My Botswana: 1° puntata
Never ending trip
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Raggiungere Ghanzi in Botswana è un vero viaggio, quelli che si facevano in passato, quando il
tempo trascorso a viaggiare ti faceva capire che stavi andando lontano. Certo per arrivare in
Botswana non ci vogliono mesi, ma quasi due giorni si. E vi assicuro che se parti da casa alle 8.00
del mattino e arrivi a destinazione alle 18.30 del giorno dopo, hai proprio la sensazione di essere
andata lontano. E devi essere motivato, convinto che ci vuoi arrivare alla fine del mondo. Quindi,
partenza da casa, taxi per stazione Centrale, autobus per Malpensa, aereo per Dubai, secondo aereo
per Johannesburg, terzo aereo per Maun, e infine 250 chilometri in macchina per arrivare a
destinazione. Il tutto accompagnato da interminabili ore di attesa tra un trasferimento e l’altro in
aeroporto. Sono stanca solo a ricordarlo. Però mi sembra sempre che questo lungo passaggio –
passaggio a sud – serva a farti entrare un po’ alla volta nell’atmosfera del continente nero. Oddio se
si potesse abbreviare la peregrinazione non dispererei.
Quando atterro a Johannesburg mi sento arrivata, perché lo senti proprio che sei in Africa, anche se
per la nostra meta il viaggio è ancora lungo. Un po’ (tanto) assonnata al Tambo International
Airport mi schianto su un divano di pelle gigantesco in uno dei caffe: muffin grande come una torta,
scone grande come una torta, caffe, te, il tutto accompagnato da marmellata, burro e formaggio. E
nonostante lo stomaco scombussolato dai vari pranzi, cene e colazioni sugli aerei – in ordine sparso
– , mangio. Fa freddissimo, eccolo l’inverno africano, e come ogni cosa in questo continente, non è
dolce o accogliente: ma duro, ti mette subito alla prova. L’arrivo a Maun nel primo pomeriggio mi
ricorda però che il freddo è solo del mattino e della notte. Il giorno è sempre caldo, soprattutto dalle
nostre parti, nel Kalahari. Andy ci viene a prendere, ci accoglie con il suo solito sorriso e la sua
allegria. L’aeroporto di Maun è casa. Non è un vero a proprio aeroporto come noi ce lo
immaginiamo, non ci sono negozi e ristoranti, solo il banco per il check in e il controllo passaporto,
adesso si che siamo in Africa.
Per me il viaggio da Maun a Ghanzi è sempre un vago ricordo, sono quasi in trans dopo tante ore di
viaggio. Ci si ferma a un certo punto per disinfettare le suole delle scarpe e le ruote della macchina.
Si, proprio così non sono in trans!! Questa operazione serve a impedire (ma…????) il passaggio di
infezioni bovine. Qui l’allevamento degli animali è un grande business, ci tornerò in seguito.
E poi arriviamo, finisce la strada asfaltata, la Transkalahari Highway, e facciamo gli ultimi dieci
chilometri di strada sterrata. Siamo nel mezzo del bush. Il mio mondo è tanto lontano. È buio, non
ci sono fari che illuminano il tragitto, il cielo è stracolmo di stelle, ma ci sono tutte queste stelle in
Italia? Fa freddo, ci aspetta una zuppa calda preparata da Charlcie, i tre cani che vivono tra il campo
e la scuola, Bruto, Lea, Chris, che ci saltano addosso e ci fanno un sacco di feste, e un letto caldo
grazie ad un pesante piumino (non al riscaldamento!). La notte d’inverno in Africa è
silenziosissima, nelle altre stagioni è molto rumorosa, la natura di notte chiacchiera. Ma ora riposa.
E riposiamo anche noi. Finalmente. Benissimo.
My Botswana: 2° puntata
Acqua
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A chi ci segue da tempo è noto che la moneta del Botswana è chiamata Pula e che “Pula” significa
“pioggia”. Che nel deserto è denaro e quando arriva si festeggia, o almeno si festeggia se non arriva
tutta insieme. Quest’anno la pioggia di un anno è scesa in un giorno solo provocando allagamenti e
danni un po’ ovunque. E la nostra pozza è diventata un lago. Gli alberi sono in parte ancora
sott’acqua e ci chiediamo quanto tempo ci vorrà ancora perché l’acqua scenda a livelli normali. Alla
fine della scorsa stagione secca la pozza era piena di pesci gatto – molto comuni in questa parte di
Africa – che si accalcavano nel fango e che facilmente erano pescati e mangiati dai locali. Ora non
si vedono più.
Sono arrivata al campo sabato sera, era già buio e non mi sono resa conto subito del laghetto, potete
immaginare la mia meraviglia quando domenica mattina mi sveglio e vedo tutta quest’acqua, acqua
da tutte le parti. Il paesaggio è bellissimo, ma certo è evidente che gli alberi non dovrebbero stare in
acqua.
Decidiamo, Giancarlo ed io, di fare un giro intorno al lago per vedere meglio quanto si è esteso, ci
accompagna Bruto che intanto si beve anche un po’ d’acqua, lo fa sempre anche quando è molto più
bassa e fangosa, mi sono sempre chiesta come sia possibile che non gli faccia male. Anche se so che
Andy l’ha vaccinato contro ogni tipo di malattia africana. Ci mettiamo quasi un’ora a girare attorno
e quando siamo dalla parte opposta al campo, mi accorgo di essere proprio in mezzo al bush e che
da un momento all’altro potrebbe spuntare un rinoceronte, un hippo, un leoprado… forse è meglio
affrettarsi anche se c’è Bruto a proteggerci.
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Ma Giancarlo deve fare le foto (altrimenti cosa pubblico su Facebook??!!), allora procediamo con
calma. Arriviamo alla fine della passeggiata e sono sempre più sbalordita da quanta acqua si sia
accumulata. Andy ci mostra dove è arrivata, ad allagare le case e i magazzini, si vedono ancora i
segni sui muri. E non sappiamo cosa aspettarci per il futuro, i cambiamenti climatici hanno favorito
questi eventi estremi, improvvisi e violenti.
Tra l’altro la pioggia è arrivata con molto ritardo, a marzo, mentre le prime piogge dovrebbero
arrivare in dicembre e gennaio, anche il bush ha sofferto, l’erba fatica a crescere, non ha avuto il
tempo, e gli animali selvaggi si spostano da una parte all’altra della riserva in cerca di prati verdi
senza riuscire a trovarli come di solito. Sarà un anno duro per gli abitanti del bush.
Sono molto preoccupata, mi è sempre più chiaro che la natura ci sta danno dei segnali, degli
avvertimenti. Ma qui, in questo angolo di mondo impotente, non si può realmente incidere sui
cambiamenti globali. Qui permane, da secoli, da millenni, un sentimento comune: la rassegnazione.
My Botswana: 3° puntata
A good start
Lunedì mattina, dopo la domenica passata a meravigliarmi per l’apparizione del lago e la gita a
Ghanzi per fare la spesa, partiamo con la macchina che ci ha dato Andy per andare a scuola, che
dista circa 10 chilometri dal campo dove noi alloggiamo. Il campo si trova nel mezzo del bush, ci si
arriva attraverso una strada sterrata che si può percorrere solo con un auto 4x4. Ricordo la prima
volta, in Sud Africa, in cui mi capitò di soggiornare in un lodge isolato. Mi sentivo persa, pensavo:
“E se succede qualcosa qui cosa si fa? Prima di raggiungere un surrogato di civiltà faccio in tempo a
morire… E poi internet, il telefono non funzionano bene…” Insomma la sensazione di essere
scollegata dal mondo all’inizio può essere piuttosto angosciante, vi posso assicurare però che con il
tempo ci si abitua, ci si abitua a tutto, e questo essere sconnessi può diventare una condizione molto
piacevole.
