e questi popoli di
montagna in particolare, ti
danno continuamente lezioni
sul distacco e sulla noncuranza che provano nei confronti dei nostri modelli
esistenziali. Hanno messo su i
loro piccoli esercizi, ci preparano le loro povere cose come
onion omelette e dal bhat, ridono sempre volentieri, ci sa-
lutano festosi e, a volte, confesso che ci fanno sentire un
po’ ridicoli tutti attrezzati per
paura di due gocce d’acqua.
Tutto è così lontano ora... Rimini, la riviera, la strada marecchiese, gli autovelox, il
passo di Via Maggio, la nostra
meta motociclistica domenicale...
La strada che porta allo Spiti è
sempre più malconcia e la luce
del tardo pomeriggio rende
tutto surreale. La gola che risaliamo è già in ombra mentre
le montagne attorno al Chandratal sono ancora tiepide
dell’ultimo sole. È uno spettacolo. Mi fermo a riprendere i
ragazzi che salgono, minuscoli, con le tre motociclette
lungo una fiancata immensa e
grigia. La strada è una lieve incisione, un lungo graffio che
appena scalfisce l’immane parete. In queste condizioni la
media è di 25 km/h ed è
quindi inutile pronosticare ottimistiche tappe quando si sa
di dover fare 200 chilometri in
alta montagna. Qui 200 chilometri sono 9-10 ore di motocicletta incluse le soste, i
rifornimenti e i piccoli guasti.
Per un viaggio che non sia solo
una prova speciale sarebbe
bene programmare tappe di
non oltre i 150-170 chilometri.
Certo, la Enfield si ripara con
una spranga e una pinza in
molte situazioni, e uno degli
spettacoli fuori programma è
per me vedere Imran alle prese
con la sua “creatura”. Diagnosi
fulminea e terapia immediata.
Una volta l’ho visto mettere
nella guida dei bilancieri sopra
la testata una guarnizione
provvisoria con una scheda telefonica.
Due anni fa uno dei miei amici
medici grippa una bronzina
nei pressi di Dehra Dun. Una
piccola officina sulla strada
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Motoracconto
emette la sentenza. La moto
non parte più. Imran col suo
giovane assistente di 16 anni
prende la motocicletta. Si fa
trainare con una corda tenuta
in mano da un’altra Enfield
per 65 chilometri fino a Rishikesh dove arriva alle 10 di
sera, stremato e intirizzito. Si
mette una pila da minatore
sulla testa e in due ore smonta
tutto il cilindro, sostituisce il
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pezzo, regola le valvole con la
pressione delle mani e rimette
la motocicletta su strada a
mezzanotte. Poi, come lui
dice, va a riposare “just a little
time...”.
Ora è quasi buio e, guarda
caso, arriva l’imprevisto. La
motocicletta di Davide buca.
Siamo a 1 chilometro dal lago
dove c’è solo la possibilità di
campeggiare con le proprie
tende. Non c’è nulla. Il luogo
è immacolato e le regole ambientali sono severissime.
Imran ripara la ruota in dieci
minuti e una parte di noi rimane ad aspettarlo. La notte
però ci coglie.
La strada per il lago non esiste
e il debole faro della Enfield
non è sufficiente per orientarsi
nei saliscendi del gibbuto
prato. Due o tre volte torno indietro. Scivolo con la Maggie
di dietro... Panico. Torce lontane fanno segnali. Sono loro.
Notte insonne in una piccola
tenda da tre. Mal di testa.
Qualcuno vomita. Siamo a
quota 4.400 metri...
Il mattino dopo un paradiso di
pura luce e natura selvaggia si
rivela ai nostri occhi. Uno
specchio di acqua purissima
con centinaia di colorate bandierine di preghiera e un piccolo tempietto bianco calce.
E tutto intorno cime ignote,
austere, lunari. Il luogo è
metafisico.
Lasciamo il Chandratal, scendiamo di nuovo a fondo valle
e risaliamo verso lo Spiti per
affrontare gli infiniti tornanti
del Kunzum La. Il passo è a
4.550 metri. È deserto, battuto
dai venti, inospitale. Si scende
dall’altra parte tra scenari colossali, fino ad arrivare ai
primi villaggetti dove gli immancabili check-point ci trattengono un bel po’ di tempo
per esaminare i documenti.
