(01) Articoli 3-03-2003 11:42 Pagina 85 RACCONTARE L’AFRICA Testo di Valter Perlino foto dell’autore e di Bruno Fossat Siamo appena arrivati dal Rwenzori e mi si chiede,in fretta e furia,di scrivere qualcosa sul viaggio per il giornalino trek,di imminente pubblicazione.In poco tempo non è facile esteriorizzare il proprio vissuto,con le proprie emozioni,i propri punti di vista sull’esperienza appena realizzata.Al di là del viaggio d’acchito preferisco dar voce e raccontare l’Africa. Parlare dell’Africa significa,inevitabilmente, descrivere bellezze paesaggistiche e naturalistiche,deserti e foreste pluviali che caratterizzano questi luoghi e che costituiscono parte integrante di quello che viene comunemente definito “Mal d’Africa”;significa però soprattutto dare la parola a milioni di persone di colore che,in quanto povere,vivono nel silenzio e nell’oblio. Significa mostrare a tutti noi europei che i nostri paesi non sono il centro del mondo;che l’Europa è circondata da un immenso e crescente numero di culture,società,religioni e civiltà differenti. Il viaggio inteso non solo come svago,ma come conoscenza degli altri,è uno strumento per pensare su scala globale,per capire cosa essa significhi,per accorgersi di come le altre parti del pianeta ci influenzino e come noi influenziamo loro. Oggigiorno non è più possibile vivere separati,senza conoscere nulla gli uni degli altri e da un paese all’altro. L’Africa per noi non esiste; nei TG e nelle testate giornalistiche anche di spicco,fa notizia solo la grande carestia,le guerre dichiarate ed i colpi di stato,il cui eco si spegne comunque ben presto. Nessuno ha interesse per l’Africa e documentarsi su questo continente ai margini del pianeta e su alcuni suoi paesi in particolare,diventa un’impresa. Sicuramente difficoltoso è sapere quello che è avvenuto in un recente passato,ma ancor più avere notizie sulla politica attuale,su quello che accade ai nostri giorni. L’impresa più grande diventa non tanto il viaggio,ma l’impegno morale di conoscere cosa si va a vedere. In ogni caso non potrà mai viaggiare in Africa condividendone la vita quotidiana(escludendo chi sceglie gli asettici villaggi turistici,per intenderci)chi ha paura della mosca tse tse e dell’ameba,del mamba nero e dello”spitting”il cobra sputatore,degli elefan- AVVENTURE NEL MONDO 1 • GENNAIO/FEBBRAIO 2003 85 (01) Articoli 3-03-2003 11:42 Pagina 86 UGANDA Gruppo al completo, Margherita Peak (5.109 mt.) ti e dei cannibali,di ammalarsi di bilarzia(la malattia di tua zia,come la chiamava Mario)con l’acqua dei laghi e dei fiumi,chi trema al solo pensiero che essere sfiorato da un”nero” in quanto il semplice contatto fisico diventa indice di trasmissioni veneree e che l’HIV aleggi dovunque nell’aria,chi teme i luoghi bui (e sono molti) per paura di essere derubato o picchiato,chi conta continuamente i dollari rimasti(che sono tanti)e ritiene che non valga la pena o non sia cosa gradita(perché non sanno cosa farsene)elargire piccoli compensi,chi non elargisce neppure sorrisi a chi “non se lo merita”,chi disprezza tutta la gente che incontra. EDEN NATURALISTICO NELL’INFERNO DEGLI UOMINI L’Africa è questo. Paesaggi fantastici che troppo sovente diventano scenari di guerre in cui uomini e donne,in silenzio,lottano contro soprusi di ogni genere,fame,sete e malattie. A ragion del vero,l’Uganda oggi appare un paese civile in cui non si evidenzia alcuna tensione nella gente che si incontra per strada che dimostra,al contrario,di essere serena ed aperta al dialogo. Anche la povertà non è cosi’ palpabile,anzi il tenore di vita è sicuramente al di sopra della media africana,poiché l’ultimo problema che ha l’Uganda è quello alimentare:la sua terra è rigogliosa,bagnata dall’acqua forse più abbondante del pianeta(il lago Vittoria,il Nilo)con abbondanza di pescato,di