Vengono con noi Bruto e Lea che da un po’ di tempo a questa parte hanno preso l’abitudine di
scappare dal campo al mattino e andare a scuola. Si fanno 10 chilometri di corsa, inseguendo gli
animali selvaggi e brucando erbe e cespugli. Sono la disperazione di Andy che teme che prima o poi
qualche impala maschio arrabbiato li incorni o si imbattano in un serpente velenoso. Per evitare la
fuga li portiamo direttamente noi a scuola e al pomeriggio li riportiamo indietro.
Il bush è abbastanza verde, anche se c’è poca erba, mi godo beata il paesaggio, quando la macchina
comincia ad arrancare. “Ma cosa succede?” dico io. “Abbiamo bucato” risponde Giancarlo.
Replico: “A good start”. Ci troviamo così, circa a metà strada, con la gomma da sostituire. Il sole
incomincia a scaldare e noi a sudare. Giancarlo si mette al lavoro, l’auto era appena stata acquistata
da Andy, è usata, e ahimè mancano alcuni pezzi del crick. Ma bisogna arrangiarsi.
Questo è uno dei più grandi insegnamenti dell’Africa, di fronte ai problemi, che si susseguono uno
dopo l’altro continuamente – ve lo assicuro – , non bisogna arrabbiarsi, né scoraggiarsi, ma, con
calma, andare avanti. “Bucare” è una di quelle complicazioni a cui ci si abitua presto, le strade sono
molto dissestate e prima o poi … capita. Sono incaricata (incarico importantissimo???!!!) di cercare
un sasso largo e piatto da mettere sotto la gomma bucata che tende a sprofondare – il terreno è
sabbioso. Sto attenta ai serpenti e agli scorpioni alzando i sassi, ci manca solo questo. Trovo il
sasso, Giancarlo riesce ad adattare gli attrezzi che ha a disposizione. Lea e Bruto rimangono in
macchina in placida attesa. A un certo punto Bruto controlla che Giancarlo stia facendo le cose
come si deve e si fa un giretto intorno per sgranchirsi le zampe.
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Scatto qualche foto per gli amici… Dopo circa quaranta minuti, la gomma è sostituita. Ripartiamo
per la scuola. Un buon inizio di giornata.
My Botswana: 4° puntata
Bambini felici
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In una delle mie prime chiacchierate con Cecilia, mi ha raccontato che i suoi bambini sono “felici”,
mi ha anche detto che all’inizio sono un po’ timidi, paurosi, a qualcuno nei primi giorni può
scappare pure una lacrima – non c’è l’inserimento con la mamma come nelle nostre scuole materne,
anche perché una mamma non può passare le giornate all’asilo dove ci sono le maestre che si
occupano di uno dei suoi bambini, a chi lascia tutti gli altri? Non c’è tempo da perdere. Insomma i
bimbi devono adattarsi da soli… poche storie.
Ho sperimentato i primi giorni di scuola dei nostri bimbi, di 3 anni e anche meno, all’inizio possono
essere disorientati, ma poi è una festa: cibo a volontà, tante cose divertenti da fare, giochi e vestitini.
“E chi se ne importa se vestiti e giochi sono usati, noi non le abbiamo mai viste tutte queste cose,
per noi sono bellissime”. Si, i nostri bambini sono contenti, la nostra scuola per loro è il paradiso
terrestre. Non ho mai visto un bimbo lamentarsi di un vestito che gli abbiamo dato e rifiutarsi di
mangiare qualcosa: “E’ tutto buonissimo e bellissimo in questo posto, chissà perché nella nostra
capanna non ci sono tutte queste cose…”
Ci spiace tanto non poterne accogliere di più, speriamo con il tempo di farcela.
Cecilia mi aveva anche raccontato di quanto sono affettuosi e desiderosi di affetto. Sperimento
questo calore ogni volta che arrivo a scuola, e anche quest’anno già dal mio primo ingresso nella
scuola, mi vengono tutti incontro, vogliono tutti essere presi in braccio e baciati, e mi fanno cadere.
E poi devono giocherellare con i miei strani capelli biondi e lisci. “Sarà un extra-terrestre questa
tipa pallida, ha lo stesso colorito di Ouma Cecilia, sarà che tutte le Ouma sono così???!!!” Mi
guardano sempre un po’ incuriositi e spesso mi chiamano Ouma come Cecilia. Ora “Ouma”
significherebbe nonna e/o donna bianca. Speriamo la seconda!
Da viziatrice cronica, mi sono procurata una bella ciotola di caramelle, e i bimbi si mettono uno
dietro l’altro con le mani a coppa per prenderne una. “Bene bene, mangiamo queste buonissime
caramelle, e poi andiamo a lavarci i denti, come ci ha insegnato Ouma Cecilia”. Con la nonna
svizzera c'è poco da scherzare.
My Botswana: 5° puntata
Il mio primo leone si chiamava… Zero
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Nella riserva in cui si trova la scuola non ci sono leoni. Per trovarli bisogna fare circa 100
chilometri e andare nella Central Kalahari Game Reserve, un ampio parco nazionale nel deserto del
Kalahari. Fondata nel 1961, si estende su una superficie di 52.800 km² diventando così la seconda
riserva più grande del mondo. Non è che dalle nostre parti non ci siano mai stati i leoni, c’erano
eccome, ma sono stati uccisi o indotti a spostarsi in altre aree. Ci sono tanti allevamenti di animali
(e mangiarne meno di carne? io non la mangio da anni e sto benissimo..) e la presenza del re della
foresta non era gradita. All’inizio degli anni ’60 ce n’erano tantissimi, così mi ha raccontato
recentemente Mr Dick Eaton, il nostro vicino di casa, quasi 92 anni, e un’energia da vendere. Mi ha
detto che quando si trasferì in Botswana dal Sud Africa, su incarico del governo, visse per cinque
anni accampato, con il fuoco a proteggerlo la notte dai leoni e dagli altri animali selvaggi. Lui ai
leoni non sparava, da carnivoro convinto mi dice: “Io non sparavo agli animali che non potevo
mangiare”.
Questo problema non c’è più, i leoni non ci sono, e dagli ultimi chiari di luna, sembra che ci siano
esseri umani ritenuti senzienti che provano divertimento e piacere dall’ucciderli, farli soffrire e
minacciarne la sopravvivenza là dove ci sono ancora.
Ma voi lo sapete che emozione è vedere un leone libero in natura? Una eccitazione incredibile, il
ruggito, l’incidere imponente, l’ondeggiare elegante del corpo e della criniera, lo sguardo
profondissimo, non a caso è stato definito il re. È il re dell’Africa: intimorisce e affascina, non si
fiderà mai di te, e tu farai bene a non fidarti mai troppo di lui.
Il mio primo leone si chiamava Zero, l’ho visto una decina di anni fa durante il mio primo viaggio
in Africa, in una riserva privata, accanto al Kruger National Park, in Sud Africa. Me lo ricordo
come fosse ieri: era enorme, massiccio, bellissimo, una criniera bruna che si schiariva verso il
muso, la coda arrotolata cercava il cielo, ci guardava diffidente, e poi un ruggito, a chiamare la sua
compagna e ad allontanare un leone giovane che si avvicinava dalla riserva di fianco. Il ruggito del
leone può essere udito fino a 9 km di distanza, la prima volta che l’ho sentito, all’imbrunire, ha
sovrastato tutto e tutti, riducendo al silenzio l’intera natura circostante, mi è sembrato quasi che ci
fosse il terremoto, che la terra sotto i miei piedi si muovesse. Sono rimasta senza fiato, un incanto e
una potenza del creato.
