La memoria per l’oggi. ANFACI ANNALI PREFETTIZI Volume I LA MEMORIA PER L’OGGI 2015 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Copyright 2015 Wolters Kluwer Italia Srl I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5 della legge 22 aprile 1941, n. 633. 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Stampato in Italia - Printed in Italy Stampato da GECA s.r.l. - Via Monferrato, 54 - 20098 San Giuliano Milanese (MI) SOMMARIO PREFAZIONE IGNAZIO PORTELLI: Conservare la memoria e riflettere su presente e futuro .......................................................................................................... pag. 3 SAGGI E ARTICOLI PIETRO ALBERTO LUCCHETTI: Prefetti Nazionali e Prefetti Consolari (1797-1798).Un Istituto “In Gestazione” ............................................. pag. 7 ANGELO GALLO CARRABBA: Tutto, meno i tre quarti del tutto. I prefetti nel processo di unificazione nazionale................................................. » 23 MARIA GABRIELLA CASACCIO: Principio di precauzione e attività prefettizia......................................................................................................... » 95 CARLO BOFFI: Ricognizione delle competenze prefettizie in tema di pianificazione provinciale d’emergenza non di Difesa Civile ..................... » 113 ANTONIO TEDESCHI: La pianificazione di emergenza delle gallerie ferroviarie .................................................................................................... » 123 ANGELO DE PRISCO: Il Decreto “Severino”: l’estensione dell’istituto dell’incandidabilità ai parlamentari e ai membri del Governo e il rinforzato regime per le cariche regionali e locali .................................... » 135 DAVIDE LOCASTRO: Dal “Porcellum” al “Consultellum”: l’innovativa sentenza n.1/2014 della Corte Costituzionale e le prospettive di riforma della legge elettorale ............................................................................ » 153 MARIO MORCONE: La Gestione dell’irregolarità oltre la difesa delle frontiere. Intervento svolto nell’ambito del Convegno “Il Governo delle migrazioni oltre la crisi” presso l’Accademia dei Lincei ..................... » 173 © Wolters Kluwer VI SOMMARIO SAGGI DELLE BORSE DI STUDIO ANFACI – LUISS GIAN CANDIDO DE MARTIN: Introduzione pubblicazione Anfaci................ pag. 183 LUCA ADDESSI: Il ruolo delle Prefetture tra evoluzione del principio autonomistico ed esigenze di raccordo interistituzionale ........................... » 185 ALESSANDRO SIBILIA: Le funzioni di amministrazione generale del Prefetto in Italia e in alcuni paesi europei. Analogie e differenze con le funzioni di amministrazione generale del comune............................... » 243 Bibliografia.................................................................................................. » 277 APPENDICE Stato, territorio e prefetture. Appunti di riflessione Documento ANFACI presentato in occasione dell’Assemblea Nazionale dell’Associazione del 9 maggio 2014 .................................................. pag. 281 © Wolters Kluwer NOTIZIE SUGLI AUTORI Luca Addessi- Laureato in Giurisprudenza, vincitore della borsa di studio Anfaci-Luiss, 2014 Carlo Boffi – Prefetto, ha fatto parte della commissione straordinaria incaricata di gestire il comune di Castelnuovo di Napoli, sciolto per infiltrazioni camorristiche. Nel 2010 è stato Prefetto di Belluno. Attualmente è Vicecapo Dipartimento dei Vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile. Maria Gabriella Casaccio – Viceprefetto Aggiunto presso la Prefettura di Roma, si occupa dell’Area IV-bis, Diritti civili, cittadinanza, condizione giuridica dello straniero, immigrazione e diritto d’asilo –Ufficio Cittadinanza Italiana. E’ Dottore di ricerca in Diritto amministrativo presso l’Università di Catania. Gian Candido De Martin - Professore emerito di Diritto pubblico della Luiss Guido Carli e Presidente del Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche "Vittorio Bachelet". Angelo De Prisco – Viceprefetto presso l’Ufficio Affari Legislativi e Relazioni Parlamentari del Ministero dell’Interno, si occupa di Affari territoriali e Autonomie locali. Angelo Gallo Carrabba – Viceprefetto presso la Prefettura di Perugia, si occupa di Ordine e Sicurezza Pubblica. E’ socio aggregato della Deputazione di storia patria dell’Umbria. Davide Locastro - Viceprefetto aggiunto, presso l’Ufficio Affari Legislativi e Relazioni Parlamentari del Ministero dell’Interno, si occupa di Affari territoriali e Autonomie locali. Specializzato in “Diritto delle Regioni e degli Enti Locali”. Pietro Alberto Lucchetti - Consigliere della Presidenza della Repubblica, si occupa del Servizio Rapporti con la società civile. Ha frequentato l’Ecole Nationale d’Administration. © Wolters Kluwer VI NOTIZIE SUGLI AUTORI Mario Morcone –Prefetto, Capo del Dipartimento delle Libertà Civili e dell’Immigrazione. Ha assolto numerosi incarichi istituzionali di rilievo nazionale e in ambito territoriale. Ignazio Portelli – Prefetto, Segretario Generale dell’Anfaci Alessandro Sibilia – Laureato in Giurisprudenza, vincitore della borsa di studio Anfaci-Luiss, 2014 Antonio Tedeschi – Viceprefetto presso la Prefettura di Roma, si occupa di Protezione e Difesa Civile. © Wolters Kluwer PREFAZIONE IGNAZIO PORTELLI CONSERVARE LA MEMORIA E RIFLETTERE SU PRESENTE E FUTURO Questo è il primo volume di una serie (mi auguro, lunga) di annali del Corpo prefettizio, che quest’anno ha compiuto duecentododici anni dalla sua istituzione, avvenuta nel maggio del 1802. Una storia lunga, parallela alla nascita degli stati contemporanei, al leale servizio dello Stato, indipendentemente dalla forma di governo, nel mantenere il rapporto tra centro e periferia, con competenze variabili in relazione alle necessità del momento. In ciò consiste la costante attualità dell’istituto prefettizio: essere l’asse della rete del Governo nel territorio nazionale e costituire il livello della prossimità dell’azione delle Amministrazioni centrali dello Stato, ovvero della vicinanza del governo centrale ai bisogni da soddisfare. In particolare, nelle nazioni del nostro Continente anche non appartenenti all’Unione Europea esiste una figura istituzionale definita rappresentante territoriale dello Stato. Con questa espressione viene identificato chi svolge principalmente il raccordo tra centro e periferia oltre agli altri delicati compiti attribuiti dai singoli ordinamenti nazionali. Cosi è, ad esempio, in Belgio, in Bulgaria, Finlandia, in Francia, in Germania, in Grecia e a Cipro, in Norvegia, in Lituania, in Olanda, in Polonia, in Portogallo, in Romania, in Svezia, in Svizzera, in Turchia, in Ucraina, in Ungheria, in alcuni Paesi dell’ex Jugoslavia ed anche in Italia. Ne deduciamo che il rappresentante territoriale dello Stato: a) non è connaturale ad una sola forma di Stato, anzi è parte essenziale di ogni forma di Stato; b) non è legato alle dimensioni territoriali dello Stato; c) in alcune nazioni viene apprezzato come soggetto di prima istanza delle richieste delle popolazioni per non concentrare ogni tipo di problematica sugli organi centrali, per mediare e risolvere le vicende locali. Nel caso italiano, i prefettizi costituiscono un grande Corpo dello Stato con tre tipiche caratteristiche: a) essere un Corpo professionalmente formato e costantemente aggiornato sui principi del silenzio operoso, dell’amministrazione generale dello © Wolters Kluwer 4 IGNAZIO PORTELLI Stato e della assunzione di responsabilità inusuali nel pubblico impiego; i prefettizi costituiscono la riserva dello Stato per l’impiego in ogni situazione; b) essere un Corpo in cui da sempre è possibile l’ingresso dall’esterno alle personalità scelte dal Governo per l’assunzione di incarichi; c) essere, in definitiva, un Corpo con peculiarità e un bagaglio professionale ben differente rispetto alle altre figure presenti nelle pubbliche Amministrazioni; ed è sempre saggio non disperdere o confondere tale patrimonio. L’idea dell’annale, promossa dall’Associazione nazionale funzionari amministrazione civile dell’Interno (Anfaci, l'associazione professionale storica dei prefettizi italiani), scaturisce dal bisogno di conservare la memoria e di coltivarla ed è, nel contempo, opera legata alla tradizione e alla innovazione. Tradizione intesa come riattivazione costante della storia bicentenaria dell’impegno profuso a favore della società e delle istituzioni. Innovazione innestata nella tradizione ovvero – come affermava Victor Hugo – un grande albero che genera rami, germogli, fiori e frutti sempre nuovi. E queste novità sono tantissime, tra le più recenti: l’impegno anticorruzione nei suoi molteplici profili, l’Expo, l’azione di contrasto alla criminalità organizzata e le tante iniziative in ambito provinciale promosse dai prefetti. I saggi e gli articoli pubblicati in questo annale riguardano solo una parte del grande caleidoscopio delle competenze e della storia dell’impegno dei prefettizi: i primordi, il ruolo nel processo di unificazione nazionale, la protezione e la difesa civile, i requisiti per l’assolvimento delle cariche pubbliche elettive, la legge elettorale parlamentare e l’immigrazione clandestina. Inoltre, vengono pubblicate le sintesi di due borse di studio AnfaciLuiss dedicate a studi sui campi di interesse, in Italia e all’estero, del Ministero dell’Interno. Si tratta di una collaborazione con buoni risultati forieri di essere sempre migliori. Il volume è completato dal documento Stato, territorio e prefetture. Appunti di riflessione che l’Anfaci ha presentato lo scorso 9 maggio. Infine, con l’occasione ho il piacere di ringraziare la collega Franca Tancredi e la signora Giulia Buonpane per la grande ed attenta pazienza nel raccogliere e sistemare il materiale. Buona lettura. © Wolters Kluwer SAGGI E ARTICOLI PIETRO ALBERTO LUCCHETTI PREFETTI NAZIONALI E PREFETTI CONSOLARI (1797-1798). UN ISTITUTO “IN GESTAZIONE” SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. I prefetti nazionali e consolari della Repubblica romana. – 3. I prefetti nazionali della Repubblica elvetica. – 4. Prefetti nazionali e prefetti consolari: un istituto “in gestazione”. 1. Premessa. Sono i successi eclatanti riportati nello “spazio di un mattino”, dal 10 al 21 aprile 1796 (Montenotte, Millesimo, Dego e, infine, Mondovì), a indurre l’armistizio di Cherasco del 28 aprile. Vittorio Amedeo III si ritira dalla Prima Coalizione e cede alla Francia il Ducato di Savoia e la Contea di Nizza, libera le piazzeforti di Acqui, Tortona, Alessandria, consentendo agli eserciti della Armée d’Italie il libero transito sui suoi territori, con facoltà di passare il Po a Valenza. L’Armata di Bonaparte può così avanzare in Lombardia e misurarsi con l’Austria. Da Cherasco, il 26 aprile, il Général en Chef lancia il primo proclama della Campagna d’Italia alle “phalanges républicaines” vittoriose, definendole “soldats de la liberté”(1). Lo stesso 26 aprile, ad Alba, nelle immediate retrovie del fronte, un altro proclama viene indirizzato “al popolo piemontese e lombardo” dai giacobini Rusca, Ranza e Bonafous, giunti in città al seguito del generale Augereau e del commissario Saliceti. (1) G. Gorgone, Da Nizza ad Arcole, in 1796-1797. Da Montenotte a Campoformio: la rapida marcia di Napoleone Bonaparte, <L’Erma> di Bretschneider, Roma, 1997-Catalogo della mostra Roma, 4 febbraio 1997-27 aprile 1997, 32. Riguardo al significato del Trattato di Cherasco (che il Lacretelle ebbe a definire un accordo “simile a quelli che l’antica repubblica romana concludeva con i re di Bitinia”) per l’avvio dell’impresa napoleonica in Italia, cfr L. Mascilli Migliorini, Napoleone, Salerno editrice, Roma, 2001, 88 ss. Più in generale, si veda C. Zaghi, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, UTET, Torino, 1986. © Wolters Kluwer 8 PIETRO ALBERTO LUCCHETTI Esso riconosce la “nazione” piemontese alleata in perpetuo con quella francese e la ordina secondo principi di libertà, uguaglianza e sovranità popolare, con magistrature elettive e bandiera di tre colori: blu, rosso e arancio. Sono aboliti decime e diritti feudali, ma si mantengono “la religione” , “culto patrio della nazione”, e le congrue dei parroci. Il 27 aprile, presenti numerosi sindaci delle Langhe, l’assemblea albese proclama la Repubblica piemontese, dichiarando deposto il re sabaudo e denunciando l’uso dei titoli e degli stemmi. Bonafus è eletto maire, Ranza dispone l’innalzamento dell’albero della libertà (che viene benedetto, il I maggio, dal vescovo), mentre Rusca avvia l’arruolamento per la Legione rivoluzionaria italiana, distinta da un medaglione con i profili di Bruto e Cassio. La vicenda della prima repubblica giacobina d’Italia (conclusasi già il 18 giugno 1796, dopo la pace di Parigi e con il ritorno alla sovranità piemontese)(2) sembra sintetizzare in modo quasi antesignano il Triennio 17961799. Si è trattato di un’esperienza breve, caratterizzata nel profondo da condizionamenti di tipo militare (e, segnatamente, dall’occupazione francese), nonché tanto “rivoluzionaria”, cioè innovatrice, quanto ispirata a un “culto dell’antico” affatto originale poiché commisurato alla peculiare tradizione italiana. Nondimeno, al di là della dimensione critica attinente, in primo luogo, alla valutazione del periodo quale “preludio o avvio” del Risorgimento, il senso del Triennio per la storia d’Italia consiste, probabilmente, nel “passaggio” dall’idea di “nazione culturale”, cioè “nazione di nazioni” cui non solo manca lo Stato unitario, ma anche la nostalgia di questo, all’esigenza di un progetto comune anche politico”. Tanto, si realizza “sulle rovine di tutti i dibattiti e i miti legati all’ipotesi settecentesca di una felicità pubblica garantita proprio dalla compresenza di modelli politici diversi e di territori di non rilevante ampiezza”. Ed “è”, questo, “un processo messo in moto” proprio “dal confronto con la Grande Nazione. I piccoli Stati d’antico regime, malgrado le strategie riformatrici”, si rivelano, all’improvviso ed impietosamente, arcaici ed inadeguati perché “impotenti ad assicurare la pace” e la loro stessa “indipendenza di fronte a una” intera “nazione in armi”(3). (2) Sulla vicenda della Repubblica di Alba, letta alla luce dei fattori militari che ne hanno determinato la storia, cfr V. Ilari, P Crociani e C. Paoletti, Storia militare dell’Italia giacobina, Stato Maggiore dell’Esercito-Ufficio Storico, Roma, 2001, 29 ss. Più in generale, si veda C. Ghisalberti, Dall’Antico Regime al 1848. Le origini costituzionali dell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari, 1999, 67-68. (3) G. Ricuperati, Universalismo e nazione nella cultura italiana dal tardo Settecento alla Restaurazione. Appunti per una ricerca, in L. Lotti e R. Villari (a cura di), Universalismo e nazionalità nell’esperienza del giacobinismo italiano, Laterza, Bari, 2003, 16. Per una descrizione di sintesi dell’esperienza del giacobinismo italiano e delle “Repubbliche sorelle”, cfr G. © Wolters Kluwer PREFETTI NAZIONALI E PREFETTI CONSOLARI (1797-1798) 9 Qui interessa esaminare alcuni aspetti istituzionali e amministrativi che, sopravvenendo in termini di assoluta novità nel corso dell’esistenza di quelle che, a fronte della Grande Nation, si definiranno “Repubbliche sorelle”, hanno caratterizzato, in Italia, la “giacobina Repubblica romana” e, in Svizzera, la Repubblica Elvetica. 2. I prefetti nazionali e consolari della Repubblica romana. Anzitutto a Roma, in effetti, nel significato più autentico di frattura modernizzatrice, intesa quale “rottura con la tradizione secolare romano-papale, ripetutasi poi anche nel 1849”, s’interpreta l’esperienza del 1798/99 nello Stato della Chiesa: “scartata dagli studiosi l’idea denigratoria della “Repubblica per ridere” o “effimera” e ridimensionata anche quella della sua intrinseca debolezza politica e culturale”, la “giacobina Repubblica romana” acquista rilievo per “la nascita o, almeno, per il tentativo di costruzione- di linguaggi e di pratiche della politica nuovi e capaci di investire profondamente e nella lunga durata i comportamenti e le idee”(4), nella città, prima che nei possedimenti, del sovrano Pontefice. In particolare, nel dominio del “linguaggio nuovo”(5), s’impone, dopo l’esilio forzato di papa Pio VI Braschi, il ricorso al mito della Roma repubblicana classica, utilizzato per la costruzione di un’originale religione politica, nonché funzionale al bisogno di sacralizzare le istituzioni appena stabilite. A Roma, più che in Francia e in misura assai maggiore rispetto alle altre “Repubbliche sorelle”, la retorica e il gusto figurativo della classicità assurgono a qualificazione singolare. L’evocazione degli esempi mitici di virtù civica, di amore per la libertà e di odio per la tirannia incentivano l’identificazione dei cittadini nella Patria. Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Bruno Mondadori, Milano, 1999, 42-56. (4) M. Caffiero, La Repubblica nella città del Papa, Donzelli, Roma, 2005, 9. Sulla “scoperta della politica” quale “valore del Triennio” che informa l’Ottocento nel nostro Paese, si veda M. Formica, Le repubbliche giacobine, in M. Ridolfi (a cura di), Almanacco della Repubblica. Storia d’Italia attraverso le tradizioni, le istituzioni e le simbologie repubblicane, Bruno Mondadori, Milano, 2003, 29-30. (5) In termini simbolici, rilevanza particolare assumono i colori della bandiera: “come nella Repubblica dapprima Cispadana e poi Cisalpina erano stati preservati due colori” del vessillo francese, “(il bianco e il rosso), aggiungendo a essi il verde, così fu anche per la Repubblica Romana che sostituì il blu con il nero (che alla fine prevalse sul grigio). Molto si è opinato e scritto riguardo all’adozione del verde da parte della Repubblica Cispadana, dato che questo tricolore divenne poi la bandiera italiana; al contrario non si conosce il significato del colore nero adottato per la Repubblica Romana e non si sa neanche se esso fu una scelta delle autorità francesi o di quelle romane.” M. e F. Stramacci, Roma Giacobina tra cronaca e storia, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1999, 61. © Wolters Kluwer 10 PIETRO ALBERTO LUCCHETTI Riguardo agli organi fondamentali dello Stato, riaffiorano così vestigia che gli studi antesignani di Albert Dufourcq non esitano a classificare di tipo “archeologico”: Tribunato, Senato, Consolato. Puntualizza, in proposito, Paolo Alvazzi del Frate: “si fa in genere risalire l’adozione di tale terminologia neo-classica ai commissari francesi” incaricati dal Direttorio di redigere la Costituzione della Repubblica, “tuttavia, come evidenziato da Mario Battaglini, nell’Atto del Popolo Sovrano del 15 febbraio 1798 se ne riscontra già una prima utilizzazione, suggerita (sembra) dall’archeologo Ennio Quirino Visconti”(6). Il Battaglini, effettivamente, afferma che “nel periodo che va dal 10 febbraio al 17 marzo 1798, dall’entrata dei francesi in Roma, cioè, alla pubblicazione della Costituzione della nuova repubblica giacobina, lo stato” viene “retto da due profondamente diverse costituzioni. La prima di esse è nota col nome di “Atto del popolo sovrano” ed è del 15 febbraio 1798, l’altra assai meno conosciuta, porta il titolo “Proclama del Generale Berthier sulla elezione de’ membri del Governo provvisorio della Repubblica Romana”. L’Atto del popolo sovrano, redatto in italiano e in francese, consta di “due parti: una che costituisce il preambolo, e l’altra che, sia pure schematicamente, dà il profilo della nuova struttura dello stato repubblicano”. Il Proclama di Berthier, datato 16 febbraio, del pari bilingue e intestato Armata d’Italia-Repubblica Francese, accoglie “la richiesta di una nuova struttura politica fatta al generale francese” dai romani mediante l’Atto del popolo sovrano, dettando anche il testo di “una Costituzione vera e propria”. Essa, come “tutte le costituzioni dei governi provvisori giacobini”, non contiene “principi generali ma solo lo schema della struttura dei nuovi organi e alcune norme per il loro funzionamento”(7). In entrambi i documenti, si riscontra l’istituto dei “consoli” che, nel testo di Berthier, ammontano a sette e ai quali sono devolute l’esecuzione “di tutte le leggi” nonché la facoltà di proporne di nuove, “secondo l’urgenza”. L’Atto del popolo sovrano attribuisce, poi, la carica evocativa di “pretori” ai magistrati, con funzioni in ambito civile e criminale, definiti “giudici di pace” dal proclama del generale francese. Non v’è cenno, altresì, in tale ul(6) P. Alvazzi del Frate, La “romanité” dans le système juridique de la République romaine (1798-1799), in P. Catalano e G. Lobrano (a cura di), Antichità e rivoluzioni da Roma a Costantinopoli a Mosca, Herder, Roma, 2002, 211. Il riferimento ad Albert Dufourcq attiene, nella specie, all’opera Le régime jacobin en Italie. Etude sur la république romaine (17981799), Perrin, Parigi, 1900. Sulle ricerche pionieristiche di Dufourcq, si veda, in particolare, la Premessa di Vittorio Emanuele Giuntella alla Bibliografia della Repubblica Romana del 1798-1799, Istituto di Studi Romani, Roma, 1957, IX-XII. (7) M. Battaglini, Le istituzioni di Roma giacobina (1798-1799), Giuffrè, Milano, 1971 1, 3, 19 e 20. Sulla proclamazione dell’Atto del popolo sovrano, si veda l’edizione critica, a cura di M. Teresa Bonadonna Russo, del Diario dell’anni funesti di Roma, Tipografia del Senato della Repubblica, Roma, 1995, 55. © Wolters Kluwer PREFETTI NAZIONALI E PREFETTI CONSOLARI (1797-1798) 11 tima fonte, agli “edili”, organo invece istituito dall’Atto del popolo sovrano. Nella Costituzione proclamata il 20 marzo 1798, che pone termine alla breve gestione provvisoria della Repubblica, compaiono di nuovo le cariche di “consoli” (scesi al numero di cinque e titolari del potere esecutivo), di “pretori” (i quali, coadiuvati da “assessori”, curano l’amministrazione della giustizia in ogni circondario) e di “edili” (che formano la municipalità dei “cantoni”). Ex novo, s’istituiscono i “questori”, incaricati della gestione finanziaria e tributaria; ai due “consigli”, infine, che esercitano il “potere legislativo”, lo stesso testo costituzionale impone il nome, rispettivamente, di “Senato” e di “Tribunato”. Come, dunque, appare, l’utilizzo, man mano consolidatosi, di quella che Alvazzi del Frate definisce “terminologia neo-classica” risulta risalente all’Atto del popolo sovrano, caratterizzando così un contributo nient’affatto marginale da parte dei giacobini romani. Conforta anche, al riguardo, lo scritto del Cretoni: “il Lampredi, fin dai primi di marzo, aveva annunciato dalle colonne del Monitore di Roma che i commissari del Direttorio, Monge, Daunou e Florent, “famosi giuspubblicisti”, erano in Roma “travagliando con costante assiduità ad ultimare la Costituzione della Repubblica Romana”. Al lavoro preparatorio, sembra abbiano partecipato il Visconti e altri pochi consiglieri” il cui “contributo”, tuttavia, “o meglio, quello del Visconti”, si è ridotto “a far adottare per i nuovi istituti e per le nuove cariche nomi di sapore classico”(8) . In tema, avendo riferimento all’Atto del popolo sovrano, è ragionevole ricondurre alla componente romana l’introduzione dell’attributo di “prefetti”: nel testo, si stabilisce infatti che “il Popolo Romano ha trasferito provvisoriamente ogni facoltà politica, economica e civile, che emanava a nome del Papa, nei dipartimenti”, denominati, rispettivamente, dei “Consoli”, dei “Prefetti di Polizia”, dei “Prefetti di Giustizia civile e Criminale”, dei “Prefetti della Milizia”, dei “Prefetti alle Finanze”, dei “Prefetti all’Annona”, dei “Prefetti di Marina Commercio e Agricoltura”, degli “Edili” e dei “Prefetti sull’Ecclesiastico”. Con il Battaglini, si può in proposito osservare che “il nome Dipartimenti si trova (e questo dimostra che nella stesura” dell’Atto hanno posto “mano i francesi) nella costituzione provvisoria della Lombardia: quanto al nome di prefetti dato ai singoli membri, esso è di pura marca pontificia, chiamandosi così i Capi delle Congregazioni”(9). Se, dunque, la matrice transalpina si distingue facilmente nella qualificazione dipartimentale dei settori della pubblica amministrazione cui sono (8) A. Cretoni, Roma giacobina. Storia della Repubblica Romana del 1798-99, Istituto di studi romani-Edizioni Scientifiche Italiane, Roma, 1971, 106-107. (9) M. Battaglini, cit., 11. © Wolters Kluwer 12 PIETRO ALBERTO LUCCHETTI preposti i prefetti, l’assonanza “curiale” della nuova carica sembra quasi indurre, per comprenderne la scelta, il collegamento con l’opera di Francesco Riganti: avvocato concistoriale, questi è, infatti, a detta del Valentinelli(10), l’autentico estensore dell’Atto del popolo sovrano. Nato nel 1735 e appartenente a famiglia intrinseca alla corte vaticana, Riganti, in quanto moderato, viene considerato affidabile dai francesi, tant’è che il suo nome compare, secondo Vittorio Emanuele Giuntella(11), nell’elenco di patrioti che Giuseppe Bonaparte reca a Roma nel luglio 1797, all’inizio della missione di ambasciatore presso la Santa Sede. Designato già l’11 febbraio 1798 da Berthier a far parte dell’ultima Congregazione di Stato nominata da Pio VI, Riganti viene quindi annoverato nel Dipartimento dei “Consoli” (i quali, si afferma nell’Atto del 15 febbraio, “dovranno esercitare le funzioni” che “nel passato Governo si adempivano” proprio “dalla Congregazione di Stato”). Chiamato a esercitare ancora, provvisoriamente, le funzioni di Console, dopo il 16 febbraio, dal Proclama dello stesso generale Berthier, cesserà dalla carica con la Costituzione di marzo. Com’è noto, le Congregazioni furono istituite per sovvenire alla necessità di dar vita a commissioni ad hoc incaricate di gestire questioni prima affidate, nell’ambito della Curia Romana, alla Cancelleria Apostolica. L’ordinamento complessivo delle Congregazioni risale alla Immensa aeterni Dei di Sisto V del 22 gennaio 1588 e non muta, in sostanza, fino ad oggi: ogni Congregazione è da allora guidata da un cardinale con la carica di Prefetto(12). In linea con la tradizione, può ritenersi assai probabile che il Riganti, esperto avvocato concistoriale, abbia inteso attribuire il titolo di “prefetti”, sic et simpliciter, alle persone preposte a ciascun Dipartimento, omologando il senso latino del termine con la funzione di capo del Dipartimento medesimo e riscuotendo, peraltro, l’approvazione dei francesi. Nei fatti, l’appellativo non sopravvive all’Atto del popolo sovrano. La stesura costituzionale provvisoria offerta ai romani dal Proclama di Berthier, infatti, lo pretermette, pur recependo l’istituto, ad esempio, dei Consoli, nel novero dei quali, come accennato, viene inserito in primis lo stesso Riganti. (10) In tal senso, cfr ancora Battaglini, cit, 3. Ne Il Risorgimento italiano, Einaudi, Torino, 1981, 238, S. J. Woolf sostiene che “i francesi cercavano di assicurarsi una obbediente collaborazione mediante la scelta del personale di governo e l’imposizione di determinati schemi costituzionali. Il Direttorio e Bonaparte pensavano concordemente che le due principali forze d’opposizione alla politica francese in Italia dovessero essere identificate nei reazionari austriacanti e nei patrioti estremisti; diverso era il loro giudizio solo per quanto riguardava il pericolo potenzialmente rappresentato dai secondi”. (11) V. E. Giuntella, Le classi sociali nella Roma giacobina, in Rassegna storica del Risorgimento, 1951, 31. (12) Si veda, in proposito, N. Del Re, La Curia Romana, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 1998, 33-38. © Wolters Kluwer PREFETTI NAZIONALI E PREFETTI CONSOLARI (1797-1798) 13 E tanto può spiegarsi con la sinteticità dello schema del Proclama, assai standardizzato in termini di conformità alle istruzioni impartite dal Direttorio dapprima a Bonaparte (“point de Costitution mais de réglement que vous publierez toujours comme général en chef”)(13) e, quindi, ai generali dell’Armata d’Italia. Il nomen prefetto (cui si unisce sùbito, in coerenza con quanto sinora considerato, lo specificativo “consolare”) riaffiora, però, con tutta evidenza, in 17 dei 372 articoli della Costituzione di marzo(14). Venuto meno il rudi(13) G. Gorgone, La Repubblica Cisalpina: una repubblica sorella, in 1796-1797. Da Montenotte a Campoformio: la rapida marcia di Napoleone Bonaparte, cit, 87. (14) Il riferimento ai prefetti attiene, nel Titolo IV (Assemblee elettorali), all’art.42: “il prefetto consolare di ogni dipartimento è tenuto, sotto pena di destituzione, d’informare il consolato del tempo in cui aprono e si chiudono le assemblee elettorali. Egli non può arrestarne, né sospenderne le operazioni, né entrare nel luogo delle sedute; ma ha il diritto di farsi comunicare il processo verbale di ciascuna seduta nel termine di 24 ore successive; ed è tenuto di denunziare al consolato le infrazioni che si fossero fatte all’atto costituzionale. In tutti i casi, i consigli legislativi pronunziano soli sulla validità delle operazioni elettorali”. Nel Titolo VI (Potere esecutivo), all’art.152: “il consolato invigila, e assicura l’esecuzione delle leggi nelle amministrazioni e ne’ tribunali, per mezzo di prefetti consolari da lui nominati”. Nel Titolo VII (Corpi amministrativi e municipali), all’art.193 “il consolato nomina presso ciascuna amministrazione dipartimentale e municipale un prefetto consolare, e lo revoca quando lo crede conveniente. Questo prefetto invigila, e sollecita la esecuzione delle leggi. Egli deve avere 25 anni almeno”. Nel Titolo VIII (Amministrazione della giustizia), all’art. 208: “nessun cittadino, se non ha 25 anni compiti, può essere eletto giudice di un tribunale dipartimentale, né pretore, né assessore del pretore, né membro dell’alta pretura, né giurato, né prefetto consolare presso i tribunali”; all’art. 214: “vi è un tribunale civile in ogni dipartimento. Ogni tribunale civile è composto di un prefetto consolare, del suo sostituto e di uno scriba nominati, e deponibili dal consolato, e da almeno cinque giudici”; all’art.231: “ogni tribunale di censura”, competente al “giudizio dei delitti”, “è composto di un presidente eletto per cinque anni dalle assemblee elettorali, di due pretori, o assessori del pretore della comune, in cui è stabilito, di un prefetto consolare, nominati, e deponibili dal consolato”; all’art.240: “le funzioni di prefetto consolare, e di scriba presso il direttore del giurì d’accusa, sono eseguite dal prefetto consolare, e dallo scriba del tribunale di censura”. Sempre nel Titolo VIII, all’art.242: “il direttore del giurì di accusa procede immediatamente come uffiziale di polizia, sulle denunzie che gli fa il prefetto consolare, sia per uffizio, sia dopo gli ordini del consolato: 1) sugli attentati contro la libertà o la sicurezza individuale de’ cittadini; 2) su quelli che sono commessi contro il diritto delle genti; 3) sull’opposizione all’eseguimento dei giudizi e di tutti gli atti esecutori emanati dalle autorità costituite; 4) sulle turbolenze cagionate, e su i fatti praticati per impedire la percezione delle contribuzioni, la libera circolazione delle sussistenze e di altri oggetti di commercio”. Seguono: l’art.244, “il tribunal criminale è composto di un presidente, di due giudici presi tra quelli del tribunal civile, del prefetto consolare presso al tribunal civile, o del suo sostituto e di uno scriba”; l’art.245, “il prefetto consolare è incaricato: 1) di procedere contro i delitti sugli atti di accusa ammessi dai primi giurati; 2) di trasmettere agli uffiziali di polizia le denunzie, che gli sono indirizzate direttamente; 3) di invigilare sui direttori del giurì d’accusa ed uffiziali di polizia del dipartimento, e di agire contro di loro seguendo la legge, in caso di negligenza o di fatti più gravi; 4) di fare istanza nel corso della processura per la regolarità delle forme, e prima del giudizio per © Wolters Kluwer 14 PIETRO ALBERTO LUCCHETTI mentale modello militare, risulta difficile contestare che il titolo sia stato attribuito a un organo familiare alle precedenti esperienze costituzionali. E qui s’impone l’archetipo francese dei commissari del Direttorio. Si tratta di funzionari (il trattamento economico, espresso in miriagrammi di frumento, è di 1/3 superiore a quello degli amministratori dipartimentali) che il Direttorio nomina presso le amministrazioni dei dipartimenti, riservandosi, all’occorrenza, piena facoltà di revoca. Il commissario sorveglia e sollecita l’adempimento delle leggi, deve aver compiuto 25 anni ed essere residente da almeno un anno nel dipartimento. “La legge del 9 febbraio 1796” lo “incarica di acquisire dalle amministrazioni dipartimentali e dai tribunali giudiziari quanto inerente all’esecuzione delle leggi, alla sicurezza pubblica ed individuale, ad ogni turbamento o disordine esistenti o prevedibili. Essi ricevono, giornalmente e ad ora stabilita, i responsabili militari della piazza e quelli della gendarmeria. Informano altresì i ministri delle infrazioni” di rispettiva competenza(15). l’applicazione della legge; 5) di sollecitare l’esecuzione dei giudizi resi dal tribunale criminale, e di denunziare gli abusi, eccessi di potere e prevaricazioni”; l’art.257, “vi è presso” il tribunale dell’alta pretura “un prefetto consolare e un sostituto, nominati e deponibili dal consolato”. Chiudono, ugualmente nel Titolo VIII, l’art.260: “l’alta corte di giustizia”, che giudica le “incolpazioni ammesse dai consigli legislativi tanto contro i loro propri membri, quanto contro i consoli”, è “composta di un giurì di accusa, e di un giurì di giudizio, di un direttore del giurì d’accusa, di un prefetto nazionale e di tre giudici”; l’art.264: “il tribunale dell’alta pretura nomina nella stessa seduta per scrutinio alla maggioranza assoluta due suoi membri per fare all’alta corte di giustizia, uno le funzioni del direttore del giurì d’accusa, l’altro le funzioni di prefetto nazionale” e l’art.267: “l’alta corte di giustizia si divide in due sezioni: la prima, detta sezione d’accusa, è composta dal direttore del giurì d’accusa, dal prefetto nazionale, e da otto alti giurati cavati a sorte sulla lista generale; la seconda, detta sezione di giudizio è composta da tre giudici, dal prefetto nazionale, e da 16 alti giurati parimente cavati a sorte sulla lista generale”. Nel Titolo XIV (Disposizioni generali), l’art.360: “nessuno potrà essere amministratore dipartimentale, giudice di un tribunale civile, presidente di un tribunale criminale, prefetto consolare o sostituto, presso un tribunale civile o criminale, se non è stato almeno per un anno o edile o prefetto consolare presso una municipalità, o pretore o assessor del pretore, o prefetto consolare presso un tribunale di censura”; l’art.361: “nessuno potrà essere senatore, tribuno, alto pretore, prefetto consolare presso l’alta pretura, gran questore, se non è stato almeno un anno o amministrator dipartimentale, o giudice di un tribunal civile, o presidente di un tribunal criminale, o prefetto, o sostituto del prefetto consolare presso un tribunale civile, o criminale” e l’art.367: “alcun funzionario stabilito dalla presente costituzione console, ministro, legislatore, questore, amministratore, edile, elettore, pretore, giudice, prefetto consolare, giurato ordinario o speciale, o alto giurato, segretario, scriba, o altro qualunque non potrà esercitare alcuna funzione prima di aver prestato il giuramento di odio alla monarchia, e all’anarchia, e di attaccamento alla repubblica, ed alla costituzione” (le citazioni sono tratte da A. Aquarone, M. D’Addio e G. Negri, Le Costituzioni italiane, Edizioni di Comunità, Milano, 1958). (15) B. Bergerot, Les préfets avant les préfets, in Etudes pour servir à l’histoire du corps préfectoral (1800-1940), Imprimérie municipale Hotel de Ville, Paris, 1983, 17. © Wolters Kluwer PREFETTI NAZIONALI E PREFETTI CONSOLARI (1797-1798) 15 Val la pena ribadire che il modello francese viene riproposto, nella generalità dei casi, dall’Armata d’Italia. A Lucca, dove un’essenziale Costituzione provvisoria è quasi dettata dal generale Sérurier ancora nel febbraio 1799, in termini e modi analoghi a quelli del Berthier, si prevedono, appunto, “commissari” nominati dal Direttorio esecutivo(16). A Roma, le competenze del prefetto consolare, delineate dalla Costituzione ed afferenti ad ambiti di amministrazione civile, ordine pubblico e vigilanza sull’attività della giustizia, si attagliano, con la modifica essenziale di cui si dirà in prosieguo, agli standard del commissario transalpino. Non può dunque darsi torto alle menzionate asserzioni del Cretoni sul ruolo che debbono aver svolto, nella specie, i Commissari civili incaricati dal Direttorio di redigere il testo costituzionale. Spicca, in particolare, l’intervento di Pierre-Claude-François Daunou. Se, in effetti, la personalità di Gaspard Monge, illustre matematico e scienziato, ma anche figura di primo piano nelle istituzioni rivoluzionarie, si segnala tra quelle dei Commissari, è forse proprio al lavoro di Daunou, giurista ed esponente di punta, con Condorcet, Sieyès e Destutt de Tracy, degli Ideologi protagonisti dell’attività delle assemblee del Direttorio e del Consolato, che bisogna far capo per esaminare la questione. Dalle lettere di Monge, pubblicate in Dall’Italia, si evince che i Commissari, a Milano il 15 febbraio 1798, erano “finalmente arrivati a Roma” il 22 febbraio: ebbene, già il 13 marzo “la costituzione della Repubblica romana” risultava “data alle stampe”, tanto che, alla stessa data, venivano “emanate le leggi organiche per ognuna delle componenti del governo”(17). Un lasso di tempo così breve induce a pensare a “un canovaccio della costituzione redatto a Parigi, sul quale lavorarono”, poi, “i Commissari e, in particolare Daunou, una volta giunti a Roma”(18): ed è quanto sostenuto da Francesca Sofia. (16) Sulla prima Repubblica democratica lucchese, si rinvia, in generale, a Lucca 1799: due repubbliche. Istituzioni, economia e cultura alla fine dell’Antico Regime, Convegno di studi, Lucca-Villa Bottini 15-18 giugno 1999, in Actum Luce Rivista di studi lucchesi, 1-2, 2001, e, specificamente, ai due volumi di G. Tori, Lucca giacobina, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2000. (17) G. Monge, Dall’Italia (1796-1798), Sellerio, Palermo, 1993, 186, 187 e 188; con il titolo di Uno scienziato al servizio della Rivoluzione, un profilo di Gaspard Monge è offerto, all’inizio della raccolta di lettere, da S. Cardinali e L. Pepe. In generale, sulla corrispondenza tra le autorità francesi con Parigi, appare utile menzionare che essa “era continua sia per riferire, sia per chiedere ordini o pareri, che, compatibilmente con la rapidità dei corrieri, arrivavano puntualmente” M. e F. Stramacci, cit., 208. (18) F. Sofia, Antico e moderno nel costituzionalismo di P. C. F. Daunou, commissario civile a Roma, in P. Boutry, F. Pitocco e C. Travaglini (a cura di), Roma negli anni di influenza e dominio francese 1798-1814, Edizioni Scientifiche Italiane, Ercolano (Napoli), 2000, 349. Sostengono la tesi del progetto proveniente dalla Francia anche M. Vovelle in Les Républiques Soeurs dans le projet du Directoire et dans l’opinion française, 33, e A. De Francesco in La © Wolters Kluwer 16 PIETRO ALBERTO LUCCHETTI Quest’ultima fa altresì menzione “di una lettera inviata da Daunou al direttore L. M. de la Révellière-Lépaux pochi giorni dopo l’emanazione del testo costituzionale, dove l’adozione della terminologia della repubblica romana antica viene ascritta alla Francia, anche se poi concordata nei dettagli con gli esponenti romani. Discolpandosi dall’accusa di aver riformato il testo que vous nous aviez remise, Daunou elencava” quindi “le modifiche apportate d’après la démande de quelques Romains”(19). Ed è nel novero dei quelques Romains che sarebbe logico includere Ennio Quirino Visconti, il quale, anche in ragione della propria carica di Console pro tempore da cui i nuovi funzionari dipendono direttamente (e non solo, quindi, in ragione di naturale vocazione “archeologica”) può aver avuto voce decisiva nell’attribuzione del nomen “prefetto consolare”. 3. I prefetti nazionali della Repubblica elvetica. Cronologia vuole, però, a questo punto, che si segnalino eventi già verificatisi a Parigi tra la fine del 1797 e l’inizio del 1798. Unitamente a Peter Ochs e al Direttore Louis-Marie de la Révellière Lépeaux, proprio Daunou “aveva redatto un primo progetto d’unione dei cantoni” svizzeri “in confederazione una e indivisibile”(20). Ochs, maggiorente di Basilea, che, con Frédéric-César Laharpe, vodese, rappresenta la più importante figura del periodo rivoluzionario nel suo Paese, “era stato incaricato di redigere un testo costituzionale” nel corso di incontri svoltisi “l’8 e il 9 dicembre” 1797 “con il Direttore Reubell e Bonaparte”. Il “Progetto della costituzione elvetica”, “sottoposto al Direttorio il 15 gennaio” e soggetto a modifiche “da parte di Merlin e di Reubell viene stampato e diffuso in Svizzera all’inizio di febbraio” dove acquisisce notorietà con il nome di “Costituzione di Parigi”. Esso, destinato a tradursi senza cambiamenti di sostanza nella Costituzione della Repubblica elvetica che verrà proclamata ad Aarau il 12 aprile 1798, affida “il potere esecutivo a un Direttorio” che “mediante l’organo dei prefetti dirige tutto l’apparato amministrativo”(21). Mancando un Consolato constitution de l’an III et les Républiques jacobines italiennes, 103: le due relazioni sono raccolte negli Atti del convegno internazionale Repubbliche Sorelle, cit. (19) F. Sofia, cit., 349. Oltre alle notizie che l’autrice dedica nel testo all’opera di Daunou, riferite all’attività legislativa e costituzionale di quest’ultimo, si desidera menzionare, riguardo all’appartenenza di Daunou alla scuola degli Ideologi, G. Zanfarino, Alle origini del governo rappresentativo, Bonacci, Roma, 1993. (20) A. Boehtlingk, Frédéric-César Laharpe, Editions de la Baconnière, Neuchatel (Suisse), 1969, 125. (21) A. Rufer, La Suisse et la Révolution française, La Néogravure, Paris, 1974, 68, 72 e 74. Si ritiene significativo, in merito al “Progetto della Costituzione elvetica”, quanto affermato l’8 febbraio 1798 da Madame de Stael, allora residente a Coppet, nel Cantone di Vaud: “E’ giun- © Wolters Kluwer PREFETTI NAZIONALI E PREFETTI CONSOLARI (1797-1798) 17 (l’organo corrispondente è definito appunto “Direttorio esecutivo”, in derivazione stretta dal modello della Costituzione francese del 1795 di cui Daunou era stato uno dei principali artefici), il “Progetto della costituzione elvetica” collega alla carica di prefetto l’attributivo “nazionale”. Su un corpus di 107 articoli (più due Titoli dedicati, rispettivamente, alle Mutazioni nella costituzione e ai Mezzi per porre in attività la costituzione), i prefetti nazionali sono menzionati in 8 articoli. Nell’immediatezza dell’analisi, si segnala la brevità del testo elvetico rispetto a quello della Repubblica romana e quindi il minor numero di norme dedicate al prefetto nazionale. Anche qui devono aver giocato i limitati margini temporali a disposizione dei redattori del “Progetto”, in tanto costretti dal fulmineo susseguirsi degli eventi che, dal 15 dicembre 1797 (data di occupazione francese del Giura svizzero), alla capitolazione di Berna del successivo 5 marzo, vedono passare la Confederazione dalla neutralità alla sconfitta. Peraltro, l’ipotizzabile economia di tempo che, rispetto all’esperienza romana, può essere derivata dall’ambientazione essenzialmente parigina dei lavori è da ritenere sia stata compensata dalle mende imposte dai Direttori Jean-François Reubell e Philippe-Antoine Merlin de Douai. Reubell (che, come detto, aveva avviato, con Bonaparte, l’intesa con Ochs) risulta in effetti interessato, anche in ragione della propria origine alsaziana, acché si costituisca un sistema “satellite” oltre Giura, utile a rendere più sicuri i confini naturali con l’Impero germanico. Merlin de Douai, giureconsulto di fama e già Ministro della giustizia, riserva invece cura particolare ai diritti soggettivi pubblici e individuali borghesi. Il risultato di sintesi comporta nondimeno il vantaggio di fruire di articolati che tendono ad accorpare precetti normativi altrimenti votati ad essere parcellizzati. Sui prefetti nazionali, gli articoli 95 e 96 del “Progetto” costituiscono quasi un compendio esemplare. Art. 95: “Le tre prime autorità di ciascun cantone sono il prefetto nazionale, la camera di amministrazione ed il tribunale di cantone”. Art. 96: “Il prefetto nazionale vi rappresenta il potere esecutivo. Egli ha per luogotenente il viceprefetto del comune dove risiede; Egli invigila sopra tutte le autorità ed impiegati nell’esercizio delle loro funzioni e li richiama ai loro doveri; Tramanda loro le leggi e gli ordini del Direttorio; Riceve le loro ta oggi da Parigi una costituzione per tutta la Svizzera, una e indivisibile, seppur distinta in 22 cantoni, tra cui il Vaud. La trovo assai ragionevole e ritengo potrebbe essere adottata subito. Ma ci sono molti pregiudizi in questo Paese e forse non ci si è si avvicinati a sufficienza al modello federativo. Nella costituzione che ci viene presentata, bisognava democratizzare ogni cantone, ma lasciandolo padrone di governarsi entro propri limiti”, F. Rosset, Tout a des limites en ce pays, y compris la Rèvolution, Dossier Helvétique Vol.5/6-Regards sur l’Helvétique, Schwabe & Co.AG-Verlag-Basel, 2000, 64. © Wolters Kluwer 18 PIETRO ALBERTO LUCCHETTI osservazioni, progetti e reclamazioni; è obbligato di trasferirsi di quando in quando ne’ diversi distretti del cantone, per invigilarvi; Non concede alcun favore, ma riceve le petizioni de’ cittadini e le tramanda alle autorità competenti; Egli convoca i comizi primari ed elettorali; Presiede alle feste civiche; Ha il diritto d’intervenire nelle deliberazioni de’ tribunali e della camera di amministrazione; vi richiede l’esecuzione delle leggi, ma non può votare; Egli invigila sulla sicurezza, esercita il diritto di cattura, e dispone della forza armata, però non la può comandare lui stesso; Egli nomina i presidenti del tribunale, della camera di amministrazione e delle giustizie inferiori fra i giudici e amministratori eletti dal corpo elettorale; Egli ha eziandio la nomina degli scrivani, dell’accusatore pubblico e de’ vice-prefetti del capo luogo e de’ distretti. E’ il Direttorio che l’elegge, lo destituisce, lo richiama, lo trasferisce in un altro cantone o lo chiama ad altre funzioni”(22). Così delineati in stilemi normativi, gli standard che erano stati propri del commissario francese appaiono, per molti versi, altrettanto netti che nella Costituzione romana. Il prefetto nazionale, “designato dal Direttorio” e legato al territorio mediante la residenza, “sorveglia e sovrintende”, quale “rappresentante del go(22) Gli articoli 95 e 96 del “Progetto della Costituzione elvetica” sono posti in testa al Titolo X (Autorità nei cantoni). Nello stesso Titolo, interessano l’art.102: “oltre a queste tre prime autorità, vi sono nel capo-luogo ed i distretti di ciascun cantone, delle giustizie inferiori, in materia civile e di polizia, composte di nove membri eletti dal corpo elettorale. Stanno per sei anni in carica. In ciascun anno esce uno di loro. Il presidente vien scelto fra gli assessori del prefetto nazionale” e l’art.103: “nel capo-luogo, e in ciascun distretto, vi sarà per il mantenimento della tranquillità pubblica e l’esercizio degli ordini che emanano, sia dal prefetto, sia dai tribunali, sia dalla camera di amministrazione, un vice-prefetto, il quale ha sotto di sé, in ciascuna sezione o quartiere di città e ciascun villaggio, un agente di sua nomina”. I restanti 4 articoli che riguardano il prefetto nazionale attengono al Titolo IV (De’ comizi primari ed elettorali), l’art.34: “i nomi degli eletti saranno mandati al prefetto nazionale, il quale, coll’assistenza del presidente di ciascheduna autorità costituita del luogo del suo domicilio, procede in pubblico, per via della sorte, all’esclusione della metà degli eletti”. Al Titolo V (Del potere legislativo), l’art.37 “da computarsi dal terzo anno inclusivamente, dopo che sarà messa in attività la presente costituzione, sarà mestiere per essere eletto membro del Senato, essere stato, ossia ministro, o agente al di fuori, o membro del Consiglio de’ Due cento quaranta, o del Tribunale supremo, o prefetto nazionale o infine presidente di una camera di amministrazione o d’un tribunale di cantone”. Nel Titolo VI (Direttorio esecutivo), l’art.72: “fin da questo momento i requisiti necessari per essere direttore sono: l’età di anni quaranta compiti, e la qualità di essere ammogliato, o di vedovo. Da computarsi dall’anno terzo inclusivamente, dopo posta in attività la presente costituzione, i requisiti saranno inoltre di essere stato, o membro dell’uno de’ Consigli legislativi, o ministro, o membro del Tribunale supremo, o in fine prefetto nazionale”. Ugualmente nel Titolo VI, l’art.82: “il Direttorio nomina, rivoca, o destituisce i capi ed uffiziali di ogni grado della forza armata, i ministri ed agenti diplomatici, i commissari della tesoreria nazionale, i prefetti nazionali, il presidente, accusatore pubblico e scrivano del Tribunale supremo, e li esattori in capo delle entrate della Repubblica. Li sottoimpiegati e sotto-agenti vengono nominati da quelli da cui dipendono immediatamente”. © Wolters Kluwer PREFETTI NAZIONALI E PREFETTI CONSOLARI (1797-1798) 19 verno, all’esecuzione e all’implementazione delle leggi, controlla l’amministrazione e mantiene l’ordine pubblico. Assicura altresì l’attività delle assemblee elettorali. La durata del suo ufficio non è fissata, ma può essere sostituito in ogni momento e addetto ad altro cantone. Il ruolo del prefetto riveste estrema importanza, poiché egli funge da mediatore tra centro e periferia”(23). Tale ultima affermazione di Andreas Frankhauser induce nondimeno a riflessione. La figura del commissario francese, immediato precedente del prefetto nazionale, giustifica, nella concretezza dei compiti prima ancora che nella lettura semantica, un senso, appunto, del committere insito all’istituto: d’incarico, cioè, affidato a tempo determinato e spesso non prolungato, ma che si esplica anche nella consapevolezza delle parti che, quasi sempre, gli interessi alla base del rapporto gravitano in modo eminente nel luogo in cui insiste il committente e non in quello di adempimento del commissum. Come rilevato da Frankhauser, il prefetto nazionale sembra invece inserito in una dialettica più articolata e complessa perché più attenta alla periferia rispetto al modello commissariale (essenzialmente riconducibile al binomio “rappresentanza-controllo”). Esso, pur recependo l’incombenza di rappresentare il centro e vigilare sulla periferia, ha il dovere di ricevere, ex art. 96, “le petizioni de’ cittadini e” di “tramandarle alle autorità competenti” così come “è obbligato di trasferirsi di quando in quando ne’ diversi distretti del cantone”. Mediante il viceprefetto, da lui stesso nominato, si avvale inoltre di una rete di agenti stanziati “in ciascuna sezione o quartiere di città e ciascun villaggio”. Il suo ruolo di garante dell’esercizio dei diritti politici, dell’uso della giustizia e, in particolare, di un corretto svolgimento dell’attività amministrativa, lo caratterizza effettivamente come “prima autorità del cantone” (art. 95), intendendosi l’auctoritas(24) quale autentico strumento di “accrescimento” della fruizione, da parte della comunità, dei diritti di cittadinanza. In due parole, il prefetto nazionale è anche autorità locale, oltre che governativa. E tanto fa assai comodo poiché si rende necessario adattare un modello sinora squisitamente francese alla realtà quanto mai diversificata della Confederazione. Ma se questa chiave di lettura delle norme del “Progetto” può considerarsi plausibile, si è spinti altresì ad avanzare la suggestione che il termine “prefetto” sia utilizzato da Daunou, in vece di quello di “commissario”, né per semplice operazione nominalistica in ossequio (23) A. Frankhauser, The Political Structure and Revolutionary Potential of the Helvetic Republic (1798-1803), Atti del convegno internazionale Repubbliche Sorelle, cit., 159. (24) Sul concetto di autorità sociale cfr, P. Pombeni, Autorità sociale e potere politico nell’Italia contemporanea, Marsilio, 1993, 16 ss. © Wolters Kluwer 20 PIETRO ALBERTO LUCCHETTI all’antichità classica, né nel solo intendimento di designare il “capo” di un pur importante ufficio pubblico. Da profondo conoscitore e, soprattutto, da acuto critico della storia romana, Daunou ha inteso forse dar valore di attualità a una risalente, specifica funzione. “La Repubblica romana puniva le città italiche ribelli privandole di ogni struttura civica, cosa che equivaleva alla pena di morte per le persone; da Roma, venivano inviati”, appunto, dei “prefetti per amministrare le comunità decadute”, riconducendole, proprio mediante l’amministrazione, all’esercizio della cittadinanza. “Sotto l’Impero, i prefetti di tribù o di città erano gli eredi di quei prefetti, perché dovevano ormai la propria autorità a una delega imperiale. Ma il titolo implicava che le collettività loro affidate, comunità cittadine o tribù, non perdessero più completamente la propria personalità giuridica”(25). Daunou, quale antico rivoluzionario e legislatore della Rivoluzione, ha probabilmente ben presente questa missione originaria volta a rigenerare le comunità a un ordine nuovo. Mutatis mutandis, egli la considera attualissima e in grado di essere sperimentata perché coerente con il significato etimologico (che pure gli è proprio) che nel prefetto individua “colui che deve agire per primo e che deve prendere l’iniziativa” in favore dei cittadini, non limitandosi a rappresentare e a controllare. E da un punto di vista ideologico, sembrano quasi così comporsi i filoni storici di pensiero che nel coté giacobino vede prevalere il centro sulla periferia e in quello girondino auspica la promozione del governo locale. Per una rigenerazione del proprio Paese, in senso antioligarchico, riformatore e unitario, tiene però anche Peter Ochs. Colto e cosmopolita esponente dell’alta borghesia della Città Stato di Basilea dove gli sono stati affidati importanti incarichi pubblici, Ochs vive a Parigi, nel 1791, l’esperienza della Rivoluzione ed è vicino alle posizioni dei Foglianti. A Daunou lo accomuna l’ossequio per l’insegnamento di Rousseau sul valore delle istituzioni statali nella formazione di una matura coscienza di patria: entrambi non possono che concordare sulla scelta di collegare al titolo di prefetto l’attributo “nazionale”. Ma (e a questo punto si chiude il riferimento cronologico alla “Costituzione di Parigi”) il “prefetto nazionale” compare anche nella Costituzione romana del 20 marzo 1798. Sinora si è però argomentato in via esclusiva del “prefetto consolare”, in quel testo costituzionale. Nondimeno, il prefetto nazionale, lungi dal ritener(25) F. Jacques e J. Scheid, Roma e il suo Impero, Laterza, Roma-Bari, 2005, 242. In tema, si veda anche G. Vitucci, I Prefetti di Roma in età alto imperiale, in Instrumenta, 21, 2003, 891934. © Wolters Kluwer PREFETTI NAZIONALI E PREFETTI CONSOLARI (1797-1798) 21 si un lapsus calami, esiste solo in quanto parte del sistema dedicato, nel Titolo VIII (Amministrazione della giustizia), all’Alta corte di giustizia (artt. 259-267). Essa è istituita “per giudicare le incolpazioni ammesse dai consigli legislativi tanto contro i loro proprii membri, quanto contro i consoli” (art. 259): il prefetto nazionale, a norma degli articoli 264, 266 e 267, vi funge sia da membro della “sezione d’accusa”, sia da componente della “sezione di giudizio”. Nell’ovvia considerazione che il prefetto consolare, per la propria diretta dipendenza dal potere esecutivo, debba astenersi dal conoscere circa le “incolpazioni ammesse contro i consoli”, il ruolo, in concorso con altri membri, di “accusatore” e di “giudice” in rappresentanza dello Stato è affidato ad altra species istituzionale: il prefetto nazionale, nominato ad hoc mediante estrazione a sorte tra i componenti del Tribunale dell’alta pretura. Si tratta, dunque, come sembra evidente, di una magistratura affatto speciale. Per il discorso, però, che qui interessa, l’inclusione nella Costituzione della Repubblica romana della figura del prefetto nazionale offre un indizio ricostruttivo che appare decisivo. 4. Prefetti nazionali e prefetti consolari: un istituto “in gestazione” Riepilogando: a cavallo degli anni 1797 e 1798, Daunou, unitamente a Peter Ochs e al Direttore De la Révellière Lépeaux, redige il “Progetto della costituzione elvetica” che, emendato da Reubell e Merlin de Douai, parimenti Direttori in carica, diviene la cosiddetta “Costituzione di Parigi”, dove la figura del commissario del Direttorio, prevista dalla Costituzione dell’anno III, si trasforma in prefetto nazionale. Giunto a Roma il 22 febbraio 1798 quale Commissario civile, Daunou fa presente a De la Révellière Lépeaux che, nella Costituzione della Repubblica romana del 20 marzo, rispetto alla prima stesura ricevuta in Francia e su cui egli ha lavorato, sono state introdotte modifiche nominalistiche, richieste da esponenti romani. Sono costoro che, nell’Atto del popolo sovrano del 15 febbraio 1798, hanno utilizzato il termine prefetto per designare i responsabili di uffici destinati a gestire provvisoriamente la Repubblica appena istituita. Di fatto, anche nel testo della Costituzione del 20 marzo, il commissario del Direttorio cambia nome e diviene prefetto consolare. Se tale sequenza s’interpreta alla stregua delle considerazioni sinora esposte, sembra corretto attribuire all’elemento francese (e, quindi, in primis, a Daunou) l’ “invenzione” dei prefetti nazionali e consolari. In tal caso, si è trattato di un’elaborazione confortata da una visione istituzionale colta e al tempo stesso non scevra da autentica passione rivoluzionaria. © Wolters Kluwer 22 PIETRO ALBERTO LUCCHETTI E nondimeno graduale, poiché commisurata al tempo e al luogo di implementazione delle norme. Basti citare, in proposito, il percorso evolutivo che, in breve tempo, porta il commissario del Direttorio a divenire, in Svizzera, prefetto nazionale perché autorità locale di quel territorio. A Roma, prefetto consolare, in quanto, oltre a configurarsi come autorità locale (e quindi, appunto, a definirsi prefetto), inizia a connotarsi, come appare intravedersi dalla distinzione tra prefetto consolare e prefetto nazionale, quale istituto del potere esecutivo a connotazione amministrativa, man mano distante da attribuzioni di giustizia. E quindi significativo può considerarsi anche il contributo dell’elemento romano ed italiano. In fondo, nella Forma di Governo Repubblicano provvisorio per il Piemonte, testo costituzionale che si riferisce all’esperienza giacobina del 1796 ricordata all’inizio, compaiono, quali Autorità provinciali, un prefetto per gli affari civili e un prefetto per gli affari criminali: sono, però, cariche elettive, non riconducibili, quindi, al chiaro schema francese di rapporti Governo-commissario del Direttorio. Inoltre, come nell’Atto del popolo sovrano, il nomen prefetto viene sempre usato quale sinonimo di titolare di un ufficio. Tuttavia, nel complesso, l’esperienza nel nostro Paese, mediante il confronto con modelli empirici, oltre che con la rassegna della cultura dell’antico, ha caratterizzato decisivamente l’opera di Daunou se è vero che, per la stessa Francia, “la terminologia della Costituzione romana è un’anticipazione del futuro: consoli al posto di Direttori, Tribunato, Senato, prefetti. Dopo brumaio, Daunou dimostrerà di non aver dimenticato il suo rampollo romano”(26). (26) F. Furet e D. Richet, La Rivoluzione francese, Rizzoli, Milano, 2004, 488. Significativo, in proposito, risulta anche il riferimento a Georges Lefebvre che, in Napoleone Bonaparte (ristampa RCS, Milano, 2005, 47), afferma: “I repubblicani desideravano da molto tempo rafforzare l’autorità governativa, come dimostrano le costituzioni che diedero ai Paesi vassalli: senza parlare della Cisalpina, feudo di Bonaparte, i membri del Direttorio disponevano in Olanda della tesoreria; in Svizzera nominavano i funzionari; a Roma perfino i giudici; in queste due ultime repubbliche i dipartimenti avevano già un <prefetto>”. © Wolters Kluwer ANGELO GALLO CARRABBA TUTTO, MENO I TRE QUARTI DEL TUTTO. I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE Io dico, potessimo avere per un anno cinquantanove cittadini i più idonei d'Italia in fatto di governo e di pubblica amministrazione, per mettere alla testa di ogni provincia, che sono appunto cinquantanove, sarebbe sicuro allora il riordinamento d'Italia. Che sono cinquantanove migliori cittadini, e il loro sacrifizio per un anno? Perché dunque vuoi tu lasciare di dare opera ancora a questa nostra Patria? Bettino Ricasoli, primo ministro, a Giuseppe Pasolini, prefetto di Milano, 12 settembre 1861 Ora i prefetti hanno tutto, meno i tre quarti del tutto. Carlo Cadorna, in Senato, 28 febbraio 1866 SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. I prefetti e l’Unità d’Italia. – 2.1. Dalle barricate al palazzo. – 2.2. Fare l’Italia, fare gli italiani. – 2.3. Verso un’istruzione nazionale. – 2.4. “Restringere” l’Italia. – 3. La formazione di un’etica pubblica nazionale. – 3.1. Alla ricerca dei valori comuni. – 3.2. Carisma, prestigio, autorevolezza. – 3.3. Etica pubblica e spirito fondativo nazionale. – 3.4. L’età della prosa: verso un’etica della responsabilità. – 4. Paleontologia dell’amministrazione: storie di prefetti su sfondo tricolore. – 4.1. Luigi Torelli e la questione adriatica. – 4.2. Giovanni Minghelli Vaini e la libertà religiosa. – 4.3. Giorgio Tamajo e il lavoro minorile. – 4.4. Bernardino Bianchi e la prevenzione sanitaria. – 4.5. Andrea Calenda di Tavani e la dedizione sacrificale. – 5. Conclusioni. 1. Introduzione Parlare del ruolo dei funzionari pubblici nel processo di unificazione nazionale significa, inevitabilmente, parlare dei prefetti; non solo perché i pre- © Wolters Kluwer 24 ANGELO GALLO CARRABBA fetti, almeno per i primi decenni post-unitari, hanno costituito la figura centrale dell’amministrazione del nuovo Stato sul territorio, e neppure per quella loro dimostrata funzione di “burocrazia unificatrice” così mirabilmente descritta da tanta parte della storiografia sulla pubblica amministrazione italiana, da Romanelli a Sepe passando per Gustapane, Ragionieri o Melis. No, il motivo vero per cui oggi si dovrebbe riflettere sul ruolo dei prefetti nel processo di unificazione nazionale è probabilmente un altro, ed è legato alle loro biografie, alla loro idea di Patria, alla loro capacità di testimoniare e portare dentro lo Stato (cioè dentro l’esperienza quotidiana di impegno al servizio del bene pubblico) un vissuto individuale di storie, valori, sentimenti, convinzioni che allora contribuirono in modo significativo alla costruzione di un’etica pubblica alta e condivisa. In altre parole, è giunto forse il momento di scoprire come ed in che misura quella classe dirigente post-unitaria (formata certo da avvocati, aristocratici, borghesi, massoni, ma anche ex combattenti, ex cospiratori, patrioti, garibaldini) seppe partecipare alla definizione di quel “vissuto fondativo” da cui trasse esempio, linfa e slancio vitale lo sforzo morale di un’intera Nazione. E per vissuto fondativo nazionale si vuol qui intendere proprio la condivisione di un patrimonio di esperienze comuni, di emozioni individuali e collettive, di impegni solidali, di valori ed obiettivi trasversalmente assunti come obbligatori da un’intera popolazione al di là delle differenze di censo, cultura, origine geografica o convinzione politica; una condivisione profonda, in grado di dare senso e direzione alle ragioni dello stare insieme, di strutturare i legami civili e sociali della comunità di nuova fondazione, di dare concretezza ai concetti di Patria e di Nazione al di là della vuota ampollosità della retorica patriottarda. In ogni Stato di nuova fondazione, quel solido basamento di esperienze e di vissuti condivisi trova il suo cemento nella testimonianza dei protagonisti delle esperienze belliche, rivoluzionarie o costituenti che rappresentarono il momento di svolta o di cesura col passato. Il carisma dei padri della patria altro non è che la possibilità di parlare per conoscenza diretta di ciò che altri hanno appreso dai libri di storia; e di trarre da questa conoscenza diretta – talvolta traumatica e drammatica – il lievito di un’etica in grado di nobilitare e dare spessore all’agire politico di tutti i giorni. In un’epoca come la nostra, in cui la crisi dell’etica pubblica appare alla base della grave perdita di credibilità delle istituzioni e del calo di fiducia che esse accusano presso i cittadini, non può farsi a meno di riflettere come le stagioni di più felice e straordinaria rinascita nazionale, cioè i decenni iniziali del Regno d’Italia e della Repubblica, siano coincise con i momenti in cui maggiore è stata la presenza nelle istituzioni di testimoni o diretti protagonisti della rottura con il passato e della costruzione del nuovo Stato. L’esperienza risorgimentale in un caso, quella resistenziale nell’altro, ricor- © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 25 rono frequentemente nelle biografie delle nuove classi dirigenti che guidarono il Paese nei decenni di rinascita civile, sociale e democratica; e non deve sorprendere che anche prefetti dagli altisonanti cognomi nobiliari abbiano avuto al loro attivo esperienze dirette e di prima linea, chi sulle barricate delle Cinque giornate di Milano, chi combattente a Solferino o a Bezzecca, chi al fianco dei garibaldini nelle campagne di Sicilia o di Aspromonte. Scavare nelle biografie dei Prefetti del Regno, così come sempre più spesso si è fatto negli ultimi decenni, consente di mettere a fuoco questo aspetto significativo eppure allo stesso tempo misconosciuto: ovvero che quella “burocrazia unificatrice” aveva fatto l’Italia ben prima di sedere nei palazzi di governo, e l’aveva fatta conoscendo l’esilio, la prigionia, la rischiosa segretezza delle cospirazioni, la polvere dei campi di battaglia, il sangue degli amici di gioventù caduti nelle guerre d’indipendenza. Al pari della generazione costituente del secondo dopoguerra del Novecento, quella burocrazia, oggi tanto spesso derisa e sbeffeggiata, aveva ben presente il valore dell’Unità d’Italia perché sapeva esattamente, e per esperienza diretta, quale fosse stato il prezzo per realizzarla. Erano uomini che portarono dentro l’amministrazione del Regno d’Italia un amore genuino per il servizio pubblico, di cui coglievano appieno missione e valore; uomini che, seppure talvolta con errori ed inadeguatezze, operavano sempre sentendo sopra di sé l’incombente giudizio della Storia, che avrebbe deciso se il loro impegno fosse stato all’altezza dei sacrifici di chi aveva lottato per la Patria. Per scoprire questo pezzo della storia d’Italia non c’è bisogno di ricorrere alle biografie dei “grandi” prefetti post-unitari, i Serpieri, i Winspeare o i Cavasola; è sufficiente dedicarsi alle piccole traiettorie di prefetti qualunque, nomi sconosciuti ai più come Bernardino Bianchi, Carlo Bosi, Giovanni Minghelli, Giorgio Tamajo, Francesco Zironi(1), funzionari che interpretarono il loro servizio con dignità e misura, senza eccessi e senza protagonismi, nell’anonimato di una funzione vissuta come dovere piuttosto che come potere. I problemi che quei prefetti si trovarono ad affrontare, talvolta con povertà di mezzi e limitatezza di vedute, erano le grandi questioni che interrogavano l’Italia già all’indomani del 1861: l’unificazione morale ed economica del Paese, che avrebbero dovuto andare di pari passo con l’unificazione politica ed amministrativa; e quindi l’infrastrutturazione del Meridione, la leva obbligatoria, la repressione del brigantaggio, la lotta alla malaria ed alle malattie endemiche, le condizioni di lavoro nelle campagne e nelle miniere, e più in generale l’esigenza di sostenere un processo di sviluppo e di crescita (1) Le notizie biografiche relative ai prefetti citati in questa monografia sono riportate in appendice. © Wolters Kluwer 26 ANGELO GALLO CARRABBA del benessere collettivo che potesse dare sostanza e virtù agli sforzi per erigere la nuova comunità nazionale. Se il giudizio storico complessivo su quella fase della vita del Paese non può essere sbrigativamente liquidato in una sommaria elencazione di successi e fallimenti, di meriti e colpe, una cosa però la si può dire con serena certezza, e cioè che i prefetti seppero interpretare quel frangente con una tensione morale ed un senso di responsabilità adeguati alla delicatezza del passaggio epocale. Se si legge, ad esempio, questo passo del discorso rivolto da Giacinto Scelsi al Consiglio provinciale di Girgenti il 25 aprile 1861, appare evidente la lucida consapevolezza dei compiti che attendevano le classi dirigenti del nuovo Regno: «Nella condizione in cui ci troviamo, in una età, qual è la nostra, fervida di pensamenti, non che attrice di opere, destinati noi a vivere novella politica, ciascuno dovrebbe mostrarsi più cupido del fare che del dire (…) Una serie di atti eroici ha dischiuso anche a noi la ricca eredità dei popoli liberi. E’ nostro dovere di rendercene degni colla prudenza civile, coll’abnegazione, colla concordia e colla operosità, che moralizzano gli uomini e creano la felicità degli Stati. Naturalmente per giungere a così prosperi risultati converrà sostenere ulteriori sacrifizii. La perduranza in essi farà mano a mano sparire quegli inconvenienti che finora ci è toccato rimpiangere, e che nel passaggio da un antico ad un novello ordine di cose sogliono essere quasi inevitabili. Valichiamo dunque con animo coraggioso questo periodo di transizione, che sarà brevissimo se tutti, governanti e popolo, spogliandoci d’ogni privata passione, avremo la virtù di mirare ai supremi interessi della patria, a consolidare il novello ordine di cose». Allo stesso tempo, non può sfuggire il fatto che i prefetti del Regno seppero interpretare il loro ruolo con rigore e sobrietà(2). Essi diedero volto e voce all’amministrazione regia cercando di comunicare (ed il brano di prima ne è un esempio) un’immagine di serietà grave e pensosa, in cui l’entusiasmo e l’appagamento per il coronamento del sogno unitario avevano ben presto lasciato il posto all’assunzione di responsabilità rispetto alle mille sfide dell’unificazione sostanziale, e non solo formale, del Paese. I prefetti, è bene chiarirlo, non furono mai il volto sorridente dell’Italia unita; semmai cercarono di esserne il volto austero, autorevole, solenne, che (2) Valgano per tutte le parole che il prefetto Luigi Tegas rivolse ai sindaci ravennati all’atto di accomiatarsi da quella provincia il 21 gennaio 1863: «Io entrai nobilmente nell’arringo amministrativo, promettendo a me stesso di non mai venir meno alla mia fede politica ed a quei sentimenti di liberale patriottismo che furono il sogno dei miei giovani anni e ne saranno l’ultimo, di non tradire mai la coscienza, di non venire meno alle mie convinzioni, di rappresentare con decoro il Governo, d'instaurare il prestigio dell'autorità, di fare insomma sempre il mio dovere a qualunque costo e checché ne potesse avvenire. E colla mano sul cuore sento in questo istante, non già di non esser mai caduto in errore, ma di non avere a rimproverarmi né un’ingiustizia, né una parzialità, né una passione, e nemmeno il più piccolo rancore». © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 27 in ogni momento doveva rinnovare il messaggio della grandezza dell’obiettivo raggiunto e della necessità di moltiplicare gli impegni per completare l’opera. Si sentivano investiti del compito di rappresentare sul territorio l’unità della nazione, e per far questo dovevano trasmettere l’immagine di un’amministrazione coesa, solida, uniforme nei propositi come negli indirizzi; spettava a loro di alimentare certezze, speranze, fiducia nel futuro, ma allo stesso tempo anche di assecondare i processi locali di crescita orientandone realisticamente le aspettative verso il meglio possibile e non il meglio assoluto. Per riprendere una felice espressione di Guido Melis(3), trascorso il tempo dell’eroismo quei prefetti erano attesi dall’età della prosa: non gli si richiedeva più il coraggio e l’ardimento delle battaglie d’indipendenza, ma il buon senso e la saggia operosità del giorno dopo giorno. Con misura, concretezza e prudenza dovevano rimettere insieme le mille tessere del mosaicoItalia per farne nascere una nazione vera, e non solo idealizzata. 2. 2.1. I prefetti e l’Unità d’Italia Dalle barricate al palazzo Chi erano i Prefetti del Regno? Cercando risposta a questa domanda, saremmo forse portati istintivamente a pensare ad una categoria di vecchi burocrati in marsina, aristocratici e un po’ imbolsiti, adusi a vivere l’incarico nel chiuso delle polverose stanze di palazzo. Ci sorprenderà scoprire, invece, che il Regno d’Italia aveva scelto i propri rappresentanti fra i figli più generosi del Risorgimento; una generazione di combattenti ardimentosi dalle vite avventurose e movimentate, spesso segnate in gioventù dalla prigionia, dall’esilio o dalla guerra. L’elenco dei futuri prefetti che si distinsero nelle vicende patriottiche preunitarie sarebbe probabilmente troppo lungo e forse impossibile da fare; ma basterà qui darne un saggio per brevi cenni a sgomberare il campo dai pregiudizi e dai luoghi comuni. Se proprio si deve prendere una data d’inizio per questa rapida rassegna, non può che partirsi dal fatale 1848, un anno centrale nella storia d’Italia e molto spesso anche nella biografia personale delle classi dirigenti del Regno d’Italia. Il Quarantotto, quello rimasto nei modi di dire come sinonimo di tumultuoso rivolgimento, si può dire inizi a Palermo il 12 gennaio, compleanno (3) G. MELIS, La burocrazia. Da monsù Travet alle riforme Bassanini: vizi e virtù della burocrazia italiana, Bologna, il Mulino, 2000, 7 e segg. © Wolters Kluwer 28 ANGELO GALLO CARRABBA del re Ferdinando II di Borbone, e proprio per questo scelto beffardamente come giorno d’inizio del coraggioso tentativo d’insurrezione antiborbonica culminato nel governo siciliano provvisorio di Ruggero Settimo. Una rivoluzione indipendentista che si consuma in poco più di un anno, sedici mesi per l’esattezza, fino alla ripresa dell’isola da parte delle truppe borboniche nel maggio 1849. Non appena restaurato il Regno delle Due Sicilie, molti dei protagonisti di quell’esperienza saranno costretti all’esilio per sottrarsi alle condanne pendenti sul loro capo. In Egitto ripara Paolo Paternostro, autore del proclama della rivoluzione indipendentista, che poi sarà deputato, senatore, prefetto di Arezzo nel 1862 e di Bari fra il 1876 ed il 1878; fugge in Francia il giovanissimo Giacinto Scelsi, prototipo di prefetto risorgimentale che in trent’anni di carriera reggerà una quindicina di sedi diverse, e fra queste Bologna e Firenze, mentre a Genova trova riparo il nobiluomo palermitano Michele Amari di Sant’Adriano, che sarà poi prefetto di Modena, Livorno e Como; ma la maggior parte degli sconfitti trova scampo a Malta, dove, all’interno di una nutrita colonia di esuli italiani(4), troviamo ben quattro futuri prefetti: c’è Vincenzo Fardella, marchese di Torrearsa, poi esule a Torino, Nizza e Genova, che sarà prefetto di Firenze fra il 1861 ed il 1864; c’è Giorgio Tamajo, che a Malta sarà testimone delle controverse nozze fra Francesco Crispi e Rosalie Montmasson(5), ed a cui il futuro riserverà l’incarico di prefetto a Girgenti, Arezzo, Reggio Calabria e Siracusa, oltre che l’approdo prima alla Camera e poi al Senato; c’è Carmelo Agnetta, spirito ardente e fumantino, futuro garibaldino dell’avanguardia dei Mille e poi prefetto di Massa Carrara per ben dodici anni, che passerà alla storia per aver sfidato a duello Nino Bixio che aveva osato schiaffeggiarlo (nel duello, Bixio perderà l’uso di una mano); e c’è infine Antonino Plutino, che nel ’61 diventerà prefetto di Cremona, poi di Cuneo e di Catanzaro, fino a dimettersi nel 1862 al tempo dei fatti di Aspromonte per non dovere andar contro all’amato Garibaldi. Non tutti i cospiratori antiborbonici, peraltro, riescono a fuggire; alcuni periscono sotto i violenti bombardamenti su Messina, altri vengono impri(4) Fra gli altri politici o patrioti italiani che ripararono a Malta dopo il 1848-’49 ricordiamo anche Ruggero Settimo, Pasquale Calvi, Giuseppe La Masa e Nicola Fabrizi. (5) Nel 1878, quando Crispi sposò Lina Barbagallo, i suoi oppositori lo accusarono di bigamia pubblicando l’atto di matrimonio di Malta e sollevando così uno scandalo che costrinse l’allora ministro dell’Interno alle dimissioni. La difesa di Crispi, poi accolta dal Tribunale di Napoli, fu che quello di Malta era stato un simulacro di matrimonio privo di rilevanza giuridica, inscenato per sottrarsi alle insistenze della Montmasson. Tamajo, che era stato uno dei due testimoni delle nozze di Malta assieme all’orologiaio Luigi Depetri, testimoniò in favore del Crispi. Sull’episodio cfr. A. GALLO CARRABBA, Rosalie Montmasson, in Camicia Rossa, 2008, 4,; E. CICONTE – N. CICONTE, Il ministro e le sue mogli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 29 gionati. Fra questi ultimi troviamo Bartolomeo Amari Cusa, di Castelvetrano, che sarà prefetto di Cosenza, Bari, Rovigo e Forlì; in quegli stessi mesi del 1848, ma a Napoli, conosce le carceri borboniche anche l’abruzzese Emidio Mezzopreti Gomez, che sarà poi (1873-74) prefetto di Reggio Calabria e di Grosseto. Più a nord, dove il Quarantotto assume i caratteri della ribellione all’oppressione austriaca nel Lombardo-Veneto, la situazione non è diversa, tanto che sulle barricate delle Cinque Giornate di Milano troviamo almeno quattro futuri prefetti. C’è Luigi Torelli, valtellinese di Villa di Tirano, che per primo issa il vessillo tricolore sulle guglie del Duomo; nel corso della sua lunga carriera, sarà poi prefetto di Sondrio, Bergamo, Palermo, Pisa e Venezia, senatore, e per un breve periodo anche ministro dell’agricoltura. A lui si deve, fra l’altro, la fondazione della benemerita Società Solferino e S. Martino. Cugino di Torelli ed anche lui protagonista delle giornate milanesi è Enrico Guicciardi, che comanderà la guardia civica valtellinese nella difesa del Tonale; successivamente fuggito in Piemonte, si distingue nella battaglia di Novara, venendo decorato con medaglia al valore. Sarà poi deputato, senatore, presidente della Croce Rossa, e per qualche anno, fra il ’61 ed il ’68, anche prefetto a Cosenza, Mantova e Palermo. Attivo presso il governo provvisorio di Gabrio Casati, con l’incarico di segretario generale addetto al protocollo segreto, è il giovane Federico Bellazzi, allora ventitreenne, che di lì a qualche anno diventerà segretario di Garibaldi e poi prefetto di Belluno nel 1867; e più giovane ancora, anzi poco più che un ragazzino, è il lomellinese Bernardino Bianchi, classe 1832, “capopopolo dei ginnasi di Lombardia” secondo la definizione dello stesso Casati, che negli anni a venire sarà poi prefetto in varie province del centronord (morirà in servizio a Bologna nel 1892). Ma il 1848 è anche l’anno in cui ha inizio la prima guerra d’indipendenza, una vicenda che vede anch’essa coinvolti molti futuri esponenti di spicco dell’amministrazione del Regno d’Italia. Fra questi, il futuro capo della polizia Bartolomeo Casalis, arruolato nella Compagnia volontari di Costantino Nigra con cui combatterà a Peschiera e Rivoli, al quale i decenni seguenti riserveranno una lunga ed onorata carriera di prefetto nelle principali sedi del Regno (fra queste Torino e Genova); il piemontese Clemente Corte, decorato per il valore dimostrato nelle battaglie di Peschiera e di Novara, che fra il ’78 e l’ ’84 sarà prefetto prima di Palermo e poi di Firenze; il sannita Francesco De Feo, ferito a Curtatone dove combatte fra gli studenti universitari napoletani, che nel ’73 sarà nominato prefetto di Reggio Calabria per poi ricoprire analoghi incarichi a Chieti, Porto Maurizio e Forlì; lo squillacese Damiano Assanti, arruolato con le truppe napoletane di Guglielmo Pepe nelle quali combatte prima la campagna di Lombardia e poi la difesa di Venezia, e che sarà poi prefetto di Bari nel 1862-’63. © Wolters Kluwer 30 ANGELO GALLO CARRABBA Fra i volontari toscani si arruola il fiorentino Carlo Alberto Bosi, l’autore dei versi della canzone “Addio, mia bella addio” che si dice fece all’Austria più danni di cento battaglie, anche lui atteso da un futuro di prefetto a Girgenti, Porto Maurizio, Lecce, Aquila, Rovigo e Grosseto; mentre a Venezia, nella difesa della Repubblica di San Marco, si distingue il napoletano Enrico Cosenz, poi generale garibaldino al tempo dei Mille, deputato, per un breve periodo prefetto di Bari ed infine Capo di stato maggiore dell’Esercito. E che dire della Repubblica romana? Qui, di futuri prefetti, ne troviamo almeno quattro. Protagonista di primo piano del tentativo mazziniano è il ferrarese Carlo Mayr, che della Repubblica ricoprì anche l’incarico di ministro dell’Interno; nei decenni a venire lo troveremo prefetto a Caserta, Alessandria, Genova, Venezia e Napoli. Giacomo Medici, una delle quattro medaglie d’oro al valor militare conferite dalla Repubblica romana(6), accorre in difesa del governo repubblicano accanto a Garibaldi alla testa di trecento volontari, che vengono ancor oggi ricordati col nome di “legione Medici”: dopo aver partecipato alla seconda guerra d’indipendenza, all’impresa dei Mille ed alla terza guerra d’indipendenza, Medici, frattanto asceso al grado di generale, nel 1868 verrà nominato prefetto di Palermo per restarvi fino al ’73. Al fianco di Garibaldi, ma a Velletri, combatte pure il calabrese Biagio Miraglia, che anni dopo sarà prefetto di Pisa e di Bari; mentre presso la Costituente della Repubblica romana opera anche l’allora ventitreenne Angelo Lipari, processato e incarcerato dopo la restaurazione, che con l’unità d’Italia intraprenderà poi la carriera nell’amministrazione regia fino a diventare questore di Roma e poi prefetto di Belluno, Isernia e Teramo. 2.2. Fare l’Italia, fare gli italiani L’elenco potrebbe continuare a lungo e ripercorrere anche i successivi tornanti della vicenda risorgimentale del Paese per evidenziare quanta parte delle future classi dirigenti conobbe l’esperienza di prima linea; e si potrebbe così parlare dei prefetti che parteciparono alla campagna garibaldina in Sicilia, oppure di quelli che combatterono nelle grandi battaglie della seconda guerra d’indipendenza; ma sarebbe enumerazione stucchevole, o per dirla con Umberto Eco “vertigine della lista”. Qui non si vuole fare la “rubrica del telefono” dei prefetti patrioti, e neppure esaltare oltre misura l’eroismo di una categoria a scapito delle molte altre di cui pure si potrebbero citare campioni di altrettanto benemerito spes(6) Le altre andarono, come noto, a Giuseppe Garibaldi, Luciano Manara e Giacinto Bruzzesi. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 31 sore; si vuol solo introdurre, sulla base di riscontri storici e biografici concreti, un concetto tanto semplice da poter apparire banale, e cioè che le classi burocratiche del neonato Regno d’Italia non si erano formate nelle aule delle università o negli uffici dei ministeri, bensì nelle svolte più vivide e significative della costruzione unitaria, che attraversarono con pienezza di esperienze e di consapevolezza. Fra il loro vissuto e quello della popolazione attiva non c’era scollamento; erano uomini che non erano rimasti lontani o estranei ai drammi delle famiglie dei caduti di Solferino o di Calatafimi, o degli esuli di Malta e di Marsiglia; conoscevano i problemi degli artigiani, dei negozianti e dei panettieri per avervi combattuto al fianco; e avevano studiato la geografia dal vero, negli spostamenti verso il fronte, nei ripiegamenti di posizione o nelle lunghe marce di trasferimento. Lo storico inglese Denis Mack Smith ha sostenuto(7) che il Risorgimento italiano non fu fatto di popolo, bensì una guerra civile fra le vecchie e le nuove classi dirigenti; ma se anche non si accedesse alla sua tesi, e si volesse piuttosto abbracciare una lettura più ampia e generosa di quella stagione, non v’è dubbio che rimarrebbe incontestabile il dato di fondo di un forte coinvolgimento diretto delle élites emergenti del Paese nell’impegno bellico, rivoluzionario e politico che portò all’Unità d’Italia. I prefetti del Regno avevano fatto il Quarantotto. Essi, cioè, portavano all’interno della neonata amministrazione unitaria tutta la passione e l’idealità di un’impresa, quella di “fare l’Italia”, che si era riusciti a concretizzare nonostante le enormi difficoltà politiche, militari e socio-economiche che l’avevano avversata. Con lo stesso coraggio e lo stesso slancio ideale, si accingevano ora a tentare un’impresa non meno difficile ed impegnativa, che era quella – per usare la celebre espressione del D’Azeglio – di “fare gli italiani”, cioè di costruire sentimenti di appartenenza nazionale ed elementi di coesione sociale fra comunità e popolazioni lontanissime fra loro in quanto a condizioni di sviluppo e cultura di cittadinanza. Se ed in che misura questo tentativo abbia avuto successo, è argomento molto controverso su cui si sono versati fiumi d’inchiostro. Schematizzando al massimo, si potrebbe dire che la critica ai prefetti del Regno, e più in generale a tutta l’amministrazione post-unitaria, tende solitamente ad enfatizzare gli argomenti relativi ai loro più macroscopici insuccessi, a cominciare dalla questione meridionale e dalla gestione brutale e poco avveduta di alcuni episodi della lotta al brigantaggio; viceversa, la storiografia più favorevole al loro ruolo non manca di evidenziare come quell’amministrazione nacque praticamente dal nulla, e pur partendo dal nulla riuscì comunque a guidare efficacemente un percorso di omogeneizzazione e crescita nazionale che conobbe risultati insperati sul piano del consolidamento degli apparati politici (7) Cfr. D. MACK SMITH, Storia d’Italia dal 1861 al 1997, Bari, Laterza, 1997, 49. © Wolters Kluwer 32 ANGELO GALLO CARRABBA ed amministrativi nelle province, dell’infrastrutturazione del territorio, dell’alfabetizzazione della popolazione, del miglioramento delle condizioni economiche e sanitarie di vita nelle campagne e nelle periferie. Il rischio, come spesso accade, è quello di cadere nell’errore di rileggere le vicende di ieri con gli occhiali di oggi; di ritenere che le priorità di allora fossero quelle che tali ci appaiono col senno di poi, in base agli sviluppi storici successivi; e quindi, ad esempio, di focalizzare troppo l’attenzione sui “grandi temi” (e relativi successi o fallimenti), dimenticando che l’opera di “fare gli italiani” passava anche attraverso la minuta quotidianità di tutti i giorni ed attraverso conquiste piccole e grandi che non furono affatto scontate o automatiche come oggi potremmo credere. Si pensi, ad esempio, ad un aspetto fondamentale come l’unificazione linguistica del Paese, un processo nel quale anche i prefetti ebbero una qualche parte(8), se non altro perché l’italiano fu la lingua ufficiale della burocrazia e, quindi, anche degli atti e documenti con i quali quella burocrazia si rapportava alla cittadinanza. Ancora di recente, Nicoletta Maraschio, presidente dell’Accademia della Crusca, ha ricordato come nel 1861 appena il 10% della popolazione del nuovo Regno fosse italofona, mentre la restante parte si esprimeva abitualmente in dialetto(9) (e, si potrebbe aggiungere, una porzione non trascurabile delle élites dirigenti sabaude usava prevalentemente il francese). Quanto questa circostanza potesse essere di ostacolo al “fare gli italiani”, è di intuitiva evidenza; ed altrettanto evidente è come, in questa prospettiva, la spinta all’istruzione scolastica(10) assumesse una valenza strategica ancor più grave ed urgente di quanto non potesse abitualmente essere in ogni civiltà. (8) Tullio De Mauro ha sostenuto che l’esercito e la burocrazia furono sì fattori riconosciuti di unificazione linguistica dopo l' Unità, ma «la loro azione non è stata intenzionalmente volta a tale fine. [...] La creazione di un corpo di burocrati ha avuto effetti linguistici anzitutto sui burocrati stessi, che dai trasferimenti sono stati costretti ad abbandonare spesso, almeno in pubblico, il dialetto d’origine e ad usare e diffondere un tipo linguistico unitario». Gli altri principali fattori di unificazione linguistica, secondo De Mauro, furono l’azione della stampa periodica e quotidiana, gli effetti di fenomeni demografici come l’emigrazione, l’aggregazione attorno a poli urbani che implicò il progressivo abbandono dei dialetti rurali. Cfr. T. DE MAURO, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1963. (9) Si veda l’intervista dal titolo “La lingua di tutti” pubblicata su Anci Rivista, 2010, 8/9, 3839. (10) I dati del primo censimento generale della popolazione, svoltosi il 31 dicembre 1861, furono impietosi nell’evidenziare l’enorme divario di alfabetizzazione esistente fra le varie province del Regno. In una relazione dell’aprile 1866, il ministro dell’Istruzione, Domenico Berti, evidenziò come, in base ai dati ufficiali del censimento, se a Torino sapeva leggere il 51.1% della popolazione ed a Milano il 43.2%, a Girgenti la percentuale scendeva allo 0.72%; né le cose andavano diversamente fra i maschi in età di leva, dal momento che la percentuale di coscritti alfabetizzati variava dal 71.1% di Cuneo allo 0.76% di Trapani. Berti osservava anche che in 38 province su 59 il numero delle persone che sapevano leggere non superava il © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 2.3. 33 Verso un’istruzione nazionale Un’urgenza strategica che, del resto, risultava ben presente nelle priorità dei primi prefetti. E se nel 1861 Cesare Bardesono, incaricato di reggere il Governatorato della Capitanata, da Foggia scriveva all’amico Giuseppe Massari(11) che “la massa non legge, né sa che vi sia una Camera dei deputati, nella quale si fanno discorsi”, è interessante notare come in quasi tutte le relazioni sullo “stato della provincia” redatte dai prefetti dell’Unità vi fosse uno specifico passaggio dedicato alle condizioni dell’istruzione pubblica; una breve rassegna di quei discorsi mostra quanta attenzione venisse riservata al tema, sia pure in forme ancora molto retoriche e paternaliste. Ad esempio, Enrico Falconcini così si rivolgeva al Consiglio provinciale di Girgenti il 6 ottobre 1862: «La pubblica istruzione, che ben giustamente vien detta il cibo dell’animo, è fra noi il precipuo bisogno del popolo. Addestrate l'ingegno agli studj, e l’amore dei nobili pensamenti nascerà per incanto nei cittadini, la buona fede tutelerà i commerci, l’intelligenza guiderà il lavoro, ed ingentilendo i costumi produrrà diminuzione nei reati, che per la loro atrocità tanto ci contristano. (…) E qui, signori, mi rivolgo alla personale influenza di tutti voi perchè vogliate dare valido impulso all’insegnamento elementare il quale è la base d’ogni istruzione e che incontra in molti comuni della provincia la più invincibile delle opposizioni, quella dell’inerzia di chi dovrebbe promuoverla. Dite ne’ vostri comuni, che ciechi sono coloro i quali credono dominare le masse tenendole immerse nell’ignoranza; dite loro che con la libertà è terribil cosa lo stupido abbrutimento delle popolazioni, mentre la giusta coltura insegna alle classi povere il buono ed utile uso della libertà; dite loro che il progresso civile non si arresta più per la malevolenza di pochi, i quali non sapendo vivere la vita del loro secolo saranno artifici non compianti del proprio danno». Accenti simili ritroviamo nel discorso tenuto nel 1861 davanti al Consiglio provinciale di Modena da Michele Amari di Sant’Adriano, che così perorava l’istruzione elementare del popolo, e soprattutto delle donne: «Non che io vada sofisticando (e ciò ben si raccolga) una schiera o un collegio di dottoresse che disputino di divinità come ai tempi andati, né di sapienti da dettar lezioni dalla cattedra. Io solamente fo voti che tutte sappiano appropriarsi dalla scienza quanto lor sia al vivere civile utile e necessario a scansare insidie e pericoli. Altro non si spera sennonché da queste donne s’impari la pura e santa religione de’ nostri padri, scevra dalla menzogna e dalla ipocrisia; che da loro si conosca ciò che è amare la patria, acciò possano inse20% della popolazione. Cfr. “Relazione del Ministro dell’istruzione pubblica a S. M. in udienza del 22 aprile 1866, per incoraggiamenti all’istituzione delle scuole per gli adulti”, in Bollettino della R. Prefettura di Milano, I, Milano, Tipografia di Pietro Agnelli, 1866, 177seguenti. (11) Riportato in D. D’URSO, Prefetti di altri tempi, Alessandria, Wr edizioni, 1990, 10. © Wolters Kluwer 34 ANGELO GALLO CARRABBA gnare ai loro figliuoli che chi non è onesto e virtuoso non può essere un vero e buono difensore dell'Italia nostra: e più con l’esempio che con i precetti insegnino che la sola virtù fa l’uomo contento, e l’ignoranza accrescendo ed alimentando il vizio, lo rende infelice. Queste cose io desidero sappiano le donne. Esse così formeranno i costumi degli uomini». Il legame fra istruzione e Patria, o meglio il concetto che solo una solida formazione culturale potesse valere a completare e rafforzare il progetto di costruzione dello Stato unitario fin lì condotto con le armi e la politica, era del resto ricorrente in molte esternazioni pubbliche dei prefetti della prima generazione. La scuola veniva considerata un motore di progresso e di civilizzazione collettiva, ma anche uno strumento per diffondere e consolidare l’identità nazionale ed il senso di attaccamento alla nuova casa comune. Si veda, ad esempio, questo passaggio di un discorso pronunciato nel settembre 1863 dal prefetto di Napoli, Rodolfo D’Afflitto, in occasione dell’inaugurazione del congresso dell’Associazione medica: «Se le arti della guerra son necessarie (alla Patria, n.d.A.) a difenderle quel che ha già conseguito, a conquistarle quel che ancora le manca, le arti della pace ci son necessarie a conservarle quella grandezza che mai non le è mancata, che neppure ne’ giorni della più trista oppressione le è venuta meno, la grandezza morale che viene dalla coltura dell’ingegno, dalla civiltà, dal sapere, che non solo ha avuto come suo retaggio dai fati, ma che ha saputo ancora comunicare agli altri, i quali largamente e spesso non senza ingratitudine ne han profittato. D' altra parte né una rivoluzione è intera se non infiamma il pensiero e non agita gli animi come rinnova le istituzioni; né una nazione è grande se le manca la luce del sapere, né decade né risorge se non perché il suo pensiero è decaduto o risorto». Altri prefetti preferivano alla suggestione della retorica la concretezza delle cifre. Così, se nel 1867 Giuseppe Campi (uno dei primi prefetti col pallino delle statistiche) si avventurava a fare paragoni fra il rapporto scolari/abitanti della provincia di Bari e quello dello stato americano del Minnesota(12), i suoi colleghi di altre circoscrizioni snocciolavano numeri e dati, lasciando che fossero quelli ad esprimere il senso degli sforzi e dei progressi in atto, ed anche la misura del lavoro ancora da fare. «L'istruzione elementare lascia molto a desiderare. Mancano della scuola maschile 17 comuni, e della femminile 243. Dalla prefettura si classificano i comuni a norma della legge Casati (art. 338 e seguenti); i comuni che hanno meno di 1000 e più di 500 abitanti saranno autorizzati ad aprire 7 asili d'infanzia, se non possono fondare scuole elementari regolari. Fu dal Governo concesso un sussidio di L. 8,000 esprimendo la volontà che esso vada erogato pel primo stabilimento delle scuole. (12) In Rivista Contemporanea Nazionale Italiana, 1867, XLVIII, 281-seguenti. