Anno XVI - n. 137 - 2006
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DELL’ISTITUTO DI STUDI MILITARI MARITTIMI
Sommario
DIREZIONE E REDAZIONE
ISTITUTO DI STUDI MILITARI MARITTIMI
CENTRO STUDI
Castello, 2409 - 30122 VENEZIA
Tel. Fax 041/2441730 - Mil.40730
e-mail: [email protected]
DIRETTORE RESPONSABILE
LA BUSSOLA
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20
LA MARITTIMITA’
IL POTERE MARITTIMO VENEZIANO
L’ORGANIZZAZIONE SNELLA
COME POSSIBILE APROCCIO PER ACRESCERE LA
C.F. Giuseppe SCHIVARDI
Tel. 041/2441322 - Mil. 40322
FLESSIBILITA’ E DIMINUIRE GLI SPRECHI
NELLA NOSTRA ORGANIZZAZIONE
IMPAGINAZIONE E GESTIONE TESTI
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Capo di 1^ Antonino TARANTINO
SGT. Davide MAGLIONICO
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IL MAHAN ED IL CORBETT A CONFRONTO
UN ANALISI COMPARATA
I TERMINI DELLA STRATEGIA
DAGLI ATTI DELLA XIV GIORNATA DI STUDIO
SALA FOTORIPRODUZIONE
C.T. Aldo ROSSETTI
AUS. Marco BUCCELLA
AUS. Giovanna VIAN
Registrazione al tribunale Civile di Venezia n. 1353.
La riproduzione, totale o parziale degli scritti e delle
illustrazioni è subordinata all’autorizzazione della
Direzione del Bollettino.
Pubblicazione non in commercio
“I PERCORDI DELLA STRATEGIA”
La BUSSOLA
Quando buona parte delle popolazioni europee si sostenevano a stento grazie alla pastorizia e all’agricoltura, Venezia prosperava e
accresceva la sua potenza politica ed economica in misura incomparabile rispetto a qualsiasi
altra epoca successiva. Se pensiamo a l l’inospitalità della laguna e alla scarsità di tutto ciò che era necessario alla
vita, cereali e acqua potabile, l’epopea della Serenissima ha qualcosa di
incredibile, che gli storici hanno
spesso difficoltà a spiegare. Infatti, per comprendere a fondo
il fenomeno veneziano non è sufficiente essere degli esperti di storia
medievale, occorre anche conoscere
il mare e l’influenza dello stesso sui
commerci, sull’arte della guerra e sugli
scambi culturali; in altre parole è necessario avere
un approccio alla storia fortemente “marittimo”.
Occorre pertanto, così come illustrato in questo
numero con un articolo del Contrammiraglio Favre, riflettere su che cosa s’intende per “marittimita”; occorre riappropriarci di ciò che ci appartiene e che è alle radici della nostra cultura. E’
sufficiente visitare il Palazzo Ducale e guardare
con attenzione gli affreschi e i mappamondi, per
accorgersi che i veneziani conoscevano molto
prima dell’avvento delle “novità” di oltre oceano
l’importanza del “Potere Marittimo”.
Tutto ciò che oggi ci sembra nuovo e normalmente ci viene presentato con terminologia anglosassone, era già stato inventato, sperimentato
e messo in pratica durante i secoli dalla Serenissima, compresa la dottrina del Combined Joint
Task Force e le operazioni di power projection
ashore.
A tal proposito, il comandante Leoni ci illustra,
con il suo articolo, l’ascesa e il declino della Serenissima utilizzando l’unica vera originalità del
pensiero navale d’oltreoceano, i “sei fattori del
Mahan”. Sarà, qualche anno più tardi, l’inglese Corbett, come possiamo vedere nell’articolo
del comandante Rebuffat, a riportare in Europa
il primato del pensiero navale con un opera di
grande pregio per un pubblico molto più raffinato.