Il Mahatma Gandhi sosteneva che la grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono
giudicare dal modo in cui tratta gli animali. Si dice che Leonardo da Vinci una volta disse che verrà
un tempo in cui l’uccisione di un animale sarà punita nello stesso modo in cui è punita l’uccisione
di un uomo. Mi auguro che quel “tempo” sia arrivato.
May you rest in peace, Cecil.
My Botswana: 6° puntata
L’inverno africano
Il sole d’inverno tramonta presto in tutto il mondo e l’Africa non fa eccezione. Però l’escursione
termica dal giorno alla notte nel deserto del Kalahari è tale da farti pensare che il sole lì tramonti un
po’ di più. Si passa dai gradevolissimi 25 gradi di media a 0 gradi o giù di lì. Tra il buio, il freddo e
il fatto che non è che ci sia una gran vita notturna, l’unica cosa che ti rimane da fare è incapsularti
tra coperte e piumini il prima possibile, magari con un bel libro da leggere. La sensazione è molto
piacevole, un po’ di freddo concilia il sonno e poi c’è un tale silenzio. Mi fa sempre impressione
questa quiete invernale, nelle altre stagioni rimbombano voci, passi, richiami, tonfi che si fa
addirittura fatica a dormire: una gran confusione, ma che cosa succederà mai là fuori? A noi umani
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non è dato di sapere. La notte in Africa è degli animali, se vuoi intrometterti, affari tuoi, ma rischi di
non vedere l’alba. Le strade sterrate, ma anche quelle asfaltate, non sono illuminate e le
assicurazione delle auto – udite bene – non rimborsano danni arrecati o subiti dopo il tramonto.
Almeno la notte lasciamola agli abitanti legittimi della wilderness. Per me va benissimo, non ho mai
amato i divertimenti notturni. C’è buio, non si vede niente, la notte per gli umani è fatta per
dormire. Quanta energia si potrebbe risparmiare!!!
D’inverno non ci sono gli insetti, o meglio ci sono pochi insetti. Son quasi preoccupata, ma dove
sono finiti??? Non si staranno estinguendo anche loro? Sono abituata a trovarmeli da tutte le parti…
e pensare che fino a qualche anno fa mi terrorizzavano. L’aspetto interessante è la varietà di bugs
che frequentano il deserto e la velocità con cui le specie si avvicendano, nel giro di un paio di
settimane potete vederne molte e molto diverse, ogni mese le sue bestiole, spesso giganti da
chiederti se una cosa così grande possa definirsi “insetto”. Vi dirò che quasi mi sono mancati. Un
capolavoro di biodiversità.
Il risveglio al mattino è brusco, mi bardo con cappello e sciarpa, e accendo il gas per fare il caffè,
intanto mi scaldo. Il freddo africano sembra più aspro, ma il problema è che non abbiamo il
riscaldamento! A dir la verità qui quasi nessuno ce l’ha, perché per la maggior parte dell’anno fa
caldo, e quando dico che fa freddo a qualche boscimano che lavora al campo, mi guarda con un
certo distacco misto a irritazione e sarcasmo, e leggo sui suoi occhi ciò che sta pensando: “Cosa
saranno mai due e tre mesetti di freddo, e poi solo di notte, voi occidentali siete troppo viziati, state
pure nella vostra casa di legno, che cosa dovremmo fare noi che viviamo in una capanna???!!!”. In
effetti, meglio non lamentarsi, penso ai nostri bimbi, anche loro nelle capanne, meriterebbero una
casetta dove ripararsi. Cecilia mi ha raccontato che nei primi anni i bimbi d’inverno arrivavano a
scuola con i sederini bruciacchiati, perché la notte, per via del gelo, si avvicinavano troppo al fuoco.
Negli anni abbiamo cercato di dare a tutte le famiglie coperte, abbigliamento pesante e cappellini,
per ripararsi dalle rigide notti del deserto.
Ma quando Andy ci dice che lo scaldabagno nella nostra casetta si è rotto… già tremo all’idea della
doccia fredda, va beh che siamo in Africa e bisogna adattarsi, ma proprio non ce la si fa. Si mettono
tutti all’opera per far funzionare un pannello solare che possa produrre l’acqua calda, ce n’è uno
solo, chissà se basterà. Questa operazione so già che non sarà immediata, i nostri amici ci
metteranno giorni, ma nel frattempo cosa si fa? Ci provo, giuro che ci provo a fare la doccia fredda.
Non c’è modo, d’estate ce la faccio, ma ora no. Mi arrendo. La doccia fredda no. Andy ci
suggerisce di andare nello chalet di fianco a noi a fare la doccia, l’unico problema è che bisogna
fare il fuoco… il fuoco??? Si proprio così. Un fuoco sotto a un grande bidone/pentolone pieno
d’acqua. Sicura replico: “Ok, non c’è problema, facciamo sto fuoco”.
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Ma non è come dirlo, anche qui dobbiamo capire come accenderlo, perché non pensate di mettere lì
due pezzi di legna e tutto funziona. Il fuoco ha bisogno di attenzione, deve essere seguito altrimenti
si spegne. Incarico d’ufficio Giancarlo di fare questa cosa: “Senti se vuoi che mi lavi, tu alle tre del
pomeriggio, ti cerchi la legna e mi fai il fuoco”. Ubbidisce, l’idea che non mi lavi per giorni è una
ipotesi impraticabile. Andiamo avanti così in realtà per tutto il nostro soggiorno, perché il povero
pannello solare, dopo vari tentativi viene installato, ma da solo non riesce a produrre abbastanza
acqua calda…
E poi alla fine… ma che bello fare il fuoco!
My Botswana: 7° puntata
Container
Una delle principali ragioni del mio ultimo viaggio è stata l’arrivo del tanto agognato container alla
casa dei bambini. Ci sono voluti circa 2 anni per riempirlo e quasi 1 per spedirlo. Ogni volta che
parte un container la Ceci dice: “Questa è l’ultima volta che facciamo un container!” È un lavoro
senza fine, recuperare, conservare, controllare che ciò che ci viene regalato sia in buone condizione,
fare scatoloni e scatolini, pesare, indicare ogni cosa che ci infiliamo, e riuscire a pigiare il più
possibile, dato che i costi della traversata sono importanti. E poi c’è tutta la burocrazia italiana e
africana a cui tentare di sopravvivere, senza farsi prendere dallo scoramento e/o dall’ira. “Questo
documento non va bene, dovete rifarlo, il timbro lì, la firma là, andate all’Aci e poi dallo
spedizioniere, poi tornate qui, ma prima pagate questo… No no, non ha capito deve andare
nell’altro ufficio. Questo documento per l’Italia, quest’altro per il Botswana, ma solo in originale,
mi raccomando, serve anche la fattura proforma… Ma ce l’avete il codice XYZ? E l’autorizzazione
ZYX? E no… allora non si può fare”. Per fortuna c’è Daria Costantini che ci dà una grande mano e
otteniamo documenti e autorizzazioni. Così una squadra di valorosi (veramente) dedica un we alla
sistemazione del container, incontrando non pochi problemi. Il camion rimane infangato e deve
intervenire una ruspa (thanks a million Cristian).
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Insomma un’avventura scoraggiante e infinita che non si sarebbe mai conclusa se tanti amici non ci
avessero aiutato, ognuno con le proprie capacità e competenze, armati di tanta pazienza. Grazie a
Manuela Manfredi, Marco Cesarini, Federico Moranzoni, Matteo Gobat, Angelo, Luca Baglioni,
Alex, Mattia Marzaro, la nostra Ceci. Grazie a tutti coloro che ci hanno aiutato.