frutti e di raccolti.Sul finire del secolo, l’Uganda è una delle poche storie africane a lieto fine. La presidenza di Yoweri Museveni ha dato al paese stabilità,ripresa economica ed un inizio di prosperità.La situazione interna è sostanzialmente pacificata,anche se movimenti armati rimangono attivi in alcune aree del paese. Non dobbiamo però dimenticare le irreparabili devastazioni compiute dall’Aids,con migliaia di morti e milioni di sieropositivi.Se è pur vero che la piaga della malattia è stata arginata da tempestive campagne di 86 prevenzione - è la prima volta che vedo dei cartelloni che pubblicizzano i profilattici -, l’educazione sessuale della popolazione è fortemente ostacolato dalla chiesa,tantè che la campagna statale di prevenzione con lo slogan “Love carefully”, ama con prudenza, non è piaciuta ed è stato affiancato dal significativo ”Love faithfully”,che tradotto significa ama fedelmente,cioè con un solo partner,ma anche ama con fede. Non so quale esito possa avere questo slogan. Di certo non viene accolto dalle bar maids,le ragazze da bar,come affettuosamente vengono chiamate le giovani prostitute che animano,appena dopo l’imbrunire spacci e botteghe dove oltre frittelle ed una buona birra si trovano queste povere ragazze che ti si siedonoi accanto e che non faticano ad allietare con amori frettolosi i camionisti di passaggio,i numerosi militari che costituiscono, senza dimenticare... i turisti bianchi, i clienti preferenziali e le categorie più a rischio. La battaglia contro l’Aids è solo agli inizi e per conoscerne l’esito ci vorrà forse il tempo di una generazione. Alle malattie, di cui l’HIV è solo l’esempio più subdolo ed eclatante,si aggiungono le indelebili cicatrici lasciate dalle atrocità compiute sulla popolazione in un recente passato da parte di coloro che erano stati eletti a guidare il paese dopo l’indipendenza:Milton Obote ora in esilio in Zambia ed il più tristemente noto Idi Amin Dada, anch’esso vivente ed in esilio in Arabia Saudita. Obote,primo leader dell’Uganda indipendente dal lontano 1962,ha guidato il paese come primo ministro,sostituendosi poi al suo re,il kabaka (che fuggi’ costretto all’esilio a vita)fino al colpo di stato di Amin nel 71.Il monarca era un Baganda,etnia che venne perseguitata anche in seguito,quando Obote, di ritorno dall’esilio in Tanzania prese il potere una seconda volta dall’83 all’86, dopo il caos post Amin che fece seguito ai diversi anni di permanenza delle truppe armate tanzaniane.Obote divenne tragicamente famoso per il ritrovamento dei campi della morte nel triangolo di Luwero.Quanta gente è stata uc- AVVENTURE NEL MONDO 1 • GENNAIO/FEBBRAIO 2003 cisa qui non si saprà mai:tutta la zona allora pullulava di resti umani;tra l’erba ai bordi delle strade mucchi di teschi in bella mostra,dovunque a vista d’occhio,tibie che biancheggiano al sole.Un massacro silenzioso,come tanti in Africa. L’unica cosa che il mondo ricorda dell’Uganda è il folle regime di Amin, Big Daddy, il caporale diventato ”il Grande Papà” dell’Uganda, con il compiacimento delle potenze europee:le innumerevoli uccisioni,la cacciata ignominiosa dei commercianti indiani,l’impossibile giostra delle alleanze internazionali cominciate con Israele e terminate con la Libia di Gheddafi.Un gigante di 1 metro e 96 che amava la boxe e le divise cariche di scintillanti decorazioni fasulle e che dominava le cronache dell’epoca con racconti di inaudita crudeltà.Ma ciò che più ha lasciato il segno sono state le sue dichiarazioni ed i comportamenti roboanti e sbruffoni nei confronti della politica internazionale;basti dire che inviava telegrammi alla regina Elisabetta chiamandola “Liz” e invitandola a visitare il suo paese”se voleva conoscere un vero uomo”. Ai problemi di politica interna,si aggiungono i difficili rapporti con