140 CAPIRE E DISSENTIRE in generale – si arrivi a intravedere una prospettiva più solida, quella che, secondo l’insegnamento di Arcelisao, potrà risultare almeno la più probabile 17 . E il piqanovn, cioè il probabile, non potrà essere ciò che si dichiara «da sé vincente» e quindi da approvare (probare), come invece risultava stando all’insegnamento di Epicuro; ma sarà ciò che, dal confronto con le altre tesi, si dimostrerà in possesso dei requisiti più validi. L’obiettivo di Cicerone sembrerebbe, insomma, più quello di trovare la verità che non quello di confutare gli altri (e le altre dottrine) in quanto avversari: verum enim invenire volumus, non tamquam adversarium aliquem convincere, fin. 1.13. Tuttavia si tratterà di una verità probabile, di una verità che, in un certo contesto e a precise condizioni, ha la possibilità di prevalere. Una verità costruttivamente proposta e nella ricerca della quale Cicerone si sente vivamente impegnato, avvertendo di ardere studio veri reperiendi, Luc. 65. Una verità che, da ultimo, vorrebbe collocarsi oltre il probabile e pervenire al veri simile, a quella conclusione che dal probabile, scoperto e adottato, prende forma: «Come potrei infatti non desiderare di scoprire la verità, quando godo se ho scoperto qualcosa di verisimile?», Quid enim possum non cupere verum invenire, cum gaudeam si simile veri quid invenerim?, Luc. 66. Nel Lucullus – il secondo libro dell’editio prior degli Academica – Cicerone affronta in modo diretto la questione relativa al probabile ai capitoli 31-34. Riferendosi a Carneade per il 17 Tutto questo è ribadito in off. 2.8, dove il tratto che caratterizza la probabilità è congiunto espressamente alla procedura retorica-filosofica che la determina: «Cos’è dunque che m’impedisce di attenermi a ciò che mi sembra il più probabile, di respingere quanto invece tale non è e, evitando l’arroganza delle affermazioni assiomatiche, di fuggire l’avventatezza così grandemente lontana dalla sapienza? Da parte dei nostri filosofi si discute in ogni occasione, perché ciò che di fatto è probabile non può risultare tale se non viene fatta una disamina delle motivazioni dell’una e dell’altra parte», Quid est igitur, quod me impediat ea, quae probabilia mihi videantur, sequi, quae contra, improbare atque adfirmandi arrogantiam vitantem fugere, quae a sapientia dissidet plurimum? Contra autem omnia disputatur a nostris, quod hoc ipsum probabile elucere non posset, nisi ex utraque parte causarum esset facta contentio. L’ABBOZZO MANCATO DI UN PROGETTO TEORETICO 141 tramite di Clitomaco 18 , egli intende opporsi alla presa di posizione dogmatica che caratterizza tanto il pensiero di Antioco di Ascalona quanto quello di Epicuro. In particolare, in ambito gnoseologico, sottolinea che dalla rappresentazione di qualcosa non segue la percezione della medesima: tale visum nullum esse ut perceptio consequeretur; piuttosto di solito alle rappresentazioni di qualcosa segue la possibilità/necessità di una ‘approvazione’: tale visum ... ut autem probatio multa (scil. consequeretur) 19 . 18 Cfr. Luc. 98: «Di Clitomaco ci sono pervenuti quattro libri sulla ‘Sospensione dell’assenso’; ciò che sto per dire si riferisce in particolare al primo», quattuor eius (scil. Clitomachi) libri sunt de sustiniendis adsensionibus (= peri; ejpoch'"), haec autem quae dicam sunt sumpta de primo. 