Arriviamo alla fine, il container è sigillato alla presenza del presidente della Repubblica italiana e
del Botswana collegato via skype (scherzo… ma ci è mancato poco), e siamo pronti ad inviare il
camion e… cosa succede? Un violento temporale fa cadere un palo della luce proprio davanti al
container impedendoci di spostarlo. Seguono numerosi contatti della Manu con l’Enel che alla fine
si decide a intervenire. Nella vita bisogna essere determinati e tanto perseveranti.
Felici e contenti, camion + container si avviano verso il porto di Genova per essere caricati sulla
nave che trasferirà il container nel giro di un mese fino a Walvis Bay in Namibia, da lì un altro
camion lo porterà alla destinazione finale. Alcuni documenti che servono allo sbarco sono in Italia,
ma Andy decide di rientrare qualche giorno per recuperali ed occuparsi di alcune faccende urgenti
qui. Siamo tutti riappacificati con l’universo… ma alt! Troppo presto! La nave arriva con due
settimane di anticipo (ma come si fa!!!) e mi tocca spedire di fretta e furia i documenti in Africa,
sperando che l’ufficio DHL di Ghanzi, nuovo di pacca, riesca ad intercettarli. Alla fine i suddetti
raggiungono il nostro commercialista in loco che li porta al camionista che recupera il container.
Ci credete? Ce l’abbiamo fatta! Quando arriva il container a scuola è una gran festa, è come la
valigia di Mary Poppins, contiene di ogni: vestiti, scarpe, carta, quaderni, biro, matite, pennarelli,
giocattoli, puzzle, strisce di pelle e cuoio (?), stoffe, sedie, tavoli, pezzi di computer, altro che non
saprei catalogare e pure un camioncino! Sono tutti felici di ricevere ciò che noi dall’altra parte del
mondo non usiamo più. Spero che l’Africa continui ancora per un po’ a sorridere e rallegrarsi per le
piccole cose, una caramella, un bacetto, un vestitino usato, una danza, un canto.
Nei giorni trascorsi a scuola abbiamo cercato di sistemare un po’ di cose: Giancarlo ordina 1600
chili di carta, io e la Charlcie ci dedichiamo a piegare e sistemare i vestitini, Andy ricompone i
computer, Ob, Tentu e Jeffrey si occupano delle scarpe. Tutto questo materiale ci servirà per anni…
menomale, perché chi lo dice alla Ceci e ai nostri amici: “Beh, quasi quasi potremmo fare un altro
container…”
My Botswana: 8° puntata
Ghanzi
In questi giorni di vacanza o semi-vacanza vi voglio presentare una lieta cittadina del Botswana,
destinata a diventare una meta turistica di grande successo… beh forse non proprio, ma chi ha
visitato l’Africa sa che le città sono sempre.. diciamo molto minimali. Ghanzi è il nostro contatto
con il mondo, si trova a circa 30 chilometri dalla scuola. Sono due vie in croce, lungo le quali sono
state piazzate le cose essenziali: vanta ben tre supermercatini, qualche negozietto di cinesi, banca,
ospedale, scuola primaria, uffici governativi, un ristornate/hotel frequentabile, la farmacia, gli
ambulatori di due medici sudafricani, gas station, un negozio di elettrodomestici e mobili, un
hardware (tipo Bricoman dei poveri), l’ufficio DHL “nuovodipacca” e poco più. A lato delle attività
commerciali ufficiali, ci sono banchetti improvvisati dove altrettanti improvvisati commercianti
vedono caramelle, bevande, abiti usati e altre carabattole recuperate chissà dove. Nel ultimi anni si è
molto sviluppata, certo da un punto di vista estetico lascia a desiderare, ma qui siamo in Africa, le
raffinatezze dell’Occidente sono ancora considerate superflue.
Ghanzi è il nostro unico diversivo e infatti quando ci andiamo facciamo il tour dei supermercati,
trovo anche una sorta di mascarpone e dei savoiardi, qui chiamati “women fingers”, con cui
preparare uno pseudo tiramisù per la gioia di Andy e della Charlcie. C’è una discreta varietà di
prodotti, anche se capisci dalle confezioni da 10 chili quello che la gente compra di più: riso, pasta,
fagioli, maize, pap e zucchero! Gli africani hanno passione, una dipendenza, da zucchero e te.
Bevono letteralmente zucchero con il te: una media di 5 cucchiai di zucchero in una tazza! Il te
molto zuccherato è apprezzato perché da tanta energia immediata. C’è anche frutta e verdura, ma
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ben poco, importate dal Sud Africa e inacquistabili per la gente del luogo. Ci sono pochissimi
bianchi che abitano in questa zona, la maggior parte sono ‘Boers, (si pronuncia Burs, e in italiano si
può tradurre “Boeri”, allevatori di bestiame), ma anche loro non sono particolarmente ricchi e
preferiscono una bistecca a un pomodoro o una banana.
Finito con il supermercato passiamo dal negozio di elettrodomestici e mobili, alla ricerca di freezer
e frigoriferi a basso consumo per la casa dei bambini. Sono sempre colpita dai mobili dall’atmosfera
anni ’70 che vendono in Africa, letti matrimoniali grandi come un monolocale a Milano e
poltroncione che neanche la Regina d’Inghilterra. Non capisco chi mai se li possa comprare e chi
mai li produca.
Tappa obbligata è il pranzo al Kalahari Arms, dove non c’è mai quasi nessuno, solo qualche
funzionario governativo e i pochi bianchi della zona, che oramai conosciamo, e dove io, dopo varie
prove mi limito a ordinare un sandwich tomato and cheese. Ogni altro tentativo è stato sventurato, e
preferisco non rischiare più. Ma è un posto accogliente e pulito e non si aspetta neanche tanto per
gli standard africani. Ancora affamata esco dal negozio e decido di fare un giro nei due negozi
cinesi, anche perché non c’è altro. Mi illumino alla vista di mutandine di misure mini, abbiamo
sempre problemi a trovarne di piccole, come per le scarpe. Mi metto a trafficare e un commesso
viene in aiuto. Chiedo: “Ne avete altre?” … stupito: “Quello che c’è è qui”. “Va bene”. Incomincio
ad accaparrare i pezzi più piccoli. Conto fino a 40, con Giancarlo che mi guarda parecchio
imbarazzato: “Ma tutte queste mutande… non so, ma ti servono veramente? Prendiamo anche
qualcos’altro, oppure non prendiamole proprio, sono anche bruttarelle”. In effetti non sono in filo di
Scozia prima scelta, ma sono appagata di averle trovate, abbiamo 85 bambini da “mutandare” due
volte all’anno, meglio approfittare.
Ci avviciniamo alla cassa e la cinese si mette a contare, è tra il contento e il perplesso: “Caspita e
chi me le compra più così tante mutandine, ma questa piccoletta quanti figli deve avere, è una
wonder woman??”. Non dico niente, paghiamo, e torniamo a casa, io felice e contenta, Giancarlo
rassegnato, con tutte le nostre mutande.
My Botswana: 9° puntata
Ghanzi show
In Botswana sono tutti carnivori, per me e mio marito che siamo vegetariani è sempre imbarazzante
dirlo e praticare l’abitudine. Certe volte ho anche trasgredito per evitare complicazioni: se vai a casa
di un allevatore di mucche per cena, non puoi mica dirgli che non mangi le sue bistecche. Insomma
si rischia di fare la figura degli europei idealisti, integralisti, snob e anche un po’ stupidi: ma perché
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mai privarsi di un tale piacere? Per me non è un piacere, e sono tanto tanto convinta di questa scelta,
nata da ragioni etiche ed anche di salute.