la vicina Repubblica democratica del Congo,dove il caos e le repressioni regnano ancora sovrane anche dopo gli antichi massacri del regime Mobutu. Questi morti di mille anonimi saccheggi, stupri, delitti, danno la mano alle vittime del suo rivale Kabila ed ora alle razzie di Jean-Pierre Bemba,il nuovo signore del Nord del Congo,che ha ritagliato il suo regno commercializzando diamanti,legname, tantalio ed uranio con il resto del mondo.Non importa che l’ONU lo consideri un bandito,tanto l’imperialismo della rettitudine qui non arriva. Questa è una storia che pochi conoscono e che la scuola,haimè non insegna. GORILLA AND “DRAMATIC VIRUNGA” Parliamo ora del nostro viaggio e,soprattutto,sdrammatizziamo un po’ il racconto. Innanzitutto debbo dire che i partecipanti del viaggio si sono ritrovati catapultati in questa bella avventura,beninteso con il loro placido accordo,ma tutti un po’ per caso. Ad onor del vero,il mio zampino ha contribuito un tantino a forzare questa casualità. Mario, sempre lui l’autore di citazioni divenute famose nel corso del viaggio a tal proposito dice.”Mi è piaciuto tanto,ma se sapevo com’era,col c.. che ci venivo.E dire che sarei dovuto andare in Bolivia”. Michele ed Eli avrebbero dovuto essere sull’Aconcagua,ma il viaggio è fallito ed eccoli qua.Bruno si è lasciato tentare,anche se non ho dovuto insistere molto,attirato dalla sua passione per l’Africa ed i suoi aspetti naturalistici.Solo Daniele,l’avvocato amante delle foreste tropicali e sua moglie Lori erano decisi a recarsi in questi luoghi,anche se non immaginavano mai più cosa li avrebbe attesi sul Rwenzori. Il viaggio ed ogni suo aspetto,facendo nostre alcune citazioni del redazionale geografico inviatoci dal nostro corrispondente assunse cosi’ due sfaccettature: friendly and dramatic. I monti Virunga,il primo luogo da noi visitato si presentarono,visto le cateratte d’acqua che ci caddero sulla testa, subito assai dramatici. I Virunga costituiscono un grande ecosistema montagnoso formato da coni vulcanici che corrono lungo la linea di confine tra Congo e Ruanda,costituendo un unico sistema protetto sotto il nome di (01) Articoli 3-03-2003 11:42 Pagina 87 UGANDA Virunga Conservation Area che include anche i due adiacenti parchi negli stati confinanti.In particolare,la nostra visita ai gorilla si è svolta al Mgahinga National Park,sulle pendici dei tre vulcani: il Muhavura 4127m, il più alto ed anche il più giovane, è un cono perfetto il cui nome significa “la guida” perché visibile anche da molto lontano; in mezzo il Gahinga di 3474 m, il vulcano più basso che però dà il nome al parco nazionale poiché nella lingua locale banyarwanda significa “mucchi di sassi”-di lava vulcanica ovviamente-che caratterizzano fortemente il terreno circostante.Infine il Sabinyo 3669 m a forma dentellata di formazione più antica,difatti il suo nome significa “denti di vecchio”. Questo ecosistema straordinario è ricchissimo di rare varietà di flora e fauna ed ha affascinato il mondo intero dopo la pubblicazione dei diari,poi seguiti dal famoso film gorilla in the mist ovvero gorilla nella nebbia,con la storia del duro lavoro perseguito per anni sul versante rwandese di queste montagne da Dian Fossey ed il suo team,che terminò con la tragica scomparsa della ricercatrice che dedicò la sua vita allo studio ed alla protezione dei gorilla di montagna. Isolati sulle foreste di alta quota,i gorilla di montagna sono ridotti a non più di seicento esemplari,di cui più della metà vivono sulle pendici di questi coni vulcanici.In effetti,i gorilla che un tempo abitavano l’intera foresta pluviale centroafricana,ora abitano in habitat sempre più ristretti: sparsi dal Congo al Gabon ritroviamo le due subspecie di gorilla di pianura (Western ed Eastern lowland gorilla),mentre solo qui, suddivisi tra i monti