L’impressione è che lo Spiti rimarrà sempre una valle marginale al più ricco, si fa per dire,
e famoso Ladakh.
Il monastero buddista di Kie
Kashmir, il paradiso dei Moghul
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appare surreale dall’altra parte
della vallata. È bellissimo, abbarbicato su una roccia, con il
suo piccolo grappolo di case
bianche adagiate ai suoi piedi.
Inquietante e suggestivo allo
stesso tempo, è uno dei gioielli
di questa landa di cultura tibetana incastrata tra aride montagne.
La capitale Kaza è piuttosto
anonima
e
ha
già
“acquisito”molte delle brutture della nuova India. Un
nuovo monastero della scuola
Sakya è stato di recente inaugurato dal Dalai Lama e racconta ancora un certo potere
economico e spirituale che il
clero buddista ha da queste
parti. A questo mondo va riconosciuto comunque il merito
di aver preservato una cultura
unica al mondo e dei capolavori d’arte come il grande
complesso di Tabo, detto
anche l’Ajanta dell’Himalaya.
Gli affreschi di Tabo sono protetti dall’Unesco e nella penombra solida dei suoi templi
si respira la inamovibilità di
secoli della cultura del Tibet.
Stiamo tre giorni in Spiti e mi
ripropongo di tornarci...
Troppo affascinante.
Ora ci aspetta un “tappone” di
circa 200 chilometri fino a
Keylong, piccola capitale del
Lahul.
Di nuovo il Kunzum La e la
tetra vallata sotto il Rothang
fino ad imboccare la ManaliLeh a Gramphu.
Tra i viaggiatori dell’India questa carrozzabile è un vero e
proprio mito, con i suoi vertiginosi valichi oltre i 5.000
metri di altezza e i quasi 500
chilometri senza un centro
abitato, a tu per tu con la na-
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Alcuni brevi attimi passati con i
bambini nella scuola tibetana
Sumdho.
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tura selvaggia e primordiale
del Transhimalaya. Qui passai
nel 2002 con il mio amico
Emerson Gattafoni in sella a
due Aprilia Pegaso diretto alla
Valle di Nubra e ad un incontro con il Dalai Lama a Leh.
La strada la conosco ormai
bene ma, come sempre, percorrendola si ha l’impressione
che sia molto ma molto più
lunga di come ce la ricordavamo... Anche oggi arriviamo
al buio, accompagnati da una
pioggia fitta.
Abbiamo un incontro on the
road con un club di enduristi
britannici, circa una quarantina, che rallentano la nostra
marcia. Hanno tutti delle Enfield ma sembra che guidino
come se avessero sotto dei
KTM, in piedi sulle pedane
sculettano e ci sorpassano
continuamente. Decidiamo
che non sono il nostro genere...
A 5 chilometri da Keylong un
pick-up bianco è precipitato
nel fiume.
La corrente è impetuosa e
copre quasi tutto il veicolo che
si sposta a tratti spinto dalla
forza del fiume. Una scena
surreale. L’autista ha la testa e
mezzo busto di fuori dal finestrino ma non osa abbandonare la presa.
Non avrebbe scampo. Delle
donne ci gridano di chiamare
aiuto.. Corro a Keylong mentre gli altri si fermano a ripren-
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Qui sopra: foto ricordo lungo la strada che porta allo Spiti.
In basso: facciamo una sosta per riparare la ruota, in pochi minuti
siamo pronti per ripartire. Nelle pagine successive: durante il viaggio non sono mai mancati simpatici incontri.
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dere la scena col cuore in gola.
Alcuni uomini scendono sulla
fiancata ripida e gettano una
corda al malcapitato... Ancora
pochi minuti e il pick-up se ne
sarebbe andato con il suo driver. Questi, intirizzito e fradicio, appena salito sulla strada
non ha di meglio da fare che
verificare se il suo telefonino
funzioni ancora. Roba da
matti… “This is India”, come
sempre.