Non voglio fare la predica sull’argomento, invito sempre e solo a riflettere sul fatto che non è
necessario ingurgitare ogni giorno cadaveri, soprattutto a questo punto della nostra storia dove ci
sono oramai tanti sostituti.
Ma il Botswana è un’altra cosa e la produzione di carne è un business irrinunciabile. La cittadina di
Ghanzi una volta all’anno ospita il Ghanzi Show, una mix tra mercato rionale, festa del paese ed
EXPO.
Il fulcro della festa è l’esposizione degli animali più grandi e belli. Accorrono allevatori da tutto il
paese, ma anche da quelli limitrofi, desiderosi di acquistare il capo migliore, per assicurarsi una
discendenza di prima qualità. Gli animali quando vengono venduti sono pagati a peso e quelli di
stazza big sono i più richiesti.
L’allevamento si è molto sviluppato per varie ragioni, principalmente per la difficoltà a coltivare –
il Botswana è in gran parte formato dal deserto del Kalahari, dove è molto complicato praticare
l’agricoltura. Le popolazioni locali sono vissute per secoli di caccia e raccolta dei frutti della terra.
Certo, cacciare è difficile – soprattutto se sei armato solo di arco e frecce e non hai una macchina –
e la carne veniva mangiata raramente, magari una volta al mese.
Per secoli e secoli l’uomo ha mangiato la carne raramente e il suo organismo si è adattato a questi
ritmi, l’aumento della frequenza di consumo della carne è avvenuto di recente ed è stato troppo
rapido per il nostro metabolismo, anche per questo dovremmo stare attenti.
L’allevamento è però un’attività adatta a quest’area e per tale ragione si è così diffuso. Facendo
molto caldo non è possibile produrre il latte che si faticherebbe a conservare. No choice: animali da
macello.
Sono stata molto incuriosita dal Ghanzi Show e sono andata a visitarlo. C’era tanta gente,
soprattutto bianchi, presi dalle contrattazioni per l’acquisto degli animali, e poi esposizioni di
materiali e macchinari per l’allevamento, bancarelle con collanine, braccialetti, sciarpine, giochi,
vestiti, ecc., banchetti/ristorante con grandi pentoloni dove vengono preparati i famosi stufati, stand
del Botswana, delle banche e degli operatori telefonici. Uguale a EXPO.
Ho visto animali enormi e magnifici, mucche da 600 chili e più. Cose mai viste per me che da
bambina ho frequentato molto la campagna brianzola da dove la famiglia di mio papà proviene. Ma
vi devo dire che mi hanno fatto una gran pena: animali così belli vengono cresciti solo per
ammazzarli.
E arrivata a casa ho mangiato molto contenta & convinta la mia solita pastasciutta.
My Botswana: 10° puntata
Andy e LaCharlcie
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Andreas per tutti Andy, figlio di Cecilia, e LaCharlcie (tuttoattaccato, la chiamiamo così…), la sua
fidanzata franco-americana, si sono trasferiti da tempo in Botswana, gestiscono il campo tendato
vicino alla scuola e la scuola stessa. Charlcie è la nostra manager in loco, segue il personale e
l’organizzazione della casa dei bambini.
Sono stati decisi in questa scelta e sono anche sicuri e direi contenti, non mostrano cedimenti o
ripensamenti… almeno per adesso. Siamo molto rasserenati dal fatto che ci siano loro, che seguono
con attenzione, dedizione e amore il progetto. Questo non è un lavoro come un altro, devi voler
bene a questo lavoro, non basta che ti piaccia, ti dia soddisfazione, ti realizzi. Ci devi mettere la
testa, ma soprattutto il cuore. It’s a love affair. Lo è per tutti noi.
Vivere nel bush, tutti i giorni, tutto l’anno, non è facile e non è da tutti. Non basta la volontà, ci
vuole anche una certa predisposizione all’emergenza costante – allagamento, siccità, sciacalli con la
rabbia, giraffa con la congiuntivite, mamba nero in ufficio, parto in macchina, ecc… mi fermo
perché mi sta salendo l’ansia … e poi alla vita spartana, all’isolamento: all’Africa. Andy e
LaCharlcie hanno i geni giusti, pare che siano sempre stati lì, che ci siano nati. Si sono adattati
molto bene, e mi sembra pure che Andy a questo punto parli inglese con un accento africano. Sono
più africani degli Afrikaans e dei bianchi africani.
Amano molto la vita semplice, secondo me vivrebbero tranquillamente in una tenda, ma si adattano
a vivere in una casa di legno. Non hanno nessun problema a fare la doccia freddina e a stare senza
riscaldamento…televisione, lavatrice, lavastoviglie, ferro da stiro, phone, radio, ecc. Continuano
però ad apprezzare la buona cucina e Andy sta attraversando una seria crisi di astinenza da
parmigiano reggiano, salame ed espresso. Vivono un po’ accampati, non a caso quando si va a cena
da loro si mangia nei piatti del campeggio! E Andy adora particolarmente le t-shirt con i buchi e le
infradito every season of the year.
È come se in questo modo si sentano finalmente liberi e protagonisti della loro vita, impegnati in un
progetto che costruiscono e accudiscono giorno dopo giorno. E ogni giorno una nuova idea, fanno
esperimenti, sono ingegnosi e intraprendenti. Prima le galline (che purtroppo sono spesso vittima
dei serpenti e dei predatori), poi gli asini, e poi le piantine per depurare l’acqua che esce dagli
scarichi, la piscina bio con le rane con cui fare il bagno, e … se facessimo un rettilario?
Certo non è tutto rose e fiori, e Andy mi dice sempre che gli manca la sua famiglia e i suoi amici,
che la sua vita sociale si è annullata... un prezzo va pagato.
Mi ricordano un po’ Henry David Thoreau, uno scrittore/filosofo americano che mi ha fatto
innamorare della wilderness americana, tanto da andare a vivere negli States.
In Walden, ovvero Vita nei boschi racconta il soggiorno in una capanna, costruita in gran parte da
solo, sulle sponde del lago Walden vicino alla cittadina di Concord in Massachusetts. Lì trascorse
oltre due anni della propria vita alla ricerca di un rapporto intimo con la natura e con se stesso in
una società che non rappresentava ai suoi occhi i valori da seguire, ma solo l’utile mercantile.
Così descrisse il suo obiettivo, il suo sogno:
“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della
vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non
scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a
meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il
midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita,
falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici
[...]”
…ma che bel sogno.
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My Botswana: 11° puntata
Rhinos
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In questo ultimo viaggio sono stata molto felice di vedere i rinoceronti bianchi che vivono nella
riserva che ospita anche la casa dei bambini. L’anno scorso non li avevamo visti e mio marito
incominciava a credere che fossero scomparsi o migrati altrove. Nel bush gli animali spesso non si
vedono per settimane, inoltre quest’area è poco frequentata dai turisti, per cui la difficoltà aumenta
non essendoci quasi mai nessuno che li intercetta e può fornire informazioni sulla loro presenza.
Stavolta li abbiamo visti più volte per la gioia della macchina fotografica di Giancarlo e di tutti gli
amici che possono rallegrarsi alla vista di bellissimi scatti.
Non mi ero mai molto interessata ai rinoceronti, ho sempre avuto a cuore le specie a rischio e ahimè
in Africa abbondano, ma mi ero concentrata solo su leoni e ghepardi. Quando ho incominciato a
frequentare la riserva, mi sono appassionata a questa specie non meno affascinante. All’inizio mi
sembravano brutti, un po’ strani e goffi, niente a che fare con l’eleganza felina. Però un po’ alla
volta ho imparato ad apprezzarli, emanano un’aura primitiva, sembrano i cugini dei dinosauri, e in
loro presenza pare di tornare indietro millenni, all’inizio della storia. Per qualche ragione ai miei
occhi assurda sono stati letteralmente perseguitati dall’uomo, soprattutto per il corno che si ritiene
avere chissà quali poteri magici. I rhinos sono certamente magici: custodiscono la memoria dei
tempi, ci ricordano le origini della vita, del nostro Pianeta. Ma per farlo devono essere vivi, con il
loro corno in bella vista.