Virunga e la foresta del Bwindi,vivono i gorilla di montagna - gorilla gorilla beringei. Essi non hanno mai vissuto e,fortunatamente,non sopravvivono in cattività:l’uomo non li potrà mai rinchiudere in cattività.Il gorilla tracking è un’emozione grandissima,che vale un viaggio.La visita dei gorilla consiste appunto nel seguirne le tracce camminando per ore,poiché si spostano continuamente di giorno in giorno cibandosi di erbe in quanto vegetariani.Una volta individuato il gruppo,costantemente sotto osservazione dei guardaparco,si sta con loro,in mezzo a loro,a questi pacifici e rari animali cosi’ simili a noi.Ci sono i giovani,che saltellano sugli alberi e giocano tra loro con lotte e continui dispetti. Ci sono i piccoli sul dorso della madre che li allatta,li accudisce,li spulcia.C’è il grosso del gruppo,i subadulti, che trascorrono il grosso del tempo masticando le abbondanti pianticelle di cui si cibano,poi si coricano a pancia in su,riposandosi e…scorregiando a tutto spiano.E poi c’è lui, il dorso d’argento, silverback il maschio dominante,gigantesco ma pacato, ”friendly” nell’aspetto ma pronto a dimostrare a chiunque possa potenzialmente mettere in pericolo la propria famiglia la sua posizione di forza e di comando,con espressioni e movenze che mettono soggezione. Il grosso gorilla maschio attirò la mia attenzione..Dava un’impressione di dignità e di potenza contenuta,di assoluta certezza nella propria maestosa presenza. Provai il desiderio di comunicare con lui. Non avevo mai avuto questa sensazione nell’incontro con un animale. Mentre ci guardavamo attraverso la vallata,mi domandai se riconosceva il vincolo di parentela che ci legava. Gorge B.Schaller 1964 Incontrammo i gorilla suddivisi in due gruppi,poiché il limite massimo di visitatori è di sei al giorno e dovemmo anche incastrarci nelle prenotazioni già effettuate da altre persone.Io e Bruno il giorno due di gennaio,il resto del gruppo il giorno seguente mentre noi,come d’altronde loro il giorno prima,effettuavamo una gita naturalistica sulle pendici dei vulcani. Entrambi i gruppi furono fortunati,non solo per la giornata clemente e soleggiata,cosa rara da queste parti,ma anche perché non è mai assolutamente certo che i gorilla si possano incontrare e si rimane delusi quando a volte si spostano oltremisura varcando il confine dove non è possibile seguirli.Noi camminammo per non più di un’ora prima di incontrare le loro tracce ed una volta trovati si trascorse con “i cugini”un tempo analogo prima di salutarli a malincuore. Certo è che una esperienza simile ti resta dentro e non la si dimentica più. IL DUCA DEGLI ABRUZZI ALLA CONQUISTA DEL RUWENZORI L’avvistamento del Ruwenzori risale ai tempi di Tolomeo ed a lui si deve il nominativo dei Monti della luna. La storia delle esplorazioni è cosa più recente e va di pari passo con la colonizzazione e conseguente detronizzazione dei re dell’Uganda ed il controllo della regione da parte dell’Inghilterra.Dopo i tentativi, solo in parte riusciti dei vari Emin Pascià, Scott-Elliot, Freshfield, fu la volta del Duca degli Abruzzi. Questi godeva la fama meritata di un uomo determinato,che aveva già scalato il Sant’Elia in Alaska e si era spinto nell’Artico,battendo il primato di vicinanza al Polo Nord.Luigi Amedeo di Savoia era figlio di Amedeo di Savoia, duca d’Aosta,che a sua volta era figlio di Vittorio EmanueleII, primo re d’Italia e la salita alla terza montagna d’Africa non ancora salita da alcuno era meta ambita da molti ed era l’occasione giusta per risollevare a livello internazionale l’immagine di un’Italia sconfitta su più fronti nelle colonie del Corno d’Africa. Fu organizzata una spedizione in grande stile che partì da Napoli per sbarcare a Monbasa, dove venne utilizzata la nuova ferrovia sino al lago Vittoria e da qui un piroscafo a