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 35 L'insegnamento liceale, ginnasiale e tecnico procede egregiamente. Il Consiglio delibererà sopra una petizione diretta al Prefetto chiedente la fondazione in Como d'una sezione commerciale e fisico-matematica, di un istituto tecnico. Più di 600 individui la maggior parte al di sopra del 16° anno frequentarono le scuole serali per gli operai con grande profitto. La spesa a tal uopo fu di L. 3,600 raccolte fra varie società e privati, con un sussidio del Ministero. Altre scuole serali furono aperte in Lecco, Olginate e Cariate per iniziativa privata» (dal discorso d’apertura del prefetto Lorenzo Valerio al Consiglio provinciale di Como, 1863). «E’ in via d’aumento il numero dei giovani ai quali viene impartita l’istruzione secondaria, tanto che al liceo ginnasiale di Maddaloni concorsero ben 389 giovani per l’esame di licenza liceale. Havvi poi una scuola magistrale femminile in Caserta frequentata da circa 100 allieve. Merita particolar menzione l’apertura in quasi tutti i Comuni di scuole serali, alle quali sono inscritti buon numero di coloni ed operai adulti» (dalla relazione al Consiglio provinciale di Terra di Lavoro del prefetto Carlo Mayr sulle condizioni economiche e morali della provincia, 1864. «L’istruzione secondaria lascia poco a desiderare; ben 953 alunni la frequentano. Quella magistrale fu impartita a 33 allievi nella scuola normale di Reggio. È certo che avremo fatto molto per l’istruzione quando si favoriscano in ogni modo questi istituti e le scuole tecniche e professionali, destinate a fornire alla nazione buoni agricoltori, buoni industriali e nello stesso tempo integri e liberi cittadini. Nell'istruzione primaria e in quella professionale sta tutto il nostro avvenire economico. L'uomo tanto può quanto sa e vuole» (dalla relazione del prefetto Eugenio Fasciotti in occasione dell’apertura della sessione ordinaria 1866 del Consiglio provinciale di Reggio nell’Emilia). Resta da chiedersi se quello sforzo d’impulso e d’indirizzo, esercitato ora con sprone retorico ora con contabile concretezza, risultò adeguato alle necessità del momento, specie nel Meridione; e la risposta non può prescindere da una serena considerazione delle particolarità di quella transizione, nel campo dell’istruzione così come in altri. Costretta a confrontarsi con oggettive difficoltà, ma anche con smodate impazienze, la nascente amministrazione unitaria non esitò a fare largo esercizio di realistico buon senso, anche a costo di raffreddare gli entusiasmi e di scontentare gli idealismi più radicali ed esigenti. Esemplari per lucidità e schiettezza appaiono, in tal senso, le parole che un politico prudente ed avveduto come Costantino Nigra usò nel maggio 1861 nel rapporto(13) presentato al governo al ritorno dall’incarico a Napoli come Segretario generale di (13) In C. CAVOUR, Epistolario. Vol. XVIII (1861), a cura di R. ROCCIA, Firenze, Leo Olschki Editore, 2008, 1215-1216. © Wolters Kluwer 36 ANGELO GALLO CARRABBA Stato della Luogotenenza: «Si è gridato e si grida continuamente che si migliori, si semplifichi, si moralizzi l'’amministrazione, si caccino gl’impiegati borbonici, si mettano al loro posto le vittime del passato dispotismo; si dia pane e lavoro al popolo, si facciano strade ferrate, si fondino scuole, asili e licei, si crei l’industria e il commercio, si reprimano le ostilità clericali e borboniche, si organizzino i municipii, si diano armi alla Guardia Nazionale, si mandino truppe e gendarmi nelle provincie, si compensino i martiri e i danni sofferti. Da altri si grida: Si cammini speditamente nell’unificazione, si distrugga ogni vestigio di autonomia, passi al governo centrale l’intiera responsabilità e l’azione dell'amministrazione locale. Infine si dice da altri: Si rispetti lo spirito autonomico del paese, si rispettino le istituzioni e le tradizioni locali, si rispetti quanto vi è di buono nella legislazione locale, si trattino con moderazione il clero e i partiti anche avversi, non si mettano sulla strada i numerosi impiegati antichi sì civili che militari, si chiamino alla direzione della cosa pubblica meno uomini politici che esperti amministratori, benché per avventura abbiano servito il cessato governo. Alcuni di questi consigli si escludono a vicenda, altri non si possono attuare immediatamente, altri non si possono seguire senza i temperamenti che la pratica delle cose dello Stato indica indispensabili. Non s’improvvisa in pochi mesi un sistema di strade ferrate, non si creano scuole senza maestri, e nemmeno questi s’improvvisano: le industrie e i commerci non si fondano che colla fiducia, coll’azione lenta delle libere istituzioni, collo spirito di associazione e della iniziativa privata; non si muta in un istante un popolo soggetto da tempo lunghissimo alla servitù e all’ignoranza in un popolo colto e civile: l’opinione pubblica non si crea che coll’esercizio della libertà, non si cancellano ad un tratto le vestigia profonde d’una secolare oppressione; non si possono mandar truppe in un numero maggiore di quelle che si hanno; né in pochi mesi si può centuplicare il numero dei carabinieri la cui istituzione esige tempo e disciplina». La politica come arte del possibile: in quella stretta via, tutto il futuro cammino dell’amministrazione unitaria. 2.4. “Restringere” l’Italia Accanto al problema dell’unificazione linguistica del Paese, un altro aspetto caratteristico dell’Italia del 1861 che si tende talvolta a sottovalutare è quello delle distanze, allora amplificate a dismisura dalla limitatezza delle infrastrutture e dall’inaccessibilità dei territori. E non si parla qui solo delle distanze fra la capitale e gli altri capoluoghi del Regno (da Torino potevano occorrere sette ore solo per arrivare a Milano, non meno di otto-nove per Bologna con il treno diretto notturno, considerato il più veloce dell’epoca; e i © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 37 tempi di viaggio per Napoli non scendevano mai sotto le trenta-trentasei ore), ma soprattutto di distanze all’interno delle stesse province, principalmente fra le città capoluogo, dove avevano sede le prefetture, e i piccoli centri dell’entroterra, spesso ubicati in località impervie e mal collegate. “Tutti sanno – ricordava Francesco Correale di Terranova(14) in un dibattito in Senato del febbraio 1866 – che molte di quelle provincie (meridionali e siciliane, n.d.A.) sono in tal condizione che il trasportarsi dal circondario al capoluogo della provincia, non solo è difficile, ma è pericoloso. Per esempio la nostra Basilicata è in tali condizioni che non ci sono punto strade, e il camminare per quei luoghi è immensamente periglioso; si devono traversare fiumi senza ponti, si devono salire monti dove sono appena traccie naturali…” Le distanze di quell’Italia erano ancora troppo grandi perché i territori di provincia si prestassero ad essere facilmente governati: la qualità ed estensione delle vie di collegamento, i tempi di viaggio, la lentezza delle comunicazioni postali e dei commerci accrescevano il senso di lontananza fra il centro e la periferia e fra gli stessi capoluoghi e le rispettive province, come se quell’Italia nascesse troppo lunga e larga per le capacità amministrative del nuovo Regno. Restringere l’Italia: questo era il compito che si parava di fronte ai governi e, per loro conto, ai prefetti dell’unificazione. Restringere l’Italia, cioè rimpicciolirla, far sì che la si avvertisse meno vasta e dispersiva, meno inaccessibile nei suoi angoli più nascosti e sperduti, più facilmente controllabile e raggiungibile; e quindi presidiare il territorio, accorciare le distanze, abbreviare i tempi di viaggio, costruire strade, telegrafi e ferrovie, avvicinare gli italiani, tutti gli italiani, quelli di città e quelli di campagna, quelli di mare e quelli di montagna. Del compito, i prefetti del tempo si sentivano perfettamente investiti e consapevoli: i loro discorsi, le loro relazioni abbondavano di riferimenti allo stato delle opere pubbliche, al completamento della rete stradale e ferroviaria, al tanto che rimaneva ancora da fare per l’integrazione ed interconnessione dei sistemi di trasporto marittimi, rotabili e ferrati. Così, ad esempio, il 5 settembre 1864 il prefetto Francesco Elia relazionava il Consiglio provinciale di Cuneo sui lavori di completamento della strada nazionale che, da Demonte e Vinadio risalendo la valle di Stura, avrebbe condotto in Francia attraverso il valico del Colle della Maddalena, “vistosa opera che per incontestata importanza politica, commerciale e fi- (14) Francesco Maria Correale (Napoli 1801 -1884), conte di Terranova, fu senatore del Regno dal 1861 al 1875, quando rassegnò le dimissioni in obbedienza al “non expedit” di Pio IX. Correale motivò la rinuncia all’incarico “per ragion di coscienza, (…) essendo la discordia fra lo Stato e la Chiesa trascorsa ad aperta guerra”. © Wolters Kluwer 38 ANGELO GALLO CARRABBA nanziaria primeggia ogni altro lavoro che si stia eseguendo per conto dello Stato”, mentre il 4 settembre 1865 Domenico Elena poteva annunciare al Consiglio provinciale di Cagliari che la ferrovia di 130 km. fra il capoluogo ed Oristano avrebbe potuto “in breve essere aperta al pubblico servizio, agevolando i cambi ed il commercio dell’Isola”; ed a Bari, nel 1866, Giuseppe Campi si compiaceva di osservare che in provincia esistevano “ben 717 kilometri di strade rotabili; questo è di per sé stesso un sicuro argomento della ricchezza del territorio e dell'attività degli abitanti e delle amministrazioni”, incitando peraltro i Comuni a costruire da soli o in consorzio le strade secondarie che avrebbero dovuto collegarsi alle arterie principali. Ma quel compito di “restringere” il Paese a quale categoria apparteneva, al fare l’Italia o al fare gli italiani? Sicuramente a tutt’e due. Migliorare la qualità delle comunicazioni e dei collegamenti serviva senza dubbio a tenere unito il Paese, prevenendo – soprattutto nell’ex Regno delle Due Sicilie – possibili spinte centrifughe o secessioniste; ma serviva anche a favorire l’omogeneizzazione economica e culturale del Paese, ad incentivare gli scambi ed i commerci fra i territori, ad accrescere la mobilità delle persone e, con essa, la mescolanza di saperi, tradizioni, esperienze che dovevano alimentare un patrimonio comune di nozioni e sentimenti identitari. Suscitatori di energie, secondo la felice definizione di Alberto Aquarone(15), i prefetti affrontavano quella priorità operando su più livelli, com’era nella loro natura: terminali operativi dello Stato centralista ma anche interpreti delle istanze e delle aspettative del territorio, si collocavano al punto di snodo fra centro e periferia facendo leva sulle proprie competenze dirette ed indirette. Essi, cioè, agivano sia con provvedimenti di natura prettamente amministrativa (l’ordinamento del tempo riconosceva ai prefetti specifiche competenze in materia di espropriazioni e lavori pubblici), sia con un’attività di impulso e sensibilizzazione, attraverso l’esercizio discreto, ma non per questo facilmente resistibile, di quella che oggi definiremmo una moral suasion, un’attività di pressione informale in grado di trarre forza dal prestigio e dall’autorevolezza dell’organo da cui promana. Una forza che, nel caso dei prefetti dell’epoca, discendeva non solo da un elemento oggettivo (il fatto stesso di ricoprire una carica che era simbolo di unità nazionale sul territorio), ma anche dall’attitudine soggettiva di quei funzionari a rendersi degni di ascolto e di seguito. (15) A. AQUARONE, Alla ricerca dell’Italia liberale, Napoli, Guida ed., 1972, 162. Sul punto si veda anche R. ROMANELLI, Centro e periferia: L'Italia unita, in AA. VV., Il rapporto centro periferia negli stati preunitari e nell'Italia unificata. Atti del convegno, Roma, ISRI, 2000, 229-seguenti. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 3. 3.1. 39 La formazione di un’etica pubblica nazionale Alla ricerca dei valori comuni Nelle pagine precedenti ci si è soffermati ancora su aspetti specifici dell’azione unificatrice dei Prefetti del Regno, relativi a politiche, materie, settori d’intervento nei quali l’impatto concreto della loro azione si presta ad un bilancio storico attraverso indicatori di risultato misurabili ed oggettivi: ad esempio la costruzione di nuove strade e scuole, la riduzione del tasso di analfabetismo, l’aumento della popolazione italofona, ecc. Ma c’è un tema, non meno rilevante e decisivo ai fini dell’unificazione sostanziale del Paese, nel quale il peso dei prefetti fu enorme, e che tuttavia non è facile descrivere in termini altrettanto esatti, palpabili e certi. Ci riferiamo alla formazione di un’etica pubblica nazionale, cioè un ancoraggio di regole e valori condivisi in tutto il Paese, in grado di dare uniformità morale all’esercizio di pubbliche funzioni nel nome di principi di onore, decoro, fedeltà allo Stato, attaccamento al pubblico bene come tali universalmente accettati ed avvertiti come vincolanti. Agli inizi del Regno d’Italia, il fresco mosaico di ordinamenti e culture preunitarie non facilitava la mappatura di un patrimonio comune di valori pre-giuridici e pre-politici sui quali potesse convergere una vasta identità di sentimenti. C’era l’idea forte risorgimentale dell’Italia-nazione, “una dalle Alpi alla Sicilia”, entità geografica e nazionale preesistente alla sua unificazione politica; c’era il riconoscimento del ruolo del Re e della monarchia; e poco altro. La stessa formula del giuramento di fedeltà degli impiegati si presentava estremamente scarna e generica: “Io … giuro di essere fedele a Sua Sacra Reale Maestà, ai suoi Reali successori, di osservare lealmente lo Statuto e le Leggi dello Stato, e di esercitare le mie funzioni di … col solo scopo del Bene inseparabile del Re e della Patria”. Al di fuori di questo nucleo minimale di fondamenti, sarebbe stato difficile trovare regole e valori di universale condivisione: un po’ per la frammentarietà ed incoerenza degli ordinamenti previgenti non ancora ricondotti ad unità, un po’ per il diffuso anticlericalismo che impediva di riconoscere spessore etico-politico ai precetti della tradizione cristiana, molto di più per le enormi differenze economiche, sociali e culturali che contraddistinguevano le popolazioni riunificate. Persino su valori come onore e patria sarebbe stato difficile trovare accordo da Nord a Sud: basti pensare che fra i contadini siciliani erano diffusi due modi di dire (“Meglio porco che soldato” e “Scappare non è vergogna ma salvamento di vita”) che ben difficilmente sarebbero risultati accettabili foss’anche al più tiepido e disincantato dei piemontesi. In quella situazione, costruire un sistema di regole e valori significava non tanto scrivere nuove leggi (sebbene l’intervento di unificazione ammini- © Wolters Kluwer 40 ANGELO GALLO CARRABBA strativa condotto con la legge Ricasoli del 1865 ebbe indubbiamente la sua importanza), ma soprattutto contribuire, con l’autorevolezza degli esempi e delle condotte quotidiane, alla nascita ed al consolidamento di una vera “coscienza” nazionale che, rispetto all’ordinamento legislativo positivo, si ponesse allo stesso tempo come presupposto e completamento; un insieme, quindi, di consuetudini, prassi, regole non scritte, precetti morali che, trovando il loro senso unificante nell’orgoglio e nella necessità di sentirsi tutti parte dello stesso popolo, finisse col dare radice e forza al sistema delle leggi formali e col sopperire alle sue eventuali carenze o manchevolezze. Questo compito di guida morale, beninteso, non spettava ai soli prefetti, bensì all’intera classe dirigente nel nuovo Regno, ivi inclusa quella politica; ma certo i prefetti ed i sottoprefetti, che di quella classe dirigente rappresentavano la parte più visibile e capillarmente diffusa sul territorio, ne furono pienamente investiti. E che questa fosse una delle partite cruciali da vincere era chiaro anche al dibattito di quegli anni; non solo al dibattito politico e parlamentare (si veda per esempio l’ampia discussione che nel 1866 accompagnò il progetto Chiaves(16) di abolizione delle sottoprefetture), ma anche a quello culturale che si svolgeva sulle riviste o nei circoli giuridici. Significative, in tal senso, furono le reazioni ad un volume pubblicato nel 1868 dal non ancora prefetto Domenico Bardari(17), allora funzionario a Siracusa, che dedicava uno specifico capitolo al profilo dell’autorità governativa in provincia auspicando che in essa si potessero abbinare “potenza legale” (cioè la concentrazione della competenza su tutte le sfere del diritto pubblico) e “potenza morale”, ovvero la capacità “di dirigere l'opinione, di rendere efficace la sua voce e farle esercitare un imperio sulle passioni più col prestigio morale che colla severità della legge”. Tesi, quelle di Bardari, che furono accolte ed amplificate (16) Il progetto di legge del ministro dell’Interno Desiderato Chiaves, ispirato a fini di semplificazione dell’apparato periferico amministrativo e di contenimento dei relativi costi di mantenimento, prevedeva la soppressione delle sottoprefetture ed anche di alcune questure, fatta salva la possibilità per il governo di inviare dei propri commissari in quei circondari (in numero massimo di trenta) particolarmente disagiati o mal collegati con il capoluogo di provincia. Nel corso della discussione parlamentare, tuttavia, si registrarono numerose proposte (su tutte quella del senatore Carlo Cadorna) che miravano ad approfittare del provvedimento per ridefinire e rafforzare ulteriormente il ruolo delle prefetture quale unico centro di autorità amministrativa in provincia. Il progetto Chiaves fu approvato a larga maggioranza in Senato, ma decadde poi alla Camera. (17) D. BARDARI, Sulle riforme amministrative in Italia, Siracusa, tip. Norcia, 1868. Nel capitolo dedicato al Prefetto, il Bardari aggiungeva una pittoresca considerazione sulle modalità di reclutamento dell’alta dirigenza del Regno, dicendosi convinto che si potessero “trovare uomini adatti nella stessa carriera amministrativa, malgrado la crisi che essa attraversa: a molti, che se mancano della galanteria del Jockey-club, hanno però tanta larghezza d'idee e tanta energia di volontà che nelle occasioni più difficoltose possono ben farsi perdonare il manco di bon-ton appreso nei casini aristocratici”. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 41 con entusiasmo sulla prestigiosa Rivista amministrativa del Regno, dove il giurista torinese Agostino Aliberti così commentò: “Il tempo, checché se ne dica, ha molta parte nella legislazione; col tempo si creano i costumi, i quali valgono cento volte la legge scritta, e la sapienza romana lo ha detto: Quid leges sine moribus?” Per inciso, il libro di Bardari, al fine di accrescere la “potenza morale” dei prefetti, lanciava anche la proposta di prevedere una specie di automatismo per la loro nomina a senatori, quasi che il laticlavio potesse da solo garantirne maggiore prestigio ed autorevolezza. Ma a tal proposito è da osservare che, nella prassi dei primi anni del Regno, il confine fra politica ed amministrazione era assai labile, per non dire inesistente, e frequente era il passaggio da ruoli politici ad incarichi amministrativi e viceversa (si pensi a personalità come Filippo Gualterio, Luigi Torelli, Carlo Cadorna, Giuseppe Pasolini, Antonio Rudinì, il cui cursus honorum presenta sorprendenti alternanze fra incarichi di ministro e di prefetto). Nel caso del Senato, poi, era lo stesso Statuto albertino che, nell’elencare le categorie dei soggetti da cui il Re poteva attingere per la nomina dei nuovi senatori, alla diciassettesima indicava “gli intendenti generali dopo sette anni di esercizio”, sicché il laticlavio vitalizio costituì effettivamente il naturale sbocco della carriera di molti funzionari (tanto per limitarsi solo ai nomi più noti, Bardesono, Calenda, Cantelli, Casalis, Gadda, Mayr, Pes di Villamarina, Scelsi, Tamajo, e più tardi Alfazio, Caravaggio, Cavasola, Sensales e molti altri). 3.2. Carisma, prestigio, autorevolezza Se la dignità senatoriale abbia accresciuto l’autorevolezza dei prefetti, facilitandone l’opera, non è argomento che possa essere approfondito in questa sede; di certo, il loro carisma si giovò grandemente di altri meriti e altre qualità. Erano visti, innanzitutto, come testimoni diretti del miracolo risorgimentale e portatori di un vissuto ardimentoso ed eroico. Era un biglietto di visita importante, che incuteva stima e rispetto; ed i prefetti dell’unificazione generalmente non lo nascondevano, anzi, ne erano orgogliosi al punto da spenderlo frequentemente nei loro discorsi, spesso punteggiati di annotazioni e testimonianze autobiografiche, quasi che da quel passato volessero trarre una legittimazione. Nel già citato intervento al Consiglio provinciale di Girgenti del 25 aprile 1861, ad esempio, Giacinto Scelsi faceva un chiaro riferimento al suo esilio in Francia quando affermava: “Io, educato dalla sventura in luogo libero, ho potuto assistere al magnifico spettacolo dello sviluppo e dei vantaggi innumerevoli delle libere istituzioni…”; non da meno era Lorenzo Valerio, quando il 7 gennaio 1860 diceva a Como: “Governare pel Paese e © Wolters Kluwer 42 ANGELO GALLO CARRABBA col Paese – questo è il programma del Ministero, dichiarato a parole e stabilito colle ultime leggi. Per me poi questo programma è parte, è fondamento di quella fede politica che ho professato palesemente quand’era pericolosa…”. Ancor più esplicito Efisio Cugia il 9 agosto 1862, allorquando, assumendo l’incarico di prefetto di Palermo, così si rivolgeva alla popolazione della provincia: “Soldato mi presento a voi col solo titolo di aver combattuto anche io per la libertà e la indipendenza nazionale”. Un secondo aspetto che contribuiva alla personalità carismatica dei Prefetti del Regno era dato dalle loro capacità espressive ed oratorie. La maggior parte di loro vantava titolo di avvocato e molti avevano effettivamente esercitato la professione forense (il già ricordato Bosi, ad esempio, negli anni ’50 a Firenze aveva tenuto le parti della difesa in un celebre processo dell’epoca, quello per il fallito attentato al primo ministro del Granducato di Toscana Giovanni Baldasseroni da parte del repubblicano Francesco Peruzzi); molti erano anche quelli che avevano all’attivo pubblicazioni letterarie o scientifiche (si pensi, ad esempio, a Biagio Miraglia o Luigi Zini); e non pochi coloro che avevano alle spalle significativi trascorsi giornalistici (valga per tutti l’esempio di Bernardino Bianchi, che negli anni ’50 aveva diretto il periodico satirico milanese L’Uomo di Pietra, cui collaboravano scrittori del calibro di Arrighi, Nievo, Collodi, Mascheroni, Ghislanzoni). Facili di penna non meno che di lingua, quei prefetti erano fra i più felici interpreti di una retorica patriottica e nazionalista che oggi può far certamente sorridere, ma che allora risultava funzionale al necessario processo di consolidamento del sentimento unitario. Si veda, ad esempio, questo passo tratto dal manifesto che, all’indomani della vittoria dei piemontesi a Castelfidardo del settembre 1860, Lorenzo Valerio, appena arrivato a Senigallia come commissario generale del re, rivolgeva a quelli che non a caso apostrofava ripetutamente come “Italiani delle Marche”: « (…) Onorato dal Re dell’incarico di rappresentarlo fra voi in questo periodo di transizione, che potrebbe essere fatale a tutta l’Italia se difettaste o di energia o di saggezza, io vengo pieno di fiducia in coloro ai quali sono mandato, perché penso che mi porgerete quell’aiuto e quel concorso che mi è necessario, per bene adempiere i voleri del Re. Voi vi armerete per accelerare la conquista della libertà, e per conservarla; sarete obbedienti alle Leggi, siccome è dovere d’ogni cittadino, e come lo stesso Re ve ne dà per primo l’esempio, combatterete i nemici interni, e vinti che li abbiate sarete generosi. Italiani delle Marche — figli dei Romani, discendenti dall’antico gentil sangue latino, che dominò coll’armi e colle leggi, colle virtù militari e colla sapienza civile — mostrate che la secolare oppressione non riuscì a farvi degenerare, e cooperate a far sì che possa avere degno compimento la nobile ambizione del Re di restaurare in Italia i principii dell’ordine morale (…)». © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 43 Terzo e non trascurabile elemento tipico del background dei prefetti, specie quelli nominati a partire dalla fine degli anni ’60, era l’esperienza di accentuata mobilità sul territorio cui erano stati costretti dalle vicende prima personali e poi professionali di ciascuno. Erano uomini che, pur nelle disastrose condizioni dei trasporti e dei collegamenti dell’epoca di cui già si è detto, avevano girato l’Italia (e spesso non solo l’Italia) in lungo e in largo, accumulando esperienze e conoscenze dirette, toccando con mano i problemi del Paese, vivendone le periferie e i recessi più estremi, ed in ultima analisi diventando essi stessi testimoni ed interpreti di quella varietà e molteplicità di realtà da ricondurre ad unità, secondo il motto “e pluribus unum”. Come ha osservato Guido Melis(18), “i prefetti, ma anche gli impiegati dell’amministrazione provinciale (…), finirono per rappresentare – in un’Italia demograficamente immobile, dalla popolazione fortemente radicata nelle province – un gruppo sociale caratterizzato invece proprio dal suo elevato grado di mobilità geografica. Le promozioni e l’escalation in carriera il più delle volte si identificavano con la destinazione a una sede meno disagiata e periferica; così come le punizioni equivalevano alla retrocessione, quando non addirittura al temutissimo (sino a diventare proverbiale) trasferimento in Sardegna”. Basteranno qui pochi esempi, rinviando per un approfondimento alla lettura dell’appendice biografica. Il più volte citato Giacinto Scelsi (siciliano di Collesano, sulle Madonie), in carriera fu prefetto di Girgenti, Ascoli Piceno, Sondrio, Capitanata (Foggia), Como, Reggio Emilia, Messina, Ferrara, Mantova, Brescia, Pesaro Urbino, Modena, Livorno, Bologna e Firenze. Carmelo Agnetta, casertano di nascita ma siciliano d’origine, prima di essere nominato prefetto di Massa Carrara aveva svolto la sua carriera con vari incarichi fra le sedi di Palermo, Forlì, Cesena, Faenza, Ravenna, Borgotaro, Gallipoli, Vallo della Lucania, Isernia, Alcamo, Napoli, Brindisi, Termini Imerese, Bergamo, Caserta ed Acireale. E chiudiamo la vertiginosa lista con un prefetto di epoca un po’ più tarda, il modenese Francesco Zironi, che in trentasette anni di carriera(19) lavorò a Galliate, Novara, Casale, Cremona, Porto Maurizio, Borgotaro, Pallanza, Clusone, Salò, Brescia, Messina, Treviso, Parma e poi, nominato prefetto, a Sondrio, Forlì, Ravenna, Piacenza, Parma, Alessandria, Modena e Perugia. (18) G. MELIS, La burocrazia. Da monsù Travet alle riforme Bassanini: vizi e virtù della burocrazia italiana, Bologna, il Mulino, 1998, 17. (19) Il fascicolo personale di Zironi è consultabile presso l’Archivio Centrale di Stato a Roma, serie Ministero dell’Interno, Direzione Generale del Personale, fasc. personali I e II serie, busta n. 826. Cfr. anche E. GUSTAPANE, “I prefetti dell’unificazione amministrativa nelle biografie dell’archivio di Francesco Crispi”, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, XXXIV, Giuffré, Milano, 1984, 1072. © Wolters Kluwer 44 ANGELO GALLO CARRABBA Qual era il plusvalore di tanta, e forse persino eccessiva, mobilità? In primo luogo, evidentemente, la quantità e varietà delle esperienze accumulate in contesti geografici, sociali ed economici fortemente differenziati l’uno dall’altro; in secondo luogo, la dimostrazione di dedizione assoluta alla causa dell’amministrazione che aveva spinto quegli uomini a non mettere quasi mai radici in nessun luogo (con sporadiche eccezioni: lo stesso Agnetta prefetto di Massa per dodici anni, Benedetto Maramotti prefetto di Perugia per ventuno), il che voleva dire anche sottrarsi ai rischi di condizionamento o parzialità derivanti da rapporti di frequentazione, consuetudine o amicizia protratti nel tempo. Italiani veramente definibili come tali, ché il lungo peregrinare aveva spesso finito col cancellarne le precedenti appartenenze regionali, i prefetti con i loro curricula stavano lì a dimostrare che c’erano uomini che avevano anteposto il bene del nuovo Stato ad ogni altra esigenza o comodità familiare e personale. E questa dedizione assoluta ed incondizionata emergeva in modo incontestabile attraverso un’altra prassi che cominciava a costruirsi in quegli anni fino a costruire il mito dei “prefetti fusibili”, e cioè quella forma di disponibilità estrema che li portava ad accettare disciplinatamente la rimozione dall’incarico ogni volta che il governo necessitasse di un capro espiatorio da sacrificare per il superamento di una crisi. Da Enrico Falconcini (prefetto sollevato dall’incarico nel 1863 dopo l’evasione di centoventisei detenuti dal carcere di Girgenti)(20) ad Attilio Lobefalo (l’incolpevole prefetto di Avellino rimosso nel 1980 dopo le dichiarazioni del Presidente della Repubblica Pertini sui ritardi nei soccorsi ai terremotati dell’Irpinia)(21), la storia del (20) L’episodio è rievocato dallo stesso Falconcini in un volume di memorie (E. FALCONCINI, Cinque mesi di Prefettura in Sicilia, Firenze. Tip. Galileiana di M. Cellini e c., 1863; volume poi ripubblicato nel 2002 a Palermo da Sellerio, con uno scritto introduttivo di Andrea Camilleri). Giunto da poco a Girgenti, Falconcini già nel settembre ’62 aveva segnalato l’insostenibile inadeguatezza strutturale del carcere e gli ambigui rapporti che correvano fra le guardie e i detenuti; si era quindi adoperato per trovare un altro edificio da utilizzare come carcere ed intanto aveva chiesto, e ottenuto, l’allontanamento delle vecchie guardie e la loro sostituzione con personale “continentale”. Quando, a dicembre, gli giunse voce di un possibile progetto di evasione, dispose una severissima ispezione: le camerate ed i detenuti furono attentamente perquisiti, e le pareti e i pavimenti controllati e ripassati a colpi di spranga: non si trovò nulla che lasciasse presagire la fuga. Nonostante tutto, la notte di Natale il carcere si svuotò: forse con la complicità di quelle stesse guardie che Falconcini aveva fatto allontanare, i detenuti si calarono in un cunicolo preparato da mesi, e da lì riuscirono a disperdersi nelle campagne. L’11 gennaio 1863 un laconico telegramma comunicava a Falconcini l’avvenuta dispensa dall’incarico di prefetto, che mai più avrebbe ricoperto, neppure in altra provincia. Il Ministro dell’Interno, Ubaldino Peruzzi, si limitò a negare un’inchiesta parlamentare dicendo di avere non già destituito, ma dispensato Falconcini, non avendogli inteso “infliggere veruna punizione o biasimo, perocché non ne abbia motivo”. (21) La sostituzione di Lobefalo fu deliberata già nella serata del 25 novembre 1980, a quarantott’ore dalla scossa e il giorno dopo le pesanti accuse in tv di Pertini sui ritardi e © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 45 Paese ha sempre conosciuto questa figura di “vittima sacrificale” che ha finito per segnare in modo caratteristico la cultura professionale dei funzionari di governo, disposti a scontare colpe non loro pur di salvaguardare la tenuta del sistema. Non mancavano, quindi, solide basi sulle quali poggiare il carisma, il prestigio e l’autorevolezza della figura del Prefetto; e pur nondimeno questo excursus risulterebbe monco se non desse conto anche delle tesi avverse, quelle del partito dei detrattori dei prefetti che ha sempre attraversato la storia d’Italia, sin dai primi anni dopo l’Unità. Illuminante, ancora una volta, risulta il già citato dibattito parlamentare del 1866 sul progetto Chiaves(22): qui si contrapponevano quanti reclamavano per i prefetti maggiori funzioni e competenze (fra questi certamente l’ex prefetto di Torino, il senatore Carlo Cadorna, che arrivò ad affermare in aula che “ora i prefetti hanno tutto, meno i tre quarti del tutto”(23)) e quanti, viceversa, esprimevano forti dubbi sull’attitudine media complessiva del corpo prefettizio a rappresentare quell’eccellenza amministrativa di cui li si voleva investiti. “A me sembra – dichiarava il senatore liberale cagliaritano Giovanni Siotto-Pintor(24) – che tre errori capitali guastino la nostra amministrazione. Il primo è l’aver voluto fare dei prefetti uomini politici. Per me questo è un errore gravissimo (…) Il secondo errore è l’avere voluto creare prefetti in numero strabocchevole, imitando quella Francia di cui ancor io riconosco ed apprezzo l’amministrazione forte, intelligente, disciplinata, sagace, colla tara per altro del 25%. Ma, Signori, nelle grandi moltitudini, è l’inefficienza dei soccorsi. Il Ministro dell’Interno dell’epoca, Virginio Rognoni, rispondendo alle interrogazioni del parlamento motivò la decisione di sostituire Lobefalo con lo “stato di choc” subito dal funzionario, leggermente ferito dal crollo del soffitto della stanza in cui si trovava al momento del sisma. Cfr. resoconto stenografico della seduta della Camera dei deputati del 4 dicembre 1980, 20989-20990. (22) Cfr. Rendiconti del Parlamento Italiano (IX legislatura). Discussioni del Senato del Regno, sessione 1865-1866, sedute del 27 febbraio, 1, 2 e 3 marzo 1866. (23) Aggiungeva Cadorna (Rendiconti cit., 248): “Voglia ora considerare il Senato qual sia la condizione e la forza del Prefetto, che pur vorrebbesi far credere che sia il rappresentante del Governo nel capoluogo della provincia, nella quale, essendo egli pure risponsabile dell'ordine pubblico, vede però ad un tempo in mani indipendenti da lui i tre quarti almeno degli impiegati governativi, e delle amministrazioni! V’ha poi un altro notevole fallo che abbassa la condizione relativa, e la potenza del Prefetto, ed è che in parecchie provincie, per riguardo atta estensione della sua giurisdizione egli trovasi in condizione inferiore a quella di alcuni di coloro che presiedono agli altri rami dell’amministrazione. Abbiamo per esempio delle Direzioni compartimentali del tesoro le quali comprendono più provincie; e cosi è a dirsi delle Poste, e di altre amministrazioni”. (24) Rendiconti cit., 257-258. Giovanni Siotto Pintor (Cagliari 1806 – Torino 1882) fu magistrato, deputato del Regno di Sardegna per il collegio di Nuoro nella I, II e IV legislatura, senatore dal 1861, direttore del giornale filogovernativo Gazzetta di Sardegna. Raggiunse il grado di Sostituto procuratore generale di cassazione. © Wolters Kluwer 46 ANGELO GALLO CARRABBA legge universale dell’umanità, si trova sempre la mediocrità. È impossibile che l'Italia possa fornirci cinquantanove uomini così pienamente istruiti, da poter eseguire degnamente tutte le incombenze che noi affidiamo ai prefetti. Vorrei tacere dell'ultimo errore; ma il tacere non giova (…) cosi in passando vi dirò che io non riconosco altri enti naturali(25) se non due: l'unità del Comune e l'unità dello Stato (…) Sapete in verità che cosa è la provincia? È la ruota di mezzo la quale attraverso la prima, l'azione del Comune, imbroglia l'ultima, l'azione del Governo”. Buon per Siotto-Pintor che non abbia conosciuto mai l’Italia delle centodieci province. 3.3. Etica pubblica e spirito fondativo nazionale Ma torniamo a quella missione che abbiamo definito di formazione dell’etica pubblica nazionale. In un saggio dal titolo “La questione morale”(26), qualche anno fa la filosofa Roberta De Monticelli si è incaricata di ricordarci come il tema dell’etica pubblica sia critico nella cultura nazionale sin dai tempi di Guicciardini e Machiavelli e di quel loro cinismo dispensato a piene mani, che la De Monticelli cataloga non a caso alla voce “minima immoralia”; sintomi di un (mal)costume antico, che ha prodotto, per dirla con la De Monticelli, una tradizione di “minorità morale”, una storia di sudditanze tali da creare personalità fragilissime dal punto di vista dell’attitudine all’assunzione di responsabilità. Giuliano Amato, d’altra parte, ha ricordato(27) come “i periodi più felici della storia del Paese, quelli in cui l’Italia è migliorata di più, si sono avuti quando governanti e governati hanno saputo identificarsi in un progetto di (25) La negazione della Provincia come “ente naturale” appariva più che fondata e suffragata da riscontri storici oggettivi che rivelavano l’artificiosità dei confini della maggior parte delle province dell’epoca. In realtà oggi è difficile confutare che, in molti casi, il sentimento di identità provinciale abbia seguìto, e non preceduto, la perimetrazione di ciascuna circoscrizione amministrativa, risultando in parte conseguenza dell’azione omogeneizzatrice svolta su ciascun territorio dagli uffici periferici dello Stato, e principalmente proprio dalle prefetture. Sullo specifico tema si rinvia a quanto più diffusamente argomentato in A. GALLO CARRABBA, I prefetti e l’Italia delle cento province, in Instrumenta, VII, 19, 2003, 191-207. (26) R. DE MONTICELLI, La questione morale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2010. Sugli stessi temi, ma con posizione diversa, si veda anche Fabrizio Rondolino che trova invece maggiormente esemplificativa di una cultura nazionale l’opera di Baldassarre Castiglione Il Cortegiano. La tesi di Rondolino è che l’Italia non abbia mai avuto una vera classe dirigente e per questo sia in grado di esprimere solo una storica vocazione alla guerra civile ed al trasformismo, che della guerra civile altro non sarebbe se non l’altra faccia. Cfr. F. RONDOLINO, L’Italia non esiste (per non parlare degli italiani), Milano, Mondadori, 2011. (27) Intervista pubblicata con il titolo La lezione del passato su ANCI Rivista, LIV, 3, marzo 2011, 21-23. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 47 Paese migliore e su quello hanno saputo creare una simbiosi forte: penso al progetto stesso di unificazione e di modernizzazione che fu proprio di Cavour, ma anche alla ricostruzione del Paese dopo il fascismo”. Qual è il filo che può unire due spunti apparentemente così lontani? O, per dirla in altro modo, qual è l’elemento che, nelle fasi di rinascita nazionale citate da Amato, ha saputo spezzare una plurisecolare tradizione di immaturità etica dell’agire pubblico? Una possibile risposta a questi quesiti forse è implicita in quello che già si è accennato nelle pagine precedenti; ma alcune, ulteriori osservazioni possono probabilmente valere a sviluppare questo percorso in modo più compiuto ed argomentato. E’ innanzitutto da osservare che i momenti di più acuta e conclamata crisi morale del Paese sono stati generalmente seguiti da una tendenza al rafforzamento della normazione giuridica, nel tentativo di sopperire alle derive dei comportamenti con l’introduzione di nuove “regole” in grado di favorirne la moralizzazione attraverso la forza della legge. Ancor prima delle recenti accelerazioni in materia di anti-corruzione, questa dinamica è risultata molto evidente dopo la cosiddetta “tangentopoli” del 1992-’93, quando si è assistito ad una spinta non solo alla normazione di dettaglio nelle materie ritenute più critiche (ad esempio i pubblici appalti), ma anche ad una più rigorosa elencazione delle regole etiche per i pubblici dipendenti attraverso lo strumento dei cosiddetti “codici di comportamento”, contenenti l’indicazione degli obblighi di diligenza, lealtà ed imparzialità che qualificano il corretto adempimento della prestazione lavorativa. Qualcosa di simile era accaduto anche nel secolo precedente, quando allo scandalo della Banca Romana si rispose essenzialmente sul piano legislativo (con il riordino del sistema bancario e l’istituzione della Banca d’Italia) e su quello disciplinare (con l’emarginazione e/o epurazione dei soggetti maggiormente compromessi o esposti allo scandalo). Ciò che, tuttavia, ha reso deboli e persino velleitari questi tentativi di moralizzazione imposta dall’alto è stata proprio la sottovalutazione del dato storico. Le emergenze morali del nostro Paese si sono sempre collocate in fasi in cui l’affievolimento del sentimento etico ha accompagnato il venir meno dell’originario spirito fondativo nazionale, e quindi della condivisione di un minimo comune denominatore di valori in grado di contenere divisioni e differenze all’interno di una cornice, di un progetto strategico unitario; laddove, viceversa, i momenti di più alto magistero etico della politica e del servizio pubblico sono coincise proprio con le fasi di costruzione o ricostruzione nazionale seguite alle grandi svolte di ordine politico-costituzionale della nostra storia. In altri termini, se è vero che la tradizione di “minorità morale” italiana viene da lontano così come sostenuto dalla De Monticelli, è altrettanto vero © Wolters Kluwer 48 ANGELO GALLO CARRABBA che la storia dell’Italia unita ha conosciuto delle stagioni di rinascita in cui quella immaturità etica è stata in qualche misura compensata ed emendata da un sentimento diffuso di unità e di riscatto ispirato da uno spirito fondativo nazionale. Questo spirito, sia agli albori dell’Unità d’Italia che a quelli della Repubblica, si è sviluppato attorno a tre elementi fondamentali: un “vissuto” comune delle vicende che hanno portato alla cesura con il passato ed alla costruzione di un nuovo ordine (Risorgimento in un caso, Resistenza nell’altro); la testimonianza diretta, portata dentro le Istituzioni, di coloro i quali furono protagonisti di quella cesura e non esitarono a farsi carico di una doverosa assunzione di responsabilità nel momento della (ri)costruzione costituzionale, sociale e politica del Paese; la convergenza di governanti e governati su “un progetto di Paese migliore”, per usare le parole di Amato, cioè su un’ipotesi condivisa di futuro che portava in sé sia il desiderio diffuso di contribuire a quel progetto, sia la fiducia nella politica e nell’amministrazione di riuscire a portarlo a compimento. E’ questo, in ultima analisi, il contesto nel quale i prefetti, quale massima espressione dell’amministrazione del nuovo Regno d’Italia, svolsero la loro funzione unificante. Testimoni diretti, dentro le Istituzioni, di un passato eroico che avevano largamente condiviso con le comunità degli amministrati, essi esprimevano un richiamo costante (anche retorico, se del caso) ad un progetto in costruzione nel quale credere. In questo senso, il loro era un impegno etico e di costruzione di un’etica: perché nella condivisione di quello spirito fondativo e di quel progetto nazionale c’erano le basi di una “ragion pratica”, di un sistema di valori che in ogni momento o situazione consentisse di trovare la risposta giusta (cioè morale) all’eterna domanda su “cosa fare”. Non era, quindi, vuota retorica quella degli Scelsi, dei Valerio, dei Falconcini che invitavano a guardare al futuro, alle cose ancora da fare, all’unità da completare: era questa tensione al meglio che dava responsabilità e spessore morale al loro lavoro, lo sguardo al futuro che nobilitava l’agire quotidiano finalizzandolo all’interesse superiore del “bene dello Stato”. Fare l’Italia e gli italiani, per loro, non era solo un artifizio immaginifico, bensì l’orizzonte che racchiudeva il senso di un incarico e la sua dignità più profonda. Era – scrive Melis – “una piccola burocrazia che (…) si sentiva con orgoglio avanguardia di un grande processo di nation building”. Quel “bene della Patria”, che la formula del giuramento ottocentesco voleva inseparabile dal bene del Re, veniva così a rappresentare, in un certo senso, l’architrave della costruzione etica del funzionario pubblico, il parametro di riferimento fondamentale per valutare l’ammissibilità di azioni e © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 49 comportamenti. E quando si dice “bene della Patria” s’intende di una patria che era ancora considerata incompleta e in divenire, non solo nella sua integrità territoriale ma anche in quella sociale, economica, politica e culturale; un’Italia da far crescere, da rendere più omogenea e sviluppata, più civile e scolarizzata. Il costante richiamo a quest’esigenza di consolidamento del nuovo ordine, tanto presente nell’opera e negli atti ufficiali dei prefetti dell’unificazione, veniva quindi ad assumere un significato programmatico più profondo di quello che poteva apparire in superficie: non mero esercizio retorico, ma lucido tentativo di creare una nuova sensibilità nazionale in grado di coinvolgere le élites migliori della società civile e di sviluppare coesione attorno ad un progetto di Patria che una parte del Paese, specie al Meridione, aveva subito quasi passivamente. Se una critica si può muovere a quel ceto dirigente, è quella di non essere riuscito né ad incidere sulle sedimentazioni più profonde del carattere nazionale né a proporre una chiave di lettura del nuovo ordine che andasse oltre il Risorgimento, cioè oltre una logica che aveva permesso di costruire un Paese unito ma senza avere un’idea chiara su come farlo funzionare. Il Risorgimento, così come la Resistenza nel secolo successivo, ha costituito la spinta propulsiva in grado di garantire moralità ai primi decenni di vita pubblica del nuovo Stato. Per usare un’espressione dello storico Giovanni De Luna, l’uno e l’altra sono stati capaci di offrire all’intero Paese una “religione civile”(28), incentrata nell’un caso sull’ideale della nazione unita, nell’altro sull’antifascismo; una religione civile che serviva anche a supplire alle immaturità ed alle debolezze etiche di un popolo non ancora avvezzo a fare un uso adulto e consapevole della propria capacità di autodeterminazione. Ma è stato al momento in cui quella spinta propulsiva ha preso ad esaurirsi, e quella religione civile a vacillare, che si sono ripresentati i problemi: quando la generazione dei “Padri della Patria” ha lasciato i posti di comando ad una nuova generazione di politici e di pubblici servitori che non aveva vissuto le stesse esperienze della prima, quando il sogno di un’Italia migliore in costruzione ha cominciato a scontrarsi con le lentezze ed i ritardi di un progetto rimasto incompiuto, quando si è smesso di credere nella possibilità di colmare il divario fra Nord e Sud. Nel XIX come nel XX secolo, la stagione della disillusione ha spalancato le porte al ritorno degli egoismi e dei (28) In più occasioni, (ad esempio in occasione della lectio magistralis su A cosa serve essere italiani, tenuta al Salone del Libro di Torino nel maggio 2011), De Luna ha definito il concetto di “religione civile” come uno spazio pubblico condiviso nel quale ritrovare i valori che legittimano le istituzioni, la competizione politica ed il senso civico. Cfr. anche G. DE LUNA, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Milano, Feltrinelli, 2011. © Wolters Kluwer 50 ANGELO GALLO CARRABBA particolarismi, alla perdita di fiducia nello Stato, all’affievolimento del senso di comunità nazionale; al punto da dubitare che una vera unità, dell’Italia e degli Italiani, fosse stata mai realizzata. Fino al celebre lamento di Pasquale Villari, che già nel 1878 scriveva(29): “Perché mai la vecchiezza ci assale, prima che la gioventù incominci?” 3.4. L’età della prosa: verso un’etica della responsabilità Quando, a proposito della burocrazia di fine ‘800, Guido Melis parla di una “età della prosa” contrapponendola ad una precedente età dell’eroismo, coglie un dato significativo ed allo stesso tempo ambiguo nel percorso di formazione della classe dirigente del nuovo Stato. Dalle barricate del Quarantotto alle scrivanie degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, quella generazione di patrioti risorgimentali aveva dovuto affrontare un cambio d’abito che, evidentemente, non poteva essere privo di effetti sul piano degli atteggiamenti e degli orizzonti etici. Se per il rivoluzionario è lecito vagheggiare un mondo ideale, il dirigente ha l’obbligo del realismo e della concretezza; una dualità che Max Weber, in una fortunata conferenza del 1919 a Monaco di Baviera sulla politica come professione, tradusse nella celebre distinzione fra “etica dell’intenzione” ed “etica della responsabilità”. L’etica dell’intenzione (o dei principi, nel testo originario di Weber) appartiene ai santi, ai profeti, a coloro i quali, fedeli alla propria convinzione ed alla propria interiorità, agiscono senza considerare le conseguenze delle loro azioni nel mondo, limitandosi ad obbedire ad una idealità trascendente; laddove l’etica della responsabilità, viceversa, è propria di chi, operando nella polis, è tenuto ad agire secondo valori relazionali, storicizzati, socializzati, a considerare le conseguenze delle proprie azioni nel mondo, a rapportarsi con gli altri sia ascoltandone le ragioni sia rispondendo loro del proprio ope(29) P. VILLARI, La scuola e la questione sociale in Italia, in Nuova Antologia, novembre 1872, poi ripubblicato all’interno di Lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, Firenze, LeMonnier, 1878, 91-94. Scriveva Villari: “Chi paragona l’Italia che sognammo a scuola con l’Italia che vediamo intorno a noi, resta colpito da una grande differenza. Ci pareva che a toccare la mèta noi dovevamo lungamente lottare contro difficoltà enormi; ma una volta riusciti a costituire la nazione, noi la vedevamo, nella nostra immaginazione, circondata di gloria. Invece una serie di facili e fortunate rivoluzioni ci ha condotti al fine de’ nostri desiderii; ma l’Italia unita, indipendente e libera si direbbe che ha lasciato il tempo che ha trovato. Dapprima mancava la Venezia, e questo pareva che impedisse il pensare ad altro, e progredire. Poi mancava la capitale Roma, e bisognava distruggere il potere temporale dei Papi, il che avrebbe aperto un’èra novella nel mondo. Ma ora s’è avuto tutto, e l’orizzonte, invece d’allargarsi, sembra ristringersi davanti a noi. Siamo come uomini disingannati e sfiduciati, per non sapere che altro fare, né che altro desiderare”. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 51 rato, ed in definitiva a perseguire un obiettivo superindividuale che è il bene della collettività(30). Un concetto, quello di responsabilità, che si interseca quindi con quelli di imputabilità (nel senso di riconducibilità di un’azione ad un ben individuato attore) ma anche di colpevolezza. Come si vedrà più avanti parlando del tema del “capro espiatorio”, è René Girard a ricordarci, suggestivamente, che l’etimologia latina del verbo decidere (de-cidere) implica già l’idea del tagliar via, mozzare, decapitare. La decisione, atto tipico e qualificante della politica ma anche dell’amministrazione, è scelta netta fra più opzioni possibili, di cui si valutino le conseguenze ed assumano le responsabilità (a rischio della testa). Questa evoluzione caratterizzò anche la vicenda personale di molti prefetti, idealisti e rivoluzionari in gioventù (quando si doveva far l’Italia, ma non era ben chiaro né come, né quando, né con chi), pragmatici e prudenti nella carriera adulta (quando sovente la scelta del meglio relativo degradava a ricerca del male minore). La loro responsabilità veniva declinata su più piani: nella fedeltà alla monarchia ed al governo, cui erano tenuti a render conto del proprio operato; nel rapporto con gli amministrati delle province, delle cui esigenze cercavano di farsi interpreti e latori; ed infine nel tentativo costante di ricondurre ogni azione dell’amministrazione al fine ultimo del completamento della costruzione nazionale, facendo l’Italia ed anche gli italiani. Ed era proprio questa tensione ideale “ad infinitum” che, probabilmente, consentiva loro di mantenere una coerenza interiore, senza avvertire contraddizione fra il patriota ed il burocrate, fra ciò che erano stati e ciò che erano diventati; perché in quell’obiettivo futuro, mai del tutto completato o raggiunto, vi era il punto d’incontro fra intenzione e responsabilità, o se si preferisce la prospettiva che restituiva identità e senso comune all’impegno di tutta una vita. Questo è ciò che i prefetti hanno portato in dono all’Italia unita, ma questo è anche quanto ne hanno avuto restituito in dote: perché, proprio partendo da quell’eredità risorgimentale, il corpo prefettizio ha saputo costruire una propria cultura professionale che, con alterne vicende, l’ha accompagnato fino ad oggi, esempio pressoché unico di élite amministrativa nazionale in grado di rinnovarsi continuamente mantenendo, tuttavia, un suo profilo riconosciuto e riconoscibile. (30) Sul punto, si veda l’opera di un prefetto dei giorni nostri, Carlo Mosca, che, trattando dei temi dell’etica prefettorale, riprende l’antinomia weberiana per ricordarci che “l’etica tipica del mondo moderno è un’etica della responsabilità (…) Ciò significa che ogni decisione, che l’etica della decisione – se volete – deve ispirarsi ad un interesse necessariamente collettivo e non individuale, generale e non particolare” (cfr. C. MOSCA, Frammenti di identità ed etica prefettorale, con prefazione di D. ANTISERI, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, 222. © Wolters Kluwer 52 ANGELO GALLO CARRABBA Allo stesso tempo, è proprio questa prospettiva etica e culturale a far sì che la storia dei Prefetti del Regno non appartenga a una sola categoria professionale, bensì diventi, per estensione, la storia di tutta l’amministrazione italiana; perché è in essa che vanno trovate le origini e le ragioni storiche di molta parte dei costumi amministrativi della dirigenza pubblica e del ceto impiegatizio nostrani. Il Ministero dell’Interno è la Rift Valley dell’amministrazione unitaria italiana: come quella regione africana è considerata la “culla” da cui si diramarono le vicende di un’umanità intelligente evoluta, così l’amministrazione dei prefetti rappresenta il luogo d’incubazione dei vizi e delle virtù della classe dirigente nazionale; e, come la Rift Valley, essa costituisce naturalmente anche il giacimento privilegiato dove ricercare i preziosi reperti in grado di spiegare l’evoluzione della specie, la chiave “paleontologica” per provare a spiegare l’oggi attraverso i documenti di ieri. Con la stessa stupita meraviglia con cui si ammira l’impronta di un fossile in una roccia, possiamo trovare fra le carte dei prefetti risorgimentali la memoria nobile e rivelatrice del ruolo avuto dalla funzione pubblica nella storia del nostro Paese. 4. Paleontologia dell’amministrazione: storie di prefetti su sfondo tricolore La parte conclusiva di questa monografia è dedicata ad alcuni episodi minori, ma non per questo meno significativi, della storia dell’amministrazione unitaria; memorie fossili ciascuna delle quali, nel proprio piccolo, sembra in grado di illustrare quella varietà di culture, stili, valori, attitudini che hanno caratterizzato l’operato delle prime generazioni di prefetti e che, pur nella loro ampiezza ed eterogeneità, alla fine hanno trovato il punto di sintesi in un rigore etico e una generosità intellettuale in grado di affermarsi e divenire costume amministrativo dominante di un’intera generazione di funzionari. 4.1. Luigi Torelli e la questione adriatica Ci piace iniziare questa breve rassegna da uno dei nomi già più volte citati nelle pagine precedenti, quello di Luigi Torelli. Quando s’insedia come prefetto di Venezia, il 5 maggio 1867, Torelli è reduce da uno dei momenti più difficili della sua carriera pubblica: pochi mesi prima, ad ottobre ’66, si è dovuto dimettere da prefetto di Palermo per gli strascichi del tentativo insurrezionale detto del “Sette e mezzo”, poi represso nel sangue dalle truppe del generale Cadorna. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 53 A Venezia, Torelli succede al conte Giuseppe Pasolini, primo prefetto della città lagunare dopo l’annessione al Regno d’Italia dell’autunno 1866. Dal punto di vista amministrativo, la situazione veneziana è complessa, in quanto occorre completarne rapidamente il processo di uniformazione ed assimilazione alle norme ed gli ordinamenti del Regno; ma ancor più delicata è la situazione economica e commerciale di un territorio che, per rilanciarsi, ha bisogno di nuovi collegamenti e nuove prospettive d’affari sia per terra che per mare. In questo panorama si colloca la vicenda della trattativa fra la Provincia di Venezia e la Azizieh Steam Navigation Company, una società di navigazione egiziana rappresentata da un veneziano, Francesco Pini, entrato nelle grazie del principe Ahmet Pascià fino ad averne titolo di “Bey”. La trattativa riguarda la possibile attivazione di una linea di navigazione a vapore che colleghi stabilmente Venezia ed Alessandria d’Egitto passando per Ancona e Brindisi. La compagnia, per mezzo di Pini-Bey, si dichiara disponibile a garantire fra l’Italia e l’Egitto quattro corse al mese di una grossa nave mercantile purché Venezia accetti di pagare un corrispettivo di 333.000 lire per tre anni. Poiché il governo nazionale non può farsi carico della sovvenzione per via degli impegni contrattuali già precedentemente assunti con la Società Adriatico-Orientale, il prefetto Torelli decide di farsi autonomamente promotore di una ricerca di fondi fra le altre province venete affinché concorrano al pagamento di circa due terzi della somma necessaria per attivare il collegamento. La lettera che il 4 luglio 1867 Torelli indirizza a tal fine al collega di Padova, Luigi Zini, rappresenta un documento utilissimo per comprendere la capacità di analisi e la lungimiranza politico-amministrativa che accompagnava il lavoro di un prefetto del tempo. Torelli si sofferma, infatti, a motivare le ragioni di opportunità che consigliano l’accordo con la Azizieh collocandole lucidamente nel momento storico, rispetto anche ai cambiamenti epocali che di lì a poco modificheranno il sistema dei trasporti, sia per terra (apertura del valico del Brennero) che per mare (Canale di Suez)(31). Ed è questa lungimiranza, questa capacità di (31) Torelli, sin dall’inizio uno dei grandi sostenitori del taglio dell’istmo, vi ebbe interesse diretto, figurando fra i sottoscrittori delle azioni della Compagnia universale per il canale di Suez di cui successivamente divenne anche vicepresidente onorario (cfr. S. MANFREDI, Luigi Torelli e il canale di Suez, Sondrio, Tip. arti grafiche valtellinesi, 1930; A. MONTI, Storia del canale di Suez: con un diario di Luigi Torelli ed altri documenti inediti, Milano, ISPI, 1937). Al di là degli interessi personali, Torelli di certo ebbe sempre chiarissima consapevolezza dell’impatto che l’apertura del canale avrebbe avuto sugli equilibri commerciali nel Mediterraneo e ne seguì i lavori con grande curiosità. Cfr. L. TORELLI, Il canale di Suez e l’Italia, Milano, Stabilimento Giuseppe Civelli, 1867; L. TORELLI, Parallelo fra il progresso dei lavori © Wolters Kluwer 54 ANGELO GALLO CARRABBA analisi del contesto, questo spessore di vedute e senso critico, che, nonostante la lunghezza del documento, consiglia di riportarne qui ampi stralci. «Le imprese di navigazione a vapore in Italia non hanno fatto gran buona prova finora; sussistono in forza dei grandi sacrifici che fa lo Stato colle sovvenzioni, ma non hanno prosperato per naturale incremento del commercio, che erano destinate a promuovere; sarebbe questo un ben cattivo antecedente, e tale da raffredare il zelo per attivarne un’altra, se le condizioni fossero consimili: ma si è precisamente perchè queste cambieranno completamente in breve tempo, che non solo è lecito sperare, ma vi è la certezza che gli effetti saranno diversi. Finora l’Italia, chiusa dalla cerchia alpina, non poteva offrire all'esportazione che i suoi prodotti, e per una navigazione a vapore ne ha pochissimi, poiché la sua industria non basta per proprio conto, e quindi essa importa molto ed esporta poco. Tutti i suoi sforzi vogliono essere diretti ad attirare il commercio estero, le produzioni industriali degli altri popoli, e per questo, con savio consiglio, il Parlamento sardo aveva votato sussidii per l’ardita impresa di una strada ferrata a traverso delle Alpi, riconoscendola indispensabile pel proprio commercio. Quali ostacoli si frapponessero è inutile il ripetere in questo scritto, essi furono indipendenti dal Parlamento, che votò due volte i sussidii, sempre più convinto di quella necessità. Ora vuole la combinazione ben fortunata pel nostro Stato, che s’apra un passo con via ferrata a traverso le Alpi, e se ciò dispensa per nulla dal pensare anche ad altro che faccia capo a Genova, non è però meno vero che sia realizzato uno dei piani i più felici per una parte di Provincie italiane, e con esse per lo Stato intero. In pochi mesi, il Brenner porrà in comunicazione la nostra rete stradale con quella della Germania, per la via la più breve possibile. Questa è tal condizione, che cambia completamente le condizioni di un’impresa, che si assuma di essere il mezzo intermedio fra l'Italia e l'Oriente. L’Italia non è più il campo dal quale trae il suo alimento, è solo il punto di partenza; ma alla sua volta è questione di prosperità per le sue vie ferrate, per i paesi percorsi, per i suoi porti. Tuttavolta non conviene illudersi che tale prosperità le debba venire pel solo fatto dell'apertura della comunicazione. Egli è egualmente indispensabile che il luogo, ove fa capo la strada presenti al commercio tutti i comodi, tutte le facilitazioni che trova altrove: senza di che il commercio prende altre vie quand’anche siano più lunghe. Lo Stato nostro si trova ora ad uno di questi passi, od esso sa approfittarne, e può attendersi una rigenerazione commerciale certa nell’Adriatico, o lascia sfuggire questa occasione, ed allora i profitti passano ai suoi rivali in commercio. E valga il vero, il Brenner ci apre il passo a que’ popoli che sono delle due grandi opere: il traforo del Moncenisio e il taglio dell’istmo di Suez, Venezia, Tip. Antonelli, 1867. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 55 manifatturieri per eccellenza, alla Svizzera orientale che già traffica per molti milioni coll’Oriente, ed il cui Governo conchiuse un trattato col Giappone prima di noi, non pel caso eventuale d'un commercio futuro, ma perchè ha già relazioni commerciali con quell’Impero, alla Germania meridionale grandissimo centro d'industria, e lo provano, le strade ferrate coi loro prodotti, figurando il trasporto delle merci per 2/3 del totale, mentre in Italia, all'opposto, figurano per un terzo e tutto assieme poi non presentano in media la metà rendita di quella della Germania. Mi par che questo basti per mostrare che cosa può attendersi da una simile comunicazione, quando le venga offerto il mezzo di progredire, ossia quando sappiasi attirare, a sé, quella corrente. Se non che, il pericolo della dilazione è assai più grave, che forse taluno possa credere, calcolando sulla brevità della via, quasi debba questa esser una garanzia, una ragione, che debba rendere meno dannosi i ritardi. S’ingannerebbe a partito, è precisamente quel punto che più importa illuminare e il perno della questione d’oggi. Il Brenner non è il solo passo che conduca al cuore della Germania, altri vi sono, ed altri si stanno costruendo. Trieste, la cui mirabile attività è superiore ad ogni elogio, studia ora ogni via, e con tutto il diritto, per ispingere quella strada già in costruzione, che da Villaco va a Linz e forma una parallela al Brenner, alla quale manca solo il tronco da Gorizia a Villaco. Non contenta di questo, pose in campo una linea che da Villaco andrebbe a Bressanone, con che si utilizzerebbe direttamente il Brenner, a beneficio di Trieste. Sono piani arditi, ma si videro già altri consimili, attuati. Se non che, per attuarli, è necessario il suo tempo. Ed è precisamente questo il tempo utile per Venezia, per i nostri porti, per le nostre linee ferrate; poiché, se, per brevità, si compenetra l’idea nella parola Venezia, non vuol dire che siano estranee le altre Provincie e lo Stato intero, il cui erario paga le enormi differenze fra i redditi garantiti ed i redditi reali delle strade ferrate. Ora il primo immediato effetto di saper attirare la corrente commerciale al porto di Venezia sarà precisamente in favor dell'erario diminuendo quell’enorme cifra. O l'Italia approfitta di quei tre o quattro anni che pur occorrono ancora perchè sia ultimata la linea Rodolfiana e la congiunzione fra Trieste e Villaco, ed in questo frattempo attira a sé la corrente elvetico-germanica, e l’avvenire dei suoi porti dell’Adriatico e la prosperità della strada ferrata che ha garantita è assicurato; o non sa approfittarne, e vedrà que’ vantaggi passare ai rivali: e qui mi giova riferire un brano, che trovai in uno scritto intitolato: Studii sul proseguimento della ferrovia Rodolfiana a Trieste, esposti nella seduta 1° maggio 1867 al Comitato municipale ferroviario Triestino. Esso incominciava colla proposizione verissima, che il più sollecito proseguimento della ferrovia Rodolfiana all’Adriatico, è urgentemente richiesto © Wolters Kluwer 56 ANGELO GALLO CARRABBA tanto dall’interesse generale della Monarchia Austriaca, quanto dall’interesse speciale del Porto di Trieste. Proseguendo nella sua dimostrazione, e venendo alla necessità di far presto: Conviene ricordare, ei dice, che le correnti commerciali sono come le valanghe; all’origine, qualunque accidente, anche un piccolo provvedimento, può deviarne il corso, mentre, quando sono formate, nessuna forza umana è capace di trattenerle. La citazione non manca certo d’opportunità, e, quand’anche essa non ripeta che una verità molto vecchia, è difficile che possa darsi occasione per richiamarla alla memoria con più ragione, specialmente collegandola all' introduzione di quel rapporto». Torelli, insomma, considera l’accordo con Azizieh strategico, e ben chiarisce quale sia la posta in gioco: la supremazia commerciale nell’Adriatico, contesa fra Venezia (cioè l’Italia) e Trieste (cioè l’Austria). Una posta in gioco che Torelli, con un esercizio di pragmatismo affatto insolito, ritiene prevalente su ogni eventuale formalismo, al punto da concedersi quasi una deroga di legalità, uno strappo alle regole, una corsia preferenziale: «Ella sig. Collega quale uomo pratico di affari, non può a meno di riconoscere come, se vuolsi arrivar presto allo scopo, sia d’uopo passar sopra a certe regolarità che non si dovrebbero pretermettere, ma è conviene fare la sua parte ai tempi ed alle circostanze. Siamo in epoca di transizione di leggi antiche, che emanavano da un Governo basato su altri principii del nostro, con leggi nuove, solo in parte attivate, ed il Veneto presenta sempre un’anomalia in confronto alle altre parti d’Italia, anomalia inevitabile in cambiamento così radicale, e che non può esser tolta che col tempo; il più grande incaglio ci viene precisamente dalla circostanza, che non è ancora attivata la legge sulle Camere di commercio, come già accennai. Dall'altra parte, il bisogno stringe, sono circostanze indipendenti da noi che ci impongono di afferrar l’occasione, o di fallire la meta. A questa considerazione conviene che gli uomini pratici sottopongano ogni altra. La cosa riesce, se Venezia trova l'appoggio delle altre Provincie; essa è formulata nettamente in una determinata cifra: o si vuol aiutarla e si conceda, o non si vuole e si neghi; ma qualunque condizione che si voglia imporre, qualunque passo preventivo che includa perdita di tempo, non si può più ammettere. Le Provincie conviene che affidino il mandato di condurre a termine nel miglior modo possibile un tale affare al Municipio di Venezia, che è il più interessato, poiché la città di Venezia colla Provincia, rappresentano colla loro quota poco meno della metà della sovvenzione; è quindi ovvio che vi porranno tutto l’interesse. Solo agendo dietro questi principii, e volendo anche le Provincie venire risolutamente ad una conclusione, vi si arriverà di certo a beneficio comune». La perorazione di Torelli a Zini non rimane senza risultati: pur con qualche mal di pancia e non poche perplessità sull’entità del sussidio da con- © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 57 cedere, poche settimane dopo, il 23 agosto, la Provincia di Padova delibera di partecipare alla spesa necessaria per stipulare la convenzione. Ciò nonostante, dopo una estenuante trattativa durata diversi mesi, l’accordo con Azizieh sfuma comunque(32) ed il sogno di Torelli di rinverdire il ruolo di Venezia nell’Adriatico e verso Levante rimane tale, lasciandoci solo la testimonianza di visione strategica di cui poteva essere capace la burocrazia dell’unificazione. 4.2. Giovanni Minghelli Vaini e la libertà religiosa L’ostilità anticlericale fu a lungo uno dei tratti distintivi delle classi dirigenti del nuovo Regno. Lo Stato Pontificio aveva ostacolato l’Unità d’Italia, resistendo fieramente al progetto di farne Roma capitale; ed era ben fresco il ricordo di tutte le volte in cui le truppe fedeli al Papa avevano combattuto armi in pugno contro il sogno risorgimentale, dall’abbattimento della Repubblica romana nel ’49 fino alla battaglia di Castelfidardo passando per la sanguinosa repressione del 20 giugno 1859 a Perugia. In questo contesto i primi prefetti del Regno (pienamente partecipi del clima del loro tempo, spesso legati alla massoneria, e non di rado con trascorse simpatie garibaldine) consideravano la libertà religiosa soprattutto come tutela dell’individuo rispetto alle indebite ingerenze delle autorità ecclesiastiche, viste come una sorta di contropotere in grado finanche, attraverso il proselitismo e la predicazione, di minare subdolamente i sentimenti patriottici della popolazione; solo l’affermarsi di uno spirito più genuinamente liberale spostò poi l’accento sulla dimensione più intima ed essenziale della scelta religiosa, e sulla necessità che la sua determinazione avvenisse al di fuori di ogni meccanismo di coercizione, violenza o indebito condizionamento. Questo atteggiamento è ben rappresentato da una curiosa vicenda accaduta a Torino nel 1879, protagonisti il prefetto Giovanni Minghelli Vaini ed una giovane ragazza ebrea di nome Annetta Bedarida. Il nome di Minghelli oggi dice poco ma ebbe un certo rilievo nella storia risorgimentale e unitaria. Nativo di Vignola, nel 1848 aveva fatto parte del governo provvisorio di Modena e Reggio Emilia presieduto da Giuseppe Malmusi(33); dopo l’annessione di Modena al Piemonte, fu eletto in Parla(32) La vicenda è brevemente ripercorsa nel volume su Venezia della collana Storia delle città italiane. Cfr. E. FRANZINA, Venezia, Roma-Bari, Laterza, 1986, 102-seguenti. (33) Sull’attività di Minghelli in quel periodo cfr. il saggio di L. DALZINI, I giornali politici modenesi durante il governo provvisorio del 1848, in Rassegna storica del Risorgimento, 1940, 11/12, 977-1012. Anche dopo l’elezione a deputato, Minghelli mantenne l’abitudine di scrivere sui giornali per informare i propri elettori circa l’attività che svolgeva in parlamento. © Wolters Kluwer 58 ANGELO GALLO CARRABBA mento(34) per il collegio di Bettola e San Secondo e vi rimase per due legislature, finché non fu fatto prefetto sotto il governo Nicotera. I rapporti fra Stato e Chiesa, unitamente alla questione carceraria ed al sistema dell’assistenza pubblica, costituirono i temi sui quali soffermò principalmente la sua attenzione di politico: usando un vocabolo di oggi, lo si potrebbe definire un laicista, che aveva fatto della separazione fra Stato e Chiesa e della laicità del potere secolare quasi una fede(35). Il caso che si vuole qui raccontare, riportato sulle biografie di don Bosco(36) e sulle cronache di alcuni giornali dell’epoca, risale al periodo in cui Minghelli è prefetto di Torino. Ruota attorno ad una giovinetta di origine ebrea di Nizza Monferrato, Annetta Bedarida, che si è accostata alla religione cattolica (non si sa quanto liberamente) ed ha in animo di farsi battezzare. Per realizzare il suo intento fugge di casa e si rifugia presso le suore salesiane di Valdocco; tuttavia la famiglia della giovane è alquanto contrariata ed un fratello, andato a trovarla, riesce ad ottenerne una dichiarazione scritta nella quale la ragazza chiede di poter uscire dalla residenza di Valdocco, come se vi fosse trattenuta contro la sua reale volontà. Il caso finisce su alcuni giornali (La Gazzetta del Popolo, L’Unità Cattolica) e sul tavolo delle autorità. Vi sono precedenti non proprio idilliaci fra i salesiani e le istituzioni del Regno: nel mese di giugno Minghelli Vaini ha dato esecuzione ad un decreto del Ministro dell’istruzione Coppino che ha ordinato la chiusura della scuola di don Bosco e nella stessa estate del ’79 il sottoprefetto di Acqui, Germano Magliani, è intervenuto a Nizza Monferrato (34) Sulla biografia e sull’attività parlamentare di Minghelli, si veda l’opera di A. MALATESTA, Ministri, Deputati e Senatori d’Italia dal 1848 al 1922, II, Roma, Tosi, 1946, 205. Cfr. anche A. DE GUBERNATIS, Dizionari biografici (2 voll.), Firenze 1879-Roma 1895; ed il classico di T. SARTI, Il Parlamento Subalpino e Italiano (2 voll.), Roma 1897-1898. (35) Il punto di vista di Minghelli si trova ampiamente esposto dapprima in un articolo pubblicato nel 1861 su una rivista di Torino (cfr. G. MINGHELLI VAINI, L’indipendenza della Chiesa, in Rivista Contemporanea, 1861, 161-185) e successivamente con la presentazione in parlamento di due proposte di legge che, partendo da premesse separatiste, proponevano l’adozione di una “Carta di libertà della Gerarchia e dell’Asse della Chiesa Cattolica, delle Opere Pie e della Pubblica Beneficenza”, in cui si prevedeva fra l’altro l’abolizione di ogni concordato o regia costituzione, l’elezione delle dignità ecclesiastiche da parte dei capifamiglia riuniti in assemblea convocata per decreto reale e l’attribuzione a comuni e province di ampie funzioni in materie ecclesiastiche. Entrambe le proposte (peraltro diffusamente illustrate da Minghelli anche nel testo del 1868 L’individuo, lo Stato e la società ovvero proposta d’un codice sull’assistenza pubblica, Firenze, Boncompagni e c., 1868, 823) vennero rigettate. Si veda sul punto F. MANZOTTI, Partiti e gruppi politici dal Risorgimento al Fascismo, Firenze, Le Monnier, 1973, 141-142. (36) G.B. LEMOYNE – A. AMADEI – E. CERIA, Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco, 19 voll., Società Editrice Internazionale, Torino 1898-1939. L’episodio, in particolare, è riportato nel quattordicesimo volume (cap. X), opera di Eugenio Ceria. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 59 per sincerarsi che non vi fossero costrizioni a carico di alcune giovani donne che stavano per prendere i voti(37). Il 3 settembre il prefetto Minghelli, accompagnato dal procuratore del Re, si presenta alla casa di Valdocco per parlare con la Bedarida. Vuol sincerarsi della verità, e della reale volontà della giovane di restare nella casa trovatale dalle suore. Non deve restare troppo convinto di quanto gli viene detto: insiste con la giovane affinché si trasferisca in un altro collegio, che si propone lui stesso di trovare, e lascia un presidio di guardie a sorvegliare la casa per impedire che Annetta possa essere portata altrove di nascosto. Il giorno dopo, la ragazza scrive a Minghelli: «La ringrazio della premura presasi a mio riguardo nel giorno di ieri; ma io le significo che voglio godere piena libertà di stare dove mi trovo, e invoco questo diritto a nome della legge. Quindi protesto di non voler uscire da questa casa: protesto ancora contro il modo che si usa con me in questi giorni con tenermi le guardie attorno, come se io fossi una prigioniera. Si vuol far credere che io sia una vittima dei preti e delle monache; ma sotto colore di libertà sono la vittima di ben altra gente. Quando più non mi piacesse di fermarmi in questa casa, saprei andarmene a cercare un'altra di mio gusto, senza che altri me la determini. Fui libera e capace di cercarmi questa, e sono tuttora capace, e voglio essere pienamente libera di uscirmene e cercarmene un'altra. Spero poi che V. S. Ill.ma vorrà dare tosto gli ordini opportuni che siano tolte le guardie d'intorno alla mia casa, perché mi sembra una vergogna trattare in questo modo una libera cittadina uscita già di minorità e colpevole di nulla». Lo stesso giorno, Annetta scrive anche una lunga lettera a L’Unità Cattolica(38) riferendo i particolari del colloquio avuto col prefetto e col procuratore; confessa di aver per un attimo pensato che pure Minghelli fosse ebreo (“mi fece molto specie l'udire dalla bocca del signor Prefetto di Torino l'augurio che egli fece alla mia famiglia, che io ritornassi in seno di lei per calmarne il dolore. In quell'istante mi venne in pensiero che ancor egli fosse un israelita”) e dà atto comunque di essere stata trattata da entrambi gli illustri visitatori “con molto bel garbo”. Ma Minghelli Vaini non desiste dal suo progetto: convincere la Bedarida a trasferirsi in un altro istituto dove possa maturare più liberamente e serenamente le sue decisioni senza alcun condizionamento. Il 7 settembre scrive ad Annetta: «Ho l'onore di parteciparLe che la Signora Direttrice dell'Istituto Ferraris, via S. Francesco di Paola N. 10 bis, La riceverà in qualunque ora Vostra (37) Anche questo episodio è riportato dal Ceria nel XIV volume delle Memorie biografiche, cit. (38) La lettera fu pubblicata integralmente sul Bollettino Salesiano, 1879/11. © Wolters Kluwer 60 ANGELO GALLO CARRABBA Signoria si presenti alla porta del suo appartamento, che è al primo piano, standovi sulla porta del pianerottolo della scala una placca in ottone con su scrittovi: Istituto Ferraris. Là Ella sarà padronissima affatto dei suoi pensieri: là la Direttrice ha l'ordine di secondarLa nei suoi desideri, anche accompagnarLa ad una villa che tiene in affitto essa Signora Direttrice verso la Madonna del Pilone, se a V. S. piacesse di pigliare un poco di aria di campagna. I genitori di Lei pagano tutte le spese giornaliere, che a V. S. piacesse di fare secondo le abitudini dell'agiata famiglia, alla quale appartiene. Veda bene, Signorina: o Le piaccia di restare nella religione dei suoi genitori o di farsi cattolica, Ella sarà padronissima di abbracciare quella risoluzione, che la Sua volontà Le suggerirà di preferire. Io metterò ogni impegno perché Ella nella rettitudine della sua coscienza abbia da dire a sé e agli altri che il Prefetto di Torino, o meglio il Governo del Re che egli rappresenta, non ha cercato, non ha voluto, non ha dato disposizione con altro scopo fuori che con quello di lasciarLa liberissima di seguire la Sua vocazione, o sia quella di farsi cattolica, o sia quella di restare nella religione in cui è nata. Qualunque cosa Le mancasse, in qualunque modo accadesse che il trattamento che riceverà nell'Istituto Ferraris Le paresse non conforme alle premesse suesposte, voglia farmelo sapere, e io darò ordini perché la Sua libertà amplissima sia tutelata». Quel che accade dopo sembra dar ragione al prefetto Minghelli: Annetta si trasferisce presso l’Istituto Ferraris e, dopo qualche giorno di permanenza, decide di ritornare nella casa di famiglia a Nizza Monferrato. Secondo i bollettini salesiani, la ragazza ha ceduto alle pressioni dei parenti e delle istituzioni ma non ha rinunciato all’idea di battezzarsi, bensì l’ha solo rinviata per non far morire di crepacuore il padre; dal punto di vista della famiglia e delle autorità, invece, quella di Annetta è la decisione di una giovane donna finalmente libera di determinare consapevolmente il proprio destino. Discordanze e dubbi valgono anche per il giudizio sull’operato di Minghelli: fu l’intervento autoritario e ribaldo di chi voleva soltanto compiacere una famiglia molto in vista, come adombrava la stampa cattolica; o non piuttosto l’ineccepibile esercizio di un dovere di tutela e garanzia delle libertà individuali, come sembrerebbero dimostrare i toni corretti ed equilibrati della lettera di Minghelli e le sue personali convinzioni in materia di rapporti fra Stato e Chiesa? La questione rimane aperta, senza peraltro dimenticare come l’episodio vada contestualizzato nella particolarità del momento storico(39) del dopo(39) Sui rapporti fra Stato e Chiesa dopo Porta Pia, si vedano i classici G. SPADOLINI, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Firenze, Vallecchi, 1954 (ripubblicata con aggiornamenti bibliografici da Mondadori nel 1994), A. C. JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia, dalla unificazione a Giovanni XXIII, Torino, Einaudi, 1965) e il più recente saggio S. ROMANO, Libera Chiesa. Libero Stato? Il Vaticano e l’Italia da Pio IX a Benedetto XVI, Mi- © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 61 Porta Pia. Sono gli anni del “non expedit” con cui nel ’74 Pio IX si esprime negativamente sulla partecipazione dei cattolici alla vita politica, ma anche della famosa legge Coppino che nel ’77 abolisce la figura del direttore spirituale nelle scuole secondarie e ridimensiona di fatto l’insegnamento religioso sin dal primo biennio delle elementari, o della legge Scialoja-Correnti che nel ’73 sopprime le facoltà di teologia nelle università statali. Anni di pessimi rapporti fra Regno e Chiesa, nei quali non deve stupire più di tanto che l’atto di un prefetto, pur motivato da una legittima preoccupazione, possa essere vissuto come un sopruso o una persecuzione. Oggi che il Ministero dell’Interno prova a riscoprire ed attualizzare la sua funzione storica di garante delle libertà civili, la lettera di Minghelli Vaini ci ricorda comunque come quella funzione arrivi da lontano. Ad una lettura non faziosa, essa stilla un’idea voltairiana della libertà di pensiero (secondo il principio “non condivido le tue idee ma darei la vita perché tu possa esprimerle”) e del primato dello Stato nella difesa dei diritti individuali. Una piccola pagina nella storia dell’amministrazione, ma a suo modo utile e significativa. 4.3. Giorgio Tamajo e il lavoro minorile Quando, nel febbraio 1880, il senatore Giorgio Tamajo viene nominato prefetto di Girgenti (l’odierna Agrigento), il lavoro minorile non fa ancora scandalo: in molti ritengono che, nelle famiglie più povere ed emarginate, sia senz’altro più educativo mandare un figlio a lavorare sin da bambino che non piuttosto abbandonarlo all’ozio, all’accattonaggio o al vagabondaggio; e non sono pochi a sostenere che dedicarsi al lavoro sin dai primi anni di vita tempri la salute del fisico ed abitui all’onestà dei guadagni sudati con la fatica. Tamajo, a quell’epoca, è personaggio già molto noto nel panorama politico del tempo: prima fiero oppositore del regime borbonico, e per questo costretto dal ’49 ad un lungo esilio a Malta dove sarà anche testimone di nozze di Francesco Crispi, poi deputato di fede massonica garibaldina nel collegio di Messina per sei legislature fino all’approdo in Senato nel 1879, componente della Commissione parlamentare d’inchiesta sui moti di Palermo del settembre 1866, medaglia d’oro al valor militare per la sua partecipazione alla campagna bellica del ’60-‘61. Avendo frequentato a lungo le aule del parlamento, conosce i problemi del nuovo Regno ed ha sufficiente sensibilità per intuirne l’evoluzione. lano, Longanesi, 2005. Sullo specifico aspetto dei rapporti fra autorità civile e religiosa in periferia, cfr. anche D. D’URSO, I prefetti e la Chiesa, Alessandria, 1995. © Wolters Kluwer 62 ANGELO GALLO CARRABBA Non più giovane (sessantatré anni), arriva in una provincia fra le più povere e difficili del Regno. Allora l’economia agrigentina vive essenzialmente dell’agricoltura e dell’estrazione dello zolfo; le ricche miniere, concentrate principalmente nell’area centro-orientale della provincia nel triangolo compreso fra Aragona, Favara e Racalmuto, alimentano anche l’attività e le prospettive emergenti di sviluppo dello scalo marittimo di Porto Empedocle, l’ex “Molo di Girgenti” da poco elevato a dignità di comune autonomo. Tamajo sa che le “zolfare” (all’epoca se ne contano una settantina in provincia) valgono oro per la derelitta economia del territorio agrigentino, ma non può fare a meno di ignorare le tristi notizie che arrivano da quelle miniere, notizie di crolli, di incidenti mortali sul lavoro, di vittime giovanissime, e soprattutto di sfruttamento minorile. La gerarchia di lavoro nelle zolfare ruota attorno ai “picconieri”, lavoratori a cottimo alle cui dipendenze operano i “carusi” (“ragazzini”)(40) che entrano in miniera prim’ancora di aver compiuto dieci anni e spesso non ne escono più. I carusi sono ricercati perché il loro fisico gracile ben si adatta a muoversi negli stretti cunicoli delle zolfare e perché vengono pagati pochissimo, al massimo ottantacinque centesimi al giorno, un terzo della paga media di uno zolfataro adulto; ben presto allenati a portare a spalla in superficie i pesanti sacchi contenenti il minerale estratto, il più delle volte ne pagano un altissimo prezzo in deformità ed invalidità permanenti. E’ una realtà di schiavitù e di orribile sfruttamento, e Tamajo decide di indagarla e portarla a conoscenza del resto del Paese. Commissiona uno studio ad un giovane professore di storia e geografia dell’Istituto tecnico di Girgenti: si chiama Vittorio Savorini(41), non ha ancora trent’anni, ed ha il (40) Nel dialetto agrigentino, il termine “carusu” sta ad indicare quella fascia d’età di chi non è più “picciliddru” (“bambino”) e non è ancora “picciottu” (“giovane”). L’etimologia è incerta e secondo taluni andrebbe fatta risalire al latino carens usu, cioè “mancante d’esperienza”, secondo altri al greco kàra (κάρα), che significa “testa (rasata)”, ciò in relazione alla tradizione di tenere i ragazzini con i capelli tagliati a zero o comunque molto corti. Quest’ultima etimologia appare preferibile, considerato il largo uso dello stesso termine “carusu” per indicare la tonsura dei frati o comunque qualsiasi capigliatura dal taglio molto corto. Cervellotica risulta invece la tesi che collega il termine “carusu” all’aggettivo latino cariosus (cariato, tarlato). (41) Figlio del letterato e patriota bolognese Luigi, attivo nei moti del 1848-’49 ed a lungo segretario del bimestrale Il Propugnatore, Vittorio Savorini (Bagnacavallo 1851 – Teramo 1925) si laureò nel 1875 all’Università di Bologna dove ebbe fra i suoi maestri Giosuè Carducci; per un breve periodo collaborò anche alla segreteria politica di Marco Minghetti. Dopo l’esperienza a Girgenti, nel 1881 si trasferì ad insegnare all’Istituto Tecnico di Teramo su invito del deputato locale Settimio Costantini, allora sottosegretario all’Istruzione; qui collaborò a lungo col Corriere Abruzzese e fu tra i fondatori nel 1886 della Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti e nel 1889 della Deputazione abruzzese di Storia Patria. Fu anche promotore e primo presidente della sezione teramana della Società Dante Alighieri, nonché preside dell’Istituto Tecnico di Teramo. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 63 grande vantaggio di essere romagnolo, cioè di potere portare allo studio ed all’osservazione del fenomeno tutto il distacco e l’oggettività di uno sguardo “altro”, terzo, non inquinato dalla conoscenza di luoghi, persone e cose. Il risultato del lavoro commissionato da Tamajo a Savorini è uno studio di notevole interesse storico e sociologico, pubblicato a Girgenti nel 1881 sotto il titolo di “Condizioni economiche e morali dei lavoratori delle miniere di zolfo e degli agricoltori della provincia di Girgenti”. Il quadro che scaturisce dall’indagine è scioccante: le settantadue miniere ispezionate danno lavoro a poco meno di quattromila persone, di cui ben 2626 (il 68%) sono “carusi”, minori la maggior parte dei quali ha età compresa fra i sette ed i dodici anni (ma con casi di avviamento in miniera già a sei anni). Savorini e Tamajo si prendono la briga di confrontare i dati del lavoro nelle zolfare con quelli della leva militare. Scoprono così che, nelle zone dove è maggiore la concentrazione di miniere (Favara, Aragona, Comitini, Racalmuto, Grotte), si rileva un’alta percentuale (oltre il 20%) di giovani riformati alla visita militare per mancanza di statura, rachitismo, deformità corporale o insufficienza toracica, laddove in altre aree la percentuale di riformati per gli stessi motivi non supera il 9%. Il nesso è evidente: i carichi pesantissimi cui i carusi sono sottoposti sin dalla tenera età, la malnutrizione, la scarsa ossigenazione e la limitata esposizione alla luce del sole determinano danni irreversibili allo sviluppo delle loro strutture muscolo-scheletriche. Il taglio dell’indagine, in effetti, sembra più di carattere scientificosanitario che non politico-sociale. La preoccupazione centrale che traspare dallo studio di Savorini non è tanto se debba ritenersi ammissibile un sistema di lavoro basato sullo sfruttamento dei minori e dei diseredati, quanto piuttosto se nelle miniere venga oltrepassato il limite del fisicamente tollerabile, se i carichi di lavoro siano proporzionati alle capacità dei lavoratori, se vi siano eccessi patogeni nelle modalità di organizzazione e suddivisione dei compiti all’interno delle miniere. Ciò non toglie che le risultanze oggettive dell’inchiesta pongano anche, inevitabilmente, scottanti interrogativi etici, politici e sociali che, in ultima analisi, attengono proprio ai profili del rispetto della dignità ed umanità dei lavoratori, e soprattutto dei minori. Ad esempio, l’indagine commissionata da Tamajo porta alla luce la riprovevole prassi del “soccorso morto”, così è chiamata la somma di denaro che il picconiere “anticipa” alla famiglia del caruso nel momento in cui il fanciullo viene avviato al lavoro in miniera. Un anticipo da cui verrà poi detratta, a scalare, la paga giornaliera spettante al minore, il quale quindi, il più delle volte, non vedrà mai un soldo per la fatica fatta, ma tutt’al più compensi in natura, la cosiddetta “spisa”. E’ un sistema inaccettabile e disumano, basato su una forma di vera e propria schiavitù che “compra” i carusi e li usa come animali da lavoro. I tempi, e la legislazione, non sono ancora maturi per tutelare efficacemente la © Wolters Kluwer 64 ANGELO GALLO CARRABBA dignità del lavoro e i diritti del fanciullo, così rimangono vani gli incoraggiamenti di Tamajo per una nuova società che, utilizzando tecniche estrattive più moderne, possa migliorare significativamente la condizione e lo stato di salute dei minatori; ma l’indagine ha comunque il merito di illuminare un angolo buio e vergognoso della condizione del lavoro minorile nel Paese, di affrontarlo con un approccio statistico-scientifico documentato e rigoroso, di sollevare un problema che, quale che sia l’angolazione da cui lo si guarda, appare etico prim’ancora che economico o sanitario. La denuncia dello “stato infelicissimo generato dal lavoro precoce e soverchio nelle zolfare” approda anche in Parlamento, cui Tamajo ha trasmesso i risultati dell’indagine, e suscita dibattiti, proposte di legge ed emendamenti, fra cui quelli del senatore mantovano Tullo Massarani(42) per limitare il lavoro notturno e “delle tenebre”. Non è un seme sterile, quello lanciato da Tamajo; nel 1881 i risultati dell’indagine sul lavoro nelle zolfare vengono ripresi con ampio risalto nel primo congresso della Società italiana d’igiene a Milano e riaccendono il dibattito politico sul tema della tutela del lavoro dei fanciulli, che di lì a pochi anni porterà all’approvazione della legge 11 febbraio 1886, n. 3657 (c.d. “legge Berti”). Seppure ancor timida, ed ampiamente depotenziata in corso di approvazione al fine di compiacere le lobbies degli industriali(43), la legge pone i primi, importanti limiti al lavoro minorile: l’età minima di nove anni per potere essere occupati in fabbrica, cava o miniera, il divieto di impiego oltre le sei ore lavorative giornaliere per i bambini di età inferiore a dodici anni, il divieto assoluto di occupazione in lavori insalubri per i minori di età inferiore a quindici anni. Per molti, una legge inutile ed ipocrita; per altri, un primo inizio di legislazione a tutela dei minori. Passerà ancora molto tempo prima che la piaga dello sfruttamento dei “carusi” cessi del tutto; ci vorranno decenni, morti, altri studi e altre ispezioni, ed anche un capolavoro della letteratura come “Ciaula scopre la luna”, di Luigi Pirandello(44); ma forse l’inizio della liberazione dei carusi ha inizio proprio da qui, dall’indagine voluta dal prefetto Tamajo. (42) Massarani (Mantova 1826 – 1905), deputato della Destra dal 1860 al 1867, senatore dal ’76, si distinse spesso per le sue battaglie parlamentari in favore delle fasce sociali più povere e deboli. (43) Cfr. F. RONCHI, La legge sulla tutela del lavoro dei fanciulli, in Rassegna Storica del Risorgimento, 1990, 3-seguenti. (44) Opera del 1907 contenuta all’interno della raccolta Novelle per un anno, narra di un caruso di nome Ciaula che lavora all’interno di una miniera di zolfo della Sicilia. La zolfara cui si ispirò Pirandello è stata individuata in quella denominata “Caccia Taci”, nel territorio del Comune di Aragona. Il termine ciaula, in dialetto siciliano, indica la cornacchia. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 4.4. 65 Bernardino Bianchi e la prevenzione sanitaria La figura di Bernardino Bianchi(45) attraversa oltre quarant’anni di storia dell’Ottocento all’insegna di un’unica vera fede, quella per la Patria. A sedici anni staffetta fra le barricate delle Cinque giornate milanesi; a ventiquattro, con lo pseudonimo di “Vattelapesca”, penna satirica dell’Uomo di Pietra(46) che fu cenacolo privilegiato dell’opposizione antiaustriaca; a fianco di Garibaldi come commissario del Re nel ’59 durante la liberazione delle province lombarde, poi collaboratore di fiducia di Giuseppe Pasolini presso le prefetture di Milano e di Venezia, e dal ’73 segretario e braccio destro di Marco Minghetti alla Presidenza del consiglio; prefetto(47) a 44 anni, prima a Udine, poi in molte altre province, fino ad approdare a Perugia nel 1889. La Prefettura dell’Umbria allora aveva giurisdizione su una delle circoscrizioni più estese, eterogenee ed impervie del paese. Essa ricomprendeva grossomodo i territori che attualmente compongono le province di Perugia e di Terni ed una buona parte di quella di Rieti; da nord a sud, l’asse longitudinale di attraversamento della provincia si estendeva per circa 200 km., il territorio era scarsamente infrastrutturato (come del resto, fatte le debite proporzioni, lo è ancor oggi) ed alcune aree dell’entroterra risultavano difficilmente accessibili. Sebbene fosse pontefice Leone XIII, quel Vincenzo Pecci che prima di diventare papa era stato arcivescovo di Perugia per trent’anni, l’Umbria di allora era un territorio fieramente anticlericale, che non aveva perdonato l’eccidio del 20 giugno 1859 ad opera delle truppe papaline guidate dal colonnello svizzero Schmidt; era anche un territorio dove fortissima era la presenza della massoneria, e proprio un massone, il sindaco radicale di Foligno Francesco Fazi, sarebbe stato di lì a pochi mesi il promotore del primo congresso dei comuni d’Italia, svoltosi nel gennaio 1892 a Perugia, vero atto di nascita del movimento municipalista nel nostro Paese. (45) Cfr. A. GALLO CARRABBA, Bernardino Bianchi, sesto prefetto dell’Umbria, in Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, CVIII, I-II, Perugia, 2011, 529-544. (46) “L’Uomo di Pietra” intraprese le pubblicazioni nel ’56, pochi mesi dopo “Il Pasquino” di Torino, e come quello prendeva il nome da una “statua parlante”, ora sita in corso Vittorio Emanuele ma precedentemente collocata in via San Pietro all’Orto, che i milanesi conoscono come “Omm de Preja” (uomo di pietra, appunto) o “Scior Carera” e che, analogamente al famoso Pasquino a Roma, durante la dominazione austriaca era diventato punto di riferimento per la diffusione di motti satirici ed altri messaggi salaci o licenziosi contro gli occupanti. Il nomignolo di Scior Carera dato dai milanesi derivava dall’iscrizione latina alla base della statua, che recita «Carere debet omni vitio qui in alterum dicere paratus est» (chi è pronto a parlare contro un altro dev’essere privo di colpa). Fondatori de L’Uomo di Pietra furono, oltre a Bianchi, anche Carlo Righetti (in arte Cletto Arrighi, storico leader della Scapigliatura milanese), Gottardo Cananeo, Giuseppe Guttièrez e Giovanni Moia. (47) Il fascicolo personale di Bianchi è consultabile presso l’Archivio Centrale di Stato a Roma, fondo Ministero dell’Interno, Direzione Generale Affari Generale e del Personale, fascicoli personali I serie, busta n. 816. © Wolters Kluwer 66 ANGELO GALLO CARRABBA Questa era l’Umbria che faceva da sfondo alla prefettura di Bernardino Bianchi, uomo cui le agiatezze del matrimonio con la contessina veneziana Catterina Michiel e le fatiche di una lunga carriera avevano forse un po’ smorzato il giovanile ardore. Su di lui, così si esprimevano le “note caratteristiche” rinvenute nelle carte dell’archivio Crispi(48): “Cultura molta, ingegno molto. Mente svegliata, animo integro e retto. Indole mite e forse per questo, se pure non erro, mancante di quell’energia che serve a dare un impulso franco e robusto ad ogni ramo di servizio. Le censure mossegli a Ferrara da qualche giornale non hanno senso comune. Sostiene la sua posizione con decoro e sa farsi amare e stimare. L’esperienza già fatta e le sue qualità lo designano per qualunque prova di second’ordine”. Un uomo probo ed amabile, dunque, seppure non più animato dal furore entusiasta della gioventù; e tuttavia anche un funzionario molto attento ai problemi di un territorio che, nelle sue strutture economiche e sociali, presentava ancora una fortissima connotazione agraria. Scorrendo le carte ed i documenti ufficiali del periodo perugino di Bianchi, al di là dei passaggi storicamente più rimarchevoli (lo scioglimento del Consiglio comunale di Terni a gennaio 1890, la visita del re Umberto nel settembre dello stesso anno), colpisce la quantità di disposizioni relative a problemi dell’igiene e della sanità, dall’assistenza ostetrica nei comuni(49) alle vaccinazioni obbligatorie, dalla distribuzione della linfa antitubercolare Koch all’approvvigionamento dei dispensari celtici, dal regolamento per la distruzione delle cavallette migratorie alla disinfezione dei carri bestiame; atti certo da contestualizzare nella realtà storica del tempo, eppure rivelatori dell’attivismo solerte della prefettura nel campo del miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini. Ne riportiamo qui uno, che si riferisce alla pratica, allora molto diffusa, del cosiddetto “baliatico mercenario”. L’allattamento a pagamento costituiva una fonte di guadagno per molte famiglie contadine, specie nei pressi delle città maggiori, e d’altronde non erano poche le madri di classe medio-alta che, anche potendo allattare da sé i propri figli, preferivano la mise en nourrice: esisteva un vasto mercato del baliatico, con tanto di tariffe (legate anche all’aspetto ed alla costituzione fisica della nutrice), di mediatrici o di vere e proprie agenzie di collocamento. Il baliatico, anche nella sua declinazione gratuita e solidale, era del resto una triste necessità sociale, in quanto a quel tempo oltre il 7% delle nascite registrate riguardava trovatelli, figli ille- (48) Roma, Archivio Centrale di Stato, serie Ministero Interno, Carte Crispi, fascicoli 225-226. (49) Con circolare del 27 luglio 1891 Bianchi si doleva della perdurante incidenza di casi di “febbre puerperale” ed a tal fine rinnovava ai sindaci istruzioni e raccomandazioni affinché l’assistenza ostetrica alle partorienti venisse prestata da persone munite di regolare diploma e non da “empiriche”. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 67 gittimi o di genitori ignoti che erano stati abbandonati nelle ruote degli esposti o in altro luogo pubblico(50). Il baliatico, tuttavia, non era privo di rischi, ed uno di questi era quello di contrarre la temutissima sifilide. Molti dei bambini da allattare, infatti, erano affetti da lue congenita, che trasmettevano alla nutrice, ma sia pure più raramente accadeva anche il contrario, e cioè che il bambino contraesse la malattia da una balia infetta. Proprio al fine di circoscrivere questa forma di contagio, quello da baliatico era uno dei casi di infezione di sifilide per i quali sussisteva l’obbligo di denuncia sanitaria; ma una disciplina organica complessiva della materia non vi era ancora, e sarebbe arrivata solo molti anni dopo, con il regolamento approvato con il decreto luogotenenziale 4 agosto 1918, n. 1395, e con le successive disposizioni per l’esercizio del baliatico contenute nel D.P.C.M. 6 gennaio 1919. Nella specifica realtà umbra, oltretutto, il problema della sifilide da baliatico si inseriva in un contesto epidemiologico estremamente preoccupante, in cui l’incidenza delle malattie veneree rimaneva assai elevata. In un volume(51) pubblicato sul finire del 1890, lo statistico Giuseppe Tammeo aveva evidenziato come i dati ufficiali dal 1880 al 1883 indicassero in Umbria il tasso di morti per sifilide più alto di tutta l’Italia, con percentuali fra l’1.21.6% sul totale dei decessi, mentre nello stesso periodo in Piemonte non superava lo 0.3%, in Lombardia lo 0.6%, in Campania lo 0.5%, in Sardegna lo 0.2%; anche i dati dei malati di sifilide ricoverati nei manicomi o curati negli ospedali confermavano il triste primato. “Perché poi un così gran numero di sifilitici nell’Umbria, mentre nel Lazio è così scarso? Proprio nell’Umbria dove il contingente della prostituzione è lievissimo, mentre nel Lazio è elevatissimo?”, si chiedeva Tammeo, offrendosi subito dopo questa risposta: “Non si può fare a meno di ammettere che nell’Umbria verde si nascondono molte meretrici clandestine, o ragazze di facili amori, all’ombra discreta dei boschi montani. Il veleno pestifero, che circola fra questa bella e forte gente dell’Umbria, minaccia di guastarne la razza”. Ma Bianchi dovette probabilmente ritenere che la lettura dei dati proposta da Tammeo sottovalutasse l’incidenza del contagio da baliatico, e che su quel fronte si dovesse frattanto intervenire più efficacemente. Su input del Ministero dell’Interno, ripropose all’attenzione delle autorità competenti una serie di istruzioni ed indicazioni operative diramate alcu(50) Per quanto riguarda il fenomeno in Umbria, cfr. L. TITTARELLI, Assistenza agli esposti a Perugia negli anni successivi all’Unità, in Corrispondenze dall’Ottocento, 2007, 1, 12-segg. (51) G. TAMMEO, La prostituzione: saggio di statistica morale, Torino, Roux, 1890. Allievo del De Sanctis, Tammeo (Trinitapoli 1851 – Napoli 1897) era docente di statistica all’Università di Napoli. Fra le altre sue opere: La statistica e i problemi sociali, Roma, Tip. Botta, 1879; I contratti agrari e la crisi pugliese, Napoli, Pierro, 1890; ed il trattato La statistica, Torino, Roux Frassati & co., 1896. © Wolters Kluwer 68 ANGELO GALLO CARRABBA ni anni prima e che, evidentemente, si consideravano in parte o in tutto disattese. La circolare di Bianchi di cui si riporta uno stralcio(52), indirizzata ai sindaci ed ai presidenti delle congregazioni di carità, reca la data del 25 febbraio 1891 e ha per oggetto “disposizioni per impedire la diffusione della sifilide col baliatico”. «(…) si ripetono non di rado casi di diffusione di infezione sifilitica con carattere epidemico, dipendente dall’allattamento di bambini affetti da tale malattia. Il (…) Ministero si occupò di questo grave fatto quando, con la circolare 5 novembre 1887, n. 20173-11, diramò alcune istruzioni dirette appunto ad impedire la diffusione della sifilide col baliatico affidato da Istituti di infanzia abbandonata. Sebbene tali istruzioni siano state a suo tempo inserite nel Foglio periodico di questa Prefettura, pure reputo opportuno di riassumerle nuovamente con la presente circolare. E’ d’uopo pertanto: 1° Che da tutti gli istituti, che hanno lo scopo di provvedere all’allattamento dei bambini, si esiga, per l’accettazione dei medesimi in quegli Stabilimenti, un certificato dichiarante se la madre sia o no affetta da sifilide; 2° Che ogni volta vi sia certezza o anche dubbio sull’infezione sifilitica della madre o del bambino, si faccia, possibilmente, allattare questo da quella per curarli entrambi ad un tempo, oppure si pratichi l’allattamento artificiale del bambino nell’Istituto medesimo; 3° Che ciascuna nutrice debba presentarsi col bambino ad essa affidato, ogni 15 giorni, al medico del Comune incaricato del servizio di beneficenza per averne rilasciata l’attestazione di non offrire né essa né il bambino segni di affezione sifilitica, senza di che non le venga pagato il salario ad essa dovuto; 4° Che appena siano riconosciute manifestazioni di sifilide nel bambino e non ancora nella nutrice, quello sia inviato subito all’Istituto di provenienza, perché provveda al suo allattamento con mezzi artificiali; che se invece si riconosca la sifilide nella balia e nel bambino ad un tempo, entrambi siano inviati prontamente all’ospedale più vicino, per essere curati a spese dell’Istituto cui appartiene il bambino». Beninteso, atti simili o del tutto analoghi a quello di Bianchi si trovano nei fondi d’archivio di ogni prefettura; probabilmente non vi fu prefetto in Italia che non emanò un’identica circolare. Perché, anche se oggi si tende a dimenti(52) Pubblicata in Foglio Periodico della Regia Prefettura dell’Umbria, febbraio 1891, 2ª quindicina, 99-100. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 69 carlo, l’igiene e la sanità pubblica costituivano materie istituzionalmente rimesse alla competenza delle prefettura e perché questi erano i drammatici problemi con i quali si dovevano misurare i funzionari del tempo. Molto si potrebbe dire e scrivere su quale fu l’impegno e l’attenzione che i prefetti del Regno riservarono alle emergenze sanitarie del paese: dalla prevenzione della sifilide agli studi sulla malaria(53), dalla cura della tubercolosi ai provvedimenti adottati durante l’epidemia di colera del 1884-’85, dalla pellagra dei contadini(54) alla mortalità infantile per difterite, non vi fu piaga o epidemia che non vide i prefetti in prima linea nel tentativo di arginare e contenere problemi enormi con i limitati mezzi a disposizione della sanità pre-antibiotica dell’epoca; e più ancora fecero sul terreno della prevenzione, del miglioramento delle condizioni di igiene e salubrità dei territori, dell’educazione alimentare. A tutte le latitudini, quella generazione di servitori dello Stato si adoperò per elevare il livello di dignità e di benessere della popolazione, ed anche quello fu un modo per unificare l’Italia, favorendo politiche della salute e condizioni di vita più omogenee su tutto il territorio nazionale. 4.5. Andrea Calenda di Tavani e la dedizione sacrificale “Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”, dice Caifa al sinedrio che deve giudicare Gesù. E diciannove secoli dopo Sigmund Freud parla del “sacrificio sostitutivo” citando un racconto popolare ungherese nel quale un borgomastro, appena si accorge che per la morte di una ragazza sta per mandare sul patibolo l’unico fabbro di tutto il paese, decide di sorteggiare e far giustiziare al suo posto un sarto, in modo che la sete di giustizia del popolo sia placata, ma il paese possa continuare ad avere i suoi attrezzi(55). (53) Particolarmente significativo il complessivo contributo che le relazioni e le statistiche dei prefetti diedero alla pubblicazione nel 1882 della Carta della malaria d’Italia, fortemente voluta da Luigi Torelli, il quale presiedeva la commissione del Senato che ne aveva promosso la realizzazione. Torelli illustrò il lavoro con uno studio statistico e sociologico che attingeva anche alle esperienze maturate nella sua carriera di prefetto sin da quando si trovava a Pisa (cfr. L. TORELLI, La malaria d’Italia. Memoria popolare, Roma, Stabilimento tipografico italiano, 1883). Quanto alle singole province, di rilievo soprattutto gli atti prodotti dalle prefetture di Grosseto (ove il problema della malaria era molto diffuso e sentito intorno ad Orbetello) e di Ferrara (specie nel periodo in cui fu prefetto Giacinto Scelsi). (54) Molto attivo sul fenomeno della diffusione della pellagra nelle zone rurali fu Achille Basile, prefetto di Milano dal 1880 al 1890. Il Basile nominò un’apposita commissione d’inchiesta i cui risultati furono pubblicati in volume con il titolo Condizioni sanitarie della provincia di Milano. Atti della Commissione d’inchiesta nominata dal prefetto di Milano comm. Achille Basile per le indagini sulla pellagra, Milano, Tip. del riformatorio patronato, 1885, 185. (55) "Un racconto popolare di origine ungherese riferisce che in un villaggio venne trovata uccisa una ragazza. Le indagini condussero ad incolpare il fabbro ferraio, il quale confessò © Wolters Kluwer 70 ANGELO GALLO CARRABBA L’idea di sacrificare un innocente per salvaguardare l’ordine sociale attraversa tutta la storia dell’umanità. E’ la regola del capro espiatorio, o per dirla alla francese del “bouc émissaire”: un colto antropologo come René Girard vi ha dedicato uno dei suoi saggi più celebri(56), e uno scrittore di successo come Daniel Pennac l’ha trasformata in straordinaria invenzione letteraria attraverso il personaggio di Benjamin Malaussène, di professione capro espiatorio(57). I francesi, che se ne intendono, hanno presto applicato la regola anche alla loro celebrata amministrazione: “le préfet est le fusible”, sono soliti dire, cioè il prefetto è il “fusibile”, destinato a saltare per evitare danni peggiori all’impianto generale. Ed in Italia le cose non sono tanto diverse, come dimostrano gli studi del sociologo delle organizzazioni Giuseppe Bonazzi, che in un classico di trent’anni fa(58) introduce la metafora della “strategia del polpo”: come il polpo, sentendosi minacciato, si ritira nella tana e allunga un tentacolo verso il predatore affinché se ne cibi e risparmi il resto dell'animale, così il gruppo di potere decide di sacrificare una o più “propaggini” per garantire la salvezza di se stesso. La creazione di un capro espiatorio diventa così “il prezzo sostitutivo che un gruppo omogeneo di potere offre nel quadro di una strategia volta a superare la crisi con il minor danno possibile”. In centocinquant’anni di storia dell’Italia unita, i casi di prefetti “capri espiatori” sono così numerosi che si può ben dire che la vocazione al sacrificio sostitutivo sia divenuta consustanziale all’incarico: chi diventa prefetto sa che un giorno il governo potrà chiedergli di pagare colpe non sue pur di salvaguardare l’equilibrio del sistema; e nell’accettazione di questa prospettiva non c’è solo calcolo utilitaristico o patto col diavolo, c’è anche molta di essere l'assassino. I vecchi del villaggio, radunati in tribunale, lo condannarono a morte e decretarono che venisse impiccato sulla pubblica piazza. Ma alla vigilia dell'esecuzione il Borgomastro si accorse che l'assassino era anche l'unico fabbro della comunità, che nessuno era in grado di sostituirlo e che pertanto a condanna eseguita la comunità sarebbe ben presto rimasta senza attrezzi da lavoro. Il Borgomastro convenne altresì che nel villaggio vivevano due sarti e che uno solo sarebbe stato sufficiente per i bisogni della popolazione. Decise quindi di sorteggiare un sarto che l'indomani sarebbe stato impiccato al posto del fabbro ferraio. Così avvenne; la comunità continuò ad avere aratri, chiavi e coltelli ed al contempo appagò, grazie al sacrificio sostitutivo, la sua attesa di giustizia riparatrice del misfatto" (S. FREUD, Il motto di spirito, 1905, ed. italiana con saggio introduttivo di F. ORLANDO, Torino, Bollati Boringhieri, 1975). (56) R. GIRARD, Il capro espiatorio, Milano, Adelphi, 1987. (57) Il personaggio di Malaussène compare in cinque romanzi (Il paradiso degli orchi, La fata carabina, La prosivendola, Signor Malaussène, La passione secondo Thérèse) e due racconti lunghi, pubblicati con il titolo Ultime notizie dalla famiglia, tutti editi in Italia da Feltrinelli. (58) G. BONAZZI, Colpa e potere. Sull’uso politico del capro espiatorio, Bologna, il Mulino, 1983. Cfr. anche G. BONAZZI, Per una sociologia del capro espiatorio nelle organizzazioni complesse, in Studi organizzativi, X, 3, Milano, Franco Angeli, 1978, 3-49. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 71 etica del servizio, la consapevolezza che la difesa di un interesse generale più ampio può ben giustificare il sacrificio di una posizione individuale. Un grande prefetto del XX secolo, Giovanni Fortunati, nel 1985(59) ricordava: “Chi conosce la storia e la teoria del capro espiatorio sa che da parte del Palazzo si fa ricorso al capro espiatorio per esorcizzare la responsabilità del Palazzo; si offre in pasto qualcuno che non è il vero responsabile (altrimenti non sarebbe un capro espiatorio, sarebbe un responsabile), ma che ha sufficiente autorità, non solo formale, e sufficiente credibilità perché l’opinione pubblica possa credere alla sua responsabilità. Questo è stato fatto del prefetto…”. Diversi anni dopo, nel 2002, un altro prefetto di epoca più recente, Carlo Mosca, dichiarava: “Non è necessariamente detto che il nuovo prefetto sia più bravo del suo predecessore però c’è bisogno di questo meccanismo di sicurezza, del fusibile, appunto, che riattiva la fiducia dei cittadini nelle istituzioni (…) La logica è quella della vittima sacrificale. Però, in caso di avvicendamento, il governo non dà necessariamente un giudizio negativo: «Ti sacrifico e poi ti recupero per un altro incarico». Questo succede, a meno che non si verifichino responsabilità conclamate”.(60) Mosca e Fortunati ben conoscevano la storia dei prefetti, dei tanti prefetti immolati sull’altare della ragion di Stato, e sicuramente conoscevano anche uno specifico episodio risalente al 1893, protagonista l’allora prefetto di Roma, Andrea Calenda di Tavani. Era, il senatore Calenda, uno dei funzionari più capaci, preparati ed esperti della sua generazione; prefetto da trent’anni, ovunque apprezzato e stimato: ma ciò non lo mise al riparo dalla regola del sacrificio sostitutivo. Accadde all’epoca dei fatti di Aigues Mortes(61), la località della Camargue nella quale il 17 agosto 1893 un numero imprecisato di lavoratori italiani (chi dice nove, chi cinquanta, chi addirittura quattrocento) venne trucidato dall’insofferenza xenofoba della popolazione locale, organizzatasi in vere e proprie spedizioni punitive contro gli odiati stranieri. Una crisi gravissima delle relazioni italo-francesi, proprio nel momento in cui il Presidente del consiglio dell’epoca, Giolitti, stava cercando di ricucire i rapporti con il governo d’Oltralpe per porre fine alle tensioni di carattere politico e commerciale che si erano manifestate fra i due paesi. (59) Il discorso, pronunciato a Punta Ala ad un convegno dell’associazione professionale dei prefetti (Anfaci)di cui Fortunati fu promotore, è citato in L. MAURIELLO, ANFACI, vent’anni dopo (II), in Amministrazione Pubblica, 1998, 4. (60) Cfr. Carlo Mosca: Siamo il fusibile da far saltare e poi recuperare, intervista raccolta da D. MARTIRANO e pubblicata sul Corriere della Sera del 24 giugno 2002. (61) Per una ricostruzione del sanguinoso episodio si veda il recente volume di E. BARNABÀ, Morte agli italiani! Il massacro di Aigues Mortes 1893, con prefazione di G.A. STELLA e introduzione di A. NATTA, Castelgandolfo, Infinito Edizioni, 2010. © Wolters Kluwer 72 ANGELO GALLO CARRABBA La notizia dei fatti di Aigues Mortes giunse in Italia provocando dolore, sdegno ed un’ondata di sentimenti antifrancesi. Fra il 19 ed il 21 agosto, tumulti e disordini si verificarono in varie città italiane presso i luoghi-simbolo della presenza transalpina: a Roma fu dato l’assalto a palazzo Farnese, sede dell’ambasciata di Francia, furono abbattuti gli stemmi pontifici del seminario francese di Santa Chiara, fu assediata l’Accademia di Francia; a ristabilire l’ordine intervenne l’esercito. La tensione era altissima: vi furono voci isolate che ipotizzarono persino un’imminente guerra fra i due paesi. Le parti dovevano concedersi qualcosa, circoscrivere la crisi, disinnescarla per tempo prima che la situazione potesse sfuggire di mano ed innescare effetti imprevedibili. Scrive Bonazzi che “il risultato ottimale di una punizione vicaria si raggiunge allorché il capro espiatorio si trova nel punto di intersezione tra il livello gerarchico più basso (più lontano) dal vertice del gruppo omogeneo di potere ed il grado minimo sufficiente di credibilità sociale”. La sera del 20 agosto 1893, assente Giolitti, toccò al sottosegretario all’Interno, Pietro Rosano, prendere una decisione estrema che placasse le rimostranze delle autorità francesi: sospendere a tempo indeterminato dalle sue funzioni il Calenda, “reo” di non aver saputo prevenire i tumulti e di aver così esposto l’Italia ad una gravissima crisi diplomatica. La reggenza della prefettura fu temporaneamente affidata ad un oscuro direttore di ne(62), fu nominata una commissione d’inchiesta presieduta dal senatore Tancredi Canonico e, oltre a Calenda, furono sollevati dall’incarico anche due ispettori di polizia, Giorgio Sandri, che faceva funzioni di questore, ed Eugenio Maynetti, delegato nella cui circoscrizione ricadeva piazza Farnese(63). La Francia, da parte sua, concesse anch’essa qualcosa alle proteste diplomatiche italiane: fu destituito il maire di Aigues Mortes, Marius Terras, colpevole di non aver saputo contenere le manifestazioni di odio ed intolleranza verso i lavoratori italiani delle saline. La crisi rientrò, con qualche esito sul clima politico (il ministero Giolitti, travolto dallo scandalo della Banca Romana, di lì a pochi mesi cedette il passo al ritorno di Crispi, più apertamente schierato per una politica estera triplicista) ma con una sostanziale tenuta dell’equilibrio complessivo del sistema, tale da scongiurare il precipitare degli eventi. Ma vi era stata realmente una qualche responsabilità o negligenza di Calenda? E’ un interrogativo che la ricerca storica ha continuato a porsi anche (62) Giuseppe Ruspaggiari (Reggio Emilia 1847 – Frascati 1907), che negli anni successivi sarebbe poi stato prefetto di Caserta, Ascoli Piceno, Cagliari e Padova. (63) Analoga sorte toccò, nelle settimane successive ai tafferugli, al prefetto di Napoli, il senatore Carmine Senise, collocato a disposizione in seguito alle risultanze della Commissione d’inchiesta. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 73 di recente(64). L’eventualità, ed anzi la probabilità, di manifestazioni d’ostilità antifrancese era stata valutata, gli “obiettivi sensibili” correttamente individuati e presidiati; e se non riuscì possibile difenderli efficacemente fu per il numero soverchiante dei dimostranti rispetto alle forze limitate di cui si disponeva per la loro vigilanza(65). Se peccato vi fu, probabilmente fu di sottovalutazione. Che Calenda di Tavani fosse stato un capro espiatorio, apparve subito chiaro ai più; i giornali scrissero che “pagò il fio di colpe non sue, e nell’immeritato castigo si portò nobilmente”; non pochi criticarono la presunta debolezza del governo Giolitti verso i francesi. Da parte sua, il vecchio prefetto, che in vita sua ne aveva viste tante, accettò la destituzione con una certa compostezza: l’unica ironia che si concesse fu quella di accennare alla “teoria degli equivalenti politici”, per la quale un sindaco francese valeva evidentemente quanto un prefetto ed un questore italiani. Contrariamente a quanto teorizzato dal suo lontano successore Carlo Mosca, Calenda di Tavani non fu mai più “recuperato”: collocato in quiescenza, quella di Roma fu l’ultima prefettura delle quali ebbe responsabilità. Ma il suo sacrificio valse, forse, la difesa della pace fra Italia e Francia. 5. Conclusioni Quando Carlo Cadorna lamentava in Senato che il prefetto aveva “tutto, meno i tre quarti del tutto”, denunciava un’ambiguità ed una contraddizione, quelle di aver voluto mettere al centro del sistema amministrativo periferico un organo cui, tuttavia, non si era disposti a concedere la stessa ampiezza di competenze e pienezza di poteri riconosciute all’omologo francese. Il modello centralista napoleonico ne risultava in qualche modo mutilato e stravolto(66): se il prefetto francese rappresentava un “plenipotenziario” del governo in provincia, il prefetto italiano somigliava più che altro ad un “pleniresponsabile”, pronto ad essere sacrificato in caso di criticità, ma non altrettanto forte ed autorevole del collega d’Oltralpe. (64) Cfr. D. D’URSO, La gestione dell’ordine pubblico dopo i fatti di Aigues Mortes, in Italia Contemporanea, fasc. 260, Milano, Franco Angeli, 2010, 515-525. (65) Si veda la deposizione resa da Calenda davanti alla Commissione Canonico, pubblicata con il titolo L’ex prefetto di Roma innanzi alla Commissione d’inchiesta (Napoli, Tip. Giannini, 1893, 44). (66) Come ha osservato Raffaele Romanelli “fin dall’inizio il sistema prefettizio era apparso intrinsecamente debole per certe sue caratteristiche che lo differenziano dal modello francese delle ‘prefetture integrate’, riducendone l’efficacia e le valenze dirigistiche. Il prefetto italiano esercitava infatti un controllo sulle amministrazioni locali, ma non sugli uffici periferici dell’amministrazione centrale come avveniva in Francia” (R. ROMANELLI, cit., 226). © Wolters Kluwer 74 ANGELO GALLO CARRABBA Diventato ministro dell’Interno nel 1868, Cadorna provò a porre rimedio a quell’anomalia presentando una proposta di legge che tendeva a concentrare nel prefetto tutti i poteri dell’amministrazione dello Stato in provincia; tuttavia non solo quella proposta non fu accolta, ma anzi il legislatore si orientò ben presto in senso diametralmente opposto con l’approvazione della legge Cambray-Digny del 1869 che, istituendo in ogni provincia le Intendenze di Finanza, avviava di fatto la multicanalizzazione del rapporto centroperiferia, indebolendo ulteriormente la centralità istituzionale del prefetto, non più unico terminale di governo sul territorio. A questa incompiutezza, i prefetti del Regno – organi a competenza mutilata – supplirono attraverso un accresciuto ricorso alla leva dell’autorità morale, che consentiva di esercitare una funzione di stimolo ed impulso anche laddove l’ordinamento non apprestava loro poteri e competenze dirette. La loro autorevolezza aveva molteplici matrici: il prestigio del munus di cui erano investiti, che implicava un richiamo automatico ed ineludibile al valore simbolico dell’unità nazionale; ma anche le loro storie personali, la ricchezza delle esperienze e dei meriti maturati sul campo, la capacità di saper costantemente trasmettere un’idea di responsabilità rispetto ad un grande progetto di costruzione nazionale ancora da completare. Non sempre quei prefetti seppero centrare i loro obiettivi immediati: Torelli non riuscì a rilanciare la potenza mercantile di Venezia nell’Adriatico, Tamajo non poté far molto per far cessare la strage di carusi nelle miniere di zolfo, e tanto meno Bianchi poteva sconfiggere la sifilide. Ma ciascuno di loro, anche nei fallimenti, seppe gettare il seme di un’etica della funzione pubblica e di una coscienza nazionale che avrebbe fatto da bussola ad intere generazioni di funzionari e impiegati pubblici, accompagnando il Paese nella lunga stagione di crescita sociale ed economica culminata con il periodo giolittiano. Perché sarà forse ben vero, come diceva Cadorna, che a quei prefetti mancavano “i tre quarti del tutto”, e cioè poteri, competenze, personale, apparati e mezzi adeguati a quella funzione di rappresentanza generale di cui li si voleva, a parole, investiti; ma è pur vero che si fecero bastare quel che avevano. Per parafrasare le parole del Bardari, supplirono con la “potenza morale” ai limiti della loro “potenza legale”; seppero trarre dal proprio vissuto personale la forza e la credibilità per rendersi “esempio”; ed ammantarono questo modello di dedizione alla Patria di tutto ciò che serviva per renderlo più lodevole e rispettabile, dalla disponibilità ai continui trasferimenti all’ubbidienza sacrificale al governo. Soprattutto, nella gran parte seppero essere “funzionari politici” nel senso più nobile e meno deteriore del termine: cioè non perché fossero asserviti agli interessi di una fazione piuttosto che ad un’altra, bensì perché sapevano portare nel loro lavoro quotidiano un’idea di polis, un’etica della responsabi- © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 75 lità, una continua ricerca del bene collettivo, sostenuta da una capacità di analisi e di progetto che permetteva loro di dialogare da pari a pari con quel ceto ministeriale e parlamentare di cui, in molti casi, erano già stati parte. Quella generazione di prefetti, inutile negarlo, giganteggia ancor di più nel paragone con il presente. I prefetti di oggi non sono che la pallida imitazione di quella potente classe dirigente: stretti fra il potere delle autonomie locali ed il regionalismo centralista, ancor più marginalizzati nell’esercizio di competenze dirette ormai residuali, nominati in base a discutibili logiche di merito da una politica sempre più debole e poco credibile, gli odierni rappresentanti del Governo stentano a trovare un senso condiviso alla loro funzione. Se la loro “potenza legale” è ormai minima e ben poca cosa anche rispetto alla mutilata competenza dei prefetti unitari, pure sulla “potenza morale” ci sarebbe da dire: oggetto di periodiche proposte di abolizione o ridimensionamento, non più percepiti come “punto fermo” della geografia istituzionale ed amministrativa del Paese, i prefetti trovano ancora il loro principale sostegno nei periodici ed appassionati omaggi alla loro figura che ne sono stati fatti di recente dai Capi dello Stato, prima Ciampi e poi Napolitano, che hanno così inteso ribadirne il ruolo insostituibile di garanti della coesione sociale. Eppure, proprio volgendosi a riconsiderare quella storia di centocinquant’anni fa, si potrebbe trovare forse una strada capace di restituire dignità e funzione non solo ai prefetti, bensì più in generale a tutta la burocrazia statale. Rimettere al centro della propria missione un’ “etica nazionale”, un progetto di palingenesi civile e morale del Paese, un’idea di amministrazione al servizio di un bene pubblico non più astrattamente inteso, ma concretamente misurato sui bisogni e le aspettative del Paese reale. Per ridare fiato ed orizzonte alla classe dirigente, insomma, forse sarebbe bene lasciare per un attimo in secondo piano gli aziendalismi, le managerialità, i parametri produttivistici tanto cari ai nuovi modelli di funzione pubblica, e cercare di riportare al centro dell’attenzione lo spessore umano e personale dei dirigenti cui si affidano quegli obiettivi: i loro vissuti, le loro storie, i loro valori, i loro meriti. La moralità, cioè la complessiva adeguatezza ad adempiere credibilmente ad una funzione di pubblico interesse. Come ha scritto Carlo Mosca(67), che del moderno corpo prefettizio è stato voce autorevole ed illuminata, quella dei prefetti è “una cultura che pone alla sua base l’etica intesa come una morale laica fondata su cose che valgono”. Questa è la lezione che si può trarre dallo studio della storia della pubblica amministrazione post-unitaria, e questo è il contributo vero che i prefetti seppero dare al Paese in costruzione. Essi indicarono ad una nazione an(67) Cfr. C. MOSCA, cit., 108. © Wolters Kluwer 76 ANGELO GALLO CARRABBA cora confusa “le cose che valgono”, le offrirono ad esempio di condotta per tutta la vasta platea di funzionari, amministratori e impiegati pubblici del nuovo Stato, testimoniarono con il loro impegno di vita e con la loro fedeltà istituzionale il convincimento profondo che “diventare italiani” fosse meglio che rimanere piemontesi, lombardi o siciliani. Centocinquant’anni dopo, si sente l’esigenza di ricordarlo; e si avrebbe un gran bisogno di una nuova élite nazionale che, come quella, fosse in grado di saperlo spiegare. APPENDICE BIOGRAFICA AGNETTA Carmelo (Caserta 1823 – Massa 1889). Di famiglia siciliana (il padre era ufficiale in carriera dell’esercito borbonico), studiò a Palermo, seguito dallo zio avvocato. Nel 1848-’49 partecipò ai moti rivoluzionari siciliani e, alla caduta del governo di Ruggero Settimo, si rifugiò prima a Malta, poi in Francia, Regno Unito ed Egitto; nel ’59 si arruolò volontario nell’esercito toscano per partecipare alla seconda guerra d’indipendenza. Tornò in Sicilia in occasione dell’impresa garibaldina, guidando la cosiddetta retroguardia dei Mille. Sfidò a duello Nino Bixio, che l’aveva schiaffeggiato a Palermo, e dopo un anno d’attesa a Brissago, al confine italosvizzero, lo ferì infine con un colpo di pistola alla mano, facendogliene perdere l’uso. Entrato nell’amministrazione del Regno, prestò servizio in moltissime province del Regno, al Nord come al Sud, ricoprendo tra l’altro l’incarico di sottoprefetto a Cesena, Borgotaro, Gallipoli, Vallo di Lucania, Isernia e Termini Imerese e di regio delegato straordinario a Faenza e Ravenna; ovunque si guadagnò fama di attaccabrighe. Nominato prefetto, fu destinato a Massa Carrara, dove rimase per ben dodici anni, dal luglio 1877 fino alla morte, causata da un attacco di asma bronchiale. Bibliografia: D. D’URSO, Carmelo Agnetta prefetto garibaldino, in Instrumenta, 2005, 26, 641-646. AMARI Michele, conte di Sant’Adriano (Palermo 1803 – 1877). Appartenente ad una delle più famose famiglie palermitane (il padre Mariano era stato deputato al parlamento siciliano, il fratello Emerico fu insigne giurista e deputato liberale del Regno d’Italia), partecipò ai moti indipendentisti siciliani del 1848, fuggendo poi in esilio a Genova. Rientrato in Sicilia dopo l’impresa dei Mille, fu nominato da Garibaldi legato presso il re Vittorio Emanuele II. Divenuto senatore del Regno di Sardegna nel febbraio 1861, da prefetto resse le sedi di Modena (1861-1862), Livorno (1863–1866) e Como (1866–1867). Ricoprì anche gli incarichi di consigliere della Corte dei conti e di membro della Commissione di vigilanza sulla Cassa depositi e prestiti. Sposato con Anna Bajardi dei marchesi di S. Carlo, ebbe tre figli. E’ seppel- © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 77 lito al cimitero dei Cappuccini a Palermo, dove gli è stato dedicato un monumento in marmo opera dello scultore Michele Auteri Pomar. AMARI CUSA Bartolomeo (Castelvetrano 1816 – Lecce 1881). Figlio di don Domenico Amari e donna Leonarda Cusa, ricchi latifondisti di Castelvetrano e Selinunte, avversò sin dalla gioventù la fedeltà borbonica del padre, coltivando un animo ribelle. In contatto coi più ferventi patrioti e promotore dei moti castelvetranesi del 1848, durante la successiva restaurazione borbonica riuscì ad evitare la condanna a morte ma non il carcere. Nel 1860 partecipò all’impresa garibaldina presiedendo il comitato rivoluzionario di Castelvetrano; successivamente entrò nell’amministrazione del nuovo Regno prestando servizio a Girgenti. Nominato prefetto nel 1866, venne destinato a Cosenza, allora capoluogo della provincia di Calabria Citeriore, dove attuò una severa repressione del brigantaggio, per poi essere trasferito a Bari (1869-1874), Rovigo (1874) e Forlì (1874-1876). A Castelvetrano è ricordato con l’intitolazione di una via e una lapide marmorea sulla casa natale, posta nel 1891 per iniziativa dell’amministrazione comunale. ASSANTI Damiano Felice (Catanzaro 1809 – Roma 1894). Di famiglia squillacese, nipote di Guglielmo e Florestano Pepe, nel 1844 fu arrestato per aver preso parte ai moti antiborbonici di Cosenza ed imprigionato assieme a Carlo Poerio a Castel Sant’Elmo a Napoli fino al ‘45. Nel 1847, dopo i fatti di Reggio Calabria, riuscì a sfuggire all’arresto ed a raggiungere lo zio Guglielmo a Parigi, per poi fare ritorno a Napoli l’anno seguente, dopo la concessione della costituzione da parte di Ferdinando II. Arruolatosi al fianco di Pepe, nel ’48 partecipò alla campagna di Lombardia e poi alla difesa della Repubblica di Venezia, caduta la quale fece ritorno a Nizza. Nel 1860 partecipò alla spedizione dei Mille e si distinse nelle battaglie di Milazzo e del Volturno. Dopo l’unità d’Italia, fu deputato della destra storica per quattro legislature fra il 1861 ed il 1870, poi senatore dal 1873; nel 1862-’63 fu anche prefetto di Bari. E’ seppellito a Roma presso il cimitero del Verano; il Comune di Squillace lo ricorda con una via a lui intitolata, un busto marmoreo ed una lapide commemorativa posta all’ingresso del gentilizio palazzo Assanti, ora sede della Casa delle culture. Bibliografia: Dizionario biografico degli italiani, vol. IV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1962, ad vocem; C. PECORINI MANZONI, Parole… in onore del generale Damiano Assanti, Catanzaro, 1894. BARDARI Domenico (Pizzo 1836 – Casamicciola 1883). Nell’amministrazione del Regno d’Italia fu sottoprefetto a Palmi, Castroreale e Lagonegro, consigliere delegato a Siracusa, poi prefetto ad Avellino (1876), Trapani (1876-’77), Belluno (1877), Benevento (1877-’78), Cosenza (1878-’80) e Cagliari (dal 1880 fino alla morte); qui fu accusato di partigia- © Wolters Kluwer 78 ANGELO GALLO CARRABBA neria in favore del deputato Francesco Salaris (vicino al Depretis) contro il rivale politico Francesco Cocco-Ortu. Morì tragicamente, a soli 47 anni, nel sisma del 28 luglio 1883 che sconvolse l’isola di Ischia, dove si trovava in villeggiatura. Bibliografia: L. DEL PIANO, Domenico Bardari prefetto a Cagliari, in Politici, prefetti e giornalisti tra Ottocento e Novecento in Sardegna, Cagliari, Edizioni della torre, 1975, 53-104. BARDESONO Cesare, conte di Rigras (Torino 1833 – Roma 1892). Appartenente alla nobiltà ereditaria piemontese, studiò a Stresa e Torino, dove conseguì la laurea in giurisprudenza. Nel 1855 entrò nell’amministrazione del Regno di Sardegna collaborando da vicino col Cavour. Inviato in Emilia nel ’59 come segretario particolare del Farini, fu intendente a Faenza, poi seguì il Farini a Napoli e nel ’61 fu incaricato di reggere temporaneamente il Governatorato di Capitanata. Trasferito dopo pochi mesi a Pesaro come intendente generale, fu nominato prefetto di Salerno nel settembre 1862 per poi ricoprire analogo incarico a Reggio Calabria, Catania, Bologna, Mantova, Udine, Milano, Firenze, Palermo; dopo otto anni nel capoluogo siciliano, fu posto in aspettativa nel 1887. Senatore dal 1876, gli fu spesso rimproverato il carattere focoso e poco facile all’imparzialità: il Farini lo commemorò in aula rammaricandosi che “nel cozzo delle parti non serbò sempre la prudenza del librarsi”. Bibliografia: D. D’URSO, Prefetti di altri tempi. Cesare Bardesono, Guglielmo Capitelli, Alessandria, Wr Edizioni, 1990; A. SALADINO, Diz. biogr. it., VI, Roma, 1964, ad vocem. BELLAZZI Federico (Milano 1825 – Firenze 1868). Figlio di un sarto, studiò al seminario maggiore di Milano e poi giurisprudenza all’Università di Pavia. Scoppiata l’insurrezione delle Cinque giornate, accorse sulle barricate di Milano e qui, su proposta di Cesare Correnti, venne nominato segretario generale del governo Casati. Al ritorno degli Austriaci, fuggì a Lugano con i documenti del governo provvisorio (che consegnò a Carlo Cattaneo), poi a Torino e Genova. Dopo aver combattuto nella seconda guerra d’indipendenza, fu scelto da Garibaldi quale segretario; in seguito, ne curò anche l’istruzione del figlio Ricciotti. Organizzò i Comitati di provvedimento per Roma e Venezia ed ebbe parte attiva nella vicenda di Aspromonte. Eletto deputato nel 1863 nel collegio di Erba, sedette alla Camera per tre legislature; fautore della riforma carceraria, nel ’66 pubblicò un libro dal titolo Prigioni e prigionieri nel Regno d’Italia. Nel settembre ’67 il governo Rattazzi lo nominò prefetto di Belluno, ma venne destituito due mesi dopo dal nuovo ministro dell’Interno del governo Menabrea, Filippo Gualterio. La delusione e le difficoltà economiche nel gennaio successivo lo spinsero al suicidio in una pensione di Firenze. Bibliografia: B. DI PORTO, Diz. biogr. it., VII, Roma, 1965, ad vocem. © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 79 BIANCHI Bernardino (Valle Lomellina 1832 – Bologna 1892). Studiò a Milano al ginnasio di S. Marta, capeggiando alcune manifestazioni di sentimento patriottico degli studenti e prendendo parte, non ancora sedicenne, alle Cinque giornate. Successivamente, fu fra i fondatori del periodico satirico milanese “L’Uomo di Pietra”, sul quale scriveva con lo pseudonimo “Vattelapesca” e che per qualche tempo diresse prima della sospensione delle pubblicazioni avvenuta nel 1859. Inviato nelle province lombarde liberate quale commissario al fianco di Garibaldi al tempo della seconda guerra d’indipendenza, entrò successivamente nell’amministrazione del Regno prestando servizio in varie province; stretto collaboratore prima di Giuseppe Pasolini, poi di Marco Minghetti del quale fu segretario dal ’73 al ‘76, alla caduta del governo presieduto da quest’ultimo fu nominato prefetto di Udine; successivamente prestò servizio a Grosseto (1876-’77), Lucca (1877-’83), Ferrara (1883-’85), Vicenza (1885-’87), Padova (1887-’89), Perugia (1889’91) e Bologna (1891-’92), dove morì dopo una breve malattia all’età di sessant’anni. Sposato con la nobildonna veneziana Catterina Michiel, figlia del senatore Luigi Michiel, è il capostipite del casato dei Bianchi-Michiel, tuttora molto noto in Veneto dove dà il nome a palazzi gentilizi e ville palladiane. Bibliografia: A. GALLO CARRABBA, Bernardino Bianchi, sesto prefetto dell’Umbria, in Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, CVIII, I-II, 529-544, Perugia, 2011; A. MONTI, Il 1848 e le cinque giornate di Milano, Milano, ed. Hoepli, 1948, 51. BOSI Carlo Alberto (Firenze 1813 - 1886). Avvocato con la passione della poesia, pubblicò diverse raccolte di versi con lo pseudonimo anagrammato di “Basocrilo Fiorentino”; sue le parole della canzone popolare “Addio mia bella addio”, scritta nel 1848 alla vigilia della partenza per il fronte con la brigata degli studenti volontari pisani. Combatté a Curtatone e nel 1849, durante l’esperienza del triumvirato toscano di Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni, fu consigliere del governo provvisorio di Livorno. Con l’unità d’Italia ebbe l’incarico di prefetto di Macerata (1861-’62) per poi ricoprire il medesimo ufficio a Girgenti (1863-’65), Porto Maurizio (1865-’67), Lecce (1867’68), Aquila (1869-’73), Rovigo (1873-’74) e Grosseto (1874-’75). Operò anche in seno alla Società promotrice delle belle arti di Firenze (poi denominata Società d’incoraggiamento di belle arti) della quale fu segretario dal 1860 al ’69 e vicepresidente dal ’70 fino alla morte. Bibliografia: A. GALLO CARRABBA, “Carlo Alberto Bosi, il prefetto poeta”, in Nuova Rivista Storica, 2008, 92/1, 155-160. CADORNA Carlo (Pallanza 1809 – Roma 1891). Nipote per parte materna del patriota Benigno Bossi, fratello maggiore del futuro generale Raffaele Cadorna, si laureò in legge all’università di Torino ed intraprese la carriera © Wolters Kluwer 80 ANGELO GALLO CARRABBA di magistrato in Piemonte. Entrato in politica, dal 1840 fu deputato al parlamento subalpino, nel ’48-‘49 ministro della pubblica istruzione nel governo Gioberti, nel ’57 presidente della Camera dei deputati del Regno di Sardegna. Nominato senatore nel ’58, nello stesso anno ricevette l’incarico di ministro della pubblica istruzione nel governo Cavour. Dopo l’unità d’Italia, fu prefetto di Torino nel 1864, ministro dell’Interno nel governo Menabrea II nel 1868, ambasciatore a Londra dal 1869 al 1875, presidente del Consiglio di Stato dal ’75 al ‘91. Bibliografia: V. ANSIDEI, La Chiesa e lo Stato secondo Carlo Cadorna, in Il nuovo Risorgimento, IV, 1893-1894, 345-359; A. GOTTI, Carlo Cadorna, in Rass. scienze soc. e pol., IX, 1891, 445-452; N. RAPONI, Diz. biogr. it., XVI, Roma, 1973, ad vocem. CALENDA DI TAVANI Andrea (Nocera Inferiore 1831 – Roma 1904). Di illustre famiglia baronale (il fratello Vincenzo fu senatore e ministro della giustizia, la sorella Costanza andò in sposa ad un Menzinger von Preussenthal), conseguì la laurea in giurisprudenza a Napoli e, giovanissimo, vinse il concorso come relatore alla Consulta di Stato napoletana. Entrato nell’amministrazione borbonica nel ’56 come sottointendente di circondario prima a Geraci e poi a Gallipoli, nel ’59 cadde in disgrazia per aver festeggiato e lasciato festeggiare la notizia della vittoria piemontese a Solferino. Dopo la liberazione del Mezzogiorno fu governatore, poi prefetto, di Lecce; dopo un periodo di missione a Torino al fianco dei ministri Peruzzi e Spaventa, dal ’65 in poi ebbe la titolarità delle prefetture di Massa Carrara, Arezzo, Pavia, Caltanissetta, Catania, Forlì, Ravenna, Alessandria, Reggio Emilia, Porto Maurizio, Cuneo, Messina, Bari, Ancona, Palermo e Roma, fino alla rimozione dell’agosto 1893 per i disordini antifrancesi di piazza Farnese, che pose fine ad una carriera durata oltre trent’anni. Senatore dal 1890, nel ’95 pubblicò il saggio La regione nell’ordinamento amministrativo italiano in cui sosteneva la necessità di un più ampio decentramento. Bibliografia: F. BARBAGALLO, Diz. biogr. it., XVI, Roma, 1973, ad vocem; M. CASELLA, Prefetti dell’Italia liberale. Andrea Calenda di Tavani, Giannetto Cavasola, Alessandro Guccioli, Napoli, ESI, 1996. CAMPI BAZAN Giuseppe (Cagliari 1817 – Roma 1885). Entrato giovanissimo nell’amministrazione del Regno di Sardegna, ne percorse rapidamente i gradi meritando fama di valente e saggio funzionario, finché nel 1859 il Cavour lo nominò commissario governativo della provincia di Reggio Emilia; successivamente fu prefetto di Ascoli Piceno (1861-’62), Macerata (1862), Forlì (1863-’66), Bari (1866-’67), Pavia (1868-’70), Verona (1876-’77) e Parma (1877-’80), raggiungendo il grado di prefetto di prima classe. Convinto sostenitore dell’importanza dell’indagine statistica e documentaria, nel 1866-’67 pubblicò un’imponente monografia in tre volumi sul- © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 81 le condizioni della provincia di Forlì. Dopo il collocamento a riposo, nel 1881 fu nominato senatore e partecipò attivamente ai lavori parlamentari fino alla morte, che lo colse mentre si recava in commissione a svolgere il mandato di relatore. CASALIS Bartolomeo (Carmagnola 1825 – Torino 1903). Studente di giurisprudenza a Torino, nel ’48 interruppe gli studi per arruolarsi volontario nella compagnia di Costantino Nigra, con cui combatté a Peschiera e Rivoli. Ultimati gli studi universitari, nel ’58 fu eletto deputato alla Camera subalpina per il collegio di Caselle. Intraprese successivamente la carriera nell’amministrazione ricoprendo vari incarichi in Emilia, in Sicilia e nel Mezzogiorno. Sottoprefetto a Pontremoli, Cesena, Asti, nel ’67 si trasferì a Catania, dove per alcuni mesi resse le funzioni di prefetto, ma, entrato in urto col governo, nel ’68 rifiutò il declassamento a sottoprefetto di Treviglio restando senza incarichi per circa due anni. Richiamato in servizio come prefetto reggente di Catanzaro (’70-’71), fu poi prefetto di Avellino, (’71-’74), Macerata (’74-’76), Genova (’76-’80), Torino (’80-’85) per diventare infine capo della polizia dal 1885 all’87. Cessato dal servizio, fu sindaco di Carmagnola dal 1889 al ’91. Nominato senatore sin dal 1880, era noto per il suo carattere impetuoso che lo portò più volte a scontrarsi col governo. Bibliografia: G. LOCOROTONDO, Diz. biogr. it., XXI, Roma, 1978, ad vocem. CORTE Clemente (Vigone 1825 - 1895). Entrato all’Accademia militare di Torino nel ’42, ne uscì sei anni dopo col grado di tenente di artiglieria, partecipando alla campagna d’indipendenza del ’48-’49 nella quale si distinse a Custoza e Novara. Vissuto dal ’51 al ’59 a Londra, dove sposò Elizabeth Baker, successivamente combatté in Algeria, in Crimea, infine fra le file garibaldine tra le quali si distinse nelle battaglie di Milazzo e di Gaeta. Grazie alla sua abilità oratoria, entrò in politica nel 1865, eletto deputato alla Camera dove rimase per cinque legislature sui banchi della Sinistra. Prefetto di Palermo dal ’78 al ’79 e di Firenze dal ’79 all’84, dovette dimettersi a seguito degli sviluppi di un processo nel corso del quale era stato accusato di aver fatto lasciare deliberatamente in libertà due pericolosi pregiudicati. La vicenda lo contrappose per molti anni al prefetto Casalis in una lunga ed animosa disputa che tuttavia non gli restituì mai piena soddisfazione. Nominato senatore nel 1880, negli ultimi anni di vita si dedicò a scrivere un’opera in due volumi sulla dominazione inglese in India, di fatto teorizzando uno sbocco colonialista anche per la politica estera italiana. Bibliografia: L. ROSSI, Diz. biogr. it., XXIX, Roma, 1983, ad vocem; E. GUASTALLA, Commemorazione del generale Clemente Corte, Milano, 1895. © Wolters Kluwer 82 ANGELO GALLO CARRABBA COSENZ Enrico (Gaeta 1820 – Roma 1898). Allievo del Collegio militare della Nunziatella a Napoli sin dal ’32, ne uscì col grado di alfiere d’artiglieria, poi promosso a tenente nel ’44. Nel ’48, arruolato nell’armata di terra del Regno delle Due Sicilie, seguì il generale Guglielmo Pepe nella difesa della repubblica veneziana, distinguendosi a Forte Marghera. Nel ’59 fu colonnello dei Cacciatori delle Alpi nelle battaglie di Varese e San Fermo, nel ’60 partecipò alla spedizione dei Mille, venendo anche ferito leggermente a Milazzo. Dopo l’unità d’Italia, nel ’62 fu fatto prefetto di Bari, dove fu particolarmente attivo nel contrasto al brigantaggio, facendo catturare il famigerato Ninco Nanco. Deputato alla Camera per cinque legislature, senatore dal ’72, proseguì la carriera militare nell’esercito raggiungendo il grado di generale e l’incarico di Capo di stato maggiore dal 1882 al ’93; in questa veste contribuì alla pianificazione delle linee di difesa sulla frontiera di Nord Est. Bibliografia: G. MONSAGRATI, Diz. biogr. it., XXX, Roma, 1984, ad vocem; E. MORELLI, “Le carte di Enrico Cosenz”, in Rass. stor. Risorg., XLV, 1958, 476-480. CUGIA DI SANT’ORSOLA Efisio (Cagliari 1818 – Roma 1872). Nato da famiglia della nobiltà sarda, intraprese gli studi militari, uscendo dall’Accademia di Torino col grado di luogotenente d’artiglieria. Nel ’48 combatté a Goito e, ferito, venne decorato con medaglia d’argento al valor militare; nel ’59 partecipò alla seconda guerra d’indipendenza col grado di colonnello al fianco del generale Cialdini. Promosso generale nel ’60, nel ’62 fu prefetto di Palermo. Eletto deputato alla Camera Subalpina per il collegio di Lanusei, vi rimase per cinque legislature; ricoprì anche gli incarichi di ministro della marina nel governo Minghetti I (1863-‘64) e di ministro della guerra in quello Ricasoli II (1866-’67). Da tempo sofferente al cuore, morì per un improvviso malore durante il carnevale del 1872. Bibliografia: G. MONSAGRATI, Diz. biogr. it., XXXI, Roma, 1985, ad vocem; T. SARTI, I rappresentanti del Piemonte e d'Italia nelle tredici legislature del Regno, Roma, Paolini, 1880, 299, ad vocem. D’AFFLITTO Rodolfo, marchese di Montefalcone (Ariano di Puglia, oggi Ariano Irpino, 1809 – Napoli 1872). Appartenente ad antica famiglia nobiliare, dopo aver studiato legge nel ’34 entrò come relatore nella Consulta di Stato di Napoli. Nell’amministrazione borbonica ebbe incarichi a Cefalù, Bovino, Potenza, Avellino e infine Napoli, dove tuttavia venne sfavorevolmente notato per le sue simpatie liberali; nel ’52, avendo rifiutato il trasferimento a Foggia, vi fu inviato al domicilio coatto. Arrestato e subito rilasciato a Napoli nel ’59, ebbe vari incarichi negli organismi di governo che si succedettero dopo la caduta del regno borbonico. Nominato una prima volta governatore di Napoli nell’aprile 1861, si dimise dopo pochi mesi per contrasti © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 83 con il Cialdini; nel novembre ’61 fu fatto prefetto di Genova per poi tornare a Napoli dal gennaio ’63 all’ottobre ’64. In Senato sin dal ’61, ne fu vicepresidente fra il ’67 ed il ’71. Dopo essere stato anche regio commissario a Treviso nel ’66, nel 1869 fu nominato, per la terza volta, prefetto di Napoli e vi restò fino al ’72, quando si dimise per contrasti politici col governo Lanza. Morì pochi mesi dopo per un attacco apoplettico. Bibliografia: S. DE MAJO, Diz. biogr. it., XXXI, Roma, 1985, ad vocem. DE FEO Francesco (Mirabello Sannitico 1828 – Campobasso 1879). Durante la prima guerra d’indipendenza combatté con gli studenti universitari napoletani a Curtatone, poi sullo Stelvio. Rientrato nel Regno delle Due Sicilie, fu sorvegliato e perseguitato dalla polizia borbonica. Nel 1860 innalzò il tricolore a Campobasso ed ebbe il comando dei volontari della Prima legione sannitica. Entrato in amministrazione, ebbe incarichi a Isernia, Vasto, Lanciano, Taranto, fino ad essere nominato prefetto di Reggio Calabria dal ’73 al ‘76, poi di Chieti, Porto Maurizio, Forlì, fino al collocamento in aspettativa, per motivi di salute, nel ’77; morì due anni dopo, si dice per i postumi di un’affezione respiratoria dovuta al forte freddo patito a Forlì durante la difesa del Palazzo di Governo dall’assalto di una folla di dimostranti. Nel 2011 gli è stata intitolata la piazza principale nel paesino natìo di Mirabello Sannitico. Bibliografia: E. PESTALOZZA, Francesco De Feo. Note biografiche, Campobasso, Ed.Regia, 2011, 39. ELENA Domenico (Genova 1811 – 1879). Figlio di un commerciante d’olio, col quale collaborò in gioventù, dal 1848 fu membro della Camera di commercio di Genova, di cui divenne poi presidente nel ’57. Eletto deputato al parlamento subalpino nel dicembre ’49, si avvicinò alle posizioni del Rattazzi, partecipando fattivamente alla redazione ed approvazione di numerosi provvedimenti di bilancio. Sindaco di Genova dal ’53 al ’56, operò meritoriamente per il contenimento dell’epidemia colerica del ’54, al punto da essere nominato senatore. Dal ’59 provveditore agli studi di Genova, quindi governatore e prefetto di Alessandria, poi di Novara (1863) e di Cagliari (1863-’69), lasciò l’amministrazione più per disillusione politica che per i motivi di salute ufficialmente addotti. Ritornato in consiglio comunale a Genova, ricoprì ancora l’incarico di assessore anziano. In malcerte condizioni di salute ormai da tempo, morì d’improvviso nel marzo 1879. ELIA Francesco (Torino 1811 – Roma 1896). Laureato in giurisprudenza, avvocato, sposò Maria, figlia del musicista Giovanni Puzzi (che diresse l’Her Majesty’s Theatre a Londra) e della cantante lirica Giacinta Toso, entrambi in buoni rapporti col Cavour che li teneva in considerazione per la loro conoscenza degli ambienti inglesi. Entrato nell’amministrazione sabauda, © Wolters Kluwer 84 ANGELO GALLO CARRABBA Elia ebbe incarichi a Torino, Genova (con l’incarico di reggervi la questura), Bonneville, Saluzzo. Al momento dell’unità d’Italia vicegovernatore di Cuneo (1860-’61), poi prefetto di Terra d’Otranto (oggi Lecce, 1861-’62), Siena (1862-’63), Cuneo (1863-’65), Alessandria (1867-’68), Ferrara (1868’72), Ascoli Piceno (1876-’77) e Pisa (1877). FALCONCINI Enrico (Pescia 1824 – Roma 1901). Di nobile famiglia toscana, avvocato ed ex direttore delle Terme di Montecatini, sedette presso l’Assemblea toscana e, dopo l’unità d’Italia, nel 1861 fu eletto alla Camera dei deputati per il collegio di Arezzo. Fra il 1860 ed il 1866 fondò e diresse la “Rivista dei Comuni italiani”. Fu prefetto di Girgenti dall’agosto 1862 al gennaio 1863; dopo la destituzione, motivata da una clamorosa evasione di massa dal carcere della città, pubblicò un’appassionata difesa del suo operato dal titolo “Cinque mesi di Prefettura in Sicilia” (Firenze, Tip. Galileiana, 1863); alla vigilia della pubblicazione, il La Farina cercò invano di consigliarlo alla prudenza scrivendogli (15 marzo 1863): “Temo che nel difendere la vostra amministrazione possiate dimenticare d’essere stato prefetto”. Bibliografia: P. PEZZINO, Un prefetto 'esemplare': Enrico Falconcini ad Agrigento (1862 1863), in Laboratorio di storia. Studi in onore di Claudio Pavone, Milano, FrancoAngeli, 1994, 113-126; T. SARTI, I rappresentanti del Piemonte e d'Italia nelle tredici legislature del Regno, Roma, Paolini, 1880, 373, ad vocem. FARDELLA Vincenzo, marchese di Torrearsa (Trapani 1808 – Palermo 1889). Appartenente a famiglia di antica nobiltà, entrò giovanissimo nell’amministrazione del Regno delle Due Sicilie fino a diventare direttore dei dazi indiretti a Trapani e, poi, ispettore generale delle finanze a Palermo. Nel ’48 fece parte del governo provvisorio di Sicilia e, alla sua caduta, prese la via dell’esilio, prima a Malta e poi in Piemonte. Ritornato in Sicilia dopo la liberazione da parte dei Mille, fu eletto deputato nel ’61 ricoprendo la carica di vicepresidente della Camera; nel maggio dello stesso anno fu ambasciatore in Svezia, Norvegia e Danimarca per notificare a quelle corti la proclamazione del nuovo Regno d’Italia. Il 17 novembre 1861 fu nominato prefetto di Firenze (vi restò fino al ’64) e tre giorni dopo senatore; del Senato fu vicepresidente dal ’65 al ’67 e presidente dal ’70 al ’74. Ricoprì anche per tredici anni (1876-’89) la carica di presidente della Società siciliana di storia patria. Bibliografia: F. RENDA, Introduzione a V. FARDELLA, Ricordi su la rivoluzione siciliana del 1848 e 1849, Palermo, Sellerio, 1988; G. SICILIANO, Il marchese di Torre Arsa e la rivoluzione siciliana del 1848, Milano-Palermo, ed. Remo Sandron, 1899. FASCIOTTI Eugenio Vincenzo (Torino 1815 – Roma 1898). Conseguita la laurea in giurisprudenza, nel 1840 entrò nella carriera diplomatica del Re- © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 85 gno di Sardegna, destinato prima a Lione, poi a Tunisi, Napoli (dove assistette alla caduta del regno borbonico e resse per breve tempo gli esteri nel governo provvisorio) ed ancora Tunisi. Nel ’62, avendo rifiutato il trasferimento come console generale a Lisbona, venne collocato in disponibilità; l’anno successivo fu nominato prefetto di Bari, dove restò fino al ’66. In prosieguo, fu prefetto di Reggio Emilia (1866), Catania (1866-’67), Udine (1867-’71), Cagliari (1871-’76), ancora Udine (1876-’77), Padova (1877’79) e Napoli (1879-’81). Nel dicembre 1877 fu nominato senatore, ed ebbe come relatore Luigi Torelli. Padre di due figli, di cui Carlo, anch’egli diplomatico di carriera, negli anni ’10 fu ministro plenipotenziario a Bucarest e Madrid. Bibliografia: P. MENGARELLI, Diz. biogr. it., XLV, Roma, 1995, ad vocem. GUICCIARDI Enrico (Ponte in Valtellina 1812 - 1895). Appartenente ad una delle famiglie nobili valtellinesi di più antica data e figlio di uno stretto collaboratore del Metternich, si laureò in legge a Pavia per entrare subito dopo nella burocrazia del Lombardo-Veneto come titolare dell’ufficio fiscale. Destituito dall’impiego nel febbraio ’48, partecipò attivamente alle Cinque giornate e, quando ebbe inizio la controffensiva austriaca, si mise al comando dei volontari alla difesa del Tonale e dello Stelvio. Dopo essersi rifugiato a Torino, combatté a Novara; nel ’59 fu nominato commissario straordinario per il Lago Maggiore, poi intendente generale a Sondrio, quindi eletto deputato per il collegio di Tirano. Fallita la rielezione, nel ’61 fu nominato prefetto di Cosenza, restandovi quattro anni e distinguendosi nella lotta al brigantaggio; successivamente, dopo aver rifiutato la sede di Lucca, fu regio commissario a Mantova (1866) e prefetto di Palermo (1867-’68). Nel ’68 fu anche nominato senatore. Ritornato in Valtellina, dal ’73 fino alla morte mantenne ininterrottamente per ventidue anni la carica di sindaco del comune natale di Ponte. Bibliografia: G. MONSAGRATI, Diz. biogr. it., LXI, Roma, 2003, ad vocem. LIPARI Angelo (Roma 1825 – Teramo 1882). Prese parte attiva all’esperienza della Repubblica romana e, alla sua caduta, fu processato ed incarcerato assieme, fra gli altri, al fratello Gaspare. Riparato in Piemonte, durante l’esilio visse a Torino, Cuneo, Parigi, lavorando come istitutore e maestro di scuola e continuando a collaborare con vari giornali patriottici. Entrato nell’amministrazione sabauda, fu segretario presso l’Intendenza di Comacchio, ispettore di questura a Firenze, sottoprefetto di Isernia, questore reggente di Roma, sottoprefetto di Civitavecchia. Nominato prefetto di Belluno nel dicembre 1875, vi restò fino al ’76 per poi essere trasferito a Lucca (’76-’77) e infine a Teramo (’77-’82), città dove morì improvvisamente, verosimilmente d’infarto, a 57 anni d’età. © Wolters Kluwer 86 ANGELO GALLO CARRABBA MAYR Carlo Francesco (Ferrara 1810 – Roma 1882). Dopo aver preso parte, giovanissimo, ai moti del 1831, ebbe parte attiva nelle vicende del ’48’49 ricoprendo gli incarichi di deputato all’Assemblea Costituente della Repubblica Romana, di presidente della provincia di Ferrara e infine di ministro dell’Interno della stessa Repubblica romana. Nel ’59 fu eletto deputato dell’Assemblea nazionale dei popoli delle Romagne, quindi nominato ministro dell’Interno nel governo dell’Emilia. Con l’unità d’Italia fu governatore di Bologna e poi di Caserta, quindi prefetto di Alessandria, Genova, Venezia e Napoli, infine, dal ’77, presidente di sezione del Consiglio di Stato. In Parlamento fu deputato per il collegio di Ferrara dal 1860 al 1863, senatore dal 1868. Bibliografia: A. CAVALIERI, Carlo Mayr, Ferrara, Taddei, 1882; E. PASSALALPI FERRARI, Carlo Mayr carbonaro e ministro al servizio della patria, in La Voce repubblicana, 1990, 5-6, 10-segg.; P. POSTERARO, Diz. biogr. it., LXXII, Roma, 2009, ad vocem. MEDICI Giacomo, marchese del Vascello (Milano 1817 – Roma 1882). Figlio di un commerciante espulso dai domini austriaci perché sospettato di cospirazione, dal 1830 fu affidato alle cure del patriota cremonese Gaetano Tibaldi. Fra il ’36 ed il ’40 combatté in Spagna, poi emigrò a Londra (dove conobbe Mazzini abbracciando gli ideali repubblicani) e di lì dal padre a Montevideo (dove conobbe Garibaldi). Rientrato in Europa, combatté nella prima guerra d’Indipendenza, poi comandò una legione di volontari nella difesa della Repubblica romana. Allontanatosi dal Mazzini, nel ’59 comandò un reggimento dei Cacciatori delle Alpi nelle battaglie di Varese, S. Fermo e dello Stelvio; partecipò poi alla spedizione dei Mille col grado di colonnello, combattendo al fianco di Garibaldi presso il Volturno. Dopo l’unità d’Italia fu incorporato nell’esercito regio, raggiungendo il grado di generale. In Sicilia contrastò duramente il brigantaggio e la renitenza alla leva e, dopo aver preso parte nel ’66 alla campagna militare in Veneto, nel ’68 fu fatto prefetto di Palermo, incarico che mantenne fino al ’73. Deputato in tre legislature, nominato senatore nel ’70, nel ’75 fu promosso alla carica di primo aiutante di campo del Re e nel ’76 gli venne conferito il titolo di marchese. Bibliografia: G. LUPI, Diz. biogr. it., LXXIII, Roma, 2009, ad vocem. MEZZOPRETI GOMEZ Emidio (Montepagano 1826 – Castellammare Adriatico 1889). Compiuti gli studi liceali a Chieti, s’iscrisse a giurisprudenza a Napoli, dove si accostò agli ambienti antiborbonici. Arrestato nel maggio ’48 assieme all’amico Luigi De Sanctis, poi scarcerato, nuovamente arrestato e detenuto per sei mesi a Teramo, fu rimandato a Montepagano sotto sorveglianza speciale; qui scrisse il saggio La donna avanti e dopo il Cristianesimo (Napoli, Stamperia del Vaglio, 1859). Nel 1860, in occasione della campagna garibaldina nel Mezzogiorno, fu segretario del governo provvi- © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 87 sorio di Teramo; dopo l’annessione, entrò nell’amministrazione del Regno d’Italia ricoprendo incarichi ad Aquila, Teramo, Foggia, Cuneo, Alessandria; sottoprefetto di Castellammare di Stabia, poi di Urbino, prefetto reggente di Sassari dal ’69 al ’71, reggente e poi titolare di Reggio Calabria dal ’71 al ’73, prefetto di Grosseto nel 1873-’74, abbandonò l’amministrazione a seguito di una serie di gravi lutti familiari. MINGHELLI VAINI Giovanni (Vignola 1817 – Parma 1891). Imparentato per parte di madre con la casata romagnola dei conti Vaini, ne ricevette il cognome e, nel 1852, la donazione della quattrocentesca Rocca dei Rossi a S. Secondo Parmense. Laureato in legge, dal 1844 collaborò al giornale L’educatore storico; nel ’48, partecipò ai moti rivoluzionari facendo parte del governo provvisorio di Modena e Reggio Emilia presieduto dal Malmusi. Dopo l’annessione di Modena al Piemonte, entrò nell’amministrazione sabauda prima come direttore del carcere di Oneglia, poi della casa di pena delle donne e dell’ospizio celtico in Torino, infine come ispettore generale delle carceri. Nel 1859 fu deputato all’assemblea parmense; l’anno dopo, fu eletto al parlamento nazionale per il collegio di Bettola e San Secondo e vi rimase per due legislature, occupandosi principalmente della questione carceraria. Nominato prefetto, dal ’76 al ’78 prestò servizio a Cagliari, dove sposò la nobildonna Maria Anna Serra dei conti di Uta; successivamente fu prefetto di Torino (1878-’80), Catania (1880-’81), Padova (1883-’85) e Vicenza (1887-’90). Bibliografia: P.L. POLDI ALLAJ, Giovanni Minghelli Vaini l’innominato di San Secondo, 2011, in www.cortedeirossi.it MIRAGLIA Biagio (Strongoli 1823 – Firenze 1885). Figlio naturale di un possidente cosentino, studiò teologia a Napoli e venne ordinato sacerdote; coltivò anche la passione per la poesia, pubblicando diverse raccolte di versi d’ispirazione byroniana. Di idee repubblicane, nel ’44 fu condannato a sei anni di reclusione per l’adesione ai moti cosentini e scampò al carcere fuggendo in Grecia. Smessi gli abiti talari, prese parte all’insurrezione della Calabria nel ’48 e l’anno dopo combatté nella difesa della Repubblica romana. Sul suo capo pendeva nel Regno delle Due Sicilie una condanna a 25 anni di carcere, per sfuggire la quale si rifugiò in Piemonte; qui aderì alla Società nazionale, evolvendo in senso filocavouriano. Fu sovrintendente all’Archivio di Stato di Roma, poi prefetto di Pisa (1877-’81) e di Bari (1883-’85). Nel maggio 2011, nel paese natale di Strongoli, gli è stato dedicato un convegno sul tema “Biagio Miraglia patriota e letterato del Risorgimento”. Bibliografia: I. CRUPI, Il brigantaggio in letteratura: Domenico Mauro, Biagio Miraglia, Vincenzo Padula, Nicola Misasi, Cosenza, ed. Periferia, 1993; D. D'URSO, L'avventura di Biagio Miraglia da patriota a prefetto, in Amministrazione civile, 2004, 62. © Wolters Kluwer 88 ANGELO GALLO CARRABBA PASOLINI DALL’ONDA Giuseppe (Ravenna 1815 – 1876). Figlio di Pier Desiderio (presidente del governo di Romagna nel 1831) e di Amalia dei conti di Santa Croce, coltivò gli studi viaggiando a lungo in Francia ed in Inghilterra. Buon amico del cardinale Mastai Ferretti, vescovo di Imola, dopo che questi divenne papa (Pio IX) ne fu chiamato a fare parte, nel ’47, della Consulta di Stato e poi, nel ’48, del governo pontificio come ministro di commercio, agricoltura e belle arti; dopo la restaurazione dell’assolutismo papale, tentò inutilmente di spendersi affinché Pio IX riprendesse la via delle riforme. Gonfaloniere di Ravenna dal ’57 al ’59, si adoperò per favorire l’annessione della Romagna al Regno di Sardegna e nel ’60 fu fatto senatore, poi governatore-prefetto di Milano fino al ’62, quindi prefetto di Torino. Ministro degli esteri nel governo Farini (1862-’63), tornò alla prefettura di Torino nel ’64; successivamente fu regio commissario e poi prefetto di Venezia (’66-’67). Nel febbraio 1876, pochi mesi prima della morte, fu nominato alla presidenza del Senato. Bibliografia: P.D. PASOLINI, Giuseppe Pasolini (1815-1876): memorie raccolte da suo figlio, Torino, F.lli Bocca, 1887; A. PATUELLI, Tre liberali e un Papa, Bologna, Edizioni Analisi, 1991. PATERNOSTRO Paolo (Misilmeri 1821 – Palermo 1885). Manifestò i suoi ideali patriottici durante gli studi universitari a Palermo e il 12 gennaio 1848 fu fra gli iniziatori dell’insurrezione palermitana arringando la folla in piazza Fiera Vecchia; membro del comitato rivoluzionario e deputato del parlamento siciliano, pronunciò il proclama che dichiarava la decadenza dei Borbone. Alla caduta del governo di Ruggero Settimo, riparò all’estero, prima a Malta, poi a Londra, infine in Egitto, dove si stabilì definitivamente nel 1850, ricoprendo vari uffici all’interno dell’amministrazione del Vicereame d’Egitto. Tornato in patria durante la campagna siciliana del 1860, l’anno dopo fu eletto deputato per il collegio di Comiso. Nel 1862 fu incaricato delle funzioni di prefetto di Arezzo, che resse per circa quattro mesi. Rieletto deputato nel ’70, nell’aprile ’76 fu nominato prefetto di Bari (dove rimase fino al 1878) e nel maggio dello stesso anno fu fatto senatore; nel ’78 venne poi nominato consigliere della Corte dei conti. Nel 1885, allo scoppio di un’epidemia di colera a Palermo, vi fece ritorno per prestare soccorso alla popolazione ma, pur scampando al contagio, morì prematuramente a 64 anni d’età. PLUTINO Antonino (Reggio Calabria 1811 – Roma 1872). Assieme al fratello maggiore Agostino, che fu poi deputato e senatore, nel 1844 partecipò ai moti di Cosenza, venendo arrestato ed incarcerato fino al ’46. Dopo aver collaborato ai moti di Messina, nel ’47 fuggì a Malta; l’ulteriore insuccesso dei tentativi insurrezionali del ’48, cui prese parte in Calabria, lo costrinse ad un nuovo esilio, prima a Marsiglia, poi in Piemonte, dove aderì al- © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 89 la Società Nazionale. Nel 1860 partecipò alla spedizione dei Mille distinguendosi in battaglia a Calatafimi e Milazzo; Garibaldi lo nominò governatore di Reggio Calabria. Dopo la proclamazione del regno d’Italia, fu fatto prefetto di Cremona (1861), poi di Cuneo (1861-’62), infine di Catanzaro, incarico da cui si dimise il 1° settembre 1862, due giorni dopo i fatti di Aspromonte, in aperto contrasto con gli ordini del governo che considerò “fuori statuto”. Eletto poco dopo alla Camera dei deputati per il collegio di Cittanova, prese successivamente parte alla terza guerra d’indipendenza come tenente colonnello della fanteria. Bibliografia: L. CANDELA, Antonino Plutino e il Risorgimento, Roma, l’Espresso, 2009; A. GALLO CARRABBA, Il gran rifiuto di Nino Plutino, prefetto in camicia rossa, in Camicia Rossa, 2012, 1/2, 12-13; P. STILO, I fratelli Plutino e i Grecanici nel Risorgimento, Messina, 2002. SCELSI Giacinto Ignazio Maria (Collesano 1825 – Roma 1902). Laureato in giurisprudenza a Palermo, ancor giovanissimo prese parte al tentativo indipendentista siciliano del ’48, fallito il quale fuggì prima in Francia, poi a Genova e Torino, dove insegnò economia e fu fra i fondatori del giornale progressista Il diritto. Dopo l’impresa dei Mille fu nominato commissario straordinario di Cefalù, poi di Noto e Siracusa, quindi governatore di Girgenti, provincia natale del suo grande amico Francesco Crispi. Nel ’62 sposò in prime nozze Corinna Sidoli, figlia di Giuditta Bellerio, cofondatrice della Giovine Italia ed amante di Mazzini. La sua carriera di prefetto proseguì ad Ascoli Piceno (1862-‘65), Sondrio (1865), Foggia (1865-’67), Como (1867’68), Reggio Emilia (1868-’72), Messina (1872-’73), Ferrara (1873-’76), Mantova (1876-’78), Brescia (1878), Pesaro e Urbino (1878-’81), Livorno (1881-’82), Modena (1883-’85), Bologna (1887-’91) e Firenze (1895-’96). Venne nominato senatore nel 1890. Noto per l’accuratezza statisticodocumentaria della sue relazioni, è stato definito “il prototipo del prefetto risorgimentale” (Gustapane). Bibliografia: L. GAMBI, Le statistiche di un prefetto del Regno, in Quaderni Storici, 1980, vol. 45, pagg. 832 e segg.; E. GUSTAPANE, “Per una storia del prefetto”, in AA. VV., Studi per la storia…, cit., 99-110; D. D’URSO, Giacinto Scelsi, garibaldino e prefetto, in Camicia Rossa, 2006, 1, 18-19. TAMAJO GRASSETTI Giorgio (Napoli 1817 – Siracusa 1817). Di padre siciliano e madre greca, partecipò al tentativo insurrezionale isolano del 1848, distinguendosi nella difesa di Messina. Restaurato il governo borbonico, riparò a Malta continuando a tessere relazioni con gli altri esuli italiani e con le principali personalità italiane all’estero, fra cui Crispi e Mazzini. Tornato in Sicilia, nel 1860 fu nominato da Garibaldi tenente colonnello e poi segretario di Stato per la sicurezza pubblica. Nel 1862 entrò nell’esercito re- © Wolters Kluwer 90 ANGELO GALLO CARRABBA golare italiano e vi rimase fino al ’72, raggiungendo il grado di colonnello di fanteria. Con l’appoggio di Garibaldi, massone come lui, nel 1863 fu eletto deputato per il collegio di Messina e venne riconfermato nelle legislature successive fino alla nomina a senatore, intervenuta nel ’76. Successivamente, ebbe incarichi in amministrazione come prefetto di Girgenti (1880-’81), Arezzo (’81-’82), Reggio Calabria (’82-’84), Siracusa (’87-‘88) e Siena (’88-’90). Parallelamente all’attività pubblica, Tamajo raggiunse anche i massimi gradi delle gerarchie massoniche: eletto nel 1879 al vertice dei massoni di rito scozzese del Supremo consiglio di Roma, nel 1887, dopo l’unificazione con gli scozzesisti di Torino, cedette i poteri al Gran maestro Adriano Lemmi avendone in cambio la nomina vitalizia a Sovrano commendatore onorario. Bibliografia: A. GALLO CARRABBA, Giorgio Tamajo, prefetto e massone, in Camicia Rossa, 2007, 3/4, e 2008, 1. TORELLI Luigi (Villa di Tirano 1810 – Tirano 1887). Dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza all’università di Pavia, nel 1848 si distinse durante le Cinque giornate di Milano, issando il tricolore sulle guglie del duomo; successivamente, prese parte alla prima guerra d’indipendenza combattendo a Novara. Emigrato in Piemonte, fu ministro dell’agricoltura nel governo Perrone (1848) e successivamente deputato al parlamento subalpino per quattro legislature dal ’49 al ’60. Nominato senatore nel 1860, con l’unità d’Italia fu prefetto di Sondrio (fino all’ottobre ’61), Bergamo (1861’62), Palermo (1862), Pisa (1862-’64); dopo un’altra esperienza come ministro di agricoltura, industria e commercio nel governo Lamarmora I (1864’65), nel ’66 tornò prefetto di Palermo dimettendosi dall’incarico a seguito dell’insurrezione del “Sette e mezzo”; dal ’67 al ’72 fu, infine, prefetto di Venezia. Fondò la Società Solferino e S. Martino promuovendo la costruzione dell’Ossario della battaglia di S. Martino. Bibliografia: A. MONTI, Il conte Luigi Torelli, 1810-1887, Roma, 1931. VALERIO Lorenzo (Torino 1810 – Messina 1865). Industriale, editore, filantropo, proveniva da una famiglia di commercianti. Dopo aver viaggiato per affari nella regione danubiana, nel 1835 rientrò in Italia per dirigere (fino al ’46) un setificio ad Agliè. Collaborò col filantropo torinese Ferrante Aporti e, sotto il suo esempio, istituì asili d’infanzia a Urbino, Ancona e Agliè e fondò, fra le altre, la Cassa di risparmio, la Società di belle arti e l’Associazione agraria di Torino. Dedicatosi alla stampa, diede vita al settimanale Letture popolari, ben presto chiuso per ordine del Re, poi – dopo la concessione dello statuto albertino – al foglio politico La concordia, cui fecero seguito negli anni successivi i quotidiani Il progresso e Il diritto. Eletto al parlamento subalpino, dopo la liberazione della Lombardia venne destinato a Como in qualità di governatore; ricoprì anche gli incarichi di commissa- © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 91 rio generale straordinario nelle province delle Marche fra il ’60 ed il ‘61 e, dal ’62, di senatore del Regno. Destinato nel giugno 1865 alla prefettura di Messina, vi morì prematuramente due mesi dopo, probabilmente di carbonchio, all’età di 55 anni. Bibliografia: P. GHERARDI, Lorenzo Valerio: cenni biografici, Urbino, Premiata Tipografia Metaurense, 1868. ZINI Luigi (Modena 1821 – 1894). Laureato in giurisprudenza a Modena, collaboratore di numerose riviste letterarie e scientifiche (L’indipendenza italiana, Il diritto, Rivista contemporanea, La ragione, Il mondo letterario), nel 1848 fu segretario generale del governo provvisorio dell’Emilia, nel ’59 deputato all’assemblea delle province modenesi; successivamente percorse una lunga carriera amministrativa, dapprima come intendente generale di Modena e di Ferrara, poi, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, come prefetto di Siena, Brescia, Padova, Como, Palermo, nonché, nel 1865, segretario generale del ministero dell’Interno. Consigliere di Stato dal 1873, senatore dal 1876, fu autore di una ponderosa Storia popolare d’Italia dalle origini ai giorni nostri (tre volumi, Torino-Milano, Società Editrice Italiana, 1857-1861). Bibliografia: I. MANCON, Luigi Zini. La prima biografia completa del prefetto-letterato di fine Ottocento, Firenze, Athenaeum Libri, 2006. ZIRONI Francesco (Modena 1831 – Montale Rangone 1908). Appartenente a famiglia di provata fede liberale (il padre Pietro, giudice, nel ’48 fece parte del governo provvisorio del Ducato di Modena presieduto dal Malmusi; il fratello della moglie, Eugenio Durio, fu diplomatico piemontese assai apprezzato dal Cavour nell’area danubiana e balcanica), si laureò in giurisprudenza e, dopo un’esperienza in magistratura a Galliate, nel 1856 entrò nell’amministrazione sabauda come volontario presso l’intendenza di Novara. Prestò poi servizio a Casale, Cremona, Porto Maurizio ed ancora Novara; successivamente fu sottoprefetto a Borgotaro, Pallanza, Clusone e Salò, consigliere di Prefettura a Brescia, consigliere delegato a Messina, svolgendo anche due incarichi commissariali al Comune di Treviso ed agli Ospizi civili di Parma che gli valsero la nomina a prefetto nel marzo ’76. Destinato a Sondrio, vi restò fino al maggio ‘77; successivamente fu prefetto a Forlì (1877-’78), Ravenna (1878-’82), Piacenza (agosto-settembre ’82), Parma (1882-’84), Alessandria (1884-’87), Modena (1887-’91) e Perugia (1891’92), distinguendosi ovunque per riservatezza e sobrietà. Tornato a Modena, fu fra i promotori del Museo del risorgimento; nel luglio 1895 venne eletto per la prima volta sindaco della città da un’ampia maggioranza liberale per poi essere rieletto altre due volte nel ’96 e nel ’97. © Wolters Kluwer 92 ANGELO GALLO CARRABBA NOTA BIBLIOGRAFICA RAGIONATA A. AQUARONE, Alla ricerca dell’Italia liberale, Napoli, Guida, 1972 (ripubblicato da Le Monnier, Firenze, 2003) D. BARDARI, Sulle riforme amministrative in Italia, Siracusa, Tip. Norcia, 1868 G. BONAZZI, Colpa e potere. Sull’uso politico del capro espiatorio, Bologna, il Mulino, 1983 G. BONAZZI, “Per una sociologia del capro espiatorio nelle organizzazioni complesse”, in Studi organizzativi, X, 3, Milano, Franco Angeli, 1978 M. CASELLA, Prefetti dell’Italia liberale. Andrea Calenda di Tavani, Giannetto Cavasola, Alessandro Guccioli, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996 T. DE MAURO, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1963 R. DE MONTICELLI, La questione morale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2010 D. D’URSO, Prefetti di altri tempi, Alessandria, Wr edizioni, 1990 D. D’URSO, I prefetti e la Chiesa, Alessandria, 1995 D. D’URSO, Pagine sparse. Prefetti nella storia, Roma, SSAI, 2006 R. C. FRIED, Il prefetto in Italia, Milano, Giuffrè, 1967 E. GUSTAPANE, I prefetti dell’unificazione amministrativa nelle biografie dell’archivio di Francesco Crispi, in Riv. trim. dir. pubbl., XXXIV, Milano, Giuffrè, 1984 E. GUSTAPANE, Per una storia del prefetto, in AA. VV., Studi per la storia dell’amministrazione pubblica italiana (Il Ministero dell’Interno e i prefetti), Roma, SSAI, 1998, 99-110 D. MACK SMITH, Storia d’Italia dal 1861 al 1997, Bari, Laterza, 1997 G. MELIS, Storia dell’amministrazione italiana, Bologna, il Mulino, 1996 G. MELIS, La burocrazia. Da monsù Travet alle riforme Bassanini: vizi e virtù della burocrazia italiana, Bologna, il Mulino, 2000 M. MISSORI, Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d’Italia, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1989 C. MOSCA, Frammenti di identità ed etica prefettorale, con prefazione di D. ANTISERI, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006 N. RANDERAAD, Autorità in cerca di autonomia: i prefetti nell’Italia liberale, con prefazione di G. MELIS, Roma, Archivio Centrale di Stato, 1997 R. ROMANELLI, Il comando impossibile. Stato e società nell'Italia liberale, Bologna, il Mulino, 1988 (nuova ed. ampliata 1995) R. ROMANELLI, Centro e periferia: L'Italia unita, in Il rapporto centro-periferia negli stati preunitari e nell'Italia unificata, Roma, ISRI, 2000, 215-248 © Wolters Kluwer I PREFETTI NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE 93 F. RONDOLINO, L’Italia non esiste (per non parlare degli italiani), Milano, Mondadori, 2011 M. SAIJA, I prefetti italiani nella crisi dello Stato liberale, Milano, Giuffrè, 20012005 S. SEPE, Amministrazione e storia, Rimini, Maggioli, 1995 M. WEBER, La politica come professione, in M. WEBER, Il lavoro intellettuale come professione, con prefazione di A. GIOLITTI, Torino, Einaudi, 1976 © Wolters Kluwer MARIA GABRIELLA CASACCIO PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E ATTIVITÀ PREFETTIZIA SOMMARIO: 1. Premessa. Strategia preventiva e strategia precauzionale. – 2.1. I principi europei a tutela dell’ambiente. – 2.2. In particolare, il principio di precauzione. – 2.3. Il principio di precauzione nel diritto interno. – 3. I procedimenti previsti dal Codice dell’Ambiente. – 4. Conclusioni. 1. Premessa. Strategia preventiva e strategia precauzionale La tutela dell’ambiente e della salute umana contro fonti di rischio attuali o potenziali è uno dei grandi temi del nostro tempo. Il concetto di rischio giuridicamente rilevante ha conosciuto, nell’arco del secolo scorso, una progressiva evoluzione. Si è partiti dal concetto di “rischio assicurabile”, vale a dire un rischio prevedibile sulla base di regole di conoscenza sufficientemente attendibili, suscettibile di un risarcimento economico, o comunque monetizzabile. A tale concetto corrispondeva, sul versante dell’azione pubblica, il principio di prevenzione, il quale legittima interventi pubblici volti alla prevenzione del danno all’ambiente o alla salute umana, ogni qual volta si stimi, secondo l’id quod plerumque accidit, che tali danni siano di probabile avveramento. L’avvento delle nuove tecnologie e l’impiego di prodotti, procedimenti e fonti di energia la cui pericolosità non è sempre prevedibile con certezza, ha successivamente favorito l’emergere di una nuova categoria di rischio, il “rischio da incertezza scientifica”. Per far fronte a tale specie di rischio, meramente ipotetico, non dimostrabile con certezza attraverso i postulati della scienza ed avente dimensioni non individuali ma collettive, si è sviluppata l’elaborazione del principio di precauzione (better safe than sorry)(1). (1) In generale, sul principio di precauzione, E. AL MUREDEN, Principio di precauzione, tutela della salute e responsabilità civile, Bologna, 2008; F. ALCARO, C. FENGA, E. © Wolters Kluwer 96 MARIA GABRIELLA CASACCIO Il principio prescrive la necessità di adottare misure di cautela in vista della salvaguardia di beni fondamentali, come la salute umana e l’ambiente, in presenza di situazioni di incertezza nelle quali risulta semplicemente ipotizzabile la sussistenza di un rischio, senza che sia necessario attendere la produzione di ulteriori evidenze scientifiche e tenuto conto dell’impossibilità di rimozione dei danni ipotizzati per mezzo di interventi successivi(2). MOSCATI, F. PERNICE, R. TOMMASINI (a cura di), Valori della persona e modelli di tutela contro i rischi ambientali e genotossici. Esperienze a confronto, Firenze, 2008; F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, Milano, 2005; L. MARINI, Il principio di precauzione nel diritto internazionale e comunitario, Padova, 2004; M. TALLACCHINI, Diritto per la natura. Ecologia e filosofia del diritto, Torino, 1996, 309 e ss.; Id., Ambiente e diritto della scienza incerta, in S. GRASSI, M. CECCHETTI, A. ANDRORIO, Ambiente e diritto, I, Firenze, 1999, 57 e ss.; A. GRAGNANI, Il principio di precauzione come modello di tutela dell’ambiente, dell’uomo, delle generazioni future, in Riv. dir. civ. 2003, 9; P. PALLARO, Il principio di precauzione tra mercato interno e commercio internazionale: un’analisi del suo ruolo e del suo contenuto nell’ordinamento comunitario, in Diritto del commercio internazionale, 2002, 15; P. BECMANN, V. MANSUY, Le principe de précaution, Environnement, santé et sécurité alimentaire, Paris, 2002; E. ZACCAI, J. N. MISSA (a cura di), Le principe de précaution, Bruxelles, 2000; G. FRANCESCATO, A. PECORARO SCANIO, Il principio di precauzione, Milano, 2002; P. BORGHI, Il principio di precauzione tra diritto comunitario e Accordo SPS, in Dir. e giur. agr. e amb., 2003, 535; A. CROSETTI, R. FERRARA, F. FRACCHIA, N. 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(2) La genesi del principio di precauzione, sul piano giuridico, viene fatta risalire alla normativa ambientale introdotta in Germania nel corso degli anni ‘70. Il principio di precauzione (Vorsogeprinzip) esprime un modello di tutela dei cittadini, innanzi ai rischi ambientali, nuovo ed ulteriore rispetto alla tradizionali modalità di intervento statale di quell’ordinamento basata sul principio di difesa dai pericoli (Gefahrenabwehrprinzip). Il principio di difesa dai pericoli fondava il dovere statale di intervento volto a scongiurare eventi dannosi in presenza di una situazione di “pericolo” (Gefahr), data dai casi in cui sussista una ragionevole probabilità che determinati agenti causali cagionino certi eventi dannosi entro un arco temporale determinato. Il presupposto applicativo del principio di difesa dai pericoli ha carattere rigoroso e non concerne né le situazioni in cui, a causa dell’incertezza del dato scientifico, non possa dimostrarsi con un elevato grado di attendibilità che determinati danni siano riconducibili a determinati processi causali, né i casi in cui certi eventi dannosi siano suscettibili di manifestarsi in un futuro distante. Esistono, tuttavia, attività e prodotti industriali e/o commerciali che hanno rivelato la loro pericolosità solo a distanza di molti anni dal loro impiego ed altri rispetto alla © Wolters Kluwer PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E ATTIVITÀ PREFETTIZIA 97 cui pericolosità la comunità scientifica non risulta concorde. Il principio di precauzione nasce, quindi, in seguito alla necessità di legittimare interventi statali di tutela della salute e dell’ambiente ogni qualvolta sia ipotizzabile (e non necessariamente probabile) non già la sussistenza di un pericolo, bensì la semplice ipotesi di un rischio che possa compromettere in un futuro, anche non prossimo, l’integrità di tali beni, situazione definita dalla dottrina tedesca in termini di “non-ancora-pericolo” (Noch-nicht-Gefahr). Non la generalità dei rischi connessi ad attività pericolose può dar luogo ad interventi di natura precauzionale. Esiste infatti un’area più o meno ampia di rischi, data dal c.d. “rischio residuale”, (Restrisiko) che la comunità giudica accettabili in nome del progresso socio-economico e che quindi risultano giuridicamente irrilevanti ai fini dell’intervento precauzionale. La giurisprudenza della Corte Costituzionale tedesca afferma che l’apprezzamento del rischio residuale e la scelta della misura precauzionale da adottare nelle situazioni di rischio da incertezza scientifica ha carattere discrezionale ed è riservata alle autorità pubbliche. Per quanto riguarda il sindacato giurisdizionale sulla scelta precauzionale, esso consiste in un controllo di legittimità, finalizzato a verificare che la valutazione amministrativa si fondi su un’istruttoria sufficiente (nel corso della quale abbiano formato oggetto di ponderazione tutte le teorie scientifiche disponibili e non solo quelle espresse dalla dottrina dominante) e su una motivazione non arbitraria. Il principio di precauzione, infine, è oggi proclamato dal Trattato sull’unificazione tedesca. Una approfondita analisi dell’elaborazione tedesca del Vorsogeprinzip, corredata da un nutrito panorama bibliografico è contenuta in A. GRAGNANI, Il principio di precauzione, cit.16 e ss. Numerose indicazioni bibliografiche sullo stesso tema sono altresì rinvenibili in N. DE SADELEER, Les principes du poulleur-payeur, de prévention et de précaution, Bruxelles, 1999, 152 e ss. Dopo aver visto la luce in seno all’ordinamento giuridico tedesco, il principio di precauzione è stato invocato durante tutto il corso degli anni ‘80 nell’ambito del diritto internazionale dell’ambiente. La dottrina prevalente indica nella Carta Mondiale della Natura, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 28 ottobre 1982, il primo atto di rilevanza internazionale nel quale l’approccio precauzionale ha trovato affermazione. Con tale documento l’Assemblea Generale si opponeva all’autorizzazione delle attività pericolose per la natura i cui eventuali effetti nocivi non fossero pienamente conosciuti. La tappa fondamentale del percorso, che ha condotto alla definitiva consacrazione del principio di precauzione nell’ambito del diritto internazionale dell’ambiente, è tuttavia rappresentata dalla Dichiarazione di Rio de Janeiro, adottata nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo del 1992. Benché costituisca uno strumento giuridico non vincolante, la Dichiarazione ha gettato le basi di un nuovo ordine ambientale mondiale, enunciandone i principi fondamentali: il principio di anticipazione e di prevenzione, il principio di partecipazione, il principio di articolazione delle misure di protezione dell’ambiente con le esigenze dello sviluppo sostenibile e il principio di precauzione. L’enunciazione del principio nella Dichiarazione di Rio ha determinato il consequenziale inserimento di esso nella quasi totalità dei trattati internazionali in materia ambientale. Il principio di precauzione riceve applicazione anche nell’ambito del diritto del commercio internazionale. Nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (O.M.C.), esso è accolto dall’Accordo sulle misure sanitarie e fitosanitarie (Accordo SPS), formalizzato nell’ambito della dichiarazione finale dell’Uruguay Round sottoscritta a Marrakesh nel 1994, il cui scopo è quello di preservare il regime di libero scambio nell’ambito dell’O.M.C.. Tale Accordo stabilisce che le Parti contraenti possono adottare misure di protezione in materia sanitaria e fitosanitaria, volte a salvaguardare la vita, la salute umana o animale da rischi alimentari o da malattie, se fondate su prove scientifiche sufficienti. L’Accordo, tuttavia, riconosce, in via derogatoria, la possibilità per un Paese membro, nei casi in cui le prove scien- © Wolters Kluwer 98 MARIA GABRIELLA CASACCIO La strategia precauzionale determina, quindi, una anticipazione della soglia di intervento, legittimando azioni pubbliche di carattere cautelativo in un momento anteriore rispetto a quello dell’insorgenza del pericolo. Il principio precauzionale giustifica, inoltre, l’eventuale limitazione di diritti fondamentali, quale quello di iniziativa economica, il cui esercizio sia suscettibile di costituire una potenziale fonte di danno per i beni, di rango fondamentale, che l’azione precauzionale si prefigge di tutelare, acquistando così, in un’ottica di tutela delle generazioni future, una forte valenza etica. Dopo essere state sposate dai Trattati europei, la strategia preventiva e quella precauzionale sono state recepite dal nostro legislatore, con la loro introduzione nel decreto legislativo n. 152 del 3 aprile 2006, c.d. “Codice dell’Ambiente”. Il presente lavoro intende offrire un breve excursus sui principi europei a tutela dell’ambiente, in particolare su quello di precauzione, per poi passare ad analizzare le previsioni del citato decreto legislativo, concernenti i procedimenti amministrativi che di tali principi costituiscono il precipitato. tifiche sulla sussistenza di un rischio siano insufficienti, di adottare provvisoriamente misure precauzionali di carattere sanitario o fitosanitario, sulla base delle informazioni disponibili, purché il Paese stesso continui la ricerca scientifica e riesamini la misura adottata allo spirare di un termine ragionevole. Trascorso tale termine senza che sia stata dimostrata scientificamente la reale consistenza del rischio, la misura deve essere ritirata. In base all’Accordo SPS, dunque, il principio di precauzione sebbene non assuma lo status di principio generale, appare idoneo a fondare misure derogatorie alla libertà di commercio tra gli Stati membri dell’OMC, per un periodo di tempo limitato. Nell’ambito del commercio internazionale, adeguata sottolineatura merita altresì la proclamazione del principio di precauzione ad opera del Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza del 28 gennaio 2000, adottato nel quadro della Convenzione di Rio del 1992 sulla diversità biologica. Il Protocollo introduce un corpus di regole a disciplina del trasferimento, del commercio, del trasporto in ambito internazionale e dell’uso sicuro di OGM ottenuti attraverso le moderne biotecnologie. L’articolo 10.6, in particolare, prevede la possibilità degli Stati di invocare il principio di precauzione a fondamento di un eventuale rifiuto all’importazione di OGM agricoli o destinati direttamente all’alimentazione o alla trasformazione. Sull’evoluzione del diritto internazionale dell’ambiente si veda A. CROSETTI, R. FERRARA, F. FRACCHIA, N. OLIVETTI RASON, Diritto dell’ambiente, cit., 8; N. LUGARESI, Diritto dell’ambiente, Padova, 2002, 19 e ss. In merito all’applicazione del principio precauzionale nel diritto internazionale cfr. F. ACERBONI, Contributo allo studio del principio di precauzione, cit., 245 e ss. Sulla Convenzione di Rio si veda T. SCOVAZZI, Sul principio precauzionale nel diritto internazionale dell’ambiente, in Riv. dir. int., 1992, 699; S. MARCHISIO, Gli atti di Rio nel diritto internazionale, in Riv. dir. int., 1992, 581; G. TREVES, Il diritto dell’ambiente a Rio e dopo Rio, in Riv. giur. amb., 1993, 577, nonché G. FRANCESCATO, A. PECORARO SCANIO, Il principio di precauzione, cit. 15 e ss. In particolare, sui riflessi dei principi di Rio sull’evoluzione del diritto ambientale si veda G. CORDINI, Diritto ambientale comparato, Padova, 2002, 42 e ss. © Wolters Kluwer PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E ATTIVITÀ PREFETTIZIA 99 Scopo dell’analisi è quello di evidenziale il ruolo del prefetto nelle procedure di cui si tratta. 2.1. I principi europei a tutela dell’ambiente Agli inizi degli anni ’90 i due paradigmi “certezza del rischioprevenzione” e “incertezza del rischio-precauzione” vengono inseriti nel Trattato di Maastricht, all’articolo 130 R, per essere poi trasfusi nell’art. 174 del Trattato di Amsterdam, divenuto oggi, l’art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE)(3). Tale ultimo articolo fonda la politica dell’Unione Europea in materia ambientale sui principi di precauzione, dell’azione preventiva, sul principio della correzione in via prioritaria alla fonte dei danni causati all’ambiente e sul principio “chi inquina paga”. Il principio dell’azione preventiva, come già sottolineato, prescrive la necessità di prevenire il danno ambientale, attraverso azioni poste in essere, per quanto possibile, in un momento anteriore a quello dell’inizio dell’attività potenzialmente lesiva. Tipico istituto che al principio dà applicazione è la valutazione di impatto ambientale. Il principio della correzione, in via prioritaria, alla fonte dei danni causati all’ambiente impone al soggetto che cagiona il danno ambientale il ripristino dello status quo ante. Il principio si giustifica sia sulla base dell’elevato livello di tutela perseguito dall’Unione Europea in materia ambientale, sia in base alla necessità di evitare che il bene ambiente possa trasformarsi in una mera voce risarcitoria nell’ambito di un’analisi costi-benefici. Il principio “chi inquina paga” esprime il criterio generale di attribuzione della responsabilità per i danni ambientali, derivino essi da attività illecite o da attività consentite benché inquinanti. Nel primo caso il principio assume natura sanzionatoria, nel secondo caso mira ad evitare che i costi ambientali vengano sopportati dalla collettività e giustifica l’introduzione di tariffe o tasse. (3) Sui principi europei a tutela dell’ambiente, V. GUIZZI, Manuale di diritto e politica dell’Unione Europea, Napoli, 2003, 817 e ss.; B. CARAVITA, Diritto dell’ambiente, Bologna, 2001, 89; L. KRAMER, Manuale di diritto comunitario per l’ambiente, Milano 2002; G. CORDINI, Diritto ambientale comparato, Padova, 2002, 152 e ss.; A. AIROLDI, La politica comunitaria dell’ambiente, in Dir. Regione, 2000, 227. © Wolters Kluwer 100 2.2. MARIA GABRIELLA CASACCIO In particolare, il principio di precauzione Il principio di precauzione, a mente della Comunicazione della Commissione Europea COM/2000/1 del 2 febbraio 2000, “trova applicazione in tutti i casi in cui una preliminare valutazione scientifica obiettiva indica che vi sono ragionevoli motivi di temere che i possibili effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possano essere incompatibili con l’elevato livello di protezione prescelto dalla Comunità”. In tutti questi casi il principio precauzionale costituirà una base di azione che consentirà l’adozione di misure finalizzate al contenimento del rischio senza che sia necessario attendere risposte certe da parte della comunità scientifica circa i nessi tra cause ed effetti dannosi che si mira a scongiurare(4). Il principio di precauzione, nell’ambito del diritto comunitario, esprime, così, un giudizio di preferenza nei riguardi della protezione di beni di valore primario, quali la vita delle persone e la tutela dell’ambiente rispetto alla salvaguardia di interessi economici(5). La decisione precauzionale verrà adottata senza che vi sia la necessità di disporre di tutte le evidenze scientifiche comprovanti i rischi che si intende scongiurare e dovrà scaturire dal bilanciamento dei valori dell’ambiente, della vita e della salute umana con quelli rappresentati dalla tutela delle libertà economiche degli individui, delle industrie e delle organizzazioni. Tre, secondo la Commissione, le fasi progressive attraverso le quali è possibile pervenire all’adozione della misura precauzionale: la valutazione del rischio (risk assessment), la gestione del rischio (risk management) e la comunicazione del rischio (risk communication). La valutazione del rischio dovrà essere condotta da esperti riconosciuti, dovrà poggiare su dati scientifici affidabili, anche se incompleti, e dovrà es(4) “Quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, le istituzioni possono adottare misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate le realtà e la gravità di tali rischi”, Corte di Giustizia, 5 maggio 1998, cause C-157/96 e C-180/96, Regno Unito c. Commissione, punto 99. (5) Nel senso che la tutela della salute assuma una “importanza preponderante rispetto a considerazioni di ordine economico”, Corte di Giustizia, ord. 12 luglio 1996, causa C-180/96, Regno Unito contro Commissione, cit. punto 93; Corte di Giustizia, 17 luglio 1997, causa C183/95, Affish, punto 43. Il Tribunale di primo grado (sentenza Artegodan, del 26 novembre 2002, cause riunite T-74/00, T-76/00, T-83/00, T-84/00, T-85/00, T-132/00, T-137/00, T141/00) ha qualificato il principio precauzionale come “Il principio generale del diritto comunitario che fa obbligo alle autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire alcuni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici.” © Wolters Kluwer PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E ATTIVITÀ PREFETTIZIA 101 sere articolata sulla base di un ragionamento rigorosamente logico il cui esito dovrà esprimere la possibilità del verificarsi del pericolo, la sua eventuale gravità, la portata dei possibili danni, la persistenza, la reversibilità e gli effetti ritardati (punto 5.1.2)(6). Perché possa sussistere il presupposto per l’applicazione del principio di precauzione, da tale valutazione deve emergere che, consentendo l’attività la cui pericolosità è stata vagliata, potrebbe essere impossibile mantenere il livello di tutela previsto per la salute o per l’ambiente. L’esito della valutazione avrà sempre carattere probabilistico, dal momento che, per definizione, il ricorso al principio di precauzione avviene in situazioni di incertezza scientifica. L’incertezza può riguardare, secondo la Commissione, le variabili prescelte, le misurazioni effettuate, i campioni individuati, i modelli utilizzati o le relazioni causali. L’incertezza potrebbe derivare altresì o dalla totale mancanza di dati ovvero da una differente valutazione di essi da parte di diversi orientamenti della comunità scientifica(7). Alla fase di valutazione del rischio, segue la fase di gestione del rischio, che culminerà nell’adozione della decisione precauzionale. A tale decisione, secondo la Comunicazione della Commissione, le competenti autorità devono pervenire attraverso il previo bilanciamento della totalità degli interessi ambientali, sanitari ed economici suscettibili di essere coinvolti dalla misura che si vorrebbe adottare, tenendo presente che (6) La valutazione del rischio consta, secondo la Comunicazione, di quattro componenti: l’identificazione del pericolo (hazard identification), la caratterizzazione del pericolo (hazard characterization), la valutazione dell’esposizione (exposure assessment) e la caratterizzazione del rischio (risk characterization). L’identificazione del pericolo concerne l’identificazione degli agenti o della attività che potrebbero, in ipotesi, spiegare effetti negativi sull’ambiente o sulla salute. Dovrà trattarsi, in particolare, di pericoli ben precisi e non meramente generici. La caratterizzazione del pericolo ha riguardo all’apprezzamento in termini quantitativi e/o qualitativi della natura e della gravità degli effetti negativi stessi. In altri termini, essa ha riguardo alla identificazione del nesso di causalità tra agente ed effetto. La valutazione dell’esposizione è data dalla valutazione quantitativa e/o qualitativa della probabilità di esposizione della popolazione o dell’ambiente al pericolo. La caratterizzazione del rischio consiste nella stima in termini qualitativi e/o quantitativi della “probabilità, della frequenza e della gravità degli effetti negativi sull’ambiente o sulla salute conosciuti o potenziali che possono verificarsi.” (7) A titolo d’esempio di misura precauzionale è possibile menzionare il noto caso del tricloroetilene svedese (Corte di Giustizia, 11 luglio 2000, Toolex, causa C-473/98). La Svezia aveva vietato sul proprio territorio l’uso di sostanze chimiche contenenti tricloroetilene a fini professionali, allo scopo di tutelare la salute dei lavoratori. I dati scientifici disponibili consentivano di affermare con certezza che tale sostanza avesse effetti cancerogeni, senza tuttavia riuscire determinare quale fosse la soglia di esposizione che favorisse il prodursi di tali effetti. Era quindi controverso se un rischio per i lavoratori potesse effettivamente prodursi. Nell’incertezza, la Svezia optò, precauzionalmente, per il divieto assoluto dell’uso della sostanza, misura che la Corte di Giustizia giudicò pienamente legittima perché giustificata dal presupposto di una logica e rigorosa analisi dei dati disponibili. © Wolters Kluwer 102 MARIA GABRIELLA CASACCIO nell’ordinamento comunitario la tutela della salute umana e dell’ambiente riveste carattere primario e deve essere perseguita in via prioritaria rispetto agli interessi economici. La decisione dovrà inoltre valutare il livello di rischio “socialmente accettabile” al momento in cui essa viene presa(8). Il procedimento che condurrà all’adozione della misura precauzionale dovrà essere improntato alla trasparenza e quanto più possibile partecipato. Terzo momento della strategia precauzionale è quello della comunicazione del rischio. Le autorità che si fanno carico della decisione precauzionale sono tenute a mettere a disposizione del pubblico, cittadini, associazioni ambientaliste e di categoria, tutti i dati e le informazioni delle quali si trovano in possesso, relative ai rischi potenzialmente connessi alle attività oggetto della misura precauzionale ed a continuare ad informarli anche successivamente all’adozione della misura, delle eventuali nuove acquisizioni scientifiche incidenti sulla valutazione del rischio(9). La Commissione richiede, inoltre, che le misure precauzionali rispettino i principi di proporzionalità, di non discriminazione e di coerenza. Il rispetto del principio di proporzionalità, che governa in generale le azioni comunitarie(10), comporta che le misure precauzionali debbano essere proporzionate rispetto al livello di tutela ricercato. (8) Nella medesima prospettiva, la dottrina italiana opera una distinzione tra rischio “oggettivo” e rischio “soggettivo”. Il primo si apprezza sul piano tecnico-scientifico ed è dato dall’obiettiva valutazione dei pericoli potenzialmente connessi a determinate attività. Il secondo consta invece di una valutazione di carattere soggettivo, che deve avvenire sul terreno sociologico e che attiene alla percezione del rischio in seno all’opinione pubblica e di conseguenza in seno agli organi rappresentativi che esprimono i valori di cui i cittadini sono portatori.L’entità del rischio, che la misura precauzionale deve limitare, nasce allora dal confronto di queste due componenti, e non semplicemente dalla considerazione del fattore scientifico.