Ora ci aspettano due valichi,
uno dei quali supera i 5.000
metri. Noto che i lavori qui
sono continui. La stagione
monsonica devasta le strade
assieme al ghiaccio dell’inverno e la speranza di un buon
asfalto da qui al Ladakh è una
mera utopia. In effetti nessuno
di noi egoisti lo desidera...
Dopo Darcha si sale al Baralacha La, 4.900 metri, e si
scende all’altopiano di Sarchu,
dove tra Jispa e Leh si trova
l’unica possibilità di dormire.
La tendopoli, una quindicina
di confortevoli tendine a casetta con un bagno e due comodi letti, è a 4.300 metri, e
nella grande tenda refettorio
qualche goccio di rum“Old
Monk” favorisce la voglia di
“baracca”. Andiamo a prendere la nostra piccola Martin
da viaggio, un paio di tamburi
e una armonica a bocca, e si
parte per un concertino a beneficio di un gruppo di indiani
diretti a Leh, nostri compagni
di alloggio. Mentre snoccioliamo tutte le nostre canzoni
brit pop e west coast, un giovane indiano si presenta con
un’altra chitarra acustica simile ad una Ovation. La suona
con la delicatezza che conviene ad un sitar. Canta benissimo seppur timidamente. È
fatta! È il miracolo della musica senza barriere e che unisce tutti. Oltre all’inglese
abbiamo un’altra lingua in comune: si chiama Eric Clapton,
Dylan, Lennon, Jim Morrison,
Keith Richards, David Crosby,
Gilmour... Gli indiani impazziscono, battono le mani, suonano e percuotono legni,
stoviglie, cantano. Una dolcissima ed euforica jam session
internazionale in mezzo all’Himalaya. Per me è impossibile
non ricordare una scena analoga 33 anni prima, nel parco
dell’hotel Herat in Afghanistan… Incredibile, il tempo si
è fermato.
Dopo Sarchu la strada, una
sorta di carraia non identificata, percorre ad alta quota il
Rupshu, un’altopiano lunare
dove il senso dello smarrimento è soverchiante. Ho
scelto di venire quassù alla
fine di agosto per evitare le pur
deboli piogge monsoniche. La
scelta si è confermata giusta
ma al posto degli inevitabili
guadi che ci hanno deliziato
all’inizio del percorso ora troviamo tutta la sabbia rimasta
dalle esondazioni dei torrenti
con tutto il loro fango sulla
carrozzabile, che in molti
punti non esiste più. Le Enfield galleggiano sulla sabbia
come dei piccoli motoscafi.
Uno spettacolo. La loro leggerezza e le ruote piccole le rendono manovrabilissime. Penso
che se fossi qui col mio Tiger
avrei qualche problema in più
ad uscire da questi isolotti di
sabbia.
Panorami mozzafiato. Solitudine ermetica. Pernotto alla
tendopoli di Tsokar. Mi guardo
in giro e mi aspetto di veder
comparire la carovana di Giuseppe Tucci di ritorno dal pellegrinaggio al Kailash.
Ci accorgiamo che non abbiamo più benzina sufficiente
e la cosa prende una brutta
piega. Interviene allora la potenza dell’Euro: concordo con
un non troppo convinto ladako che mi vada alla prima
pompa di benzina nella Valle
di Leh a riempire le taniche.
Detto così sembra facile... Il
poveretto non può rifiutare
l’offerta e se ne parte alle 6
della sera verso il Taklang La,
il passo a 5.350 metri alla volta
di Upshi. Tornerà alle 9 della
mattina seguente...
Arriviamo finalmente alla nostra scuolina di Sumdho... Ma
dove diavolo è? Siamo “smarriti come in un’afona solitudine” e i bambini sono quasi
tutti a Leh per gli insegnamenti del Dalai Lama. Il cuoco
della scuola ha pietà di noi e ci
rifocilla nella sua piccola e accogliente casa. Tè e biscottini
tibetani. È un bel tipo, gentile
e un po’ beffardo. Tutti i bambini rimasti a Sumdho fraternizzano con Guido che li
intrattiene facendoli torcere
dalle risa con strani giochi inventati sul momento. Io stramazzo su un tappeto in un
sonno di pietra.