Il rinoceronte bianco, detto anche rinoceronte camuso, è un mammifero della famiglia dei
Rinocerontidi, di cui è il più grande rappresentante. Dopo le due specie di elefanti, è il più grosso
animale terrestre. Di indole relativamente tranquilla, talvolta forma piccoli branchi che possono
superare i 10 individui circa.
Nel passato il rinoceronte bianco si è trovato in gravissimo rischio di estinzione a causa della caccia
e sembra che alla fine del 1800 ne fossero rimasti appena 25 o 30 esemplari. L’adozione di misure
protettive, più tempestive che per altri animali del continente, ne ha favorito la ripresa e oggi la
popolazione conta circa 12 mila individui concentrati nei paesi del Sud Africa. Ci sono molti
progetti per la salvaguardia di questo animale e molti hanno dato buoni risultati.
Nella nostra riserva ci sono ora 16 rinoceronti, quando fu istituita, circa 20 anni fa, ce ne erano solo
due, peraltro acquistati altrove con lo scopo di farli riprodurre in un ambiente sicuro e protetto.
L’anno scorso è nato un piccolino che ci veniva a trovare la sera alla pozza di fronte a casa.
12 mila rinoceronti, 7 miliardi di esseri umani: sono più preoccupata per i primi.
My Botswana: 12° puntata
Ouma Cecilia
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Cecilia è in partenza per il Botswana, come sempre non vedeva l’ora. Nel mio ultimo viaggio lei
non c’era, e devo dire che mi è mancata.
Cosa posso raccontarvi ancora della Ceci… Se avete letto la sua biografia o la conoscete sapete
bene con chi abbiamo a che fare.
Ho riflettuto molto in questi anni sulle persone di cui amo circondarmi e sui comportamenti umani,
e frequentando da tutta la mia vita lavorativa l’accademia e i dipartimenti di filosofia, sociologia e
psicologia, mi permetto la mia delirante dose di teorizzazioni.
Secondo me tutti gli esseri umani sono dei sognatori, tutti abbiamo dei sogni, ma bisogna fare delle
distinzioni. I sognatori si dividono in due gruppi: i piccoli sognatori le cui aspirazioni riguardano se
stessi, la propria famiglia e i propri amici, e i grandi sognatori i cui desideri, progetti riguardano una
sfera più ampia di persone, animali, cose. Non c’è un sognatore migliore di un altro che sia piccolo
o grande, se i sogni sono buoni vanno bene tutti, fanno il bene, tutti.
All’interno del gruppo dei grandi sognatori però bisogna fare due ulteriori suddivisioni, ossia tra
coloro in cui prevale il “gene egoista” – che aspirano a fama, successo, soldi, potere e che magari in
tutta questa bramosia poi finiscono anche per fare delle cose buone, pensiamo ad esempio a
personaggi molto conosciuti come Steve Jobs o Albert Einstein – e tra coloro in cui prevale il
“gene altruista”.
Il filosofo Auguste Comte teorizzò che l’altruismo umano è un istinto naturale del tutto simile
all’egoismo: mentre quest’ultimo tende alla conservazione del singolo individuo, l’altruismo è
fondamentale per la conservazione della specie e persino, nelle forme più evolute, l’altruismo ha
giocato un ruolo rilevante nel mantenimento e nello sviluppo sociale del genere umano.
La Ceci appartiene alla categoria del “gene altruista” ed è su questa strada che credo io e lei ci
siamo trovate. Per questi individui la realizzazione personale passa attraverso il contributo all’utile
e/o al bene collettivo, pensano che la propria vita non possa essere spesa solo per se stessi e i propri
cari, troppo poco. C’è un mondo fuori che ha molto più bisogno, per il quale si deve fare qualcosa,
praticamente, ora. Tali comportamenti premiano chi li agisce. L’altruismo innesca i centri della
ricompensa nel cervello. I neurobiologi hanno scoperto che quando si è impegnati in un atto
altruistico, i centri del piacere del cervello si attivano. E poco importa sei gli aiutati non sono
riconoscenti e ci si imbarca in operazioni visionarie, bisogna essere molto audaci e un po’ folli: è
una grande complicazione – rischiosa, temeraria -- farsi gli affari degli altri. Ma questi esseri umani
sono incoscientemente coraggiosi perché come scriveva Alberto Moravia:
“Non c’è coraggio e non c’è paura.
Ci sono soltanto coscienza e incoscienza:
la coscienza è paura, l’incoscienza è coraggio”.
Buon viaggio, Ceci. We love you.
My Botswana: 13° puntata
Maun, Moremi Game Reserve e la malaria (prima parte)
Prima di rientrare in Italia, decidiamo di trascorre alcuni giorni in un'altra riserva, in un primo
momento pensiamo di andare nella Central Kalahari Game Reserve, ma nei giorni a nostra
disposizione non c’è posto nei campeggi poiché coincidono con le vacanze scolastiche in Botswana
e in Sudafrica e molte persone trascorrono il proprio tempo libero a campeggiare, un po’ come noi
andiamo nella casa al mare o in montagna. Ci sono anche alcuni lodge nella riserva, ma sono
piuttosto cari, si parte dai 300 euro a notte a testa.. e nel Delta è anche peggio. Il Botswana
mantiene da tempo una politica di prezzi alti, forse per limitare l’arrivo di turisti, forse per creare
una sorta di mito dietro a questo Paese per molti inarrivabile, sta di fatto che se vuoi avere un tetto
sopra la testa e un bagno in camera, devi pagare salato. L’alternativa è il campeggio a prezzi
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naturalmente più ragionevoli. Non lo amo particolarmente d’inverno quando si va anche sotto zero,
ma bisogna adattarsi. Il fatto che non ci fosse posto mi ha molto rasserenato, già mi vedevo dormire
con giacca a vento, sciarpa, cappello, calzamaglia, guanti, due sacchi a pelo, coperta, e Giancarlo
sbalordito da quanti strati di indumenti un essere umano possa riuscire ad indossare…
Decidiamo così di andare nella Moremi Game Reserve a ridosso del Delta dell’Okavango, troviamo
posto in un alberghetto vicino a Maun, la città da cui partono più o meno tutti i tour per il Botswana.
La mia descrizione di Ghanzi è sovrapponibile a quella che potrei scrivere di Maun, non c’è quasi
nulla: due supermercati, qualche negozietto… In ogni caso trovandoci a dover trascorre una
giornata lì, tra un safari e l’altro, decidiamo di fare “un giro”. Chiediamo ad una delle impiegate del
lodge di accompagnarci. Giancarlo, manco non ci fosse mai stato, le chiede di portarci in centro
dove ci sono i negozi… si accorge quasi subito di aver detto la cosa sbagliata…sbagliatissima,
mentre la fanciulla ci guarda tra il divertito e il preoccupato. Si corregge subito… “Si si, lo
sappiamo che non ci sono tanti negozi, portaci all’aeroporto e poi andiamo al supermercato”. È
domenica e c’è anche meno gente del solito, uno dei supermercati è chiuso, ma intercettiamo un
negozio di souvenir, dove riusciamo sempre a comprare qualcosa per la gioia della nostra libreria e
dei nostri gatti.