“Il problema allora, dal punto di vista giuridico e normativo è quello di individuare le tecniche di gestione del rischio e di definizione delle modalità di conoscenza, capaci di garantire la percezione, la più oggettiva possibile, ma soprattutto la più partecipata possibile, dei limiti di accettabilità e delle condizioni alle quali il rischio può essere gestito”, così S. GRASSI, Considerazioni introduttive, in N. OLIVETTI RASON, C. COLALUCA, A. GIOVANAZZI, M. MALO, A. PERINI, (a cura di) Inquinamento da campi elettromagnetici, Padova, 2002, XXII. Cfr. altresì F. GIAMPIETRO, Precauzione e rischio socialmente accettabile: criterio interpretativo della legge 36/2001, in Ambiente, 2001, 429. (9) La comunicazione del rischio avverrà anche attraverso misure specifiche quali la c.d. “tracciabilità”, che consente di ripercorrere la “storia” di un prodotto nell’ambito dei sistemi di produzione e di distribuzione, e l’etichettatura che fornisce immediatamente al pubblico le informazioni sulle caratteristiche del prodotto stesso. (10) Come il principio di precauzione, anche il principio di proporzionalità nasce in Germania. Gli orientamenti della giurisprudenza tedesca in merito all’elaborazione del principio vengono fatti propri dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea e, attraverso la giurisprudenza della Corte, in forza del ben noto fenomeno di cross-fertilization tra gli ordinamenti giuridici dei Paesi europei, il principio di proporzionalità ha fatto il suo ingresso nei diritti nazionali © Wolters Kluwer PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E ATTIVITÀ PREFETTIZIA 103 E’ proprio l’intreccio tra precauzione e proporzionalità a favorire, sul piano giuridico, la ricerca di quel delicato equilibrio tra la tutela dei valori ambientali e sanitari, che deve essere perseguita in via primaria, e la considerazione delle istanze di carattere economico, in modo che la prima possa realizzarsi nel modo meno vessatorio possibile per le seconde. A fronte di un rischio solo potenziale, ad esempio, spesso il divieto totale di un’attività può costituire una misura sproporzionata. Al contrario, in alcuni casi, quando il rischio appaia maggiormente plausibile e il danno minacciato di rilevante entità, esso potrebbe rappresentare la sola risposta adeguata(11). Costituisce applicazione del principio di proporzionalità il c.d. principio di sostituzione, per il quale nella scelta relativa alla misura più adeguata al caso concreto bisognerà tenere conto dell’eventuale possibilità per gli operatori commerciali di sostituire prodotti o procedimenti pericolosi con altrettanti prodotti o procedimenti che presentano rischi minori(12). Passando al principio di non discriminazione, anch’esso caposaldo del mercato comune, degli Stati membri. Secondo la giurisprudenza tedesca il principio di proporzionalità consta di tre componenti: idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto. Sul tema si veda D.U. GALETTA, Il principio di proporzionalità nella giurisprudenza comunitaria, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1993, 837 e ss., Id. Discrezionalità amministrativa e principio di proporzionalità, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1994, 142, e Il principio di proporzionalità, Milano, 1998; A. SANDULLI, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998. Cfr. nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Giustizia le sentenze: 14 aprile 1960, Acciaierie e tubificio di Brescia, causa 31/59; 20 febbraio 1979, Buitoni, causa 122/78; 24 settembre 1985, Man Sugar, causa 181/84, 26 giugno 1990, Zardi, causa C-8/89. (11) Nel caso Bluhme del 3 dicembre 1998, causa C-67/97, la Corte di Giustizia ha giudicato legittimo il divieto assoluto di detenere api diverse da una determinata sottospecie in una data isola, al fine di preservarne l’identità biologica. Nella sentenza National Farmers’ Union del 5 maggio 1996, causa C-157/96, la Corte ha messo in evidenza come l’embargo di carne bovina proveniente dal Regno Unito fosse la sola misura possibile. Né l’informazione dei consumatori, né l’etichettatura proposta dalla difesa inglese avrebbero rappresentato misure adeguate a fronteggiare la diffusione dell’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina. (12) Nel caso Safety Hi-Tech, del 14 luglio 1998, causa C-284/95, la Corte ha utilizzato proprio il principio di sostituzione per dichiarare legittimo il divieto posto dalla Comunità dell’uso di HCFC per i servizi antincendio, trattandosi di prodotti sostituibili da altri altrettanto efficaci ma non pericolosi per la cupola d’ozono; ed altrettanto legittima l’autorizzazione parziale di halon, anch’essi pericolosi per l’effetto serra, ma non sostituibili con altre sostanze dotate del medesimo potere antincendio. Nel caso Toolex, cit., la Corte ha ritenuto proporzionato il divieto svedese dell’uso del tricloroetilene a fini professionali, anche perché era comunque previsto un sistema di autorizzazioni individuali all’impiego di tale sostanza, subordinato alla prova dell’assenza di una sostanza alternativa meno nociva ed all’obbligo di proseguire nella ricerca di sostanze alternative meno dannose ed altrettanto utili. Il principio di sostituzione ha trovato varie applicazioni da parte della normativa comunitaria in tema di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro. Esso costituisce, ad esempio, uno dei principi generali che deve osservare il datore di lavoro al fine di garantire la sicurezza dei lavoratori, ai sensi della direttiva 89/391. © Wolters Kluwer 104 MARIA GABRIELLA CASACCIO esso vieta che la misura precauzionale possa generare discriminazioni ingiustificate. Il principio richiede che situazioni tra loro comparabili non siano trattate in modo diverso e che, reciprocamente, situazioni diverse non ricevano il medesimo trattamento, a meno che ciò non sia obiettivamente giustificato. La verifica del rispetto di tale principio consisterà nell’appurare che il reale obiettivo perseguito dalla misura precauzionale sia effettivamente la tutela della salute o dell’ambiente e non l’introduzione di forme mascherate di protezionismo. Il principio di coerenza, infine, richiede che le misure adottate siano coerenti con quelle simili già emanate in circostanze analoghe o impiegando analoghe strategie o analoghi approcci. Le misure precauzionali, inoltre, dovranno essere previamente sottoposte ad un esame dei vantaggi e degli oneri da esse derivanti. Tale esame, che non si riduce ad una semplice analisi costi/benefici, consiste nel comparare le conseguenze positive e negative più probabili della misura prevista e quelle che, al contrario, sarebbero suscettibili di manifestarsi se la misura non venisse adottata, e viene espresso in termini di costi globali per la comunità, sia nel breve che nel lungo periodo. La Comunicazione della Commissione sottolinea, tuttavia, come sia altrettanto possibile l’impiego di altri metodi di analisi quali, ad esempio, quello relativo all’impatto socio-economico delle varie azioni che si considerano. Potrebbe, infatti, darsi che una società sia disponibile a sostenere costi più elevati pur di preservare i valori sanitari e ambientali. Ulteriore caratteristica della misura precauzionale è quella che ne condiziona la vigenza agli esiti dell’evoluzione scientifica. Le misure precauzionali, invero, sono per natura provvisorie e possono essere mantenute fino a quando il quadro di incertezza scientifica, di incompletezza e non conclusività dei dati che ha favorito la loro adozione rimanga tale da far continuare a supporre la sussistenza di un rischio di dimensioni inaccettabili per la società. Il sopravvenire di nuove evidenze scientifiche che contribuiscano a fare chiarezza sui legami causali tra gli effetti dannosi e le attività economiche in questione potrebbe favorire la modifica o eventualmente anche la stessa revoca della misura precauzionale. In dottrina è stato osservato che le misure precauzionali sarebbero presidiate da una clausola rebus sic stantibus(13). D’altra parte, la misura precauzionale verrà sottoposta ad un controllo scientifico regolare (c.d. monitoring), finalizzato ad ulteriori valutazioni alla (13) Così R. FERRARA, Valutazione di impatto ambientale e organismi geneticamente modificati, cit., 3461. © Wolters Kluwer PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E ATTIVITÀ PREFETTIZIA 105 luce delle eventuali nuove acquisizioni scientifiche. In questo senso le misure precauzionali non hanno carattere statico, ma dinamico(14). 2.3. Il principio di precauzione nel diritto interno Il principio di precauzione rappresenta uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento in materia ambientale. Prima di venire introdotto in via generale nel nostro sistema, tra il 2004 e il 2006, esso era già operante in settori specifici, perché richiamato in atti di diritto comunitario derivato (ad esempio, le direttive in materia di organismi geneticamente modificati) o perché previsto da leggi nazionali di settore (come, ad esempio, la legge quadro sull’inquinamento elettromagnetico n. 36 del 22 febbraio 2001(15)). Di esso aveva, inoltre, cominciato a fare applicazione la giurisprudenza, anticipando il legislatore, in materie ove mancava una esplicita previsione al riguardo(16). L’introduzione in via generale del principio di precauzione è avvenuta ad opera della legge n. 308 del 15 dicembre 2004, di delega al Governo per il riordino della materia ambientale, il cui articolo 1, comma 8, lettera f), lo annovera tra i principi direttivi della materia stessa. Al di là di tale disposizione è bene ricordare, in ogni caso, che l’articolo 1 della legge n. 241 del 7 agosto 1990, così come modificato dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, ha stabilito che l’attività amministrativa è retta, tra l’altro, dai principi dell’ordinamento comunitario. In quanto principio generale del diritto comunitario, quindi, il principio di precauzione farebbe comunque ingresso, ricorrendone i presupposti, nei procedimenti amministrativi nazionali senza necessità di una specifica enunciazione(17). Successiva(14) Così P. KOURILSKY, G. VINEY, Le principe de précaution, cit., 78. Sul carattere dinamico del principio di precauzione cfr. anche F. ACERBONI, Contributo, cit., 258. (15) Sulla legge quadro n. 36 del 2001, R. TUMBIOLO, L’inquinamento elettromagnetico, Quaderni della Rivista giuridica dell’ambiente, Milano, 2001; G. COCCO (a cura di), Inquinamento da campi elettromagnetici e normativa di tutela, Torino, 2001; M. A. MAZZOLA, E. TAIOLI, Inquinamento elettromagnetico, Milano, 2001; N. OLIVETTI RASON, C. COLALUCA, A. GIOVANAZZI, M. MALO, A. PERINI (a cura di), Inquinamento da campi elettromagnetici, cit.; F. FONDERICO, La tutela dall’inquinamento elettromagnetico, cit.; ID., Tutela dall’inquinamento elettromagnetico e amministrazione ‘precauzionale’, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2004, 907; L. RAMACCI, G. MINGATI, Inquinamento elettromagnetico, Napoli, 2001; F. MERUSI, Dal fatto incerto alla precauzione: la legge sull’elettrosmog, in Foro amm., 2001, II, 220, N. LUGARESI, Diritto dell’ambiente, cit., 133. (16) Si veda, a questo proposito, la nota sentenza del T.A.R. Veneto, II, del 13 febbraio 2000. (17) E’ da sottolineare che la dottrina maggioritaria ha sempre tendenzialmente ritenuto l’articolo 174 privo di effetto diretto nei confronti delle autorità nazionali, poiché esso si indirizza espressamente alle sole istituzioni comunitarie e non agli Stati membri. In tal senso, ad esempio, P. KOURILSKY, G. VINEY, Le principe de précaution, cit., 123, secondo i quali, il © Wolters Kluwer 106 MARIA GABRIELLA CASACCIO mente, in attuazione della delega di cui alla citata legge n. 308 del 2004, il decreto legislativo n. 152 del 3 aprile 2006, c.d. “Codice dell’Ambiente”, ha posto il principio alla base della materia ambientale(18). Per quanto riguarda la collocazione nel nostro sistema amministrativo delle decisioni precauzionali – le quali implicano non soltanto una valutazione scientifica ma anche una ponderazione di interessi - la dottrina(19) le fa rientrare nell’ambito della discrezionalità tecnica, concetto notoriamente criticato in seno al dibattito scientifico perché giudicato intrinsecamente contraddittorio, ma che invece, rispetto alla decisione precauzionale, sembra recuperare utilità definitoria(20). principio di precauzione, così come formulato dall’articolo 174 del Trattato, non possiede il valore di una regola di diritto che sia immediatamente applicabile senza il supporto di una legislazione o di una regolamentazione specifica; N. DE SADELEER, Le statut juridique, cit., 103; F. CASOLARI (a cura di), Seminario di Studio “Il principio di precauzione nel diritto internazionale e comunitario” (Modena, 30 novembre 2001), in Dir. Ec., 2002, 210, F. GIUNTA, Prudenza nella scienza, cit., 166. (18) Sul nuovo Codice dell’Ambiente si vedano gli Atti del convegno nazionale sul nuovo codice dell’ambiente, in Ambiente e sicurezza sul lavoro, 2006, 74 e ss. (19) F. SALVIA, op.cit., 604 e ss. (20) In generale, sulla discrezionalità tecnica, D. DE PRETIS, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, cit. A partire dalla impostazione di Giannini, la definizione tradizionale di discrezionalità tecnica venne sottoposta a forti contestazioni perché accostava due concetti, la discrezionalità e la tecnica, che sembravano fra loro concettualmente incompatibili. La tecnica consiste in un sistema di regole di tipo non giuridico, le quali, per definizione, si sottraggono ad un confronto di interessi (un determinato valore scientifico è o non è in quanto tale, ma non può essere misurato sulla base del pubblico interesse). La discrezionalità è invece attività di ponderazione di interessi e confronto rispetto all’interesse pubblico primario, finalizzata alla elaborazione della scelta più opportuna in ordine al comportamento da tenere. Giannini sostenne che la scelta tecnica dell’amministrazione fosse priva di aspetti di affinità strutturale con la discrezionalità amministrativa, consistendo in una “scelta fatta sulla base di regole delle tecniche scientifiche o applicate che si esprime in giudizi tecnici”, la quale non implica alcun potere di ponderazione degli interessi insistenti sulla situazione concreta. Secondo l’A., “tale discrezionalità tecnica non ha proprio nulla di discrezionale” e così si chiama “per errore storico della dottrina” (M.S. GIANNINI, Discrezionalità amministrativa e pluralismo, in Quaderni del pluralismo, II, 1984 pag. 109). Tale posizione è divenuta maggioritaria in dottrina. Secondo F. LEVI, L’attività conoscitiva della pubblica amministrazione, Torino, 1967, 270, in nota, la discrezionalità tecnica è quell’attività dell’amministrazione “che presenti difficoltà superabili solo ricorrendo a cognizioni specialistiche”. Per A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 595, la questione del rapporto fra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica è risolto definitivamente se ci si sofferma sulla circostanza per cui non sussiste alcun legame o nesso tra il potere di valutazione tecnica e la ponderazione del pubblico interesse. Respinge la nozione di discrezionalità tecnica anche E. CAPACCIOLI, Manuale di diritto amministrativo, Padova, 1983, 286, il quale ne sottolinea la inutilità concettuale (“la discrezionalità tecnica non esiste”) poiché essa consiste in una locuzione intrinsecamente contraddittoria, “fonte spesso di confusione, quasi mai di utilità conoscitiva.” Secondo F. LEDDA, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, in Dir. proc. amm., 1983, 387, la discrezionalità tecnica si risolve in una mera attività applicativa di regole © Wolters Kluwer PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E ATTIVITÀ PREFETTIZIA 107 Nella società contemporanea, d’altra parte, le valutazioni tecniche appaiono sempre più legate a valutazioni di interessi(21). Spesso, inoltre, è il diritto, quale sistema di regole non neutrali, a determinare i valori che attraverso la scienza devono essere perseguiti(22). L’amministrazione è oggi, quindi, sempre più spesso chiamata a compiere valutazioni tecniche di tipo progettuale – operativo, che implicano la definizione di modelli operativi orientati a un risultato (quali, ad esempio, la bonifica di un territorio, la realizzazione di un’opera, le modalità di tutela di un bene culturale, ecc.) e richiedono, per poter arrivare ad una decisione ottimale, oltre a giudizi di carattere scientifico, con carattere il più delle volte unidirezionale, la ponderazione e il confronto dei diversi interessi coinvolti nella fattispecie. Corollario di questa impostazione è che la decisione precauzionale, avendo natura discrezionale, debba ritenersi riservata all’amministrazione. Il sindacato del giudice amministrativo su tale decisione, di conseguenza, non può assumere le forme di un sindacato ‘forte’ e sostitutivo, ma solo quelle di un controllo ‘debole’ di ragionevolezza e plausibilità, secondo il modello di sindacato incentrato sull’eccesso di potere(23). tecniche, in quanto, le regole medesime, per effetto del rinvio operato loro dalla norma giuridica, si legano ad essa e divengono parametri di legittimità dell’azione amministrativa. In altri termini, il diritto fa “propria la normatività inerente a questa o a quella tecnica traducendola per ciò stesso in normatività giuridica.” Secondo tale prospettiva, la questione tecnica viene così definitivamente attratta nell’arco delle questioni giuridiche, non residuando in capo all’amministrazione margine alcuno per la formulazione di eventuali giudizi di valore. (21) All’analisi delle situazioni caratterizzate dal legame tra scienza, tecnologia, diritto e politica è dedicato il lavoro di L. VIOLINI, Le questioni scientifiche controverse nel procedimento amministrativo, Milano, 1986. Osserva l’A. che le questioni scientifiche controverse “trascendono i confini di una chiara distinzione tra l’accertamento del fatto, dominato da canoni di certezza e obiettività, e le scelte di valore connesse all’applicazione della norma, poiché si pongono come momento in cui, non potendo addivenire mediante l’attività di accertamento a un soddisfacente grado di certezza in ordine ai presupposti della fattispecie normativa, la pubblica amministrazione è costretta ad integrare l’accertamento stesso con previsioni, pronostici, probabilità, valutazioni dei rischi ed altre forme di calcolo statistico che implicano l’esercizio di facoltà di natura discrezionale in vista dell’assetto di interessi da raggiungere con la norma regolamentare o con l’atto amministrativo da emanarsi” (p. 126). A riprova di quanto affermato, l’A. si sofferma altresì sulla difficoltà incontrata dai giudici americani nel classificare le science policy issues nel novero delle questions of fact (attinenti all’accertamento dei fatti) ovvero nell’ambito delle questions of law (riguardanti la sussunzione del fatto nella norma). A tal proposito viene ricordata una posizione dottrinaria che ha elaborato la figura delle mixed questions of law and fact. Il frequente legame tra attività accertativa di tipo tecnico e valutazione discrezionale è altresì messo in luce da E. CARDI, La manifestazione di interessi nel procedimento amministrativo, I, Perugia, 1983, 44 e ss. Sul punto altresì, F. SALVIA, op. cit., 604. (22) F. SALVIA, op. cit., 604 e 606, nonché M. TALLACCHINI, Diritto per la natura, cit., 271. (23) Cfr. F. FONDERICO, Tutela dall’inquinamento elettromagnetico, cit., 926. © Wolters Kluwer 108 MARIA GABRIELLA CASACCIO La dottrina spiega tale soluzione anche sulla base di una esigenza di responsabilizzazione e di equilibrio del sistema, la quale suggerirebbe di affidare le valutazioni scientifiche opinabili o di carattere incerto ad un apparato stabile, ben identificato e tecnicamente preparato, quale quello della pubblica amministrazione(24). “In altri termini, quando né la scienza né il diritto sono in grado di offrire criteri idonei per pervenire a risultati ‘univoci’ ma solo ‘attendibili’, sembra più aderente alla ‘natura delle cose’ che sia l’amministrazione (e non il giudice) a dire l’ultima parola in materia e che il controllo giurisdizionale sia circoscritto a ciò che il giudice può effettivamente dare: la correttezza della metodologia adottata”(25). Sulla medesima linea è anche la posizione della Commissione Europea. Nella citata comunicazione sul principio di precauzione COM/2000/1, la Commissione ha qualificato come “discrezionale” il potere di adottare una misura precauzionale, discrezionalità che involge sia l’an della determinazione, sia la portata della misura da adottare. In secondo luogo, la Commissione ha ricordato che, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, quando una istituzione comunitaria è titolare di un ampio potere discrezionale, come si verifica nel caso dell’applicazione del principio di precauzione, è necessario che il controllo del giudice comunitario si limiti a verificare se l’esercizio di un siffatto potere non sia viziato da errore manifesto o da sviamento ovvero se l’istituzione non abbia manifestamente oltrepassato i limiti del proprio potere di apprezzamento. L’estensione ed i limiti del sindacato giurisdizionale comunitario sulle misure precauzionali sono stati altresì precisati dal Tribunale di Primo Grado (24) C. MARZUOLI, Potere amministrativo, cit., 215 e ss, giustifica l’attribuzione di un potere esclusivo di valutazione tecnica in capo alla p.a., sulla base della maggior rappresentatività dei valori dei quali essa è portatrice rispetto al giudice. “…I valori delle diverse componenti dell’amministrazione sono filtrati, influenzati, ricondotti ad unità da quelli propri dell’indirizzo politico. E l’indirizzo politico, che è espresso, appunto dagli apparati politici, rappresenta (o dovrebbe rappresentare) la (una) sintesi dei valori presenti nell’intera società. Non si può dunque negare che i valori espressi dall’amministrazione (per il fatto che essi scaturiscono dalla forzata compresenza di valori portati da gruppi individuati e individuabili in base a criteri diversi e per il fatto che sono sistematicamente mediati dall’indirizzo politico) siano più rappresentativi dell’insieme del corpo sociale, per un verso, e, per un altro (ma si tratta, in definitiva, del rovescio della medaglia), più facilmente influenzabili e controllabili dai cittadini” (p. 218). (25) Così F. SALVIA, op.cit., 621. Osserva G.D. COMPORTI, Amministrazione e giudici, cit., 2460, che, se gli si volesse riconoscere un sindacato pieno sulla decisione precauzionale, il giudice finirebbe “per operare più quale fattore di composizione di incertezze sociali e culturali, che come organo di composizione delle liti e delle relative incertezze giuridiche, facendosi così carico di una non meglio definita funzione di supervisione tecnica degli approdi teorici della comunità scientifica e della funzione di valutazione e selezione degli interessi meritevoli di tutela, che sono estranee al proprio bagaglio culturale e al proprio mandato.” © Wolters Kluwer PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E ATTIVITÀ PREFETTIZIA 109 delle Comunità Europee, nel caso Artegodan(26). Secondo il Tribunale “il principio di precauzione - principio generale del diritto comunitario - in caso di incertezza sull’esistenza o la portata dei rischi potenziali per la salute umana, consente alle istituzioni di provvedere, per salvaguardarla, nel rispetto dei principi di proporzionalità, di non discriminazione, di primazia della sicurezza della collettività e della tutela dell’ambiente sugli interessi economici. In tal caso gli atti dell’Autorità competente costituiscono esercizio di potere discrezionale ed il giudice comunitario verifica che siano inficiati da errore manifesto o da sviamento di potere, o se l’Autorità abbia manifestamente oltrepassato i limiti del proprio potere […]. Il controllo giurisdizionale può investire anche la legittimità estrinseca del parere scientifico di un comitato, quindi la regolarità dei lavori del comitato e la coerenza interna della motivazione del parere, ossia il riscontro di un nesso comprensibile fra accertamenti scientifici compiuti e conclusioni”. 3. I procedimenti previsti dal Codice dell’Ambiente Come già anticipato, il decreto legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 ha introdotto una specifica disciplina relativa alle misure precauzionali, alle misure di prevenzione e alle misure in materia di danno ambientale, coinvolgendo il prefetto nel procedimento che porta alla loro adozione(27). L’articolo 301 del suddetto decreto chiarisce, innanzitutto, che la finalità del principio di precauzione è quella, a seguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva, di scongiurare rischi anche solo potenziali e di assicurare un elevato livello di tutela per la salute umana e per l’ambiente. Competente ad adottare la misura precauzionale è il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, previa informazione da parte del prefetto. In particolare, qualora l’operatore rilevi la sussistenza del rischio, egli deve farne immediata comunicazione al prefetto (oltre che al comune, alla provincia, alla regione o alle province autonome), il quale, nelle ventiquattro ore successive, ne informa il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio. Quest’ultimo, provvede, a sua volta, ad adottare, in attuazione del principio di precauzione, misure di contenimento del rischio che siano propor(26) Sentenza del 26 novembre 2002, causa T-74/00, cit. (27) Su tale tematica G. FERRERO, F. RUSSO, Il danno ambientale nel nuovo codice dell’ambiente, in Foro Amm., Cons. Stato, 2006, 3443 e ss.; L. BUTTI, Principio di precauzione, Codice dell’ambiente e giurisprudenza delle corti comunitarie e della Corte costituzionale, in Riv. giur. amb., 2006, 809 e ss.; A. SCARCELLA, Il danno ambientale e le novità introdotte dalla VI parte del testo unico, in Ambiente e sicurezza sul lavoro, 2006, 74 e ss. © Wolters Kluwer 110 MARIA GABRIELLA CASACCIO zionali rispetto al livello di protezione che si vuole perseguire, non discriminatorie nella loro applicazione e coerenti con misure analoghe già adottate, basate sull’esame dei potenziali vantaggi ed oneri ed aggiornabili alla luce di nuovi dati scientifici. Per quanto concerne l’azione di prevenzione, l’articolo 303 del Codice dell’Ambiente prevede che quando un danno ambientale non si sia ancora verificato ma esista una minaccia imminente che si verifichi, l’operatore interessato adotta, entro ventiquattro ore e a proprie spese, le necessarie misure di prevenzione e di messa in sicurezza. L’operatore deve fare precedere tali interventi da una comunicazione al comune, alla provincia, alla regione o alla provincia autonoma nel cui territorio si prospetta l’evento lesivo, ed al prefetto che, nelle successive ventiquattro ore informa il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio. Analoga, tempestiva comunicazione alla prefettura e agli altri soggetti sopra elencati deve essere effettuata dall’operatore, ai sensi dell’art. 305, nel caso in cui si sia verificato un danno ambientale, avendo cura di specificare tutti gli aspetti pertinenti della situazione occorsa. Dalle norme citate, emerge che nei procedimenti delineati dal nuovo Codice dell’Ambiente, le prefetture ricoprono un ruolo di notevole importanza, dovendo assolvere ad un obbligo di tempestiva informazione del Ministro, che se rimasto inadempiuto o se adempiuto con ritardo può dare luogo a responsabilità. La necessità che l’obbligo di informazione sia adempiuto senza ritardo è confermata dal successivo articolo 310, che prevede che i soggetti di cui all’articolo 309 possano fare ricorso al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, per l’annullamento degli atti e dei provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni di cui alla parte sesta del decreto (che comprende i menzionati articoli) nonché contro il silenzio inadempimento del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, ed altresì per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione da parte del medesimo Ministro delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale. Altra competenza del prefetto in base al codice dell’Ambiente concerne l’istruttoria dell’ordinanza del Ministero dell’Ambiente, di cui all’art. 313, con la quale si ingiunge a coloro i quali siano stati accertati come responsabili di un danno ambientale, il ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica. L’articolo 312 stabilisce, a tal proposito, che il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, per l’accertamento dei fatti, per l’individuazione dei trasgressori, per l’attuazione delle misure a tutela dell’ambiente e per il risarcimento dei danni, possa delegare il Prefetto competente per territorio ed avvalersi, anche mediante apposite convenzioni, della collaborazione delle Avvocature distrettuali dello Stato, del Corpo forestale dello Stato, dell’Arma dei carabinieri, della Polizia di Stato, della Guardia di finanza e di © Wolters Kluwer PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E ATTIVITÀ PREFETTIZIA 111 qualsiasi altro soggetto pubblico dotato di competenza adeguata. Le modalità di tale istruttoria sono disciplinate dal medesimo articolo. Da ultimo, si segnala la competenza generale del Prefetto in merito alla raccolta di segnalazioni formulate da parte delle regioni, delle province autonome, degli enti locali, anche associati e da parte di persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse legittimante la partecipazione al procedimento relativo all’adozione delle misure di precauzione. Questi soggetti, ai sensi del successivo articolo 309, possono presentare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, depositandole presso le prefetture, denunce e osservazioni, corredate da documenti ed informazioni, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o minaccia imminente di tale danno, e chiedere un intervento statale a tutela dell’ambiente. Da quanto appena esposto emerge un disegno del legislatore volto alla valorizzazione della rete Ministero dell’Ambiente-Prefetture. Il Ministero dell’Ambiente, privo di proprie articolazioni territoriali, si avvale delle prefetture per svolgere a livello locale la funzione di raccolta e di esame delle informazioni e delle segnalazioni in materia ambientale prodromiche all’adozione di misure preventive o precauzionali, ed eventualmente per effettuare l’istruttoria dei provvedimenti sanzionatori del danno ambientale. Sembra così realizzarsi, in materia ambientale, il modello di U.T.G., delineato dall’articolo 1 del d.p.r. 3 aprile 2006 n. 180, quale organo di rappresentanza generale del Governo sul territorio, rete burocratica della quale possono avvalersi, per l’esercizio delle loro funzioni, anche amministrazioni dello Stato diverse dal Ministero dell’Interno. 4. Conclusioni Il Codice dell’Ambiente inserisce inequivocabilmente il Prefetto tra i tutori, a livello periferico, delle nuove istanze di salvaguardia della salute umana e dell’ambiente, configurando una nuova competenza in capo alle prefetture, in una materia, quella ambientale, che si colloca al centro del dibattito politico e giuridico contemporaneo. Tale competenza, tuttavia, non risulta, allo stato, ancora aver ricevuto attuazione. Sarebbe quanto mai opportuna, al contrario, l’attivazione presso ogni prefettura di uno “sportello ambiente” deputato alla raccolta delle istanze delle quali si è sin ora trattato e l’istituzione di un ufficio, eventualmente incardinato presso l’ufficio di gabinetto o presso l’area V, deputato alla loro valutazione, alla elaborazione delle informazioni da inviare al centro e all’attuazione delle misure dal centro delegate. © Wolters Kluwer 112 MARIA GABRIELLA CASACCIO Appare, pertanto, in un momento storico in cui l’istituto prefettizio è da più parti messo in discussione, non più rimandabile un raccordo con il Ministero dell’Ambiente finalizzato all’attuazione della rete territoriale prevista dal codice e a dare effettività alle nuove competenze che il codice stesso al Prefetto attribuisce. © Wolters Kluwer CARLO BOFFI RICOGNIZIONE DELLE COMPETENZE PREFETTIZIE IN TEMA DI PIANIFICAZIONE PROVINCIALE D’EMERGENZA NON DI DIFESA CIVILE SOMMARIO: Premessa. – 1. Piani Lgs. 17 di emergenza esterna per gli impianti industriali a rischio di incidente rilevante (D. Lgs. agosto 1999, n. 334 e s.m.i.). – 2. Piani di emergenza esterna per l'area portuale (D.M. Ambiente 16 maggio 2001 n. 293). – 3. Piani di emergenza esterna per le gallerie ferroviarie, stradali e autostradali. – 3.1. Piani di emergenza esterna per le gallerie ferroviarie (D.M. Infrastrutture e Trasporti 25 ottobre 2005 e circolare Gabinetto Ministro dell'Interno n. 7004 del 27 aprile 2011). – 3.2. Piani di emergenza esterna per le gallerie stradali e autostradali (D.P.R. 151/2011 e – per le gallerie della rete transeuropea TEN – D.Lgs. 264/2006). – 4. Piani di settore per la viabilità (D.M. Interno 27.1.2005, circolari Min. Interno n. 300 E/C.D/33/242 del 18 febbraio 2005 e n. M/29142/20 dell'11/11/2010). – 4.1. Piani di settore per l'esodo estivo. – 4.2. Piani emergenza neve. – 5. Piani di emergenza connessi all’uso pacifico dell’energia nucleare. Piani di emergenza esterna per gli impianti nucleari (D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 230). Piani operativi provinciali discendenti dal Piano nazionale di emergenza (Art. 3.3.4.2 del D.P.C.M. 19 marzo 2010 “Piano nazionale delle misure protettive contro le emergenze radiologiche” in attuazione dell’art. 121 del D.Lgs 17 marzo 1995, n. 230). – 5.1. Piani di emergenza per le navi a propulsione nucleare in aree portuali (Art. 3.2 D.P.C.M. 10 febbraio 2006 “Linee guida per la pianificazione di emergenza delle aree portuali interessate dalla presenza di naviglio a propulsione nucleare”). – 5.2. Piani di emergenza per il trasporto di materie radioattive (D.P.C.M. 10 febbraio 2006 “Linee guida di pianificazione di emergenza di trasporto di materie radioattive e fissili”) - 5.3 Piani per il rinvenimento di sorgenti orfane (art. 14 D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 52). – 6. Piani emergenza dighe. Premessa La “ricognizione delle competenze prefettizie in tema di pianificazione provinciale di emergenza non di difesa civile” è stata concepita e curata dall’autore nella speranza di costituire un utile vademecum per chi, nelle prefetture e con diversi livelli di responsabilità, lavora nell’ambito del settore © Wolters Kluwer 114 CARLO BOFFI della protezione civile. Non essendo un documento ufficiale, ma unicamente un semplice contributo di conoscenza e di idee da parte di un cultore della materia, gli errori e le omissioni sono imputabili unicamente all’autore, che se ne scusa anticipatamente. Eventuali suggerimenti, rettifiche e integrazioni torneranno particolarmente graditi. Nell’attuale complessa organizzazione della Protezione Civile in Italia fermo rimanendo il principio che spetti alla provincia la generale attività di predisposizione dei Piani Provinciali di emergenza, ai sensi dell’art. 108, lett.b) n. 2 del D.lgs 112/1998 - viene affidato ai Prefetti, da parte di specifiche norme, il compito di predisporre particolari piani provinciali d’emergenza. Poiché le fonti normative che attribuiscono tale potere/dovere sono le più disparate e spesso di non facile conoscenza, si ritiene utile, per gli operatori di settore, effettuare un riepilogo delle pianificazioni in questione, con l’indicazione dei riferimenti normativi e l’accompagnamento di brevi note illustrative o di commento Giova comunque premettere che la circolare prot. n. 14550/110 (12) del 28 dicembre 2012 del Gabinetto del Ministro dell’Interno che, confermando l’attualità dell’impostazione del sistema di pianificazione previsto dal D.lgs. succitato, ha sottolineato l'importanza dell'attivazione di forme di collaborazione e pianificazione condivise, al fine di sviluppare un sistema perfettamente integrato senza sovrapposizioni o interferenze 1. Piani Lgs. 17 di emergenza esterna per gli impianti industriali a rischio di incidente rilevante (D. Lgs. agosto 1999, n. 334 e s.m.i.) Per gli stabilimenti in cui sono presenti sostanze pericolose ex artt. 6 e 8 del D.Lgs. 334/99, al fine di limitare i danni derivanti da incidenti rilevanti, il Prefetto, d'intesa con le Regioni e gli Enti Locali interessati e previa consultazione della popolazione, predispone il piano di emergenza esterna (P.E.E.) allo stabilimento e ne coordina l'attuazione (art. 20). Il piano, redatto tenuto conto del piano di emergenza interna e delle altre informazioni fornite dal gestore, nonché delle eventuali valutazioni del Dipartimento della Protezione Civile, deve essere rivisto e aggiornato a intervalli appropriati e comunque ogni tre anni, e quindi trasmesso ai Sindaci, alla Regione e alla Provincia, al Ministero dell'Interno, al Dipartimento della Protezione Civile e al Ministero dell’Ambiente, cui devono essere segnalati anche gli impianti nei quali gli incidenti potrebbero avere effetti transfrontalieri. Antecedentemente alla predisposizione - ovvero alla revisione o all'aggiornamento - del piano, e comunque prima della sua adozione, il Prefetto procede, d'intesa con il Comune, alla consultazione della popolazione per mezzo di assemblee pubbliche, sondaggi, questionari o altre modalità ido- © Wolters Kluwer RICOGNIZIONE DELLE COMPETENZE PREFETTIZIE 115 nee, compreso l'utilizzo di mezzi informatici e telematici (art. 2 D.M. Ambiente 24 luglio 2009, n. 139). Il Prefetto deve rendere disponibili alla popolazione le informazioni in suo possesso relative alla descrizione e alle caratteristiche dell'area interessata dalla pianificazione, alla natura dei rischi, alle azioni previste per la mitigazione e la riduzione degli effetti e delle conseguenze di un incidente, alle autorità pubbliche coinvolte, alle fasi ed al relativo cronoprogramma della pianificazione e alle azioni previste dal piano concernenti il sistema degli allarmi in emergenza e le relative misure di autoprotezione da adottare. Le informazioni devono essere messe a disposizione della popolazione che può presentare al Prefetto osservazioni, proposte o richieste relativamente a quanto forma oggetto della consultazione delle quali si deve tenere conto nell'ambito delle attività di pianificazione - per un periodo di tempo non inferiore a trenta giorni, prima dell'inizio della consultazione. Si evidenzia che la Regione può disciplinare diversamente le forme di consultazione, ex art. 72 D.lgs. 112/98, come espressamente prevede l'art. 3 del D.M. 139/2009. 2. Piani di emergenza esterna per l'area portuale (D.M. Ambiente 16 maggio 2001 n. 293) L’Autorità portuale predispone il piano interno d’emergenza portuale, che deve indicare le misure per controllare e circoscrivere gli incidenti interni in modo da minimizzare gli effetti e limitare i danni per l’uomo, per l’ambiente e per le cose, la procedura di attivazione di tutte le misure di protezione dalle conseguenze di incidenti rilevanti e le procedure per il rapido ripristino delle condizioni di sicurezza operative dopo l’incidente, nonché le informazioni per la popolazioni da fornire al Sindaco. Il piano deve essere riesaminato, sperimentato e, se necessario, riveduto ed aggiornato, ad intervalli appropriati, e, comunque, non superiori a tre anni. Di seguito l’Autorità portuale predispone e trasmette al Prefetto, alla Provincia e al Comune, tutte le informazioni utili, unitamente al citato piano di emergenza interno, per la elaborazione del piano di emergenza esterno dell’area portuale. 3. Piani di emergenza esterna per le gallerie ferroviarie, stradali e autostradali Piani di emergenza esterna per le gallerie ferroviarie, stradali e autostra- dali. © Wolters Kluwer 116 3.1. CARLO BOFFI Piani di emergenza esterna per le gallerie ferroviarie (D.M. Infrastrutture e Trasporti 25 ottobre 2005 e circolare Gabinetto Ministro dell'Interno n. 7004 del 27 aprile 2011) Il Decreto Infrastrutture e Trasporti 25 ottobre 2005 ha lo scopo di assicurare un livello adeguato di sicurezza nelle gallerie ferroviarie, mediante l'adozione di misure di prevenzione e protezione atte alla di incidente. In particolare l’allegato 2, punto 3.3.1, prevede che l’autorità locali approntino congiuntamente i piani di emergenza esterna per le gallerie ferroviarie. E’ sorto, quindi, il problema dell’individuazione specifica dell’autorità locale alla quale attribuire il compito di indicare concretamente le amministrazioni e gli enti competenti in materia in un determinato ambito territoriale, coordinandone i lavori; con nota n. 23521 del 27 maggio 2010 indirizzata al Presidente di Ferrovie dello Stato ed all’ Amministratore Delegato della rete ferroviaria Italiana e solo informalmente acquisita dal Dipartimento dei Vigili del Fuoco del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti pro-tempore ha ritenuto di indicare i Prefetti quali autorità competenti per la stesura dei piani in argomento. Tale orientamento, tuttavia, non è mai stato comunicato al Ministro dell’Interno che, quindi, non ha potuto rappresentare la questione ai Prefetti. Nell’ottobre dello scorso anno, il citato dipartimento ha prospettato al Ministero dell’Infrastrutture e dei Trasporti la necessità, stante il tempo trascorso, che venga confermata ufficialmente l’individuazione operata dall’allora Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, onde consentire di emanare le opportune direttive ai Prefetti, sensibilizzandoli altresì sull’importanza di una sollecita definizione dei piani di emergenza esterni per le gallerie ferroviarie. Tuttavia al 1° marzo del 2014 ancora non è pervenuta alcuna risposta, pertanto non risulta chiara la determinazione del Dicastero dell’Infrastrutture e dei Trasporti. Sulla materia è intervenuta la succitata circolare del Capo di Gabinetto del Ministro dell’Interno del 27 aprile 2011, il quale, non essendo stato portato a conoscenza della direttiva del Ministro del M.I.T. del 27 maggio 2010, ha sostanzialmente fornito indicazioni di predisporre la pianificazione delle forze statali, predisponendo documenti possibilmente condivisi con le amministrazioni provinciali e comunali, oltre che con gli altri soggetti interessati quali RFI e organi tecnici. In ogni caso si ricorda che la pianificazione della condotta delle operazioni dovrà essere effettuata in base alla direttiva del Capo Dipartimento della Protezione Civile del 2 maggio 2006 recante “ indicazioni per il coordinamento operativo di emergenze”. © Wolters Kluwer RICOGNIZIONE DELLE COMPETENZE PREFETTIZIE 3.2. 117 Piani di emergenza esterna per le gallerie stradali e autostradali (D.P.R. 151/2011 e – per le gallerie della rete transeuropea TEN – D.Lgs. 264/2006) La normativa citata ha lo scopo di assicurare un livello adeguato di sicurezza nelle gallerie, mediante l'adozione di misure di prevenzione e protezione atte alla riduzione di situazioni critiche che possano mettere in pericolo la vita umana, l'ambiente e gli impianti della galleria, nonché mirate alla limitazione delle conseguenze in caso di incidente. Anche per le gallerie stradali e autostradali, come per quelle ferroviarie, l'eventuale pianificazione della condotta delle operazioni nelle emergenze dovrà essere effettuata sulla base della direttiva del Capo Dipartimento della Protezione Civile del 2 maggio 2006. Così come nelle pianificazioni al punto C1, la gestione delle attività di assistenza e di informazione alla popolazione è affidata al Sindaco che, qualora lo ritenga necessario, potrà chiedere il supporto dell’Amministrazione Provinciale, della Regione e della Prefettura. 4. Piani di settore per la viabilità (D.M. Interno 27.1.2005, circolari Min. Interno n. 300 E/C.D/33/242 del 18 febbraio 2005 e n. M/29142/20 dell'11/11/2010) Presso il Ministero dell'Interno è istituito il Centro di Coordinamento Nazionale in materia di viabilità - Viabilità Italia - quale struttura di coordinamento tecnico-amministrativo con il compito di disporre gli interventi operativi, anche di carattere preventivo, per fronteggiare le situazioni di crisi derivanti da avversità atmosferiche o da altri eventi, anche connessi con l'attività dell'uomo, che interessino la viabilità stradale ed autostradale e siano suscettibili di avere riflessi sul regolare andamento dei servizi e della mobilità generale del Paese. Il predetto Centro provvede ad assicurare il coordinamento delle misure operative ed informative che Polizia Stradale e gestori stradali devono attuare in occasione del verificarsi di criticità sulla circolazione (neve, esodo estivo, ecc.). A livello periferico l'attività di Viabilità Italia è assicurata attraverso una struttura di coordinamento istituita presso ogni Prefettura, il Comitato Operativo per la Viabilità (C.O.V.), coordinato da un funzionario della carriera prefettizia designato dal Prefetto, e composto dal dirigente della sezione della Polizia stradale o suo delegato, da un ufficiale designato dal Comandante Provinciale dell'Arma dei Carabinieri, da un funzionario designato dal Comandante Provinciale dei Vigili del Fuoco; esso può avvalersi inoltre della © Wolters Kluwer 118 CARLO BOFFI collaborazione delle amministrazioni e degli enti il cui apporto è ritenuto necessario. Il C.O.V. opera in stretto collegamento con il Centro nazionale, di cui è parte integrante e che tiene costantemente informato; in particolare, in considerazione della rete viaria e delle possibili implicazioni su altre modalità di trasporto presenti sul territorio di competenza, il C.O.V. promuove l'elaborazione di piani di settore, coordinando la predisposizione e l'attuazione di idonee misure preventive e di intervento, anche attraverso la stipula di appositi protocolli operativi, in conformità agli indirizzi definiti dal Centro nazionale. Il C.O.V., in caso di gestione di eventi che abbiano carattere di protezione civile, deve essere integrato all’interno dei centri di coordinamento operativo previsti a livello provinciale. Tra i piani di settore di competenza del C.O.V. si segnalano in particolare: 4.1. Piani di settore per l'esodo estivo Piani per l'esodo estivo predisposti sulla base del “Piano per l’estate” redatto da Viabilità Italia, che elabora il calendario con la previsione delle giornate con traffico intenso e possibili criticità. 4.2. Piani emergenza neve Piani emergenza neve predisposti sulla base del “Piano Neve” redatto da Viabilità Italia”, tenendo conto del Protocollo Operativo per la regolamentazione della circolazione dei veicoli pesanti in autostrada in presenza di neve del 14 dicembre 2005 e delle Linee guida per la gestione coordinata delle emergenze invernali su aree geografiche vaste con interessamento di più concessionarie autostradali, nonché delle circolari n. 266 dell' 8 gennaio 2013 del Dipartimento degli Affari Interni e Territoriali, e del Gabinetto del Ministro del 18 febbraio 2013; tale ultima circolare assegna in particolare ai prefetti dei capoluoghi di regione il coordinamento dei provvedimenti di limitazione del traffico da adottare a livello regionale. © Wolters Kluwer RICOGNIZIONE DELLE COMPETENZE PREFETTIZIE 5. 119 Piani di emergenza connessi all’uso pacifico dell’energia nucleare. Piani di emergenza esterna per gli impianti nucleari (D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 230). Piani operativi provinciali discendenti dal Piano nazionale di emergenza (Art. 3.3.4.2 del D.P.C.M. 19 marzo 2010 “Piano nazionale delle misure protettive contro le emergenze radiologiche” in attuazione dell’art. 121 del D.Lgs 17 marzo 1995, n. 230) Come è noto, i Prefetti territorialmente competenti hanno predisposto, a suo tempo, i piani di emergenza esterna per le centrali gli altri impianti nucleari (depositi di materie fissili ecc.), ai sensi degli art. 116 e seguenti del D.Lgs. 230/95. I Prefetti predispongono piani operativi provinciali discendenti dal “Piano nazionale delle misure protettive contro le emergenze radiologiche su tutto il territorio italiano”, assicurandone – secondo gli indirizzi del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile – la coerenza con i piani provinciali di difesa civile. Il piano operativo nazionale include le misure necessarie per fronteggiare le conseguenze degli incidenti non circoscrivibili nell'ambito provinciale o interprovinciale. Esso prevede l'insieme coordinato delle misure da prendersi, con la gradualità che le circostanze richiedono, da parte delle autorità responsabili in caso di incidente nucleare che comporti pericolo per l'incolumità pubblica, in particolare ove esso avvenga al di fuori del territorio nazionale. 5.1. Piani di emergenza per le navi a propulsione nucleare in aree portuali (Art. 3.2 D.P.C.M. 10 febbraio 2006 “Linee guida per la pianificazione di emergenza delle aree portuali interessate dalla presenza di naviglio a propulsione nucleare”) Il Prefetto predispone, sulla base del rapporto tecnico rapporto redatto dall'Agenzia per la Protezione dell'Ambiente e d'intesa con la Regione, un piano di emergenza esterna dell'area portuale interessata dalla presenza di naviglio a propulsione nucleare che preveda le misure da adottare in caso di emergenza, l'individuazione dei soggetti chiamati ad intervenire e le relative procedure d'intervento. Qualora la localizzazione dell'area portuale renda prevedibile l'estensione del rischio in esame a più province, il piano deve essere predisposto contemporaneamente per ciascuna provincia, previa intesa tra i Prefetti interessati. Il piano deve essere riesaminato in caso di modifiche rilevanti del rapporto tecnico e, in ogni caso, con cadenza almeno triennale. © Wolters Kluwer 120 5.2. CARLO BOFFI Piani di emergenza per il trasporto di materie radioattive (D.P.C.M. 10 febbraio 2006 “Linee guida di pianificazione di emergenza di trasporto di materie radioattive e fissili”) Il Prefetto predispone, d'intesa con la Regione e sulla base del rapporto tecnico redatto dall'Agenzia per la Protezione dell'Ambiente, un apposito piano provinciale di emergenza per il trasporto di materie radioattive o di materie fissili che preveda le misure per mitigare le conseguenze dell’incidente, l’individuazione dei soggetti chiamate ad intervenire e le relative procedure d’intervento (art. 3.2 e 3.3). Il Prefetto trasmette il piano alla Dipartimento della Protezione Civile, al Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, nonché a tutti gli Enti e le Amministrazioni interessate, e provvede tempestivamente a porre in essere ogni adempimento necessario per assicurarne l’attuazione in caso di emergenza, garantendone l’integrazione e l’armonizzazione con le altre pianificazioni di emergenza di gestione dei rischi sul territorio. Qualora si possa prevedere l’estensione a più Province del rischio in esame, il piano dovrà essere predisposto contemporaneamente per ciascuna Provincia, previa intesa tra i Prefetti delle Province interessate. Il Prefetto è tenuto, altresì, a predisporre uno specifico piano di emergenza in relazione al trasporto di combustibile irraggiato, piano basato sull'apposito rapporto tecnico predisposto dal trasportatore. 5.3 Piani per il rinvenimento di sorgenti orfane (art. 14 D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 52) Il Prefetto predispone, nel rispetto del piano nazionale di emergenza redatto dal Dipartimento della Protezione Civile ex art. 121 D.Lgs 230/1995, il piano d'intervento per la messa in sicurezza in caso di rinvenimento o di sospetto di presenza di sorgenti orfane nel territorio della provincia, avvalendosi, oltre che del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, delle Agenzie Regionali per la Protezione dell'Ambiente, degli organi del Servizio Sanitario Nazionale e per i delle Direzioni provinciali del Lavoro. 6. Piani emergenza dighe In attesa di un provvedimento di riordino della materia, attualmente in fase di approvazione, risulta di competenza del Prefetto l’approvazione del “Documento di protezione civile” (Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri 19 Marzo 1996 n. DSTN/2/7019 recante “Disposizioni inerenti © Wolters Kluwer RICOGNIZIONE DELLE COMPETENZE PREFETTIZIE 121 l'attività di protezione civile nell'ambito dei bacini in cui siano presenti dighe”), mentre la Regione, in raccordo con le Prefetture e le Province, predispone e approva un Piano di emergenza su base regionale (PED). Le Prefetture, in particolare, concorrono alla pianificazione per quanto concerne gli aspetti connessi con le attivazioni in emergenza delle strutture statali Lo schema di ciascun documento di protezione civile, predisposto dal competente ufficio periferico del Registro Italiano Dighe (U.T.D.), è trasmesso per l'approvazione alla competente Prefettura, la quale, approvato il documento, lo notifica al gestore e ne trasmette copia all'ufficio periferico del Registro Italiano Dighe, al Ministero dell'Interno – Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile ed al Dipartimento della Protezione Civile. Nel documento di protezione civile devono essere indicate le modalità di comunicazione e le procedure tecnico-amministrative da attivare nelle diverse fasi di allerta (preallerta, vigilanza rinforzata, pericolo, collasso); a tal fine le autorità provinciali, tra le quali il Prefetto, sono tenute a conservare apposita rubrica contenente il nominativo ed i riferimenti di tutte le altre autorità dell'elenco, delle quali deve essere sempre garantita la reperibilità. Rilevante appare il coinvolgimento prefettizio come destinatario della comunicazione dell'evento, e con conseguenti oneri di informazione nei confronti dei soggetti statali chiamati in causa, e in particolare nei confronti dei Prefetti delle province limitrofe, delle Forze dell'Ordine e dei Vigili del Fuoco. © Wolters Kluwer ANTONIO TEDESCHI LA PIANIFICAZIONE DI EMERGENZA DELLE GALLERIE FERROVIARIE SOMMARIO: 1. Le fonti. – 2. Destinatari delle disposizioni del dm 28 ottobre 2005. – 3. Categorie delle gallerie e piani correttivi. – 4. I piani di emergenza. – 5. I decreti-legge in materia di gallerie ferroviarie. – 6. L’interpretazione della normativa da parte del Ministero dell’Interno. – 7. La nuova disciplina sulla prevenzione degli incendi. – 8. Approvazione e contenuto dei piani di emergenza esterni. 1. Le fonti La sicurezza delle gallerie ferroviarie forma una materia di notevole complessità, non tanto per l’esame tecnico delle misure prescritte, quanto per la difficoltà di riunire, sistematizzare e interpretare tutte le disposizioni normative in materia, che derivano dalle fonti più disparate, anche comunitarie. Le difficoltà sono acuite dall’intreccio con le norme sulla prevenzione degli incendi, le cui più recenti regole coinvolgono direttamente le infrastrutture ferroviarie di maggior rilevanza. Non è questa la sede per esaminare le prescrizioni tecniche e considerare la loro idoneità ai fini della sicurezza, anche se sarebbe auspicabile uno studio in tal senso: come si vedrà, le norme di sicurezza sono prescritte da due diversi regolamenti – anche di rango diverso - emanati a distanza di circa cinque anni. Tentativo del presente elaborato è, invece, quello di riportare a sistema coerente tutte le prescrizioni giuridiche vigenti in materia, soprattutto le più recenti che, talvolta, sono state adottate senza adeguato coordinamento tra i diversi soggetti normatori; nonché accennare, sia pure brevemente, ad alcune rilevanti istruzioni promanate da una circolare ministeriale(1). (1) Della vastissima letteratura sul sistema delle fonti nel diritto amministrativo si può citare il recente Manuale di diritto amministrativo di R. CHIEPPA E R. GIOVAGNOLI, 2011; ma nessuna pubblicazione visionata contempla la fattispecie che si andrà a descrivere. © Wolters Kluwer 124 CARLO BOFFI A livello nazionale, la principale normativa di riferimento si individua in una fonte regolamentare di livello secondario: il decreto interministeriale “Sicurezza nelle gallerie ferroviarie”, emesso il 28 ottobre 2005 dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’Interno, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’8 aprile 2006 ed entrato in vigore il giorno successivo. Il minuzioso contenuto prescrittivo del decreto comprende una esauriente metodologia di analisi dei rischi e dei connessi criteri di accettazione del rischio tale da ritenersi tuttora all’avanguardia anche nel contesto europeo. Invero, la Specifica tecnica d’interoperabilità (STI) “Safety in railway tunnel”(2), adottata con decisione della commissione n. 2008/163/CE del 20 dicembre 2007, pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 7 marzo 2008 ed entrata in vigore il successivo 1° luglio non prevede particolari differenze rispetto al dm del 2005(3): le due disposizioni sono del tutto complementari(4). 2. Destinatari delle disposizioni del dm 28 ottobre 2005 Per comprendere esaurientemente la portata normativa del provvedimento del 2005 deve porsi, anzitutto, particolare attenzione alle premesse, le quali giustificano l’uso dello strumento del decreto interministeriale per il «carattere strettamente tecnico delle prescrizioni, nonché per la idoneità a rivolgersi, non alla generalità, bensì in via esclusiva al gestore dell’infrastruttura»; viene, inoltre, precisato che «in analoghe materie sono stati emanati… decreti ministeriali». Si tratterebbe dunque di norme tecniche con destinatari ben individuati: i gestori delle gallerie ferroviarie(5). Analoghe considerazioni andrebbero estese agli allegati del dm che, a maggior ragione, hanno come destinatari non la generalità degli interessati ma solo i gestori. Vedremo, invece, che le premesse al provvedimento del 2005 già si contraddicono con alcune disposizioni in esso contenute; ma, soprattutto, che alcuni decreti-legge, poi convertiti in legge, conterranno norme destinate direttamente ai gestori. (2) Sull’argomento . G. MICOLITTI, La normativa europea per la sicurezza delle gallerie, La Tecnica professionale, marzo 2009, 25 ss. (3) Cfr. intervento di M. CIGOLINI, Fighting Tunnel Fires, in http://www.railwaytechnology.com/features/feature98536, 2010. (4) Di recente la Commissione Europea ha dato mandato all’AIEF (associazione europea per l’interoperabilità ferroviaria) di indicare le innovazioni tecniche e operative da integrare nella decisione n. 2008/163/CE. (5) In realtà è uno solo: RFI. © Wolters Kluwer RICOGNIZIONE DELLE COMPETENZE PREFETTIZIE 3. 125 Categorie delle gallerie e piani correttivi Il decreto interministeriale detta disposizioni comuni per tutte le gallerie ferroviarie «già in esercizio, in fase di costruzione o allo stato di progettazione, ubicate sull’infrastruttura ferroviaria e sulle reti regionali non isolate». Le norme distinguono scrupolosamente diverse categorie gallerie ferroviarie e, in particolare quelle: - di lunghezza compresa tra 500 m e 1000 m.; - di lunghezza superiore a 1.000 m.; - di lunghezza non superiore a 2 km; - di lunghezza superiore a 2000 m.; - di lunghezza superiore a 3.000 m.; - di lunghezza superiore a 5000 m.; - di lunghezza superiore ai 9000 m. La categoria di riferimento è, comunque, la galleria di lunghezza superiore a 1.000 m., alla quale si applicano tutte le disposizioni del provvedimento in esame e, in particolare, quelle di cui all’art. 11, norma chiave del provvedimento in esame, che si occupa dei requisiti minimi di sicurezza che devono essere presenti in ciascuna galleria ferroviaria superiore a 1.000 m. La norma, pur rinviando ad un suo allegato (l’Allegato II) per la specifica di ciascuna misura di sicurezza, detta al Gestore i seguenti tempi e modalità di applicazione degli interventi di adeguamento: - obbligo di verificare, entro tre anni, la rispondenza di tutte le strutture in esercizio ai requisiti minimi previsti dall’allegato II del provvedimento medesimo; - elaborare, entro sette anni (9 aprile 2013), “un piano di interventi correttivi di natura infrastrutturale, tecnologica e organizzativa, corredato da corrispondenti stime di costo di investimento e relativi tempi di intervento e/o di impatto sull'esercizio, secondo una scala di priorità”; - completare le opere correttive entro il 9 aprile 2021. 4. I piani di emergenza La descrizione dei requisiti minimi di sicurezza è, come detto, contenuta nell’allegato II del DM che, en passant, si occupa anche delle pianificazioni di emergenza: «Piani di emergenza e soccorso. Le autorità locali competenti devono approntare congiuntamente un piano di emergenza sulla scorta degli scenari di incidente ipotizzati che tenga conto delle indicazioni generali e specifiche al fine di definire, per i vari sce- © Wolters Kluwer 126 CARLO BOFFI nari, compiti e responsabilità dei vari enti coinvolti nelle operazioni di soccorso». Come può notarsi, le previsioni di quest’ultima disposizione non sono rivolte al gestore ma “alle autorità locali competenti”, quindi in aperto contrasto con le premesse e la stessa natura della fonte normativa. Si tratta, inoltre, di una norma dal contenuto indefinito e approssimato: non solo rende estremamente ardua l’individuazione degli enti e uffici competenti a partecipare alla redazione del piano, ma lascia impregiudicata l’attribuzione della potestà del coordinamento in materia. L’impressione di vaghezza del testo viene confermata dalla non necessaria ripetizione, in un unico periodo, dei termini “vari” e “scenari”. Il fatto che vi si utilizzi più volte il termine “soccorso”, conferma, ad ogni modo, che la materia non è estranea all’ordinamento della protezione civile. 5. I decreti-legge in materia di gallerie ferroviarie Nessuno dei soggetti interessati deve essersi interessato, nell’immediato, alla pianificazione di emergenza, che non ha avuto, neanche medio tempore, concreta applicazione; l’attenzione sulla problematica è sorta con l’avvicinarsi del termine finale sulla presentazione dei piani correttivi, quando il Dipartimento della protezione civile ha formalmente chiesto al Ministero dell’Interno di interessare i prefetti della Repubblica sulla esistenza della disposizione e sulla necessità di far adottare i singoli piani. Richiesta assolta con la circolare 27 aprile 2011 fasc. 7004/M/Gab, con la quale il Ministero dell’Interno ha fatto conoscere le proprie valutazioni sulla problematica. L’atto – che non può che avere mera ratio interpretativa e funzione di istruzione ai rappresentanti del Governo sul territorio – rammenta, a titolo di premessa, che «l’esigenza di garantire adeguate strategie organizzative nella materia del soccorso pubblico costituisce specifica missione di questo Dicastero che la esercita, in base al decreto legislativo n. 300 del 1999, attraverso le proprie articolazioni centrali e territoriali, in una più ampia finalità di sicurezza della collettività»; di conseguenza, è compito dei prefetti della Repubblica «assicurare il necessario raccordo funzionale tra i vari livelli istituzionali, al fine di realizzare la massima sinergia ed integrazione in caso di evento incidentale». Tuttavia, con un salto logico e, direi, anche autolesionistico, il Ministero dell’Interno ritiene che gli scenari incidentali hanno caratteristiche tali da essere «difficilmente riconducibili ad una delle fattispecie emergenziali ed ai conseguenti livelli di responsabilità individuati dalla legge 225/1992». © Wolters Kluwer RICOGNIZIONE DELLE COMPETENZE PREFETTIZIE 127 In altre parole, sarebbero estranee alla problematica in argomento le prescrizioni dettate dalla legge 24 febbraio 1992, n. 225, istitutiva del Servizio nazionale della protezione civile, i cui componenti sono “le amministrazioni dello Stato, le regioni, le province, i comuni e le comunità montane”. Un evento incidentale in una galleria ferroviaria sarebbe quindi estraneo agli eventi di tipo a-b-c sinteticamente descritti nella legge insieme agli ambiti di competenza e le responsabilità dei vertici politici e amministrativi si prescrive ai Prefetti della repubblica di limitarsi a “verificare” presso le “competenti Autorità locali” se siano già state “approntate” le relative pianificazioni. La lettura della circolare non può che lasciare insoddisfatti e non tanto per la zoppicante esposizione stilistica (comprendente alcuni gravi refusi), quanto soprattutto per i contenuti: esortativi più che prescrittivi, autoreferenziali e non adeguati alle esigenze di modernizzazione allora in atto (era in corso una profonda revisione della legge n. 225 che sarebbe poi sfociata nel decreto legge 15 maggio 2012, n. 59 - Disposizioni urgenti per il riordino della protezione civile, convertito nella legge n. 100/2012). Pare di capire che, secondo il Ministero dell’Interno, la materia rientri nel soccorso pubblico ma non nella protezione civile: pertanto l’intervento del prefetto deve essere circoscritto «nel quadro del principio di leale collaborazione». Affermazione che sembra essere particolarmente riduttiva rispetto al complesso e dinamico quadro normativo relativo alla protezione civile e al soccorso pubblico (termini solitamente utilizzati congiuntamente), e anche inesatta. Il principio di leale collaborazione che definisce le relazioni tra i diversi livelli di governo locale, è estraneo proprio a coloro che dovrebbero essere i protagonisti delle medesime procedure: il gestore ferroviario, i Vigili del Fuoco e le Forze di Polizia. A meno che non si voglia intendere il prefetto come mero intermediario tra questi e le amministrazioni locali(6). La maggiore perplessità riguarda, dunque, la titolarità del potere di approvazione del piano, che la circolare sembra attribuire alle amministrazioni locali (province e comuni). Secondo il Ministero dell’Interno, i prefetti della Repubblica devono limitarsi: - alla verifica di una puntuale previsione delle «misure occorrenti per la messa in sicurezza delle gallerie ferroviarie»; (6) Tra la vastissima bibliografia sulla leale collaborazione si richiama A. D’ATENA, Osservazioni sulla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni (e sul collaudo dell’autonomia ordinaria), in Giurisprudenza costituzionale, 1972, 2011 ss.; A. GRATTERI, La faticosa emersione del principio di leale collaborazione nel quadro costituzionale, in La riforma del Titolo V della Costituzione e la giurisprudenza costituzionale. Atti del seminario di Pavia svoltosi il 6-7 giugno 2003 (a cura di E. Bettinelli – F. Rigano), Giappichelli Editore, Torino, 426. © Wolters Kluwer 128 CARLO BOFFI - e alla integrazione delle predette misure «con i piani, di diretta pertinenza, volti ad assicurare l’impiego delle forze statuali nelle attività più strettamente riconducibili alla materia del soccorso pubblico, anche per i profili connessi alle esigenze di ordine e sicurezza pubblica e di difesa civile». Tale impostazione metodologica è chiaramente riduttiva: sarebbe stato opportuno interpretare in maniera evolutiva la disposizione contenuta nel dm del 2005, adeguandola ai principi generali del d.lgs n. 300/1999 e della legge n. 225/1992. Anzi le modifiche apportate a quest’ultima legge dal successivo d.l. n. 59/2012 contraddiranno espressamente le indicazioni del Dicastero. D’altro canto, proprio questa parte meno condivisibile della circolare è stata quella chiaramente disattesa dai prefetti, i quali hanno adottato 46 piani di emergenza con i poteri riconosciutigli come autorità provinciale di protezione civile(7). Il Ministero dell’Interno avrebbe dovuto cogliere l’occasione della problematica delle gallerie ferroviarie per chiedere: - ai sindaci di inserire nei rispettivi piani di protezione civile, di cui all’art. 15 della legge n. 225, specifiche previsioni sulle gallerie ferroviarie che interessano il loro territorio, e - ai prefetti di coordinare quello scenario di rischio nei Piani provinciali previsti dall’art. 14 della stessa legge. L’adesione (non si sa quanto consapevole) all’orientamento prevalente nel nostro ordinamento di una pianificazione “per luoghi” e non “per eventi” – orientamento chiaramente rinvenibile, per esempio, nella normativa sulle industrie a rischio di incidente rilevante – impone una ulteriore species di pianificazione di emergenza: uno strumento separato e avulso dalla pianificazione generale, da “aggiungere” ai piani precedentemente adottati con la necessità di coordinarli “ad relationem”. La scelta del legislatore europeo è stata opposta: la mancanza, nella direttiva europea n. 2008/163/CE, di ogni previsione relativa a uno specifico piano di emergenza per le gallerie ferroviarie non può che essere dovuta ad una diversa concezione della pianificazione: un solo piano di emergenza territoriale che debba contenere anche le misure di emergenza per eventuali incidenti nelle gallerie ferroviarie. (7) Statistica aggiornata al momento in cui si scrive - fonte: RFI. Le gallerie ferroviarie in Italia di lunghezza superiore a 1.000 metri sono 345. © Wolters Kluwer RICOGNIZIONE DELLE COMPETENZE PREFETTIZIE 6. 129 L’interpretazione della normativa da parte del Ministero dell’Interno Come anticipato, la materia della sicurezza delle gallerie ferroviarie si è intrecciata con la disciplina sulla prevenzione degli incendi: nello stesso periodo della circolare ministeriale era in fase di elaborazione un regolamento che avrebbe dato luogo a innovazioni normative tali da dover radicalmente rivedere tutta la materia della sicurezza delle infrastrutture. Infatti, il DPR 1° agosto 2011, n. 151, concernente “Regolamento recante semplificazione della disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione degli incendi”, si occupa, per la prima volta in materia di prevenzione, delle gallerie ferroviarie. Mentre prima dell’entrata in vigore del DPR 151 (7 ottobre 2011) le gallerie ferroviarie non erano oggetto di certificato prevenzione incendi, la nuova normativa – che introduce un rinnovato e più complesso sistema di autorizzazione e di monitoraggio della sicurezza antincendio - estende i controlli di prevenzione incendi anche alle principali infrastrutture ferroviarie. Il nuovo provvedimento definisce(8) le gallerie di lunghezza superiore a 2.000 metri come “nuove attività” e prescrive, per esse, l’obbligo del CPI: il certificato prevenzione incendi. Il rilascio del CPI, di competenza dei Vigili del Fuoco, può essere consentito solo a seguito di “espletamento dei prescritti adempimenti”, da compiersi entro un termine di scadenza alquanto vicino: il 7 ottobre 2012. Tale termine viene espressamente indicato dall’art. 11, comma 4, del DPR 151, la cui interpretazione è stata chiarita per il tramite della circolare del Ministero dell’Interno DCPREV n. 4999 del 4 aprile 2012. Secondo la circolare, il termine espresso dall’art. 11 «è da intendersi riferito alla presentazione dell’istanza»: si tratta della SCIA - segnalazione certificata di inizio attività, istituto introdotto da precedenti norme e completamente rivisto dagli artt. 4 ss. del regolamento. Riassumendo, a seguito dell’entrata in vigore del DPR 151 cambia decisamente la prospettiva per le più importanti gallerie ferroviarie: quelle di lunghezza superiore a m. 2.000(9) – che diventano la principale categoria di riferimento – devono essere tempestivamente oggetto di SCIA nonché di interventi correttivi da porre in essere a breve termine. Di qui il difficile coordinamento tra le diverse prescrizioni, non tanto per la necessità di riformulare (forse meglio dire rivoluzionare) i piani di interventi correttivi, quanto per l’imposizione, per quest’ultima categoria di gallerie, di termini imminenti rispetto alla esecuzione delle opere progettate. (8) Allegato I - Elenco delle attività soggette alle visite e ai controlli di prevenzione incendi, n. 80. (9) Sono esattamente 168. © Wolters Kluwer 130 CARLO BOFFI Termine che, poi, è stato procrastinato con una deprecabile serie di decreti-legge dalla dubbia o incerta efficacia, tendenti sostanzialmente a eludere le prescrizioni imposte dal DPR 151. 7. La nuova disciplina sulla prevenzione degli incendi L’art. 53, comma 2, del DL 24 gennaio 2012 n. 1, recante “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività” dispone che «Non possono essere applicati alla progettazione e costruzione delle nuove infrastrutture ferroviarie nazionali nonché agli adeguamenti di quelle esistenti, parametri e standard tecnici e frazionali più stringenti rispetto a quelli degli accordi e delle norme dell’Unione Europea». La disposizione sottintende che le misure prescritte dal DPR n. 151 – pur non espressamente citato - siano eccessivamente “stringenti” e, quindi, incompatibili con la Specifica tecnica d’interoperabilità sulla sicurezza del 2008 – neanch’essa citata. Preme in questa sede evidenziare i motivi funzionali ed economici sottesi all’intervento normativo: impedire ulteriori modifiche ai piani correttivi (ormai pronti ma talvolta non adeguati alla normativa antincendi); confermare i termini a lunga scadenza per l’adeguamento delle gallerie ferroviarie e rinviare i necessari stanziamenti di spesa. Non può tuttavia sottacersi l’inconsueta scelta usata dal legislatore di aggirare un complesso normativo di carattere cogente mediante rinvio generico alla normativa comunitaria: sarebbe stata opportuna una deroga espressa al dpr n. 151 ovvero l’indicazione delle specifiche prescrizioni da ritenere veramente inderogabili. La disposizione sembra comunque essere in contraddizione proprio con la normativa comunitaria, che attribuisce agli Stati Membri la massima discrezionalità sui livelli di sicurezza: per le gallerie ferroviarie in esercizio è prevista l’attuazione immediata delle sole misure di sicurezza di tipo procedurale (piano di emergenza interno, formazione del personale in materia di sicurezza in galleria); mentre le misure di sicurezza di tipo strutturale (uscite di emergenza, segnaletica e radiocomunicazione di emergenza) sono prescritte solo in caso di rinnovo o ristrutturazione della galleria e limitatamente ad alcuni requisiti tassativi. Non solo: neanche è raggiunto l’obiettivo esplicitato dalla ratio legis: l’abrogazione dell’obbligo della presentazione della SCIA da parte del gestore ferroviario (la cui omissione comporta la sospensione immediata dell’utilizzo della infrastruttura) entro il termine generale del 7 ottobre 2012. Tutte queste perplessità devono essere evidentemente emerse in sede di conversione, in quanto il legislatore, non direttamente (sarebbe bastato modi- © Wolters Kluwer RICOGNIZIONE DELLE COMPETENZE PREFETTIZIE 131 ficare la disposizione), ma indirettamente - dando vita a una interpretazione autentica – ha proceduto ad un ulteriore intervento in materia. La legge 24 marzo 2012, n. 27, che converte il d.l. 1/2012, conserva l’art. 53 ma introduce, all’art. 55, il comma 1-bis, che conferma il termine finale degli adempimenti previsti dal dm del 2005 (come già detto, il 9 aprile 2021), rinviando quindi a tale data la definizione di tutte le misure prescritte in tale provvedimento(10). Ma anche questa volta, forse a causa del mancato coordinamento con i vigili del fuoco, il legislatore tralascia di rinviare il termine degli adempimenti previsti dal DPR n. 151, con la conseguenza di implicitamente confermare la procedura amministrativa – la SCIA – e il termine di presentazione - il 7 ottobre 2012. Due mesi dopo interviene allora l’art. 7, comma 1, del decreto legge 22 giugno 2012 n. 83, recante “Misure urgenti per la crescita del Paese” (meglio conosciuto come “decreto sviluppo”), che concede di espletare «gli adempimenti amministrativi» di cui al DPR 151/2011 entro i «sei mesi successivi al completamento degli adeguamenti previsti nei termini disciplinati dall’articolo 55» (cioè entro il 7 ottobre 2021)(11). La questione sembra quindi essersi definitivamente definita, peraltro con qualche giustificata recriminazione: anche quest’ultima norma sembra aver trascurato la logica giuridica e il buon senso. Delle due, l’una. O la disposizione ha spostato l’obbligo di presentazione della SCIA (in quanto adempimento amministrativo) successivamente al completamento delle misure di sicurezza, introducendo, quindi, per le gallerie ferroviarie, una specie di SCIA ex post. Oppure la norma ha implicitamente abrogato la SCIA per le sole gallerie ferroviarie: e per “adempimenti amministrativi” si intende le misure tecniche di sicurezza previste dal DPR 151. Il DL 83 è poi convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, che, con una ulteriore e quanto mai discutibile norma di interpretazione autentica, aggiunge un nuovo periodo al comma 1 dell’art. 7, confermando la vigenza di quella infausta norma sui parametri di sicurezza disciplinati dall’Unione Europea richiamati dall’art. 53 del d.l. n. 1/2012. La (10) “(…) i termini degli adempimenti restano (…) disciplinati (…) dal decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti 28 ottobre 2005”. (11) “Art. 7 - Disposizioni urgenti in materia di gallerie stradali e ferroviarie (…): 1. Per le attività di cui al numero 80 della Tabella dell'Allegato I del regolamento emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 1° agosto 2011, n. 151, esistenti alla data di pubblicazione del predetto regolamento, gli adempimenti amministrativi stabiliti dal medesimo regolamento sono espletati entro i sei mesi successivi al completamento degli adeguamenti previsti nei termini disciplinati dall'articolo 55, comma 1-bis, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012, n. 27”. © Wolters Kluwer 132 CARLO BOFFI nuova norma, infatti, stabilisce che «resta fermo quanto previsto dall’articolo 53»(12) … disposizione oramai del tutto superflua in quanto, non intaccando l’impianto del d.p.r. n. 151, sembra avere mera natura di auspicio per eventuali, future prescrizioni tecniche. Gli interventi sul DPR 151 non finiscono qui: il medesimo d.l. n. 83/2012 (art. 7, comma 2-bis) e, successivamente, dall’art. 38 del d.l. 21 giugno 2013 n. 69 (battezzato come “decreto del fare”, convertito con legge 9 agosto 2013, n. 98) rivedono, spostandolo in avanti, il termine generale di presentazione della SCIA. I rinvii «si pongono, sul piano contenutistico, quali modificazioni o integrazioni (dettate con legge) rispetto al d.P.R. n. 151 del 2011 (che è un regolamento), senza tuttavia assumere la forma di novelle a quell’atto normativo»(13). In virtù della legge n. 98/2013, il termine finale per la presentazione della SCIA viene portato al 7 ottobre 2014; per le gallerie ferroviarie, invece, la norma di riferimento è l’art. 7, comma 1, del d.l. 22 giugno 2012 n. 83 nella parte in cui viene previsto il termine del 7 aprile 2022. 8. Approvazione e contenuto dei piani di emergenza esterni. Questo breve excursus dovrebbe avere chiarito l’intricata sequenza di una serie di norme emesse in rapida successione per venire incontro alle richieste del gestore ferroviario di scansare gli obblighi prescritti in sede di prevenzione incendi e, contemporaneamente, di ritagliarsi il maggior tempo possibile per adeguare le misure di sicurezza previste da un regolamento ormai quasi decennale. Abbiamo notizia di un tavolo tecnico istituito dal Presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici (decreto n. 6941 del 10 luglio 2012), con l’obiettivo di «armonizzare le disposizioni normative previste in materia dalle Decisioni comunitarie 2008/217/CE, 2008/163/CE e 2011/275/UE, dal Decreto interministeriale 28 ottobre 2005 e dal Decreto del Presidente della Repubblica 1 agosto 2011 n. 151»: ma l’esito delle riunioni non è stato ufficializzato. Quasi contemporaneamente, RFI ha reso noto il piano degli interventi correttivi di natura infrastrutturale, tecnologica e organizzativa di cui all’art. 11 del DM del 2005, delineando il quadro generale della situazione delle gallerie esistenti ed in costruzione sulla Rete ferroviaria nazionale, degli inter- (12) “Resta fermo quanto previsto dall'articolo 53 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27”. (13) Cfr. XVII Legislatura – Disegno di legge A. S. n. 974 – Vol. II – Ed. provvisoria – luglio 2013, n. 44/II, in http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00739636.pdf. © Wolters Kluwer RICOGNIZIONE DELLE COMPETENZE PREFETTIZIE 133 venti in corso e previsti, nonché degli indirizzi operativi futuri (nota prot. RFI-AD/A0011/P/2012/745 del 9 luglio 2012). Può ritenersi che le misure di sicurezza ivi descritte siano ormai “cristallizzate” e quindi difficilmente rivedibili. Resta la problematica dei piani di emergenza esterni che, una volta risolta la questione relativa al termine per il rilascio del CPI, non possono più essere degradati sul piano di meri adempimenti burocratici. La prassi consolidata in materia di pianificazione di emergenza imporrebbe, per ogni infrastruttura ferroviaria: i luoghi di accesso alla zona di intervento per l’emergenza; i posti di blocco e i cancelli; le aree di ammassamento mezzi di soccorso; l’area di triage sanitario. Si tratta, spesso, di aree da istituire ex novo (forse anche costruire), in quanto situate in luoghi deserti e difficilmente accessibili. Ulteriore elemento essenziale di ciascuna pianificazione è la previsione puntuale del modello organizzativo di intervento ed il flusso delle comunicazioni. Una volta risolta la competenza giuridica all’adozione del piano, da attribuire al prefetto in virtù non del dm del 2005, ma dei principi generali dettati dalla legge n. 2005/92, sorge la necessità di formare i relativi gruppi di pianificazione per poter approntare i piani di emergenza ancora in sospeso. © Wolters Kluwer ANGELO DE PRISCO IL DECRETO “SEVERINO”: L’ESTENSIONE DELL’ISTITUTO DELL’INCANDIDABILITÀ AI PARLAMENTARI ED A MEMBRI DEL GOVERNO ED IL RINFORZATO REGIME PER LE CARICHE REGIONALI E LOCALI SOMMARIO: 1. L’eliminazione delle “zone franche” per l’applicazione dell’istituto dell’incandidabilità. – 2. L’esercizio della delega ed il ruolo primario del Ministro dell’Interno. – 3. La disciplina di primo impianto per i parlamentari nazionali, europei e per i titolari di cariche di governo. – 3.1. L’incandidabilità sopraggiunta in corso di mandato parlamentare. – 3.2. L’estensione del nuovo regime delle incompatibilità parlamentari ai membri del parlamento europeo spettanti all’Italia. – 3.3. L’applicazione delle cause di incandidabilità ai titolari di cariche di governo. – 4. La durata dell’incandidabilità parlamentare. – 5. L’implementazione del sistema delle incandidabilità regionali. – 6. L’aggiornamento del sistema delle incandidabilità locali. – 7. Incandidabilità, interdizione dai pubblici uffici e patteggiamento: applicabilità ed estinzione della limitazione del diritto di elettorato passivo. – 8. La dibattuta questione della “retroattività” delle nuove cause di incandidabilità. Le prime pronunce giurisprudenziali. – 8.1. La sentenza del Consiglio di Stato sul caso “Maniscalco” n. 695/2013. – 8.2. La sentenza del Tar Lazio n. 8696/2013 sulle modalità di estinzione delle cause di incandidabilità locali. – 9. Conclusioni. 1. L’eliminazione delle “zone franche” per l’applicazione dell’istituto dell’incandidabilità Sfogliando la rassegna stampa politica del dicembre del 2012(1) ci si rende conto di come il c.d. “decreto liste pulite” o “decreto Severino” sia an(1) “Liste pulite, ecco la legge. Incandidabili i condannati fuori da Parlamento e Regioni”, la Repubblica del 5 novembre 2012; “Incandidabili. Pugno duro del Governo”, la Stampa del 5 novembre 2014; “Incandidabilità, stretta sugli eletti. Via con la condanna definitiva”, Corriere della sera del 6 novembre.2012; intervista a Mirabelli: “La legge è la sconfitta dei partiti. Ora vadano oltre, chiudano agli impresentabili”, Avvenire del 6 novembre 2012; “Il decreto © Wolters Kluwer 136 ANGELO DE PRISCO noverabile tra gli interventi legislativi più attesi e deflagranti(2) degli ultimi anni. Un provvedimento di spiccato contenuto tecnico e di forte impatto politico, da alcuni osservatori sottovalutato per la sua portata innovativa e da altri, all’opposto, considerato come un antidoto, l’ultimo antidoto, per liberare le assemblee elettive dai corrotti e dagli affaristi. Il Testo unico della disciplina delle incandidabilità derivanti da sentenze penali di condanna per delitti non colposi (che di seguito chiameremo T.U.I.), approvato con decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, costituisce attuazione di una dibattuta e controversa delega contenuta nella cosiddetta Legge Anti-Corruzione (legge 6 novembre 2012, n. 190, articolo 1, commi 63, 64 e 65). Nei suoi connotati essenziali la delega nasceva, nell’ambito di un più ampio disegno governativo per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione, con l’obiettivo di colmare l’avvertito e non più giustificabile gap ordinamentale connesso all’assenza di una disciplina delle incandidabilità sul livello politico nazionale(3) rispetto ad un puntuale e sperimentato sistema di sbarramento per l’accesso alle cariche elettive e di governo sub-nazionali (regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali), contemplato nel nostro ordinamento fin dal 1990.(4) Prima dell’adozione del T.U.I. il nostro ordinamento, anche costituzionale, non contemplava, infatti, l’istituto dell’incandidabilità per gli appartenenti alla Camera dei Deputati ed al Senato della Repubblica. La Carta costituzionale (artt. 56 e 58) già prevedeva, comunque, la necessità dell’esistenza di determinate condizioni soggettive per l’accesso alla incandidabilità? Solo uno spot”, Secolo d’Italia del 6 novembre 2012; “La legge per le liste pulite lascia il Parlamento sporco”, il Fatto Quotidiano del 6 novembre 2012 ; “Liste pulite. Aumentano i reati nel mirino”, La Stampa del 9 novembre 2012; “I condannati fuori dal Parlamento”, la Repubblica del 29 novembre 212e; “Condannati incandidabili per almeno sei anni”, Il Sole 24 Ore del 30 novembre 2012. (2) “Liste pulite, il governo sfida il veto del Pdl”, la Repubblica del 6.dicembre.dicembre; “Crisi governo: Silvio Berlusconi sfida Mario Monti sull'incandidabilità”, pubbl. su L’Huffington Post il 6 dicembre 2012; “Venti di crisi. L’affronto. I condannati fuori dalle liste elettorali”, La Stampa del 7 dicembre 2012; “Dietro le tensioni anche il nodo incandidabilità”, il Sole 24 Ore del 7 dicembre 2012; “Monti: PDL ritirò fiducia governo dopo legge incandidabilità”, dichiarazione a Sky Tg24 del 2 agosto 2013. (3) Lupo N. - Rivosecchi G., “La disciplina delle incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità con il mandato parlamentare”, in La legislazione elettorale italiana (a c. di D’Alimonte e Fusaro), Il Mulino 2008; ZANON, “Sull’estensione alle cariche parlamentari dell’istituto dell’incandidabilità”, in www.forumcosituzionale.it, 5. (4) La disciplina sulle incandidabilità per le elezioni regionali e locali fu introdotta dall’articolo 15 della legge n. 55 del 1990, e successive modificazioni, recante “disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale”. © Wolters Kluwer IL DECRETO "SEVERINO" 137 competizione elettorale politica: il possesso del diritto di elettorato attivo e l’aver raggiunto una determinata età anagrafica. La “non candidabilità” alle elezioni politiche non si era sostanziata, in passato, in un istituto autonomo del diritto elettorale, ma aveva rappresentato un riflesso indiretto sull’elettorato passivo per effetto della mancanza di uno dei requisiti dell’elettorato attivo. A tal riguardo, i “non elettori” trovavano, e trovano ancora, definizione nell'art. 2, primo comma, del Testo unico delle leggi recanti norme per la disciplina dell'elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali (approvato con DPR 20 marzo 1967, n. 223). Non sono elettori – recita tale disposizione - e, conseguentemente, sono incandidabili: coloro che sono sottoposti, in forza di provvedimenti definitivi, alle misure di prevenzione di cui all'articolo 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come da ultimo modificato dall'articolo 4 della legge 3 agosto 1988, n. 327, finché durano gli effetti dei provvedimenti stessi; i condannati a pena che importa la interdizione perpetua dai pubblici uffici; coloro che sono sottoposti all'interdizione temporanea dai pubblici uffici, per tutto il tempo della sua durata. La previsione nel T.U.I. di specifiche cause di incandidabilità connesse a sentenze di condanna anche per i parlamentari può, pertanto, iscriversi – ai fini di una sua valutazione di conformità ai principi costituzionali – nel solco delle linee giurisprudenziali tracciate dalla Corte Costituzionale, principalmente con le sentenze n. 407 del 1992 e n. 141 del 1996 dove si afferma che “la non candidabilità va considerata come particolarissima causa di ineleggibilità” e, ancora, con la sentenza n. 132 del 2001 in cui la Corte sembra equiparare i due istituti affermando che “le fattispecie di incandidabilità, e quindi di ineleggibilità (…) rappresentano (…) l’espressione del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche” elettive. È evidente, tuttavia, che la nuova disciplina delle cause di incandidabilità politiche non poteva ignorare il differente livello di garanzie costituzionali riservato alle Camere ed ai suoi appartenenti rispetto a quello ricavabile per i componenti delle assemblee elettive sub-nazionali. Per tale motivazione l’esercizio del potere delegato non ha operato, come vedremo in seguito, la mera trasposizione della disciplina per gli amministratori regionali e locali, prevista nel 1990 e poi traslata negli articoli 58 e 59 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (D.Lgs. n. 267/2000). 2. L’esercizio della delega ed il ruolo primario del Ministro dell’Interno Nel rispetto dei principi e dei criteri direttivi, il Governo, su impulso del Ministro dell’Interno, ha quindi messo a punto una disciplina ad hoc delle incandidabilità politiche e di governo nazionale che, nel rispetto della pecu- © Wolters Kluwer 138 ANGELO DE PRISCO liarità costituzionale e funzionale delle Camere dell’Esecutivo, riduce – senza possibilità di eliminarla - l’originaria “asimmetria legislativa” tra il livello politico e quello amministrativo. La redazione del testo unico delle incandidabilità derivanti da sentenze penali di condanna è avvenuta sulla base delle seguenti linee di intervento normativo: - introduzione di un regime delle incandidabilità alle cariche di deputato, di senatore e di membro del Parlamento europeo spettante all’Italia, per coloro che abbiano riportato condanne definitive a pene superiori a 2 anni di reclusione per i delitti previsti dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale, tra i quali si segnalano i reati di tipo associativo ed i delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo, nonché per i delitti contro la Pubblica Amministrazione; - previsione di una durata temporanea dell’incandidabilità “politica”; - estensione del regime delle incandidabilità “politiche” all’assunzione delle cariche di governo nazionale; - ricognizione delle incandidabilità per le cariche elettive e di governo regionale e locale valutando, in coerenza con le scelte operate sul livello nazionale, l’introduzione di ulteriori ipotesi di incandidabilità conseguenti a delitti di grave allarme sociale. Come detto, il T.U.I. mantiene ancora in piedi una asimmetria tra le cariche di livello politico e quelle elettive regionali e locali, a conferma dell’originario convincimento del legislatore circa la maggior esposizione delle assemblee e degli organi di governo del territorio al rischio di aggressione e di penetrazione dei poteri criminali. Il contenuto più propriamente amministrativo e gestionale degli enti territoriali continua a rappresentare una occasione più “ghiotta” e più diretta di infiltrazione criminale, rispetto al livello politico parlamentare. 3. La disciplina di primo impianto per i parlamentari nazionali, europei e per i titolari di cariche di governo Il T.U.I. si compone di 18 articoli, suddivisi in 5 capi, e reca al Capo I la disciplina qualitativamente più significativa, laddove vengono declinate le cause ostative all’assunzione e allo svolgimento delle cariche di deputato, senatore e di membro del Parlamento europeo spettante all’Italia. Ai sensi dell’articolo 1 del Testo unico, determinano l’incandidabilità alle cariche di deputato e di senatore: a) le condanne definitive a pene superiori a 2 anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater cpp, tra i quali si segnalano i reati di tipo associativo (associazione a delinquere, © Wolters Kluwer IL DECRETO "SEVERINO" 139 di tipo mafioso, finalizzata al traffico illecito di stupefacenti) ed i delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo; b) le condanne definitive a pena di almeno 2 anni per i delitti, consumati o tentati, contro la Pubblica Amministrazione (es. peculato, malversazione, concussione, corruzione); c) le condanne definitive a pena di almeno 2 anni per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni di reclusione; In relazione al gruppo residuale di reati sub c), l’individuazione dei singoli delitti è stata operata per relationem attraverso l’indicazione del limite di pena edittale previsto dalla legge per ciascun reato (“pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni”). Tale criterio, avendo la delega riconosciuto al legislatore delegato un ampio margine di discrezionalità limitato soltanto dal richiamo, quale parametro-soglia, a reati la cui pena edittale risulta essere sintomatica di una certa gravità e allarme sociale (“pena detentiva superiore nel massimo a tre anni”), è stato prescelto per evitare esclusioni (o inclusioni) irragionevoli che avrebbero potuto determinare la violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.). Il criterio della pena non inferiore nel massimo a quattro anni di reclusione è stato selezionato in considerazione del fatto che, in base alle vigenti disposizioni, esso comprende le fattispecie criminose più gravi, per le quali, ad esempio, è anche possibile applicare la custodia cautelare in carcere (cfr. art. 280, comma 2, c.p.p). Il legislatore delegato ha dettato, poi, con l’articolo 2, la disciplina per l’accertamento delle incandidabilità nella fase di accesso alla competizione elettorale e di proclamazione degli eletti. Tali norme appaiono particolarmente significative poiché muovono dalla considerazione della natura dell’istituto dell’incandidabilità che, come detto, riflette “uno status di inidoneità funzionale assoluta e non rimovibile da parte dell'interessato”, inteso a tutelare “il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, l’ordine e la sicurezza, la libera determinazione degli organi elettivi”, da accertare nella fase di presentazione delle candidature e, comunque, entro il termine di proclamazione degli eletti. La norma individua, quindi, due momenti nel corso del procedimento elettorale per l’accertamento della condizione di incandidabilità: il primo, collegato alla fase di presentazione delle liste dei candidati, è svolto dall’Ufficio centrale circoscrizionale, per la Camera, dall’Ufficio elettorale regionale, per il Senato, e dall’Ufficio centrale per la circoscrizione estero, sulla base delle dichiarazioni sostitutive attestanti l’insussistenza della condizione di incandidabilità rese da ciascun candidato e, in ogni caso, d’ufficio anche sulla base di atti o documenti, in possesso di quegli uffici elettorali, comprovanti la condizione di incandidabilità; il secondo, svolto dagli stessi © Wolters Kluwer 140 ANGELO DE PRISCO uffici, in occasione della proclamazione degli eletti. Nel primo caso l’accertamento dell’incandidabilità ha come effetto la cancellazione del soggetto in questione dalla lista dei candidati e, pertanto, la mancata ammissione alla competizione elettorale, mentre nel secondo caso l’accertamento della causa ostativa porta alla dichiarazione di mancata proclamazione. 3.1. L’incandidabilità sopraggiunta in corso di mandato parlamentare Nel nuovo sistema non poteva non trovare disciplina l’ipotesi in cui la condizione di incandidabilità sopravvenga alla proclamazione degli eletti, per effetto del passaggio in giudicato di una sentenza di condanna o, comunque, perché se ne venga a conoscenza solo nel corso del mandato elettivo. A tali fini, con l’articolo 3 si fissa l’obbligo da parte dell’autorità giudiziaria (P.M. presso il giudice indicato nell’art. 665 del c.p.p.) di immediata comunicazione alla Camera di appartenenza delle sentenze definitive di condanna emesse nei confronti di deputati e senatori in carica, ai fini dell’avvio delle procedure per la dichiarazione di decadenza. Nelle due ipotesi citate, si prevede, nel rispetto dell’autonomia di giudizio costituzionalmente garantito alle Camere, che la Camera di appartenenza deliberi ai sensi dell’articolo 66 Cost. Si stabilisce, altresì, che ove l’accertamento della condizione soggettiva di incandidabilità intervenga nella fase di convalida degli eletti, la Camera di appartenenza proceda senza indugio, anche nelle more della conclusione di tale complessivo procedimento, alla deliberazione sulla mancata convalida del soggetto incandidabile. Si prevede, infine, che nel caso in cui si renda vacante un seggio la Camera interessata accerti, in sede di convalida del subentrante, l’assenza per quest’ultimo di cause di incandidabilità. 