vapore per raggiungere Entebbe.Da qui iniziò la marcia di avvicinamento alla montagna composta da oltre 300 persone e cibo sufficiente per ottanta giorni.Con il duca altri dieci italiani, tra cui il fotografo Vittorio Sella, l’ufficiale di marina Umberto Cagni,quattro guide alpine della Val d’Aosta: J. Petigax e suo figlio, C. Ollier e J. Brocherel,per non dimenticare il Filippo De Filippi che stilò la relazione ufficiale.Dopo quindici giorni raggiunsero Fort Portal e decisero di risalire come i loro predecessori la valle del Mobuku.La marcia fu molto dura,su terreni impervi ed un tempo che non dava tregua con temporali continui.Il campo base fu stabilito sotto tetti di roccia strapiombanti che offrivano un parziale riparo,seppur precario. Da li una ad una furono salite tutte le punte principali dell’esteso gruppo montuoso formato da sei massicci principali denominati Stanley,Speke,Baker,Luigi di Savoia,Gessi ed Emin a cavallo tra il Congo ex Zaire ed il territorio ugandese. Cosi’ il De Filippi descrisse l’arrivo in vetta alla cima principale del Ruwenzori: …le vette agognate erano dinanzi a loro, a brevissima distanza,entrambe coper- te di neve. La meridionale,più vicina,con una parete di roccia a picco verso Est, sormontata da una grossa cornice di neve, era unita per un colle di ghiaccio arrotondato alla vetta settentrionale, alquanto più alta,dalla quale scendevano due creste..;vette e cresta orlate dalla più grandiosa cornice di neve che si possa immaginare, sostenuta da innumerevoli stalattiti e aghi di ghiaccio, che a distanza sembravano una gala di candida trina. Fu salita dapprima la cima meridionale chiamata Alessandra in onore della regina d’Inghilterra e poi conquistata anche la vetta più alta che il duca,spiegando la bandiera italiana, intitolò alla zia Margherita. FANGO VERTICALE: TREK E SALITA ALLA VETTA La parte trek del viaggio si svolse nei sette giorni previsti e disponibili dopo la richiesta di un permit per l’entrata al parco del Ruwenzori .Questi, normalmente costituiscono il pacchetto standard rilasciato dall’ente preposto in quanto sufficienti per effettuare il giro ad anello classico costituito dalla salita alla valle di Bujuku scavalcare lo Scott-Elliot pass e ridiscendere, dopo aver dormito alla Elena Hut nella valle laterale di Mubuku ed infine congiungersi con il percorso iniziaIn prossimità della cima, sullo sfondo Punta Alessandra AVVENTURE NEL MONDO 1 • GENNAIO/FEBBRAIO 2003 87 (01) Articoli 3-03-2003 11:43 Pagina 88 UGANDA Trek e seneci giganti le alla Nyabitaba Hut sino al villaggio di Niakalenjia base di partenza del trek.Visto l’esiguo tempo disponibile e l’esoso quantitativo di denaro da sborsare per pagare il pedaggio,continuamente alimentato da nuove richieste di pagamenti da parte dell’RMS,nell’arco della settimana abbiamo anche fatto rientrare la salita alla cima Margherita che tanto ci allettava,pagando il minimo dovuto per il supplemento dei portatori e delle guide necessarie all’ascensione senza però dover richiedere ulteriori giorni di permesso.Il Rwenzori Mountain Service è il solo ente deputata all’ingaggio delle guide e portatori e pertanto..un monopolio; ma questa è l’Africa. A ripensarci mi vien da ridere. Durante le lunghe trattative per stipulare il contratto, tutti i loro discorsi cominciavano pressappoco cosi’: voi avreste bisogno di questo e questo e poi questo,ovviamente tutto ha un costo e non è per chiedervi dollari,ma per la vostra sicurezza,perché siate trattati il meglio possibile,etc.etc. Dopo essere stati spillati a dovere,siamo pronti a partire,con ben 24 porters,due guide-Anthon ed Isaia-,una guardia armata dell’UWA, il simpatico e chiacchierone Robert e con la promessa di ritrovare Laurence,il cuoco della Volcanoes Safari-nostro corrispondente locale,sul tragitto di ritorno con un