Il lodge in cui è alloggiamo è abbastanza carino… se non fosse che si dimenticano di accenderci
l’acqua calda, di rifarci il letto, di portarci le salviette e non si appuntano neanche che saremmo
arrivati, nonostante la prenotazione! Ma ce la caviamo, ci vuole tanta pazienza soprattutto alla sera
quando andiamo a cena e aspettiamo un’ora piena un piatto di insalata e una zuppa. Certe volte mi
innervosiscono questi aspetti dell’Africa, mi chiedo come credono di potercela fare a soddisfare la
clientela occidentale così esigente e viziata. Poi come i locali, mi adatto e mi rassegno e la sera
successiva mi porto un libro da leggere per passare il tempo in attesa della minestra. Intanto i miei
piedi, nonostante le calze, sono intercettati dalle zanzare che banchettano allegramente. Uffa… ma
anche in inverno??? E dire che mi ero coperta adeguatamente per evitare le punture. A Maun c’è la
malaria, nella zona della scuola invece no. Devo ammettere che nei primi miei viaggi in Africa ero
piuttosto preoccupata dal contagio, ora – come per la minestra – mi adatto e mi rassegno – e penso:
“Se sarò morsicata dalla zanzara malata, mi curerò!”. Sto diventando un po’ africana. Va detto, per
la precisione, che non è così facile ammalarsi di malaria e che per la cura si utilizza lo stesso
farmaco prescritto per la profilassi.
La mattina successiva la partenza è fissata per le 5.30, la Moremi Game Reserve dista circa due ore
da Maun per cui bisogna partire presto, ci accompagna Dodo, metà portoghese metà africano, e il
suo aiutante, fa molto freddo e ci copriamo il più possibile dovendo viaggiare su una jeep aperta.
Facciamo questo percorso più volte anche nei giorni successivi, e alla fine mi prendo tosse,
raffreddore e febbre, come se fossi andata in campeggio nel Kalahari! Ma dalle foto potete capire
che ne valeva la pena… (to be continued).
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My Botswana: 14° puntata
Maun, Moremi Game Reserve e la malaria (seconda parte)
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Arriviamo all’entrata sud della Moremi Game Reserve verso le 7.30, fa ancora freddo ma molto
meno, tutto il freddo l’abbiamo preso per arrivarci. Facciamo una veloce colazione e poi si parte.
Ogni angolo riserva sorprese, ci sono poche persone, uno dei privilegi del Botswana è che in genere
nei safari si incontrano pochi esseri umani, e questo è un vantaggio per noi che lo visitiamo, ma
soprattutto per gli animali.
La Riserva Moremi si trova ad est del delta dell’Okavango ed ha preso il nome dal capo Moremi
della tribù BaTawana. Fu in un primo tempo creata come riserva di caccia, e non come parco
nazionale, fino alla creazione di quest’ultimo.
La riserva copre gran parte del lato orientale del delta dell’Okavango e combina zone di acqua
permanente ad altre più secche, che creano contrasti sorprendenti e inaspettati. Si estende su un’area
di poco inferiore ai 5000 km², presenta zone completamente diverse, combinando boschi di mopane
a foreste di acacia, golene e lagune. Solo circa il 30% della Riserva è continentale, mentre la
maggior parte di essa si trova all’interno del delta dell’Okavango. Ospita quasi 500 specie di
uccelli, e altre specie di fauna selvatica, tra cui bufali, giraffe, leoni, ghepardi, iene, sciacalli, zebre
e impala. Ci sono anche aree boscose, che ospitano rari leopardi. È difficilissimo vederli.
Guardando i documentari sull’Africa si può credere che gli animali spuntino da ogni parte, questo è
in parte vero, ma i felini e in particolare il leopardo sono difficilissimi da incontrare. Sono animali
schivi, e solitari, molto bravi a nascondersi e mimetizzarsi. Ricordo, nel mio primo viaggio in
Africa, la delusione di non averlo visto.
Questa volta siamo stati proprio fortunati perché abbiamo incrociato un giovane leopardo. Dalle
immagini che pubblico non si direbbe, ma era piccolo, lungo poco più di un metro, alle prese con i
primi passi di vita solitaria. Da adulto non diventerà comunque molto grande: il peso medio è di 58
kg nei maschi e 37 kg nelle femmine. Il nostro era nascosto in un boschetto, all’inizio non lo
vediamo, ma Dodo, la nostra guida, nota sotto un albero un impala morto, e annusa subito la
possibilità che da quelle parti ci sia un felino. Ci guardiamo un po’ intorno, ma niente. Decidiamo di
proseguire e tornare più tardi. Dopo circa un’ora ci ripresentiamo e a fianco della preda, a questo
punto in parte divorata, avvistiamo un leopardo in fase di riposo, dopo pranzo. Dodo è entusiasta,
dice: “Fate tante foto, non si trovano mai i leopardi!”. Stiamo lì a guardarcelo e riguardarcelo per
diverso tempo, ogni tanto alza la testa, si gira, ci guarda incuriosito, ma non si muove più di tanto.
Finché l’impala non sarà finito rimarrà lì, e infatti il giorno dopo lo ritroviamo, più o meno nella
stessa posizione, e il giorno dopo ancora. Quando incontri un animale così bello ti chiedi come sia
possibile che ci sia ancora qualcuno che prova a piacere e divertimento ad ucciderlo. Gli esseri
umani a volte sono vittime di una devianza folle. Sono sempre più convinta che su questo pianeta:
the problem is man.
Ma i nostri incontri eccezionali non sono finiti, poco dopo quello con il leopardo, mentre stiamo
lasciando il parco, Dodo urla eccitato: “Snake! Snake! Snake!”. “Lì, sull’albero, guardate c’è un
mamba nero!”. Uno degli animali più velenosi al mondo, e il Botswana ne ospita molti insieme ad
una grande varietà di serpenti, che meritano una puntata tutta per loro. La prossima.
My Botswana: 15° puntata
Serpenti
L’incontro con il mamba nero è inaspettato ed emozionante, all’inizio non lo vediamo neanche
tanto bene, si è nascosto tra i rami e le foglie di un albero e se non fosse stato per Dodo non
l’avremmo mai visto. Il giorno dopo ne vediamo un altro, sempre appollaiato su un albero, sempre
grazie alla vista bionica di Dodo. Il mamba nero è uno dei rettili più velenosi e pericolosi del mondo
e può raggiungere anche i 4 m di lunghezza. Diffuso in Africa, è il più veloce di tutti i serpenti,
essendo capace di spostarsi fino a 20 km l’ora. Mi è stato raccontato da alcuni locali che il mamba
emana un odore particolare e chi è esperto riesce a coglierne la presenza senza vederlo. Il nome di
mamba nero deriva dal caratteristico colore nero dell’interno della bocca, che il serpente rende ben
visibile quando la spalanca perché si sente minacciato. Questa caratteristica, unita alla particolare
forma della sua testa (che ricorda una bara), alla sua velocità, alla sua aggressività e alla letalità del
suo veleno gli ha procurato il soprannome di “ombra di morte”. Il morso, se non trattato con
l’antidoto, provoca la morte nel giro di un’ora.
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Insomma un incontro impegnativo, che si spera sempre non sia troppo ravvicinato. Al campo è
capitato che un mamba entrasse in ufficio, creando attimi di panico. I boscimani sono terrorizzati da
tutti i serpenti, figuriamoci il mamba! Ma va anche detto che in più di dieci anni di vita della casa
dei bambini nessuno è mai stato morsicato.
Il mio primo incontro con i serpenti in Botswana risale però a qualche anno fa. Era metà gennaio e
mi ero recata in Botswana per la riapertura della scuola dopo la pausa di Natale, Cecilia sarebbe
arrivata un po’ più avanti e Charlcie non si era ancora trasferita, per cui Andy era da solo nel bush.