3.2. L’estensione del nuovo regime delle incompatibilità parlamentari ai membri del parlamento europeo spettanti all’Italia La norma di delega, pur individuando, al comma 63, i membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia fra i destinatari della nuova disciplina, non aveva previsto specifici criteri direttivi. Il legislatore delegato ha optato, con l’articolo 4, per una equiparazione “secca” dei parlamentari “europei” ai Deputati e ai Senatori, anche sulla base di una simmetria di fondo già presente nel nostro ordinamento tra le due cariche elettive. Tale equiparazione ha, però, reso necessario dettare, con l’articolo 5, norme ad hoc per l’accertamento delle cause ostative in occasione delle ele- © Wolters Kluwer IL DECRETO "SEVERINO" 141 zioni del Parlamento europeo, adattando l’impianto normativo previsto agli articoli 2 e 3, per le elezioni politiche, alle specificità procedurali di tale competizione elettorale. Fissato il principio che l’accertamento della condizione di incandidabilità comporta la cancellazione dalla lista dei candidati, è stato specificato che l’accertamento entro il termine per l’ammissione delle liste dei candidati (trentaseiesimo giorno antecedente il voto – cfr. art. 13 legge 24 gennaio 1979, n. 18) è effettuato dall’Ufficio elettorale circoscrizionale - costituito presso la Corte d’appello nella cui giurisdizione è il capoluogo della circoscrizione - sulla base delle dichiarazioni sostitutive rese dagli interessati e, comunque, di atti o documenti di cui quell’ufficio elettorale venga in possesso di comprovanti la condizione di incandidabilità. È stato fissato, poi, alla fase di proclamazione degli eletti un secondo momento per l’accertamento della condizione di incandidabilità, sopravvenuta dopo l’ammissione delle candidature. Qualora, invece, la condizione di incandidabilità sopraggiunga nel corso del mandato elettivo europeo essa viene rilevata dall’Ufficio elettorale nazionale – costituito presso la Corte di cassazione – che procede a deliberare la decadenza dalla carica del parlamentare europeo, dandone immediata comunicazione alla segreteria del Parlamento europeo. 3.3. L’applicazione delle cause di incandidabilità ai titolari di cariche di governo L’articolo 6, del Capo II, dà attuazione all’articolo 1, comma 64, lettera f), della legge di delega, laddove è stabilito che le condizioni che determinano l’incandidabilità alla carica di deputato e di senatore si applichino anche per l’assunzione e lo svolgimento delle cariche di governo. Il comma 1 disciplina, quindi, il divieto all’assunzione ed allo svolgimento di un incarico di governo attraverso un rinvio integrale alle disposizioni sull’incandidabilità per deputati e senatori prevista all’articolo 1. Gli incarichi di governo sono quelli individuati dalla legge 20 luglio 2004, n. 215, (Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi) e cioè: Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministri, Vice Ministri, Sottosegretari di Stato e commissari straordinari del Governo di cui all'articolo 11 della legge 23 agosto 1988, n. 400. Il comma 2 prevede che chi assume un incarico di governo dichiari formalmente di non trovarsi in una condizione di limitazione del diritto di elettorato passivo, come disciplinata dall’articolo 1 del Decreto. Dichiarazione che l’interessato dovrà rendere alla Presidenza del Consiglio, prima di assumere le funzioni di Presidente del Consiglio o di Ministro, o al Presidente © Wolters Kluwer 142 ANGELO DE PRISCO del Consiglio, prima di assumere le funzioni di Vice Ministro, di Sottosegretario di Stato e di Commissario straordinario del Governo. Si stabilisce, infine, che il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna per uno dei delitti richiamati dall’articolo 1 nei confronti di un soggetto che svolge un incarico di governo – da comunicare immediatamente alla Presidenza del Consiglio dal pubblico ministero presso il giudice competente - determina la decadenza di diritto dall’incarico da dichiarare con decreto del Presidente della Repubblica, adottato su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri ovvero, nel caso in cui la decadenza riguardi quest’ultimo, del Ministro dell’interno. 4. La durata dell’incandidabilità parlamentare Tra le questioni più delicate che il Governo ha dovuto affrontare nella redazione del T.U.I., la durata dell’incandidabilità per i parlamentari ed i membri del governo è sicuramente quella che ha richiesto maggiore riflessione e ponderazione, in considerazione dell’assenza di uno specifico criterio di delega. Attesa tale carenza di indicazioni per la “quantificazione” del periodo temporaneo di incandidabilità “politica”, erano state valutate, in sede tecnica, le seguenti opzioni alternative: la prima legata ad un numero fisso di legislature successive al verificarsi della condizione di incandidabilità, la seconda ad un numero determinato di anni e, infine, quella, sulla quale è poi caduta la scelta, connessa al periodo di interdizione temporanea dai pubblici uffici comminata, come pena accessoria, con la sentenza di condanna. La soluzione scelta dal legislatore delegato - sulla quale nessun rilievo critico si è registrato nel corso dell’esame delle Commissioni parlamentari – prevede, quindi, che l’incandidabilità abbia effetto per un periodo corrispondente al doppio della durata dell’interdizione temporanea comminata dal giudice, e comunque, anche in assenza della pena accessoria, ad un periodo non inferiore a sei anni. Il meccanismo che lega la durata dell’incandidabilità all’interdizione dai pubblici uffici consente, in assenza di un criterio specifico di delega, di assicurare, in ogni caso, una gradualità nella durata delle incandidabilità, direttamente connessa alla valutazione della gravità del comportamento delittuoso, operata in concreto dal giudice. È previsto, infine, un aumento di un terzo della durata delle incandidabilità nel caso in cui il delitto sia stato commesso con abuso dei poteri o in violazione dei doveri connessi al mandato elettivo o di governo. © Wolters Kluwer IL DECRETO "SEVERINO" 5. 143 L’implementazione del sistema delle incandidabilità regionali Con riferimento alle incandidabilità per le cariche elettive e di governo regionale, il Testo unico compendia, al Capo III, la disciplina finora rinvenibile nell’articolo 15 della legge n. 55 del 1990, come modificato dalla legge 18 gennaio 1992, n. 16. Con gli articoli 7, 8 e 9 del “Decreto Severino”, da una parte si opera la trasposizione nel testo unico della normativa già in vigore e, dall’altro, si interviene ad armonizzare il regime delle incandidabilità regionali con le scelte imposte dal legislatore delegante con riferimento alle cariche elettive nazionali. Sul punto, la delega non appariva sufficientemente chiara, poiché l’intervento rimesso al Governo non ne specificava la portata. Se, per un verso, l’esercizio del potere delegato non sembrava, quindi, potersi limitare ad una mera attività di ricognizione della normativa esistente, per altro verso, la prevista attività di “individuazione” delle ipotesi di incandidabilità regionali non trovava alcun criterio direttivo. Rifacendosi, perciò, ai principi direttivi generali dell’armonizzazione e del riordino della disciplina richiamati nella norma di delega, il Governo ha ritenuto di integrare la disciplina già in vigore implementandola con il rinvio ai delitti previsti dall’articolo 51, comma 3-bis e 3-quater ed ampliando il catalogo dei delitti contra la Pubblica Amministrazione alla luce delle modifiche apportate al codice penale dalla stessa legge n. 190/2012. L’elenco delle fattispecie di reato, partendo da quello già previsto dall’articolo 15, comma 1 della legge 19 marzo 1990, n. 55, è stato ampliato alle condanne definitive per i delitti che per la loro intrinseca gravità sono rimessi alla competenza delle procure distrettuali (art. 51, commi 3-bis e 3quater) senza però il richiamo al limite della pena in concreto erogata (superiore a due anni), stabilita invece per l’incandidabilità dei parlamentari nazionali. Tale opzione ha tenuto conto che, per ordinamento vigente, le incandidabilità regionali di cui ai delitti previsti dalle lettere a) e b) del citato art. 15 della legge n. 55/1990 (associazione di stampo mafioso, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, fabbricazione, importazione, esportazione, vendita o cessione di armi, munizioni o materie esplodenti, delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) scattano con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, indipendentemente dalla pena in concreto erogata. Sono state mantenute ferme, inoltre, le cause di incandidabilità connesse a sentenze definitive alla pena della reclusione superiore a sei mesi per uno o più delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti una pubblica funzione e a pene non inferiori a due anni di reclusione per delitto non colposo. © Wolters Kluwer 144 ANGELO DE PRISCO Trova conferma, infine, la causa di incandidabilità nei confronti dei soggetti destinatari di una misura di prevenzione in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso. È stato, infine, ribadito il principio dell’applicazione di tale disciplina a qualsiasi incarico la cui elezione o nomina è di competenza degli organi di governo della Regione. 6. L’aggiornamento del sistema delle incandidabilità locali Indicazioni più chiare erano state indirizzate al legislatore delegato nel settore delle incompatibilità negli enti locali. Il Capo IV reca la disciplina delle incandidabilità alle cariche elettive negli enti locali in attuazione del criterio di delega di cui alla lettera g) del comma 64 dell’art. 1 della legge n. 190/2012. In particolare l’intervento normativo delegato - recato dal Capo IV, articoli 10, 11 e 12 - si attesta su due piani: - il primo, concernente una completa ricognizione della normativa vigente in materia di incandidabilità alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali e di divieto di ricoprire le cariche di presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale, presidente e componente del consiglio circoscrizionale, presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, consigliere di amministrazione e presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all'articolo 114 del testo unico di cui al citato decreto legislativo n. 267 del 2000, presidente e componente degli organi delle comunità montane, determinata da sentenze definitive di condanna; - il secondo, più innovativo, riguardante l’introduzione di ulteriori ipotesi di incandidabilità per delitti di grave allarme sociale in coerenza con le scelte operate sul livello politico nazionale e regionale. A tale ultimo riguardo è stata mantenuta la perfetta simmetria tra i sistemi delle incandidabilità regionali e locali, originariamente disciplinati, in maniera unitaria, dall’articolo 15 della legge n. 55/1999, poi trasfuso per la parte relativa agli amministratori locali negli articoli 58 e 59 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali. In particolare, il vecchio articolo 58 del testo unico enti locali è stato trasfuso nell’articolo 10, arricchito con il richiamo ai delitti di grave allarme sociale indicati all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, e ai delitti contro la Pubblica Amministrazione come modificati dalla stessa legge n. 190/2012. È stata, poi, confermata la disciplina della sospensione e della decadenza di diritto degli amministratori locali in condizione di incandidabilità, fatte © Wolters Kluwer IL DECRETO "SEVERINO" 145 salve alcune limitate modifiche di coordinamento in relazione all’ampliamento del “catalogo” delle incandidabilità operato all’articolo 10 del T.U.I. 7. Incandidabilità, interdizione dai pubblici uffici e patteggiamento: applicabilità ed estinzione della limitazione del diritto di elettorato passivo In attuazione di uno specifico principio di delega il testo unico dispone che tutte le ipotesi di incandidabilità disciplinate dal testo unico operano anche nel caso di patteggiamento ex art. 444 del codice di procedura penale, principio, peraltro, già applicato nelle previgente disciplina per le elezioni regionali e locali. Nel preoccuparsi della fase di prima applicazione, il Legislatore delegato ha specificato che il principio in base al quale il patteggiamento equivale a condanna si applica solo per le sentenze pronunciate successivamente all’entrata in vigore del testo unico, con riferimento alle incandidabilità disciplinate ex novo (quindi per tutte quelle previste per deputati e senatori e per quelle che si aggiungono a livello regionale e locale). È stato chiarito, poi, che gli effetti della incandidabilità decorrono in maniera autonoma ed indipendente dalla eventuale concomitanza di ulteriori misure limitative del diritto di elettorato gravanti sul medesimo soggetto, come nel caso di applicazione giudiziale dell’interdizione dai pubblici uffici. Le diverse misure conservano, cioè, i loro effetti per il tempo stabilito e coesistono temporalmente senza interferenze reciproche.(5) È stato ribadito, infine, il principio (già previsto per le cariche elettive regionali e locali) che la riabilitazione, ex art. 178 del c.p.p., è l’unica causa di estinzione anticipata dell’incandidabilità. 8. La dibattuta questione della “retroattività” delle nuove cause di incandidabilità. Le prime pronunce giurisprudenziali Nei mesi immediatamente successivi all’entrata in vigore del T.U.I., la giurisprudenza amministrativa ha consentito di circoscrivere e chiarire alcuni dubbi sull’applicabilità della disciplina, in parte nuova, recata dal Decreto Legislativo n. 235/2012, con riferimento sia alla vexata quaestio della c.d. retroattività di tale normativa, sia ai meccanismi di rimozione dello status di (5) Cfr. Alberto Racca, “Problematiche costituzionali del nuovo regime dell’incandidabilità per le cariche elettive (e di governo) nell’ordinamento italiano”, pubblicato nella sezione Studi del sito web Consulta online il 16 gennaio 2014. © Wolters Kluwer 146 ANGELO DE PRISCO incandidabilità e alla ragionevolezza della differente disciplina prevista per le cariche elettive politico-nazionali e per quelle regionali e locali. Due pronunce, che di seguito sintetizzeremo, consentono in particolare di far luce sul serrato dibattito avente ad oggetto la natura giuridica dell’incandidabilità(6), da alcuni osservatori ritenuta come misura sanzionatoria penale(7), e per tale ragione non applicabile in maniera retroattiva, e da altri considerata, invece, come mera compressione del diritto di elettorato passivo(8) per coloro che si macchiano di reati dai quali discende l’inidoneità all’esercizio delle funzioni pubblico-elettive. 8.1. La sentenza del Consiglio di Stato sul caso “Maniscalco” n. 695/2013 In occasione delle elezioni regionali in Molise, tenutesi in concomitanza con le Politiche del 24 e 25 febbraio del 2013, uno dei candidati al Consiglio regionale (Marcello Maniscalco) aveva presentato ricorso al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar di Campobasso di confermare la decisione dell’Ufficio centrale regionale per le elezioni di escluderlo dalla competizione elettorale per una condanna per abuso d’ufficio divenuta definitiva nel 2001, e per la quale il ricorrente non aveva ottenuto la riabilitazione per aver rinunciato, a suo tempo, all’istanza. Il Consiglio di Stato, Sez. V, con sentenza n. 695 depositata il 6 febbraio 2013, ha confermato l’incandidabilità pur essendo stato il reato di Maniscalco commesso prima dell’entrata in vigore del c.d. “decreto Severino”, chiarendo che :«Non merita favorevole considerazione, in primo luogo, il motivo di ricorso con il quale il ricorrente sostiene l’assunto ermeneutico secondo cui la normativa inibitoria di cui al citato D.Lgs. n. 235/2012 sarebbe appli- (6) Filippo Scuto, “La nuova dimensione dell’incandidabilità estesa alla totalità delle cariche elettive e di governo”, pubblicato nella rivista n. 4/2013 dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti (AIC). (7) Cfr. G. GUZZETTA, a giudizio del quale «l’incandidabilità e l’ineleggibilità sopravvenuta come conseguenza della condanna, prevista dalla legge Severino avrebbe un’applicazione retroattiva il che suscita notevoli dubbi sul piano della costituzionalità e di una possibile violazione della convenzione europea dei diritti dell’uomo» (Ansa.it del 4 agosto 2013). In proposito vedi anche il parere di G. GUZZETTA che costituisce uno dei sei pareri pro veritate presentati il 28 agosto dai legali di Silvio Berlusconi alla Giunta per le elezioni e le immunità del Senato. (8) Cfr. V. ONIDA, nell’intervista rilasciata all’Unità del 6 agosto 2013, secondo il quale «questa non è una norma penale che stabilisce cioè una sanzione penale, per la quale valga il principio di irretroattività rispetto al momento del fatto commesso. Conta dunque non il momento del fatto commesso e penalmente rilevante ma il momento in cui è stata prevista, prima delle elezioni, la causa di ineleggibilità, cioè l’esistenza o la sopravvenienza di una condanna definitiva di un certo tipo». © Wolters Kluwer IL DECRETO "SEVERINO" 147 cabile solo con riferimento alle sentenze successive alla sua entrata in vigore». Il Supremo Consesso spiega che l’incandidabilità non entra in conflitto con il principio dell’irretroattività delle norme penali: «Non si pone in contrasto con il dedotto principio, ricavabile dalla Carta Costituzionale e dalle disposizioni della Carta europea dei diritti dell’Uomo, dell’irretroattività delle norme penali e, più in generale, delle disposizioni sanzionatorie ed afflittive. Non è infatti suscettibile di condivisione il presupposto, da cui muove l’appellante, della natura sanzionatoria della disposizione preclusiva in parola in quanto nel caso in esame non solo non si tratta affatto di misure di natura sanzionatoria penale, ma neppure di sanzioni amministrative o di disposizioni in senso ampio sanzionatorie». Se ne desume che le disposizioni sull’incandidabilità sono legittimamente adottate dal legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, per allontanare dallo svolgimento del rilevante munus pubblico i soggetti la cui “radicale idoneità sia conclamata da irrevocabili pronunzie di giustizia”. In tale contesto la condanna penale definitiva è considerata come un mero presupposto oggettivo cui si ricollega un giudizio di indegnità morale a ricoprire determinate cariche elettive. La condanna – prosegue il Consiglio di Stato – viene configurata alla stregua di “requisito negativo” o “qualifica negativa” ai fini della capacità di partecipare alla competizione elettorale e di mantenere la carica. Sul punto vengono richiamate due importanti sentenze della Corte Costituzionale, la n. 407 del 1992 e la n. 118 del 1994, relative ad alcuni ricorsi che in passato avevano messo in discussione la legittimità costituzionale della legge n. 16 del 18 gennaio 1992, ovvero delle norme sull’incandidabilità regionale e locale ora confluite nel testo unico. In particolare, con la sentenza n. 118 depositata il 31 marzo 1994 il Giudice delle leggi stabilì (rispondendo ai rilievi della Corte di Appello di Torino) che la legge che fa decadere i sindaci o i presidenti di Regione non viola gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini) e 51 (eguaglianza di condizioni per l’accesso alle cariche elettive) della Carta: «Alla luce della ratio della normativa come sopra individuata, non appare, invero, affatto irragionevole che questa operi con effetto immediato anche in danno di chi sia stato legittimamente eletto prima della sua entrata in vigore: costituisce, infatti, frutto di una scelta discrezionale del legislatore certamente non irrazionale l’aver attribuito all’elemento della condanna irrevocabile per determinati gravi delitti una rilevanza così intensa, sul piano del giudizio di indegnità morale del soggetto, da esigere, al fine del miglior perseguimento delle richiamate finalità di rilievo costituzionale della legge in esame, l’incidenza negativa della disciplina medesima anche sul mantenimento delle cariche elettive in corso al momento della sua entrata in vigore». © Wolters Kluwer 148 8.2. ANGELO DE PRISCO La sentenza del Tar Lazio n. 8696/2013 sulle modalità di estinzione delle cause di incandidabilità locali Il c.d. “decreto Severino” ha, poi, superato un altro vaglio giurisdizionale con la sentenza del Tar Lazio n. 8696 dell’8 ottobre 2013, che, nel solco della pronuncia cd. “sentenza Maniscalco” ha respinto il ricorso di un candidato al consiglio di Roma Capitale, utilmente collocato in graduatoria all’esito dello scrutinio elettorale del 2013 ma non proclamato eletto per la sua condizione di incandidabilità connessa ad un pregressa condanna definitiva a due anni di reclusione per un delitto non colposo riportata nel 1996. La pronuncia del Giudice di prime cure consente di fare chiarezza su meccanismi di rimozione dello status di incandidabilità e sulla ragionevolezza della differente disciplina (per alcuni “severità”) prevista per le cariche elettive politico-nazionali e per quelle regionali e locali. È utile evidenziare che la causa di incandidabilità, contestata al ricorrente dall’ufficio centrale elettorale all’atto di proclamazione degli eletti alla carica di consigliere comunale di Roma, era già presente nel nostro ordinamento, precisamente all’art. 15 della legge n. 55/1990, poi riportata all’articolo 58, co. 1, lett. d, del D.lgs. n. 267/2000 (Testo unico enti locali), ed infine trasfusa all’art. 10, co. 1, lett. e del T.U.I. La condanna in questione era stata pronunciata con i benefici - mai revocati - della non menzione e della sospensione condizionale della pena. Quel reato, peraltro, in assenza di reiterazione era da considerarsi estinto fin dal 2001, per il combinato disposto degli artt. 163, 167 e 168 del codice penale. Il ricorso avverso la mancata proclamazione si fondava sull’asserita inapplicabilità della causa di incandidabilità per avvenuta estinzione del reato, interpretazione confortata dalla circostanza che il ricorrente aveva ricoperto l’incarico di consigliere comunale nel periodo 2008/2013. Sul punto, il Tar, richiamando la Cassazione civile (sez. I, 27 maggio 2008, n. 13831), argomentava che l'incandidabilità non è un aspetto del trattamento sanzionatorio penale del reato, ma si traduce nel difetto di un requisito soggettivo per l'elettorato passivo, non assumendo rilievo, ai fini del venir meno della causa di incandidabilità, né il fatto che la condanna sia stata sottoposta a sospensione condizionale (che l'art. 166, comma 1 c.p. oggi estende anche alle pene accessorie), né l’avvenuta concessione dell’indulto di cui alla l, 31 luglio 2006, n. 241. Determinante ai fini della incandidabilità è la sola pronuncia della sentenza di condanna dalla quale discende una “inidoneità”, permanente per l’accesso alle cariche elettive locali e temporanea per le cariche elettive nazionali e di governo, del soggetto condannato per delitti ai quali il legislato- © Wolters Kluwer IL DECRETO "SEVERINO" 149 re, nella suo discrezionale apprezzamento, riconnette una “indegnità” a rivestire cariche pubbliche elettive e di governo. La condizione ostativa alla candidatura, per tali considerazioni, non viene meno per la sopravvenuta estinzione del reato, ma solo ove sia intervenuta la sentenza di riabilitazione, ai sensi degli articoli 178 e seguenti del codice penale (art. 15, comma 3 del D. Lgs. n. 235/2012). E nel caso di specie il ricorrente non risultava destinatario di un provvedimento di riabilitazione che, fin dalla prima disciplina dell’incandidabilità del 1990, ne rappresenta l’unica causa di estinzione anticipata. Con riferimento al caso di specie, il c.d. “decreto Severino” nulla ha aggiunto, se non il potenziamento dei meccanismi di verifica dello status dei candidati, anticipati alla fase della presentazione delle candidature e a quella della proclamazione degli eletti e non più riservati, quindi, ai soli organi elettivi di appartenenza. Il Tar ha respinto, poi, i dubbi di costituzionalità avanzati dal ricorrente con riferimento alla mancata previsione, quanto alle elezioni locali, di un termine di durata dell’incandidabilità diversamente da quanto previsto per le elezioni politiche ed europee (il doppio della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, e comunque non inferiore a sei anni). Questione ritenuta infondata anche con riferimento alla lamentata minore severità della disciplina delle incandidabilità politiche nazionali rispetto a quelle locali. Richiamando, in proposito, la c.d. Sentenza Maniscalco pronunciata dal Consiglio di Stato nel febbraio scorso, il Tar Lazio chiarisce che non sussiste alcun profilo di irragionevolezza della “decreto Severino” per la mancata previsione, quanto alle elezioni amministrative, di un limite temporale analogo a quello fissato per le elezioni politiche ed europee, posto che la diversità delle elezioni e delle cariche non consentono di sindacare l’apprezzamento discrezionale operato dal legislatore nel quadro di una disciplina complessivamente eterogenea, anche sul piano sostanziale. Argomento, questo, ritenuto applicabile sia alla questione del limite temporale sia a quella dei relativi presupposti (tipologia delle condanne, pene edittali o irrogate, etc.). Come previsto nella stessa norma di delega contenuta nella legge n. 190/2013 (Legge Anticorruzione), il legislatore delegato, nel disciplinare un sistema di incandidabilità per le cariche politiche nazionali e per gli incarichi di governo, ha dovuto operare - attesa la differente copertura costituzionale riservata ai suoi destinatari- con un intervento ad hoc e non con una mera ed integrale operazione di equiparazione di esse al già vigente regime delle incandidabilità per le cariche elettive regionali e locali. L’esercizio del potere delegato - pur nel rispetto del criterio di armonizzazione dell’intera disciplina delle incandidabilità dettato dal legislatore de- © Wolters Kluwer 150 ANGELO DE PRISCO legante – ha proceduto tenendo conto della peculiarità funzionale ed istituzionale dei diversi ambiti di applicazione concreta, con il risultato atteso di un sistema complessivamente armonico pur nella specificità dei singoli settori disciplinati. 9. Conclusioni Il susseguirsi delle indagini giudiziarie e delle condanne a carico dei rappresentanti della classe politica ha contribuito, negli ultimi anni, ad alimentare un clima di sfiducia diffusa, soprattutto da parte delle giovani generazioni, e di delegittimazione nei confronti delle istituzioni della Repubblica e dei loro rappresentanti. Il c.d. Decreto Severino, pur senza la pretesa di essere l’antidoto al malaffare della politica, ha sicuramente il merito di aver eliminato una zona franca dall’ordinamento “elettorale”, prevedendo una disciplina ad hoc sulle incandidabilità anche per i parlamentari e i per i membri dell’esecutivo, oltreché il rafforzamento del già rigoroso regime delle cause ostative all’assunzione degli incarichi elettivi regionali e locali. La rapidità con la quale si è giunti all’approvazione del decreto legislativo non ha precedenti: l’approvazione definitiva da parte del Consiglio dei Ministri è intervenuta il 22 dicembre del 2012, a meno di un mese di distanza dall’entrata in vigore (28 novembre 2012) della norma di delega contenuta nella legge Anticorruzione ed è stata fortemente voluta, o non osteggiata, da tutte le forze politiche presenti in Parlamento con il dichiarato obiettivo di rendere applicabile il nuovo regime partire dalle elezioni politiche che si sarebbero tenute nel giro di poche settimane, nel febbraio del 2013. Le scelte tecniche operate dal Governo nel rigoroso solco dei principi direttivi dettati dalla Legge Anticorruzione hanno superato, come abbiamo visto, i primi vagli di legittimità in sede giurisdizionale; tuttavia la prima applicazione(9) delle norme sulle incandidabilità parlamentari ha fatto registrare non poche polemiche e dispute giuridiche, alimentate dall’idea di fondo che lo status di parlamentare rechi ancora con sé uno “status soggettivo privilegiato”, diverso e più tutelato rispetto alle altre cariche elettive e di governo subnazionale. Difficilmente, tuttavia, le scelte operate sulle cariche politiche e di governo di livello nazionale potranno essere rimesse in discussione ed affievolite nella loro portata. Piuttosto, non è da escludere che una spinta sempre (9) Cfr. la procedura di contestazione dell’elezione del Sen. Berlusconi nella XVII Legislatura. Atti parlamentari consultabili all’indirizzo http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/ ProcANL/ProcANLscheda27857.htm. © Wolters Kluwer IL DECRETO "SEVERINO" 151 più forte proveniente dall’opinione pubblica indirizzi le future scelte legislative su piani di ancor maggiore rigore, verso una sostanziale omogeneizzazione dei diversi regimi delle incandidabilità ad “immagine” di quella più severa in vigore per le elezioni locali. In tale direzione va segnalata la presa di posizione della Commissione Parlamentare Antimafia che, nella relazione(10) del 23 settembre 2014, in materia di formazione delle liste delle candidature per le elezioni europee, politiche, regionali, comunali e circoscrizionali, propone “da un lato, che vi sia un sistema (delle incandidabilità) valevole per tutti i casi di elezione di organi rappresentativi; dall’altro, che la soglia di autotutela da parte dei partiti e dei movimenti politici contro il rischio di inquinamento delle liste elettorali possa essere ulteriormente elevata aderendo alle previsioni di un codice di autoregolamentazione”. (10) Cfr. Doc. XXIII, N.3, http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/docnonleg/29277.htm. © Wolters Kluwer DAVIDE LOCASTRO DAL “PORCELLUM” AL “CONSULTELLUM”: L’INNOVATIVA SENTENZA N. 1/2014 DELLA CORTE COSTITUZIONALE E LE PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA LEGGE ELETTORALE. SOMMARIO: 1. Limiti e difetti della legge 21 dicembre 2005, n. 270. – 2. L’ammissibilità delle censure. – 3.1. I profili di illegittimità del Porcellum: il premio di maggioranza alla Camera. – 3.2. L’irrazionalità dei premi regionali al Senato. – 3.3. Le liste bloccate. – 4. La normativa elettorale di risulta, ovvero il Consultellum. – 5. L’Italicum, ovvero il nuovo sistema elettorale della Camera. – 6. Conclusioni. 1. Limiti e difetti della legge 21 dicembre 2005, n. 270 Che il sistema elettorale di Camera e Senato, per come ridisegnato dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270, presentasse aspetti problematici e profili di illegittimità costituzionale appariva abbastanza chiaro già all’indomani della sua approvazione parlamentare. A suffragare tale opinione, se non bastasse il non certo simpatico soprannome affibbiatogli in seguito ad un commento del suo materiale estensore(1), sarebbe sufficiente scorrere le dichiarazioni di voto rese dalle forze di opposizione già in occasione dell’approvazione della legge da parte del primo ramo del Parlamento(2) o i commenti a firma di illustri studiosi di diritto costituzionale apparsi nel medesimo periodo(3). (1) Il nome “Porcellum” venne coniato - per assonanza con “Mattarellum”, denominzione giornalistica della precedente legge maggioritaria - dal politologo Giovanni Sartori in seguito alle dichiarazioni rilasciate dal Sen. Roberto Calderoli che, nel corso della trasmissione televisiva Matrix del 14 marzo 2006, definì la nuova legge elettorale, che verrà a breve applicata per il rinnovo di Camera e Senato, “una porcata fatta volutamente per mettere in difficoltà una destra e una sinistra che devono fare i conti col popolo che vota”. (2) Vedi il resoconto della seduta della Camera del 15 ottobre 2012. (3) G. ZAGREBELSKY,“Una riforma del voto irrazionale e incostituzionale” in La Repubblica, 25 ottobre 2005; A PACE, “Senato, un aiuto a chi perde”, in Europa 1 novembre 2005; L. © Wolters Kluwer 154 DAVIDE LOCASTRO Le copiose critiche piovute sul nuovo impianto riguardavano sia il metodo che aveva condotto alla sua adozione, l’assenza cioè di un coinvolgimento delle opposizioni nella sua stesura, che il merito dell’intervento, per la mancata previsione di una soglia al cui raggiungimento far scattare l’assegnazione del premio di maggioranza, per l’irragionevolezza dei premi a livello regionale al Senato e per la previsione delle liste “bloccate” di candidati e la conseguente compressione delle prerogative di scelta dell’elettore. La Corte, come è noto, ha accolto le tre questioni, con una dichiarazione d’incostituzionalità secca in relazione alle prime due e una pronuncia additiva con riferimento alla terza, stabilendo cioè l’illegittimità delle relative norme «nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati». L’intervento effettuato sul sistema elettorale con la sentenza n. 1 del 2014 presenta caratteri di eccezionalità sotto più aspetti. Se è vero, infatti, che il giudice delle leggi ha inteso così porre un rimedio estremo all’inerzia delle forze politiche, peraltro a più riprese stigmatizzata dallo stesso Collegio e dal suo Presidente(4), non può disconoscersi che la decisione appare in contraddizione con la costante giurisprudenza della Corte sulla necessaria incidentalità del giudizio di legittimità costituzionale che si celebra innanzi ad essa e quindi con il dogma della intangibilità della normativa elettorale se non per mano del Parlamento. Eppure, per comprendere appieno le scelte operate dai giudici costituzionali in questa occasione non si può prescindere dal considerare il conclamato “impasse” del Parlamento nel corso degli ultimi anni in questa materia. ELIA, “Il voto rischia di essere delegittimato”, in Europa del 29 novembre 2005; A. MANZELLA, “La corsia sbagliata della democrazia”, in La Repubblica del 15 dicembre 2005; V. ONIDA ,“I guai della legge elettorale. Cancellati sia il voto di coalizione sia la scelta dei singoli candidati”, in il Sole 24Ore, 20 dicembre 2005. (4) Vedasi i tre moniti della Corte contenuti nelle sent. n. 15 e 16 del 2008 e n. 13 del 2012, nonché l’esplicito preannuncio di incostituzionalità formulato del 12 aprile 2013 dal Presidente della Corte Franco Gallo in occasione della relazione annuale sull’attività della Corte nel 2012 (in www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_annuali/RelazioneGallo): «È appena il caso di menzionare, poi, l’altra raccomandazione – tanto spesso richiamata nelle più diverse sedi politiche – a modificare la vigente legge elettorale. Già con le sentenze n. 15 e n. 16 del 2008 e, più di recente, con la n. 13 dello scorso anno, la Corte ha invano sollecitato il legislatore a riconsiderare gli aspetti problematici della legge n. 270 del 2005 «con particolare riguardo all’attribuzione di un premio di maggioranza […] senza che sia raggiunta una soglia minima di voti e/o di seggi». © Wolters Kluwer DAL "PROCELLUM" AL "CONSULTELLUM" 2. 155 L’ammissibilità delle censure La decisione circa l’ammissibilità delle censure avanzate dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza di rimessione(5) assume in sé un valore che, travalicando il caso specifico, è in grado di prospettare futuri ed innovativi scenari nel campo della tutela dei diritti costituzionali. E’ bene ricordare, infatti, che la decisione della Consulta si innesta all’interno di un giudizio in cui un cittadino aveva chiesto che venisse dichiarato che il suo diritto di voto, per effetto della legge n. 270/2005, non aveva potuto essere esercitato in modo libero e diretto e quindi reclamava di ripristinarlo secondo modalità conformi alla legalità costituzionale. Secondo il costante orientamento della Consulta “il giudizio a quo deve avere, da un lato, un petitum separato e distinto dalla questione di costituzionalità, sul quale il giudice remittente sia legittimamente chiamato, in ragione della propria competenza, a decidere; dall’altro, un suo autonomo svolgimento, nel senso di poter essere indirizzato a una propria conclusione, al di fuori della questione di legittimità costituzionale, il cui insorgere è solo eventuale”(6). In questo caso la Corte, per giungere ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale del cd. “Porcellum”, ha dovuto forzare in misura significativa i propri criteri di ammissibilità del giudizio incidentale che da sempre escludevano questioni che avessero come fine unico quello di dirimere un dubbio di legittimità costituzionale su una legge. Così, nella stringata motivazione della decisione sull’ammissibilità, il Collegio ritiene soddisfatta la condizione della rilevanza delle questioni prospettate, partendo dalla considerazione che “il petitum oggetto del giudizio principale è costituito dalla pronuncia di accertamento del diritto azionato (…) non risultando l’accertamento richiesto al giudice comune totalmente assorbito dalla sentenza di questa Corte”. Quindi, se il petitum del giudizio principale consiste nella “pronuncia di accertamento del diritto azionato”, in quanto tale diritto sia “reso incerto” dalla legge elettorale della cui costituzionalità si dubita, il petitum del giudizio costituzionale consiste invece nella dichiarazione di illegittimità della stessa legge. La linea di demarcazione appare molto sottile, anche perchè se i petita sono diversi al giudice a quo dovrebbe essere rimesso un accertamento che non sia assorbito dalla decisione del giudice costituzionale. E infatti la sentenza afferma che al giudice a quo “residuerebbe la verifica delle altre (5) Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 21 marzo 2013, n. 12060, depositata il 17 maggio 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2013. (6) Tanto si legge, in termini particolarmente espliciti, nella sentenza Corte Cost. n. 38 del 2009. © Wolters Kluwer 156 DAVIDE LOCASTRO condizioni da cui la legge fa dipendere il riconoscimento del diritto di voto”; in verità, la individuazione di tali altre condizioni non sembra agevole. Tale osservazione pare confermata dalla sentenza(7) emessa a seguito della pronuncia di illegittimità costituzionale della legge 270/2005 e con cui la Corte di Cassazione si è limitata a registrare i risultati già prodottisi sul giudizio a quo per effetto della pronuncia della Consulta senza, ovviamente, poter aggiungere alcunché. La Corte costituzionale, comunque, dopo aver illustrato, come si è visto in maniera non del tutto convincente, questa linea argomentativa e quasi a voler puntellare tale traballante impianto, introduce ulteriori considerazioni a sostegno della sua decisione: l’indispensabilità di un controllo di conformità a Costituzione delle leggi “che definiscono le regole per la composizione di organi costituzionali essenziali per il funzionamento di un sistema democratico-rappresentativo” e, più in generale, l’inaccettabilità dell’esistenza di “una zona franca nel sistema di giustizia costituzionale proprio in un ambito strettamente connesso con l’assetto democratico” che si tradurrebbe in “un vulnus intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente considerato”. Questo passaggio aggiuntivo della motivazione concernente le esigenze “di sistema”, ha suscitato critiche(8), in quanto rischia di minare il ragionamento più strettamente “giuridico” della Corte lasciando intendere che la decisione è stata presa anche per motivi di garanzia sostanziale dei diritti in conseguenza della colpevole inerzia del legislatore. Proprio l’inaccettabilità di un diniego di giustizia nel campo della garanzia dei diritti più importanti, fra i quali i diritti politici fondamentali sanciti dalla Costituzione, pare essere la vera ragione per la quale la Corte ha dichiarato ammissibile il rinvio. Le conseguenze di tale pronuncia sul punto investono in maniera sicuramente non prevedibile il modello incidentale di impugnazione delle norme ritenute illegittime(9). Un esempio su tutti lo fornisce l’Ordinanza n. 5 del 12 (7) Il dispositivo della sentenza della I sezione civile della Corte di Cassazione n. 8878 del 4 aprile 2014 si limita a dichiarare che i ricorrenti, dall’approvazione della legge 270/2005 e fino alla decisione della Consulta, non hanno potuto esercitare il diritto di voto in modo conforme a Costituzione. La Corte di Cassazione precisa di non dover compiere alcuna verifica di «altre condizioni da cui la legge fa dipendere il riconoscimento del diritto di voto», ma afferma che, dopo la sentenza della Corte costituzionale, al giudice ordinario residua di accertare «le conseguenze della pronuncia costituzionale e, in particolare, se vi sia stata una lesione giuridicamente rilevante del diritto di voto». (8) F. FERRARI,“Liste bloccate o situazione normativa? Un’alternativa all’oggetto del giudizio di costituzionalità” in Forum di quaderni costituzionali, 2014. (9) In tal senso R. BIN, "Zone franche" e legittimazione della Corte”, in www.forumcostituzionale.it, secondo cui “la Corte sembra essersi riservata un potere di derogare alle regole processuali che delimitano i suoi poteri: ma si tratta di deroghe per casi ecce- © Wolters Kluwer DAL "PROCELLUM" AL "CONSULTELLUM" 157 maggio 2014 con cui il Tribunale di Cagliari, ripercorrendo il medesimo iter logico dell’ordinanza di rimessione n. 12060 della Corte di Cassazione, che viene espressamente citata, ha ritenuto rilevanti e non manifestamente infondate alcune questioni di legittimità costituzionale della legge che disciplina l’elezione dei membri italiani al Parlamento europeo, sollevate da un gruppo di elettori sardi all’interno di un giudizio volto ad accertare la compromissione del loro diritto di voto. Si tratta, quindi, dello stesso schema che ha condotto alla sentenza 1/2014. Sulla scorta dell’illustre precedente, è lecito attendersi anche in questo caso che la Corte superando il limite, sinora dalla stessa ritenuto invalicabile, della propria giurisprudenza sulla rilevanza delle questioni e sull’incidentalità del giudizio, si pronunci nel merito anche su tale sistema elettorale. 3.1. I profili di illegittimità del Porcellum: il premio di maggioranza alla Camera Anche con riferimento al merito delle censure di illegittimità costituzionale prospettate, la sentenza presenta caratteri innovativi. Già prima che la Corte si pronunciasse sulla questione, autorevole dottrina(10) aveva sostenuto che la decisione avrebbe rispettato quella logica istituzionale che tende a limitare al minimo l’incidenza della Corte nella produzione di nuove norme e non si sarebbe spinta sino ad invadere il campo della politica, dettando un nuovo sistema elettorale. Ragioni di salvaguardia della discrezionalità legislativa, quanto mai ampia nella materia elettorale, avrebbero militato a favore di una pronuncia di inammissibilità delle questioni(11). zionali, che non attenuano il rigore delle regole stabilite dalla legge di procedura. Il prezzo che dovrà pagare però non è irrilevante: come spiegare ai cittadini di Taranto che chiedano al giudice, per ipotesi, l'accertamento della violazione del loro diritto costituzionale alla salute, previa impugnazione della "legge Ilva", che in quel caso la incidentalità e la rilevanza non sussistono?” (10) U. DE SIERVO, “Alla Consulta un ricorso inammissibile”, in La Stampa 29 novembre 2013, secondo cui “la tesi che la Corte possa allora semplicemente far venir meno i premi di maggioranza equivale - come ben noto - a trasformare il vigente sistema elettorale di tipo maggioritario in un sistema proporzionale, realizzando quindi un vero e proprio radicale mutamento legislativo, che però non può che spettare ad organi rappresentativi”. (11) M. AINIS sul Corriere della Sera del 5 dicembre 2013 avvertiva che era stato il “vuoto politico” a tenere a galla “per tre legislature una legge elettorale che costituisce di per sé un insulto alla democrazia […]. Certo, sarebbe stato meglio, molto meglio, che a scrivere le nuove regole del gioco fossero state le assemblee legislative […].Una sentenza costituzionale non è la via maestra, non è mestiere della Consulta scrivere le leggi elettorali. Ma fra il nulla e la sentenza, meglio la sentenza. Alla fine della giostra, è infatti di questo che si tratta: un rimedio estremo rispetto ad un danno estremo”. © Wolters Kluwer 158 DAVIDE LOCASTRO Ma in realtà, ciò non è stato. Proprio partendo dalla affievolita aspettativa nella risposta legislativa ai difetti della legge elettorale, la Corte, pur facendo espresso richiamo “all’ampia discrezionalità del legislatore”(12) quanto alla scelta della formula e del sistema elettorale, ha ritenuto di fare sentire la sua voce nell’unico modo che le era consentito. Non potendo spingersi, ovviamente, sino ad indicare la percentuale di voti raggiunta la quale un premio di governabilità risultasse costituzionalmente legittimo, il suo intervento, “nella perdurante inerzia del legislatore ordinario”, è consistito nello svolgimento di un test di proporzionalità e di ragionevolezza per verificare il corretto bilanciamento tra l’esigenza di assicurare un’adeguata maggioranza parlamentare e dunque un governo stabile e quella di garantire la rappresentatività dell’assemblea parlamentare. L’interesse alla rappresentatività dell’assemblea elettiva, particolarmente da tutelare in un sistema a base proporzionale(13) come quello della legge 270/2005, può essere bilanciato con quello della governabilità ma entro limiti di ragionevolezza, o meglio attraverso strumenti (soglie e/o premi) in grado di superare il test di proporzionalità. La conclusione della Corte sul punto, come era ampiamente prevedibile, è che le norme sotto scrutinio non si limitano ad “introdurre un correttivo al sistema di trasformazione dei voti in seggi in ragione proporzionale” per “favorire la formazione di stabili maggioranze parlamentari ma rovesciano la ratio della formula elettorale prescelta dallo stesso legislatore del 2005, che è quella di assicurare la rappresentatività dell’assemblea parlamentare”. Tali norme non imponendo il raggiungimento di una soglia minima di voti per l’attribuzione di un numero, in ipotesi, anche molto elevato di seggi supplementari, “consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare” e trasformano una maggioranza relativa di voti, potenzialmente anche molto modesta, in una maggioranza assoluta di seggi. Il principio di eguaglianza del voto, consacrato nell’art. 48 della Costituzione, ricorda la Corte, impone che ciascun voto sia personale ed eguale, (12) La Corte afferma che «non c’è … un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale, in quanto quest’ultima lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in ragione del contesto storico». Al punto 3.1 delle motivazioni sostiene poi che “il sistema elettorale …non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole”. (13) La Corte, sul punto, cita una decisione del Tribunale costituzionale tedesco per sostenere che “qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare (BVerfGE, sentenza 3/11 del 25 luglio 2012)”. © Wolters Kluwer DAL "PROCELLUM" AL "CONSULTELLUM" 159 oltre che libero e segreto, cioè contribuisca “potenzialmente e con pari efficacia” alla formazione delle Camere, in modo che non sia pregiudicata la “legittima aspettativa” dell’elettore e “che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, (…) cioè una diseguale valutazione” del “peso” del voto espresso ai fini dell’attribuzione dei seggi. Il perseguimento da parte della legge elettorale dell’obiettivo di rilievo costituzionale della stabilità del governo deve avvenire nel rispetto del vincolo del minor sacrificio possibile di altrettanti valori di rango costituzionale, quali quelli contenuti negli artt. 3, 48 e 67 della Costituzione. Non è quindi la distorsione in sé(14) della regola di trasformazione dei voti in seggi ad essere illegittima ma la sua eccessiva portata all’interno di un sistema proporzionale. 3.2. L’irrazionalità dei premi regionali al Senato Le motivazioni della sentenza con riferimento alle norme per l’elezione del Senato ricalcano quelle poste a base della censura di costituzionalità del meccanismo premiale previsto per la Camera dei Deputati. In particolare, l’attribuzione del premio di maggioranza alla coalizione di liste o alle singole liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti validi espressi nell’ambito della regione, in difetto del raggiungimento di una soglia minima di voti, costituisce una disciplina manifestamente irragionevole poiché il meccanismo premiale finisce per comprimere la rappresentatività dell’assemblea parlamentare in misura sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito che è quello di salvaguardare la stabilità del governo e l’efficienza decisionale del sistema. Ma la disciplina elettorale per il Senato evidenzia, altresì, un ulteriore vizio connesso all’attribuzione del premio su scala regionale: tale meccanismo produce l’effetto perverso che la maggioranza costituita in Senato “sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea”. In un sistema connotato dal bicameralismo perfetto, l’ipotesi di maggioranze difformi tra le due Assemblee rischia di compromettere non solo la stabilità ex se, ma anche il funzionamento della forma di governo parlamen(14) Altrimenti dovrebbe ritenersi antidemocratico il modello elettorale del Regno Unito del cd. the first part the post, in cui la somma dei voti dei candidati sconfitti nel collegio può, in ipotesi, superare quella del candidato eletto. © Wolters Kluwer 160 DAVIDE LOCASTRO tare, in quanto entrambi i rami del Parlamento devono avere una consonanza politica, che è indispensabile per conferire la fiducia al Governo e per svolgere la funzione legislativa. L’inidoneità al raggiungimento dell’obiettivo della governabilità, in ipotesi perseguito, accresce il vulnus ai principi di proporzionalità e ragionevolezza inferto dalle norme censurate e, di conseguenza lede gli articoli 1, secondo comma, 3, 48 secondo comma e 67 della Costituzione. Sotto questo profilo, se il meccanismo correttivo del sistema proporzionale sacrifica un principio costituzionale senza perseguire effettivamente un interesse costituzionalmente legittimo, viene meno qualsiasi ipotesi di bilanciamento. Al riguardo, è bene sottolineare che l’adozione di una legge elettorale maggioritaria in un sistema bicamerale paritario e perfetto quale quello italiano, in cui, per giunta, la base elettorale della Camera alta è diversa rispetto a quella dell’altra assemblea, conduce sempre al rischio di ottenere maggioranze diverse nei due rami del Parlamento. E’ tuttavia indubitabile che il meccanismo sposato dal “Porcellum” rende altamente più probabile il verificarsi di tale scenario. Quello che la Corte non dice, non essendole stato chiesto, è se la previsione di un premio di maggioranza a livello nazionale rimanga compatibile con la disposizione contenuta nel comma 1 dell’articolo 57 della Costituzione, secondo cui il Senato è eletto “a base regionale”. Se nella volontà del costituente tale espressione implica che le delegazioni regionali di senatori debbano essere capaci di rappresentare ciascuna comunità regionale, allora meccanismi elettorali che prevedono l’assegnazione dei seggi in base a calcoli svolti a livello superiore rispetto a quello regionale appaiono da respingere(15). 3.3. Le liste bloccate L’altro aspetto della legge n. 270/2005 annullato dalla Consulta inerisce alle c.d. liste bloccate, e cioè alle disposizioni secondo cui i seggi conquistati (15) L. SPADACINI, in “I limiti alla discrezionalità del legislatore in materia elettorale desumibili dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014”, pubblicato su www.forumcostituzionale.it, osserva che applicando, ad esempio alla Lombardia, il sistema del premio nazionale della Camera al Senato “ la maggioranza assoluta dei seggi senatoriali lombardi risulterebbe assegnata al centrosinistra e la ripartizione dei seggi risulterebbe completamente ribaltata rispetto a quella attuale, con il passaggio di 16/17 seggi dal centrodestra al centrosinistra. L’esito sarebbe dunque quello di avere una rappresentanza della comunità regionale lombarda con una maggioranza assoluta di senatori appartenenti al centrosinistra, coalizione politica decisamente minoritaria in Lombardia e distanziata dal centrodestra da circa otto punti percentuali nel voto al Senato”. © Wolters Kluwer DAL "PROCELLUM" AL "CONSULTELLUM" 161 da ciascuna lista sono assegnati ai candidati secondo l’ordine di presentazione indicato dai partiti. Sul punto, la Corte ricorre a motivazioni che non appaiono del tutto convincenti e che scontano la difficoltà di individuare il principio costituzionale che vieti il ricorso alle liste bloccate o che, viceversa, imponga di utilizzare le preferenze. Secondo la Consulta le disposizioni censurate sono incostituzionali “perché escludono ogni facoltà dell’elettore di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti” in quanto la decisione ultima in proposito discende in definitiva dall’ordine di inserimento dei candidati nella lista, “ordine di presentazione che è sostanzialmente deciso dai partiti”. La norma censurata prevede unicamente un voto per la scelta della lista e tale lista, date le dimensioni molto ampie delle circoscrizioni elettorali, contiene un numero molto elevato di candidati che li rende difficilmente conoscibili agli elettori e che, pertanto, “priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti”. Secondo il ragionamento della Corte il vulnus alla “logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione” viene meno se all’elettore è consentito di esprimere una preferenza. A questo proposito i giudici costituzionali citano una precedente decisione(16) in cui la Corte – chiamata a pronunciarsi sul sistema elettorale per i comuni al di sotto dei 5000 abitanti – aveva riconosciuto la rilevanza del voto di preferenza come elemento determinante per dichiarare l’infondatezza della questione prospettata. Sarebbe agevole replicare che la presentazione di una candidatura nella lista di un partito è comunque e sempre subordinata alla volontà delle segreterie e dei vertici politici dello stesso e che la scelta operata dall’elettore con la preferenza deve quindi cadere all’interno di una lista di candidati individuati dai partiti, circostanza che di certo non rende il suo voto più libero. D’altra parte l’osservazione che il voto dell’elettore per la lista prescinda del tutto dall’identità dei candidati che la compongono non è, in assoluto, pienamente condivisibile; si può ben ritenere che il numero dei voti che la lista ottiene, e dunque anche il numero di candidati che saranno eletti all’interno della stessa, derivi proprio dall’identità di questi e dalla scelta degli elettori (16) Si tratta della sentenza n. 203 del 1975, in cui si legge che “Una volta riconosciuta legittima, in linea di principio, la scelta operata dal legislatore di concedere alle formazioni politiche la facoltà di presentare proprie liste di candidati, nessuna rilevanza costituzionale può assumere la circostanza che lo stesso legislatore le ha lasciate libere di indicare l’ordine di presentazione delle candidature. Le modalità e le procedure di formazione della volontà dei partiti o dei gruppi politici occasionali - che sovente sorgono per le elezioni amministrative in dipendenza di situazioni ambientali - e previste dalle leggi elettorali, non ledono affatto la libertà di voto del cittadino, il quale rimane pur sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza.” © Wolters Kluwer 162 DAVIDE LOCASTRO di votare quella lista in quanto composta da quei candidati collocati in quell’ordine. Potrebbe, inoltre, sostenersi che i partiti politici sono formazioni sociali che la Costituzione richiama all’articolo 49 proprio in quanto per il loro tramite i cittadini possono concorrere a determinare la politica nazionale. In linea di principio, ed al netto della conclamata delegittimazione che ha investito i partiti politici italiani negli ultimi anni, il principale compito di una formazione politica dovrebbe quindi essere proprio quello di selezionare i rappresentanti nelle assemblee elettive. Anche per tale motivo e per evitare di imbrigliare eccessivamente il legislatore futuro, la Corte prudentemente precisa che l’illegittimità non colpisce il metodo delle liste bloccate in termini assoluti, ma riguarda il modo in cui tale soluzione è stata declinata dal legislatore del 2005. Infatti, le c.d. liste bloccate possono superare il vaglio di costituzionalità a condizione che riguardino “solo una parte dei seggi” in palio e non la totalità(17) ovvero quando le circoscrizioni elettorali siano di dimensioni ridotte ed “il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e della libertà del voto”. Qui la Corte, forse consapevole della fragilità dell’argomento della preferenza come clausola di garanzia della libertà del voto, sente la necessità di affiancarvene un altro, quello della conoscibilità dei candidati, anch’esso, però, poco convincente. Ciò in quanto un nesso tra conoscibilità e preferenza non è rinvenibile, dal momento che se la lista dei candidati è molto lunga ed espressione unicamente della volontà del partito non si vede come la preferenza possa garantire una maggiore conoscibilità del candidato. In realtà, l’unica soluzione astrattamente in grado di tutelare l’effettiva conoscibilità dei candidati “e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto” sarebbe stata quella di censurare la legge nella parte in cui prevede la possibilità di liste molto lunghe, piuttosto che in quella in cui non prevede il voto di preferenza. Peraltro, occorre notare che il voto di preferenza, mai previsto in Italia per le elezioni del Senato ed assente da oltre venti anni da quelle della Camera, è sconosciuto anche ai sistemi elettorali delle democrazie europee più vicine alla nostra (Germania, Francia, Spagna, Regno Unito) e presenta inconvenienti(18) tali da giustificare, agli occhi del legislatore, una soluzione normativa che non lo contempli. (17) Secondo la Corte “è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione”. (18) I. NICOTRA, in “Proposte per una nuova legge elettorale alla luce delle motivazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014”, testo che riproduce, con modi- © Wolters Kluwer DAL "PROCELLUM" AL "CONSULTELLUM" 163 Sebbene sia evidente che l’introduzione della preferenza fosse l’unico possibile intervento additivo sulla norma annullata, non essendo praticabile con sentenza un “accorciamento” delle liste troppo lunghe, non può nascondersi che l’impianto motivazionale di tale parte della decisione non appaia convincente. Tenendo conto che possono sussistere ragioni di opportunità politica che spingono il legislatore, in un determinato momento storico, ad adottare liste bloccate, anche piuttosto lunghe, per tentare di arginare alcuni cattivi costumi potenzialmente insiti all’interno di un uso patologico delle preferenze, forse la Corte avrebbe dovuto più accortamente prendere atto che la scelta in proposito rientra nel campo riservato alla discrezionalità del legislatore. Probabilmente l’approfondimento della questione avrebbe trovato una più naturale sede nel quadro di una complessiva riflessione sul ruolo dei partiti alla luce dell’art. 49 della Costituzione e in seno al dibattito intorno alla democrazia interna agli stessi(19). 4. La normativa elettorale di risulta, ovvero il Consultellum Secondo la Corte, la sentenza n. 1 del 2014 lascia in vigore una normativa «complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo», secondo quanto richiesto, per le leggi elettorali e più in generale per quelle “costituzionalmente necessarie”, dall’ormai copiosa giurisprudenza costituzionale riscontrabile nell’ambito dei giudizi di ammissibilità del referendum abrogativo(20). fiche, l’intervento tenuto nell’ambito delle audizioni sulla legge elettorale presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, il 13 gennaio 2014, li riassume così: “ a) aumenta a dismisura i costi della politica, b) si piega a una logica clientelare che rimette nelle mani dei potentati locali (se non addirittura della malavita organizzata) il controllo dei voti, c) espropria i partiti del loro compito di selezione dei candidati. d) aggiunge alla competizione fra coalizioni alternative e fra i partiti del medesimo schieramento anche quella fra candidati dello stesso partito. Ma soprattutto, quel che è più grave, costituisce un vulnus rispetto allo stesso principio di eguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2°, Cost.), in quanto solo chi dispone di risorse economiche adeguate può decidere di presentare la propria candidatura, lasciando fuori dal diritto di partecipazione politica attiva i ceti economicamente più deboli della popolazione”. (19) G. MAESTRI, “La legge elettorale dopo la Consulta: quali paletti per il legislatore in materia ( e quali spazi per nuove sentenze?)”, in Nomos. Le attualità del diritto, n. 3/2013 osserva che “dal momento che, in fondo, un obiter dictum non costa nulla e potenzialmente non si nega a nessuno – il giudice costituzionale avrebbe potuto sottolineare che un’altra delle condizioni di accettabilità delle liste bloccate corte sarebbe stata la determinazione dell’ordine dei candidati dopo lo svolgimento di elezioni primarie, da regolare nell’ambito di una più ampia regolazione dei partiti”. (20) Su tale punto vedasi le sentt. nn. 29/1987; 47/1991; 32 e 33/1993; 5 e 10/1995; 26 e 28/1997; 13/1999; 33 e 34/2000; 15, 16 e 17/2008; 13/2012. © Wolters Kluwer 164 DAVIDE LOCASTRO Il soddisfacimento di questa condizione risultava piuttosto agevole in relazione all’accoglimento delle prime due questioni, determinando il venir meno dei premi di maggioranza e mantenendo, quindi, un sistema proporzionale corretto soltanto dalle soglie fissate per l’accesso alla ripartizione dei seggi. Meno agevole sembrava, in realtà, che una normativa direttamente applicabile potesse risultare dalla dichiarazione di incostituzionalità delle norme sulle liste bloccate previste dalla legge n. 270 del 2005, tanto che, in dottrina(21), si era anche ipotizzato che la Corte potesse concludere su questo punto con una decisione additiva di principio, che avrebbe però poi richiesto un intervento del legislatore. La Corte, invece, ha superato di slancio ogni difficoltà, precisando che «eventuali apparenti inconvenienti», comunque «non incidono sull’operatività del sistema elettorale, né paralizzano la funzionalità dell’organo», potendo «essere risolti mediante l’impiego degli ordinari criteri d’interpretazione». Così, secondo la Consulta, si deve ritenere che, ad esempio, l’ordine di lista, previsto in relazione alla proclamazione degli eletti, opera solo in assenza di espressione della preferenza, mentre, per quanto concerne le modalità di redazione delle schede elettorali, le relative norme, «nello stabilire che nella scheda devono essere riprodotti i contrassegni di tutte le liste regolarmente presentate nella circoscrizione, secondo il facsimile di cui agli allegati, non escludono che quegli schemi siano integrati da uno spazio per l’espressione della preferenza». Va detto che non emerge da alcuna disposizione normativa espressa il parametro cui agganciare la scelta circa la preferenza singola ad integrazione delle liste bloccate, così come non appare scontata la concreta operatività del nuovo sistema, atteso che dopo l’intervento demolitorio della Corte non residua alcun riferimento alle concrete modalità di espressione della preferenza(22). In altre parole, non appare del tutto chiaro come dall'affermazione dell'incostituzionalità delle norme nella parte in cui escludono qualsiasi potere di scelta in capo all’elettore, la Corte giunga a concludere che la soluzione a tale vulnus possa essere trovata - fra le altre da essa stessa citate (uninominale, liste corte, preferenze) - nella preferenza singola. Oltre al già citato precedente giurisprudenziale del 1975, peraltro relativo ad una legge che già contemplava la possibilità per l’elettore di esprimere (21) G.M. SALERNO, Il giudizio di costituzionalità delle leggi elettorali come "tramite" per il pieno ripristino del diritto di voto, in Corriere giuridico., 2013, n. 11. (22) Dopo l’abrogazione del secondo comma, l’art. 4 del d.P.R. 361/1957 reca soltanto una generica enunciazione di massima sul diritto-dovere di voto ma non indica le concrete modalità di espressione del suffragio popolare (se, cioè, l’elettore deve manifestare la preferenza scrivendo il nominativo del candidato o piuttosto un numero corrispondente al suo ordine di candidatura, ovvero se deve tracciare un contrassegno su uno dei nominativi eventualmente prestampati sulla scheda). © Wolters Kluwer DAL "PROCELLUM" AL "CONSULTELLUM" 165 una preferenza, l’unico riferimento, peraltro non normativo, cui la Corte sembra appoggiare la sua scelta è il risultato del referendum del 1991 che, con amplissimo consenso, ha abrogato il sistema delle preferenze multiple riducendone il numero ad una(23). Critiche sono state mosse alla sentenza anche per l’assenza di qualunque riferimento a meccanismi idonei a promuovere le pari opportunità, così come previsto dall’articolo 51 della Costituzione. Infatti, sebbene il ricorrente avesse omesso di denunciare tale ulteriore profilo di illegittimità costituzionale del “Porcellum”, la Corte avrebbe ben potuto (e, secondo alcuni, dovuto) considerare costituzionalmente obbligata, all’interno della normativa di risulta, la previsione della seconda preferenza di genere(24). In conclusione, la Corte, pur concedendo che possano emergere ostacoli sul percorso della immediata applicabilità del sistema elettorale di risulta, conclude che «simili eventuali inconvenienti potranno […] essere rimossi anche mediante interventi normativi secondari, meramente tecnici ed applicativi della presente pronuncia e delle soluzioni interpretative sopra indicate» e che per di più «lo stesso legislatore ordinario, ove lo ritenga, “potrà correggere, modificare o integrare la disciplina residua” (sentenza n. 32 del 1993)». In definitiva, i giudici costituzionali ritengono che, dopo l’epurazione dai frammenti incostituzionali, residui una legge elettorale, il cd. “Consultellum”, che assiste in modo completo – direttamente o in via interpretativa – tutto il procedimento elettorale, dall’indizione dei comizi alla convalida delle elezioni, rinviando eventualmente a fonti secondarie per il completamento di profili accessori. Su tale punto, peraltro, si registrano opinioni discordanti, dal momento che, ad esempio, le norme che presiedono alla proclamazione degli eletti (da svolgere non già in base all’ordine di lista ma alle preferenze) e il modello di (23) G. MAESTRI “La legge elettorale…”, cit., osserva che la Corte ha “fatto rivivere l’esito di una consultazione referendaria – quella del 1991 – poi superata da altre norme, ma così facendo si è persa per strada quella del 1993, che certamente non meritava meno attenzione del referendum di due anni prima e imprimeva un carattere a prevalenza maggioritario alla normativa del Senato: il popolo lo aveva voluto (al pari della preferenza unica nel 1991), ma nella normativa di risulta non ce n’è traccia”. (24) Così, E. CATELANI,“Due pesi e due misure nella sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale: ammette una fictio litis, ma non amplia il parametro di costituzionalità ipotizzando una doppia preferenza di genere, www.confronticostituzionali.eu, 16 gennaio 2014 secondo cui “un intervento in questa direzione non avrebbe spostato molto il contenuto della decisione, ossia non avrebbe allargato l’oggetto del giudizio che in ogni caso riguardava la necessità di garantire una scelta dei candidati all’elettore. La Corte doveva non limitarsi a prevedere la possibilità di un voto di preferenza, ma ipotizzarne anche due, “ma solo se di genere diverso”. Tale ampliamento sarebbe stato in linea con il principio delle linee obbligate ed anzi obbligatissime, così come previsto dall’art. 51 Cost e dalla sua concretizzazione nella legge n. 215 /12”. © Wolters Kluwer 166 DAVIDE LOCASTRO scheda elettorale sono contenuti in decreti legislativi, modificabili solo con una legge o con un nuovo decreto legislativo(25). Va precisato che, ove l’intesa politica recentemente raggiunta conducesse all’adozione di una nuova legge elettorale per la Camera dei deputati(26), una eventuale e non auspicabile crisi istituzionale che dovesse intervenire prima della riforma costituzionale del Senato, vedrebbe l’utilizzo del “Consultellum” per il rinnovo di tale ramo del Parlamento. Ovviamente, poi, atteso che il sistema elettorale che consegue alla sentenza è un modello proporzionale puro, mitigato unicamente dalle soglie di sbarramento, mentre quello per la Camera presenta spiccati effetti maggioritari, difficilmente la combinazione dei due modelli riuscirebbe a garantire, nell’attuale quadro politico del Paese, il prodursi di una maggioranza omogenea di governo. 5. L’Italicum, ovvero il nuovo sistema elettorale della Camera La sentenza n. 1 del 2014 pone, quindi, dei limiti al futuro legislatore, che possono così sintetizzarsi: l’eventuale previsione di un premio di maggioranza non dovrà essere disgiunta dalla statuizione di una soglia minima e ragionevole di voti e di seggi da conseguire per ottenerne l’attribuzione; il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza non dovrà essere differenziato in modo tale da favorire «la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento»; in caso di introduzione di sistemi che prevedano la presentazione di liste concorrenti “bloccate”, che cioè non consentano la manifestazione di preferenze, ma conducano all’elezione nell’ordine di presentazione, tali liste non potranno contenere un numero tanto «elevato di candidati» da renderne «difficile la conoscenza» da parte dell’elettore. La strada che il Parlamento si è trovato a percorrere nei mesi scorsi risultava, quindi, delimitata da questi “paletti”. Il testo della nuova legge elettorale per la Camera dei deputati, adottato da quella Assemblea il 12 marzo scorso(27), ricalca sostanzialmente (25) Secondo G. MAESTRI, “La legge elettorale…” cit (nota n. 19), “se per «intervento normativo secondario» la Corte intende – in senso tecnico – un intervento governativo, francamente non se ne vedono gli spazi, visto che un regolamento non può comunque derogare o intervenire su un atto con forza di legge”. (26) Si tratta del già famoso “Italicum” di cui si dirà nel prossimo capitolo. (27) Nella seduta dell'11 marzo 2014 la Camera ha deliberato lo stralcio dell'articolo 2 relativo al sistema di elezione del Senato della Repubblica e ha approvato gli emendamenti della Commissione relativi alla formula elettorale. Il giorno seguente l'Assemblea ha approvato il testo. © Wolters Kluwer DAL "PROCELLUM" AL "CONSULTELLUM" 167 l’impianto della legge 270/2005 anche se si propone di rimediare ai vizi sanzionati dalla Corte. Si tratta, quindi, di un sistema a base proporzionale con previsione di soglie di sbarramento differenziate(28) e di un premio di maggioranza alla coalizione o lista vincente che superi il 37 per cento dei voti validi a livello nazionale e che le consente di vedersi attribuire un numero di seggi aggiuntivi fino al raggiungimento del numero di 340(29). Nel caso in cui la coalizione o lista vincente non raggiunga il 37 per cento dei voti, si procede al ballottaggio tra le due liste o coalizioni che hanno ottenuto il maggior numero di voti validi; in questo caso alla lista o coalizione vincente sono attribuiti 321 seggi(30). L’obiettivo del nuovo impianto, giornalisticamente denominato “Italicum”(31), è quello di garantire la governabilità mediante l’attribuzione di un premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti o, comunque, all’esito del turno di ballottaggio ed evitare la frammentazione del quadro politico attraverso un consistente sistema di sbarramenti (o, se si vuole, incentivare l’aggregazione dello scenario attorno a formazioni politiche di grosse dimensioni)(32). Formulare un giudizio sulla ragionevolezza(33) della soglia minima di consenso individuata (37% dei voti validi) e di conseguenza sulla congruità (28) Le soglie di sbarramento per accedere alla attribuzione dei seggi sono basate sulla percentuale dei voti validi a livello nazionale: 12 per cento per le coalizioni, 4,5 per cento per le liste coalizzate e 8 per cento per le liste non coalizzate (29) Il premio non scatta se la coalizione raggiunge con le proprie forze una percentuale in grado di garantirle l’assegnazione di 340 seggi. La consistenza percentuale del premio diminuisce al crescere del consenso ottenuto dalla formazione politica. (30) La stranezza apparente di un premio inferiore all’esito del ballottaggio sembra doversi giustificare se consideriamo che, secondo le statistiche, gli elettori che accettano di mobilitarsi per il secondo turno sono molti meno rispetto al primo turno e quindi, in termini assoluti (e non percentuali), il premio potrebbe essere attribuito sulla base di un numero ancora più basso di voti. (31) Il nome vorrebbe sottolineare orgogliosamente l’approdo ad una soluzione che si modelli sul peculiare quadro politico italiano. Ma in effetti, “se si confronta il sistema proposto con il sistema elettorale in vigore nelle principali democrazie occidentali (Stati Uniti, Francia, Germania, Inghilterra), si vede subito che in quei sistemi realmente il vincitore è colui che ha conseguito la maggioranza del consenso elettorale […] Nessun “premio di maggioranza”, dunque, nei predetti sistemi”. Così si esprime criticamente G. CASO, Sulla riforma elettorale, in Nomos. Le attualità del diritto, n. 3/2013. (32) Un’ulteriore spinta all’aggregazione è data dalla previsione secondo cui, in caso di ballottaggio, fra il primo ed il secondo turno di votazione non sono consentiti ulteriori apparentamenti delle liste o coalizioni di liste presentate al primo turno con le due liste o coalizioni di liste che hanno accesso al ballottaggio. (33) Sul punto si veda, tra gli altri, le considerazioni sulla soglia “troppo bassa [che] potrebbe non sfuggire a un ulteriore giudizio negativo delle Corte” di O. MASSARI, “Italicum: errare humanum est, perseverare autem diabolicum”, in Nomos. Le attualità del diritto, n. 3/2013, p. 4. Vedi anche le osservazioni di G. DEMURO, “La sostenibilità del premio di maggioranza” in Forum dei quaderni costituzionali.it 2014, il quale ritiene possibile misurare la conformità del © Wolters Kluwer 168 DAVIDE LOCASTRO del premio assegnato appare arduo, non avendo la Corte fornito indicazioni numeriche su una soglia di sicurezza che sia tale da garantire la non eccessiva compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea eletta. Ad un primo esame, la fissazione del 37% dei voti validi desta perplessità rispetto ai parametri fissati dalla Consulta. Va infatti, evidenziato, che tale soglia potrebbe essere considerata troppo bassa poiché potenzialmente in grado di consentire ad una coalizione o lista che ha superato di poco tale percentuale di voti di incassare il 55% dei seggi, ottenendo in Parlamento una sproporzionata rappresentanza rispetto alla sua vera forza elettorale(34), determinandosi, per tale via, “uno squilibrio sugli effetti del voto, (…) cioè una diseguale valutazione” del “peso” del voto espresso ai fini dell’attribuzione dei seggi(35). D’altra parte, va detto che un eventuale modifica che prevedesse un innalzamento della suddetta soglia (ad es. al 40-45%) non farebbe comunque venir meno la garanzia dell’effetto maggioritario dell’impianto; infatti, la premio partendo dai principi costituzionali in materia di rappresentanza politica applicando un “test di proporzionalità”. Un tentativo di definizione del principio di “non eccessiva distorsività” del premio ottenuto tramite il sostegno del linguaggio matematico è compiuto da G. LODATO - S. PAJNO - G. SCACCIA, “Quanto può essere distorsivo il premio di maggioranza? Considerazioni costituzionalistico-matematiche a partire dalla sentenza n. 1 del 2014”, in Federalismi.it, n. 9/2014. Diversamente S. CECCANTI, “Italicum: come funziona, i problemi di costituzionalità e quelli di merito”, in www.forumcostituzionale.it, secondo il quale “è difficile sostenere che sia incostituzionale uno scarto teorico massimo del 15 tra voti e seggi”. (34) F. LANCHESTER in “Dal Porcellum all’Italicum: nuovi collegamenti e nuovi orari ma su vecchi binari”, Nomos Le attualità del diritto, n. 3/2013 osserva che “c’è, dunque, la necessità di alzare la soglia, ma soprattutto è indispensabile tarare l’ottenimento del premio rispetto agli elettori iscritti (come avviene in Francia al primo turno delle elezioni legislative) e non ai semplici voti validi. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che nelle ultime tornate elettorali si è registrato un alto astensionismo, fino a punte del 25%, e che questo diminuisce la rappresentatività degli eletti […] Per ottenere davvero la dimensione della rappresentatività rispetto al cosiddetto “demos politico” si deve tenere conto che i voti ottenuti da ciascun partito devono essere rapportati agli aventi diritto al voto. Anche trascurando i voti bianchi e nulli, il 35% dei voti equivarrebbe probabilmente al 26-27% degli elettori iscritti. Che tradotto significa che con circa il 26 % circa dei voti il partito o la coalizione con la maggioranza si assicura il 53% dei seggi”. (35) Molto interessante, da questo punto di vista, è l’analisi numerica offerta da G. SCACCIA, “Riflessi ordinamentali dell’annullamento della legge n. 270 del 2005 e riforma della legge elettorale, www.confronticostituzionali.eu, 30 gennaio 2014. L’autore, infatti, prova a tradurre in termini numerici il principio di uguaglianza del voto, in base al quale occorre che «ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi». In particolare si dice che sarebbe intollerabile che il peso del voto di alcuni elettori arrivasse a essere sostanzialmente doppio rispetto a quello di altri. «Il voto “in uscita” dei vincitori – sottolinea l’autore – non dovrebbe valere […] più di 1,50; e i voti della lista vincente non dovrebbero essere “gonfiati” in misura superiore al 40-45%»: questo indurrebbe dunque a fissare la soglia minima al 40% e la quota massima di seggi raggiungibili al 55%, anche per non avvicinarsi troppo alla porzione dei due terzi richiesta dall’art. 138 Cost. per completare l’iter di revisione costituzionale senza consentire la garanzia del referendum. © Wolters Kluwer DAL "PROCELLUM" AL "CONSULTELLUM" 169 previsione del turno di ballottaggio e del premio elettorale al suo vincitore consentirebbe, da sola, di assicurare quella governabilità che la stessa Corte ritiene un interesse costituzionalmente tutelato. Peraltro, anche il meccanismo di ammissione al ballottaggio, limitato alle due liste o coalizioni più votate, senza la previsione di una soglia minima di consenso per accedervi, potrebbe essere considerato irragionevole, sotto il versante della costituzionalità. Tale soluzione, che si iscrive nella logica maggioritaria di individuare comunque un vincitore, è in grado di determinare effetti distorsivi della rappresentanza delle forze politiche e del principio di “peso uguale” del voto degli elettori, potendosi verificare un ballottaggio tra due coalizioni che non raggiungono, mettendo insieme i loro voti, neanche il 50% del totale dei voti espressi. Sul punto si osserva che nel sistema elettorale per i sindaci dei comuni superiori a 15 mila abitanti, il premio di maggioranza spetta (al primo turno o al ballottaggio) al sindaco eletto se i partiti che lo sostengono abbiano almeno il 40% dei voti e sempreché le altre liste non abbiano superato il 50% dei consensi al primo turno. Non appaiono prive di rilievo neanche alcune critiche mosse alle nuove soglie di sbarramento per l’accesso al riparto dei seggi. In particolare potrebbe rivelarsi penalizzante, sotto il profilo del principio di rappresentatività, la soglie dell’8% per le liste singole non coalizzate. L’effetto paradossale di tale previsione potrebbe determinare una situazione che vede ad esempio 3 liste, con un consenso di poco inferiore a quella soglia (ad esempio tra il 6 ed il 7%) che, messe insieme, non ottengono alcun seggio, a dispetto di una rappresentanza reale complessiva superiore al 20%. Tale previsione rischia di eliminare un “diritto di tribuna” in seno alla minoranza parlamentare per gruppi di cittadini che non possono certo dirsi microscopici. Va inoltre considerato che tale compressione della rappresentanza si verifica anche per liste coalizzate che non raggiungono la inferiore soglia del 4,5% e che non partecipano alla distribuzione dei seggi aggiuntivi prevista al raggiungimento del 37% dei voti da parte della coalizione, risultato conseguito anche grazie al loro contributo. Con riferimento alla terza censura della Corte costituzionale, la nuova legge elettorale prevede, poi, un sistema di collegi plurinominali con liste bloccate di dimensioni ridotte (ma senza voto di preferenza) che dovrebbe garantire la “diretta conoscibilità dei candidati da parte degli elettori”. E’ previsto che, in ciascuno dei non più di 120 collegi plurinominali, sia assegnato un numero di seggi non inferiore a tre e non superiore a sei, “fatti salvi gli eventuali aggiustamenti in base ad esigenze derivanti dal rispetto di criteri demografici e di continuità territoriale”(36). (36) Questo si legge nel testo dell’Italicum depositato in Senato (Atto Senato n. 1385, articolo 1, comma 3). © Wolters Kluwer 170 DAVIDE LOCASTRO La Corte, a ben vedere, non ha offerto alcuna indicazione circa la misura di lunghezza della lista che possa ritenersi compatibile con l’esigenza di conoscibilità dei candidati. Tale “omissione” suggerisce di considerare che, proprio per questo, i giudici costituzionali saranno probabilmente molto prudenti nel valutare la legittimità di una futura legge elettorale sotto questo profilo. Tuttavia, non sembra agevole ammettere a priori che liste bloccate di 7 o 8 nominativi, prodotte per effetto dei predetti “aggiustamenti”, superino indenni la scure del giudice costituzionale. Deve, in aggiunta, considerarsi che il nuovo sistema, non operando su collegi plurinominali maggioritari, ma su collegi facenti parte di più ampie circoscrizioni regionali, con riparto dei seggi a livello nazionale e successiva “ricaduta” nelle circoscrizioni per l’individuazione dei candidati eletti, rischia di non essere considerato pienamente idoneo sul versante della facoltà dell’elettore di “incidere sull’elezione dei propri rappresentanti”. Il sistema, privilegiando la posizione dei partiti rispetto a quella dei territori, può determinare la conseguenza di collegi con un numero di eletti superiore o inferiore a quello teoricamente spettante. L’”Italicum” fornisce, poi, una risposta, da alcuni ritenuta non soddisfacente(37), alla mancanza nel “Consultellum” di meccanismi in grado di garantire le pari opportunità di genere nelle elezioni politiche. Si prevede, infatti, che nel complesso delle candidature circoscrizionali di ciascuna lista nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore al 50 per cento, a pena di inammissibilità della lista. Inoltre, nella successione interna delle liste non possono esservi più di due candidati consecutivi del medesimo sesso. Viene previsto, inoltre, un freno all’abuso delle candidature multiple, meccanismo cui la sentenza n. 1 del 2014 ha fatto un fugace accenno – pur senza esprimersi sulla sua legittimità costituzionale – nella parte della decisione riservata alle censure delle “liste bloccate”; secondo la Corte, infatti, “la facoltà dell’eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito” frustra ulteriormente la possibilità dell’elettore di intervenire direttamente sulla scelta del proprio rappresentante. Ebbene, l’“Italicum” limita tale possibilità, stabilendo che un candidato possa essere incluso in liste con il medesimo contrassegno in non oltre otto collegi plurinominali. Se la possibilità di candidarsi in più collegi contemporaneamente consegna al candidato plurieletto, e dunque al partito di appartenenza, la decisione finale in ordine al peso da attribuire al voto dell’elettore, (37) In fase di discussione del testo alla Camera erano stati proposti, ma non approvati, i sistemi della cd. doppia preferenza di genere (se l’elettore esprime due preferenze la seconda deve cadere su un soggetto di sesso diverso), oppure quello delle liste con limite alla rappresentanza di un genere non superiore al 50% ed indicazione dei capilista nella medesima percentuale fra uomini e donne. © Wolters Kluwer DAL "PROCELLUM" AL "CONSULTELLUM" 171 non si può escludere che un sistema che circoscriva tale meccanismo a pochi collegi sia in grado di superare eventuali future censure dinanzi alla Corte costituzionale fondate sui predetti argomenti. 