Ad un secolo di distanza dalla pubblicazione di
queste opere, però, riteniamo sia necessario riaffermare e operare un vero e proprio “recupero”
anche del pensiero navale italiano. Ciò non vuol
dire chiudersi a riccio nei confronti dell’attività
di pensiero altrui, ma semplicemente accettare ciò che ci viene proposto con spirito più
critico. Diffidando dalle novità che vere novità non sono, e nel dare merito al mondo
anglosassone di aver codificato talune forme di
operazioni e organizzazioni marittime,
possiamo senz’altro affermare che
queste erano già ampliamente applicate dalle marine quali quella della
Serenissima, se non addirittura da
latini e greci. In lingua italiana
quando non addirittura in latino
o in greco troviamo buona parte,
per lo meno allo stato embrionale,
dei termini che nel linguaggio della
strategia marittima sono poi diventati di uso comune veicolati però dalle
più diffuse dottrine dei teorici anglosassoni. Questi ultimi d’altro canto nell’elencare
i principali fautori del pensiero marittimo non dimenticano di citare anche gli italiani ed in particolare quei Giulio Rocco e Domenico Bonamico
il cui pensiero viene analizzato nei corsi di laurea in cui maggiormente si specula sullo stretto
rapporto fra relazioni internazionali ed esercizio
del potere marittimo.
E’ ora dunque di fare rinascere e di esportare il
pensiero di Bonamico, Sechi, Bernotti, di Giamberardino, Fioravanzo, le cui riflessioni sono ancora attuali e ricche d’insegnamenti. Pertanto ci
associamo, cento anni dopo, alla Lega Navale
Italiana, quando in occasione della ripubblicazione nel 1911 delle Riflessioni sul potere marittimo di Giulio Rocco del 1814, scriveva:
“...i giovani ufficiali della Marina Italiana sappiano che un italiano scrisse del Potere Marittimo molti anni prima che giungessero dall’America le teorie del Sea Power.”
Come Istituto di Studi Militari Marittimi crediamo molto in queste parole e per dimostrarlo
abbiamo deciso di cominciare questa opera di recupero con numeri come questo, quasi monografico, in cui larga parte del materiale documentario è dedicato al potere marittimo.
Completano il numero un saggio del del Prof.
Paolo Fabbri sui “termini” della strategia ed un
lavoro del T.V Magoni relativo all’organizzazione “snella” che ci riporta “con i piedi per terra”
nel campo organizzativo dove la teoria deve trovare il modo di coniugarsi con l’efficacia.
Buona lettura!
LA MARITTIMITA’
Osservatorio
Cont ra m m i ra gl io
Franco FAV R E
Che senso ha oggi parlare di
marittimità intendendo con questo
termine la propensione che una
nazione deve avere per il mare, ma
soprattutto quanto sviluppato deve
essere il “senso del mare” di uno
stato?
La risposta più logica potrebbe essere che lo spirito marittimo
di una nazione si misura in modo
direttamente proporzionale con gli
interessi che la stessa ha sul mare.
Tale risposta è senz’altro avvalorata dalla storia, prendiamo
come facili esempi la Serenissima
Repubblica di Venezia e l’Inghilterra, che identificarono la loro grandezza con il Potere Marittimo che
riuscirono a imporre e sviluppare;
Potere Marittimo che va inteso nel
senso bernottiano “di prodotto dei
fattori dello sviluppo e della protezione degli interessi marittimi di
uno stato”1.
Maggiore era l’influenza che
le loro navi mercantili avevano nel
commercio marittimo, maggiore il
controllo che le unità da combattimento garantivano nei bacini di
interesse a sostegno del traffico
mercantile e in difesa dei loro possedimenti, maggiore risultava, in
valore assoluto, la grandezza della
nazione nel mondo.
La capacità di proiettarsi al di
1
là del mare per consolidare i vecchi traffici e istaurarne di nuovi o
per conquistare nuove terre, portava ad un continuo aumento della
grandezza politica ed economica
della nazione cui doveva inequivocabilmente seguire un accrescimento delle marine, commerciale e
militare.
Le nazioni che sul mare e dal
mare conquistarono il loro status di
“grande” sembra che abbiano sviluppato quasi naturalmente lo spirito della marittimità, Venezia è una
città d’acqua, l’Inghilterra un’isola
insufficiente a se stessa e le loro
popolazioni, nel guardarsi attorno
alla ricerca di sviluppo e maggiori
fortune vedevano solo l’elemento
acqueo.
Che dire di Nazioni più “giovani”, con caratteristiche spiccatamente continentali che riuscirono
in una fase successiva della loro
evoluzione a sviluppare una forte
politica marittima?
“Gli Stati Uniti considerano che
le grandi flotte permanenti sono a
detrimento continuo della prosperità nazionale e di danno perpetuo
alla libertà civile. Le spese che esse
cagionano sono onerose per il popolo. Esse sono, in certa misura,
una minaccia costante per la pace
delle Nazioni: una forza imponente
sempre in armi induce nella tentazione di combattere…2 Se gli Stati
Uniti si troveranno costretti a sostenere i loro diritti con le armi, essi si
affideranno a corpi di volontari per
le operazioni militari in terra e alla
marina mercantile per la protezione
del loro commercio”3.