altro gruppo.Dopo dieci minuti, acqua a go go,cominciamo bene.Se si continua cosi’, torneremo con le sembianze di spugne camminanti. Fortunatamente, ben presto le pioggie cessano, le nebbie evaporano, aprendo ai nostri occhi una meravigliosa foresta tropicale con fiori,muschi,licheni.Si sale in modo diretto e si suda molto;dopo quattro ore su una cresta con una piccola radura in una foresta di podocarpi siamo alla Nyabitaba Hut.Le huts sono o meglio dovrebbero essere dei rifugi,ma in realtà questa è uno spoglio ammasso di lamiera; comunque meglio che dormire in tenda nel fango con il rischio di affogare. A tarda sera arriva Laurence,troppo tardi per prepararci cena a cui pensa un porter,portandoci un blocco di pasta scotta e da salare.Buonanotte. Il giorno successivo, a posteriori,si può ben classificare come il più lungo e faticoso del trek: pietre viscide,poca acqua da bere e fango,tanto fango. Alla fine del percorso calziamo gli stivali che toglieremo solo più il giorno della cima. 88 Mario,sempre lui, colto da terribili crampi poi brillantemente superati senza conseguenze dice:questa è una montagna di fango,il punto più alto al mondo dove si può morire affogato.Il brutto è che pare che il peggio debba ancora venire.Camminiamo un po’ su scale appoggiate all’intricatissimo terreno,un po’ su pali piantati verticalmente(chi sbaglia il passo è morto) attraverso un bosco di eriche con cuscini di muschi attaccati ai tronchi,barbe di licheni che pendono da tutti i rami,finchè si arriva alla Johnn Matte Hut.La capanna è in legno e molto più carina anche se spoglia;anche il cesso è con vista.Stupenda cena con pollo e riso con tramonto da sogno.Il sole ci ha accompagnato per tutta la giornata,siamo fortunati.Certo che non oso pensare cosa succede nella stagione delle pioggie.Il giorno successivo dobbiamo attraversare alcune paludi,tra cui la Lower e la Upper Bigo Bog.Capiamo ben presto che l’unica differenza tra la palude e l’altro terreno sta nel fango posto rispettivamente in senso orizzontale o verticale.Scherzi a parte,attraversiamo ambienti stupendi ed unici;dopo le paludi un fitto bosco di seneci giganti ci porta al lago Bujuku ed all’omonima capanna posta alla riguardevole altezza di quasi quattromila metri.Il sole va e viene,creando ora qua ora la,macchie di colore e di luce veramente magiche.Scaldandoci attorno agli immancabili bracieri -il carbone viene acceso in vecchi cerchioni delle auto - trascorriamo chiacchierando tra noi prima di infilarci nei sacchi a pelo per la nanna.Oggi è il giorno che ci porterà in una salita breve,ma diretta,oltre le balze rocciose su cui è posta la Elena Hut,ultima tappa prima di salire sul punto più alto.Neanche a dirlo,anche qui fango sino ad oltre quattromiladuecento metri dove ci sono solo più rocce,coperte di barbe,per la nebbia e l’umidità costante.Davanti a noi la neve,o meglio il ghiacciaio che ricopre la parte alta del gruppo montuoso dello Stanley.Immediato il paragone con le foto del Sella del 1906 da cui si evince l’enorme ritiro dei ghiacci,da allora ad oggi.Una tempesta di neve ci coglie che siamo già nella capanna;la temperatura è fredda,ma sicuramente non rigida vista la quota. Dormiamo comunque poco anche se a nostro agio,poiché il pensiero è già al giorno dopo: fra AVVENTURE NEL MONDO 1 • GENNAIO/FEBBRAIO 2003 poche ore, in piena notte sarà la volta di partire per la nostra punta.O la va o la spacca.Alle 4.30 c’è troppo vento,aspettiamo ancora più di un’ora prima di partire.Alla sola luce delle pile frontali si cammina male,non è una novità;se poi devi superare dei disagevoli passaggi sulle lisce rocce su cui scorreva il ghiacciaio il tutto si complica un po.In ogni caso ,verso le 6.30 siamo fuori dal tratto più brutto e ci leghiamo in tre cordate, avviandoci sull’agevole pista tracciata sulla