19 Luc. 99: «Carneade è dell’opinione che esistano due tipi di rappresentazioni, e che il primo di questi sia suddiviso così da comprendere sia rappresentazioni percepibili sia non percepibili; nel secondo invece si trovano alcune rappresentazioni probabili, altre non probabili. E così ciò che è argomentato contro l’evidenza sensibile riguarderebbe la prima suddivisione; nulla c’è invece da obiettare contro la seconda suddivisione. Perciò era dell’opinione che nessuna rappresentazione era tale che ne conseguisse la percezione; mentre molte erano tali che ne conseguiva l’approvazione. Sarebbe di fatto contro natura che non vi fosse nulla di probabile; ne seguirebbe quell’eversione dell’intera vita che proprio tu, Lucullo, richiamavi. E così molte delle rappresentazioni sensibili debbono ritenersi probabili, tenendo però ben a mente che in esse non c’è nulla di diverso che non potrebbe trovarsi anche in una rappresentazione falsa. Così il sapiente farà uso di qualsiasi rappresentazione gli risulterà probabile, se nulla gli si presenterà che a quella probabilità sia contrario; e in questo modo sarà governata la sua strategia di vita», Duo placet esse Carneadi genera visorum; in uno hanc divisionem, alia visa esse quae percipi possint <alia quae non possint,> in altero autem, alia visa esse probabilia alia non probabilia. Itaque quae contra sensus contraque perspicuitatem dicantur ea pertinere ad superiorem divisionem, contra posteriorem nihil dici oportere. Quare ita placere, tale visum nullum esse ut perceptio consequeretur, ut autem probatio multa. Etenim contra naturam esset, <si> probabile nihil esset; sequitur omnis vitae ea quam tu, Luculle, commemorabas eversio. Itaque et sensibus probanda multa sunt, teneatur modo illud, non inesse in is quicquam tale quale non etiam falsum nihil ab eo differens esse possit – sic quicquid acciderit specie probabile, si nihil se offeret quod sit probabilitati illi contrarium, utetur eo sapiens, ac sic omnis ratio vitae gubernabitur. 142 CAPIRE E DISSENTIRE Che non esista nulla di probabile, cioè che non esista nulla che possa essere accolto e approvato dal soggetto percepente, secondo Cicerone è contro natura (etenim contra naturam esset, <si> probabile nihil esset); dunque è «necessario» che qualcosa di probabile esista: cioè ciò che esiste deve essere caratterizzato da qualcosa che, attestato dai sensi, deve essere accolto (itaque et sensibus probanda multa sunt). Aggiunge ancora Cicerone, sempre riecheggiando Carneade, che tale «accoglimento» non comporta null’altro che l’esistenza di qualcosa che «probabilmente» è vero, non di qualcosa che «realmente» è vero: il falso potrebbe infatti presentarsi assumendo le sembianze del vero, e quindi candidarsi con la medesima autorevolezza del vero ad essere «probabile»; non c’è nelle rappresentazioni che provengono dai sensi alcun carattere che di per sé, per niente differente, non potrebbe appartenere a una rappresentazione falsa: non inesse in is (scil. in sensibus) quicquam tale quale non etiam falsum nihil ab eo differens esse possit. Occorre perciò reagire contro i dogmatici come Antioco di Ascalona e contro quelli come Epicuro: quest’ultimo, per salvare la realtà del suo sistema, si affida alla sensazione. Di qui teorizza che solo nei sensi sta la verità, al punto che «se una rappresentazione dei sensi è falsa, più nulla può esser percepito», si ullum sensus visum falsum est, nihil potest percipi, Luc. 101 20 . Ebbene, secondo Cicerone si deve piuttosto sostenere che esistono solo rappresentazioni probabili (esse quaedam 20 Epicuro connetteva la realtà esistente all’evidenza della rappresentazione sensoriale: «Non potrebbe sussistere (oujk a[n pote uJph'rce), da parte delle rappresentazioni (tw'n fantasmw'n) che noi cogliamo come in una immagine o nel sonno o negli altri atti apprensivi della mente o degli altri criteri di giudizio, l’uguaglianza con le cose esistenti e cosiddette vere (h{ te ga;r oJmoiovth" ... toi'" ou\siv te kai; ajlhqevsi prosagoreuomevnoi") se non ci fosse ciò che può essere oggetto di tali atti apprensivi (eij mh; h\n tina kai; tau'ta pro;" a} <ejpi>bavllomen)», ad Herod. 