Fu questa la motivazione che
dettero gli Stati Uniti quando decisero di rifiutare i principi che erano
stati elaborati durante la dichiarazione di Parigi del 1856 e, al di là
dei concetti non aggressivi portati
avanti fino ad allora da questa nazione, pare evidente quanto poco
spirito marittimo alimentasse la politica statunitense dell’epoca.
La giovane federazione di stati
stava ancora cercando una propria
vocazione, ma la rapida crescita
politica ed economica che seguì la
guerra civile, generò dopo pochi
decenni una figura quale il Mahan
sui principi del quale gli Stati Uniti
svilupparono una politica marittima
che li portò presto a ricoprire i primi
posti tra le potenze navali mondiali.
Quando gli Stati Uniti ebbero
la necessità di abbreviare le linee
di comunicazione (concetto del
Mahan) tra le loro coste Atlantica e
Pacifica, dovettero cambiare la loro
politica e renderla maggiormente aggressiva dovendosi garantire
il dominio delle zone prospicienti
l’istmo (altro concetto mahaniano
del controllo delle zone focali) dove
sarebbe stato costruito il canale di
Panama4. Si arrivò così alla guerra
con la Spagna.
Inattaccabili per la posizione geografica che li vedeva come
un’immensa isola tra i due oceani
(teoria mahaniana della posizione
centrale), più gli Stati Uniti assumevano una dimensione preminente
tra le Potenze mondiali, con interessi sempre più diffusi nel resto del
pianeta, più crescevano quale po-
Ferruccio Botti, “la guerra marittima e aerea secondo Romeo Bernotti”, edizioni Forum di Relazioni internazionali, Roma, 2000, pag. 52
V. Mario Monterisi, “Diritto di guerra terrestre, marittimo e aeronautico”, Milano, 1938, pag. 241. così continua: “La politica degli USA fu e rimane costantemente contraria a tale
indirizzo e giammai si otterrà che essa aderisca ad un cambiamento di sistema del suo diritto internazionale che imponga la necessità di mantenere una marina potente e un grande
esercito permanente in tempo di pace
3
Termina “Opponendosi all’invito di modificare l’attuale diritto marittimo, gli Stati Uniti si elevano al di sopra dei loro particolari interessi, e guardano agli interessi di tutti i popoli
che non hanno una marina preponderante. La situazione di questi popoli è la stessa degli Stati Uniti: per essi l’abbandono del diritto di corsa avrebbe conseguenze contrarie alla loro
prosperità commerciale. Si proclami l’inviolabilità privata senza eccezioni; ma fino a che ciò non avvenga, la sola abolizione della guerra di corsa è effimera e dannosa”.
4
Alfred Thayer Mahan, “L’importanza del Potere Marittimo per gli interessi degli Stati Uniti”, Edizioni Forum di Relazioni internazionali, Roma 1996, cap. III.
2
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Osservatorio
tenza marittima e iniziarono così a
diffondere le loro basi nei vari mari
(ancora il Mahan col principio delle
basi e delle colonie), e a sviluppare
una flotta, dal carattere prevalentemente offensivo, a protezione dei
propri interessi.
Divennero presto la prima
potenza mondiale e la maggiore Potenza Marittima, primati che
mantengono a tutt’oggi.
La Germania, anche se non può
certo definirsi uno stato “giovane”,
è un altro esempio di nazione naturalmente portata al “continentalismo”, che, in tempi poco lontani,
dovette proiettarsi verso il mare
per sviluppare e proteggere i propri
interessi politici ed economici.
Alla fine dell’ottocento il
Bismark, “der eiserne Kanzler”,
aveva oramai portato la Germania
ad essere la potenza predominante
in Europa innescando così una forte rivalità con l’Inghilterra5. Spinta
da un sensibile incremento demografico6 la politica del cancelliere di
ferro impostò un forte sviluppo dell’industria, da cui derivò proporzionalmente un aumento sempre maggiore del commercio internazionale
e dei trasporti marittimi. “L’industria
tedesca guadagnò un posto sempre
più eminente nel mercato mondiale:
il traffico marittimo divenne assai
più grande di quello sulle vie terrestri e fluviali del continente; in ogni
parte del mondo i nuovi carrettieri
del mare fecero sventolare la loro
Ammiraglio Von Tirpitz
bandiera… Essendosi così estesi gli interessi tedeschi, la politica
mondiale diventava una necessità;
dal rapido sviluppo industriale e
commerciale sorgeva la rivalità anglo-tedesca…d’altra parte, col crescere del traffico marittimo e degli
interessi d’oltremare, la Germania
diventava marittimamente vulnerabile”.