neve dura.Albeggia,ma la fitta nebbia ci impedisce di vedere dove andiamo;per fortuna,il bravo Anthon conosce il percorso a dovere..Passato l’altipiano che corre sotto le cime Moebius ed Alessandra, siamo a ridosso della salita che conduce al colletto tra quest’ultima vetta e la cima Margherita.E’ a questo punto che il vento spazza il cielo e le nubi correndo veloci nel cielo,liberano ampi spazi di azzurro in cui compare un paesaggio sempre più grandioso,man mano che si sale in alto.Siamo sotto il salto finale che conduce alla vetta e pensiamo che ormai è fatta,ma davanti a noi un salto di roccia di una cinquantina di metri ci blocca l’accesso alla cresta nevosa.Una corda fissa,non statica ma,al contrario estremamente elastica non ci è molto d’aiuto ma, fortunatamente,risaliamo con dei prusik - chi non sa cosa siano lo impari - e con una “maniglia” - Jumar ovviamente - miracolosamente rimasta nel mio zaino .Poco dopo siamo tutti in cima,qualcuno con il sorriso,altri con le lacrime agli occhi(sempre dalla gioia si intende);tutto il gruppo unito sulla vetta Margherita 5109m una grande soddisfazione generale e permettetemelo..personale. La discesa si svolge senza intoppi in un ambiente altrettanto fantastico e vario.La sera del giorno stesso in cui raggiungiamo la vetta,sostiamo in una e vera e propria catapecchia,la Kitandara Hut,situata ai bordi dell’omonimo lago,uno dei luoghi più isolati dell’intero percorso Ci godiamo un’ennesima splendida serata tra simpatici topolini africani che scorazzano impunemente ai nostri piedi e coloratissimi e variegati nettarinidi che succhiano la dolce linfa dalle infiorescenze poste sulle pannocchie delle numerosissime lobelie presenti.L’indomani risaliamo per l’ultima volta sino al Freshfield pass per poi ridiscendere in un tappeto di muschi nel selvaggio ed umido vallone di Mubuku. Ad un certo punto passiamo sotto enormi cenge sotto pareti ripide e sporgenti sopra di noi,dei veri e propri ripari sottoroccia di cui uno di nome Bujungolo,famoso per aver ospitato il campo base della spedizione del Duca degli Abruzzi che vi soggiornò per il lungo periodo in cui l’intero massiccio venne esplorato a fondo e le sue vette conquistate. Notte piacevole e decisamente più calda alla Guy Yeoman Hut.Finalmente ci aspetta l’ultima tappa,o meglio l’ultimo giorno di trek che raggruppa il tragitto che normalmente si sviluppa in due giornate,ovviamente…nel fango.Siamo rilassati e scendiamo in scioltezza,in ordine sparso,anche se il percorso è duro e faticoso. Chiacchieriamo con i nostri amici, a cui ci sentiamo particolarmente uniti, un po’ per i pochi ma intensi giorni trascorsi assieme in cui abbiamo avuto modo di conoscerci,un po’ perché sappiamo che questo rapporto,questo scambio tra persone,tra culture cosi’ diverse,forzatamente dovrà interrompersi ed ognuno riprenderà la sua strada,probabilmente senza avere l’occasione di ritrovarsi mai (01) Articoli 3-03-2003 11:43 Pagina 89 UGANDA più…ed è con i piedi fumanti ed un po’ di malinconia nel cuore che ci lasciamo una volta giunti a Niakalenja:com’è bello e triste contemporaneamente avere degli amici cosi’ vicini e cosi’ lontani ,cosi’ uguali e cosi’ diversi. Questa è la mia Africa ,quella che più mi resterà dentro: schegge di vita,emozioni che ti segnano indelebilmente. Un grazie a Mario Palladino, Bruno Fossat, Daniele Mancini, Loredana Riseri, Michele Giacone e Maria Assunta Ambrosio,gli amici con cui ho diviso i pochi giorni africani trascorsi assieme,ma molte,molte emozioni. LA MONTAGNA CHE NON C’È Avrei preferito raccontarvi tutto subito,ma è sempre artificioso e difficile parlare della storia e delle vicende susseguitesi dall’inizio alla fine dell’avventura appena conclusa. In fondo,abbiamo voluto ancora una volta travestire in termini di salita alla montagna la nostra