Scendiamo lungo l’Indo, tra
gole anguste e i primi villaggi
nelle rare oasi di salici e
pioppi. Forature e piccoli guasti ci fanno arrivare a Leh di
notte... Non è piacevole. I fari
deboli, le braccia deboli, la
vista stanca.. Insomma, si
sente che il rischio sale notevolmente. L’arrivo allo Shangri
La è un po’ una liberazione.
Leh mi è famigliare. Ci sono
stato tante volte da più di trent’anni e un po’ in tutte le stagioni, compreso il pieno
inverno. Era una città medievale e, nonostante la pesante
“indianizzazione”, la città conserva un fascino indiscutibile,
adagiata com’è ai piedi dell’enorme palazzo reale finalmente restaurato in modo
dignitoso. Ho fatto coincidere
il nostro soggiorno con il pittoresco “Ladakh Festival”.
Nato per esigenze turistiche, è
indubbiamente un’occasione
unica per assistere al rutilante
passaggio di tutti i costumi
delle vallate circostanti, i fantasmagorici copricapo di turMototurismo
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chese e coralli, i perak, le decorazioni di conchiglie e argento
dei
Dardi,
una
popolazione ariana che abita
una vallata remota... E poi i
monaci, i bambini delle
scuole... Una vera festa nazionale ladaka. Il festival è spettacolare, con le processioni
colorate e sonore che attraversano il corso principale fino al
campo di polo, dove tutti, infine, si esibiranno nelle loro
danze e musiche tradizionali.
Sotto un tendone enorme, una
grande macchia rosso vinaccia: sono i monaci dei grandi
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Mototurismo
monasteri qui intorno. Distaccati dalla folla, coi loro telefonini e occhiali da sole, ci
appaiono un po’ meno mistici
di come li vorremmo... Ma il
mondo va avanti e anche loro
si “adeguano”.
Il giorno dopo, nel cortile del
gompa di Leh, avranno anche
il loro momento di gloria, incantandoci con i cham, le
danze rituali, eseguite in maniera superlativa dai monaci di
Trak Tok.
Una settimana a Leh ci rimette
in sesto per l’ultimo tratto di
450 chilometri fino a Srinagar.
Il tempo sta cambiando repentinamente e la partenza è sotto
una fitta pioggerellina non
troppo simpatica. La strada è
abbastanza buona fino a poco
fuori Leh per poi tornare agli
“antichi fasti” arricchiti dal
fango e dall’acqua che invade
immancabilmente il manto
stradale.
Nonostante questo siamo
molto allegri e guardo, da
buon padre, i miei ragazzi, ammirato della “mano” che
hanno fatto con le motociclette. “Beata gioventù” si diceva una volta...
Arriviamo sotto una pioggia
battente alle falde del Fotu La,
il passo più “tornantoso” del
Ladakh. Non si finisce mai di
salire e le intemperie rendono
il tutto simile ad un girone dell’inferno. Quando compare il
monastero di Lamayuru, sicuramente il più bello di tutto il
Ladakh, la visione è onirica. In
alto sta nevicando e il giallo
ocra dei mostruosi calanchi lunari che circondano la vallata
rende l’insieme il frutto folle di
un pittore visionario. Sono ancora una volta abbacinato da
Lamayuru e i miei ragazzi non
sono da meno con “l’aggravante” della prima volta.
La mattina dopo, quando ci
svegliamo, tutto intorno è un
tripudio di vette scintillanti di
neve e di una luce accecante
che ci accompagna per la gloriosa salita finale al passo ad
oltre 4.000 metri, il più alto
della Leh Srinagar. In alto c’è
neve ma per qualche chilometro, quanto basta a farci fare
delle riprese spettacolari. Le
Bullet non fanno una piega
neppure sulla neve.
Ora si scende vertiginosa-
mente fino a Mulbekh, avamposto buddista marcato dall’enorme statua del Budda
Maytreya del II secolo. Da qui
in poi l’Islam la fa da padrone.