6. Conclusioni. Stando ai resoconti della cronaca politica delle ultime settimane, il testo della legge elettorale approvato alla Camera potrebbe subire al Senato alcune modifiche che ne ammorbidirebbero il tratto maggioritario o attenuerebbero la spinta al bipartitismo che lo caratterizza(38). In vista dell’ulteriore percorso parlamentare sarebbe utile considerare la legge elettorale unicamente come uno strumento per assicurare la libera scelta dei rappresentanti da parte dei cittadini e la rappresentatività dell'istituzione rispetto alla società oltre che per garantire la stabilità dei Governi. Forse attribuirle anche compiti ulteriori quali quello di stabilizzare e rivitalizzare il sistema politico o di semplificarlo, prescindendo dalla complessità sociale e dal conflitto politico, potrebbe voler dire caricare sulle sue spalle responsabilità difficilmente sostenibili(39). Comunque l’auspicio che sembra accomunare la pubblica opinione è che il Parlamento, attraverso le inevitabili mediazioni che sono connaturate al dialogo fra posizioni diverse, riesca a condurre in porto l’impegnativo percorso e la politica, riappropriandosi del suo ruolo, superi l’afasia degli ultimi anni in materia. (38) Anche il Presidente della Repubblica, durante il discorso tenuto il 22 luglio 2014 al Quirinale in occasione della cerimonia del ventaglio, osserva che il testo della riforma elettorale varato in prima lettura dalla Camera è “destinato ad essere ridiscusso con la massima attenzione per criteri ispiratori e verifiche di costituzionalità che possono indurre a concordare significative modifiche”. (39) In questo senso si esprime C. GALLI nel suo lucido scritto “La legge elettorale, e oltre”, in www.costituzionalismo.it © Wolters Kluwer MARIO MORCONE(1) LA GESTIONE DELL’IRREGOLARITÀ OLTRE LA DIFESA DELLE FRONTIERE Il tema della gestione dell’irregolarità oltre la difesa delle frontiere, si pone inevitabilmente come una questione che supera largamente l’aspetto tecnico per prestarsi con molta facilità e con qualche superficialità ad un dibattito che investe: 1) la visione che ciascuno di noi ha maturato per il futuro; 2) il contesto sociale, dei diritti ed, alla fine, del rispetto degli altri come persone, che ci portiamo dentro come eredità della nostra storia personale e della nostra formazione culturale. La complessità di un progetto o, meglio ancora, di un percorso possibile si imbatte comunque, a prescindere dalla dose di buona fede e di onestà intellettuale riposta nella sua elaborazione, nell’utilizzo strumentale che il dibattito positivo, sempre vivace su questi temi fa tutti i giorni. Ma saltando “il fosso” della prudenza e dei toni in sordina, devo subito confessare il mio stupore per alcune scelte recenti che stanno maturando nel dibattito politico e tra alcune forze parlamentari. Ora nessuno può seriamente sostenere che la previsione del “reato di immigrazione clandestina” abbia avuto o abbia un qualche effetto deterrente verso la migrazione illegale. Sarei pronto a ricredermi se conoscessi anche solo qualche persona che ha versato l’ammenda prevista dalla pena edittale o qualcuno che mi dichiarasse di non essere partito dal proprio paese per il timore di incorrere nel rigore della legge. Come si può pensare che chi abbandona tutto quello che ha, per una speranza di futuro, possa essere intimorito dal rischio di incorrere nel reato. Ma vorrei dire di più: anche chi cerca di arrivare in Europa portando con sé un passato non immacolato, come potrebbe essere distolto da una norma che rimane una mera dichiarazione di intenti. Eppure leggo di un referendum in via di programmazione per il ripristi(1) Testo, rivisto, dell’intervento tenuto presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, il 5 giugno 2014, in occasione del Convegno “Il governo delle migrazioni oltre la crisi” © Wolters Kluwer 174 MARIO MORCONE no del reato, che aveva l’unico effetto di rallentare l’attività dell’autorità giudiziaria e l’impegno quotidiano delle forze di polizia in un’inutile e costosa attività istruttoria del nulla. In sostanza qualcosa che rassomiglia ad un anatema. Non si tratta di buoni o cattivi sentimenti; si tratta di confrontarsi con concretezza su un fenomeno, in qualche modo globale, che deve essere affrontato nella sua complessità; e questo senza fantasticare nell’illusione di una soluzione definitiva, ma con un approccio flessibile fatto di tante piccole misure normative ed amministrative che riducano l’acqua dell’irregolarità, adeguandosi costantemente a situazioni geopolitiche in movimento e spesso non prevedibili. L’irregolarità ha molte facce e tutte dolorose. La prima è anche quella numericamente più consistente dei tanti che arrivano nel nostro Paese con un visto turistico dopo aver preso denaro in prestito presso familiari, presso amici o spesso presso autentici sfruttatori della speranza. Una massa di persone che si rende invisibile allo scadere del tempo che gli era stato concesso per la permanenza in Italia. Una parte di essi vengono da Paesi in esenzione di visto come l’America Latina e si immergono in quella fascia di irregolarità che troppo spesso conduce ad una condizione marginale e di sfruttamento. Ma le vicende a mio avviso più inquietanti sono quelle che portano in Italia tanti lavoratori stagionali. L’aspetto odioso delle vicende relative agli stagionali si coglie nella constatazione che la gran parte di essi non ricevono nel nostro Paese il promesso contratto regolare. Ormai ampi settori della nostra economia si sono stabilmente orientati a prosperare, con un sommerso che fa leva sulla necessità, incuranti delle regole e dei diritti. Così sono cresciute isole di marginalità come Castelvolturno, Battipaglia e Rosarno solo per citare le più note. E a questa difficoltà negli ultimi anni se ne sono aggiunte altre, non meno devastanti. Il costo del permesso di soggiorno, i requisiti rigidi richiesti al lavoratore straniero dai comuni, in attuazione delle norme dei decreti sicurezza che si sono succeduti. Infine la durata stessa del permesso. Certo si potrà osservare che il “range” del costo del permesso di soggiorno è sostanzialmente allineato a quelli degli altri Paesi europei, ma mi domando perché non possiamo allungarne la durata come, peraltro, era stato formalmente promesso durante l’esperienza di Governo del Presidente Monti. In questa odiosa classifica di vicende umane complicate, abbiamo da pochi mesi una new entry. Mi riferisco a tanti richiedenti asilo o comunque portatori di un diritto o un’aspettativa di godere della protezione internazionale, che si sottraggono all’identificazione per non cadere nella trappola “Dublino”. Si perché di una trappola si tratta che impedisce anche a chi ne avrebbe astrattamente titolo a recarsi nel Paese dove ha programmato di stabilirsi. © Wolters Kluwer LA GESTIONE DELL'IRREGOLARITÀ OLTRE LA DIFESA DELLE FRONTIERE 175 Parlo delle tante famiglie siriane che stanno muovendo verso l’Europa attraverso il nostro Paese, ma anche di eritrei ed afgani richiamati dalle opportunità offerte loro da gruppi di connazionali già stabilmente inseriti sul territorio europeo. E allora forse, o almeno me lo auguro, sta maturando l’aspettativa di un ripensamento ampio delle norme in materia di immigrazione. Un adeguamento non ideologico ma frutto dell’esperienza maturata in questi anni. Consentitemi di ripetere: non vivo l’ansia beckettiana di una riscossa terzomondista. So bene che Godot non è mai arrivato e quindi mi accontento di tracciare alcuni interventi normativi ed amministrativi che potrebbero, a mio avviso, aiutarci a gestire e contenere più che risolvere il problema, soprattutto potrebbero farci sentire meno ostili ad una realtà in forte movimento e più consapevoli di essere persone tra le persone, rispettosi della condizione degli altri. Già il programma di Stoccolma in materia di libertà, sicurezza e giustizia, adottato dal Consiglio europeo nel dicembre del 2009, aveva posto tra i punti strategici del contrasto all’irregolarità, un’efficace politica di migrazione regolare e un forte impegno per una politica comune di sostegno ai Paesi terzi. Ora è opinione diffusa che le norme che vanno sotto il nome di Turco-Napolitano, poi integrate e modificate nel Testo Unico Bossi-Fini, abbiano fatto il loro tempo. Vincolare l’ingresso nel Paese ad un contratto di lavoro costruito a distanza, attraverso un decreto flussi incentrato sull’esigenza di un mercato del lavoro impalpabile e che assumiamo di conoscere ma che spesso ci smentisce, è ormai una scelta che appartiene al passato remoto. Intanto, nonostante i tentativi, non si è mai riusciti ad approvare il documento di programmazione triennale dei flussi, ma soprattutto dobbiamo fare i conti, come accennavo prima, su alcuni elementi strategici: 1) un mercato del lavoro fortemente connotato dall’evasione contributiva e dal mancato rispetto dei contratti nazionali; un atteggiamento diffuso in maniera uniforme soprattutto nei settori dove la presenza di migranti è più consistente: parlo dell’agricoltura, dell’edilizia ed in ampi segmenti del commercio e dell’assistenza alle famiglie; 2) una constatazione evidente della necessità del datore di lavoro di scegliere il proprio collaboratore in ragione dell’affidabilità e delle qualità personali che saprà riconoscere. Nessuno è disposto a prendersi in carico un collaboratore a scatola chiusa, puntando esclusivamente sulla buona sorte e questa poi, meno che mai, nel lavoro domestico; 3) un forte indebolimento, e lo dico con grande rispetto delle Istituzioni dedicate ai controlli. Penso alle difficoltà vere, non immaginarie degli Uffici e degli Ispettorati del lavoro. In questo quadro il tema del decreto flussi, come lo abbiamo conosciuto, è ormai alle spalle, mentre si pone come urgente la riflessione di progettare una nuova strada di ingresso legale. A © Wolters Kluwer 176 MARIO MORCONE me sembra che l’unico meccanismo che possa contribuire al superamento delle tre negatività di cui prima ho accennato è di consentire, nei limiti numerici che l’Autorità di governo anno per anno potrà stabilire, il rilascio di permessi di soggiorno per ricerca lavoro. Questo consentirebbe di tracciare fin dall’ingresso la presenza del cittadino extra UE e seguirlo nel suo percorso di integrazione nel nostro Paese. Il permesso potrebbe essere sostenuto da uno sponsor e o da una garanzia di natura economica. E’ evidente che nel caso dello sponsor bisognerà fare esperienza delle brutte vicende del passato remoto, individuando istituzioni affidabili da autorizzare e soprattutto da sottoporre ad un regime di controlli serio e serrato. Al tempo stesso, bisogna porre le Autorità di governo sul territorio in condizione di potere tirare fuori dall’irregolarità coloro che hanno costruito con il loro datore di lavoro un rapporto stabile, riconoscibile e rispettoso delle norme nazionali. Non si tratta di forme generalizzate di regolarizzazione (le c.d. sanatorie) che, ne convengo, sono da abbandonare definitivamente e peraltro sono espressamente condannate dalle Istituzioni comunitarie. Si tratta di prendere in esame singoli casi, come avviene in altri Paesi europei, e valutarli alla luce dell’interesse nazionale oltre che del rispetto dei diritti delle singole persone. Mi sono spesso domandato: che interesse abbiamo a consentire il lavoro nero così diffuso non solo nel nostro mezzogiorno fino ad arrivare a vere e proprie forme di sfruttamento dell’uomo sull’uomo? e che interesse possiamo avere a negare l’opportunità di una condizione legale a chi è riuscito con la propria buona volontà e l’impegno a costruirla? E’ vero abbiamo adottato solo da pochi mesi il decreto legislativo n. 109 del 2012 di recepimento della Direttiva n. 52 che ha posto il lavoratore vittima di “particolare sfruttamento” nelle condizioni di denunciare il datore di lavoro a tutela dei diritti che gli sono stati negati. Ma ancora non può bastare; dobbiamo spingere più decisamente sul tema dei controlli lasciando, comunque, una strada aperta a chi è disponibile a mettersi in regola. Un altro aspetto che ritengo vada affrontato è la destrutturazione degli steccati che negli anni abbiamo eretto per la conversione dei permessi di soggiorno. Qualcosa è stato fatto per i permessi di studio, ma molto ancora è possibile. E’ tempo di abolire il contratto di soggiorno che non ha più motivo di rimanere in vita e che, soprattutto, non abbiamo mai applicato nella parte in cui si richiedeva al datore di lavoro l’impegno a far fronte al denaro per il rientro nel Paese di origine del lavoratore. Abbiamo poi accennato a quella massa di persone che, in questa fase della storia, stanno attraversando il Mediterraneo per venire da noi, sfug- © Wolters Kluwer LA GESTIONE DELL'IRREGOLARITÀ OLTRE LA DIFESA DELLE FRONTIERE 177 gendo da situazioni di crisi o di guerra civile. Molti di essi considerano l’Italia solo una porta, un’area di transito verso altre realtà geografiche; rifiutano l’identificazione per non doversi adeguare alle regole del Paese di primo ingresso nell’area Schengen e cioè le regole dettate dagli accordi di Dublino. Anche questi, ed oggi sono tanti, rischiano di ingrossare le fila dell’irregolarità, in mancanza di un riconoscimento di protezione a cui, invece, avrebbero diritto. Il tema è ampio e attualissimo e meriterebbe da solo un confronto approfondito. Voglio solo rappresentare che non è più differibile l’esigenza di nuove intese che rendano il riconoscimento delle nostre commissioni valido in tutta l’area Schengen; naturalmente secondo criteri di reciprocità, realizzando una vera “Europa dell’asilo” di cui tante volte enfaticamente parliamo. Certo ci sono tanti pregiudizi e tanti egoismi nazionali da superare, ma questo obiettivo non è rinviabile ancora a lungo, mentre forse, convengo, sulla necessità di “standards” istruttori e decisionali autenticamente comuni ai Paesi dell’Unione in questa materia. Manca poi completamente o comunque è del tutto insufficiente quella politica europea fatta di misure concrete finalizzate a promuovere una reale cooperazione con i Paesi di origine per promuovere, anche lì, condizioni socio-economiche migliori. Sento già il rumore delle obiezioni proposte che ho appena messo sul tavolo e che peraltro non sono affatto originali. Vi è l’incubo dell’effetto richiamo, ovvero, il timore che una qualche flessibilità determini il moltiplicarsi delle partenze. E’ un vecchio argomento sconfitto, nella realtà concreta, dall’esperienza degli odiosi respingimenti cui sono seguite le crisi del 2011 e del biennio 2013/2014. Ma non meno significativi sono i dati di tante ricerche di cui la più autorevole è il rapporto Istat, presentato qualche giorno fa, che mettono in primo piano la verifica di un significativo abbandono dell’Italia da numeri sempre più alti di immigrati alla ricerca di contesti sociali più accoglienti che offrono maggiori opportunità. E mentre il Paese è invecchiato rapidamente rinunciamo a valorizzare i tanti minori che arrivano da noi e per i quali pure almeno nella prima fase dell’accoglienza destiniamo risorse. Quello, appunto, dei minori non accompagnati è un terreno sul quale davvero siamo in difficoltà, non riuscendo spesso nemmeno a trattenerli in un percorso positivo di formazione che tornerebbe a tutto vantaggio dell’economia nazionale. Si tratta in sostanza e non è affatto retorica di saper trasformare la diversità in ricchezza. © Wolters Kluwer 178 MARIO MORCONE E’ una politica da riscrivere sconfiggendo il luogo comune “degli stranieri che rubano il lavoro agli italiani”. E queste considerazioni portano direttamente ad un’altra vicenda di ordinaria paralisi legislativa, quale quella di una moderna riforma della cittadinanza. E’ un po’ stucchevole l’incubo delle mamme che appena appreso di aspettare un figlio si recherebbero in Italia per partorirlo ed ottenere così la cittadinanza italiana; nel dibattito politico più avvertito sembra da tempo essere maturata l’opinione che la presenza nel nostro Paese per un significativo corso scolastico, conclusosi con un titolo valido, possa dar luogo alla possibilità di chiedere la naturalizzazione. Lo si chiami “ius soli” o “ius culturae” o “ius soli temperato” è solo una questione nominalistica cui va sostituita lungimiranza e buona volontà. Ed è un segnale sconcertante poter constatare che poi alla fine è possibile coagulare un ampio consenso su una proposta prudente e civile, ma la disponibilità offerta in privato viene ritirata quando un progetto normativo accenna a far capolino nel dibattito politico. Mi avvio alla conclusione con due argomenti fortemente dibattuti sia sul piano etico che su quello dell’efficacia per scoraggiare l’irregolarità. Parlo della detenzione amministrativa e dei rimpatri. Entrambi gli istituti sono non solo ammessi, ma anche incentivati dalle politiche europee; eppure molti dubbi attraversano il contesto sociale e l’opinione pubblica più avvertita per lo meno per le modalità con cui sono state applicate negli ultimi anni. Sui Centri di permanenza temporanea (Cpt), poi divenuti Centri di identificazione ed espulsione (Cie), va fatta una riflessione non avventurista. Non basta essere un migrante, magari oberato da una storia sfortunata, per essere una persona perbene o almeno che si ponga come tale, rispettando le nostre regole. Vi sono casi, e anche in numero significativo, nei quali il rimpatrio forzato è un’esigenza posta non solo dalla richiesta forte del contesto sociale, ma anche dalla necessità di garantire e non compromettere quel clima interculturale positivo che ci sforziamo di costruire. Questo, però, non può spingersi fino alla ricerca affannosa di qualche badante extracomunitaria al fine di rendere più ricca la statistica. Purtroppo, talvolta, questo è avvenuto. Oltretutto, se vogliamo considerare l’aspetto strettamente economico, operazioni di questo genere sono tutte in perdita per l’onerosità del trattenimento e quella ancora maggiore del rimpatrio. Si tratta anche qui di valutare, caso per caso, la pericolosità sociale di chi intendiamo riportare nel Paese di origine e limitare la scelta agli episodi effettivamente necessari. Ne è comprensibile l’utilità di un trattenimento fino a diciotto mesi, quando è statisticamente ormai provato che trenta più trenta © Wolters Kluwer LA GESTIONE DELL'IRREGOLARITÀ OLTRE LA DIFESA DELLE FRONTIERE 179 giorni sono un tempo limite, oltre il quale l’identificazione non avviene e rimane solo un generico intento primitivo. Bisognerà certo rilanciare i rapporti con le ambasciate ed i consolati per una collaborazione più intensa nel quadro di rapporti bilaterali e multilaterali più generosi. Paradossale ed ingiusta, poi, è la previsione di una detenzione amministrativa che segna un periodo di restringimento in carcere a seguito della condanna per la commissione di un reato. Paradossale perché, se l’identificazione non è stata possibile durante il processo o in carcere, non si comprende come possa avvenire nei Centri di identificazione ed espulsione; con la conseguenza ingiusta di pagare due volte per lo stesso reato. Fu sottoscritta e diffusa una direttiva nel 2007, mi pare di ricordare, a firma dei Ministri della Giustizia e dell’Interno per evitare il verificarsi di questa condizione aberrante, ma il suo contributo sembra essersi dissolto nell’aria. Forse era scritta male (l’ho scritta io), ma credo che qualcuno ci dovrà riprovare cancellando questa pratica che non ci fa onore. Una parola poi sulle condizioni reali dei CIE. La Commissione c.d. “de Mistura” nel 2006 aveva fornito una serie di indicazioni che avevano fortemente alleggerito il clima cupo di reclusione vissuto in attesa dell’espulsione. Ma lentamente, anche a seguito di episodi oggettivamente deprecabili (rivolte, migranti che si nascondevano nei controsoffitti o salivano sui tetti) si è ricostruita quella condizione di isolamento tetro con sbarre, appendicoli, reti di filo spinato, incompatibili in un Paese come il nostro. E il miraggio della spending review ha fatto il resto, abbassando la qualità dei servizi, interrompendo spesso l’assistenza legale, la formazione professionale e i corsi di lingua che pure aiutavano a dare un senso agli sfortunati ospiti dei CIE. Insomma una politica da ripensare, come dicevo all’inizio, senza avventurismi, ma in un contesto di equilibrio onesto tra esigenze di sicurezza, coesione sociale e rispetto dei diritti. Infine i rimpatri. Per quanto riguarda quelli c.d. forzati il trend resta comunque in discesa: - 25.163 nel 2011; - 18.592 nel 2012; - 16.482 nel 2013; - 5.013 al 30 aprile 2014. D’altra parte è molto condizionato dalla situazione contingente di regimi africani. Si tratta, in sostanza, di una misura di polizia sulla quale non mi trattengo, in quanto estranea alla mia esperienza e competenza. Più attinente al tema, invece, è quella dei rimpatri volontari. © Wolters Kluwer 180 MARIO MORCONE Il reato di immigrazione clandestina aveva negli anni e nei mesi scorsi reso questo istituto quasi inapplicabile per la preoccupazione delle organizzazioni internazionali di essere accusate di favoreggiamento. Ora l’orizzonte appare più chiaro, ma certo non meno complesso. Io credo all’efficacia di questa procedura a condizione che sia attentamente gestita da un’organizzazione affidabile e che il percorso di reinserimento sia effettivamente monitorato ed incentivato con una somma congrua. Solo così è possibile evitare il rischio di approfittarsi dell’opportunità economica per far ripetere l’ingresso illegale nel Paese e cogliere invece l’obiettivo di un positivo reinserimento del migrante nella terra di origine. Concludo riassumendo una convinzione che ha guidato queste note. Non esistono misure né certe, né definitive per gestire l’irregolarità che peraltro non a caso è diffusa in misura ampia negli Stati Uniti, come in molti Paesi Europei. E’ necessario, invece, rielaborare una politica flessibile che sia in grado di ridurre una condizione di irregolarità oggi senza sbocchi, in un bilanciamento di interessi e di rispetto dei diritti. Questo indirizzo è sostituibile non solo sul piano economico e dello sviluppo, ma anche sul terreno dei valori di cui la nostra storia è portatrice. © Wolters Kluwer SAGGI DELLE BORSE DI STUDIO ANFACI – LUISS GIAN CANDIDO DE MARTIN INTRODUZIONE PUBBLICAZIONE ANFACI I contributi pubblicati nelle pagine seguenti sono il prodotto di una collaborazione tanto recente quanto fruttuosa tra il Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche Vittorio Bachelet della LUISS Guido Carli e l’Associazione Nazionale dei Funzionari dell’Amministrazione Civile dell’Interno (ANFACI), finalizzata ad instaurare un rapporto di scambio reciproco per lo svolgimento di attività di studio e ricerca utili e coerenti al perseguimento delle finalità istituzionali di entrambi. Simili forme di collaborazione caratterizzano da sempre le attività del Centro Vittorio Bachelet, nato ormai più di vent’anni orsono con l’intento di promuovere lo sviluppo della ricerca sull’evoluzione delle istituzioni e delle amministrazioni pubbliche, anche a livello comparato, di svolgere ricerche e consulenze scientifiche, anche di carattere applicato, nonché di promuovere incontri di studio, seminari, convegni e percorsi di formazione a vario livello, in grado di accompagnare i dipendenti pubblici nell’attuazione delle frequenti trasformazioni istituzionali che caratterizzano il nostro Paese. In questo senso, le finalità perseguite dall’ANFACI di promozione dell’implementazione di riforme legislative per favorire la costante aderenza delle strutture e delle funzioni dell’Amministrazione dell’Interno alle esigenze della comunità nazionale, nonché di realizzazione di iniziative di carattere culturale hanno consentito di trovare un comune terreno d’azione, coerente con le rispettive vocazioni istituzionali, che è stato positivamente declinato in un percorso di collaborazione su due versanti. Su un primo fronte, grazie alla disponibilità dell’ANFACI, sono state finanziate due borse di studio della durata di un anno che hanno consentito a due giovani neolaureati di svolgere un’attività di studio e ricerca presso il Centro Vittorio Bachelet su due tra i più importanti temi che attengono alla presenza dello Stato sul territorio e i cui risultati sono riportati in questa pubblicazione. Nel saggio di Luca Addessi, l’attenzione è concentrata sul ruolo delle prefetture in rapporto all’evoluzione che il principio autonomistico ha subito nel nostro ordinamento – in particolare in seguito alla riforma © Wolters Kluwer 184 GIAN CANDIDO DE MARTIN del titolo V della parte II della Costituzione – ed alle esigenze di raccordo interistituzionale che si pongono in modo differenziato in ragione delle diverse tipologie di funzioni svolte dagli uffici territoriali del governo. Il saggio di Alessandro Sibilia sviluppa, invece, l’analisi in parallelo delle funzioni di amministrazione generale del prefetto in rapporto alle medesime funzioni svolte dal comune, anche in ottica comparata rispetto a quanto avviene nell’ambito dei principali ordinamenti europei. Sul versante dell’approfondimento delle questioni che maggiormente caratterizzano il dibattito politico-istituzionale, sono stati organizzati tre importanti momenti seminariali aperti a studenti universitari e allievi del Master di II livello in Amministrazione e Governo del Territorio della LUISS Guido Carli, i cui partecipanti provengono in massima parte dalla carriera prefettizia e da quella di segretario comunale. Il primo, dal titolo “Il caleidoscopio del sistema nazionale della sicurezza”, prendendo le mosse dal volume di Carlo Mosca, “La sicurezza come diritto di libertà. Teoria generale delle politiche della sicurezza”, ha analizzato i più recenti sviluppi legislativi in materia di sicurezza, sottolineando come tale problema non debba più essere affrontato esclusivamente con provvedimenti di ordine pubblico, ma richieda sempre più spesso l’adozione di misure di carattere sociale, intrecciandosi con ambiti sempre più ampi del governo della cosa pubblica. Un secondo appuntamento destinato ad una platea analoga ha avuto, invece, ad oggetto il tema “Istituzioni locali e amministrazione periferica dello Stato: quali ruoli e quali raccordi”, con l’intento di analizzare le novità normative (anche in fase di progettazione) in materia di amministrazione periferica dello Stato e della sua riorganizzazione sul territorio, anche in rapporto alle esigenze di raccordo con i diversi livelli di governo locali. Un terzo incontro si è svolto nell’ambito delle attività didattiche del corso progredito di diritto amministrativo del corso di laurea magistrale della LUISS Guido Carli in Scienze di governo - Istituzioni politiche e amministrative sul tema “La pubblica amministrazione: i percorsi di riforma e le leve del cambiamento”, che ha permesso di confrontarsi con gli studenti universitari sull’oggetto e il metodo delle principali riforme in itinere che a vario titolo interessano la pubblica amministrazione italiana. In conclusione, non si può che affermare tutta la soddisfazione per i risultati ottenuti da questo primo anno di positiva collaborazione, nella speranza che in quelli futuri essa possa garantire con efficacia crescente un contributo al dibattito pubblico orientato all’efficientamento delle amministrazioni pubbliche e alla promozione del buon governo e dei diritti dei cittadini. © Wolters Kluwer LUCA ADDESSI IL RUOLO DELLE PREFETTURE TRA EVOLUZIONE DEL PRINCIPIO AUTONOMISTICO ED ESIGENZE DI RACCORDO INTERISTITUZIONALE SOMMARIO: 1. La rappresentanza del potere esecutivo in provincia dall’età liberale alle riforme amministrative degli anni Novanta. – 2. I principi e i criteri direttivi per la riorganizzazione della pubblica amministrazione stabiliti dalla legge n. 59 del 1997. – 3. Le prospettive di riforma dell’amministrazione periferica dello Stato e le scelte effettuate dal d. lgs. n. 300 del 1999. – 4. Il regolamento n. 287 del 2001 di definizione dell’ordinamento degli uffici territoriali del governo. – 5. Qualche breve considerazione sul processo di riforma e sul ruolo prefettizio. – 6. La riforma del Titolo V, parte seconda, della Costituzione. – 7. I riflessi della legge costituzionale n. 3 del 2001 sulle prerogative prefettizie. – 8. La legge n. 131 del 2003. – 9. Le modifiche intervenuto con il decreto legislativo n. 24 del 2009 e con il d.p.r. 180 del 2006. – 9.1. Le novità introdotte dal decreto legislativo n. 29 del 2004. – 9.2. Il regolamento n. 180 del 2006. – 10. Un valutazione sul percorso evolutivo post riforma costituzionale. – 11. L’esercizio della funzione prefettizia nella governance multilivello. – 11.1. Il coordinamento e la leale collaborazione in tema di ordine e sicurezza pubblica. – 11.2. I poteri prefettizi in tema di amministrazione civile. – 11.3. Il coordinamento e la leale collaborazione in tema di protezione civile. – 12. Funzione prefettizia, amministrazione periferica dello Stato e principio autonomistico. – 13. Le recenti tendenze in materia di riforma del sistema delle autonomie e riforma della pubblica amministrazione. – 13.1. La difficile implementazione del disegno autonomistico… e l’abbandono del modello. – 13.2. L’art. 7 del ddl S.1577 e la riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato. Quali prospettive per le prefetture-UTG. – 14. In conclusione. 1. La rappresentanza del potere esecutivo in provincia dall’età liberale alle riforme amministrative degli anni Novanta L’istituto prefettizio – introdotto nell’ordinamento italiano con il regio decreto 9 ottobre 1961, n. 250, con il quale il prefetto ha preso il posto del governatore provinciale – si è da sempre presentato quale fondamentale ele- © Wolters Kluwer 186 LUCA ADDESSI mento di raccordo tra centro e periferia, dunque tra l’amministrazione centrale e le diverse amministrazioni operanti sul territorio, tanto che – come rilevato in dottrina – le norme fondamentali sull’organizzazione e sul funzionamento (a parte quelle che gli attribuiscono competenze nei settori più disparati dell’ordinamento, essendo un funzionario a vocazione generalista) sono sempre state contenute nelle leggi riguardanti l’ordinamento degli enti locali(1). Si è affermato in un periodo in cui il sistema amministrativo italiano si presentava fortemente accentrato e il cui valore principale era mantenere l’unità politica da poco raggiunta per mezzo delle guerre di indipendenza, fine perseguito per mezzo dell’unità amministrativa(2). In tale fase storica veniva considerata di primaria importanza il consolidamento dello Stato unitario, ponendo sotto controllo le resistenze all’unificazione mostratesi in alcune zone del territorio statale e tentando di ridurre al minimo le differenze giuridiche(3). Pertanto, il ruolo del prefetto veniva a caratterizzarsi tanto come altamente politico – in quanto funzionario di nomina governativa scelto tra esponenti del corpo politico – quanto come amministrativo, essendo responsabile di importanti funzioni amministrative raggruppabili in quattro tipologie: amministrazione generale, pubblica sicurezza, protezione civile e amministrazione civile. Inoltre, la forte coesione del sistema amministrativo era data dal fatto che comuni e province, amministrazioni a carattere territoriale, erano configurate dalla normativa come enti autarchici e non, come avverrà soltanto con l’adozione della Costituzione del 1948, autonomi. In base alla nozione prevalente di autarchia, questi erano concepiti come amministrazioni terminali dell’indirizzo politico del governo centrale, in quanto l’amministrazione pubblica era interamente retta dal principio di unità e gli enti territoriali erano in grado di adottare atti per la cura dei rispettivi interessi, aventi efficacia tanto all’interno del loro ordinamento quanto nell’ordinamento statuale generale, soltanto nella misura in cui tale potestà veniva esercitata entro i limiti tracciati dall’ordinamento statale(4). L’unità statale era così concepita come unità giuridica e amministrativa e il prefetto si proponeva quale principale soggetto volto a far rispettare tale (1) Come evidenziato da E. GUSTAPANE, Il rapporto centro-periferia e l’istituto prefettizio, in Nuova rass., n. 5/2003, p. 446. (2) Sul punto, si veda G. BERTI, Commento all’articolo 5, in Commentario alla Costituzione. Principi fondamentali (art. 1-12), a cura di G. Branca, Bologna-Roma, Zanichelli, 1975, pp. 278-279. (3) Recentemente, sul punto, R. CANIZZARO-D. PIANA, Il centro orizzontale. Strategie e strumenti del prefetto nel governo della complessità, Roma, Carocci, 2012, pp. 23 ss. (4) Sul punto, E. GUSTAPANE, Il rapporto centro-periferia e l’istituto prefettizio, cit., p. 442; per un maggior approfondimento, si rinvia a S. CASSESE, Autarchia (voce), in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, 1959. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 187 valore, forte anche del fatto che era dipendente gerarchicamente dal Ministro dell’Interno, carica che allora coincideva con quella di Presidente del Consiglio dei Ministri e gli consentiva di proporsi e di esercitare un effettivo forte ruolo di tramite tra centro e periferia e di direzione e attuazione dell’indirizzo governativo sul territorio. Da allora, l’istituto prefettizio è stato oggetto di un lungo ed incerto percorso di continua evoluzione o, sarebbe più opportuno dire, adattamento ai mutamenti che hanno caratterizzato l’ordinamento italiano, dal passaggio dall’età liberale a quella repubblicana, fino ad arrivare ai giorni d’oggi(5). Con particolare riferimento all’avvio e al consolidamento del quadro istituzionale repubblicano, si è avuto – con il passare degli anni – un sostanziale indebolimento(6) del ruolo di indirizzo e coordinamento del prefetto, i cui principali fattori vanno individuati nell’eccessiva specializzazione dei ministeri, nella c.d. “esplosione” dell’amministrazione periferica dello Stato(7) e nell’avvio di un sempre più spinto processo di decentramento e di sviluppo del principio autonomistico(8). (5) Si veda S. CASSESE, Centro e periferia in Italia. I grandi tornanti della loro storia, in Riv. trim. dir. pubbl., 1986, p. 599 ss. (6) V. G. SIRIANNI, Il lento declino dell’amministrazione dell’Interno: dall’età giolittiana alla regionalizzazione, in Foro amm., 1985, pp. 2389-2391; S. CASSESE, Centro e periferia in Italia, cit., pp. 608-610, o ancora S. CASSESE, Il prefetto come autorità amministrativa generale, in Le Regioni, n. 2/1992, p. 332; leggermente diverso il punto di vista di C. MEOLI, Prefetto (voce), in Dig. Pubbl., XI, Torino, 1996., pp. 394 ss., che parla di crisi del Ministero dell’Interno e di specializzazione nel settore della sicurezza e dell’ordine pubblico, facendo salva la capacità del prefetto di poter continuare ad esercitare un efficace ruolo di raccordo sul territorio tra amministrazioni statali e tra queste e quelle locali, proprio grazie al potere di vigilanza e, di conseguenza, di coordinamento che gli sono stati confermati dalla riscrittura dell’art. 19 della legge comunale e provinciale e dalla sua vocazione generalista. Sul punto, sempre G. SIRIANNI, cit., pp. 2385 ss, riporta il dibattito avvenuto in seno alla sottocommissione Organizzazione dello Stato, creata in seno alla seconda Commissione Forti,nella quale si optava, sostanzialmente, per il mantenimento dell’istituto, operando tuttavia una consistente riduzione delle funzioni, in particolar modo di quelle politiche. Diversamente, M. CAMMELLI, Amministrazione periferica o amministrazione territoriale dello Stato?, in Dir. pubbl., n. 3/1999, p. 772, rileva come la debolezza del coordinamento prefettizio risalga alle origini dell’istituto stesso, sostenendo (a differenza del prefetto francese) l’assenza di effettivi poteri di direzione e di intervento sulle altre amministrazioni periferiche di settore. Secondo l’A., il prefetto non viene mai configurato normativamente quale passaggio obbligato dei rapporti da e per il centro. (7) Sul punto è importante la considerazione di S. CASSESE, Centro e periferia in Italia, cit., secondo il quale “vengono tirate, tra centro e periferia, tante linee quanti sono i poli – i ministeri – in cui si articola lo Stato al centro”, con un conseguente aumento delle difficoltà per il prefetto di continuare a svolgere la funzione di mantenimento dell’unità di indirizzo politico sul territorio, pp. 601-602. Similmente, negli anni del fascismo, rileva R.C. FRIED, Il prefetto in Italia, Milano, Giuffrè, 1965, pp. 164 ss., che il coordinamento esercitato dai prefetti, seppur definito politico dalla stessa normativa, non comportava l’invasione delle sfere di competenza tecnica proprie di ciascun ministero. Sicché “il prefetto non poteva interferire in merito © Wolters Kluwer 188 LUCA ADDESSI Cenni di un rilancio dell’istituto si intravedono soltanto a partire dalle riforme amministrative degli anni Novanta, quando inizia a farsi largo l’idea di costruire – accanto ad un sistema locale reso più forte e responsabile dalla presenza di organi di governo dotati di investitura diretta da parte degli elettori e di maggiore potestà normativa – un forte potere centrale in periferia con funzioni di coordinamento della nuova realtà istituzionale, individuando il perno del nuovo sistema proprio nelle prefetture(9). Il legislatore si è dunque mosso verso una nuova configurazione dei rapporti tra centro e amministrazioni locali maggiormente aderente a quanto prospettato in dottrina. Negli anni, a più riprese era stato auspicato un sistema di relazioni tra governo e amministrazioni territoriali maggiormente rispettoso del principio di autonomia sancito all’art. 5 della Costituzione, che avrebbe dovuto comportare un maggior coinvolgimento delle autonomie nell’elaborazione delle decisioni e nell’esercizio delle funzioni amministrative, dato che pur permanendo il principio di unità e indivisibilità della Repubblica, il principio autonomistico comporta lo sviluppo della capacità delle autonomie territoriali di dotarsi di un proprio indirizzo politicoamministrativo(10), del quale ne diventano responsabili dinanzi la comunità di riferimento. alle disposizioni vincolanti emanate direttamente dai suoi superiori gerarchici, […] la legge tendeva a salvaguardare il diritto di un ministro di disporre nel modo più completo dei suoi rappresentanti locali per mezzo di un sistema di concatenamenti funzionali” (p. 168). V. anche S. CASSESE, Centro e periferia in Italia, cit., pp. 604-605; G. TOSATTI, Ministero dell’Interno e prefetture in età fascista, in Tra Stato e società civile. Ministero dell’Interno, prefetture, autonomie locali, a cura di M. De Nicolò, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 97 ss. (8) F. MERLONI, L’amministrazione periferica dello Stato in Europa, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 4/1992, pp. 1010-1014, parla di modello “puro” di amministrazione unitaria (caratterizzato, in primo luogo, dalla marginalità del governo locale, prevalenza delle amministrazioni tradizionali, come quella ministeriale, prevalenza delle funzioni di regolazione rispetto a quelle di erogazione dei servizi e di centralità della figura del prefetto) corrotto dal progressivo ampliamento della sfera pubblica, dal decentramento e dall’aumento del peso decisionale sia delle organizzazioni sovranazionali che dei livelli di governo sub-statali. Tale lucida analisi è condivisa, altresì, da P. VIRGA, I rapporti con lo Stato ed i nuovi sviluppi dei sistemi di controllo, in Coordinamento e collaborazione nella vita degli enti locali: atti del quinto Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna, Villa Monastero, 17-20 settembre 1959, a cura di AA.VV., Milano, Giuffrè, 1961, pp. 238-239 (9) In merito alle riforme dell’ordinamento locale avviate negli anni ‘90, si rinvia a L. VANDELLI, Il sistema delle autonomie locali, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 28-29. (10) Si vedano le considerazioni di G. BERTI, Commento all’articolo 5, cit., oppure, sempre G. BERTI, Comunicazione, in Coordinamento e collaborazione nella vita degli enti locali: atti del quinto Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna, Villa Monastero, 17-20 settembre 1959, a cura di AA.VV., Milano, Giuffrè, 1961, per il quale in un sistema che riconosce il principio di autonomia, l’azione coordinatrice dello Stato dovrebbe svolgersi al di fuori dei poteri a carattere suprematorio – “come accade nell’ambito della gerarchia vera e propria” – e debba risultare invece come il portato spontaneo e lo sviluppo naturale del sistema di relazioni (pp. 271-272). © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 189 In tale ottica deve essere inquadrato il massivo processo di riforma della pubblica amministrazione italiana avviato con la legge delega 15 marzo 1997, n. 59 e proseguito con i suoi decreti delegati e le ulteriori fonti normative previste in quella sede. 2. I principi e i criteri direttivi per la riorganizzazione della pubblica amministrazione stabiliti dalla legge n. 59 del 1997 A fronte del rafforzamento del ruolo amministrativo delle autonomie territoriali registrato già con la legge 8 giugno 1990, n. 142, con la prima c.d. legge Bassanini tutte le funzioni e i compiti amministrativi sono stati conferiti alle regioni e agli enti locali, con l’intento di costruire – sulla base del principio di sussidiarietà – un sistema amministrativo che fosse il più vicino possibile ai cittadini(11). Ciononostante, la vera innovazione di questo processo è rappresentata dalla presa di coscienza circa la necessità di provvedere allo stesso tempo, oltre che al decentramento di funzioni e compiti alle autonomie, ad una riforma dell’amministrazione statale, tanto centrale quanto periferica(12). Fino ad allora, nella storia delle riforme amministrative italiane era sempre mancata una visione di insieme dell’intero sistema e ne sono una testimonianza i trasferimenti di funzioni attuati nel 1972 e nel 1977 (ai quali non seguirono processi di riorganizzazione dei ministeri coinvolti dai trasferimenti) e le stesse riforme dei ministeri, mai elaborate in modo unitario e coordinato. Fattori questi che hanno favorito negli anni lo sviluppo di un sistema amministrativo fortemente frammentato e oltretutto difficile da coordinare, con duplicazioni di strutture e di compiti(13). Anzi, proprio sotto il primo profilo, la mancata riorganizzazione delle strutture statali si era rivelato uno dei principali impedimenti all’effettiva realizzazione del decentramento e del processo di conferimento, data la tendenza degli uffici statali a riappropriar(11) Per maggiori approfondimenti circa il processo di conferimento delle funzioni alle regioni e agli enti locali e sugli sviluppi che si sono avuti con l’adozione dei successivi decreti delegati, con specifico riguardo al d. lgs. n. 112 del 1998, si rinvia all’opera a cura di G.C. DE MARTIN-F. MERLONI-F. PIZZETTI-L. VANDELLI, Il decentramento amministrativo. La complessa attuazione del d. lgs. n. 112/1998, Rimini, Maggioli editore, 2000. Per un ulteriore approfondimento sulle riforme, vedi L. Vandelli, Il sistema delle autonomie locali, Bologna, il Mulino, III ed., 2007, pp. 24-32. (12) A. PAJNO-L. TORCHIA, Governo e amministrazione: la modernizzazione del sistema italiano, in La riforma del Governo: commento ai decreti legislativi n. 300 e n. 303 del 1999 sulla riorganizzazione della presidenza del consiglio dei ministri, a cura di A. Pajno-L. Torchia, Bologna, il Mulino, 2000, in particolare, p. 22. (13) In tal senso, sempre A. PAJNO-L. TORCHIA, Governo e amministrazione, cit., pp. 13-20. © Wolters Kluwer 190 LUCA ADDESSI si, negli anni, delle funzioni oggetto di trasferimento(14). Dunque, il quadro di insieme tracciato dalla legge delega intendeva allo stesso tempo superare il modello di organizzazione amministrativa ministeriale, incentrato sull’art. 95 della Cost. e che vede l’amministrazione come apparato servente del governo e retta dal principio di gerarchia (che garantisce l’unità di indirizzo), per approdare al modello delineato dagli artt. 5 e 117 e seguenti Cost., che prefigura un’amministrazione pluralista e autonomista(15), caratterizzato da enti locali capaci di determinare il proprio indirizzo politico e amministrativo. Ulteriore profilo che deve essere preso in considerazione riguarda la presa di coscienza da parte del legislatore circa la necessità di introdurre – al fine di superare il modello gerarchico-ministeriale – elementi di pluralismo organizzativo, provvedendo alla riorganizzazione delle strutture sulla base di una attenta analisi della tipologia di funzioni rimaste in capo alla struttura amministrativa centrale. Su questo versante, è interessantissimo notare come tra i criteri direttivi della delega per il riordino viene espressamente indicato che la Presidenza del Consiglio dei Ministri avrebbe dovuto abbandonare i compiti operativi e gestionali – da allocare presso gli altri ministeri – potenziando i poteri di impulso, indirizzo e coordinamento del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 12, comma 1, lett. a della l. n. 59/1997), così da restituire a tale carica un ruolo maggiormente aderente a quello prefigurato dall’art. 95 della Costituzione. La logica della legge era dunque di rilanciare la funzione di coordinamento del Presidente del Consiglio e, in tale ottica, appare funzionale la riduzione del numero di ministeri previsto dalla stessa delega, che mirava a creare aree di policy maggiormente estese e meno settorializzate rispetto al passato, cercando di facilitare il Presidente del Consiglio nell’esercizio di tale ruolo(16). Similmente, anche per i restanti ministeri, in forza del trasferimento di funzioni agli enti territoriali, si sarebbe dovuto optare per un rafforzamento degli uffici con funzioni di indirizzo e coordinamento, riducendo quelli con compiti operativi(17). (14) V. L. TORCHIA, Il riordino dell’amministrazione centrale: criteri, condizioni, strumenti, in Dir. pubbl., n. 3/1999, p. 697, o, ancora, A. PAJNO-L. TORCHIA, Governo e amministrazione, cit., p. 22. (15) IBIDEM, p. 21. A questi due modelli se ne affianca un terzo, sempre definito in Costituzione dagli artt. 97 e 98, che delineano un’amministrazione separata dal governo ma ad essa legata per forme di responsabilità diversa da quella ministeriale, che si regge sui principi di imparzialità e legalità, con la legge che ne definisce l’organizzazione ed il funzionamento. V. anche M. CAMMELLI, Amministrazione periferica o amministrazione territoriale dello Stato?, in Dir. pubbl., n. 3/2009, p. 773. (16) L. TORCHIA, Il riordino dell’amministrazione centrale, cit. (17) L. TORCHIA, Il riordino dell’amministrazione centrale, cit., pp. 702-706, nel parlare dei criteri direttivi della legge n. 59 del 1997, li riparte in quelli finalizzati alla razionalizzazione (e che attengono ad attività di riduzione di accorpamento di strutture già esistenti, al fine di © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 191 Ultimo punto da evidenziare, i criteri direttivi inerenti la riorganizzazione delle amministrazioni centrali avrebbero dovuto guidare anche l’opera di riorganizzazione e razionalizzazione degli organi di rappresentanza periferica dello Stato, con funzioni di raccordo, supporto e collaborazione con le regioni e con gli enti locali (lett. h), avendo specifico riguardo ad evitare le duplicazioni organizzative e funzionali (lett. g). Anche su questo versante la novità era costituita dall’intento di procedere ad una riorganizzazione della presenza dello Stato sul territorio in maniera contestuale al trasferimento delle funzioni alle autonomie territoriali e alla riforma amministrativa del centro (esperimento mai effettuato nei processi di riforma passati), secondo una visione di insieme riguardante l’intero sistema amministrativo. L’amministrazione periferica dello Stato – intesa come articolazioni periferiche dei ministeri dislocate su aree territoriali, tanto al livello provinciale (circostanza più comune) quanto a livello regionale o sub-provinciale, oppure su specifici ambiti in ragione delle funzioni da esercitare (come le capitanerie di porto o gli uffici per la tutela sanitaria)(18), chiamate ad esercitare funzioni statali in una condizione di vicinanza rispetto ai destinatari dell’azione, coordinandosi il più possibile con gli enti territoriali(19) – si presentava negli anni del varo della riforma come un sistema debolmente coeso in cui ciascuna struttura tendeva a fare riferimento quasi esclusivamente al proprio vertice ministeriale di appartenenza, evitando l’interazione con le altre strutture periferiche. Pertanto, manca la presenza di quello che potrebbe essere definito “centro” sul territorio, ossia di un soggetto posizionato a livello territoriale in grado di esercitare un forte coordinamento delle politiche, nonostante il permanere della qualifica del prefetto quale rappresentante generale del Governo nella Provincia. Oltretutto, con l’istituzione delle regioni e l’avvio dei processi di decentramento amministrativo degli anni settanta si era andati sempre più verso la formazione di un sistema amministrativo caratterizzato sempre più da una forte integrazione delle competenze, tanto orizzontale, tra le materie oggetto di intervento (divenute sempre più interconnesse tra loro), quanto verticale, basata sullo sviluppo di momenti di interazione tra i diversi livelli istituzionali di governo nell’esercizio delle evitare duplicazioni e interferenze e favorire la speditezza e l’economicità dell’azione amministrativa) e quelli finalizzati alla ricostruzione (riguardanti, nello specifico, “la modellistica delle possibili scelte organizzative”); A. PAJNO-L. TORCHIA, Governo e amministrazione: la modernizzazione del sistema italiano, cit., pp. 24-25; ancora, M. CAMMELLI, Amministrazione periferica o amministrazione territoriale dello Stato?, cit. (18) M. CAMMELLI, Amministrazione periferica o amministrazione territoriale dello Stato?, cit., p. 767; v. anche F. MERLONI, L’amministrazione periferica dello Stato in Europa, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 4/1992, pp. 108 ss. (19) M. CAMMELLI, Un passaggio chiave del federalismo amministrativo: il riordino dell’amministrazione periferica dello Stato, in Rivista Aedon, n. 2/1998. © Wolters Kluwer 192 LUCA ADDESSI proprie funzioni. Questo dato è testimoniato tanto dallo sviluppo nell’ordinamento del metodo della programmazione (soprattutto nell’ambito dell’assistenza e della sanità), che consente l’interazione tra i diversi soggetti chiamati ad esercitare funzioni diverse ma in una stessa materia pur rispettando il riparto di competenze fissato dalle norme(20), quanto dal diffondersi di sedi di raccordo e di sintesi (in tal senso, un esempio importante è fornito dall’istituzione, avvenuta con l’art. 17 della legge 12 luglio 1991, n. 203, dei comitati provinciali della pubblica amministrazione, organo di coordinamento collegiale – presieduto dal prefetto – composto dai responsabili degli uffici periferici dell’amministrazione statale che hanno sede nella provincia e ai quali possono essere chiamati a partecipare, per le questioni di loro interesse, i rappresentanti degli enti locali(21)). A fronte di questo quadro e di tali esigenze del sistema amministrativo complessivo, è stato fatto notare come nella riorganizzazione delle amministrazioni periferiche, in ragione dei principi di responsabilità e unicità dell’amministrazione (di cui alla lett. e dell’art. 4, comma 3, della legge delega), si sarebbe dovuto optare, in sede di attuazione, per un potenziamento delle loro funzioni di supporto, sostegno, promozione, raccolta e circolazione delle informazioni e della loro capacità di intervento in caso di criticità ed emergenze(22), creando sul territorio amministrazioni statali in grado di esercitare una forte funzione di coordinamento delle funzioni e delle politiche esercitate dai diversi attori istituzionali, esigenza avvertita sempre di più in un contesto caratterizzato da amministrazioni autonome che godono di forte (20) Sulla valenza della programmazione quale strumento in grado di assicurare un coordinamento tra lo Stato e le autonomie rispettoso comunque del riparto di competenze fissato dalla Costituzione e dalle norme: S. BARTOLE, Il coordinamento tra garanzia delle autonomie e principio collaborativo, e G.C. DE MARTIN, Stato delle autonomie e questioni di coordinamento del policentrismo normativo, entrambi in L’amministrazione della società complessa. In ricordo di Vittorio Bachelet, a cura di G. Amato-G. Marongiu, Bologna, il Mulino, 1982. Sotto questo aspetto, la collaborazione e il coordinamento vengono in rilievo soltanto nelle disposizioni costituzionali che riguardano lo sviluppo economico e sociale, di conseguenza, la programmazione, prevedendo il coinvolgimento di Stato, regioni ed enti locali, moltiplica le occasioni ed i punti di incontro tra questi, valorizzando le istanze di coordinamento e di collaborazione (pp. 67-69). Similmente, G.C. DE MARTIN, secondo il quale “altrettanto positiva, sul terreno del coordinamento tra livelli di governo autonomi, risulta la programmazione, che rappresenta per certo verso la saldatura tra formazione e amministrazione in cui si esprime il nodo principale e più razionale di esercizio congiunto di poteri politico-amministrativi tra più centri di governo” (p.80), sottolineando l’idoneità dello strumento a valorizzare sia il coordinamento orizzontale, tra più materie-settori, che verticale, tra più centri di decisone. (21) Da rilevare, sempre a testimonianza delle forti esigenze di coordinamento avvertite dagli stessi operatori del sistema, come i comitati provinciali abbiano iniziato a svilupparsi per prassi, in assenza di una esplicita previsione normativa, dapprima nella provincia di Milano (con l’istituzione del Comitato metropolitano di Milano) e successivamente per quella di Roma. Sul punto, si rinvia a C. MEOLI, Prefetto (voce), cit., p. 395. (22) L. TORCHIA, Il riordino dell’amministrazione centrale, cit., p. 707. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 193 legittimazione democratica e sono dotate di ingenti poteri decisionali in merito all’attuazione delle politiche. L’auspicio era quindi di creare un effettivo centro statale in periferia. È sulla base di queste considerazioni che si è così sviluppato il successivo dibattito circa l’organo al quale affidare tale funzione in periferia e che porterà alla configurazione, nel decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, dell’Ufficio territoriale del Governo – UTG. 3. Le prospettive di riforma dell’amministrazione periferica dello Stato e le scelte effettuate dal d. lgs. n. 300 del 1999 A seguito dell’adozione della legge delega non sono mancati interventi di autorevoli studiosi tesi a evidenziare come alla chiarezza e alla innovatività dei criteri direttivi per la riorganizzazione degli apparati centrali si contrapponesse una maggiore prudenza in tema di riorganizzazione dell’amministrazione periferica. Se l’auspicio derivante dalla riforma era di creare un modello in cui il coordinamento amministrativo tra sistema centrale e locale avvenisse direttamente in periferia, per mezzo delle amministrazioni periferiche, l’art. 12, comma 1, lett. h) si limitava a prevedere il potenziamento delle funzioni di impulso, direzione e coordinamento di queste ultime soltanto sul versante dei rapporti con le amministrazioni territoriali, senza prefigurare una amministrazione periferica che avrebbe potuto esercitare simili poteri anche nei confronti delle altre amministrazioni periferiche(23). L’attenzione subito si focalizzò sulle prefetture, tanto per via della storica vocazione generale dell’istituto (che oltretutto si era andata accentuando verso il finire degli anni ottanta), quanto perché in un sistema caratterizzato dall’eccessiva presenza di comuni di piccole dimensioni era considerato maggiormente auspicabile un’allocazione di tale funzione più prossima agli enti locali e, dunque, al livello provinciale. Tale opzione è stata successivamente condivisa dal d.lgs. n. 300/1999, il cui articolo 11 ha puntato sulle prefetture quale perno dell’amministrazione periferica dello Stato e del sistema di relazioni interistituzionali sul territorio, trasformandole in ufficio territoriale del governo. Sotto il profilo funzionale, da subito era apparsa molto importante la clausola residuale in tema di riparto delle funzioni amministrative statali espressa al comma 2, che prevedeva (23) Carenza evidenziata da M. CAMMELLI, L’ufficio territoriale del governo, in La riforma del Governo: commento ai decreti legislativi n. 300 e n. 303 del 1999 sulla riorganizzazione della presidenza del consiglio dei ministri, a cura di A. Pajno-L. Torchia, Bologna, il Mulino, 2000, p. 178, e da L. TORCHIA, Il riordino dell’amministrazione centrale, cit., pp. 706.707. © Wolters Kluwer 194 LUCA ADDESSI la titolarità di “tutte le attribuzioni dell’amministrazione periferica non espressamente conferite ad altri uffici”. Ancor più di rilievo, sul piano dei rapporti con il sistema delle autonomie, era il comma 3, laddove stabiliva l’assunzione da parte del prefetto della provincia capoluogo di regione della carica di commissario del governo, provvedendo così a superare lo storico dualismo che si era sviluppato negli anni tra le due figure. La definizione in concreto dell’organizzazione e del funzionamento dell’UTG veniva, tuttavia, rimessa ad un ulteriore regolamento da emanare ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400. Ciononostante, venivano ribaditi ai commi 4 e 5 alcuni importanti criteri che avrebbero dovuto guidare il governo. Sempre su questo versante, inoltre, risultava importante il collegamento con l’art. 14 del decreto, inerente le attribuzioni del Ministero dell’Interno, laddove al comma 2, lett. a) era menzionata la competenza in merito all’attività di collaborazione con gli enti locali, mentre alla lett. c), era stata confermata quella in tema di amministrazione generale e supporto dei compiti di rappresentanza generale del governo sul territorio, precisazioni di rilievo, dato che il prefetto, organo deputato a diventare il titolare dell’UTG, è amministrazione periferica del Ministero(24). Anzitutto, veniva ribadito il principio di concentrazione nell’organizzazione degli uffici, prevedendo l’accorpamento nell’UTG di tutte le strutture periferiche dello Stato (fatta eccezione per quelle elencate al successivo comma 5) e l’obbligo di garantire la concentrazione dei servizi comuni e delle funzioni strumentali, confermando la volontà di farne un ufficio a competenza generale. In secondo luogo, il comma 5 disponeva l’esclusione dall’accorpamento nell’UTG delle amministrazioni periferiche degli affari esteri, della giustizia, della difesa, delle finanze, della pubblica istruzione e dei beni e delle attività culturali, nonché alle agenzie e a tal proposito, sul piano del raccordo con le restanti amministrazioni periferiche, prevedeva l’istituzione di un’apposita conferenza permanente composta dai rappresentanti di queste ultime (e una conferenza simile sul piano regionale, composta dai rappresentanti delle strutture periferiche regionali). Veniva altresì rimessa al regolamento anche la disciplina della dipendenza funzionale dell’ufficio territoriale e delle sue articolazioni dai ministeri di settore, per gli aspetti relativi alle materie di competenza, rilevando come si fosse optato per la configurazione di un rapporto di dipendenza gerarchica del prefetto qualora avesse esercitato funzioni di competenza del Ministero dell’Interno e per una dipendenza funzionale qualora si fosse trattato di funzioni riconducibili al rispettivo ministero di settore. (24) A rilevare la positività di questo collegamento, L. LEGA, Prospettive di riordino dell’amministrazione periferica dello Stato: il valore aggiunto dell’UTG, in Riv. scienza amm., n. 1/2000. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 195 Eppure, da subito non sono mancate critiche al nuovo modello di amministrazione periferica. Quanto al profilo della concentrazione e della vocazione generale dell’UTG, l’intento era quello di creare un’amministrazione periferica compatta, costituita da un ufficio che avrebbe accorpato tutte le altre strutture ormai non più funzionali, dato il massivo trasferimento delle loro funzioni alle regioni e agli enti locali(25). Tuttavia, come è stato rilevato da autorevoli studiosi, il processo di accorpamento delle strutture periferiche nell’ufficio territoriale, era stato in sostanza demandato agli stessi ministeri, dato che il processo di riordino prevedeva – al quarto comma – l’adozione di regolamenti ex art. 17 della l. n. 400/1988 e, dunque, su proposta del ministro competente, d’intesa con il Presidente del Consiglio dei Ministri e con il Ministro del Tesoro. L’intento della norma era di dotare i ministeri di un significativo potere di definizione della propria struttura amministrativa, onde favorire un buon grado di flessibilità, ma in questo modo si è corso il rischio (successivamente concretizzatosi) di vanificare il processo di riordino dell’amministrazione periferica, conferendo ai ministri il potere di far salve dall’accorpamento le proprie strutture periferiche(26). È proprio tale inciso ad essere stato additato quale principale elemento responsabile della vanificazione dell’ambizioso processo di riordino dell’amministrazione periferica, data la tendenza delle burocrazie ad essere assai restie all’autolimitazione(27). Senza dimenticare che, sempre in base a disposizioni del d.lgs. n. 300, sarebbero rimaste a livello periferico – oltre le amministrazioni di cui al comma 5 dell’articolo 11 – anche le articolazioni del corpo forestale dello Stato (ex art. 55, comma 8) e le capitanerie di porto (ex art. 43). Scelte nette non sono state compiute nemmeno sul versante del coordinamento con le altre amministrazioni periferiche. Sul piano degli strumenti utili all’esercizio della funzione, non vennero specificati poteri e compiti della conferenza permanente, eccetto quello di “coadiuvare” il titolare dell’ufficio territoriale del governo, mentre le modalità di esercizio del coordinamento con le agenzie sono state rinviate a decisioni dei ministeri interessati. Una disposizione abbastanza laconica, soprattutto se messa a confronto con quelle che avevano istituito i comitati provinciali della pubblica ammini- (25) Sul punto, rileva come il d. lgs.n. 112 del 1998 avesse trasferito la quasi totalità delle funzioni amministrative alle autonomie territoriali e mantenuto poche funzioni in cappo alle strutture statali. (26) Sul punto, M. CAMMELLI, L’Ufficio territoriale del governo, cit., p. 183; G. D’AURIA, L’organizzazione periferica dello Stato, in La riforma dell’amministrazione centrale, a cura di G. Vesperini, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 83-84. (27) Per un ulteriore approfondimento sule resistenze dei ministeri alla riorganizzazione delle proprie strutture periferiche si rinvia a C. FRANCHINI, La riforma dei ministeri, in La riforma dell’amministrazione centrale, a cura di G. Vesperini, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 12-13; G. D’AURIA, L’organizzazione periferica dello Stato, cit., pp. 83-85. © Wolters Kluwer 196 LUCA ADDESSI strazione, definiti quali veri “organi di coordinamento”, nonché di informazione e consulenza, al servizio del prefetto(28). È stato altresì evidenziato come un ulteriore elemento che ha sminuito la capacità di esercitare un coordinamento forte da parte dell’ufficio territoriale è stata la configurazione di un rapporto di dipendenza funzionale di questo con i ministeri per l’esercizio delle funzioni inerenti materie di loro competenza, che ha provveduto a minarne l’unitarietà funzionale ed organizzativa(29) (anche se tale aspetto andrebbe valutato più sul piano delle scelte rimandate al regolamento di organizzazione e funzionamento, sulla base dell’analisi delle disposizioni inerenti il personale, le risorse e i rapporti tra queste – ove rimanessero nella disponibilità dei ministeri di origine – e il titolare dell’UTG(30)). In sostanza, se l’intento era di fare dell’ufficio territoriale un forte centro di impulso, indirizzo e coordinamento delle politiche riferite a specifiche collettività bisogna convenire con chi ha espresso seri dubbi circa l’idoneità delle previsioni normative contenute nel decreto di riforma dell’amministrazione periferica a rendere concreto tale obiettivo(31). 4. Il regolamento n. 287 del 2001 di definizione dell’ordinamento degli uffici territoriali del governo Sul d.p.r. 17 maggio 2001, n. 287, che ha provveduto a dare esecuzione alle norme di cui all’art. 11 del d. lgs. n. 300/1999, si è da subito concentrata l’attenzione della parte maggioritaria della dottrina e degli operatori, mettendone in evidenza le poche luci e le molte ombre. All’articolo 1, recante la disciplina dei compiti, l’Ufficio, è stato qualificato – dal punto di vista istituzionale – come organizzazione periferica del Ministero dell’Interno e a tal fine, sulla base anche delle disposizioni di cui al comma 2 dello stesso regolamento, come struttura di supporto al prefetto nell’esercizio delle funzioni che gli derivano dall’essere organo periferico del ministero in questione, nonché struttura deputata ad assicurare l’esercizio a livello periferico delle funzioni per le quali disposizioni di legge o regola(28) Sul punto L. LEGA, Il riordino dell’amministrazione periferica dello Stato, cit. (29) Aspetto, questo, particolarmente sottolineato da F. MARSILIO, La riforma dell’amministrazione periferica dello Stato, in Giorn. dir. amm., n. 6/2001, che merita di essere condiviso. (30) Di questo avviso è L. LEGA, Prospettive di riordino dell’amministrazione periferica dello Stato, cit., (31) F. MARSILIO, La riforma dell’amministrazione periferica dello Stato, cit.; M. CAMMELLI, L’Ufficio territoriale del governo, cit.; C. FRANCHINI, La riforma dei ministeri, cit.; G. D’AURIA, L’organizzazione periferica dello Stato, cit. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 197 mento prevedono l’avvalimento da parte di altre amministrazioni statali. Veniva, inoltre, ribadita la vocazione generale dell’amministrazione, competente per tutte le funzioni che la legge espressamente non affidava ad altre strutture. L’articolo 2, a sua volta, disponeva che il prefetto si avvalesse dell’ufficio per svolgere sostanzialmente funzioni di trasmissione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri di elementi valutativi utili all’esercizio delle funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento (lett. a), di studio e ricerca finalizzate a formulare proposte di eliminazione delle duplicazioni organizzative e funzionali sia all’interno dello stesso ufficio che all’interno delle altre strutture periferiche (comma 1, lett. b), di promozione della semplificazione delle procedure (comma 1, lett. c), di promozione di progetti per l’istituzione di centri interservizi comuni a più amministrazioni, predisponendo gli schemi di convenzione e curandone l’attuazione (lett. e), nonché di cura dell’attuazione delle misure di coordinamento definite dalla Conferenza Stato-Città e autonomie locali (lett. d). Funzioni ulteriori erano invece previste per l’UTG avente sede nel comune capoluogo di regione, dove il prefetto ha assorbito le funzioni del commissario del governo, che consistono nella promozione e cura degli accordi raggiunti in sede di Conferenza Stato-Regioni. In tema di organizzazione, l’articolo 9 aveva ribadito nuovamente il principio di concentrazione – funzionale, organizzativa e logistica – delle varie strutture periferiche ministeriali, oltre che i principi di efficacia, economicità e flessibilità, da correlare alle caratteristiche socio-economiche e all’assetto istituzionale del contesto territoriale di appartenenza, ma rilevava soprattutto il comma 4, che dotava il prefetto del potere di conferire gli incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale a personale assegnato e scelto dai Ministeri interessati. In merito a queste disposizioni è pacifico convenire con quanti hanno evidenziato come il regolamento in questione avesse perso l’opportunità per configurare un ufficio territoriale del governo coeso e in grado di riportare adeguatamente ad unità l’indirizzo governativo, nonché di presentarsi come principale interlocutore statale sul territorio. Anzitutto, perché finivano col confluire in esso le strutture periferiche dell’Interno, delle Attività produttive, delle Infrastrutture e dei trasporti e del Lavoro e delle politiche sociali, dunque, soltanto quattro degli allora 14 ministeri, evidenziando come l’accorpamento delle strutture periferiche statali in esso sia stato marginale(32) (dato che peggiora ulteriormente se si considera che successivamente, (32) Dato evidenziato da L. VIOLINI, I nuovi Uffici Territoriali del Governo: quale rapporto con il sistema delle autonomie?, in Le Regioni, n. 2/2001, p. 243; S. CASSESE, Gli uffici territoriali del governo nel quadro della riforma amministrativa, in Le Regioni, n. 5/2001, pp. 874-875; E. GUSTAPANE, Il rapporto centro-periferia e l’istituto prefettizio, cit., pp. 449-450. © Wolters Kluwer 198 LUCA ADDESSI sia il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti che quello del lavoro e delle politiche sociali hanno provveduto ad una riorganizzazione dei rispettivi apparati mantenendo proprie articolazioni periferiche e regionali(33)). La mancanza di una forte coesione tra le diverse amministrazioni confluite nell’UTG era data, inoltre, dalla separazione tra la figura del prefetto, che è il titolare dell’ufficio e dispone di proprie funzioni, e l’ufficio stesso, che supporta il prefetto nell’espletamento delle sue attribuzioni ma che serve anche all’esercizio dei compiti dei ministeri di appartenenza delle diverse aree funzionali, previste all’art. 9. È proprio dall’analisi delle disposizioni relative l’organizzazione interna (con specifico riguardo alle modalità di conferimento degli incarichi dirigenziali da parte del prefetto, che avviene sulla base della previa assegnazione e scelta delle personalità da parte dei ministeri interessati), il personale (che in base all’art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 300/1999 rimane separato per ruoli ed accesso) e le risorse (che confluiscono in un unico fondo, ma per le quali è prevista una gestione ed una rendicontazione separate a seconda dell’amministrazione centrale che le ha assegnate – prevedendo una gestione comune soltanto per i servizi comuni – ex art. 14) che è possibile rilevare una non perfetta fusione tra prefetto e ufficio territoriale e la presenza di elementi in grado di minarne l’unità di indirizzo politico-amministrativo(34). Quanto al profilo del coordinamento dell’attività amministrativa statale sul territorio, è da valutare positivamente il rilancio del prefetto operato dalle disposizioni di cui agli articoli 1 e 2, ove sono previste, tra le funzioni di questo e dell’ufficio del governo, un potere di promozione della semplificazione e della riduzione dei tempi delle procedure, di studi finalizzati alla rilevazione di duplicazioni organizzative e funzionali nelle amministrazioni periferiche e alla loro eliminazione e, in particolare, la funzione di cura dell’attuazione delle misure di coordinamento raggiunte in sede di conferenza Stato-Città e autonomie locali, che confermano il ruolo di garante dell’efficienza e del buon andamento delle pubbliche amministrazioni nel loro complesso (funzione prefettizia tra le più risalenti) e che intendono porlo, allo stesso tempo, quale principale snodo del nuovo assetto amministrativo delineato dalle riforme. Eppure, andava predisposta una normativa maggiormente innovativa in merito al funzionamento delle conferenze permanenti, che è il principale strumento – fatto salvo il potere di ordinanza, da utilizzare però unicamente in presenza dei presupposti di necessità e urgenza a provvedere e, dunque, come estrema ratio – messo a disposizione del pre(33) Come evidenziato da G. D’AURIA, L’organizzazione periferica dello Stato, cit., pp. 84-87. (34) Punto sul quale bisogna convenire con L. VIOLINI, I nuovi Uffici Territoriali del Governo, cit., p. 245; S. CASSESE, Gli uffici territoriali del governo nel quadro della riforma amministrativa, cit., pp. 875-877, che definisce queste soluzioni “bizantine” e potenzialmente in grado di minare la coesione all’interno dell’ufficio. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 199 fetto nell’espletamento di questa funzione. Questa era composta dai responsabili degli altri uffici periferici dell’amministrazione dello Stato, da quelli delle agenzie, da quelli delle strutture periferiche degli enti pubblici a carattere nazionale e di quelli operanti nella provincia, limitandosi a prevedere una semplice partecipazione su invito dei rappresentanti regionali, provinciali e comunali e degli altri enti locali interessati, nonché la possibilità per il presidente della giunta regionale, della provincia o del sindaco del comune capoluogo di convocare la conferenza (o sue singole sezioni) per la trattazione di questioni di competenza statale connesse con loro attribuzioni. Per il resto, il testo non poneva disposizioni particolarmente innovative o atte a chiarirne l’effettiva portata. L’articolo 4 continuava – come l’art. 11 del d.lgs. n. 300/1999 – a riferirsi ad essa come struttura che “coadiuva” il prefetto nell’esercizio delle funzioni (dunque con una funzione di ausilio), senza aggiungere nulla di più, se non di deliberare in ordine alle modalità e ai termini del concorso di ciascuna struttura che vi partecipa all’acquisizione di dati ed elementi necessari poi al titolare dell’UTG ad assumere le iniziative di cui all’art. 2. Il d.p.r. si è limitato a prevedere l’articolazione di questa in sezioni (amministrazione d’ordine; sviluppo economico e attività produttive; territorio ambiente e infrastrutture; servizi alla persona e alla comunità) rimandando alle stesse la definizione delle modalità del proprio funzionamento. In sostanza, veniva presentata quale luogo di confronto tra i responsabili delle diverse amministrazioni periferiche al cui interno sviluppare progetti e iniziative comuni e condividere informazioni e punti di vista sull’attuazione delle politiche, cercando di trovare delle misure di coordinamento della propria azione che potessero portare alla sottoscrizione di accordi o intese(35). Sulla base di quanto analizzato è difficile scorgere nell’attuazione data all’art. 11 del d.lgs. n. 300/1999 la creazione di un modello di UTG forte, inteso come ufficio coeso al suo interno, con a capo un prefetto titolare di forti poteri di direzione sulle strutture accorpate e di prerogative che gli permettano di assicurare il coordinamento amministrativo e la rappresentanza generale del governo sul territorio provinciale. Sul versante interno, le funzioni conferite avevano configurato in astratto una struttura a vocazione generalista e interministeriale adatta a svolgere il suddetto ruolo, ciononostante le soluzioni organizzative prefigurate sono subito apparse inidonee in quanto tese a produrre un forte dualismo al suo interno. (35) C’è chi ha messo in evidenza come senza una disciplina forte dei poteri del prefetto in riferimento al funzionamento della conferenza, vi è il rischio che questa diventi uno strumento attraverso il quale i responsabili delle altre strutture periferiche statali possono esercitare pressioni sul titolare stesso. © Wolters Kluwer 200 5. LUCA ADDESSI Qualche breve considerazione sul processo di riforma e sul ruolo prefettizio Dal percorso storico analizzato è possibile trarre alcune considerazioni generali circa il ruolo dell’istituto prefettizio di raccordo interistituzionale e di coordinamento delle pubbliche amministrazioni e gli elementi che, negli anni, ne hanno maggiormente influenzato il concreto esercizio. L’esercizio della funzione di rappresentanza del governo sul territorio rileva tanto sul versante dei rapporti con gli enti territoriali quanto su quello con gli altri uffici statali che sono dislocati su base territoriale. Sul primo versante, a parte la configurazione del prefetto quale organo rappresentante del governo nella provincia, a interventi del legislatore sull’ordinamento degli enti territoriali sono sempre seguiti riflessi sull’attività delle prefetture, senza peraltro poter parlare in termini assoluti di antagonismo tra il ruolo di snodo dell’istituto e lo sviluppo del principio autonomistico e del decentramento amministrativo. Non sono mancati processi istituzionali che ne hanno indebolito la figura, come l’istituzione delle regioni a statuto ordinario ed i conseguenti trasferimenti di funzioni a queste e agli enti locali, tuttavia, come messo in evidenza dal disegno generale di riforma prospettato dalla legge delega del 1997 e dai successivi decreti delegati, ad un potenziamento dell’autonomia degli enti locali e delle regioni non per forza deve corrispondere la scomparsa o il declino dell’amministrazione periferica. Al contrario, il policentrismo istituzionale e l’aumento di centri decisionali in grado di elaborare un proprio indirizzo politico-amministrativo in merito alle diverse politiche pubbliche aumenta l’esigenza di raccordo delle diverse istanze affinché non avvenga la rottura del principio unitario posto alla base dell’ordinamento, creando l’opportunità di rilancio per l’istituzione che storicamente ha sempre svolto tale funzione, in maniera più o meno incisiva. Non si deve, dunque, parlare di eliminazione dell’amministrazione periferica a seguito dell’aumento dell’autonomia degli enti territoriali, bensì di riorganizzazione di questa – con specifico riguardo alle prefetture – alla nuova veste istituzionale e di adattamento delle funzioni, riducendo quelle di amministrazione diretta, ossia di gestione ed erogazione dei servizi (dato il trasferimento di questi compiti alle autonomie) e assumendo nuove funzioni di alta amministrazione, di programmazione, impulso e coordinamento, creando un raccordo amministrativo sul territorio di riferimento. Quanto al secondo versante, la capacità dell’istituto prefettizio di esercitare tale funzione è stata forte finché il sistema amministrativo ha conservato le caratteristiche del c.d. modello “puro”(36): limitata sfera di intervento pubblico; (36) Espressione e classificazione ripresa da F. MERLONI, L’amministrazione periferica dello Stato in Europa, cit., 1010. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 201 larga prevalenza dell’amministrazione tradizionale, ossia ministeriale; marginalità del governo locale; strumentalità del governo locale rispetto a funzioni statali; articolazione periferica statale legata ad esigenze di controllo territoriale, sotto il profilo della difesa, della tutela dell’ordine pubblico e del controllo degli enti locali. Tuttavia, l’avvento dello Stato pluriclasse, l’aumento della diversità dei bisogni espressi dalla collettività con il conseguente allargamento della sfera pubblica di intervento, nonchè l’incremento e la specializzazione dei ministeri (lo stesso Ministero dell’Interno si specializzò nella materia della tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico), hanno acuito le difficoltà nel mantenere l’indirizzo politico-amministrativo, sia al centro, dato il maggior numero di interlocutori per il Presidente del Consiglio, che in periferia, dato il proliferare di amministrazioni periferiche di settore che rispondevano, in forza del principio di gerarchia, ai rispettivi ministeri. La legge, inoltre, si limitava a fare cenno ad un potere prefettizio di vigilanza, cosa ben diversa dal potere di direttiva. Così, il processo di riforma delineatosi nella seconda metà degli anni novanta è parso come una finestra utile per tornare a tracciare un coordinamento forte ed efficace del prefetto(37), dato che l’esigenza di raccordo con le autonomie allo stesso tempo postula che queste ultime dispongano sul territorio di un referente unico e non di tante amministrazioni centrali settoriali, ciascuna posta a tutela del proprio interesse particolare. Eppure, la riuscita complessiva del disegno venne demandata ad un successivo regolamento – o meglio dire a successivi regolamenti, visto che ciascun ministero è stato incaricato di provvedere alla propria riorganizzazione, anche periferica – che non è stato in grado di compiere scelte “coraggiose”, e di procedere verso la creazione di un ufficio territoriale del governo in grado di porsi come perno del sistema di governo locale e principale nonché efficace istituzione di raccordo interistituzionale. 6. La riforma del Titolo V, parte seconda, della Costituzione In base a quanto analizzato, dato lo stretto nesso che lega l’istituto prefettizio alle autonomie territoriali, la riforma del Titolo V, parte seconda, della Costituzione non poteva non influire profondamente anche sulle modalità di esercizio delle funzioni e sulla organizzazione del primo, che è si ritrovato ad operare in un contesto del tutto rinnovato, incentrato su nuove regole e alla ricerca di nuovi equilibri. Sono molti, infatti, i profili sui quali la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 è intervenuta a dettare nuove norme, operando una generale valo(37) La riduzione delle amministrazioni periferiche prospettata nella legge n. 59 del 1997 e in alcuni punti dell’art. 11 del d. lgs. n. 300 del 1999 vanno in tal senso. © Wolters Kluwer 202 LUCA ADDESSI rizzazione dell’autonomia degli enti territoriali. A parte l’abrogazione delle norme costituzionali che imponevano forti limiti all’autonomia di questi enti (da quelle sui controlli preventivi di legittimità e di merito delle leggi regionali a quelle sull’autonomia degli enti locali e sui controlli dei relativi atti), molte nuove disposizioni hanno provveduto a disegnare un quadro assai diverso rispetto al precedente, innovando la posizione delle autonomie espressa all’art. 114 Cost., nonché il riparto della potestà legislativa, amministrativa e finanziaria(38). Eppure, a fronte di tali ingenti cambiamenti non sono mancate – da subito – critiche al nuovo modello di regionalismo tese ad evidenziarne non soltanto la spinta ad una separazione di competenze ancora maggiore rispetto al precedente assetto(39), ma anche i numerosi punti poco chiari, che soltanto grazie ad una faticosa opera di chiarificazione della portata delle nuove norme condotta dalla Corte costituzionale hanno trovato una soluzione (oltretutto non sempre in linea con lo spirito di massima valorizzazione delle autonomie promosso dalla riforma del titolo V). Basti pensare ai conflitti di attribuzione inerenti il riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni, alla diatriba circa il riparto delle funzioni amministrative o, ancora, al tema della c.d. “parificazione istituzionale” operata all’art. 114 Cost. e sul quale si è creato un intenso dibattito circa la sua effettiva portata(40). (38) Si veda a tal proposito anche P. CAVALERI, Diritto regionale, Padova, Cedam, 2009. Con particolare riferimento al nuovo assetto amministrativo, si rinvia a P. CAVALERI, Diritto regionale, cit., pp. 173 ss.; L. VANDELLI, Il sistema delle autonomie locali, cit.; R. BIN, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, n. 2-3/2002, pp. 365 ss.; F. PIZZETTI, Le nuove esigenze di governance in un sistema policentrico esploso, in Le Regioni, n. 6/2001; V. CERULLI IRELLI, Il nuovo assetto dell’amministrazione , in L’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, a cura di AA. VV., Milano, Giuffrè, 2005, pp. 181 ss. (39) Hanno da subito evidenziato la spinta verso un modello di regionalismo basato sulla separazione delle competenze, dunque competitivo, A. ANZON, Un passo indietro verso il regionalismo “duale”, Relazione al Convegno dell’AIC, Bologna, 14 gennaio 2002, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; M. LUCIANI, Le nuove competenze legislative delle Regioni a statuto ordinario. Prime osservazioni sui principali nodi problematici della l. cost. n. 3 del 2001, in www.associazionedeicostituzionalisti.it. (40) Per una trattazione esaustiva del riparto della potestà legislativa tra lo Stato e le Regioni, con annessi profili problematici e relativa giurisprudenza, si rinvia a L. PALADIN, Diritto regionale, Padova, Cedam, 2007, pp. 101-108; R. BIN-G. PITRUZZELLA, Le fonti del diritto, Torino, G. Giappichelli editore 2009, pp. 13-16. V. ANTONELLI, L’unità della Repubblica nelle decisioni del Giudice costituzionale, in Formez Quaderni n. 42, Autonomia regionale e unità della Repubblica. Sul concetto di residualità della potestà legislativa esclusiva delle regioni, L. TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni, in Le Regioni, n. 2/3, 2002, pp. 356-357; R. BIN-G. PITRUZZELLA, Le fonti del diritto, cit., pp. 172-173, mentre in giurisprudenza si ricordano le sentenze della Corte costituzionale n. 303/2003, n. 255/2004, n. 165/2007. Sui concetti di prevalenza e di concorrenza di competenze v. M. BELLETTI, I criteri seguiti dalla Consulta nella definizione delle competenze di Stato e Regioni e il superamento © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 203 In merito a quest’ultimo punto, sulla base della semplice analisi del dato letterale, è stato anzitutto rilevato il rafforzamento delle autonomie, dato che la versione precedente dell’articolo, nonostante le considerasse parti della Repubblica, non menzionava lo Stato, dando adito all’interpretazione che vedeva l’ordinamento repubblicano coincidere con quello statale e, di conseguenza, racchiudere al suo interno quello regionale e locale(41). All’indomani dell’entrata in vigore della riforma è stata colta la potenziale rottura con la precedente impostazione, sottolineando come con l’affermazione sancita dal nuovo comma 1, Stato e autonomie territoriali fossero stati ontologicamente pari ordinati(42), così da sviluppare un intenso dibattito circa le effettive implicazioni dell’inciso(43). Tale dibattito coinvolge, oltretutto, temi importanti quali la ricerca di nuovi elementi di unificazione all’interno del nuovo titolo V e del soggetto del riparto per materie, in Le Regioni, n. 5/2006, pp. 923-927. L. TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni, pp. 358-362; G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in Le Regioni, n. 6, 2001, p. 125. (41) Sul punto si rinvia per un approfondimento a E. GRIGLIO, Principio unitario e neopolicentrismo. Le esperienze italiana e spagnola a confronto, Padova, Cedam, 2008, pp. 8-13; V. CERULLI IRELLI, Il nuovo assetto dell’amministrazione, cit., p. 183; C. PINELLI, L’assetto costituzionale del governo regionale e locale nei suoi rapporti con lo Stato, Relazione tenuta al Seminario “Lo Stato in periferia e l’assetto del governo regionale e locale”, 22 ottobre 2012, in www.italiadecide.it; M. OLIVETTI, L’Italia verso il federalismo?, in Federalismo y regionalismo. Memoria del VII Congresso Iberoameicano de derecho constitucional, a cura di J.M. Serna De La Garza, Mexico, UNAM, 2002, pp. 368-369, rileva come la mancanza del legislatore costituente rispetto allo sviluppo del regionalismo fosse dovuta ai timori delle sinistre e dei liberali. (42) Sul punto, A. ANZON, Un passo indietro verso il regionalismo “duale”, cit.; R. BIN, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., p. 380-381; F. PIZZETTI, Le nuove esigenze di governance in un sistema policentrico esploso, cit.; B. CARAVITA, Gli elementi di unificazione del sistema costituzionale dopo la riforma del titolo V della Costituzione, in federalismi.it, 30 settembre 2002; R. DICKMANN, Spetta allo Stato la responsabilità di garantire il pieno soddisfacimento delle “istanze unitarie” previste dalla Costituzione, in federalismi.it, 25 settembre 2003; A. PAJNO, Gli elementi unificanti nel nuovo Titolo V della Costituzione, in L’attuazione del Titolo V della Costituzione, a cura di AA. VV., Milano, Giuffrè, 2005, pp. 257-274. (43) Sul punto, alcuni (si veda R. BIN, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., pp. 380-382) hanno sostenuto come lo Stato non possa più essere fatto coincidere con il concetto di Repubblica, dato che quest’ultima è ora definita come insieme di Stato e autonomie territoriali e – di conseguenza – l’ordinamento statale non è più comprensivo di quello regionale e locale ma sono “settoriali”, distinti, e tutti assieme costituiscono quello repubblicano. Altri (A. ANZON, Un passo indietro verso il regionalismo “duale”, cit.), hanno sostenuto come la disposizione non abbia in realtà comportato una radicale modifica dei rapporti tra gli enti costitutivi della Repubblica, dato che il comma 2 – nello stabilire che comuni, province, città metropolitane e regioni sono enti autonomi – non menziona anche lo Stato, motivo per cui lo Stato continuerebbe ad essere un qualcosa distinto dai primi, un ente sovrano. © Wolters Kluwer 204 LUCA ADDESSI al quale attribuire la tutela degli interessi unitari, nonché delle modalità per la loro formazione. Nell’assetto costituzionale precedente la riforma del 2001, infatti, l’unità dell’ordinamento era assicurata per mezzo della legislazione statale – che era generale – e dell’amministrazione statale(44), con lo Stato che disponeva di enormi poteri attraverso i quali condizionare l’autonomia delle regioni e degli enti locali (nello specifico, di distribuzione delle funzioni amministrative, di adozione di atti di indirizzo e coordinamento, di controllo su leggi e atti, sia di legittimità che di merito, il potere sostitutivo e, ancora, quello di distribuzione delle risorse finanziarie)(45). La riforma del 2001 ha però eliminato – almeno stando al dato letterale – gran parte degli strumenti che consentivano allo Stato di esercitare un ruolo di primazia nella tutela dell’unità. Dall’analisi delle disposizioni sul riparto delle competenze è possibile evincere numerosi elementi unificanti del sistema: in primo luogo l’articolo 5 e il primo comma dell’articolo 114 della Costituzione, che hanno aumentato “l’esponenzialità di regioni, province e comuni nei confronti delle rispettive comunità”(46), facendo del principio di unità il limite all’auspicabile differenziazione dell’ordinamento, al quale devono tendere tutti gli enti in cui si riparte la Repubblica(47). Pertanto, l’unità andrebbe assicurata secondo forme rispettose dell’autonomia consacrata nel nuovo testo costituzionale e della pari ordinazione degli enti(48). In secondo luogo, la potestà legislativa esclusiva dello Sato sulle c.d. materie trasversali. In terzo luogo, il potere sostitutivo esercitabile dal governo ex art. 120, o ancora, la potestà dello Stato di destinare risorse aggiuntive o di effettuare interventi speciali ex art. 119. Questi elementi rappresentano meccanismi di intervento unitario predisposti per rispondere a istanze unitarie o a garanzia di esse(49) e nella mag(44) Sul ruolo unificante svolto dalla legislazione dello Stato nell’ordinamento repubblicano antecedente la riforma del 2001 si veda F. PIZZETTI, I nuovi elementi unificanti del sistema costituzionale italiano, in Istituzioni del federalismo, n. 2/2002, pp. 221-258. (45) Come evidenziato da F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, in Dir. pubbl., n. 3/2002, pp. 829-831. (46) Così V. CERULLI IRELLI, Il nuovo assetto dell’amministrazione, cit., p. 186. (47) Così G.C. DE MARTIN, Il problema dello sviluppo dell’autonomia nella Repubblica, in Il gioco della cooperazione. Autonomie e raccordi istituzionali nell’evoluzione del sistema italiano, a cura di O. Gaspari-A. Piraino, Roma, Donzelli, 2005, p. 77-80. (48) A. PIRAINO, Autonomie e raccordi interistituzionali, in Il gioco della cooperazione. Autonomie e raccordi istituzionali nell’evoluzione del sistema italiano, a cura di O. Gaspari-A. Piraino, Roma, Donzelli, 2005, pp. 9-11; anche R. BIN, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., pp. 378-382. Entrambi gli autori sostengono come nel nuovo assetto il rapporto tra Stato e autonomie non debba più essere improntato su di un criterio gerarchico, bensì paritario, e a tal fine individuano nella sussidiarietà (e nell’adeguatezza) la logica che permette il riparto delle funzioni garante dell’unità. (49) Così A. PAJNO, Gli elementi unificanti, cit., pp. 270-272, che qualifica le nozioni di istanza unitaria e di intervento unitario quale motore del nuovo sistema di unificazione. La prima © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 205 gior parte dei casi sono configurate in capo allo Stato, condizione che pare nettamente in contrasto con l’assunto di base che vede gli enti costitutivi della Repubblica pari ordinati e l’ordinamento repubblicano distinto da quello statale. In un secondo momento, inoltre, la Corte costituzionale nella sentenza n. 274 del 2003 ha avuto modo di precisare come nonostante il nuovo articolo 114 Cost. rechi una pari ordinazione istituzionale di tali enti, è necessario che “nel nuovo assetto costituzionale […] allo Stato sia pur sempre riservata […] una posizione peculiare desumibile non solo dalla proclamazione di principio di cui all’art. 5 della Costituzione, ma anche dalla ripetuta evocazione di un’istanza unitaria […]. E tale istanza postula necessariamente che nel sistema esista un soggetto – lo Stato, appunto – avente il compito di assicurarne il pieno soddisfacimento”. Pertanto, conclude il giudice, “lo stesso art. 114 non comporta affatto una totale equiparazione fra gli enti in esso indicati”. Con riferimento a queste considerazioni, è stato ipotizzato che possano esistere contemporaneamente nel nuovo sistema costituzionale due entità Stato, lo “Stato-ente”, dotato di competenze limitate disciplinate dagli artt. 117 e seguenti, e lo “Stato-Repubblica”, dotato di competenze che vengono esercitate in rappresentanza dell’unità della Repubblica per i casi specifici previsti dalla Costituzione, come per i casi di intervento sostitutivo ex art. 117, comma 5, o art. 120, comma 2, o ancora – come nel caso della sentenza esaminata – per la proposizione dei ricorsi di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 127(50). Contro tale orientamento dottrinale è stato sostenuto come si corra il rischio di identificare lo Stato con la sede deputata alla tutela e alla formazione degli interessi unitari, facendo nuovamente dell’ordinamento statale – come nell’assetto delineato dal precedente titolo V – la “cornice” che ricomprende gli interessi particolari delle autonomie e li condiziona(51). A tal proposito, andrebbe detto che il vero punto nodale non è se lo Stato, in vigenza delle nuove costituzionali, abbia o no il potere di svolgere un ruolo di garante ultimo degli interessi unitari, cosa che può apparire pacifica (come indicato dalla sentenza della Corte), ma le modalità attraverso le quali questo ruolo possa essere esercitato, che in presenza di un quadro costituzionale improntato alla valorizzazione delle autonomie – avendone rafforzato le prerogative e la responsabilità nei confronti delle rispettive comunità – dovranno tendere nozione descrive una domanda o esigenza di una disciplina unitaria oppure di un esercizio unitario di una funzione, al fine di salvaguardare l’unità di un valore, mentre quella di intervento unitario descrive la risposta, il rimedio che viene predisposto per la cura dell’esigenza. (50) Questa è la tesi prospettata da R. DICKMANN, Spetta allo Stato, cit. (51) Rischio messo ben in evidenza da O. CHESSA, Sussidiarietà ed esigenze unitarie: modelli giurisprudenziali e modelli teorici a confronto, in Le Regioni, n. 4/2004, pp. 941-954 e ripreso da E. Griglio, Principio unitario e neopolicentrismo, cit., pp. 417-420. © Wolters Kluwer 206 LUCA ADDESSI più che alla supremazia al coordinamento e alla ricerca del consenso, e dunque alla collaborazione con il sistema delle autonomie(52). A fronte di queste considerazioni circa le implicazioni della pari ordinazione espressa dal nuovo art. 114 e il ruolo dello Stato e delle autonomie nella tutela delle istanze unitarie, se lo spirito della riforma costituzionale è stato di valorizzare le seconde vi è da chiedersi se il nuovo modello di regionalismo prefigurato dalle riforme del titolo V corrisponda ad un modello duale, basato sulla separatezza delle competenze o più ad un modello cooperativo, basato sull’esercizio congiunto delle funzioni per mezzo di appropriati raccordi e strumenti giuridici. Gli elementi per determinare quale tipo di modello sia stato prefigurato sono abbastanza discordanti e vertono, sostanzialmente, sulla formulazione degli articoli 117 e 118. La tesi della separazione viene sostenuta in forza dell’esiguo numero di voci all’interno del testo costituzionale riformato che pongono esigenze di coordinamento tra gli enti che compongono la Repubblica(53) e dalla mancanza di previsioni su adeguate strutture di raccordo, lacuna rilevata in maniera pressoché unanime in dottrina e considerata gravissima (dato che un assetto garantista delle rispettive competenze e allo stesso tempo fortemente policentrico presuppone, al fine di governare la complessità della società, un simultaneo aumento e valorizzazione delle sedi di raccordo, in modo particolare laddove le funzioni siano fortemente “embricate” tra di esse)(54). Pertanto, al di là del dibattito circa la separatezza delle competenze e la maggiore o minore flessibilità del sistema, un ulteriore elemento che è stato fortemente rimproverato alla legge costituzionale n. 3 del 2001 è stata la scarsa attenzione al tema della governance complessiva, della ricerca di regole tramite le quali assicurare adeguata tutela alle istanze unitarie secondo modalità che però fossero rispettose delle nuove attribuzioni costituzionalmente garantite(55) delle autonomie, (52) G.C. DE MARTIN, Il problema dello sviluppo dell’autonomia nella Repubblica, cit., p. 7880. E. GRIGLIO, Principio unitario e neopolicentrismo, cit., parla di due modalità per giungere all’unità, per supremazia, percorso che tende ad “attribuire allo Stato una responsabilità esclusiva sulla tutela e sulla promozione dell’unità in tutte le sue manifestazioni, tanto a livello centrale quanto territoriale”, oppure per coordinamento, che “concepisce l’unità come il prodotto dell’accordo tra i doversi enti territoriali a carattere politico” (pp. 413-414). (53) Sul punto v. F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., p. 845. (54) Insiste particolarmente su questo punto A. ANZON, Un passo indietro verso il regionalismo “duale”, cit., sulla base della previsione di una competenza esclusiva dello Stato e di una residuale (“esclusiva”) delle Regioni. Inoltre, propende senza molti dubbi per la configurazione di un modello di regionalismo fortemente incentrato sulla separazione delle competenze – oltre che sulla rigidità del riparto – F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., pp. 836-845. (55) In tal senso, F. PIZZETTI, Le nuove esigenze di governance in un sistema policentrico esploso, cit.; M. CAMMELLI, I raccordi tra i livelli istituzionali, in Istituzioni del federalismo, © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 207 in modo da evitare i conflitti(56). Proprio da tale mancanza sono scaturite le interpretazioni che hanno riproposto la coincidenza tra ordinamento statale e ordinamento repubblicano – nonostante la nuova formulazione dell’art. 114 avrebbe dovuto far propendere per la configurazione di un sistema non più caratterizzato da cerchi concentrici, bensì da ordinamenti settoriali tutti tenuti a garantire le istanze unitarie e responsabili per tale risultato, dal cui combinarsi in maniera armonica deriva l’ordinamento generale – ed è derivato l’esercizio da parte della Corte costituzionale di un forte ruolo di supplenza, in quanto ha dovuto elaborare per via giurisprudenziale le basi del nuovo assetto, rinvenendoli nel principio di sussidiarietà e in quello di leale collaborazione. È stata, infatti, l’assenza di meccanismi costituzionali di direzione politica (dovuta, allo stesso tempo, alla pari ordinazione degli enti ed alla mancata previsione di adeguate sedi di raccordo e di sintesi dei rispettivi indirizzi politici) a spingere la Corte costituzionale a fare ampio ricorso al principio di sussidiarietà per giustificare interferenze tra gli enti nell’esercizio delle proprie prerogative e deroghe al normale riparto delle competenze, al fine di rendere il sistema maggiormente flessibile e funzionante, ancorandolo però alla leale collaborazione(57) (principio non completamente nuovo, in quanto affermato con forza dal giudice delle leggi già nel previgente titolo V). Alla luce di queste considerazioni è possibile constatare come in un contesto in cui si avvertiva una forte esigenza di raccordi interistituzionali in grado di assicurare una maggiore unità di indirizzo al sistema complessivo (avvertita già a partire dall’avvio dell’esperienza regionalista e dalla massiva n. 6/2001, pp. 1095-1096; F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., pp. 827-828 e 845; E. GRIGLIO, Principio unitario e neo-policentrismo, cit., pp. 405 ss.; A. PIRAINO, Autonomie e raccordi interistituzionali, cit., p. 15; R. BIN, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., p. 381-382; A. ANZON, Un passo indietro verso il regionalismo “duale” cit. (56) V. S. MALINCONICO, L’interesse nazionale. Criterio di riferimento, in Il Prefetto alla luce dei nuovi orizzonti dell’ordinamento. Quaderni della Scuola superiore dell’amministrazione dell’Interno, 2005, Roma, p. 22. (57) R. BIN, La leale collaborazione nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Rassegna dell’Avvocatura generale dello Stato, n. 2/2008. La Corte, infatti, nella nota sentenza n. 303/2003 ha affermato come nonostante l’attività unificante dello Stato non possa essere limitata alle materie espressamente attribuitegli (adducendo come esempi il caso della konkurrierende Gesetzgebung tedesca e della Supremacy Clause statunitense), la deroga al riparto delle competenze debba avvenire per mezzo di un procedimento decisionale ispirato al canone della leale collaborazione e che sia ragionevole e proporzionato (opzione da subito condivisa da parte di O. CHESSA, Sussidiarietà ed esigenze unitarie, cit.). La Consulta ha così fatto dei principi di sussidiarietà (e adeguatezza) e leale collaborazione gli strumenti attraverso i quali favorire l’assolvimento da parte dello Stato di una funzione unitaria a fronte della pari ordinazione sancita dall’art. 114 e della valorizzazione delle autonomie sancito con la l. cost. n. 3/2001. Su punto si rinvia a O. CHESSA, Sussidiarietà ed esigenze unitarie, cit.; nonché R. BIN, La leale collaborazione nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., nonché alle sentenze della Corte cost. n. 50/2205 e n. 162/2007. © Wolters Kluwer 208 LUCA ADDESSI settorializzazione dell’attività di governo e amministrativa) la riforma del 2001 è andata nella direzione di rafforzare le competenze costituzionalmente garantite delle autonomie, evitando di affrontare proprio il delicato tema dei raccordi, la cui assenza – in un contesto caratterizzato da logiche di separatezza e garantismo delle attribuzioni – ha aumentato inevitabilmente la conflittualità e ha finito con lo spostare sulla Corte costituzionale il compito di elaborare una nuova governance, introducendo elementi di flessibilità il più possibile compatibili con il sistema complessivo e il nuovo ruolo delle autonomie(58). Il contestuale aumento dei poteri decisionali di tutti i livelli di governo e l’impossibilità di perseguire i rispettivi compiti senza la collaborazione degli atri soggetti (data la forte integrazione orizzontale delle materie e dunque il forte intreccio delle attribuzioni), oltre alla necessità di garantire istanze unitarie delle quali nessun ente è tutore esclusivo(59) sono gli elementi del nuovo paradigma (i punti critici) che hanno portato la Corte a raccomandare il ricorso a strumenti di raccordo incentrati sulla leale collaborazione. All’interno del nuovo sistema di riparto dei poteri soltanto la leale collaborazione può assicurare la realizzazione dell’unità per coordinamento, con quest’ultimo inteso come “relazione organizzativa che intercorre tra soggetti posti tra loro in rapporto di equiordinazione e titolari di attività che, pur autonome e distinte, necessitano tuttavia di essere ricondotte ad un disegno unitario”(60). Il compito dello Stato sarebbe divenuto quello di mantenere il più possibile salda l’unità dell’ordinamento complessivo (ex Corte costituzionale, (58) Come rilevato da G. PROCACCINI, La figura del prefetto alla luce del nuovo ordinamento costituzionale indotto dalla legge n. 3 del 2001, in Il Prefetto alla luce dei nuovi orizzonti dell’ordinamento. Quaderni della Scuola superiore dell’amministrazione dell’Interno, 2005, Roma, p. 11, l’autonomia è certamente un valore fondamentale ma lo è nella misura in cui non conduce a isolamenti e chiusure”. (59) Così L. TORCHIA, I raccordi tra Stato, regioni ed enti locali. Intervento, in Le autonomie territoriali: dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale, a cura di G. Berti-G.C. De Martin, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 198-199. L’A. oltretutto, evidenzia come la riforma costituzionale costituisca il termine di un processo di riforma del sistema amministrativo italiano che avrebbe dovuto portare le autonomie al centro, ma allo stesso tempo, portare lo Stato in periferia, configurando l’amministrazione periferica come degna rappresentante dello Stato con le autonomie (p. 200). (60) E. GRIGLIO, Principio unitario e neo-policentrismo, cit., p. 414, coordinamento così inteso nel senso più caro a Bachelet, grande studioso del tema. Secondo quest’ultimo, il coordinamento poteva essere inteso come “manifestazione tipica di una società democratica e pluralista, che intende ottenere l’armonico orientamento di individui, gruppi, istituzioni verso fini determinati, senza però annullare la libertà o l’iniziativa di tali individui, gruppi, istituzioni”, sottolineando come il coordinamento nell’azione amministrativa comporti la possibilità “di garantire contemporaneamente l’autonomia dei singoli organismi coordinati e insieme la possibilità di un loro indirizzo unitario a determinati fini comuni” (v. V. Bachelet, Coordinamento (voce), in Enciclopedia del diritto, Milano, 1962). © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 209 sentenza n. 274/2003 e sentenza n. 303/2003) ricercando, tuttavia, forme efficaci di cooperazione con tutti i livelli di governo(61), a pena del trasferimento dei conflitti – ove ci si abbandonasse alla logica della rigida separazione delle competenze – nelle sedi giurisdizionali(62). In tale contesto, i raccordi devono diventare la sede della leale collaborazione, il luogo in cui i livelli di governo possano addivenire a conclusioni concordate circa l’esercizio delle rispettive competenze, laddove vi siano intrecci e sovrapposizioni (tenendo comunque presente che gli enti partecipano alla cooperazione al fine di tutelare i propri specifici interessi(63)). I raccordi possono essere tanto strutturali, consistendo in apposite sedi o organi al cui interno i diversi soggetti partecipano alla definizione dell’interesse unitario (come le conferenze), quanto funzionali, consistendo in specifici strumenti tramite i quali realizzare la cooperazione (come gli accordi e le intese), possono riguardare tanto la fase ascendente quanto quella di attuazione delle politiche e possono essere distinti a seconda del contenuto, dei caratteri dei soggetti che vi partecipano e delle garanzie procedimentali che prevedono per tali soggetti(64). In merito al contenuto, questo può essere di confronto (ognuno dei partecipanti espone le proprie ragioni e resta titolare esclusivo dei propri poteri di intervento), di negoziazione (vengono definite ipotesi di soluzione e i soggetti coinvolti restano responsabili di una propria quota di attuazione di quest’ultima) oppure di negoziazione con modifica dell’assetto delle competenze (che arriva a prevedere l’istituzione di organismi ad hoc incaricati di attuare gli interventi e dotati di poteri per raggiungere gli obiettivi). Particolare attenzione va prestata anche al profilo delle garanzie procedimentali, riguardante la previa definizione degli atti da adottare in sede di raccordo e che si differenziano in ragione dell’interesse sotteso all’atto da adottare, che può essere statale, comportando in tal caso la semplice partecipazione degli altri livelli di governo al raccordo, oppure unitario, inerente la composizione armonica di interessi facenti capo a soggetti diversi e tutti meritevoli di tutela, che comporta una vera e propria condivisione delle competenze. Partendo da questa classificazione che tiene conto di alcuni caratteri generali, si potrebbe calarla su di un’altra che distingue tra raccordi sulla ripar(61) Auspicio lanciato all’indomani della riforma da F. PIZZETTI, Le nuove esigenze di governance, cit. (62) M. CAMMELLI, I raccordi tra i livelli istituzionali, cit., p. 1099. (63) L. VANDELLI, I luoghi e gli strumenti di raccordo interistituzionale, in Il gioco della cooperazione, a cura di O. Gasparri-A. Piraino, Roma, Donzelli, 2007, p. 68. (64) Questa ultima classificazione è ripresa da F. MERLONI, I raccordi tra Stato, regioni ed enti locali. Relazione, in Le autonomie territoriali: dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale, a cura di G. Berti-G.C. De Martin, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 179-183. V. anche L. VANDELLI, I luoghi e gli strumenti di raccordo interistituzionale, cit. © Wolters Kluwer 210 LUCA ADDESSI tizione delle competenze e sui criteri di riparto delle relative risorse, e altri sull’esercizio delle funzioni distribuite tra i diversi livelli di governo(65). Di questi, il primo tipo risponde ad esigenze di definire comuni interpretazioni e politiche di attuazione dinanzi a disposizioni normative non sufficientemente chiare o di facile applicazione (come nel caso delle materie previste dall’attuale titolo V, caratterizzate da confini assai difficili da definire). Sulla base della giurisprudenza elaborata dalla Corte costituzionale in tema di leale collaborazione, per questi casi, dato il rilievo costituzionale di tutti i soggetti coinvolti nel raccordo (enti costitutivi la Repubblica con attribuzioni costituzionalmente tutelate) e la mancanza di una sede di raccordo appropriata quale potrebbe essere una Camera che consenta alle autonomie di esprimere i propri interessi nella fase di formazione degli atti legislativi, viene indicata come soluzione auspicabile il raggiungimento di un’intesa (raccordo funzionale, strumento) forte, che comporta una condivisione della competenza a definire l’interesse unitario(66). Il secondo tipo di raccordi riguarda il coordinamento degli interessi e il riparto delle funzioni amministrative. Focalizzando l’attenzione su questo versante – dato il ruolo di coordinamento amministrativo configurabile in capo all’istituto prefettizio – e tenendo presente quanto rilevato in tema di raccordi sotto il profilo delle garanzie procedimentali, va segnalato come la rilevanza degli atti adottati dipende dalla dimensione degli interessi che si intrecciano nell’esercizio delle funzioni. Pertanto, possono esservi casi in cui è possibile che tra i diversi interessi prevalga per esigenze unitarie quello statale, con la conseguenza che, essendo secondaria la partecipazione delle autonomie, il raccordo possa esprimersi anche per mezzo di pareri o intese “deboli” il cui mancato raggiungimento non impedirebbe allo Stato l’unilaterale prosecuzione dell’attività (sono i casi di coordinamento verticale-funzionale), come all’opposto situazioni in cui l’interesse è comune a più livelli di governo (come quelli avente ad oggetto lo sviluppo integrato di una determinata zona o area) e viene soddisfatto tramite l’azione congiunta di tutti i soggetti coinvolti, che dunque cooperano tra di essi in una posizione paritaria. In tal caso, gli strumenti di raccordo devono per forza basarsi sul consenso dei soggetti che partecipano, se non addirittura sull’unanimità, senza il quale non si raggiunge il coordinamento(67). (65) Classificazione ripresa da F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., pp. 847-857. (66) Corte cost., sent. n. 303/2003; R. BIN, La leale collaborazione nel nuovo titolo V della Costituzione, cit.; sui raccordi, in particolare, F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., pp. 849-851. (67) Orientamento questo, al quale si ritiene pacifico aderire. F. MERLONI, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, cit., pp. 851-857. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 211 Quanto visto fin qui in tema di riparto delle competenze (tanto legislative quanto amministrative) e di raccordi è fondamentale per comprendere come l’unità, all’interno del nuovo quadro costituzionale, debba essere assicurata non più per mezzo di processi decisionali che proiettino unilateralmente le scelte dall’alto verso il basso, piuttosto, per mezzo di sedi e strumenti improntati a processi decisionali rispettosi delle nuove prerogative costituzionali delle autonomie(68). Tutto ciò finisce inevitabilmente per riflettersi sul ruolo del prefetto quale rappresentante dello Stato sul territorio, il quale è costretto a sua volta a basare la propria azione sui nuovi criteri guida che reggono i rapporti con le autonomie, ossia il principio di sussidiarietà e, soprattutto, quello di leale collaborazione. 7. I riflessi della legge costituzionale n. 3 del 2001 sulle prerogative prefettizie Il dibattito sulla necessità di raccordi ispirati al principio di leale collaborazione e al nuovo assetto dei poteri ha così finito per coinvolgere inevitabilmente la figura del prefetto, istituto che storicamente è sempre stato chiamato ad esercitare, con maggiore o minore successo, la funzione di ricomposizione delle istanze statali sul territorio e il raccordo con le autonomie. Allo stesso tempo, però, necessitava – per poter colmare la lacuna normativa sui raccordi con le autonomie – di una nuova veste organizzativa e funzionale, circostanza ampiamente appurata subito dopo l’approvazione dell’art. 11 del d. lgs. n. 300/1999 e – anzitutto – del regolamento di attuazione n. 287/2001, salutati dalla dottrina come eccessivamente timidi nella realizzazione di un effettivo unico centro di responsabilità statale sul territorio. 8. La legge n. 131 del 2003 Un primo riflesso normativo sul coordinamento prefettizio si è avuto con la legge 5 giugno 2003, n. 131 di adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale (la c.d. legge La Loggia), che muovendo dalla consapevolezza che il nuovo assetto costituzionale necessitasse di nuovi raccordi interistituzionali – soprattutto sul versante delle autonomie – improntati a nuovi principi, all’art. 10 ha attribuito al prefetto titolare di UTG avente sede nel capoluogo regionale (per le regioni a statuto ordinario) la funzione di “rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle (68) Come rilevato all’indomani della riforma da M. CAMMELLI, I raccordi tra i livelli istituzionali, cit., p. 1081. © Wolters Kluwer 212 LUCA ADDESSI autonomie”, conferendogli il potere di curare le attività dirette a garantire il principio di leale collaborazione tra Stato e Regione, nonché il raccordo tra le amministrazioni dello Stato presenti sul territorio (anche attraverso le conferenze permanenti previste dall’art. 11 del d. lgs. n. 300/1999), nonché l’esecuzione dei provvedimenti del Consiglio dei Ministri costituenti esercizio del potere sostitutivo ex art. 120 Cost(69). Poteri, dunque, tesi a rilanciare la figura del prefetto-rappresentante dello Stato come tramite tra l’amministrazione centrale e le autonomie, con la precisazione che i rapporti devono essere incentrati sulla leale collaborazione, con il prefetto che è tenuto ad esserne il garante. Ciononostante, la valutazione circa la carica innovativa di queste disposizioni non sono state unanimi, con parte della dottrina – con la qual non si può non concordare – che non ha mancato di sottolineare come la norma abbia “omesso” di trattare due importanti profili inerenti il coordinamento e la riduzione ad unità dell’azione amministrativa: quello del rapporto tra UTG del capoluogo di regione e gli altri UTG provinciali che insistono sul territorio (dato che per il primo l’art. 10 della legge prefigura un regime organizzativo e funzionale “speciale” rispetto agli altri, cosa che avrebbe anche potuto portare alla configurazione di un rapporto gerarchico tra il primo ed i secondi), nonché – di primaria importanza per il corretto adempimento della specifica mission di tutti gli UTG – la definizione di maggiori poteri circa il coordinamento interno, ossia tra le diverse amministrazioni territoriali statali, elemento più volte eluso dalle norme che hanno operato una riforma dell’istituto prefettizio(70). 9. Le modifiche intervenuto con il decreto legislativo n. 24 del 2009 e con il d.p.r. 180 del 2006 A fronte della riforma del 2001, delle disposizioni contenute nell’articolo 10 della l. n. 131/2003 e del marginale risultato conseguito sul piano dell’accorpamento nell’UTG delle amministrazioni periferiche indicate dalla normativa del 1999, sono stati adottati, in sequenza, il decreto legi(69) V. legge n. 131 del 2003, art. 10. (70) Problematiche che sono state lucidamente rilevate da M. CAMMELLI, Rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie, cit., p. 211, per il quale il nuovo titolo V presuppone, oltre che un rafforzato coordinamento interistituzionale, anche un più efficace coordinamento interministeriale. L’intervento normativo, al contrario, è stato valutato con maggiore positività da L. CASSETTI, Il Rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie nelle regioni a statuto ordinario e la leale collaborazione, in I processi di attuazione del federalismo in Italia, a cura di B. Caravita di Toritto, Milano, Giuffrè, 2004, pp. 375-386. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 213 slativo 21 gennaio 2004, n. 29 (che ha completamente riscritto l’articolo 11 del d.lgs. n. 300/1999), e il d.p.r. 3 aprile 2006, 180 (che ha sostituito il regolamento n. 287/2001), sulla cui portata si è sviluppato un dibattito non unanime. Parte della dottrina ha, infatti, sostenuto il fallimento dell’ambizioso progetto di riforma dell’amministrazione periferica dello Stato (oltre che del processo di riorganizzazione dei ministeri). Al contrario, altri hanno visto in tali interventi normativi l’intento di rilanciare le finalità fissate nell’art. 11 del d.lgs. n. 300/1999, alla luce della riforma costituzionale intervenuta e delle criticità rilevate. 9.1. Le novità introdotte dal decreto legislativo n. 29 del 2004 In merito alle modifiche apportate dal decreto legislativo n. 29 del 2004, colpisce – già al comma 1 del nuovo articolo 11 – l’inciso “la prefettura assume la denominazione di Prefettura-Ufficio territoriale del Governo”, in quanto lascia trasparire la sensazione che l’accorpamento delle altre strutture periferiche dello Stato nel detto ufficio sia stato solo parzialmente realizzato (si ricorda che il primo comma, nella forma originaria, prevedeva la “trasformazione” delle prefetture in UTG)(71). Disposizioni di maggior rilievo sono previste al secondo comma, laddove il nuovo intervento normativo ha rafforzato il ruolo del prefetto di coordinamento dell’attività delle amministrazioni statali sul territorio, conferendogli altresì il compito di garantire la leale collaborazione tra le autonomie territoriali e le amministrazioni statali. Sotto questo punto di vista, il legislatore si è mosso nella direzione tracciata dall’art. 10 della legge La Loggia, che ha voluto fare del prefetto, in qualità di Rappresentante dello Stato per i rapporti con le autonomie, il garante della leale collaborazione nei rapporti tra i due sistemi(72). È stato evidenziato come, per mezzo di tale disposizione, il legislatore, conscio delle forti resistenze incontrate nel processo di accorpamento delle strutture periferiche nell’ufficio territoriale, abbia deciso di optare per una rinuncia a tale disegno,provvedendo, di conseguenza, a rafforzarne i poteri di coordinamento dell’attività amministrativa(73). A fronte dell’esplicitazione della funzione di coordinamento amministrativo e di garante della leale collaborazione nei (71) Su questo punto particolare si conviene con G. FARES, Il nuovo volto delle prefetture dopo il d. lgs. 21 gennaio 2004, n. 29, in 29, in Studium iuris, 2005, p. 22. (72) Come evidenziato da L. CASSETTI, Il rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie nelle regioni a statuto ordinario e la leale collaborazione, cit., pp. 375-386. (73) Ha sottolineato il passaggio dalla logica dell’accorpamento a quella del coordinamento C. MEOLI, Il nuovo profilo della Prefettura - Ufficio territoriale del Governo, in Giorn. dir. amm., n. 10/2004, p. 1063-1069 e G. FARES, Il nuovo volto delle prefetture, cit., p. 24. © Wolters Kluwer 214 LUCA ADDESSI rapporti con gli enti locali, i restanti commi hanno previsto quali strumenti principali la conferenza permanente e l’attribuzione di un potere di intervento diretto del prefetto nei confronti delle altre amministrazioni periferiche statali volto ad evitare un grave pregiudizio alla qualità dei servizi resi alla cittadinanza. Per quanto riguarda la conferenza permanente, va detto che non sono stati registrati grandi cambiamenti. In sostanza, a fronte della laconicità delle disposizioni che la interessavano, il novellato art. 11 si è limitato semplicemente a confermare la sua natura di organo ausiliario di supporto al prefetto nell’esercizo delle sue funzioni di coordinamento. Diverse considerazioni vanno espresse sul comma 4, inerente il potere di intervento diretto, che può esplicarsi tramite l’adozione di provvedimenti che vanno ad incidere sulla sfera di competenze delle altre amministrazioni periferiche. Pur tenendo presente che nella configurazione data dalla norma il prefetto necessita del previo assenso del ministro competente per materia per l’esercizio di tale potere (elemento che può costituirne un forte freno all’effettività), bisogna concordare con quanti hanno visto in esso una risposta a quanto non era stato previsto nella l. n. 131/2003. L’art. 10 della legge in questione, infatti, aveva proposto l’idea di un prefetto sempre più al centro dei rapporti con le autonomie, senza prevedere nulla sul versante dei raccordi con le altre amministrazioni periferiche statali, elemento imprescindibile per la garanzia della leale collaborazione nei rapporti tra i due “sistemi”. Se è compito dell’istituto garantire la leale collaborazione con il sistema delle autonomie è chiaro che debba poter disporre di strumenti per mezzo dei quali coordinare l’azione delle altre amministrazioni che ugualmente si rapportano con le prime nell’esercizio delle proprie funzioni. La normativa ha, in sostanza, configurato un modello in base al quale il coordinamento prefettizio delle attività amministrative si realizza in primo luogo per mezzo della trasmissione dei flussi di informazioni tra tutte le amministrazioni che insistono sul territorio di competenza (siano esse statali o locali) e tra queste e il centro (vedi la Presidenza del Consiglio dei Ministri egli altri ministeri), che vengono attivati direttamente dal prefetto oppure che avviene in seno alla conferenza permanente. In secondo luogo, proprio la conferenza, per mezzo della partecipazione di diritto alle sedute da parte dei rappresentanti degli enti locali, diventa il luogo al cui interno ricercare soluzioni condivise e svolgere quell’attività istruttoria che può costituire la base informativa necessaria all’esercizio di tutte le altre sue funzioni, incluso il potere di intervento diretto. In sintesi, si può ragionevolmente sostenere che l’art. 11 del decreto n. 300, così come riformato dal d. lgs. n. 29/2004, se da un lato ha mostrato la consapevolezza delle difficoltà e resistenze alla perdita di poteri e prerogative – tanto al centro, da parte dei ministeri, quanto in periferia, da parte delle © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 215 relative strutture periferiche – che hanno comportato un basso livello di accorpamento di uffici all’interno dell’ufficio territoriale del governo, dall’altro ha provveduto a fissare principi maggiormente aderenti al nuovo dettato costituzionale, in ottica di rafforzamento della vocazione interministeriale e interistituzionale delle prefetture. 9.2. Il regolamento n. 180 del 2006 Sulla base del nuovo articolo 11 del d. lgs. n. 300/1999 (così come modificato dal d.lgs. n. 29/2004) ai fini di adeguamento della normativa in materia di Prefetture-UTG è stato emanato il d.p.r. 180/2006. Per quel che interessa la funzione di raccordo interistituzionale, ponendo a confronto le disposizioni normative dei due testi, è possibile trarre alcune considerazioni di rilievo. In primo luogo, dal punto di vista delle attribuzioni degli UTG e dei prefetti che ne sono titolari, non sono da rilevare grandi variazioni, dato che il d.p.r. 180, agli artt. 1 e 2, sembra abbia provveduto solo a semplificare l’elenco delle funzioni delle due figure. Il nuovo regolamento, sancisce all’art. 1 che la prefettura-UTG assicura, avvalendosi delle conferenze permanenti (punto da tenere in considerazione), il coordinamento dell’attività amministrativa degli uffici periferici dello Stato sul territorio (comma 2, lett. a) e la leale collaborazione dei detti uffici periferici con i diversi livelli di governo presenti sul territorio (comma 2, lett. b), mantenendo al prefetto – all’art. 2 – le funzioni previste dalla precedente normativa. A prima vista si potrebbe, dunque, affermare che il nuovo regolamento non abbia stravolto le funzioni della prefettura e del prefetto. Tanto nel vecchio testo quanto nel nuovo le due figure sono titolari di importanti funzioni di coordinamento a livello locale o comunque finalizzate ad assicurare il coordinamento interistituzionale a livello centrale (è questo il valore della funzione di trasmissione di informazioni e dati al Presidente del Consiglio), ciononostante l’art. 1 esplicita chiaramente che la funzione fondamentale dell’istituto prefettizio consiste nel coordinamento delle altre amministrazioni periferiche statali e nella garanzia della leale collaborazione nei rapporti con le autonomie, avvalendosi – e anche questa è dichiarazione volta ad evidenziare l’importante funzione di ausilio nel coordinamento – della conferenza permanente. Novità ben più rilevanti possono, invece, cogliersi sul versante della composizione delle conferenze permanenti, dove al mantenimento dell’articolazione dei lavori della conferenza in sezioni(74) si affianca la pre(74) Nello specifico: amministrazione d’ordine; sviluppo economico e attività produttive; territorio ambiente e infrastrutture; servizi alla persona e alla comunità. © Wolters Kluwer 216 LUCA ADDESSI visione che sancisce la partecipazione di diritto dei rappresentati degli enti locali interessati dalle questioni trattate (che nel vecchio regolamento potevano soltanto essere invitati a partecipare). La normativa registra su questo punto un importante passo avanti sulla strada verso l’adeguamento al nuovo assetto costituzionale dei pubblici poteri, dal momento che se quest’ultimo esige raccordi tanto al centro quanto in periferia, incentrati sul principio di leale collaborazione, la partecipazione delle autonomie ai lavori della conferenza, principale strumento di supporto al prefetto nell’esercizio dei poteri di coordinamento e garanzia della leale collaborazione, appare lo strumento idoneo a favorire il corretto funzionamento del sistema. Un’ulteriore novità di considerevole portata è la disciplina dettata dall’art. 7, che ha procedimentalizzato l’esercizio del potere sostitutivo del prefetto, al quale può ricorrere – ex art. 11 del d. lgs. n. 300/1999 – qualora disfunzioni o anomalie nell’attività amministrativa di un ufficio periferico sia tale da poter arrecare un grave pregiudizio alla qualità dei servizi resi alla collettività, con la disposizione normativa in questione. Come è stato osservato già a seguito dell’adozione del decreto del 2004, questo potere costituisce un’importantissima prerogativa prefettizia in ottica di rafforzamento dei poteri di coordinamento sulle altre amministrazioni territoriali dello Stato, ciononostante è uno strumento che risulta depotenziato dalla previsione che il suo esercizio possa avvenire soltanto previa acquisizione dell’assenso del ministro competente e informazione del Presidente del Consiglio(75). Inoltre, c’è da considerare che l’art. 6 prevede anche che i ministri, sulla base delle linee di indirizzo politico-amministrativo del presidente del Consiglio, rivolgano ai prefetti apposite direttive sulle modalità di svolgimento dell’intervento sostitutivo. Se è vero, dunque, che non sono pochi i vincoli posti al prefetto per l’esercizio dell’intervento sostitutivo, è altrettanto vero che il sistema delineato dal regolamento in questione appare idoneo a garantire il mantenimento dell’unità dell’indirizzo amministrativo tanto a valle (per mezzo del prefetto che esercita il potere) quanto a monte (potendo i ministri e il Presidente del Consiglio prevederne le modalità di svolgimento), promuovendo la collaborazione oltre che con gli enti locali (che esprimono, attraverso la conferenza, il proprio punto di vista) anche tra le stesse amministrazioni statali. Merita un cenno anche l’art. 9 del regolamento, che conferisce al prefetto il compito di promuovere tutte le possibili forme di collaborazione interistituzionale tra lo Stato e le autonomie territoriali (nel rispetto dei principi sanciti dalla l. cost. n. 3/2001), previsione che se letta in stretto collegamento (75) Così C. MEOLI, Il nuovo profilo della Prefettura – Ufficio territoriale del Governo, cit., p. 1067, nonché C. MEOLI, La Prefettura – Ufficio territoriale del Governo e il raccordo tra le amministrazioni in periferia, in Giorn. dir. amm., n. 9/2008, p. 1033-1039. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 217 con le disposizioni sopra esaminate e con l’art. 3 (che gli attribuisce il compito di promuovere e stipulare le convenzioni volte a regolare le modalità di utilizzo da parte dello Stato e delle regioni degli uffici statali e regionali, nonché il potere di indire conferenze dei servizi per i casi in un procedimento l’amministrazione procedente sia statale) rafforza ulteriormente il ruolo di coordinamento del prefetto nei confronti degli altri uffici periferici statali e di perno dell’intero sistema locale. 10. Un valutazione sul percorso evolutivo post riforma costituzionale Se si vuole dare una valutazione generale del quadro delineato dagli interventi normativi post riforma costituzionale, va detto che a fronte della carenza di raccordi interistituzionali evidenziata a seguito della riforma costituzionale del titolo V sono stati compiuti significativi passi in avanti, dapprima con la l. n. 131/2003, che ha sancito il ruolo di rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie del prefetto titolare dell’UTG del capoluogo di regione, successivamente con i due interventi normativi poc’anzi esaminati. Questi, infatti, si sono mossi nella direzione di configurare una rete di rapporti reciproci tra amministrazioni periferiche dello Stato e tra queste ed i rispettivi ministeri e le autonomie territoriali, che – per mezzo dello sviluppo dei flussi informativi (trasmissione di direttive dal centro verso la periferia e di informazioni e dati dalla periferia verso il centro)(76), della previsione di sedi di concertazione e forum al cui interno dibattere le questioni controverse che riguardano più livelli di governo (le conferenze permanenti della pubblica amministrazione) e il ricorso massivo alla promozione e adozione di strumenti/atti amministrativi volti a regolare l’esercizio delle competenze sulla base della collaborazione e della cooperazione (come le convenzioni, gli accordi e le intese) – si pone l’obiettivo principale di assicurare una governance che prevenga il conflitto tra i diversi livello di governo(77) (evitando di conseguenza la paralisi dell’azione amministrativa) proponendo soluzioni condivise. Ma, allo stesso tempo, l’efficacia, l’efficienza e la celerità dell’azione amministrativa presuppongono – a fronte di questa configurazione dei rapporti centro-periferia su base collaborativa – una strutturazione dei rapporti tra le stesse amministrazioni periferiche che punti a ridurre la complessità e a presentare – nei rapporti con le autonomie – un referente unico (come dire: se l’esercizio dei poteri (76) Sul punto si concorda con B.G. MATTARELLA, Il prefetto come autorità amministrativa generale, dopo le recenti riforme, in Amm. pubbl., n. 29-30-31/2003, pp. 1577-1587, laddove osserva che “il decentramento delle decisioni richiede spesso una compensazione in termini di accentramento dei flussi di informazione” (p. 1580). (77) IBIDEM, p. 1580. © Wolters Kluwer 218 LUCA ADDESSI deve avvenire su basi condivise e l’obiettivo è di prevenire i conflitti, la riduzione dei soggetti statali ad un referente unico è funzionale a questo), direzione verso la quale il legislatore si è altrettanto mosso con il decreto del 2004 ed il relativo regolamento di attuazione. Tuttavia, proprio questi due interventi normativi rappresentano, allo stesso tempo, un passo indietro rispetto all’ambizioso disegno che l’art. 11 del d. lgs. n. 300/1999 intendeva promuovere (e che a sua volta si inseriva nel più generale contesto di riforma dello Stato prefigurato dalle prime leggi “Bassanini”). 11. L’esercizio della funzione prefettizia nella governance multilivello Gli interventi normativi sopra evidenziati mostrano, dunque, un legislatore teso alla ricerca di un assetto organizzativo dell’amministrazione periferica dello Stato e, in particolare delle prefetture, in grado di assicurare sul territorio un’azione di governo coordinata ma rispettosa, allo stesso tempo, delle prerogative costituzionali delle autonomie territoriali, facendone del prefetto il fulcro. Tale ruolo di quest’ultimo è rinvenibile nell’esercizio delle variegate funzioni di sua competenza che lo vedono interagire con le autonomie su di un piano più o meno paritario, a seconda della dimensione dell’interesse sottesa all’esercizio della funzione. 11.1. Il coordinamento e la leale collaborazione in tema di ordine e sicurezza pubblica All’interno dell’area “Ordine pubblico e sicurezza” il prefetto ha sempre goduto di estesi poteri di coordinamento nei confronti delle altre amministrazioni, ciononostante, fino all’adozione della legge 1 aprile 1981, n. 121 in materia, esercitava tale coordinamento in base alla propria libera iniziativa, in quanto funzione afferente a quella più generale di rappresentate dello Stato sul territorio e a quella di tutela dell’ordinamento giuridico, sempre di sua stretta competenza(78). Successivamente, la l. n. 121/1981 ha riconosciuto normativamente tale ruolo, con l’art. 13 che gli ha attribuito la responsabi(78) F. BEVILACQUA-A. CARNABUCI, La struttura organizzativa preposta al sistema della sicurezza, in Ordinamento e attività istituzionali del Ministero dell’Interno, a cura di M.T. Sempreviva, Roma, Dike giuridica, 2013, p. 133, riportano di prefetti che in assenza di una disciplina normativa compiuta esercitavano il coordinamento secondo le “modalità più disparate, ad esempio, mediante incontri, consultazioni, conferenze, accordi, gruppi di lavoro, cosicché per i prefetti, il coordinamento, si è posto come categoria culturale, se non addirittura di etica professionale”. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 219 lità amministrativa generale in materia e, in un secondo momento (per mezzo delle modifiche apportate con l’art. 12 del d.l. n. 152/1991), il compito di assicurare l’unità di indirizzo ed il coordinamento dei compiti e delle attività degli agenti di pubblica sicurezza della provincia. Come già visto attraverso l’excursus storico sull’evoluzione della figura prefettizia e sullo sviluppo della categoria del “coordinamento”, anche all’interno di questa materia la scelta per un modello pluralista, incentrato sul coinvolgimento di più soggetti autonomi per l’esercizio delle funzioni di ordine pubblico, ha comportato la necessità di sviluppare il modello organizzativo del coordinamento, attribuendo la funzione a determinati soggetti e, a livello provinciale, al prefetto, qualificato dalla legge in questione come “autorità provinciale di pubblica sicurezza”. Il legislatore aveva, inoltre, previsto quale apposita sede di coordinamento il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, organo di consulenza del prefetto per l’esercizio delle proprie funzioni in materia. Proprio l’evoluzione della composizione del comitato è l’emblema dell’evoluzione in senso pluralista tanto della governance della materia quanto dell’ordinamento complessivo. Il decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 279 – a fronte dell’estensione delle aree di responsabilità politica e amministrativa di comuni e province operata prima con le leggi n. 142/1990 e n. 81/1993 e dopo con il d. lgs. n. 112/1998 – ha istituzionalizzato la partecipazione di diritto del sindaco del comune capoluogo, del presidente di provincia e dei sindaci di altri comuni quando devono essere trattate questioni relative gli ambiti territoriali di loro competenza(79). La novella legislativa del novantanove rispecchia la tendenza alla “pluralizzazione istituzionale” della materia, che ha visto crescere negli anni il numero dei soggetti chiamati ad esercitare funzioni di ordine e sicurezza pubblica o comunque aumentare le loro responsabilità. Tale evoluzione ha poi ricevuto consacrazione con la novella costituzionale del 2001(80), che ha accentuato il passaggio ad un modello di “integrazione partecipata” sulla materia, che si basa “sull’equiordinazione dei soggetti istituzionalmente coinvolti nella sua gestione, sul plusvalore derivante dalla concertazione delle attività, nonché sull’apertura a forme di collaborazione con le comunità territoriali”(81). (79) È stato evidenziato da F. BEVILACQUA-A. CARNABUCI, La struttura organizzativa preposta al sistema della sicurezza, cit., p. 135, come “la composizione ristretta riflettesse la visione dell’ordine e della sicurezza pubblica tipica di quegli anni, in quanto materia di esclusiva competenza statale, e rispondesse pienamente all’esigenza di garantire la gestione unitaria di tale materia nel territorio provinciale”. (80) Anche se il comma 3 dell’art. 118 Cost. è rimasto privo di attuazione. (81) C. FUSCO, I nuovi orizzonti del sistema della sicurezza, in Ordinamento e attività istituzionali del Ministero dell’Interno, a cura di M.T. Sempreviva, Roma, Dike giuridica, 2013, pp. 157-158. © Wolters Kluwer 220 LUCA ADDESSI Così, il peso crescente delle autonomie territoriali in materia di ordine e sicurezza pubblica ha portato i comitati provinciali a divenire, negli anni, molto più che meri organi di consulenza del prefetto (come qualificati dalla normativa in esame). Pur essendo non vincolanti i pareri resi da tale struttura è assai raro che il prefetto se ne discosti (pur fornendo adeguata motivazione) e sono in aumento i casi in cui lo stesso legislatore prevede l’obbligo di sentire il Comitato per l’adozione di determinate misure di protezione e di sicurezza, circostanze – queste – che fanno propendere parte della dottrina a qualificare il comitato sempre più come una “sede di decisione”(82). Questo modello di “sicurezza integrata” – perseguita mediante l’intervento congiunto e armonico di più livelli di governo – si concretizza nel ricorso sempre più frequente a strumenti di cooperazione orizzontale per la disciplina delle funzioni amministrative nella materia, come i c.d. “patti per la sicurezza”, inizialmente sviluppatisi per prassi e successivamente disciplinati dal legislatore(83). Lo scopo di questi accordi è di favorire una maggiore cooperazione e coordinamento tra il livello di governo territoriale e l’amministrazione statale mediante la concertazione delle attività ed una redistribuzione delle responsabilità tra gli enti che vi partecipano, il tutto in un’ottica di garanzia di maggiore prevenzione e sicurezza. In definitiva, lo sviluppo di queste forme di cooperazione orizzontale riflette l’assetto policentrico dei poteri fissato in Costituzione dalla riforma del titolo V, che presuppone l’utilizzo di strumenti che siano espressione di consenso da parte dei soggetti che decidono di farvi ricorso, e riflettono, pertanto, la loro posizione di equiordinazione o “pari dignità costituzionale”, non(82) Sul punto si veda F. BEVILACQUA-A. CARNABUCI, La struttura organizzativa preposta al sistema della sicurezza, cit., pp. 136-140, in cui gli Autori sostengono che nella prassi avviene assai di rado che i prefetti si discostino dalla posizione assunta dal Comitato; M. DI RAIMONDO, Ordine pubblico e sicurezza pubblica. Profili ricostruttivi e applicativi, Torino, Giappichelli, 2009, pp. 69 ss.; si vedano inoltre, la Direttiva del Ministro dell’Interno 26 gennaio 2009 sull’individuazione dei criteri per lo svolgimento delle manifestazioni pubbliche, oppure la Circolare del Ministro dell’Interno 8 febbraio 2005 sui sistemi di videosorveglianza, che prevedono il coinvolgimento del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica nell’iter di definizione delle apposite misure di sicurezza. (83) Come rilevato da C. FUSCO, I nuovi orizzonti del sistema della sicurezza, cit., pp. 154157, questo tipo di accordi presenta determinati contenuti strutturali che si sostanziano nella previsione di: condivisione di dati e informazioni sull’andamento della criminalità nel contesto locale di riferimento; coordinamento nel controllo del territorio; maggiore protezione per particolari categorie di operatori economici esposte al rischio; riqualificazione di aree degradate; maggiore impiego di tecnologie avanzate per il monitoraggio del territorio; promozione dell’integrazione e dell’inclusione sociale; maggior coinvolgimento della comunità di riferimento. Per un più generale approfondimento sui temi della sicurezza urbana e dello sviluppo di modelli di sicurezza integrata si rinvia ai contributi contenuti in A. PAJNO (a cura di), La sicurezza urbana, Rimini, Maggioli editore, 2010, oltre che a C. MOSCA, La sicurezza come diritto di libertà. Teoria generale delle politiche di sicurezza, Padova, Cedam, 2012. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 221 ché il passaggio da una logica di government, basata sulla trasmissione dei comandi dall’ente gerarchicamente sovraordinato a quello subordinato, ad una logica di governance, che al contrario presuppone la cooperazione sulla base di regole condivise(84). 11.2. I poteri prefettizi in tema di amministrazione civile Anche in materia di protezione civile, il processo di evoluzione dei poteri prefettizi riflette lo sviluppo del sistema autonomistico ed il passaggio da una logica di goverment delle politiche ad una di governance. Fino all’adozione della legge 24 febbraio 1992, n. 225, che ha istituito il Servizio nazionale di protezione civile, la funzione di protezione civile veniva fatta ricomprendere all’interno della nozione più generale di ordine e sicurezza pubblica, pertanto – come quest’ultima funzione – si caratterizzava per un accentuato accentramento di competenze e funzioni in capo allo Stato e, nello specifico, in capo al prefetto quale autorità provinciale di pubblica sicurezza(85). In un secondo momento, il legislatore statale ha riconosciuto – con la legge 8 dicembre 1970, n. 996 contenente “Norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità-Protezione civile” – la differenza tra le due funzioni e ha recepito la nozione di protezione civile, intesa come concorso da parte del Ministero dell’Interno, delle altre amministrazioni dello Stato, civili e militari, e di tutti gli enti pubblici territoriali e istituzionali, alla predisposizione dei servizi di emergenza, di soccorso e di assistenza, in favore delle popolazioni colpite da calamità naturali o da catastrofe (art. 2). A fronte del riconoscimento di un autonomo concetto di protezione civile, il sistema, nonostante la previsione del concorso delle autonomie territoriali all’esercizio della funzione, continuò a caratterizzarsi per un elevato grado di accentramento di competenze amministrative in capo al Ministero dell’Interno, al quale veniva ricondotta la direzione – a seguito della dichiarazione di catastrofe o di calamità naturale – di tutti i servizi e gli interventi delle pubbliche amministrazioni, tanto centrali, quanto territoriali. In aggiunta, il regolamento di esecuzione della legge in questione, il d.p.r. 6 febbraio 1981, n. 66, ha provveduto a qualificare ufficialmente il prefetto “autorità ordinaria di protezione civile” (art. 3, comma 3), affidandogli, in particolare, i compiti di predisposizione del piano provincia- (84) Sul punto, si rinvia a R. CANNIZZARO-D. PIANA, Il centro orizzontale. Strategie e strumenti del prefetto nel governo della complessità, Roma, Carocci, 2012, pp. 80 ss. (85) L’articolo 1 del Regio Decreto n. 773 del 1931 prevedeva che l’Autorità di pubblica sicurezza “presta soccorso nel caso di pubblici e privati infortuni”. © Wolters Kluwer 222 LUCA ADDESSI le di protezione civile e di direzione dei servizi di soccorso e di assistenza alle popolazioni colpite(86). Soltanto a partire dagli anni novanta, con l’approvazione della legge n. 225 del 1992, nasce il c.d. Servizio nazionale di protezione civile come lo conosciamo oggi, che rappresenta oltretutto il punto di partenza di un sistema che con gli anni ha continuato ad evolversi, mutando da un sistema fondamentalmente accentrato ad un sistema fortemente policentrico, che tende a valorizzare nella maggior misura possibile la partecipazione degli enti locali all’esercizio della funzione di protezione civile, mantenendo in capo al prefetto importanti poteri di indirizzo e ordinamento dei diversi attori coinvolti nell’esercizio della funzione. La legge in questione, già nella sua versione originaria, prevedeva un riparto delle attività (e della relativa responsabilità) di protezione civile tra le diverse amministrazioni competenti, sulla base di una classificazione degli eventi calamitosi – in base alla gravità – in eventi di tipo a), b) e c) e prevedendo come componenti del Servizio nazionale le amministrazioni dello Stato, le regioni, le province, i comuni e le comunità montane(87). Concentrando l’attenzione sul ruolo degli enti locali, in base all’art. 15, il comune – al verificarsi di eventi di tipo a) ex art. 2 della legge – per mezzo del sindaco (qualificato autorità comunale di protezione civile) assume la direzione e il coordinamento dei servizi di soccorso e assistenza alle popolazioni colpite e provvede agli interventi necessari, dandone immediata comunicazione al prefetto e al Presidente della giunta regionale. Specificava, inoltre, il comma 4 che al verificarsi di calamità non fronteggiabili con i mezzi a disposizione del comune, il sindaco avrebbe potuto richiedere l’intervento di altre forze e strutture al prefetto. Quanto alle province, l’art. 13 della legge n. 225 si limitava a prevedere la partecipazione al Servizio nazionale di protezione civile “assicurando lo svolgimento dei compiti relativi alla rilevazione ed alla elaborazione dei dati interessanti la protezione civile, alla predisposizione di programmi provinciali di previsione e prevenzione e alla loro realizzazione”. Infine, l’art. 14 definiva il ruolo del prefetto, competente nella predisposizione del piano per fronteggiare l’emergenza su tutto il territorio provinciale anche sulla base del programma provinciale e prevedendo a livello operativo, al verificarsi di uno degli eventi di tipo b) o c), la competenza ad assumere la direzione unitaria dei servizi di emergenza a livello provinciale, coordinandoli con gli interventi dei sindaci interessati, ad adottare i provvedimenti necessari ad assicurare i primi soccorsi e a vigilare sull’attuazione – (86) Per gli altri compiti del prefetto in materia di soccorso e assistenza alle popolazioni colpite da calamità v. art. 14 del d.p.r. 66/1981. (87) Legge n. 225 del 1992, articolo 2. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 223 da parte delle strutture provinciali di protezione civile – dei servizi urgenti, anche di natura tecnica. La legge n. 225 ha prefigurato, dunque, un sistema fortemente policentrico, basato sul principio di adeguatezza, prevedendo di conseguenza una classificazione degli eventi in base alla gravità della calamità ma, allo stesso tempo, attribuendo la competenza a fronteggiare la situazione di crisi e incolumità derivante da questa all’ente interessato in maniera diretta, purché – appunto – in grado effettivamente di farvi fronte. A chiusura di questo sistema, l’art. 5 ha disciplinato la possibilità di dichiarare – al verificarsi degli eventi di tipo c) – lo stato di emergenza e di adottare per l’attuazione degli interventi di emergenza ordinanze in deroga alle disposizioni vigenti, attribuendo al prefetto tale potere di ordinanza, in qualità di delegato del Presidente del Consiglio dei Ministri o dell’allora Ministro per il coordinamento della protezione civile. Ciò che emerge, comunque, è un forte grado di partecipazione degli enti locali al servizio di protezione civile – in particolare del comune – tanto nell’attività di prevenzione che di predisposizione ed attuazione dei servizi di emergenza, e, allo stesso tempo, un forte ruolo di raccordo e coordinamento del prefetto, chiamato a prestare aiuto all’ente locale interessato dalla calamità qualora questi non riesca a garantire una risposta soddisfacente (assetto reso ancora più decentrato dal decreto legislativo n. 112 del 1998 – titolo III, capo VIII – che ha conferito agli enti territoriali la generalità delle funzioni in tale materia, mantenendo in capo allo Stato i compiti di indirizzo, promozione e coordinamento delle attività in materi di protezione civile, deliberazione e revoca – di intesa con le regioni interessate – dello stato di emergenza al verificarsi degli eventi di tipo c), di fissazione delle norme generali di sicurezza per le attività industriali, civili e commerciali). Salvo poche modifiche e integrazioni (da ultimo, operate con il decreto legge n. 59 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 100 del 2012) il Servizio nazionale di protezione civile poggia ancora oggi sui principi e sul modello sanciti dalla legge n. 225 del 1992 e dal d.lgs. 112 del 1998. In base alla Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 3 dicembre 2008, contenente gli indirizzi operativi per la gestione delle emergenze, a meno che gli eventi catastrofici annullino la capacità di reazione da parte del territorio, “la prima risposta all’emergenza […] deve essere garantita dalla struttura locale, a partire da quella comunale, preferibilmente attraverso l’attivazione di un Centro Operativo Comunale dove siano rappresentate le diverse componenti che operano nel contesto locale” (ex art. 1, comma 2). A livello provinciale, invece, in funzione dell’intensità e dell’estensione del fenomeno, nonché della capacità di risposta del livello locale e secondo il © Wolters Kluwer 224 LUCA ADDESSI modello adottato da ciascuna regione (in quanto la riforma del titolo V del 2001 ha reso la materia protezione civile di competenza legislativa concorrente, aprendo alla possibilità, per le regioni, di creare un proprio sistema di protezione civile, purché nel rispetto dei principi fondamentali della materia e della legislazione statale che interseca la materia), si attiva un Centro di coordinamento dei soccorsi, al cui interno sono rappresentati la Regione, la Prefettura-UTG e la Provincia, oltre che gli enti, le amministrazioni e le strutture operative funzionali alla gestione dell’emergenza. Inoltre, laddove il modello organizzativo regionale non indichi a quale autorità è attribuita la funzione di responsabilità del Centro di coordinamento dei soccorsi e non fossero vigenti appositi protocolli di intesa tra prefettura e provincia, la funzione si intende assegnata al prefetto in qualità di Rappresentante dello Stato sul territorio e responsabile per “a salvaguardia della vita e dei beni delle persone”, con il Presidente della provincia interessata che è comunque responsabile dell’immediata attivazione e dell’impiego delle proprie risorse, della cura delle problematiche concernenti la viabilità, le reti e le infrastrutture di servizi. Al verificarsi di un evento di tipo c), oltre al potere di dichiarare lo stato di emergenza e di esercitare il potere di ordinanza per l’attuazione dei soccorsi, viene altresì convocato – dal Capo del Dipartimento per la protezione civile – il Comitato operativo della protezione civile, al quale possono essere invitati a partecipare le autorità regionali e locali di protezione civile, con il compito di assicurare “la direzione unitaria e il coordinamento delle attività in emergenza, stabilendo gli interventi di tutte le amministrazioni e gli enti interessati al soccorso”, ex art. 3-ter della legge n. 401 del 2001. Il quadro normativo descritto prefigura un modello estremamente policentrico che a partire dalla legge n. 225 del 1992 e in parallelo con il processo di valorizzazione delle autonomie territoriali (perseguito prima con le c.d. riforme Bassanini degli anni ‘90 e successivamente con la riforma del titolo V della Costituzione) si è sviluppato da un lato, sulla base dei principi di sussidiarietà e di appropriatezza, partendo dalla considerazione che la protezione civile è una materia che si lega strettamente ad altre funzioni di competenza prettamente locale e come tale – a fronte anche del carattere dell’emergenza e della tempestività nel dover prestare i soccorsi ed i primi interventi – deve necessariamente prevedere il livello locale come prima risposta, dall’altro, sulla diffusione e sviluppo del modello organizzativo del coordinamento, incentrato sulla figura del prefetto, il quale, in qualità di rappresentate dello Stato sul territorio e di garante ultimo della vita e dei beni delle persone, interviene con i propri mezzi in favore dei comuni ove questi ne richiedano l’aiuto e, al verificarsi degli eventi che per natura ed estensione coinvolgano più enti, assicura il coordinamento dei servizi e dei soccorsi, assumendone anche la direzione unitaria. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 225 A testimonianza del ruolo sempre crescente svolto dagli enti locali nel sistema di protezione civile va detto delle modifiche alle quali è stato sottoposto negli anni l’art. 5 della legge n. 225 del 1992, concernente la possibilità di dichiarare lo stato di emergenza e di adottare ordinanze in deroga alle disposizioni vigenti, assoggettato a discipline sempre più stringenti e di dettaglio, specifiche, a voler sottolineare l’importanza del carattere dell’emergenza e della straordinarietà del potere di ordinanza, con il quale viene derogato al normale riparto delle competenze(88). 11.3. Il coordinamento e la leale collaborazione in tema di protezione civile Il processo di sviluppo del principio autonomistico e l’ascesa del principio di leale collaborazione hanno inciso anche sulla funzione prefettizia di controllo sugli organi degli enti locali, anche se – sicuramente – non in modo così incisivo come in materia di controllo sugli atti. A seguito della riforma del titolo V della Costituzione, le diverse forme di controllo sugli organi degli enti locali esercitate dal prefetto rimangono uno dei pochi esempi di controllo esterno esercitabile dallo Stato sulle autonomie territoriali e continuano ad essere disciplinate dagli artt. 141 e seguenti del d.lgs. n. 267/2001. Queste ultime, infatti, sono state ritenute compatibili con la situazione di equiordinazione stabilita dalla riforma costituzionale del 2001 sia sulla base dell’art. 120 Cost., che prefigura un intervento sostitutivo nei confronti degli enti locali al fine di far fronte ad esigenze oggettive di tutela dell’unità dell’ordinamento, che dell’art. 126 Cost., il cui presupposto per l’esercizio è la sussistenza di gravi violazioni di legge o atti contrari alla Costituzione che, in quanto tali, devono essere sanzionate. In sostanza, tali forme di controllo si fondano “sulla garanzia di ultima istanza della fun(88) Per ulteriori approfondimenti si rinvia a R. CANNIZZARO-D. PIANA, Il centro orizzontale, cit., pp. 104-126; con specifico riferimento al potere di ordinanza in materia di protezione civile si veda M. CACCIAGUERRA-M. URSO, Il potere di ordinanza in materia di protezione civile, in Ordinamento e attività istituzionali del Ministero dell’Interno, a cura di M.T. Sempreviva, Roma, Dike giuridica, 2013, pp. 478-489; sul Servizio nazionale di protezione civile, in generale, v. A. CACCAVONE-E. PITTARI, L’evoluzione del concetto di protezione civile nell’ambito della legislazione italiana, in Ordinamento e attività istituzionali del Ministero dell’Interno, a cura di M.T. Sempreviva, Roma, Dike giuridica, 2013 pp. 457-466; con specifico riferimento all’evoluzione del ruolo del prefetto nel Servizio nazionale di protezione civile, E. PITTARI-M. URSO, Il ruolo del prefetto nel sistema di protezione civile, in Ordinamento e attività istituzionali del Ministero dell’Interno, a cura di M.T. Sempreviva, Roma, Dike giuridica, 2013, pp. 467-477; per un inquadramento generale di sintesi, anche se risalente, si veda C. MEOLI, Prefetto (voce), in Dig. Pubbl., X, Torino, 1996, pp. 401-402. © Wolters Kluwer 226 LUCA ADDESSI zionalità della macchina amministrativa dinanzi a diritti e domande dei cittadini di servizi fondamentali”(89). Le procedure di scioglimento e sospensione dei consigli comunali e provinciali vengono differenziate in ordinarie, disciplinate dall’art. 141 del Tuel, e straordinarie, disciplinate dall’art. 143 dello stesso testo. Proprio perché l’oggetto del controllo sono organi democraticamente eletti e, dunque, investiti di una forte legittimazione, la procedura che ne porta allo scioglimento – qualora venissero riscontrati gli elementi e le anomalie in grado, ex artt. 141 e 143 Cost., di arrecare effetti gravi e pregiudizievoli per l’ordine pubblico – si presenta come momento particolarmente delicato del rapporto intercorrente tra autonomie ed amministrazione centrale. Si tratta di norme di chiusura dell’ordinamento – il cui intento principale è di preservare l’unità dell’ordinamento giuridico e garantire la tutela dell’ordine pubblico (le due storiche funzioni prefettizie) – i cui presupposti, ex art. 141, comma 1, lett. a), sono: a) il compimento di atti contrari alla Costituzione, che si basano sulla volontà di non osservare norme e principi fondamentali che regolano l’ordinamento(90); b) violazione di legge, consistenti in violazioni persistenti, oltre che gravi, presupponendo una continuità della condotta illecita anche a seguito di diffida; c) gravi motivi di ordine pubblico, consistente in comportamenti che “attentano alla sicurezza e alla quiete pubblica”(91), laddove per ordine pubblico si intende “il complesso di beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinaria e civile convivenza nella comunità nazionale, nonché la sicurezza delle istituzioni, dei cittadini e dei loro beni”(92). Ancora, lo stesso comma, alla lett. b) prevede lo scioglimento qualora sia impossibile assicurare il normale funzionamento degli organi e dei servizi. L’articolo 143 del Tuel detta la disciplina inerente lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso, evidenziando come, in merito ai presupposti sostanziali, è richiesta la presenza di concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare degli amministratori, oppure di forme di condizionamento degli stessi tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da comprometterne il buon andamento o l’imparzialità. Sul punto, è interessante notare come gli elementi appena citati non necessariamente debbano essere connotati da un carattere penale, in quanto è sufficiente che il collegamento con l’organiz- (89) R. CANNIZZARO-D. PIANA, Il centro orizzontale, cit., p. 59. (90) Ministero dell’Interno, circolare 7 giugno 1990, n. 17102/127/1. (91) Così Corte cost., sent. n. 40/1961. (92) D.lgs. n. 112/1998, art. 159, comma 2. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 227 zazione di stampo mafioso o similare sia tale da aver provocato una compromissione della capacità decisionale dell’ente e, quindi, della capacità di svolgere le proprie funzioni in conformità con l’interesse pubblico. Non a caso, nella relazione prefettizia che viene redatta dal prefetto ed inviata al Ministro dell’Interno, le informazioni provenienti da fonti giudiziarie contano quanto quelle provenienti dalle fonti amministrative. Lo scioglimento, dunque, può essere disposto non soltanto a fronte dell’appartenenza degli indiziati ad associazioni di tipo mafioso, ma anche in base alla constatazione che gli organi dell’ente versino in una situazione di condizionamento da parte di queste ultime(93). Nel sistema delineato dal precedente titolo V della Costituzione, al regime dei controllo sugli organi si affiancava un altrettanto stringente regime di controllo sugli atti, con i controlli esterni che assumevano carattere preventivo e tanto di merito quanto di legittimità. Il processo di sviluppo del principio autonomistico, culminato nella riforma del titolo V, ha portato la dottrina a ritenere espunti i controlli preventivi ed esterni sugli atti degli enti locali in quanto incompatibili con il nuovo assetto policentrico, ciononostante permangono ancora oggi – come visto – quelli sugli organi. Tale evenienza si spiega con l’importanza di assicurare, anche all’interno di un ordinamento a forte policentrismo istituzionale, controlli tesi a garantire “l’ordinato svolgimento della vita delle comunità locali”(94), il “buon funzionamento dell’amministrazione locale”(95) e la conformità dell’azione amministrativa all’interesse pubblico (e, dunque, il principio di legalità), con i quali va bilanciato il principio di autonomia. Ciononostante, dato che vanno ad incidere su organi elettivi, rappresentano misure “sanzionatorie” (oltre che preventive, come nel caso del controllo ex art. 143 del Tuel) da utilizzare come extrema ratio al fine di ripristinare la legalità. Quanto ai controlli sugli atti degli enti locali, nonostante la drastica riduzione dei controlli esterni seguita all’adozione della l. cost. n. 3/2001, il prefetto continua a svolgere un delicato ed importante ruolo di controllo con specifico riferimento al settore degli appalti e dei contratti stipulati dagli enti autonomi e a quello attinente la vita economico-finanziaria di questi ultimi. In merito al primo settore, rileva in primis l’art. 135 del Tuel, che autorizza il prefetto a richiedere ai competenti organi statali e regionali gli inter(93) Per un utile approfondimento sul punto, si rinvia a R. CANNIZZARO-D. PIANA, Il centro orizzontale, cit., pp. 47-55, mentre per la trattazione di un caso concreto di scioglimento degli organi dell’ente sula base di una comprovata situazione di condizionamento degli amministrati da parte di associazioni di stampo mafioso o similari alle pp. 55-79. (94) P. SAVARESE, I controlli esterni e le gestioni commissariali, in Ordinamento e attività istituzionali del Ministero dell’Interno, a cura di M.T. Sempreviva, Roma, Dike giuridica, 2013, pp. 589-620. (95) R. CANNIZZARO-D. PIANA, Il centro orizzontale, cit., pp. 51-52. © Wolters Kluwer 228 LUCA ADDESSI venti di controllo e sostitutivi previsti dalla legge qualora ritenga che esistano tentativi di infiltrazione di tipo mafioso in tali attività. Pertanto, il prefetto svolge un compito di attivazione di tali tipi di intervento statale e regionale – disciplinati rispettivamente dagli artt. 136 e 137 del Tuel – che si fonda sul ruolo storico di rappresentante generale del governo e, di conseguenza, di garante del buon andamento dell’amministrazione pubblica e dell’unità di indirizzo amministrativo. Le stesse considerazioni valgono per i controlli sugli atti in materia economico-finanziaria, sui quali è di recente intervenuto il legislatore statale con il decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 149, contenente “Meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni”, ed il decreto legge 10 ottobre 2012, n. 174, il quale – a fronte della congiuntura economica negativa e dell’esigenza di garantire i parametri economici e finanziari previsti dai trattati europei (in un ottica, peraltro, fortemente centralista e poco garantista del principio autonomistico) – è andato ad incidere sugli artt. 242 e seguenti del Tuel, prefigurando per il prefetto un ruolo di garante dell’equilibrio economico-finanziario degli enti locali. In base a queste modificazioni, il Tuel dispone che in presenza di enti locali strutturalmente deficitari o in situazione di dissesto finanziario, questi vengano assoggettati ad una serie stringente ed invasiva di controlli centrali sulle dotazioni organiche e sulle assunzioni di personale per verificarne la compatibilità finanziaria (ex art. 243, comma 1), e sulla copertura del costo di alcuni servizi, volti a verificare la compatibilità con tutta una serie di parametri di efficienza dettati dalla normativa (ex art. 243, comma 2)(96). Gli enti che si trovino nella situazione di dissesto finanziario, possono ricorrere – in alternativa alla dichiarazione di dissesto – alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale (ex artt. 243-bis, ter e quater) con apposita deliberazione consiliare e adozione, entro 60 giorni dall’adozione della prima delibera, del piano di riequilibrio finanziario pluriennale, contenente le misure correttive finalizzate al risanamento della gestione dell’ente e ala garanzia delle norme previste dal patto di stabilità. Qualora il consiglio dell’ente non deliberi il piano nel termine di 60 giorni, l’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 149/2011 incarica il prefetto a diffidare il consiglio dell’ente a deliberare tale atto entro un termine di 20 giorni, il quale, decorso infruttuosamente, comporta la nomina da parte del prefetto di un commissario ad acta per la deliberazione del dissesto e l’avvio della procedura di scioglimento ex art. 141 Tuel. Similmente, anche la deliberazione di dissesto finanziario è un atto obbligatorio per legge e la mancata adozione porta all’avvio, da parte (96) Con la previsione di una apposita sanzione pari alla perdita del’1% delle entrate correnti risultanti dal certificato di bilancio di cui all’art. 161 del Tuel, qualora gli enti in situazione di dissesto finanziario non abbiano rispettato i livelli minimi di copertura dei costi dei servizi. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 229 del prefetto, della procedura di scioglimento dell’organo consiliare dell’ente, ex art. 141 del Tuel, sempre sulla base del modello della previa diffida ad adempiere, proveniente però, in questo caso, dalle sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti(97). Le norme ivi descritte hanno configurato un sistema di controllo incentrato sulle sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti e sul prefetto, che diventano, dunque, i garanti della sana gestione economico-finanziaria degli enti locali. È, tuttavia, da rilevare che essendo le competenze esercitate da questi due organi molto invasive della sfera di autonomia degli enti locali ma indispensabili – data l’importanza di tutelare valori di fondamentale importanza dell’ordinamento – le due procedure esaminate sono state costruite sulla base del modello della diffida ad adempiere, previsto in Costituzione, non a caso, proprio per l’esercizio del potere sostitutivo ex art. 120 Cost., e quindi finalizzato a salvaguardare in extrema ratio quelle che sono le competenze costituzionali degli enti locali, nel rispetto del principio di leale collaborazione. Un ultimo punto da evidenziare riguarda lo sviluppo di strumenti di governance delle politiche di tutela della legalità che, come già anticipato in tema di ordine e sicurezza pubblica, segnano il passaggio da una logica di tipo top-down delle politiche pubbliche ad una logica in cui queste sono il frutto dell’intervento congiunto e “volontario” degli attori appartenenti ai diversi livelli istituzionali e quindi sono adattate alle specifiche esigenze del territorio di riferimento. Anche nel settore dei controlli sugli atti relativi ad appalti e contratti in generale infatti, sulla base dell’esperienza avviata con i patti per la sicurezza, si deve constatare lo sviluppo di strumenti pattizzi finalizzati ad assicurare la legalità delle procedure aventi ad oggetto i servizi, la costruzione di grandi opere e le infrastrutture, che si basano sul concetto di cooperazione orizzontale e quindi di parità tra le parti che vi fanno ricorso, in conformità al principio sistemico di leale collaborazione. Nello specifico, nel campo degli appalti pubblici di servizi e forniture finalizzati alla realizzazione di grandi opere o ingenti investimenti infrastrutturali è in costante aumento il ricorso alla sottoscrizione tra prefetture ed enti locali di protocolli di legalità finalizzati all’inserimento nei bandi di gara degli enti locali di clausole che vincolano ad una serie di stringenti obblighi informativi le imprese private che partecipano e riescono ad aggiudicarsi l’appalto. In sostanza, con la sottoscrizione del protocollo, l’ente locale si impegna ad inserire nel bando clausole che impegnano la società contraente (97) Per un maggiore approfondimento sulla normativa in materia di enti locali deficitari o dissestati, si rinvia a G. VERDE, Lo squilibrio finanziario degli enti locali, in Ordinamento e attività istituzionali del Ministero dell’Interno, a cura di M.T. Sempreviva, Roma, Dike giuridica, 2013, pp. 621-657. © Wolters Kluwer 230 LUCA ADDESSI aggiudicatrice ad accettare l’onere di comunicare alla prefettura i dati riguardanti tutte le imprese coinvolte nella realizzazione dell’opera, ossia, anche di quelle alle quali sono affidati opere e servizi minori e subappalti. L’obbligo si trasmette così a cascata anche alle imprese che intendono sottoscrivere contratti con la società che ha sottoscritto il protocollo. Tali protocolli operano all’interno di un sistema delineato in generale dalla legge 21 dicembre 2001, n. 443, “Delega al governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive”, dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, il c.d. codice dei contratti pubblici, e il decreto ministeriale 14 marzo 2003, che ha costruito un sistema di monitoraggio sulla costruzione delle grandi opere e sugli investimenti strutturali a doppio binario, in cui il coordinamento di questa attività è incentrato a livello nazionale sul Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle grandi opere – CCASGO, mentre a livello periferico sui prefetti, coadiuvati dai gruppi interforze (dei quali fanno parte i rappresentanti delle diverso forze dell’ordine, nello specifico, dalla polizia, dalla Dia, oltre che da rappresentanti delle amministrazioni periferiche competenti per i lavori pubblici). L’intento di queste norme è di creare un sistema di monitoraggio sugli appalti in funzioni prevalentemente antimafia fortemente coordinato, sulla base della creazione di un importante patrimonio informativo. Tramite i protocolli di legalità, infatti, i comuni decidono di prender parte all’instaurazione di un sistema di obblighi informativi finalizzato a creare un ingente flusso di dati e informazioni gestite dal prefetto e condiviso da questo con l’amministrazione centrale (nelle vesti del CCASGO) e con gli enti locali che sottoscrivono il protocollo. Pertanto, si configura come uno strumento attraverso il quale, in posizione di parità istituzionale e quindi su base volontaria, rappresentante del governo centrale e autonomie decidono di regolare assieme un settore delicato quale quello degli appalti, contribuendo su basi condivise e secondo modalità sinergiche alla tutela della legalità(98). I protocolli si inseriscono, dunque, nel novero degli strumenti di cooperazione orizzontale e di coordinamento che mostrano come, a seguito della riforma del titolo V della Costituzione del 2001 e dell’affermarsi dei principi di leale collaborazione e di pari dignità costituzionale degli enti costitutivi la Repubblica, il prefetto si ritrovi sempre più ad esercitare la sua funzione di rappresentante del governo e di garante dell’unità di indirizzo amministrati- (98) Per un ottimo approfondimento sull’importanza dei protocolli di legalità, anche in una prospettiva sociologica, si rinvia a R. CANNIZZARO-D. PIANA, Il centro orizzontale, cit., pp. 80-103, in cui viene anche riportato un interessante caso concreto di implementazione e analisi degli effetti di un protocollo di legalità. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 231 vo e dei principi unitari, in collaborazione con i diversi livelli istituzionali di governo. 12. Funzione prefettizia, amministrazione periferica dello Stato e principio autonomistico L’analisi fin qui svolta sull’evoluzione della funzione prefettizia, assieme a quella su poteri e attribuzioni del prefetto in relazione alle quattro macro aree di competenza individuate dalla dottrina classica, e sull’organizzazione delle prefetture (divenute, a seguito delle riforme amministrativa, prima UTG e successivamente prefetture-UTG), mostra come esista un filo storico indissolubile che lega l’istituto prefettizio all’ordinamento degli enti locali e al principio autonomistico, e non potrebbe essere diversamente. La funzione storica dell’istituto, infatti, è sempre stata quella di rappresentanza del governo centrale sul territorio e, di conseguenza, di garanzia dell’unità di indirizzo sia politico che amministrativo, in un’ottica di tutela della legalità dell’ordinamento. Tuttavia, proprio questa analisi mostra come tale funzione, nocciolo duro del ruolo prefettizio, abbia subito un processo evolutivo di adattamento all’evoluzione in senso pluralista dell’ordinamento. Se all’interno dello Stato unitario monista (e per molti decenni successivi all’adozione della Costituzione repubblicana) il concetto di tutela della legalità presupponeva un sistema caratterizzato da relazioni gerarchiche tra lo Stato e le autonomie territoriali, facendo si che gli ordini trasmessi dal vertice politico-amministrativo venissero implementati in modo uniforme su tutto il territorio nazionale (l’ordinamento, infatti, non riconosceva ampi margini di differenziazione normativa), con le riforme amministrative degli anni ‘90 prima e del titolo V della Costituzione dopo, si è assistito ad un autentico cambio di paradigma che ha portato a concepire la tutela delle istanze unitarie non più in chiave di uniformità, ma come il risultato dell’agire congiunto dei diversi enti costitutivi della Repubblica. Tale evoluzione è stato il frutto di un lento percorso iniziato già prima dell’adozione della legge costituzionale n. 3 del 2001, caratterizzato da alcuni importanti “tornanti”, per utilizzare un termine preso da un risalente studio sul tema(99) assai utile per descrivere il percorso di evoluzione continua. È così possibile individuare, di massima, quattro “periodi”, utili a delineare questo percorso di adattamento(100). (99) Ci si riferisce all’importante saggio di S. CASSESE, Centro e periferia in Italia. I grandi tornanti della loro storia, cit. (100) Tale capacità di adattamento del ruolo del prefetto è stata lucidamente rilevata da F. CUOCOLO, Il prefetto nello “Stato delle autonomie”, in Quad. reg., n. 3/1991, pp. 539 ss., il quale già prima della novella costituzionale del 2001 e delle riforme dette “Bassanini”, a fron- © Wolters Kluwer 232 LUCA ADDESSI Il primo va dagli anni pre-repubblicani ai primi anni successivi l’adozione della Costituzione ed è caratterizzato dalla presenza di un prefetto che svolge un forte ruolo di indirizzo, impulso e coordinamento del sistema locale. In tale fase, nonostante la presenza di altre amministrazioni periferiche dello Stato (che inizierà ad aumentare in modo crescente con il passare degli anni) il prefetto, in virtù degli incisivi poteri riconosciutigli, era in grado di porsi quale perno del sistema locale e principale interlocutore con le autonomie, le quali, dal punto di vista giuridico versavano in condizione di enti autarchici. Con il passare degli anni, diversi fattori hanno contribuito ad incidere sulla posizione e sul ruolo del prefetto(101) ma una decisa svolta si è avuta a partire dall’inizio degli anni settanta e l’inizio dell’esperienza regionalista. Con l’istituzione delle regioni ordinarie e l’avvio dei primi processi di trasferimento delle funzioni amministrative agli enti territoriali inizia una nuova fase in cui il prefetto vede moltiplicasi i centri decisionali sul territorio e, nonostante l’aumento dell’esigenza di disporre di efficaci strumenti di coordinamento richiesta dalla situazione, mettere in “discussione” il suo ruolo di amministrazione generale dalla crescita di un apparato periferico proprio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si venne così a configurare un dualismo tra prefetto e Commissario del Governo, sul quale finì con l’incentrarsi il sistema di relazioni con le regioni ed il relativo sistema di controllo su atti e organi, con conseguente duplicazione della funzione di coordinamento e complicazione del sistema. Un ulteriore periodo decisivo coincide con la riforma dell’ordinamento degli enti locali e l’insieme di interventi di riforma della pubblica amministrazione avviato a partire dai primi anni ‘90. Elemento di grandissima importanza in questa fase è stato l’avvio di un nuovo processo di sviluppo dei principi di autonomia e decentramento che, a partire dalla legge n. 142 del 1990 e passando per la legge n. 81 del 1993, fino ad arrivare alla legge di riforma amministrativa n. 59 del 1997 e ai suoi decreti delegati, realizzerà un te delle forti critiche mosse alla figura all’indomani della caduta della dittatura fascista e della nascita dello Stato democratico repubblicano, rilevava come il ruolo del prefetto fosse stato inevitabilmente coinvolto nei mutamenti istituzionali determinati dal passaggio da una forma di Stato ad un’altra, ritenendo come la figura non dovesse essere giudicata in se buona o cattiva per natura, ma – in quanto garante dell’interesse generale dello stato-comunità – in base ai principi dell’ordinamento che configurano l’interesse generale. (101) Tra questi è necessario annoverare: l’abbandono della prassi da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri di ricoprire anche la carica di Ministro dell’Interno, elemento che negli anni passati aveva decisamente contribuito a rafforzare la posizione del prefetto nei confronti delle altre amministrazioni periferiche; l’avvio di un forte processo di proliferazione di ulteriori amministrazioni periferiche, nonché di enti e amministrazioni pubbliche funzionali, soprattutto in campo economico, che hanno finito con l’assumere un’articolazione su base territoriale. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 233 nuovo assetto dell’amministrazione italiana, incentrata su amministrazioni territoriali dotate di forte legittimazione poste come baricentro amministrativo del nuovo sistema. Ma, cosa ancora più importante, il legislatore, per mezzo delle leggi Bassanini, lega il processo riformatore concernente le autonomie ad un disegno di portata più vasta, incentrato sulla ridefinizione anche l’amministrazione statale, in funzione del nuovo asseto autonomistico. Approccio che era del tutto mancato nei primi due processi di regionalizzazione. Il filo conduttore del processo riformatore degli anni novant è stato l’intento di creare – in risposta al potenziamento delle istanze autonomistiche – un forte centro in periferia, ossia di potenziare l’amministrazione periferica statale e, in particolare, la funzione di coordinamento. Al massivo trasferimento di funzioni amministrative a favore di regioni ed enti locali avrebbe dovuto corrispondere, dal punto di vista funzionale, una riduzione delle funzioni amministrative statali di gestione, onde evitare duplicazioni e sprechi e, dal punto di vista organizzativo, una forte riduzione degli apparati ministeriali centrali con rafforzamento (conseguente all’accorpamento delle diverse strutture) della capacità di governo dell’amministrazione periferica dello Stato. La soluzione, come già descritto, è stata la configurazione dell’Ufficio territoriale del governo. Infine, come ultima rilevante tappa del percorso di evoluzione del ruolo prefettizio va annoverata la riforma del titolo V della Costituzione, che segna allo stesso tempo uno spartiacque rispetto all’iter precedente. Con essa si apre una nuova fase in cui i rapporti tra centro e periferia – e, dunque, tra prefetture e autonomie territoriali – non sono più retti da un quadro costituzionale che favoriva un’interpretazione tesa a far coincidere l’ordinamento statale con quello repubblicano (finendo con il configurare il rapporto Statoautonomie in termini di subordinazione gerarchica) ma sui nuovi principi di pari dignità costituzionale e di leale collaborazione. Come è stato saggiamente rilevato, si apre una fase in cui la realizzazione dei valori e dei beni di portata costituzionale (come la garanzia dell’ordine e della sicurezza pubblica, oppure la tutela della legalità) non viene più assicurata da una catena di comandi che dal vertice si dispiega verso i territori in modo uniforme, bensì dall’intervento sinergico dei diversi livelli territoriali di governo, ciascuno titolare di attribuzioni volte al raggiungimento dell’obiettivo costituzionale. Proprio con tale assetto costituzionale di riparto dei poteri si spiega lo sviluppo di nuovi strumenti di cooperazione orizzontale, come i protocolli di legalità e i patti per la sicurezza. Tornando comunque al tema della connessione tra ordinamento delle autonomie e organizzazione delle prefetture-UTG, va detto che le soluzioni organizzative in tema di amministrazione periferica prefigurate dal d. lgs. n. 300/1999 apparivano potenzialmente idonee ad assicurare il passaggio da una logica di government ad una di governance nell’ideazione ed implemen- © Wolters Kluwer 234 LUCA ADDESSI tazione delle politiche pubbliche. L’attribuzione della titolarità dell’Ufficio territoriale del governo al prefetto, storico rappresentante del potere esecutivo sul territorio, e l’accorpamento della maggior parte delle amministrazioni periferiche (escluse quelle rientranti nell’orbita dei ministeri d’ordine) nella nuova struttura muovevano nella direzione di assicurare una maggiore coesione dell’amministrazione periferica statale e una maggiore capacità di coordinamento del prefetto su questa, facendo dell’UTG la struttura deputata a rappresentare la principale sede di raccordo interistituzionale in periferia, il perno dei rapporti con il sistema delle autonomie. Inoltre, a fronte di una realtà locale caratterizzata da un elevato numero di comuni di piccole dimensioni e da una scarsa propensione al ricorso a forme associative per l’esercizio congiunto delle funzioni amministrative, la scelta di configurare gli UTG su base provinciale appariva condivisibile, in quanto sarebbe stato poco realistico l’esercizio di attività di supporto ai piccoli comuni da parte di UTG regionali, probabilmente troppo distanti dalla realtà locale. Tuttavia, a causa delle resistenze e del rifiuto di alcuni ministeri a far confluire le proprie strutture periferiche nell’UTG, ha obbligato il legislatore a rivedere il disegno riformatore delineato dal d. lgs n. 300, pur conservando l’intento di fare del prefetto, coadiuvato dalle prefetture-UTG (così sono state infine denominate e le conosciamo oggi), il garante della funzione di coordinamento amministrativo, nonché il garante della leale collaborazione nei rapporti con il sistema delle autonomie. 13. Le recenti tendenze in materia di riforma del sistema delle autonomie e riforma della pubblica amministrazione Arrivati a questo punto, è necessario sottolineare due punti di rilevante importanza: anzitutto, l’analisi del processo di implementazione della “Repubblica delle autonomie” delineata dal titolo V riformato, evidenzia non soltanto uno scarso impegno delle legislature susseguitesi negli ultimi anni ad attuare il disegno autonomistico, ma addirittura la messa in atto, specialmente da parte degli ultimi legislatori, di modifiche dell’ordinamento autonomistico di stampo “neocentralistico”; in secondo luogo, così come in passato, in risposta ad una nuova riforma del titolo V della Costituzione e a interventi legislativi sul sistema delle autonomie locali, è da rilevare l’inserimento nell’agenda politica del tema della riforma dell’amministrazione periferica dello Stato. © Wolters Kluwer 235 IL RUOLO DELLE PREFETTURE 13.1. La difficile implementazione l’abbandono del modello del disegno autonomistico… e Negli anni immediatamente successivi l’adozione delle leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001, parte maggioritaria della dottrina non aveva mancato di evidenziare come il modello autonomistico prefigurato dal nuovo titolo V rappresentasse un esempio di eccezionale potenziamento delle istanze autonomistiche all’interno di uno Stato plurale si, ma comunque “regionale” e non federale(102). La riforma infatti, attraverso il riconoscimento di una estesa potestà legislativa regionale (simboleggiata dall’inversione del criterio della residualità, operante ora a favore delle regioni) e l’affermazione di un sistema amministrativo del quale gli enti locali, soprattutto i comuni, ne erano il baricentro, aveva aperto la strada a enormi possibilità di differenziazione dell’ordinamento. Lo stesso ampliamento dell’autonomia statutaria e normativa degli enti territoriali, attraverso i quali poter dettare norme sulla propria organizzazione interna e sul funzionamento, si prefiggeva l’obiettivo di incoraggiare lo sviluppo di modelli differenti di amministrazione. In sostanza, come ebbero a sottolineare illustri studiosi, il nuovo titolo V si riappacificava con la finalità originaria dell’art. 5 Cost., che non era di tutelare oltremodo l’unità giuridica del sistema attraverso il ricorso al principio di uniformità, bensì di valorizzare il più possibile il ruolo delle autonomie regionali e locali(103), il tutto – però – all’interno di una cornice unitaria, che fissava alcuni elementi di unificazione. Sul piano legislativo rilevano, in particolare, materie come la determinazione, da parte dello stato, dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (ex lett. m, comma 2, art. 117 Cost.), la disciplina dei principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica (ex comma 3, art. 117 Cost.), mentre sul piano amministrativo e dei rapporti con il sistema delle autonomie, rispetto a quanto detto in precedenza, si ricorda in particolare la possibilità di ricorrere ad interventi sostitutivi e quella di prevedere controlli esterni ma “collaborativi”, per la salvaguardia del sistema(104). (102) Secondo G.C. DE MARTIN, Le autonomie regionali tra ambivalenze, potenzialità, involuzioni e privilegi, in Scritti in onore di Antonio D’Atena (in corso di pubblicazione), “l’obiettivo ambizioso di questa riforma è stato quello di coniugare compiutamente il principio autonomistico sul piano sia politico e normativo che amministrativo e finanziario, sviluppando nel modo più ampio possibile la fisionomia policentrica della Repubblica”. (103) Sul punto, C. ESPOSITO, Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, Cedam, 1954, pp. 67 ss. (104) Così G.C. DE MARTIN, La Repubblica delle autonomie: un percorso ancora incompiuto (anche per ragioni culturali), in Studi in onore di Aldo Loiodice, Bari, Cacucci editore, 2012, pp. 365 ss. © Wolters Kluwer 236 LUCA ADDESSI Tuttavia, all’entusiasmo dei più convinti autonomisti seguì da subito l’inizio di un periodo di profonda incertezza circa il regime delle nuove regole, testimoniato dal simultaneo sviluppo del contenzioso costituzionale. Le nuove norme sul riparto costituzionale delle competenze sono risultate, infatti, poco chiare e per certi aspetti lacunose e di difficile interpretazione, tanto sul versante legislativo quanto su quello amministrativo, finendo con l’assumere un ruolo di supplenza, comunque poco gradito(105). È chiaro che alla stabilizzazione di un simile quadro incerto e conflittuale ha contribuito senza ombra di dubbio la mancanza di adeguate sedi di raccordo, soprattutto a carattere legislativo, in grado di agire come camere di compensazione e di riflessione congiunta sulle iniziative da porre in essere, riducendo il contenzioso dinanzi la Corte(106). A tali notazione, è da aggiungere la scarsa propensione mostrata negli anni dal legislatore nell’attuare il disegno autonomistico(107). All’incertezza e alla mancata attuazione è seguita, infine, una fase caratterizzata da interventi del legislatore fortemente “neocentralistici” e di dubbia legittimità costituzionale, con i quali, nella convinzione che le risorse vengano gestite meglio dal centro piuttosto che dalle autonomie, si è tentato di incidere – in funzione di contenimento dei costi e di garanzia della sana gestione finanziaria – sull’organizzazione e sul funzionamento delle autonomie territoriali(108). Senza voler entrare troppo nel dettaglio delle misure (105) Si v., G.C. DE MARTIN, Il disegno autonomistico disatteso tra contraddizioni e nuovi scenari problematici, in Istituzioni del federalismo, n. 1/2014; G.C. DE MARTIN, Il sistema delle autonomie dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Scritti in onore di Giuseppe Palma, Torino, Giappichelli, 2011 (106) Ha inciso in tal senso la mancata attuazione dell’art. 11 della l. cost. n. 3/2001, che prevedeva la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali ai lavori della Commissione parlamentare per le questioni regionali. La mancata attuazione di tale precetto ha finito col far ricadere il ruolo di raccordo legislativo tra Stato e autonomie sul sistema delle Conferenze, il quale, tuttavia, non si è dimostrato all’altezza del compito; sul punto, si rinvia, in particolare, a A. STERPA, Il sistema delle Conferenze e l’attuazione del Titolo V della Costituzione, in I processi di attuazione del federalismo in Italia, a cura di B. Caravita, Milano, Giuffrè, 2004, pp. 309 ss. (107) In tale ottica, sono seguite alla riforma del 2001 soltanto la legge delega n. 131/2003 (peraltro rimasta anch’essa largamente inattuata), nonché la legge n. 42/2009 in materia di attuazione dell’art. 119 Cost., che oltretutto hanno dettato principi non sempre del tutto coerenti con il quadro autonomistico fissato in Costituzione. Per i rilievi critici, si rinvia a M. DI FOLCO, La garanzia costituzionale del potere normativo locale. Statuti e regolamenti locali nel sistema delle fonti fra tradizione e innovazione costituzionale, Padova, Cedam, 2007, per la prima legge, mentre a G.C. DE MARTIN, Le autonomie locali: problemi e prospettive, in www.amministrazioneincammino.it, e S. SCOZZESE-F. PIZZETTI-V. NICOTRA (a cura di), Il federalismo fiscale, Roma, Donzelli, 2009, per la legge n.42. (108) Si veda, su tutti, V. ONIDA, Le cause profonde della crisi del regionalismo, in Le Regioni, n. 4/2012, p. 796; G. GARDINI, Le autonomie ai tempi della crisi, in Istituzioni del federalismo, n. 3/2001, pp. 457 ss. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 237 adottate dal legislatore statale(109), definite dai più con il termine “legislazione della crisi”, si può dire che si è andati sempre più verso una compressione dell’autonomia finanziaria e statutaria degli enti territoriali (con costanti riduzioni dei trasferimenti e norme incidenti sull’organizzazione e sull’esercizio delle funzioni di questi), un aumento dei controlli esterni sugli atti delle autonomie (con specifico riguardo alla materia economicofinanziaria) fino ad arrivare alla legge 7 aprile 2014, n. 56 contenente “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”, che ha finito col ridimensionare fortemente i poteri e le funzioni delle province e a prevederne la configurazione di enti di secondo grado, con organi eletti dai sindaci dei comuni ricompresi nel territorio provinciale(110). In conclusione, va detto dell’iniziativa di riforma costituzionale avviata dall’attuale legislatura, che in riferimento al titolo V della Costituzione si muove nella direzione di rafforzare la potestà legislativa esclusiva statale e di abolire decostituzionalizzare le province, eliminando ogni tipo di riferimento all’ente di area vasta. 13.2. L’art. 7 del ddl S.1577 e la riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato. Quali prospettive per le prefetture-UTG Si è voluto dare traccia, anche se per linee generali, del processo in itinere di profonda revisione dell’ordinamento delle autonomie territoriali per sottolineare ancora una volta il legame inscindibile tra queste ultime e la figura del prefetto, tra territorio ed esercizio della funzione prefettizia di rappresentanza del governo. All’instaurazione, il 22 febbraio 2014, del “Governo Renzi” è seguita una dichiarazione programmatica di quest’ultimo consistente in 44 punti/idee, firmata dal Presidente del Consiglio e dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione datata 30 aprile 214, con l’intento di (109) Per riferimenti più puntuali, che purtroppo non possono essere approfonditi nel presente lavoro, si rinvia a L. VANDELLI, Sovranità e federalismo interno: l’autonomia territoriale all’epoca della crisi, in Le Regioni, n. 5-6/2012, pp. 845 ss.; F. PIZZETTI-A. RUGHETTI,, Il nuovo sistema degli enti territoriali dopo le recenti riforme, Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli editore, 2012; G. GARDINI, Le autonomie ai tempi della crisi, cit., pp. 457 ss.; C. TUBERTINI, La razionalizzazione del sistema locale in Italia: verso quale modello?, in Istituzioni del federalismo, n. 3/2012, pp. 695 ss.; S. MANGIAMELI, Crisi economica e distribuzione territoriale del potere politico, in www.associazioneitalianacostituzionalisti.it, 18 ottobre 2013. (110) Sul punto, si rinvia a G.C. DE MARTIN, Appunto per audizione del Prof. Gian Candido de Martin sul ddl 1542, I Commissione Camera dei deputati, 23 ottobre 2013, in www.amministrazioneincammino.it, oppure al testo dell’audizione su A.S.1212, tenuta presso il Senato della Repubblica e reperibile sul sito istituzionale, www.senato.it. © Wolters Kluwer 238 LUCA ADDESSI sottoporla a discussione. Nello specifico, la dichiarazione prevedeva al punto n. 28 la riorganizzazione della presenza dello stato sul territorio e la riduzione delle prefetture a non più di quaranta (con l’intento di mantenerle nei capoluoghi di regione e nelle zone più strategiche per la criminalità organizzata). In un secondo momento è stato presentato il disegno di legge delega S.1577 su “Riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, del quale è centrale, per il tema fin qui trattato, l’art. 7. La disposizione delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per modificare la disciplina della Presidenza del Consiglio dei ministri, dei ministeri, delle agenzie governative nazionali e degli enti pubblici non economici nazionali, dettando quali principi e criteri direttivi valevoli sia per l’amministrazione centrale che periferica: la riduzione degli uffici e del personale destinati ad attività strumentali e rafforzamento degli uffici che erogano servizi ai cittadini e alle imprese; possibilità di gestione unitaria dei servizi strumentali attraverso la costituzione di uffici comuni. Mentre, tra i principi e criteri direttivi valevoli soltanto per le prefetture-UTG sono da annoverare: razionalizzazione della rete organizzativa e revisione delle competenze e delle funzioni attraverso la riduzione del numero secondo una serie di criteri attinenti l’estensione territoriale, le caratteristiche del territorio, le dinamiche socio-economiche, la criminalità e gli insediamenti produttivi; la conseguente trasformazione della prefettura-UTG in Ufficio territoriale dello Stato – UTS e confluenza in quest’ultimo di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni civili dello Stato, facendone l’unico punto di contatto tra amministrazione periferica dello stato e cittadini; attribuzione al prefetto della responsabilità dell’erogazione dei servizi ai cittadini e della funzione di coordinamento dei dirigenti degli uffici facenti parte dell’Ufficio territoriale dello Stato; individuazione della dipendenza funzionale del prefetto in relazione alle competenze esercitate. L’intento alla base dei principi e dei criteri direttivi appena richiamati è di rilanciare l’idea di un modello di Ufficio territoriale del governo quale unico interlocutore con il sistema delle autonomie, se non addirittura di rafforzarlo. Se il d.lgs n. 300/1999 nella sua formulazione originaria escludeva a priori l’accorpamento nell’UTG di numerose amministrazioni periferiche (in particolare, dei ministeri d’ordine e delle strutture delle finanze, del tesoro, della pubblica istruzione, dei beni e delle attività culturali), l’art. 7 del disegno di legge delega parla di confluenza nell’UTS di tutte le amministrazioni periferiche civili dello Stato. Ora, a parte la riflessione circa l’applicabilità del termine “civile” ad alcune amministrazioni quali forze di polizia civili o vigili del fuoco, la disposizione di principio si pone come passo avanti rispetto alla confluenza prospettata a suo tempo dall’art. 11 del d.lgs. n. 300, anche perché in questo ca- © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 239 so, la confluenza potrebbe riguardare anche gli enti pubblici non economici, quali l’Inps, l’Inail, l’Aci. Su questo punto, va detto che la relazione introduttiva, nel riferirsi all’art. 7 prevede l’accorpamento delle strutture periferiche di questi enti nell’UTS, cosa che poi viene tralasciata nel testo del ddl. L’analisi della disposizione sembra rivelare l’intento del legislatore di fare dell’UTS un ente chiamato ad erogare servizi “amministrativi” e che si presenta come unico punto di contatto per il cittadino con l’amministrazione statale. A parte queste prime considerazioni, vi è comunque da dire che, come per il processo di riforma degli anni passati, il successo o meno dell’azione di accorpamento delle amministrazioni periferiche e di creazione dell’UTS si giocherà sulle modalità attraverso le quali si darà attuazione al principio. Il d.lgs. n. 300, infatti, rimise l’azione di riorganizzazione agli stessi Ministeri, che avrebbero dovuto provvedere a far confluire le proprie strutture periferiche nell’UTG attraverso regolamenti di delegificazione. La previsione di questo strumento era giustificato dalla necessità di assicurare flessibilità al processo di riforma, dotando le amministrazioni centrali di strumenti attraverso i quali poter intervenire pro tempore a seconda delle esigenze. Tuttavia, alcuni Ministeri non adottarono detti regolamenti di delegificazione, altri, se lo fecero, ne approfittarono addirittura per potenziare le proprie strutture periferiche, aumentando le direzioni generali. Pertanto, forse sarebbe opportuno procedere all’azione di confluenza direttamente tramite legge. Quanto alla dimensione territoriale dei futuri UTS, al momento non si può dire se avrà seguito l’intento di portare il numero delle prefetture a 44, ciò che è certo è che si punta all’abbandono della scala provinciale. I criteri formulati nel disegno di legge delega sono abbastanza vari, andando dalla presenza di insediamenti produttivi e dalle dinamiche socio-economiche alla criminalità, passando per l’eventuale presenza della città metropolitana (oltre ai criteri classici come l’estensione territoriale, la popolazione residente e le caratteristiche del territorio), e anche se sono tutti rilevanti, in quanto connessi alle funzioni esercitate dalle attuali prefetture, non appare chiaro come questi verranno combinati tra di essi, al fine di ottenere un numero minore di UTS rispetto a quello degli attuali UTG. Ci si limita a ricordare che nel processo di riforma avviato nel 1999, dal dibattito era emersa l’opportunità di conferire agli UTG una scala provinciale in quanto, dovendo questi esercitare attività di supporto alle autonomie locali ed essendo la realtà comunale italiana caratterizzata da un elevatissimo numero comuni piccoli, un ufficio territoriale a scala regionale sarebbe potuto risultare eccessivamente distante. Sotto questo profilo, il principio in esame pare conciliarsi con gli interventi normativi volti ad obbligare tali piccoli comuni ad associarsi. Un ultimo aspetto di primaria importanza da evidenziare è l’implementazione del modello di coordinamento e riporto che si intende realizza- © Wolters Kluwer 240 LUCA ADDESSI re nell’ambito dell’UTS. Il d.lgs. n. 300 non aveva dettato principi al riguardo e l’intervento attuativo aveva previsto un potere di coordinamento del prefetto nei confronti dei dirigenti delle amministrazioni periferiche confluite nell’UTG, da esercitarsi però in base alle direttive generali emanate – oltre che dal Presidente del Consiglio dei Ministri – dai singoli Ministri, prefigurando un rapporto di dipendenza funzionale del prefetto da questi ultimi. Sul punto, va detto anche che il disegno di legge delega mantiene fermo il modello della dipendenza funzionale stabilendo che dovrà essere specificata. Dunque, si potrebbe ipotizzare o un modello in cui il prefetto ha un potere gerarchico sugli uffici facenti parte dell’ex prefettura e uno di coordinamento nei confronti degli altri uffici confluiti, da esercitare però nell’ambito delle direttive del presidente del Consiglio e degli altri ministri (modello che ricalca quello delle attuali prefetture-UTG), oppure un modello “forte” in cui il prefetto, seppur sottoposto alle direttive dei singoli ministeri, ha potere gerarchico su tutti gli uffici confluiti nell’UTS, potendo ipotizzare – a tal punto – un riporto gerarchico del prefetto e dell’UTS alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Come ultima notazione sul coordinamento nei confronti delle strutture che confluiranno nell’UTS, in base ai principi contenuti nel ddl di delega, vi è la possibilità di prevedere la gestione unitaria dei servizi strumentali (ex lett. a, comma 1, art. 7), cosa che potrebbe avvenire creando un apposito ufficio che fornisca i servizi strumentali comuni a tutti gli uffici dell’UTS, posto però sotto la dipendenza gerarchica del prefetto. 14. In conclusione. Seppure in misura più contenuta rispetto al passato, la ripresa del dibattito sul tema dell’organizzazione dell’amministrazione periferica dello Stato, della quale il prefetto da sempre rappresenta il perno, è un effetto dell’acceso dibattito che si è sviluppato negli ultimi anni in tema di autonomie e delle recenti iniziative legislative. Nel corso dell’analisi fin qui svolta si è potuto infatti notare l’indissolubile nesso che lega prefetto e autonomie locali, dovuto all’esercizio da parte dell’istituto prefettizio, fin dalle sue origini, della sua funzione di rappresentanza generale dello Stato sul territorio, che lo portava ad essere amministrazione dello Stato centrale ma situata sul territorio e chiamato ad esercitare le proprie funzioni interagendo con le autonomie locali. Circostanza che nel corso della storia ha sempre fatto si che a modifiche dell’ordinamento degli enti locali siano quasi sempre seguite riorganizzazioni, o almeno ipotesi, dell’istituto, con i poteri che finivano o per essere rivisitati o addirittura – in assenza di interventi normativi in tal senso – con l’adattarsi in via autonoma alla nuova cornice normativa. © Wolters Kluwer IL RUOLO DELLE PREFETTURE 241 Il principale risultato del percorso evolutivo che ha subito la funzione prefettizia di rappresentanza generale del governo sul territorio – e che si lega in modo stretto al processo di sviluppo del principio autonomistico – è l’adattamento al principio di leale collaborazione. Si è potuto vedere, infatti, come da una situazione c.d. “tutoria” del prefetto nei confronti degli enti locali si sia passati, oggi, ad un sistema in cui i rapporti tra Stato e autonomie devono essere improntati al rispetto del principio di leale collaborazione e il prefetto – proprio perché rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie – ne è diventato il garante. Tale principio, oltre a rappresentare il cardine dell’esercizio della funzione di rappresentanza generale ha altresì finito col pervadere anche l’esercizio delle altre funzioni del prefetto di amministrazione civile, di ordine e sicurezza e di protezione civile, e ne è diretta testimonianza la crescita del ricorso a strumenti di cooperazione orizzontale per l’elaborazione e l’implementazione delle politiche che – per i diversi aspetti che trattano – vedono il coinvolgimento di più attori istituzionali facenti capo a diversi livelli di governo, oltre che la configurazione dei poteri e degli interventi sostitutivi in chiave di extrema ratio, in funzione di chiusura dell’ordinamento. Sul punto è stato rilevato come il principio di leale collaborazione, se sul fronte della sua applicazione “a monte”, ossia al procedimento di formulazione delle leggi, non ha ricevuto attuazione, è stato invece valorizzato sul piano dell’applicazione “a valle”, ossia alla definizione delle concrete modalità di esercizio delle funzioni e dei procedimenti diretti all’emanazione dei provvedimenti amministrativi. Infatti, laddove le leggi sono chiamate a disciplinare ambiti materiali in cui le competenze dei diversi livelli di governo si intrecciano o si sovrappongono, sono vincolate, in virtù della leale collaborazione, a prevedere necessariamente strumenti collaborativi per la fase di attuazione amministrativa(111). A seguito della riforma costituzionale del 2001, il principio di leale collaborazione ha finito con l’operare, fondamentalmente, a livello amministrativo, trovando nell’istituto prefettizio – configurato normativamente come perno dell’amministrazione periferica statale e dunque del sistema di rapporti tra centro e periferia – un interlocutore privilegiato e, oltretutto, disponibile a valorizzarlo. (111) M. MANCINI, La resistibile ascesa, l’inesorabile declino e l’auspicabile rilancio del principio di leale collaborazione, in Le Regioni, n. 5-6/2013, pp. 972 ss. © Wolters Kluwer ALESSANDRO SIBILIA LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO IN ITALIA E IN ALCUNI PAESI EUROPEI. ANALOGIE E DIFFERENZE CON LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL COMUNE SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Le funzioni di amministrazione generale del prefetto. – 3. L’evoluzione delle funzioni; coordinamento istituzionale. – 3.1. Sicurezza pubblica. – 3.2. Immigrazione. – 3.3. Prospettive di riforma. – 4. Le funzioni di amministrazione generale del comune. – 5. Cenni sull’amministrazione locale in Europa. – 5.1. Modelli di amministrazione locale. – 5.2. Inghilterra. – 5.3. Francia. – 5.4. Prefetto francese.–-6. Conclusione. 1. Introduzione Nel sistema giuridico italiano sono due le amministrazioni che rientrano all’interno della categoria della c.d. “amministrazione generale”: il Prefetto a livello di amministrazione statale periferica ed il Comune a livello di amministrazione locale. Il Prefetto è un organo a competenza generale che rappresenta, in ambito Provinciale, il Governo nella sua unità; in quanto tale, è titolare dell'Ufficio Territoriale del Governo (U.T.G.), struttura cui sono state attribuite tutte le funzioni esercitate a livello periferico dallo Stato, fatta esclusione per quelle relative ad alcune Amministrazioni espressamente individuate dal decreto legislativo del 30 luglio 1999 numero 300 (Affari Esteri, Giustizia, Tesoro, Finanze, Pubblica Istruzione, Beni e Attività Culturali(1)). Il Prefetto è investito di una molteplicità di competenze, che debbono essere inquadrate nella logica unificante della funzione di rappresentanza del governo nella Province e nel carattere generale del campo di attribuzione propria del Prefetto. Tale considerazione trova puntuale riscontro nel corpus normativo riguardante il Prefetto, caratterizzato da varie diposizioni sparse, spesso anche risalenti, rispetto alla norma fondamentale dell’articolo 19 del (1) Voce il Prefetto, sito ministero dell’Interno. © Wolters Kluwer 244 ALESSANDRO SIBILIA testo unico delle leggi comunali e provinciali (Regio Decreto 3 Marzo 1934 numero 383) il quale si apre con l’enunciazione della rappresentanza Prefettizia del potere esecutivo a livello periferico(2). Sulla base di tale assunto, nella categoria dell’amministrazione generale possono inquadrarsi quelle competenze Prefettizie accomunate dalla logica unificante della funzione di rappresentanza del governo nella Province spettante al Prefetto. Un approccio siffatto trova riscontro nella nuova dimensione acquisita dalla prefettura come ufficio territoriale del governo, che induce a procedere all’illustrazione di dette attribuzioni riunendole appunto nella categoria onnicomprensiva dell’amministrazione generale(3). Sull’altro versante, bisogna premettere che nella generalità degli ordinamenti statali è ricorrente la previsione del Comune come l’ambito della collettività territoriale di base in cui si riparte il territorio e la collettività nazionale e come l’organismo o l’ente preposto alla cura delle esigenze comuni alla collettività e al territorio medesimo(4). La posizione di particolare pregio che, a seguito della riforma del Titolo V, caratterizza i Comuni nell’ordinamento repubblicano può essere colta agevolmente se si volge lo sguardo al tema delle funzioni amministrative. L’accoglimento dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza nel nuovo testo dell’articolo 118 Cost comporta, infatti, che il sistema amministrativo italiano debba oggi essere ricostruito essenzialmente dal basso, con la conseguenza che l’attribuzione di competenze a livelli di governo diversi da quello comunale rappresenta opzione tendenzialmente residuale, praticabile esclusivamente sulla base di esigenze di esercizio unitario. Trattasi, peraltro, di un approccio non del tutto innovativo in quanto assunto dal legislatore statale, ancor prima della riforma del titolo V, sia in sede di disciplina dell’ordinamento delle autonomie locali ( a partire dalla legge 142/1990 fino al Dlgs 267/2000), sia in sede distribuzione delle funzioni amministrative (con specifico riferimento alla legge 15 marzo 1997 numero 59)(5). Che gli enti territoriali dovessero essere considerati come enti tendenzialmente a competenza generale, capaci di interpretare la pluralità delle istanze provenienti dai contesti sociali propri delle collettività residenti sul territorio, è un assunto largamente condiviso nel corso della storia dell’amministrazione locale dell’unità unitaria(6). A livello di amministrazione comunale si è assistito, a partire dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, ad una profonda trasformazione nel modo di intendere la “generalità” dell’amministrazione locale: la quale, ori(2) Meoli C., Voce Prefetto, Digesto delle discipline pubblicistiche, 1996 Utet Torino. (3) Meoli C., Voce Prefetto e prefettura in “diritto on-line” Treccani, 2012. (4)Pastori G., Voce Comune, Digesto delle discipline pubblicistiche, 1996, Utet, Torino. (5) AAVV, Il governo locale nella transizione federale, Editrice Cel, 2009, Foggia, pag 91. (6) Meloni G., L’amministrazione locale come amministrazione generale, Roma, Luiss University Press, 2005, pag 1. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 245 ginariamente percepita alla stregua dell’idoneità di quest’ultima a farsi carico di tutti compiti concernenti le collettività di riferimento, assumerebbe oggi un significato ben più ampio ricomprendendo altresì tutte le funzioni che, pur non attinenti ad interessi esclusivamente locali, si presterebbero tuttavia alla localizzazione in base ai principi (ormai costituzionalizzati) di sussidiarietà e adeguatezza. In altri termini la stella polare dei processi allocativi sarebbe rappresentata non più (o non solo) dal criterio soggettivo dell’interesse, bensì da quello oggettivo dell’adeguatezza, in modo tale che alla tendenziale capacità degli enti territoriali autonomi di occuparsi della pluralità indefinita dei fini riconducibili ai bisogni e alle esigenze delle comunità, fa seguito una più ampia caratterizzazione dei livelli locali dell’amministrazione chiamati ad assumere tutte le funzioni esercitabili adeguatamente al corrispondente livello territoriale(7). Ne discende, con tutta evidenza, l’avvento di un modello di amministrazione innovativo segnato dall’elemento della prossimità ai cittadini a prescindere dal livello dell’interesse, secondo una prospettiva che riunifica in una Comune struttura la tradizionale partizione della sussidiarietà in una dimensione verticale ed in una orizzontale. Il lavoro che si presenta, tenta di offrire gli elementi che sembrano più significativi per analizzare il sistema di riparto delle competenze amministrative generali del Comune e del Prefetto. 2. Le funzioni di amministrazione generale del prefetto Il concetto di amministrazione generale evoca quello di Amministrazione civile, la più antica tra le amministrazioni del Dicastero dell’Interno, quella degli Affari civili(8). La missione dell’amministrazione generale, affidata al Corpo Prefettizio, consiste nell’attuare le politiche della sicurezza, della difesa e della protezione civile, della garanzia delle libertà civili, del sostegno e del supporto di ogni autonomia territoriale e funzionale, della tutela del funzionamento della democrazia nelle sue varie espressioni. Attuare le politiche significa svolgere specificamente un’attività di coordinamento e di raccordo, di indirizzo e di armonizzazione, di informazione e comunicazione, di semplificazione e di articolazione, il tutto per offrire coesione a ciò che è frammentato. L’intera amministrazione dell’interno e il sistema Prefettizio, in primis, sono chiamati a fare sintesi. I Prefetti devono avvertire il bisogno di fare rete con la loro presenza omogenea e multiscopo su tutto il territorio nazionale, svilup- (7) Meloni G., L’amministrazione locale come amministrazione generale, Roma, Luiss University Press, 2005, pag. 4. (8) Mosca C., Prefazione a Il Prefetto della Repubblica tra Istituzioni e Società, Raffaele Lauro e Vincenzo Madonna, Maggioli editore, Sant’Arcangelo di Romagna,2005, pag. 16. © Wolters Kluwer 246 ALESSANDRO SIBILIA pando da una parte il principio di sussidiarietà orizzontale così vitale in una società poliarchica e plurale e dall’altra parte in maniera da rendere viva una strategia di indirizzo, di raccordo e di stimolo dei terminali di rete costituiti proprio dai Prefetti, inviati in sede dal Governo a svolgere la loro missione istituzionale. La vocazione generalista va allora esercitata sul territorio e al centro in modo da sviluppare, da una parte il principio di sussidiarietà orizzontale così vitale in una società complessa multi reticolare e dall’altra in maniera da rendere viva una strategia di indirizzo, di raccordo e di stimolo dei terminali di rete costituiti proprio dai Prefetti inviati in sede dal governo a svolgere la loro missione istituzionale(9). Tra le funzioni ricomprese nell'area dell'amministrazione generale vi sono le attività relative alla mediazione nelle vertenze di lavoro ed alla garanzia dei servizi pubblici essenziali, al riconoscimento delle persone giuridiche, alla concessione dello status di cittadino italiano, all'irrogazioni di sanzioni amministrative per infrazioni depenalizzate ed in materia di circolazione stradale. Il Prefetto è un organo periferico dell'Amministrazione statale con competenza generale e funzioni di rappresentanza governativa a livello Provinciale. Il Prefetto: rappresenta il governo a livello provinciale; esercita tutte le funzioni dell'amministrazione periferica dello Stato non espressamente conferite ad altri Uffici; sovrintende alle residue funzioni amministrative esercitate dallo Stato, coordinandole con quelle esercitate dagli Enti locali, direttamente o attraverso la presidenza della Conferenza permanente dei dirigenti degli Uffici statali; vigila sulle Autorità amministrative operanti nella Province e vi si sostituisce, in caso di urgente necessità, adottando le misure del caso (ordinanze di urgenza). Il Prefetto è un organo a competenza generale che rappresenta, in ambito provinciale, il Governo nella sua unità; in quanto tale, è titolare dell'Ufficio Territoriale del Governo (U.T.G.), struttura cui sono state attribuite tutte le funzioni esercitate a livello periferico dallo Stato, fatta esclusione per quelle relative ad alcune Amministrazioni espressamente individuate dal d.lgvo 300/99 (Affari Esteri, Giustizia, Tesoro, Finanze, Pubblica Istruzione, Beni e Attività Culturali)(10). Il ruolo di rappresentanza generale del Governo, riconosciuto al Prefetto, trova ulteriore conferma e supporto nell'istituzione della "Conferenza permanente" da lui presieduta e composta dai responsabili delle strutture periferiche dello Stato (art. 4 del DPR. 287 del 17 maggio 2001). Si tratta di un organismo che coadiuva il titolare dell'Ufficio (9) Mosca C., idem, pag. 18. (10) Voce “Il Prefetto”, sito ministero dell’Interno. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 247 Territoriale del Governo, nel coordinamento delle Pubbliche Amministrazioni statali sul territorio che sostituisce i Comitati provinciali e metropolitani della Pubblica Amministrazione. Quale autorità Provinciale di pubblica sicurezza, il Prefetto ha la responsabilità dell'ordine e della sicurezza pubblica e presiede il Comitato Provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica. Nell'ambito della protezione civile, il Prefetto sovrintende al coordinamento degli interventi di immediato soccorso per fronteggiare le situazioni di emergenza. I temi trattati in questo capitolo saranno, quindi, il ruolo di coordinamento istituzionale svolto dal Prefetto attraverso le conferenze permanenti e nel settore della sicurezza pubblica e la potestà di ordinanza, tutti in qualche modo espressione di un compito di amministrazione generale. 3. L’evoluzione delle funzioni; coordinamento istituzionale Con la trasformazione della prefettura in ufficio territoriale del governo il legislatore ha inteso recuperare ad essa l’originaria vocazione di ufficio generalista a competenza diffusa ed orizzontale tra più amministrazioni, titolare di un ruolo di coordinamento istituzionale a livello periferico. Esso costituisce una formula organizzatoria adatta a gestire le relazioni interorganiche ed intersoggettive, senza intaccare l’autonomia più o meno ampia ad essi riconosciuta, perché prescinde dal tradizionale modello gerarchico. Inoltre, esso inerisce piuttosto a manifestazioni di attività amministrativa che devono essere armonizzate, che ad atti della Pubblica Amministrazione(11). Non è possibile addivenire alla formulazione di una nozione unica del coordinamento, in quanto essa può assumere diverse configurazioni e, pertanto, bisogna rifarsi alla norma che la prevede per stabilire i caratteri che essa in concreto presenta. La funzione di coordinamento può essere realizzata attraverso una struttura collegiale o anche con mezzi diversi, quali le intese, gli incontri, le consultazioni ecc. In tale ambito hanno trovato pertanto coerente collocazione le conferenze permanenti (provinciali e regionali), previste dal comma 2 dell’art. 11 d.lgs 300/1999 e compiutamente disciplinate dagli artt. 4 e 5 del d.P.R. 3.4.2006, n. 180. Alla conferenza Provinciale partecipano i responsabili di tutte le strutture amministrative periferiche dello Stato operanti nella Province, il presidente della Province, il rappresentante della città metropolitana laddove costituita, il sindaco del Comune capoluogo e i sindaci dei comuni eventualmente interessati alle questioni trattate, o loro delegati, nonché tutti quei soggetti istituzionali di cui è ritenuta utile la partecipazione ai fini delle concrete determinazioni da assumere o che vi (11) Lauro-Madonna, Il Prefetto della Repubblica tra Istituzioni e Società, Sant’Arcangelo di Romagna, 2005, pag. 274. © Wolters Kluwer 248 ALESSANDRO SIBILIA hanno comunque interesse. La conferenza regionale, presieduta dal Prefetto del capoluogo di regione, ha una composizione analoga, ma gli uffici e gli enti che vi partecipano sono quelli esistenti a livello regionale. Finalità precipua, oltre al raccordo dell’attività amministrativa delle strutture periferiche dello Stato, è quella di garantire l’attuazione del principio della leale collaborazione tra lo Stato e le autonomie territoriali, introdotto con la riforma del titolo V della Costituzione, nell’ottica di garantire l’unitarietà della Repubblica. Sicché in quest’ambito il Prefetto è titolare di una funzione di amministrazione generale derivantegli dalla sua dipendenza funzionale dal governo unitariamente considerato e il suo coordinamento è interorganico rispetto alle strutture periferiche statali, intersoggettivo allorché faccia riferimento anche agli enti locali. In coerenza con quanto sinora riferito è la previsione dell’intervento sostitutivo del Prefetto, come disciplinato dall’art. 7 del citato d.P.R. n. 180/2006(12). Detta autorità, infatti, qualora venga a conoscenza di disfunzioni o anomalie nell’attività amministrativa di un ufficio periferico dello Stato, che possano arrecare pregiudizio alla qualità dei servizi resi alla collettività, previa istruttoria, e dopo aver tentato una mediazione con gli uffici coinvolti, convoca la conferenza permanente per l’esame della situazione ed invita il responsabile dell’ufficio interessato ad adottare, entro un congruo termine, i provvedimenti necessari. In caso di inottemperanza, richiesto l’assenso del Ministro competente e dopo aver contestualmente informato il Presidente del consiglio dei ministri, il Prefetto stesso adotta gli atti necessari. In caso di mancato assenso del Ministro, la questione può essere deferita dal Presidente del consiglio dei ministri al governo stesso che, a sua volta, può autorizzare l’intervento sostitutivo del Prefetto. La conferenza permanente rappresenta lo strumento fondamentale per l'esercizio da parte del Prefetto della funzione di coordinamento delle attività degli uffici periferici dello Stato e di leale collaborazione con i rappresentanti delle autonomie locali. La conferenza deve coadiuvare il Prefetto assicurando un esercizio coordinato, in relazione alle esigenze locali, dell’azione delle amministrazioni partecipanti con l’esercizio dei molteplici compiti rimessi all’UTG, anche in occasione dell’avvalimento di altre strutture statali(13). Parallelamente, alla conferenza permanente spetterà coadiuvare il titolare dell’UTG nell’espletamento delle funzioni di rappresentanza generale del governo. Ad essa, quale espressione riassuntiva dell’unitarietà dell’indirizzo amministrativo e della continuità dell’indirizzo politico, vanno ricondotte le linee di azione per la promozione e l’adozione di tutte le iniziative necessarie per garantire l’implementazione, (12) Meoli C, Prefetto e Prefettura, Diritto on line 2012, sito Treccani enciclopedia italiana. (13) Lega L., Prospettive di riordino dell’amministrazione periferica dello stato: il valore aggiunto dell’UTG, sito ministero dell’interno, p. 14. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 249 e la conseguente verifica, delle leggi generali di riforma e della cospicua normazione di semplificazione e razionalizzazione, nonché di innovazione amministrativa. La conferenza permanente, ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo n. 300 del 1999, si articola in quattro sezioni: amministrazione d’ordine, sviluppo economico e attività produttive, territorio ambiente e infrastrutture, servizi alla persona e alla comunità(14). La conferenza è convocata dal Prefetto in relazione all’esercizio dei compiti di coordinamento dell’attività amministrativa e su richiesta dei presidenti della regione, della Province, dei sindaci dei comuni interessati e anche su richiesta di un 1/3 dei componenti di diritto. La conferenza permanente è uno strumento di conoscenza della realtà territoriale che consente l’acquisizione di conoscenze ed informazioni utili a delineare una mappa sullo stato della pubblica amministrazione nella Province. 3.1. Sicurezza pubblica L’art. 13, l. 1.4.1981, n. 121 definisce il Prefetto autorità Provinciale di p.s., conferendogli la responsabilità generale dell’ordine e della sicurezza pubblica nella Province, nonché la potestà di sovrintendere all’attuazione delle direttive emanate in materia; dalla stessa norma viene, inoltre, ribadito che il Prefetto dispone della forza pubblica e delle altre forze eventualmente poste a sua disposizione e ne coordina l’attività. In parallelo, l’art. 14 della stessa l. n. 121 attribuisce anche al questore la qualifica di autorità Provinciale di pubblica sicurezza ed individua le sue competenze fondamentali nella direzione, responsabilità e coordinamento, a livello tecnico-operativo, dei servizi di ordine e sicurezza pubblica e dell’impiego a tal fine della forza pubblica e delle altre forze eventualmente poste a sua disposizione. Dal quadro normativo ora riferito emergono i termini del rapporto tra Prefetto e questore riguardo all’attività di polizia: al primo ne spetta la responsabilità politica, connessa alla scelta del provvedimento da adottare in relazione agli effetti che esso può avere nell’ambito locale e rispetto alle linee della politica governativa; al questore compete, invece, la responsabilità tecnico-operativa dell’attività medesima, dovendo egli provvedere all’attuazione del provvedimento prescelto. Un ruolo strategico nel coordinamento delle forze di polizia a livello territoriale è quello assegnato al Comitato Provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica dall’art. 20, l. n. 121/1981, più volte modificato ed integrato. Oltre al Prefetto che lo presiede, esso è composto dal questore, dai comandanti provinciali dell’Arma dei Carabinieri, del Corpo della Guardia di finanza e del Corpo forestale dello Stato; sono componenti effettivi del Comitato anche il sindaco del Comune (14) La conferenza permanente nelle prefetture-utg, sito ministero dell’Interno. © Wolters Kluwer 250 ALESSANDRO SIBILIA capoluogo ed il presidente dell’amministrazione provinciale, nonché i sindaci degli altri comuni interessati quando vengono trattate questioni riferibili ai rispettivi ambiti territoriali. Inoltre, il Prefetto, sempre ai sensi del citato art. 20, può chiamare a partecipare alle sedute del Comitato le autorità locali di pubblica sicurezza e i responsabili delle amministrazioni dello Stato e di quelle locali interessate ai problemi da trattare e può invitare, d’intesa con il procuratore della Repubblica competente, componenti dell’ordine giudiziario. La partecipazione degli amministratori locali al Comitato come membri di diritto presenta una valenza molto significativa, in quanto è in coerenza con il ruolo assegnato dalla legislazione più recente, per ciò che concerne la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, agli enti locali, i quali sicuramente dispongono di una visione delle problematiche fortemente ancorata alle dinamiche del territorio. Infatti, le amministrazioni locali possono fornire agli organi istituzionalmente responsabili dell’ordine e della sicurezza pubblica il necessario contributo conoscitivo per individuare le emergenze e le priorità degli interventi e, quindi, favorire tutte le iniziative di prevenzione per ridurre le ragioni di disagio e favorire l’ordinata convivenza. Nell’ambito della materia in discorso vanno poi considerati i provvedimenti di polizia, che servono a porre in essere le misure limitative dell’attività privata previste dalla legge nell’interesse del mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica. In proposito la casistica dei provvedimenti che il Prefetto può adottare è molto ampia e trovasi indicata prevalentemente nel t.u. delle leggi di pubblica sicurezza prima menzionato (R.d. n. 773/1931); a titolo esemplificativo, si citano il porto di pistola per difesa personale (art. 42), la licenza per la detenzione, vendita e trasporto di esplosivi (art. 47), il decreto di riconoscimento di guardia particolare giurata (art. 133) e per l’esercizio di istituti di vigilanza e investigazione privata (art. 134). Quale organo ausiliario del Prefetto per l’esercizio delle sue attribuzioni di autorità Provinciale di pubblica sicurezza, la legge di riforma ha individuato un organo collegiale tale da trasporre in periferia lo stesso assetto creato a livello centrale. Così, come il ministro autorità nazionale si avvale di un comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, così anche per il Prefetto-autorità Provinciale è stato previsto un organo di consulenza collegiale: il comitato Provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. E’ evidente che la competenza di quest’organo è limitata alle realtà lo15 cali( ). Anche detta figura soggettiva costituisce, per espressa definizione normativa, un ”organo ausiliario di consulenza”, oltre che di carattere collegiale, svolgendo la sua attività istituzionale nell’interesse del Prefetto territorial(15) Mone L., L’amministrazione della pubblica sicurezza, Laurus Boffo, Roma ,2011, p. 102. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 251 mente competente e limitatamente all’esercizio delle sue attribuzioni di “autorità Provinciale di pubblica sicurezza(16)”. 3.2. Immigrazione La tutela delle libertà civili costituisce uno dei più interessanti spazi di attività assegnati alla competenza del Ministero dell’Interno dalla riforma ex d.P.R. n. 300/1999, quale dicastero di garanzia del libero svolgimento dei diritti fondamentali del cittadino costituzionalmente garantiti. Sulle tematiche dell’immigrazione, della cittadinanza, del diritto di asilo, dei rapporti con la religione cattolica e le altre confessioni religiose praticate sul territorio sono, infatti, attribuite alle prefetture, quali strutture periferiche di quel dicastero, rilevanti compiti finalizzati ad assicurare un’ampia tutela alla dignità e ai diritti dell’uomo. Tra tali compiti sarà illustrata sinteticamente in questa sede la gestione del fenomeno dell’immigrazione, a proposito del quale la prefettura - ufficio territoriale del governo risulta titolare di una serie di rilevanti competenze per regolare appunto il fenomeno immigratorio. La normativa dettata in materia di immigrazione in Italia (i cui passaggi fondamentali più recenti sono segnati dalla l. 6.3.1998, n. 40, dal d.lgs. 25.7.1998, n. 286 e dalla l. 30.7.2002, n. 189) persegue lo scopo di regolare i flussi migratori, controllare l’ingresso degli stranieri alle frontiere e disciplinarne le condizioni di soggiorno nel nostro Paese. L’approccio è infatti duplice: da un lato vi è la necessità di condurre la lotta alla immigrazione clandestina, dall’altro il bisogno di approntare gli strumenti per l’integrazione della immigrazione regolare. Per l’assolvimento dei compiti in tema di immigrazione è attivo presso ogni prefettura lo sportello unico per l’immigrazione, cui è affidato il disbrigo delle pratiche relative alle procedure di assunzione di lavoratori non comunitari o apolidi, di ricongiungimento familiare per non comunitari o apolidi, di assunzione di lavoratori neocomunitari. Lo sportello viene costituito con decreto del Prefetto ed è composto da un rappresentante della prefettura, da un appartenente ai ruoli della Polizia di Stato e da uno della direzione Provinciale del lavoro; la direzione dello stesso può spettare a un dirigente della carriera Prefettizia o a un dirigente della direzione Provinciale del lavoro(17). Il necessario coinvolgimento di altre istituzioni a livello locale, sia statali che autonome, e di enti e organismi sindacali o operanti nel soccorso e nell’assistenza agli immigrati, anche con carattere di volontariato, per fron(16) Iannuzzi A, idem, p. 101. (17) Meoli C., Prefetto e Prefettura, diritto on line 2012, sito Treccani enciclopedia italiana. © Wolters Kluwer 252 ALESSANDRO SIBILIA teggiare in modo organico ed esauriente il problema, la cui complessità è determinata a volte dalla presenza di una vasta popolazione di immigrati sul territorio, in forma stabile o itinerante, presuppongono l’esercizio di forme appropriate di coordinamento per l’uso combinato delle risorse, onde evitare sprechi ed inefficienze, che solo l’organo Prefettizio può offrire, grazie alla sua spiccata funzione generalista(18). A tale scopo, la legge Turco-Napolitano 40/1998, articolo 3 comma 6 ( articolo 3 comma 6 del testo unico di cui al decreto legislativo 286 del 1998), affianca al Prefetto un apposito organismo collegiale, il Consiglio Territoriale per l’immigrazione, al quale sono attribuiti compiti di analisi del fenomeno in Province e di promozione degli interventi da attuare a livello locale per il governo della materia. L’organo collegiale è presieduto dal Prefetto e ne fanno parte, secondo quanto stabilito dall’articolo 57 del DPR 31 agosto 1999 numero 394 (Regolamento di attuazione del testo unico 286 del 1998), i rappresentanti delle amministrazioni dello Stato, della Regione, degli enti locali, degli enti e delle associazioni attive in ciascuna Province in materia di soccorso e di assistenza agli immigrati, delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro. Il Consiglio Territoriale per l’immigrazione si deve, a sua volta, coordinare con le attribuzioni esercitate da altre strutture ed organismi operanti in sede locale e nazionale, per attuare una politica di immigrazione che costituisca il risultato di un disegno unitario, le cui linee guida siano elaborate con il concorso di più soggetti istituzionalmente operanti nella materia(19). A tale scopo, per espressa disposizione di legge, il Consiglio Territoriale deve agire in collegamento con le Consulte regionali per i problemi dei lavoratori extracomunitari e delle loro famiglie, previste dall’articolo 42, comma 6, del testo unico 286/1998, laddove siano istituite dalle Regioni con proprie leggi, mentre sarà cura del Prefetto assicurare il necessario raccordo dell’attività del Consiglio Territoriale per l’immigrazione con quella degli altri organi eventualmente costituiti dai Comuni con analoghe finalità e con la Consulta per i problemi degli stranieri immigrati e delle loro famiglie, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’articolo 42, comma 4, del testo unico 286 del 1998. Il Consiglio territoriale per l’immigrazione si riunisce per decidere in seduta plenaria dei suoi componenti, ma , più frequentemente in sezioni, che per la loro ridotta composizione, limitata ai componenti più qualificati (18) Lauro-Madonna, Il Prefetto della Repubblica tra Istituzioni e Società, Sant’Arcangelo di Romagna, 2005, pag. 339. (19) Lauro-Madonna, idem, pag. 340. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 253 nell’argomento da esaminare, offrono garanzia di maggiore approfondimento di questioni particolari. Gli argomenti che in questi anni sono stati portati all’esame dell’organo collegiale predetto si possono riassumere come segue: semplificazione delle procedure per l’emersione del lavoro irregolare, funzionamento dello sportello polifunzionale per la regolarizzazione di tali posizioni lavorative e sanatoria degli immigrati senza permesso di soggiorno; inserimento socio-culturale dell’immigrato sul territorio; situazione alloggiativa inserimento scolastico dei minori e tutela dei minori non accompagnati(20). 3.3. Prospettive di riforma Negli ultimi anni il legislatore ha più volte invitato le amministrazioni ministeriali a prevedere una revisione e riduzione delle strutture periferiche indicando diversi percorsi. In alcuni casi, si è lasciata l'amministrazione libera di scegliere, alternativamente, o la rideterminazione della rete periferica secondo un'articolazione (non inferiore a quella) regionale o interregionale, oppure il trasferimento delle funzioni svolte da tali uffici all'interno delle prefetture - uffici territoriali del Governo. Si vedano, al riguardo, sia l'art. 1, co. 404, lett. c), L. 296/2006, che l'art. 74, D.L. 112/2008. Successivamente, il D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito dalla L. 14 settembre 2011, n. 148, prevedendo l'avvio di un programma di "spending review" mirata alla definizione dei costi standard dei programmi di spesa delle amministrazioni centrali dello Stato, ha disposto che tra gli obiettivi primari del suddetto programma per la razionalizzazione della spesa pubblica vi fosse in particolare la razionalizzazione di tutte le strutture periferiche dell'amministrazione dello Stato e la loro tendenziale concentrazione in un ufficio unitario a livello provinciale. Da ultimo, l'articolo 2, co. 10, lett. c), D.L. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, richiede alle singole amministrazioni ministeriali, in sede di adozione dei nuovi regolamenti di organizzazione, di rideterminare la rete periferica su base regionale o interregionale. Contemporamente, l'articolo 10 del medesimo D.L. 95/2012 ha previsto norme particolari per la riorganizzazione delle Prefetture – Uffici territoriali del Governo, mediante: (20) Lauro-Madonna, idem, pag. 342. © Wolters Kluwer 254 ALESSANDRO SIBILIA 1. un rafforzamento delle funzioni di rappresentanza unitaria dello Stato sul territorio, svolte dalle Prefetture - Uffici territoriali del Governo, da realizzare mediante la costituzione di un ufficio unico di garanzia dei rapporti tra i cittadini e lo Stato; 2. il conseguimento dei livelli ottimali di efficienza, da realizzare mediante l'accorpamento delle singole funzioni logistiche e strumentali di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni statali sotto la responsabilità diretta ed esclusiva di un unico ufficio, in modo da realizzare un risparmio di spesa pari al 20 per cento. Il Consiglio dei Ministri ha approvato in data 13 giugno 2014, su proposta del Presidente pro-tempore, Matteo Renzi, un disegno di legge recante “delega al Governo per la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, composto da 12 articoli, di cui 8 contenenti deleghe legislative da esercitare in gran parte nei dodici mesi successivi all'approvazione della legge. Si inizia dalla riorganizzazione delle amministrazioni dello Stato, riducendo gli uffici e il personale impiegato in attività strumentali per rafforzare le strutture che forniscono servizi diretti ai cittadini. Si riducono gli uffici di diretta collaborazione dei ministri; si razionalizza la rete organizzativa delle Prefetture-Uffici Territoriale del Governo, rivedendo le competenze e le funzioni attraverso la riduzione del numero, il rafforzamento dell’esercizio delle funzioni di coordinamento e il conferimento di ulteriori compiti e attribuzioni di collaborazione interistituzionale; si riarticolano gli uffici a livello regionale e si prevede la gestione unitaria dei servizi strumentali delle pubbliche amministrazioni, mediante la costituzione di uffici comuni. Prevista la riorganizzazione della presenza dello Stato sul territorio (es. ragionerie provinciali e sedi regionali Istat) e la riduzione delle Prefetture a non più di 40 (nei capoluoghi di regione e nelle zone più strategiche per la criminalità organizzata)(21). 4. Le funzioni di amministrazione generale del comune Il sistema delle funzioni amministrative del Comune ha subito una lunga evoluzione legislativa concisa con il processo di regionalizzazione che ha investito lo Stato italiano. E’ necessario dapprima analizzare il testo originario della Costituzione del 1948 che basandosi su un principio di parallelismo tra le funzioni legislative e le funzioni amministrative, dapprima individuava le materie in cui era riconosciuta competenza legislativa alle Regioni, e nei medesimi ambiti veniva riconosciuta una corrispondente competenza ammi- (21) Cottone N., Il piano Renzi per la riforma della PA, sito- Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2014. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 255 nistrativa regionale(22). In particolare, il principio del parallelismo riguardava soltanto le Regioni e implicava la corrispondenza tra potestà legislativa e potestà amministrativa, anche se è noto che esso è stato utilizzato dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 70/1981) non tanto per giudicare la legittimità e la adeguatezza dei trasferimenti di funzioni dallo Stato alle Regioni quanto, al contrario, per ridefinire l'estensione delle materie di competenza legislativa regionale sulla base delle funzioni amministrative conferite dallo Stato alle Regioni. Con riferimento agli enti locali, la norma costituzionale riconosceva allo Stato la possibilità di attribuire funzioni direttamente a quest'ultimi per le funzioni di interesse esclusivamente locale, e prevedeva altresì che le Regioni si avvalessero normalmente degli enti locali per l'esercizio delle proprie funzioni amministrative; ma si trattava in sostanza di disposizioni di carattere programmatico, la cui efficacia era rimessa alla discrezionalità del legislatore statale e regionale(23). Tale disposizione veniva mitigata dal riconoscimento ex articolo 118 comma 3 della Costituzione di una delega di funzioni dalle Regioni alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali; veniva ammessa la facoltà per lo Stato, di individuare, all’interno delle materie regionali, delle funzioni di interesse esclusivamente locale, attribuendole direttamente agli stessi enti locali. L’articolo 128 Cost nella sua formulazione originaria demandava alle leggi generali della repubblica la determinazione delle funzioni di Province e Comuni. In base a questi criteri, le funzioni degli enti locali nella Costituzione del 1948 venivano distinte nel seguente modo(24): a) Funzioni degli enti locali estranee alle competenze legislative e amministrative delle Regioni, ossia funzioni proprie del Comune e della Province, determinate da leggi generali della Repubblica ex articolo 128 Cost. b) Funzioni esercitate dagli enti locali in materie regionali, o in base a delega oppure in base ad una diretta attribuzione da parte del legislatore statale ex articolo 118 Cost 1° comma c) Compiti del Comune per servizi di competenza statale, svolti dal Comune in quanto organo decentrato dello Stato, e per interessi generali ch ad esso fanno capo ( funzioni in materia di stato civile, anagrafe, liste elettorali, leva militare, etc) Le funzioni amministrative delle Regioni e degli enti locali hanno subito una evoluzione legislativa che trova due fondamentali interventi legislativi, dapprima il Decreto del Presidente della Repubblica numero 616 del 1977 che demandava ai Comuni il complesso delle competenze amministrative re- (22) Vandelli L, Il sistema delle autonomie locali, Il Mulino , Bologna 2013, pag. 177. (23) Gorlani M, Il nuovo criterio di allocazione delle funzioni amministrative nel Titolo V della Costituzione, sito quaderni costituzionali, 14 giugno 2002. (24) Vandelli L., Idem, pag. 178. © Wolters Kluwer 256 ALESSANDRO SIBILIA lative, in particolare, ai servizi locali. In un secondo momento con la legge 59 del 1997 nel quadro di un progetto più ampio di federalismo amministrativo venivano conferite alle Regioni e agli enti locali tutte le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori in atto esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato, centrali o periferici, ovvero tramite enti o altri soggetti pubblici. (articolo1 comma 2). Venivano poi elencate le materie che rimanevano escluse dall’applicazione dei commi precedenti come ad esempio affari esteri e commercio estero, difesa, forze armate, tutela dei beni culturali e del patrimonio storico-artistico,cittadinanza, immigrazione, rifugiati e asilo politico, estradizione. Venivano poi definiti i principi in materia di conferimenti, tra i quali spicca per importanza il principio di sussidiarietà, con l'attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati. In questo processo di riforma federale si inserisce la riforma costituzionale attuata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3,che ha apportato delle modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione. Con l'introduzione del principio di sussidiarietà ad opera della Legge cost. n. 3/2001, il criterio di attribuzione postula ora che la generalità delle funzioni amministrative spetti al Comune, salvo quelle che non possono essere "adeguatamente" esercitate, che dovranno pertanto essere riallocate, progressivamente ed eventualmente in modo differenziato, alle Province, alle Regioni e allo Stato, al fine di garantirne la "adeguatezza" nell'esercizio. L’articolo 118 Cost nella disposizione vigente prevede che “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.Dunque, la distribuzione delle funzioni amministrative fa capo in via prioritaria ai Comuni e in subordine agli altri soggetti secondo i principi di sussidiarietà, di adeguatezza e di differenziazione. Dunque, il Comune è diventato col tempo amministrazione generale, non da subito. E’ stata una lunga evoluzione che partita dal concetto di conferimento presente nell’articolo 1-2 della legge Bassanini (L 59/1997) ha trovato il suo compimento nella riforma costituzionale (L cost © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 257 3/2001) e la modifica dell’articolo 118 Costituzione. Nella XVI legislatura è iniziato l'esame, alla Camera, poi proseguito al Senato, senza pervenire a conclusione, di un disegno di legge del Governo, in materia di funzioni degli enti locali. Scopo del provvedimento era l'adeguamento di tale settore dell'ordinamento alla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione. Il disegno di legge prevedeva una delega al Governo per l'adozione della «Carta delle autonomie locali», in cui riunire e coordinare sistematicamente le disposizioni statali che disciplinano gli enti locali. Il provvedimento, collegato alla manovra di finanza pubblica, interviene sull’attuale assetto normativo delle autonomie locali, risalente sostanzialmente ai primi anni ’90 del secolo scorso. Con tale intervento si introducono disposizioni di adeguamento alla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione approvata nel 2001, che ha attribuito nuove funzioni alle comunità locali, dotandole di autonomia finanziaria. In relazione a tale autonomia, inoltre, si pongono i presupposti per la concreta attuazione della legge sul federalismo fiscale (L. 42/2009), che ha previsto, tra l’altro, una ripartizione delle spese degli enti locali tra: spese riconducibili alle funzioni fondamentali individuate dalla legislazione statale; spese relative alle altre funzioni; spese finanziate con contributi speciali. In questo quadro, il disegno di legge individua le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane e dà attuazione al principio di sussidiarietà, contenuto nell’articolo 118 della Costituzione, prevedendo l’individuazione e il trasferimento di funzioni amministrative a enti locali e Regioni. Il provvedimento reca, inoltre, una delega al Governo per l’adozione della «Carta delle autonomie locali» che raccolga e coordini tutte le norme sugli enti locali, destinata a sostituire il testo unico delle autonomie locali (TUEL) del 2000 (decreto legislativo 267/2000).Tra le altre disposizioni si segnalano: la soppressione o la razionalizzazione di enti e di organismi che operano in ambito statale, regionale e locale; la disciplina dei piccoli comuni; la modifica delle funzioni dei consigli comunali e provinciali; le modifiche concernenti i direttori generali degli enti locali; la modifica delle norme relative ai controlli negli enti locali(25).La carta delle autonomie non è stata approvata, mentre sulle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, il legislatore ritornava nella disciplina di emergenza sulla revisione della spesa ( spending review: decreto legge 6 luglio 2012 numero 95, convertito in legge 7 agosto 2012 numero 135).In questo decreto è prevista una nuova definizione delle funzioni fondamentali dei Comuni e delle Province, cui si aggiungono le funzioni fondamentali delle città metropolitane, da istituire per legge il 1 gennaio 2014. Infine, in questa disamina dei molteplici interventi che si sono susseguiti in materia di enti locali bisogna analizzare la legge 7 aprile 2014, n. 56 rubricata “Disposizioni (25) Documenti, Temi dell’attività parlamentare, sito camera dei deputati. © Wolters Kluwer 258 ALESSANDRO SIBILIA sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”, entrata in vigore l’8 aprile del 2014. Il Parlamento ha dato il via libera dal 1° gennaio 2015 alla nascita delle Città metropolitane in Italia. Il governo del territorio, previsto dalla riforma, vede soltanto due livelli amministrativi a elezione diretta: Regioni e Comuni. Le funzioni di area vasta, cioè sovracomunali e di area vasta, vengono invece assegnate ai sindaci eletti nei Comuni, che se ne occupano a titolo gratuito e che si riuniscono in enti di secondo livello: sono prefigurate in questo modo quindi le Città metropolitane, gli enti di area vasta-Province fino all'entrata in vigore della riforma costituzionale, le Unioni dei Comuni(26). In materia di funzioni amministrative dei Comuni bisogna partire dal dettato costituzionale in quanto gli articoli 117 e 118 della Costituzione sembrano indicare quattro possibili relazioni fra funzioni amministrative e soggetti titolari: funzioni attribuite, conferite, proprie e fondamentali(27). Le funzioni fondamentali sono quelle previste dall’articolo 117 comma 2 lettera Cost che ne affida la determinazione alla legislazione esclusiva dello Stato. Tale categoria è stata per la prima volta impiegata in norme di diritto positivo concernenti gli enti locali a seguito della riforma del titolo V della Costituzione. La dottrina ha a lungo dibattuto su questa tema dividendosi tra una prima ricostruzione secondo la quale le funzioni fondamentali avendo carattere essenzialmente istituzionale demanderebbe allo Stato solo un compito di natura ordinamentale sia a completamento delle funzioni direttamente previste dalla Costituzione sia per quelle funzioni non menzionate(28). Una seconda linea interpretativa ravvisa nelle funzioni fondamentali una matrice eminentemente amministrativa. Vi è poi una posizione intermedia che attribuisce alle funzioni fondamentali sia un carattere amministrativo sia istituzionale. Le funzioni fondamentali di tipo istituzionale sarebbero finalizzate ad integrare, con norma di organizzazione, quelle di tipo amministrativo, contenendo in questo modo l’espansione del potere ordinamentale. Con riguardo alle funzioni fondamentali di tipo amministrativo, problemi sorgono per quanto riguarda l’elaborazione dell’elenco(29).Vi è chi ritiene che compito dello Stato sia quello di delineare, sub specie di funzioni fondamentali, generici settori di attività degli enti locali costituzionalmente rilevanti e non puntuali compiti di amministrazione. Tale orientamento muove dalla convinzione che le funzioni fondamentali non rappresentano una autonoma catego- (27) D’Alessandro D., Il riparto costituzionale delle funzioni amministrative, AAVV, diritto regionale e degli enti locali pag. 144. (28),Di Falco m, Il nuovo scenario delle autonomie locali, in AAVV il governo locale nella transizione federale, editrice CEL, Foggia 2009 pag. 94. (29)Di Falco M., Idem, pag. 95. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 259 ria di funzioni amministrative, distinte da quelle previste nell’articolo 118 Cost, in tal modo non si potrebbe configurare una dicotomia tra funzioni fondamentali e non fondamentali di Comuni, Provincie e Città metropolitane, ma piuttosto una disciplina fondamentale delle funzioni, a carattere generale e non settoriale, e una disciplina allocativa delle stesse: la prima rimessa allo Stato, la seconda al soggetto (Stato o Regione) di volta in volta competente nella materia. Il modello per la definizione delle funzioni fondamentali viene individuato negli articoli 13 e 19 del testo unico degli enti locali attualmente vigente, che si limitano ad assegnare al Comune tutte le funzioni amministrative riguardanti la popolazione ed il territorio comunale con riferimento ai settori organici, ed alla Province le competenze di area vasta con riferimento ai macro settori specificamente elencati. Una diversa opinione fa leva sull’articolo 117 comma 2 lett p) Cost prevedendo che la stessa legge statale lungi dal limitarsi alla delineazione di generici settori di intervento, dovrebbe viceversa articolare puntualmente i compiti da riconoscere come fondamentali degli enti locali. Tale orientamento assegna alle funzioni fondamentali la natura di funzioni amministrative in senso stretto, comprensive di una parte delle funzioni proprie di cui all’articolo 118 Cost, con la conseguenza che la disciplina allocativa regionale potrebbe svilupparsi esclusivamente sul terreno delle funzioni proprie non incluse tra quelle fondamentali e delle funzioni conferite(30). In questa prospettiva gli articoli 13 e 19 del DLGS 267/2000 rappresenterebbero soltanto una premessa nel quadro del processo di individuazione delle funzioni fondamentali; il quale, postulando una disciplina di maggior dettaglio, non potrebbe in ogni caso arrestarsi ad essi. A livello di legislazione ordinaria varie sono le norme previste dal testo unico degli enti locali (decreto legislativo 267/2000) che disciplinano la materia delle funzioni comunali. In primo luogo, l’articolo 3 comma 2 riconosce al Comune la qualifica di ente esponenziale della propria comunità, in ciò ricollegandosi direttamente all’imputazione dell’autonomia alla comunità (e non all’ente) locale(31). Pochi sono i caratteri definitori del Comune specificati dalla norma ( la rappresentatività, la natura di ente esponenziale) traendone come conseguenza il carattere del Comune come ente ai fini generali per il quale non è individuabile un catalogo rigorosamente circoscritto delle funzioni, per cui la dottrina maggioritaria ritiene l’elenco dell’articolo 13 solo indicativo più che prescrittivo. L’articolo 3 comma 5 distingue le funzioni amministrative dei Comuni in proprie e conferite con legge dello Stato e delle Regioni. La dicotomia tra funzioni fondamentali-proprie e funzioni conferite (attribuite) agli enti locali consiste nella titolarità della competenza legislativa attraverso cui si riconoscono: le prime sono il prodotto di (30) Di Falco M., idem, p. 96. (31) Napoli C- Pignatelli N, Codice degli enti locali, Nel diritto editore Roma 2013, p. 24. © Wolters Kluwer 260 ALESSANDRO SIBILIA un intervento statale, sulla base di un apposito titolo di competenza esclusiva; le seconde sono il prodotto di interventi legislativi settoriali, spettanti allo Stato o alle Regioni in relazione all’ordinario riparto di competenze. Importante è anche l’articolo 13 del decreto legislativo 267/2000 rubricata funzioni del Comune, il cui testo riproduce ad eccezione di alcune variazioni la formula dell’articolo 9 della legge n. 142/1990, disposizione a propria volta attuativa dell’articolo 128 Cost nella disposizione previgente(32).Il primo comma di tale articolo è una norma di principio che assegna al Comune i caratteri di principale ente esponenziale degli interessi della collettività locale, assegnando a tale ente il ruolo di fulcro dell’amministrazione locale. Si differenzia tale norma dal modello del nuovo articolo 118 Cost perché il Tuel affida ai Comuni le funzioni amministrative “che riguardano la popolazione e il territorio comunale”, mentre la riforma costituzionale del 2001 attribuisce a tale ente “tutte le funzioni amministrative” indipendentemente dalla loro riconducibilità all’area degli interessi comunali, salvo poi, tuttavia, attenuare l’assolutezza del criterio generale con il riferimento esplicito ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Quella del Comune è una competenza generale e residuale, non si fa luogo alla fissazione di un elenco di specifiche attribuzioni comunali, riservando ad “altri soggetti”, in via di eccezione, soltanto le competenze espressamente attribuite loro con legge dello Stato o della Regione. La competenza del Comune riguarda precipuamente i settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell’assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico. Il riferimento a tali ambiti materiali, la cui competenza è specialmente demandata al Comune, non contraddice la prerogativa di tale ente come titolare del complesso delle funzioni che riguardano il territorio e la popolazione locale. Si tratta infatti di settori materiali che, oltre ad essere richiamati soltanto a titolo esemplificativo, come dimostra l’impiego dell’avverbio “precipuamente”, sono talmente estesi da ricomprendere la quasi totalità delle attività pubbliche di interesse della collettività locale. L’art. 19 del DL 95/2012 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 ha introdotto importanti novità sulle funzioni fondamentali, sulle modalità di esercizio associato di funzioni e servizi comunali e sulle unioni dei Comuni. Il comma 1 lett. A) dell’art. 19 fornisce un nuovo elenco di funzioni fondamentali dei comuni e sostituisce l’elenco provvisorio contenuto nella legge sul federalismo fiscale (Legge 42/2009). L’individuazione delle 10 funzioni fondamentali è compiuta attraverso una modifica dell’art. 14, comma 27, del D.L. 78/2010, che aveva definito le stesse funzioni ai fini dell’ esercizio in forma obbligatoriamente associata delle funzioni dei comuni mediante rinvio alla legge sul federalismo fiscale. E’ opportuno precisare che la legge 42/2009 ha (32) Napoli C- Pignatelli N, Idem, p. 150. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 261 identificato le funzioni fondamentali ai fini della determinazione dei fabbisogni standard degli enti locali, mentre l’art. 19 definisce le funzioni fondamentali in via non transitoria e senza finalità specifiche. Come osservato dal servizio studi della camera, l’art. 19 non contiene disposizioni di coordinamento né con il Tuel, né con la legge 42/2009. Tuttavia, l’art. 3 del D.Lgs. 216/2010, nell’ambito della disciplina delegata in esso contenuta per la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province, ha previsto che a quell’individuazione transitoria si dovesse far riferimento “fino alla data di entrata in vigore della legge statale di individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Città metropolitane e Province”; pertanto, per la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni occorre far riferimento al nuovo elenco di funzioni contenuto nell’articolo in commento(33). 5. Cenni sull’amministrazione locale in Europa In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso è necessario analizzare altri modelli di amministrazione locale, statale e comunale, perché la comparazione è divenuta elemento imprescindibile per riprendere soluzioni affermatisi con successo altrove, sia per scartarne altre, tenendo conto anche dei risultati realizzati in altri contesti(34). 5.1. Modelli di amministrazione locale Accorpando in gruppi i sistemi accomunati dai medesimi tratti caratterizzanti, è possibile classificare gli ordinamenti locali europei in alcuni “modelli”, in realtà largamente diffusi in vaste zone di altri continenti(35).Questi modelli possono essere definiti: a) francese: affermatosi su un’ampia serie di principi, a partire da quello di uniformità, e strumenti, a partire da una stringente serie di controlli, questo modello ha oggi stemperato vari dei suoi elementi caratterizzanti. Permangono,tuttavia, alcuni tratti distintivi, quali la duplicazione delle autonomie e del relativo decentramento di funzioni con una parallela presenza di uffici periferici dello Stato (incentrati sulla figura del Prefetto) e la relativa deconcentrazione; (33) AAVV, Le funzioni fondamentali dei comuni e modalità di esercizio associato di funzioni e servizi comunali, sito lega delle autonomie, 2012. (34) Vandelli L, Il sistema delle autonomie locali, Il Mulino , Bologna 2013, pag. 327. (35)Vandelli L., Idem, pag. 332. © Wolters Kluwer 262 ALESSANDRO SIBILIA b) anglosassone: traendo origine da una tradizione di rispetto per le libertà inviolabili e per gli antichi ordinamenti locali, il Local Selfgovernment britannico presenta una notevole flessibilità di assetti delle diverse categorie di corpi locali, urbani e rurali, dotati di rilevante discrezionalità nel modulare autonomamente i sistemi di governo e di funzionamento delle amministrazioni, basate su una grande varietà di commissioni e sottocommissioni. In questo sistema, mancano apparati periferici statali, dato che, in periferia, l’esecuzione spetta, in via generale, al governo locale; c) germanico: modello contrassegnato da una intrinseca differenziazione dei governi locali, effetto della “immedesimazione” del governo locale nell’ordinamento di ogni Land;che dunque ne fissa la disciplina, pur nel quadro di un nucleo di principi costituzionali la cui violazione può essere sindacata dal Tribunale costituzionale. Anche in questo caso, manca una presenza di apparati periferici federali: qui sono i Lander a costituire il perno dell’amministrazione, gestendo direttamente le funzioni, o articolandone l’esercizio tra i livelli locali. I sistemi locali, inoltre si presentano generalmente differenziati tra aree rurali, ove esistono oltre ai Comuni, enti di area vasta (Circondari) e aree urbane, ove i grandi Comuni esercitano anche i poteri del livello superiore, come città libere dai Circondari. d) nordico: anche in Svezia, Norvegia e Danimarca, si ritrovano alcuni tratti tipici del sistema tradizionale francese, dalla uniformità alla deconcentrazione degli apparati statali in periferia, incentrata sulla figura del Prefetto. Eppure, non mancano differenziazioni sostanziali tutt’altro che secondarie, a partire dal fatto che- diversamente da quanto avviene in Francia o in Italia – sono precisamente le autonomie a gestire tradizionalmente la parte di gran lunga prevalente delle funzioni pubbliche(36). 5.2. Inghilterra Rispetto al modello francese di Stato a diritto amministrativo e alle sue variazioni continentali, l’ordinamento inglese è a lungo raffigurato come un’eccezione(37). L’idea di un’amministrazione senza diritto amministrativo, sebbene a lungo coltivata dalla scienza giuridica inglese, è tuttavia di fatto smentita dalla crescente acquisizione di compiti da parte dei pubblici poteri e del loro esercizio attraverso prerogative esorbitanti dal diritto Comune. Già nella prima metà dell’Ottocento, a seguito della prima estensione del suffragio disposta dal (Great) Reform Act del 1832 (poi integrato dal Second (36) Vandelli L, Idem, pag. 333. (37)Napolitano G, Diritto amministrativo comparato, Giuffré, Milano, 2007, p. 19. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 263 Reform Act del 1867 e dal Third Reform Act del 1884), cominciano ad apparire i primi corpi di ufficiali esecutivi preposti all’esecuzione e al controllo di talune leggi a carattere sociale, come gli ispettorati sulle fabbriche delle miniere. Manca, tuttavia, qualsiasi forma di coordinamento e di controllo gerarchico di questi corpi che rispondono così direttamente al parlamento senza la mediazione di un potere esecutivo. Soltanto alla fine dell’Ottocento l’organizzazione per board assume una connotazione più propriamente burocratica per essere quindi imputata a dicasteri politicamente responsabili di fronte al Parlamento. Inizialmente, tuttavia, i poteri esercitati sono di mero controllo e di segnalazione alle coorti delle eventuali violazioni di determinate normative. In seguito, però, il quadro delle eventuali violazioni delle prerogative istituzionali si accresce fino a comportare un progressivo accentrarsi di funzione regolatorie e aggiudicatorie in capo ai medesimi organi(38). All’inizio del Novecento, e ancor più dopo la prima guerra mondiale, anche nel Regno Unito si registra un’ulteriore fase di espansione dell’intervento pubblico: dalle assicurazioni alla sanità, dai trasporti all’urbanistica. Esplode la produzione normativa dei dipartimenti centrali a scapito del parlamento e della centralità della sua potestà legislativa: l’esecutivo diventa così titolare sia di poteri di delagated legislation sia di poteri ministeriali. Nel secondo dopoguerra, i poteri eccezionali dell’amministrazione connessi all’intervento bellico sono prorogati ed estesi; si ampliano il controllo pubblico sull’agricoltura, il ruolo delle assicurazioni sociali e l’ambito della pianificazione urbana, le nazionalizzazioni portano a un ulteriore sviluppo delle pubblic enterprises; gli administrative tribunals si moltiplicano. Il definitivo riavvicinamento della vicenda inglese alle esperienze dell’Europa continentale, in un contesto generale segnato dall’adesione alla Comunità, sembra compiersi quando le riforme processuali del 1977 e del 1981 pongono le premesse per un’espansione del sindacato giurisdizionale dell’azione amministrativa. Contemporaneamente, però, nella lunga stagione del governo conservatore di Margareth Thatcher, l’amministrazione è sottoposta a un drastico processo di riforma, nel segno della privatizzazione e della managerializzazione, che rimette in questione la centralità del suo ruolo e la sua distinzione dalla società e dalle sue regole(39). Da vent’anni a questa parte, il ruolo e l’azione dei pubblici poteri continuano ad essere oggetto di specifica disciplina, sul piano del diritto sostanziale e su quello del diritto processuale. (38)Napolitano G., idem, p. 21. (39) Napolitano G, idem, p. 22. © Wolters Kluwer 264 ALESSANDRO SIBILIA Nel 1998, lo Human Rights Act contiene regole speciali dirette alle pubblic authorities. Quindi, si interviene sul fondamento processuale della specialità del diritto amministrativo inglese perché progressivamente criticato, per la sua rigidità e incertezza. Nel 2000, pertanto, la separazione delle procedure è parzialmente attenuata, ma in cambio vi è l’istituzione di una sezione specializzata del giudice Comune(40). In Inghilterra è noto come la caratteristica del self-government sia stata costituita, attraverso l'evoluzione storica, dalla mancanza di quella distinzione, che è caratteristica invece del continente, fra amministrazione autarchica o locale, e amministrazione governativa, esercitata anche localmente da organi statuali incaricati di controllare e tutelare il funzionamento degli enti locali nelle diverse parti del territorio nazionale. Le circoscrizioni del regno inglese hanno perciò, fin dai primi tempi, il carattere di enti giuridici a sé, provinciali e comunali, sottoposti alla vigilanza dello Stato stesso (contee, centurie, borghi), i cui organi sono autorità locali, scelte in genere fra i proprietari locali, fra i gentlemen provinciali. La prima di queste autorità fu in origine lo sceriffo (custode della pace del re= keeper of the king's peace) , primo magistrato della contea, con numerose attribuzioni di polizia, il quale però, a poco a poco, cedette gran parte delle sue funzioni al Lord-luogotenente, primo fra i giudici di pace stessi, giudici e amministratori nel tempo stesso, nominati dal Re in numero non limitato per ogni contea, che assistiti da un impiegato stipendiato e permanente, il clerk of the peace, hanno formato per tanto tempo la principale base del governo locale inglese. Altri giudici di pace possono essere concessi ai borghi, ove uniscono le funzioni del loro potere governativo con funzione d'indole municipale. A questi ufficiali se ne aggiungevano poi altri, il coroner, il constable, (in genere, ufficiali esecutivi) e , specie negli ultimi tempi, vari ispettori ( dei poveri, delle strade, dell'estimo, etc) tutti questi funzionari sono nominati dal potere centrale, ma da esso rimangono indipendenti per ciò che concerne i loro provvedimenti e la loro determinazioni: e ciò è dovuto alla gratuità (per lo meno in tempi ormai lontani da noi) delle loro prestazioni, alla indipendenza della loro posizione sociale ed economica, alla educazione politica di così lunga data della nazione inglese, alle secolari tradizioni della gentry (la classe sociale dei gentlemen da cui vengono tolti) alla loro appartenenza ai luoghi ove esercitano le loro funzioni, ove hanno quindi i maggiori, se non tutti, i rapporti di famiglia e di interessi. (40)Napolitano G, idem, p. 24. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 265 Questi cittadini non hanno quindi intermediari fra sé e lo Stato come può essere la burocrazia continentale, ma, , si governano da sé come organi dello Stato stesso, mescolando spesso le funzioni giurisdizionali con quelle amministrative e le funzioni statuali generali (es: gli ordini di arresto e di scioglimento degli assembramenti). E l'adempimento di queste funzioni, l'esercizio di questi uffici è poi come una preparazione a quelli di componenti della Camera dei Comuni, che ne sono, per così dire la continuazione. Di conseguenza in Inghilterra l'ufficio legislativo, coronamento degli uffici locali ricoperti, continua in linea generale, naturalmente, come un risultato del self government, e quindi alieno dalla mentalità perturbatrice della amministrazione locale. Il potere governativo è concentrato in una forte e organizzata amministrazione centrale il local government board, che pur lasciando agli uffici locali molte ed importanti funzioni, vigila, e al caso agisce, a mezzo di un sistema di ispettori, stipendiati, muniti di larghi poteri, e sempre in giro attraverso i vari consigli ed uffici locali, in quali forniscono così all'autorità centrale tutte le informazioni e gli elementi necessari per le definitive determinazioni del governo centrale. Si verifica perciò anche in Inghilterra una sempre maggiore tendenza a lasciare le funzioni pubbliche di più alta responsabilità a persone che ne facciano una professione retribuita: con ciò viene sempre più avvicinandosi al modello francese(41) 5.3. Francia Secondo l’insegnamento tradizionale, il modello “puro” del diritto amministrativo è quello francese. Esso si caratterizza per la presenza di tre elementi fondamentali: il carattere unitario e organico della pubblica amministrazione; la sua soggezione ad una disciplina autonoma, “esorbitante“ e derogatoria rispetto al diritto Comune; la sottoposizione al controllo di un giudice speciale, diverso da quello ordinario(42). Tale rappresentazione, naturalmente, è il frutto di una semplificazione concettuale di una realtà ben più complessa e articolata, formatasi gradualmente nel tempo ed oggetto di molteplici evoluzioni e trasformazioni. Soltanto con Napoleone, tuttavia, l’amministrazione si “statalizza”, perché i compiti in precedenza svolti da corpi elettivi sono trasferiti a funzionari monocratici nominati dall’esecutivo. (41)Malinverno R, voce Prefetto in Novissimo digesto italiano, 1966, UTET, Torino p. 592. (42) Napolitano G., Idem, p. 4. © Wolters Kluwer 266 ALESSANDRO SIBILIA Gli interessi della società diventano così oggetto di una funzione amministrativa di esclusiva pertinenza statale. Soltanto alla fine del diciannovesimo secolo si avvia la costruzione di un diritto amministrativo inteso come disciplina autonoma ed equiordinata al diritto civile. Singole previsioni normative sono oggetto di un’operazione di “generalizzazione” compiuta dalla giurisprudenza e dalla scienza giuridica. Il processo è direttamente legato alla sottrazione di una serie di controversie alla giurisdizione ordinaria e alla progressiva affermazione del ruolo centrale del Conseil d’Etat quale giudice speciale “delegato” dell’amministrazione a seguito della riforma del 1872. Nel primo quarto di secolo del Novecento, il potere creativo del giudice amministrativo conosce, dunque, la sua “età dell’oro”(43). Nel volgere di qualche lustro, diventa normale rappresentare il diritto amministrativo come disciplina profondamente diversa dal diritto privato: alla fase della “transfert pure et simple” di teorie e regole di quest’ultimo, infatti, si susseguono quelle della “rèaction” e della “transposition” alla luce delle “nècessites administratives”. L’amministrazione si configura così come puissance publique, e cioè come corpo dotato di poteri “esorbitanti” dal diritto Comune, al fine di assicurare la cura dell’interesse generale(44). Ciò spiega perché storicamente il diritto amministrativo si costruisca e si rappresenti come diritto di prerogative e privilegi. Nel Novecento il ruolo assunto dallo Stato determina una vera e propria pubblicizzazione della società che ne impedisce una raffigurazione in termini antagonistici(45). Negli anni Quaranta, i termini del dibattito cominciano a mutare. L’imposizione di missioni di interesse generale in capo ai privati e la diffusione del potere pubblico determinano il passaggio du droit civil au droit publique, anche se il secondo si avvale delle forme e delle tecniche del primo, modificandole e adattandole alle sue esigenze. Matura così, per la prima volta in modo netto e consapevole, l’idea che l’allargamento della sfera pubblica non determina necessariamente l’ampliamento “territoriale” del regimo amministrativo. Nel secondo dopoguerra, il diritto amministrativo mantiene i suoi caratteri fondamentali. Le carte costituzionali del 1946 e del 1958, inizialmente, hanno un impatto limitato sull’amministrazione e sul modo di agire. (43) Napolitano G, Idem, p. 5. (44) Napolitano G, Idem, p. 6. (45) Napolitano G, Idem , p. 8. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 267 Anzi, il primato assegnato al potere esecutivo ne rafforza il dominio anche sull’amministrazione. Il giudice amministrativo continua a svolgere un ruolo dominante sulla formazione delle regole sostanziali dell’agire pubblico. Si cominciano però a riconoscere i diritti dei cittadini nei confronti delle amministrazioni, ma ancora in modo disorganico; soprattutto si rifiuta l’idea di una disciplina legislativa del procedimento. Da un lato, l’espansione dell’intervento pubblico, che continua negli anni Sessanta e Settanta fino all’inizio degli anni Ottanta, avviene sempre più spesso in forme privatistiche. I servizi pubblici industriali e commerciali, in passato marginali rispetto a quelli a gestione amministrativa, acquistano un rilievo centrale(46). Dall’altro, i processi di riforma economica e amministrativa, oltre a rafforzare i diritti dei cittadini, conducono ad una parziale riduzione della sfera pubblica e all’adozione delle prime misure di privatizzazione. Il passaggio verso lo Stato regolatore, tuttavia, è lento e graduale, in quanto la politica di privatizzazione a differenza di quanto accade in altri paesi, non è di largo respiro. Anche la creazione delle autorità indipendenti non è legata al processo di privatizzazione, ma piuttosto all’esigenza di garantire libertà pubbliche in aree “sensibili” dell’ordinamento. Ci troviamo dunque di fronte ad una déstructuration del diritto amministrativo che contribuisce alla “pénétration croissante des rapports juridiques administratifs par le droit privé”. Ciò non porta alla “fine del diritto amministrativo”, il quale, al contrario, continua a espandersi, ma a un suo rinnovamento: esso si inscrive in un sistema amministrativo più vasto, a cominciare da quello europeo, aperto agli apporti dell’analisi economica e imperniato sulla difesa de diritti fondamentali. Per quanto concerne il c.d. “local governement”, la Francia ha una lunga tradizione di Stato centralizzato, dove lo Stato è responsabile sia della maggior parte dei pubblici interesse sia della maggior parte delle decisioni pubbliche(47). Tuttavia, questa caratteristica di centralizzazione è stata nel tempo ridotta, gli enti locali si sono progressivamente sviluppati e rinforzati con poteri e mezzi finanziari. Un importante passo in tale direzione è stato fatto negli anni 80, quando è stata adottata una vasta riforma della decentralizzazione. (46) Napolitano G, idem, p. 9. (47) Auby J B-Lucie Cluzel-Métayer, Administrative Law in France in Adminnistrative law of the European Union: its member states and the United States, Intesentia-Metro, Cambridge, 2012, pag. 10. © Wolters Kluwer 268 ALESSANDRO SIBILIA Il sistema amministrativo francese rimane uno dei meno decentralizzati d’Europa, ma si sta comunque cominciando a muovere verso ciò che negli atri Paesi europei si può chiamare governo locale e regionalizzazione. Nel 2003, una riforma costituzionale ha amplificato il livello di decentramento in Francia, introducendo uno speciale riferimento nel primo articolo della Costituzione, affermando la natura decentralizzata della Repubblica francese ( “La Francia è una Repubblica indivisibile … La sua organizzazione è decentralizzata”) Le principali basi legislative del decentramento derivano dai seguenti elementi: gli enti locali sono considerate persone giuridiche, che formano una delle tre categorie di persone giuridiche pubbliche: les collectivités locales; un certo livello di autonomia è assicurato alle collettività territoriali dalle regole costituzionali, come assicura il paragrafo 72 della Costituzione, che sancisce che gli enti locali sono amministrati liberamente da assemblee elette. Da questo paragrafo, la Corte costituzionale ha derivato alcune conseguenza in materia di protezione dell’autonomia territoriale, come ad esempio la protezione dell’ autosufficienza finanziaria. Gli enti territoriali sono così suddivisi: a) 22 Regioni (régions), governate da un consiglio regionale (conseil régional) , assemblea legislativa eletta direttamente dai cittadini, e dal presidente del consiglio regionale (président du conseil régional), eletto dal consiglio regionale; b) 96 dipartimenti (départements), governati da un consiglio generale (conseil général) , assemblea legislativa direttamente eletta dai cittadini, e dal presidente del consiglio generale (prèsident du conseil général) , eletto dal consiglio generale; c) 36700 municipalità (communes), governate da un consiglio municipale (conseil municipal), assemblea legislativa direttamente eletta dai cittadini e dal sindaco (maire), eletto dal consiglio municipale(48) 5.4. Prefetto francese Per puntualizzare la figura del Prefetto in Francia occorre distinguere, preliminarmente, due nozioni tipiche del diritto amministrativo di quel Paese: la decentralizzazione e la deconcentrazione: la prima corrisponde all’attribuzione di una certa autonomia ad una collettività che si amministra liberamente attraverso consigli elettivi e sotto il controllo del governo; la (48) Auby J B-Lucie Cluzel-Métayer, idem, p. 11. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 269 seconda si caratterizza per l’intervento di una autorità statale non centrale(49). Il Prefetto, in tale ordinamento, risulta quindi una tipica forma di deconcentrazione dello Stato: assume infatti il ruolo di rappresentante dello Stato nel territorio del Dipartimento, le cui procedure di nomina sono disciplinate dalla Costituzione. In base all’art. 72, ultimo comma, Cost. “Nelle collettività territoriali della Repubblica, il rappresentante dello Stato (è il) rappresentante di ciascun membro del governo, è responsabile in materia di interessi nazionali, controllo amministrativo e rispetto delle leggi”. Il corpo Prefettizio è poi disciplinato d’altra parte in uno statuto particolare fissato per decreto dal Consiglio di Stato e queste disposizioni possono derogare lo statuto generale della funzione pubblica (decreto del 29 luglio 1964). I Prefetti sono nominati da un decreto del Presidente della Repubblica nel consiglio dei ministri su proposta del primo ministro e del ministro dell’Interno. Per quanto concerne la loro nomina, al principio tradizionale di scelta interamente discrezionale, riflessione della concezione politica dell’istituto Prefettizio, sono stati apportati dei temperamenti. Già gli statuti precedenti a quello attuale (1950 e 1959) avevano previsto che i tre quarti delle nomine dei Prefetti derivavano dai vicePrefetti o dagli amministratori civili fuoriclasse. Attualmente le nomine dei Prefetti che vengono dall’”esterno” non possono eccedere un quinto del totale(50). Partendo da questi presupposti, bisogna affermare che la sede del Prefetto è lasciata dalla legge “ alla discrezione del governo” ( legge 11 gennaio 1984, art. 25). La nomina del Prefetto implica l’assegnazione di una sede territoriale, salva la possibilità, nel limite di cinque posti, di nominare dei Prefetti fuori ruolo per occupare dei posti superiori che comportano un particolare incarico per l’espletamento di servizio pubblico rilevante per le esigenza del governo In generale, l’intervento del Prefetto riguarda la sfera della politica e, soprattutto, quella dell’amministrazione(51). (49)Mangiameli S, La rappresentanza territoriale dello Stato nei diversi modelli costituzionali: Italia, Francia e Spagna a confronto, Relazione presentata al Convegno su «Lo Stato in periferia e l’assetto del governo regionale e locale», organizzato da Italiadecide alla Camera dei Deputati il 22 ottobre 2012, sito ISSiRFA. (50) Savignac J C, Les administrastions de la France, Misson, 1995, p. 107. (51) Mangiameli S., La rappresentanza territoriale dello Stato nei diversi modelli costituzionali: Italia, Francia e Spagna a confronto, Relazione presentata al Convegno su «Lo Stato in © Wolters Kluwer 270 ALESSANDRO SIBILIA Politicamente il Prefetto ha il ruolo di mediare tra il potere centrale, gli amministrati e i loro eletti; trasmette le richieste ai ministri competenti, dopo averle istruite, analizzate e valutate con proprio parere e, soprattutto, assicura una costante informazione al Governo centrale su quanto accade nella circoscrizione affidatagli, anche con riferimento ai movimenti dell’opinione pubblica; in altre parole, è la principale fonte di informazione del governo centrale. Dal punto di vista amministrativo, il Prefetto svolge a livello territoriale una serie di funzioni proprie dello Stato. In primo luogo, è l’autorità di polizia amministrativa e, in tale qualità, adotta le misure necessarie al mantenimento dell’ordine pubblico. Le nozioni di polizia e di ordine pubblico vanno rapportate non solo alla tranquillità della vita sociale, ma soprattutto alle misure che riguardano le attività umane in relazione a determinati ambiti tra cui anche la tutela dell’ambiente. Rispetto agli individui può adottare prescrizioni e autorizzazioni; dispone altresì per l’ordine pubblico delle forze di polizia ed esegue le decisioni giudiziarie. In secondo luogo, il Prefetto partecipa al controllo dei comuni, dei dipartimenti, delle collettività infraregionali e delle persone giuridiche di diritto pubblico(établissements publics) di livello dipartimentale, anche con riguardo al controllo di bilancio. In terzo luogo, il Prefetto è il responsabile dell’amministrazione civile dello Stato nel dipartimento, eccetto alcuni casi, quali esattamente: la giustizia, l’educazione nazionale e l’Amministrazione fiscale. Per assolvere a questa funzione è dotato di specifici poteri: può ricevere deleghe dai ministri ed è titolare del potere ordinamentale sui servizi deconcentrati dello Stato; assegna – a chi designa come “capo progetto” – il compito di animare e coordinare l’azione di più servizi, allorquando si tratta di azioni concorrenti per la messa in opera di una medesima politica pubblica (in questa stessa ipotesi, può anche proporre al governo la fusione di più servizi); determina le disposizioni concernenti le procedure che devono essere seguite per i processi riorganizzativi dell’amministrazione statale o di organismi responsabili di un servizio pubblico. I provvedimenti individuali possono essere assunti solo dal Prefetto. In quarto luogo, egli è l’animatore dell’economia del suo dipartimento, sia per la possibilità di ripartizione dei fondi per investimenti, e sia per i suoi rapporti con le forze sociali, imprese, sindacati, ecc. Le disposizioni che disciplinano i poteri e le funzioni del Prefetto puntano al conseguimento di un doppio scopo: per un verso, si tende a realizzare periferia e l’assetto del governo regionale e locale», organizzato da Italiadecide alla Camera dei Deputati il 22 ottobre 2012, sito ISSiRFA. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 271 la coerenza dell’azione dello Stato, evitando la suddivisione e la dispersione tra le diverse divisioni generali. La circostanza che nel corso degli anni la Francia abbia realizzato un’accentuata decentralizzazione aumentando i poteri locali e realizzando la regione, ha reso ancora più necessaria la figura di un rappresentante dello Stato dotato di forti poteri(52). Per altro verso, la deconcentrazione dei poteri presuppone effettivamente un centro di decisione realmente operativo. La scelta del Prefetto come punto di riferimento essenziale del trasferimento di competenza tende a contenere i rapporti diretti dei capi dei servizi con le amministrazioni centrali, in modo da evitare la risalita del potere di decisione, dal territorio al centro e l’appesantimento della gestione. La legislazione, nel perseguire gli obiettivi di un nuovo rafforzamento della deconcentrazione, ha consolidato il ruolo della circoscrizione dipartimentale, come centro territoriale per l’attuazione delle politiche nazionali ed europee; di qui la necessità del potenziamento dei poteri Prefettizi. L’ordinamento francese si è regionalizzato in un arco di tempo abbastanza lungo; sin da subito è stata istituita la figura del Prefetto della Regione, che ha poi subito una progressiva evoluzione fino al suo rafforzamento avvenuto nel 2010. Il Prefetto della Regione è il Prefetto del Comune capoluogo di Regione ed ha in via di principio gli stessi poteri di rappresentanza e le medesime funzioni del Prefetto dipartimentale, riferite all’intera regione e assume, perciò, anche la funzione di controllo amministrativo nei confronti della Regione, oltre che delle collettività decentralizzate del Dipartimento. Infine, occorre sottolineare che l’anno 2010 ha comportato due grandi riforme per l’amministrazione territoriale: la messa in opera in gennaio della REATE (Réforme de l’Administration Territoriale de l’Etat) e la promulgazione in dicembre della legge di riforma delle collettività locali, riforme che hanno modificato il paesaggio amministrativo francese(53). Comunque la Francia rimane coi suoi 36000 comuni, i suoi Prefetti e i suoi dipartimenti, ma tali riforme hanno costituito una novità nel panorama francese. La legge del 16 dicembre 2010 si inserisce nel quadro della revisione generale delle politiche pubbliche e dà corpo all’annunciata riforma delle collettività territoriali che ha portato ad una nuova organizzazione del territorio francese. La riforma, ispirata in parte dai lavori del Comité Balladur (il rapporto finale è stato presentato a marzo 2009), si basa su alcune priorità per ridurre, (52)Mangiameli S, Idem, 22 ottobre 2012, sito ISSiRFA. (53) Kada N, La Réforme de l’Etat territorial in Revue française d’administration publique n. 141 del 2012, ENA, Strasburgo, p. 109. © Wolters Kluwer 272 ALESSANDRO SIBILIA semplificare e razionalizzare la suddivisione amministrativa del territorio francese(54). In particolare: - la creazione di due “poli” amministrativi, regione e dipartimento da un lato, comuni e strutture intercomunali dall’altro; - l’elezione di una nuova categoria di eletti locali, i consiglieri territoriali, consiglieri comuni alle due collettività che siederanno di volta in volta in Consiglio regionale o in Consiglio generale (artt. 1-7), favorendo in tal modo il ravvicinamento tra il Dipartimento e la Regione mentre il ravvicinamento tra Comuni e Intercomunalità sarà realizzato dall’elezione a suffragio universale dei consiglieri comunitari che siedono in seno ai consigli delle intercomunalità (art. 8-9); i consiglieri territoriali saranno eletti per la prima volta nel marzo 2014; - il completamento e la semplificazione della Carta dell’Intercomunalità in Francia per assicurare un’organizzazione intercomunale dell’intero territorio nazionale entro il 31 dicembre 2013 (artt. 30-72); - la creazione, attraverso un nuovo meccanismo che facilita la fusione di comuni e i raggruppamenti di dipartimenti e Regioni, di nuove strutture locali in sostituzione di collettività territoriali preesistenti: le metropoli (sono previste 11 metropoli per le zone urbane con più di 500.000 abitanti), i poli metropolitani, i nuovi comuni derivanti dalla fusione di comuni appartenenti ad uno stessa struttura intercomunale (artt. 12-25), il raggruppamento di Regioni (che dovrebbero passare da 22 a 15) o di dipartimenti su base volontaria (artt. 26-29). L’agglomerato urbano di Parigi e l’Île de France hanno invece dato luogo ad una nuova collettività territoriale, il “Grand Paris”, istituita con la Legge n. 2010-597 del 3 giugno 2010. 6. Conclusione Il presente lavoro ha avuto ad oggetto l’analisi delle funzioni di amministrazione generale del Comune e del Prefetto, rispettivamente in ambito locale e in ambito statale periferico. In primo luogo, la preferenza per il Comune ed i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza vanno letti quali fattori costitutivi di un sistema che mira a valorizzare l’effettiva capacità dei diversi ambiti istituzionali di soddisfare le esigenze palesate nei rispettivi contesti sociali, tenuto conto dei tratti specifici mostrati da ogni realtà locale(55). (54) Rassegna dell’attività legislativa e istituzionale di Paesi stranieri, sito Camera dei Deputati n. 6, Novembre-dicembre 2010. (55) Commentario alla Costituzione a cura di Bifulco- Celotto-Olivetti, Utet giuridica, Torino, 2006, p. 2236. © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 273 Il processo di “trasformazione” del Comune è iniziato con l’articolo 1 comma 2 legge 59/1997, certamente forzando l’originario quadro costituzionale ha conferito alle Regioni e agli enti locali, nell’osservanza del principio di sussidiarietà, tutte le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità, nonchè tutte le funzioni e i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori in atto esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato, centrali o periferici, ovvero tramite enti o altri soggetti pubblici(56). Di conseguenza, nel nuovo impianto costituzionale le funzioni amministrative fanno capo in via preferenziale al Comune, inteso quale “cellula primaria” dell’amministrazione pubblica, che assume una competenza amministrativa di carattere generale, dinanzi alla quale ogni diversa soluzione allocativa non può che essere considerata nei termini di una deroga(57). Poiché Il Comune riveste i caratteri di principale ente esponenziale della collettività locale. siamo di fronte ad una clausola generale di competenza generale , fondata sul presupposto che tale ente sia in grado di registrare il complesso dei bisogni e degli interessi della collettività locale e di soddisfarli in modo tendenzialmente esaustivo. Il Prefetto, invece, ha subito un’eclisse, prima con il decentramento amministrativo degli anni 60, poi, a partire dal 1982, con il regionalismo politico. Successivamente, a partire dagli anni 90 un processo di rafforzamento ha investito il Prefetto prima con l’assunzione di fatto di nuove funzioni, come ad esempio gli interventi del Prefetto di Roma in materia di traffico, gestione degli immobili degli istituti assicurativi e poi con nuovi incarichi previsti dal legislatore in materia di protezione civile, immigrazione e con il progetto UTG. E’ importante registrare il mutamento qualitativo prodotto da queste disposizioni legislative. Si tratta di norme che, in primo luogo, sia pure in leggi diverse, ma contemporanee, riguardano i rapporti con i cittadini e la garanzia dell’attuazione dell’interesse pubblico, in funzione dei cittadini. In secondo luogo, si tratta di norme che riscoprono un ruolo spesso dimenticato del Prefetto, quello di autorità amministrativa generale. In questo senso ancor più che autorità sociale il Prefetto è amministrazione civile, nel senso originario della parola, conservato nel linguaggio inglese, quando si parla di civil service, come amministrazione generale, che include nel suo ambito tutti i compiti pubblici, tranne quelli militari(58). (56) Napoli C.-Pignatelli N, Codice degli enti locali, nel diritto editore, Roma, 2012, p. 146. (57) Napoli C-Pignatelli N, Idem, p. 147. (58) Cassese S, Il Prefetto come autorità amministrativa generale, Le Regioni, 1992, Roma, p. 331. © Wolters Kluwer 274 ALESSANDRO SIBILIA In effetti, le riforme che hanno investito queste due figure istituzionali, quali il comune e il Prefetto, sono state approvate per ridisegnare una nuova statualità cioè un nuovo modo di essere e di rappresentare lo Stato, configurando uno Stato più leggero, più efficiente, più vicino alle esigenze dei cittadini, più autorevole e in grado di rispondere alle sfide della globalizzazione indipendentemente dalla considerazione se si siano raggiunti i risultati prefissi. A tal proposito appare opportuna una riflessione sul ruolo delle Regioni e della loro interazione con i prefetti. Nel corso del tempo le Regioni sono state sempre più libere di agirenon sempre nell’interesse esclusivo dei propri amministrati- e si è affievolito sempre più il controllo da parte dello Stato. E’ noto che questo istituto, nella sua duplice forma, preventiva e successiva, non ha altro scopo che quello di verificare che l’iniziativa dell’ente regionale sia conforme all’interesse generale. La sua attività, infatti, non può e non deve contrastare con l’ordinamento giuridico nazionale che è “l’armonia dei diritti e dei doveri sia dei cittadini singoli sia dei cittadini quale espressione di entità pubbliche o private”. Va da sé che la mancanza di controlli preventivi è possibile causa di errori e , spesso, anche di indebiti comportamenti. Si ritiene che ripristinare i controlli; in modo completo ed efficace, possa costituire un ostacolo alla corruzione che in quegli enti territoriali molto spesso si è verificata, specialmente in questi ultimi anni. Sembra, pertanto, che la soluzione a tale amara riflessione consista nell’affidamento al prefetto – unico Organo rappresentativo del Governo, sia a livello centrale che periferico, e profondo conoscitore del territorio- del controllo preventivo e successivo degli atti degli enti locali e non certo ad Organi elettivi, potendo mancare tra controllori e controllati ( non di rado appartenenti allo stesso partito politico) quella serenità di giudizio, che può essere causa della corruzione. In tal modo si ritorna ad applicare il principio sancito dall’articolo 5 della Costituzione, che è bene ricordare: “ La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali, attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.”Dall’esame dei lavori preparatori della Carta Costituzionale appare chiaro che i padri costituenti “ vollero evitare – in odio al fascismo- il ripetersi di uno Stato accentratore di tutte le attività amministrative che dà la possibilità, anche ad un solo uomo, di decidere per tutti.” Introdussero perciò il più ampio decentramento amministrativo, per evitare, tra l’altro che “da Palermo o dalla Valle d’Aosta il cittadino dovesse continuare ad andare a Roma, presso ciascun ministero, talvolta per un semplice visto”. Ugualmente si è disposto, in quella sede, che lo Stato promuo- © Wolters Kluwer LE FUNZIONI DI AMMINISTRAZIONE GENERALE DEL PREFETTO 275 vesse le autonomie locali non certo perché sorgessero tanti piccoli “Stati autonomi”- in contrasto con “la Repubblica, una e indivisibile”- ma sul presupposto della maggiore e migliore conoscenza, da parte degli amministratori elettivi locali della realtà dei problemi regionali, per poterli risolvere meglio. Nei lavori preparatori della nostra Costituzione non si rinviene invece, il divieto al controllo statale che è un istituto giuridico di carattere generale perché interviene ogni qual volta vi sia una pluralità di enti ordinati su vari livelli non necessariamente in modo gerarchico. E’ fuor di dubbio che le esperienze non positive, quali quelle di lasciare le Regioni libere di legiferare in tutte le materie di propria competenza, compresa quella dell’autodeterminazione degli stipendi e di altri emolumenti da parte dei membri elettivi, senza un effettivo controllo statale, riflettono la necessità di individuazione dei difetti che una norma o un complesso di norme come la Costituzione, abbia potuto presentare nella sua pratica attuazione. Così come altrettanto importante è l’individuazione di un possibile rimedio che potrebbe consistere nell’emanazione di “leggi quadro” entro le quali gli enti locali possano legiferare affidando al Prefetto il controllo preventivo e successivo sull’osservanza di legge. Probabilmente i tempi non sono maturi per affrontare il problema della evidente “degenerazione” degli Organi regionali specialmente nella propria competenza legislativa. E’ certo, invece, che non è più possibile “continuare a ritenere che tutto proceda nel verso giusto”, conformemente al dettato dalla Costituzione “e non si faccia nulla per frenare la corruzione” costringendo i magistrati a un lavoro sempre più gravoso e i cittadini a perdere la fiducia nelle istituzioni. Senza commettere l’errore di creare un organismo sovraordinato, il Prefetto nella sua qualità di garante delle istituzioni può svolgere un ruolo decisivo nel riequilibrare l’attuale situazione. © Wolters Kluwer BIBLIOGRAFIA AAVV, Il governo locale nella transizione federale, Editrice Cel, 2009, Foggia AAVV, Le funzioni fondamentali dei comuni e modalità di esercizio associato di funzioni e servizi comunali, sito lega delle autonomie, 2012 AAVV, Commentario alla Costituzione a cura di Bifulco- Celotto-Olivetti, Utet giuridica, Torino, 2006 Auby-Lucie J B. 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La necessità di garantire Nei contesti europei, il prefetto è annoverato tra i "rappresentanti la presenza territoriali dello Stato", ovvero la figura istituzionale che cura i rapporti centro-periferia. tangibile Pur con specificità nazionali, in Europa e nelle nazioni dello Stato mediterranee, esistono, tra l'altro, rappresentanti territoriali dello Stato in: Belgio, Bulgaria, Cipro, Egitto, Finlandia, Francia, sul territorio, Germania, Grecia, Lituania, Marocco, Norvegia, Olanda, indipendente Polonia, Portogallo, Romania, Spagna, Svezia, Svizzera, mente dalle Tunisia, Turchia ed Ungheria. forme di governo, è avvertita in tutta Europa e, più in generale, in molte parti del mondo. In Italia, il processo di veloce espansione delle autonomie territoriali, che negli ultimi anni ha risvegliato sensibilità di tipo federalista o indipendentista, ha certamente favorito il riaccendersi del dibattito politico sulla figura del prefetto. I temi politici in discussione sono stati prevalentemente orientati non tanto dal cosa fa il prefetto, quanto dal cosa rappresenta il prefetto. 1 © Wolters Kluwer APPENDICE 283 I COMPITI SUL TERRITORIO ORDINE PUBBLICO E SICUREZZA In questo campo i prefetti orientano le politiche dell’ordine e della sicurezza pubblica sul territorio, svolgendo attività di coordinamento delle forze di polizia e di raccordo con i sindaci, anche con l’adozione di protocolli di legalità. In materia di sicurezza è anche progressivamente cresciuta la funzione di prevenzione antimafia svolta attraverso l’effettuazione di accessi ai cantieri, la promozione di stazioni uniche appaltanti e il controllo sugli enti locali per la verifica di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata, cui è connesso, in caso di esito positivo, il potere di scioglimento. IMMIGRAZIONE ED INTEGRAZIONE Il Prefetto è titolare sul territorio dell’ufficio unico di garanzia dei rapporti tra cittadini e Stato: ufficio unico, comune perciò a tutte le amministrazioni periferiche dello Stato (art. 10, primo comma, del d.l. n.95/12, convertito in L. n. 135/12, nota come “Spending review”). Le prefetture assicurano l’accoglienza dei migranti attraverso la gestione, la supervisione e la vigilanza dei centri governativi. Curano la procedura per il riconoscimento della protezione internazionale (affidata alla Commissione nazionale ed alle commissioni territoriali), promuovono l’integrazione anche attraverso i consigli territoriali per l’immigrazione. 2 © Wolters Kluwer 284 APPENDICE GESTIONE DELLE EMERGENZE Malgrado l’evoluzione normativa in materia di protezione civile si sia orientata nel senso di ridurre gli ambiti operativi delle prefetture, la rete dei prefetti si è confermata fondamentale per assicurare il coordinamento della risposta immediata nelle emergenze ed inoltre, nelle aree maggiormente in difficoltà e secondo il principio di sussidiarietà, si è proposta come strumento per definire le intese più efficaci per mettere insieme i diversi enti che fanno parte del sistema. Senza dimenticare le attività ordinarie e straordinarie dalla redazione dei piani di emergenza (per industrie a rischio di incidente rilevante, per i trasporti di materie fissili e radioattive o i piani NBCR, per citarne alcuni) alle operazioni di sminamento. COESIONE SOCIALE, CRISI ECONOMICHE E PRODUTTIVE LOCALI Con il progressivo intensificarsi delle ricadute della crisi economica, che sul territorio ha prodotto la chiusura di moltissime aziende con conseguenti licenziamenti, la rete delle prefetture svolge una funzione di monitoraggio, mediazione, raffreddamento e stimolo alla negoziazione fra i diversi soggetti coinvolti (imprese, sindacati associazioni datoriali, enti pubblici), attività strettamente connessa all’individuazione delle misure utili al contrasto dell’emarginazione e del disagio sociale, che 3 © Wolters Kluwer APPENDICE 285 in diverse realtà costituiscono il sostrato della criminalità diffusa o della nascita di movimenti eversivi. COMPITI AMMINISTRATIVI Nel recente passato hanno anche assunto un rilievo notevole alcune funzioni di carattere amministrativo che meritano riflessione. Tra questi i procedimenti relativi al nulla osta all’ingresso sul territorio nazionale di cittadini stranieri per motivi di lavoro o per ricongiungimento familiare e quelli per l’applicazione di sanzioni relative ad illeciti amministrativi. Si tratta in entrambi i casi di ambiti di notevole impatto sui cittadini. PROCEDIMENTI ELETTORALI Il procedimento per l’elezione della rappresentanza politica dei diversi livelli istituzionali è una delle funzioni più delicate svolte dalle prefetture. Il dibattito Nel tentativo di superare i pur ormai contenuti profili del centralismo statale, si sono accesi quindi i riflettori sul ruolo del prefetto e delle prefetture, considerati inscindibilmente legati ad un'impostazione centralista. 4 © Wolters Kluwer 286 APPENDICE Il dibattito culturale sull’esercizio di poteri statali sul territorio e sullo svolgimento di funzioni di garanzia del cittadino ha, comunque, messo in luce la capacità della rete delle prefetture di saper interpretare ed innovare il proprio ruolo nel sistema di policentrismo autonomistico, facendo emergere l’azione di raccordo e di tessitura a fini di interesse generale, svolta sulla base di norme non scritte, ma su istanza delle più diverse forme di rappresentanza della società civile. Questa attività informale, in molti territori, costituisce una preziosa modalità di lavoro. Ecco, allora, che i riflettori si dovranno spostare sul ruolo svolto dalle prefetture quale istituzione di tipo generale e non elettiva, cui i cittadini, i gruppi sociali e i diversi tipi di comunità si rivolgono per l’individuazione delle soluzioni ai problemi, o ai diversi tipi di conflitti, che la parcellizzazione delle competenze sovente determinano nell’ordinato svolgersi della convivenza civile. Pur tenendo conto di qualche ombra sicuramente esistente, si farà luce sulla capacità dei prefetti di saper essere interpreti delle esigenze generali e facilitatori di quelle forze necessarie alla realizzazione degli obiettivi o alla soluzione dei problemi, ponendosi come cerniera della sussidiarietà orizzontale. Il territorio Se questa è la sintesi della complessa missione attribuita alle prefetture, l’esistenza di un centro di riferimento territoriale è da considerarsi ragione costitutiva della loro stessa esistenza, al pari di quella dello Stato. 5 © Wolters Kluwer APPENDICE 287 Ove la geografia delle province, giudicata per parecchio tempo ottimale, dovesse quindi essere soppressa, o, almeno, rivista, non saranno certamente soppresse le esigenze dei territori dei quali le stesse provincie costituiscono, al momento, i confini politici. E’ già successo che i processi di informatizzazione, di semplificazione e di decentramento amministrativo delle attività dello Così nella riorganizzazione territoriale del ministero Stato, unitamente ad esigenze di dell'Economia, ad esempio, le vecchie Direzioni provinciali del Tesoro sono state trasformate in contrazione della spesa, abbiano fatto macro uffici regionali o ultraprovinciali. Ancora: riconsiderare la ripartizione anche i Ministeri dell’istruzione e del lavoro hanno optato per soluzioni simili. territoriale delle stesse, facendo sì che alcuni uffici delle amministrazioni periferiche dello Stato abbiano acquistato una conformazione territoriale differente rispetto all’assetto precedente. La sfida, quali che siano i livelli di governo del territorio che si andranno a delineare, è duplice: individuare i “nuovi confini geografici“ per la ripartizione dell’azione svolta capillarmente dallo Stato (anche per il tramite delle prefetture, pur anche in contesti organizzativi ripensati in modo più moderno); cogliere l’occasione per procedere alla focalizzazione delle attività strategiche riconosciute a ciascuno dei livelli di governo su cui si articolerà l’assetto politico della Nazione. 6 © Wolters Kluwer 288 APPENDICE La prospettiva Per il primo profilo – dalla sicurezza alla coesione sociale, dalla difesa civile di territori in crescenti difficoltà, alla difesa dei diritti civili – in un’ottica di terminale dell’asse della sussidiarietà orizzontale, sarà opportuno riflettere sull’opportunità di dotare i prefetti di poteri di intervento risolutivo di carattere ordinario, necessari, soprattutto, ove il presidio di aree più fragili impone allo Stato di garantire una capacità di effettiva risposta. E’ in tale contesto, che si colloca anche il tema della legalità, intesa come necessità di politiche tese alla semplificazione del sistema di contrasto alla forza intrusiva e di inquinamento della criminalità organizzata nei confronti delle attività economiche e finanziarie e di quelle proprie delle pubbliche amministrazioni e degli enti locali. Per questi ultimi, in particolare, occorrerà riflettere sull’attuale esercizio delle azioni conseguenti allo scioglimento per infiltrazioni mafiose, che dovranno tendere a ripristinare condizioni di legalità durature nel tempo, in grado di ripristinare quel circuito democratico di virtuosa rappresentanza politica. 7 © Wolters Kluwer APPENDICE 289 Per il secondo profilo, la revisione dei livelli di governo dei territori sarà occasione preziosa per procedere ad un’analisi delle modalità di riposizionamento della presenza dello Stato sul territorio, che non potrà che tener conto delle esigenze provenienti da territori omogenei e dal livello di risposta che si vuole assicurare. Questo impone la ricerca dell’eccellenza, la proporzionalità e la flessibilità nel ridisegno delle strutture e, contenendo i costi ed i tempi di risposta, di maggiori strumenti per premiare la competenza ed il merito, a qualsiasi livello, stimolando l’innovazione nella gestione per aumentare l’efficienza. Ecco, quindi che potrebbe essere ridefinita un’architettura istituzionale a geometria variabile”, che contempli una diversa distribuzione delle prefetture su tutto il territorio nazionale, anche con la previsione di strutture diversificate nell’attribuzione delle funzioni e nelle quali concentrare servizi L’individuazione di nuove circoscrizioni territoriali dovrebbe muovere da criteri ed strumentali comuni. Deflazionando in tal modo il carico di lavoro dei restanti uffici, si ottimizzerà l’impiego delle risorse a disposizione e si potrà perseguire una maggiore indicatori oggettivi che mettano in luce le specificità dei singoli territori: dalla caratterizzazione economico-sociale, all’esposizione dei territori stessi a fenomeni di criminalità organizzata, di calamità naturale e/o a criticità sociali. 8 © Wolters Kluwer 290 APPENDICE funzionalità nella garanzia della sicurezza per continuare quell’azione di promozione dello sviluppo delle realtà locali, della legalità e della coesione sociale, in un quadro di più intensa e leale collaborazione con i “governi” locali. ANFACI, Via Cavour, n. 6, 00184 Roma www.anfaci.it 9 © Wolters Kluwer