storia,ed insieme la storia di un’infinità di persone che hanno trovato nell’andare in montagna un “proprio centro”. La nostra ascesa alla montagna e l’intero tracciato del nostro viaggio è…forse,parte di un’indispensabile lungo cammino per ritrovare se stessi e ritrovare cosi’ le radici stesse della vita,in una mutazione della nostra abituale natura.Non c’è,beninteso,bisogno di trasfigurarsi ma,semplicemente,liberarsi di ogni ragnatela di azioni,dunque di pensieri,di motivi,dunque di ragioni,che agiscono in noi senza che ne siamo responsabili.Una sorta di igiene psico-fisica che permette di sconfiggere ogni automatismo corporeo o mentale,ogni abitudine quotidiana,fonte di possibili tossine per il pensiero non veramente pensato,per le azioni non veramente volute. E voi,quale monte intendete salire o meglio… che cosa cercate? Renè Daumal Mario,scherzosamente diceva che le cose che non si capiscono bisogna ignorarle,passarci sopra. Quella che a primo acchito può sembrare superficialità,nasconde un pensiero profondo:i suoi riferimenti erano diretti alle cose a cui diamo quotidianamente troppo risalto ma che sono in realtà prive di importanza e su cui non vale la pena arrovellarsi,cimentarsi ed arrabbiarsi con se stessi e con gli altri.Il Rwenzori è stata per anni una montagna sconosciuta,che pochi uomini erano riusciti a scorgere e di cui si narrava come di una leggenda.Ancor oggi,quando se ne parla, poche persone conoscono anche solo per sentito dire il nome del monte che pare significha”luogo dove sorgono le Alba al Queen Elizabeth National Park pioggie”,e ancor meno sono le genti che ne hanno calpestato la cima.Anche noi per giorni e giorni ne abbiamo parlato,letto i racconti senza mai vederlo(rarissime sono le fotografie di questa montagna sempre avvolta nella nebbia);anche noi abbiamo pensato che il Rwenzori fosse tutta un’invenzione,che non esistesse. La ragione,come spesso succede,ci ha un po’ preso la mano ed a pensarci,tutto poteva essere solo una favola,una fantasia o addirittura una follia pensare che esistesse realmente.Il leit motiv del viaggio diventò appunto quello: andavamo cercando una montagna che non c’è. Ma allora noi cosa stavamo facendo,qual’era lo scopo del nostro viaggio? Qual’era la motivazione che ci spingeva ad andare a scoprire una montagna all’altro capo del mondo? Ad un certo punto mi sono reso conto di essere felice e realizzato e che ero alla ricerca di un po di spiritualità,intendiamoci non nel senso religioso del termine ma un puro distacco dall’inseguimento di beni materiali che tutti i giorni affligge la nostra esistenza (almeno la mia),dall’affannoso ed inutile accumulo se fine a se stesso (seppur necessario al sostentamento). Ho capito che la montagna esiste,posso giurarlo.La considerazione nasce si dall’averla vista e salita personalmente ma,innanzitutto e soprattutto,perché esiste una concezione dell’universo,un’ideale a cui tendere,tale da reggerne la sua posizione anche se è di per se una pazzia pensare che esista nella realtà una montagna …che non c’è. Non ci si può sbagliare... poi la strada la trovi da te, diceva una certa canzonetta dei miei tempi. Anche se questa parlava di un’isola,in fondo il significato è lo stesso poiché lo stesso è il valore simbolico: il risultato di una proiezione interna che corrisponde al proprio paesaggio interiore. Un paesaggio che deve,materialmente ed umanamente esistere,perché se no,la nostra situazione sarebbe senza speranza. ... seconda stella a destra,questo è il cammino,e poi dritto sino al mattino ma non ti puoi sbagliare perché questa è la “montagna” che non c’è..e ti prendono in giro se continui a cercarla ma non darti per vinto perché chi ha già rinunciato e ti ride alle spalle..forse è ancora più pazzo di te. Gorilla AVVENTURE NEL MONDO 1 • GENNAIO/FEBBRAIO 2003 89