Arriviamo a Kargil e le lungaggini del check-point ci inducono a rinunciare al passaggio
dello Zoji La, ultimo valico
prima del Kashmir. Ci fermiamo così a Drass, uno dei
punti più freddi del mondo (65° in inverno...) in un surreale albergo.
Ci fanno mettere le motociclette nei corridoi delle
stanze... “Non si sa mai”, dice
il padrone.
Drass è incredibile. L’atmosfera è decisamente pesante e i
cartelli che abbiamo visto
lungo la strada (del tipo “Caution you are under enemy observation” oppure “Now you are
out of danger”) non contribuiscono a migliorare il nostro
nervosismo. Ciò nonostante
Drass è uno spaccato di autenticità non contaminata da influssi turistici. Qui, infatti,
non si ferma mai nessuno.
Piano piano guardiamo negli
occhi i nostri ospiti, con la voglia di capire qualcosa di questa avversione del mondo
musulmano per il demonio
occidentale. La risposta, gelida
e astiosa, di un tizio ad un telefono pubblico che mi rifiuta
l’uso dell’apparecchio, mi demoralizza ancora una volta.
Poco più in là un altro si prodiga per rimediarmi del tonno
in scatola... scaduto da due
anni...
Il mondo è bello perché vario.
Grande proverbio.
Partenza soleggiata per l’ultimo strappo di 140 chilometri
fino a Srinagar. Riattraverso lo
Zoji La (il passo delle betulle)
dopo trent’anni e le condizioni
del fondo sono più o meno le
stesse: pietre e fango a senso
alternato con lunghe file di camion militari che vanno e vengono nella zona più “calda”
dell’India. Da una parte l’inferno pietrificato e dall’altra le
prime conifere alpine che avevamo lasciato a Manali. Ecco il
Kashmir. Il paradiso dei Moghul. Manco da Srinagar dal
1984 e l’amore per questa “Venezia dell’Himalaya” non si è
mai spento. Srinagar ha qualcosa di magico e unico. Con i
suoi canali e le sue gondole colorate, le shikare che solcano
lievi, tra fiori di loto e ninfee
giganti, le vie d’acqua della
città tra i due laghi Dal e Naggin. Vi arriviamo nel pomeriggio, dopo una sosta a
Sonamarg. Dopo una curva la
distesa azzurra e fresca del
Lago Naggin ci investe dopo
quasi tre settimane di polvere,
pietre, vento e ghiaccio. È un
godimento dei sensi e dell’anima. Senza casco voliamo
leggeri e respiriamo l’aria
umida e tiepida dei 2.000
metri di Srinagar. Sul boulevard
prendiamo le shikara gialle
che ci portano lentamente alla
nostra House Boat “Sea Lord”.
Guardo compiaciuto i ragazzi
che hanno gli occhi fuori dalla
testa. “Ma che posto è questo,
babbo?”.
Adagiati mollemente tra i cuscini della shikara vediamo
scorrere la città sull’acqua, i
negozi, gli orti, le moschee.
Sembra di essere su un set cinematografico. Di occidentali
non se ne vedono. Mi spiace
profondamente della crisi turistica di questo posto meravi-
glioso. Gli occhi tristi di Ishak,
il padrone della “Sea Lord”, dicono più di tante parole. Ora,
però, per tre giorni staremo
qui a far scorrere nella mente i
ricordi dolcemente violenti dei
giorni passati. Alla sera, sul
pontile dove facciamo colazione e salotto, tra rapaci che
volano bassi, martin pescatori
che si tuffano nel lago e l’andirivieni di gondole davanti ai
nostri occhi, ci mettiamo a
suonare le canzoni delle nostre
serate...
“Traction in the rain” di David
Crosby la usai per la colonna
sonora di una mia proiezione
a dissolvenza che preparai nel
1979 sul mio soggiorno in Kashmir... Come fosse ieri.
Chiedo ai ragazzi di farla insieme. È bellissima. Sempre.
Qui, adesso, il tempo si è fermato.
Claudio Cardelli è anche autore
dei libri “Tibetan Shadows (Mediane Edizioni) “My Diary of
India” (Mediane Edizioni)
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Qui - Alessia Travaglini