51. Conferma Diogene Laerzio 10.33 che, secondo Epicuro, «non potremmo ricercare ciò che è oggetto della nostra ricerca (oujk a]n ejzhthvsamen to; zhtouvmenon) se prima non ne avessimo avuto conoscenza (mh; provteron ejgnwvkeimen)»; grazie infatti alla prolessi «si pensa ai caratteri di ciò in base alle precedenti sensazioni (prohgoumevnwn tw'n aijsqhvsewn)». L’ABBOZZO MANCATO DI UN PROGETTO TEORETICO 143 probabilia, Luc. 102): non è possibile dire se una rappresentazione è vera o falsa dato che – in ultima analisi – non è possibile stabilire che in modo arbitrario un criterio discriminante21 ; resta comunque assodato che ciò che non è stato possibile definire come vero o falso comunque esiste, ed esiste proprio perché vero o falso. Si tratta di una probabilità del tutto «naturale», in virtù della quale il mondo esiste così com’è, cioè come verisimile; e la possibilità che «il mondo sia percepibile» è probabile proprio perché anche il fatto che «nulla sia percepibile» è probabile. Il che significa che la percezione si fonda sulla probabilità e che solo alla probabilità appartiene la possibilità di apparire come vera, di poter essere, letteralmente, «approvata»: di per sé la percezione non possiede – secondo l’«Academia scettica» e secondo Cicerone – alcun tratto di evidenza 22 : «C’è solo ‘apparenza’ alla base di ciò che approviamo; non abbiamo nessun segno a conferma della percezione», probandi species est, percipiendi signum nullum habemus, Luc. 111. 21 Oltre al citato § 99 del Lucullus, cfr. § 111: là Cicerone riporta la critica di Antioco a Filone a proposito delle due assunzioni che questi aveva fatto in merito alle rappresentazioni, e cioè «che vi siano rappresentazioni false e che queste non differiscano da quelle vere», cum enim sumeretur unum esse quaedam falsa visa, alterum nihil ea differre a veris. 22 Per Epicuro invece i criteri che consentono di rapportarsi alle affezioni, alle sensazioni e alle prolessi hanno in comune il dato dell’evidenza immediata, e a ciò bisogna attenersi: prosektevon ... pavsh/ th/' parou'sh/ kaq j e{kaston tw'n krithrivwn ejnargeiva/, Herod. 82; cfr. §§ 52 e 71; Diog. L. 10.33. Cicerone è perfettamente consapevole della centralità e dell’evidenza dei sensi nella dottrina epicurea: «Tutto quanto scorgiamo con l’anima trae origine dai sensi; e se questi saranno attendibili, come insegna la dottrina di Epicuro, allora si potrà conoscere e percepire qualcosa», Quicquid porro animo cernimus, id omne oritur a sensibus; qui si omnes veri erunt, ut Epicuri ratio docet, tum denique poterit aliquid cognosci et percipi, fin. 1.64. Sull’epistemologia epicurea, cfr. Asmis [1999], in partic. pp. 260-64, dove è sottolineata l’importanza specifica che acquista l’ejnavrgeia in opposizione a ciò che non è evidente, all’a[dhlon. In un senso ben diverso a quello della riflessione scettica, Diano [1974], pp. 163-64, aveva concluso che, in virtù del carattere d’immediatezza inerente alle sensazioni rappresentative e affettive e alle rappresentazioni della mente, «vero, in una parola, e criterio di verità è tutto ciò che appare, to; fainovmenon». 144 CAPIRE E DISSENTIRE È indubbio insomma come, una volta che si sia introdotto il principio del probabile (inducto et constituto probabili), crolli il principio dell’evidenza (perspicuitatis patrocinium), quel principio mai messo in discussione – e dunque solo apoditticamente posto – da Epicuro 23 . Il sapiente che ha in mente Cicerone non è il sapiente di Lucullo e nemmeno, ovviamente, quello di Epicuro, un sapiente cioè che si affida ai sensi e quindi alla conferma e all’assenso che alla sensazione occorre in qualche modo dare. Il sapiente che ha in mente Cicerone risulta piuttosto quello che «non darà l’assenso», nec tamen adsentietur, Luc. 105. In virtù di queste assunzioni metodologiche Cicerone dunque si muove saggiando il terreno già dissodato dalle varie scuole filosofiche. Lo fa sfruttando con abilità i materiali a disposizione di fonte soprattutto academica ma anche stoica, come è da tempo dimostrato; inoltre si riserva pur sempre lo spazio per calibrare in modo originale le obiezioni e le proposte. 