Arrivo a casa di Cecilia la sera dopo il solito interminabile viaggio (vedi 1° puntata) dove lui era
alloggiato, mi sistemo in camera e poi mi sposto nella sala/cucina per fare due chiacchiere. In
sequenza vedo: sulla libreria un barattolo di vetro con uno scorpione, a terra due bidoni in cui sono
ospitati un pitone e un altro serpentello verde, giallo e nero, velenoso, ma solo per gli animali, così
dice Mr Eaton (Mah…) e uno scatolone con una tartaruga. “Va beh che sei qui solo Andy, ma non ti
bastava la compagnia dei cani???”. In quel periodo lo staff del campo stava sistemato alcune aeree
che erano state lasciate abbandonate a lungo e ogni giorno compariva un ospite nuovo con cui
relazionarsi. Andy pensa di fare un rettilario per sensibilizzare i clienti sulla tutela di questi animali
in genere poco amati, e così inizia la raccolta. Sono stanca e vado a letto tranquilla, nonostante la
casa sia molto affollata. Il giorno dopo sono a scuola e non ci penso più. La sera io e Andy
mangiamo a casa e dopo cena mi metto a lavare i piatti mentre lui si dedica alle sue creature. A un
certo punto esclama: “Oh no, oddio, adesso come facciamo?”, vado verso di lui con la faccia a
punto di domanda e le mani insaponate: “Cosa c’è?”. Lui: “E’ scappato un serpente, quello
velenoso”.. Io: “Uhm…”. Lui: “Cerchiamolo”. Io: “Si, cerchiamolo”. Con un English self-control
che neanche la Regina Elisabetta può vantare, ci mettiamo alla ricerca del serpentello. Non lo
troviamo. Decretiamo che è scappato. Fa caldo, le porte sono sempre aperte, sarà fuggito. Andiamo
a letto come se nulla fosse e dormiamo sonni beati. Non rivediamo più il nostro amico, ma la sera
dopo decidiamo di rafforzare il rapporto con i rimasti -- magari si affezioneranno a noi -- e diamo
un nome ai tre che non ci hanno abbandonato. Lo scorpione viene chiamato Adolf, il pitone
Alexander e la tartaruga Elisabeth. Dopo qualche tempo anche loro vengono lasciata andare,
l’ipotesi del rettilario è sempre nei sogni di Andy, ma come avrete capito l’Africa trabocca di
emergenze e il rettilario non può essere una priorità.
Peccato, mi stavo affezionando ad Alexander, Adolf ed Elisabeth.
My Botswana: 16° puntata
Corso di primo soccorso et al.
Prima di rientrare in Italia non potevano mancare i corsi di aggiornamento sanitario per il nostro
staff (di cui ho approfittato anche io) che ha tenuto Giancarlo. Rianimazione cardiopolmonare
pediatrica, ma anche terapia e trattamento in caso di frattura, scottature, colpo di calore, morso di
serpenti e ragni, slogature, shock anafilattico. Insomma più o meno tutto quello che può capitare nel
bush.
Il sistema sanitario del Botswana, cui concorre capitale pubblico e privato, è in via di sviluppo. Per
il momento solo Gaborone possiede un ospedale di ottimo livello. Le spese sanitarie sono state
concentrate soprattutto nella prevenzione e nella cura dell'AIDS e della malaria; quest'ultima è
presente nelle zone più paludose formate nel nord dal fiume Okavango. Tra le misure messe in atto
dal governo per contrastare il virus si possono citare i trattamenti gratuiti con farmaci antiretrovirali
e un programma nazionale di prevenzione del contagio da madre a figlio. Infatti ormai è molto raro
che una madre infetti il figlio con il virus.
Al nostro staff piacciono molto questi corsi, partecipano sempre con interesse a fanno anche tante
domande. E speriamo che queste informazioni non servano mai! Cross my fingers!
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My Botswana: 17° puntata
Leaving the zebra country
Quando il Botswana è diventato indipendente nel 1966, le strisce nere e bianche sulla nuova
bandiera sono state ispirate principalmente dalla zebra e dovevano rappresentare l’armonia tra
persone di diverse razze ed etnie in Botswana.
Questo è stato importante in quel momento, perché allora nel vicino Sud Africa, le persone erano
segregate per razza e origine etnica, una cosa che i padri fondatori del Botswana non volevano
accadesse nel nuovo paese.
Il primo presidente del Botswana, Sir Seretse Khama, aveva sposato una donna bianca che divenne
la prima first lady, Ruth Khama. Seretse era stato perseguitato per aver sposato una donna bianca e
voleva insegnare alla giovane nazione e ai suoi vicini che neri e bianchi potevano vivere in armonia.
Le strisce bianche e nere della bandiera e la zebra nello stemma del paese hanno reso questo
animale simbolo di unità nazionale.
Una bella storia che ricordo sempre ogni volta che arrivo e lascio il Botswana.
E ora si torna a casa, alla nostra normalità, dopo un po’ ci si abitua anche alla vita africana, che ti
mette di fronte alle cose essenziali, e ti permettere di sperimentare come si possa vivere
serenamente e felicemente anche senza troppe sovrastrutture.
Durante il viaggio di rientro sono in trans esattamente come all’andata, la situazione è aggravata dal
fatto che negli ultimi giorni per il freddo alla Moremi Game Reserve mi sono presa tosse,
raffreddore e febbre. A Johannesburg schivo la telecamera che segnala le temperatura al di sopra
della norma, rimasta lì dopo l’epidemia di Ebola che in realtà non è mai arrivata negli stati del Sud
Africa. Armata di paracetamolo, mi accingo ad affrontare il “passaggio a nord” con tappa nel
mondo arabo. Dopo le due vie in croce e i quattro negozi di Ghanzi, l’aeroporto di Dubai con tutte
quelle cose e tutta quella febbre mi manda in tilt, punto una poltrona di uno Starbucks e sprofondo lì
fino all’imbarco per Milano. Il viaggio è sempre lungo, ma anche in questo caso serve, serve per
lasciarsi alle spalle un mondo, una dimensione ed entrare in una nuova.
Mi accoglie il caldo africano di Milano, me lo stavo quasi dimenticando dopo tutto il freddo artico
del Botswana.
My Botswana: 18° ed ultima puntata
Thank U
Grazie a tutti gli amici che hanno seguito il racconto del mio ultimo viaggio, grazie a tutti coloro
che ci seguono, ai nuovi e ai vecchi amici, gli amici di sempre. Questo è un progetto che sembrava
impossibile, che sembra impossibile, ogni giorno una difficoltà, ogni giorno un problema per dare ai
nostri bimbi, laggiù nel Kalahari, una possibilità, ma anche solo un sorriso, un giocattolo, un piatto
di minestra, un’infanzia. Ogni giorno. Chi ve lo fa fare??
Ma questo progetto va avanti perché ci siete voi, dalla nostra Ceci a tanti piccoli/grandi folli
visionari che lo sostengono.
E a tutti voi dedico queste belle parole di Steve Jobs:
“A tutti i folli. I solitari. I ribelli. Quelli che non si adattano. Quelli che non ci stanno. Quelli che
sembrano sempre fuori luogo. Quelli che vedono le cose in modo differente. Quelli che non si
adattano alle regole. E non hanno rispetto per lo status quo. Potete essere d’accordo con loro o non
essere d’accordo. Li potete glorificare o diffamare. L’unica cosa che non potete fare è ignorarli.
Perché cambiano le cose. Spingono la razza umana in avanti. E mentre qualcuno li considera dei
folli, noi li consideriamo dei geni. Perché le persone che sono abbastanza folli da pensare di poter
cambiare il mondo sono coloro che lo cambiano davvero”.
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