23 Luc. 105: «Una volta dunque che sia stata introdotto e fissato il principio del ‘probabile’, e mi riferisco a un probabile privo di vincoli e limitazioni, libero, da nulla trattenuto, tu vedi certamente, Lucullo, che è già crollata quella tua precedente difesa dell’ ‘evidenza’. Infatti, il sapiente di cui io parlo guarderà il cielo la terra e il mare con quegli stessi occhi con cui li guarda lo stesso vostro sapiente, e con i medesimi sensi avrà la sensazione di tutte le altre cose che cadono sotto ciascun senso. E quel mare, che ora al soffio del favonio che si leva appare purpureo, tale sembrerà al nostro sapiente. Ma tuttavia costui non darà l’assenso, perché a noi stessi tale mare poco fa pareva ceruleo e stamattina pareva giallastro, e perché ora – sul lato in cui dal sole è illuminato e riflette i raggi – si va imbiancando ed è differente dalla superficie che gli sta di fianco e che lo circonda; per cui, se anche tu ti possa spiegare perché ciò accada, tuttavia non potrai sostenere che ciò che appariva ai tuoi occhi sia vero», Sic igitur inducto et constituto probabili, et eo quidem expedito soluto libero nulla re inplicato, vides profecto Luculle iacere iam illud tuum perspicuitatis patrocinium. Isdem enim hic sapiens de quo loquor oculis quibus iste vester caelum terram mare intuebitur, isdem sensibus reliqua quae sub quemque sensum cadunt sentiet. Mare illud, quod nunc favonio nascente purpureum videtur, idem huic nostro videbitur, nec tamen adsentietur, quia nobismet ipsis modo caeruleum videbatur mane ravum, quodque nunc qua a sole conlucet albescit et vibrat dissimileque est proximo ei continenti, ut etiam si possis rationem reddere cur id eveniat tamen non possis id verum esse quod videbatur oculis defendere. L’ABBOZZO MANCATO DI UN PROGETTO TEORETICO 145 Probabilmente in alcuni casi ci sfuggono i rinvii impliciti ad altri protagonisti e ad altre fonti a lui contemporanee, ma di certo il quadro d’insieme che ne risulta è molto chiaro e affidabilmente argomentato, cosicché la riduzione del suo approccio a semplice ‘eclettismo’ appare francamente inadeguata 24 . La sua progressiva opposizione all’Epicureismo matura nel seno di un’aspirazione interiore e di un impegno politico ostinatamente determinati. Di qui deriva l’importanza che il pensiero e l’interpretazione di Cicerone rivestono per lo studioso di oggi intenzionato a cogliere davvero l’animus filosofico della fine dell’età repubblicana. 4.1. CRITICA EPICUREA E CRITICA ACADEMICA NELLA RICOSTRUZIONE DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA Tenendo fermo l’obiettivo di questa indagine – e cioè l’individuazione dei tratti caratterizzanti la formazione filosofica di Cicerone – torna ora utile esaminare la lunga parentesi dedicata, nel I libro del De natura deorum, alla ricostruzione della storia della filosofia/teologia: §§ 25-41. In primo luogo il contenuto: il testo dossografico di Cicerone presenta in successione quasi una trentina 25 di filosofi del passato, da Talete allo stoico 24 Sul luogo comune dell’eclettismo ciceroniano cfr. Glucker [1988], pp. 38-39 n. 18; ma anche l’«affiliazione» di Cicerone alla scuola Academica può essere studiata nel suo problematico sviluppo storico: Glucker – riprendendo l’ipotesi tracciata da Hirzel [1964], III, p. 488-89, n. 1 – distingue Cicerone dapprima seguace di Filone, poi di Antioco, infine di nuovo di Filone, pp. 50-57. Tuttavia, fortemente critici riguardo a questa ricostruzione sono Lévy [1992], pp. 96-126 e 631-33, e Görler [1999], pp. 85-113. In particolare fanno problema i testi di più alta datazione come il De oratore, il terzo libro del De republica, il primo del De legibus, nei quali è impossibile non riconoscere un netto atteggiamento academico-scettico. 25 Esattamente sono 27, presentati in una successione attenta più a seguire l’evoluzione del pensiero che a fondarsi sull’effettiva cronologia: Talete (DK 11A23), Anassimandro (DK 12A17), Anassimene (DK 13A10), Anassagora (DK 59A48), Alcmeone (DK 24A12), Pitagora, Senofane (DK 21A34), Parmenide (DK 28A37), Empedocle, Protagora