Quando Guglielmo II° salì al trono, la flotta tedesca costituiva una
forza assai modesta per il numero delle navi e per il loro tipo. Nel
1895, allorché fu inaugurato con
grande solennità il canale di Kiel, la
Marina tedesca…era sempre una
Marina di secondo ordine”7.
Fu l’ammiraglio Von Tirpitz nominato Segretario di Stato per la
Marina nel 1897 a dare il via alla
creazione della grande Marina
tedesca con la prima vera legge
navale (1898) che definiva chiaramente quale tipo di sviluppo dovesse interessare la flotta8. Il nuovo
criterio fondamentale stabilito nella legge del 1900 era il seguente:
“per proteggere il commercio marittimo e le colonie tedesche non
vi è che un mezzo: la flotta tedesca da battaglia deve divenire così
forte che anche per la più grande
potenza marittima una guerra con
la Germania implichi tali rischi da
mettere in pericolo la sua posizione
nel mondo”9.
“La mossa intrapresa dalla
Germania significava…che la nazione che possedeva la più grande potenza terrestre organizzata
e che occupava la posizione strategica centrale in Europa stava per
dotarsi di una potenza marittima
abbastanza forte da neutralizzare
quella britannica”10.
Ecco quindi come si sviluppò lo
spirito marittimo della più grande
potenza continentale del tempo.
E l’Italia, l’ultima nazione nata
nel contesto europeo?
Stati di diverse culture e ancora
più diversificati nella loro propensione per il mare si ritrovarono unificati in una nuova nazione che si
G. Caprin, op. citata, pag. XXXII. “La rivalità tedesco-britannica si era iniziata, iniziandosi in Germania la politica “mondiale
6
Romeo Bernotti, “Il potere marittimo nella Grande Guerra”, Raffaello Giusti ed., Livorno, 1920, pag. 4 e segg.. A differenza delle altre maggiori potenze europee di indole maggiormente marittima, che potevano contare nelle colonie per distribuire le proprie popolazioni “Il numero di abitanti dell’Impero tedesco, che era di 41 milioni nel 1871, era salito a 56 milioni
nel 1900 (avrebbe raggiunto i 68 milioni prima della guerra). Alla Germania, come all’Italia, essendo queste nazioni arrivate troppo tardi nel campo delle competizioni coloniali, non si
offriva la possibilità di creare importanti colonie di popolamento, ossia capaci di essere direttamente coltivate da europei. L’impero coloniale tedesco, pure essendo di vasta superficie
(5 volte quella della Madre Patria),…non contava che 26 mila abitanti di razza bianca…”
7
Romeo Bernotti, “Il potere marittimo nella Grande Guerra”, Raffaello Giusti ed., Livorno, 1920, pag. 4 e segg..
8
In un memorandum allegato alla legge navale il Tirpitz lamentava che “contro più forti potenze marittime la flotta da battaglia può avere importanza soltanto come flotta da sortita”,
privilegiando la strategia della scelta del momento data l’invulnerabilità della coste. Nel Memorandum che accompagnava la legge navale del 1900 si faceva considerare che una
flotta appena rispondente al criterio della flotta di sortita, anche se in uno scontro avesse riportato un successo, risulterebbe indebolita così, che la sua inferiorità verrebbe accentuata
e sarebbe presto costretta a non uscire dalle sue basi. Si metteva quindi in rilievo la presumibile lunga durata di una guerra navale derivante da interessi economici e particolarmente
commerciali, si accennava alle condizioni disastrose che pur solo dopo un anno si sarebbero prodotte in caso di guerra disgraziata, per effetto della distruzione del commercio tedesco, con grandi conseguenze economiche e sociali, a parte la gravità delle condizioni di pace imponibili al nemico vittorioso. Da ciò si traeva la necessità di una flotta assai più potente
di quella prevista col criterio della flotta da sortita.
9
Romeo Bernotti, “Il potere marittimo nella Grande Guerra”, Raffaello Giusti ed., Livorno, 1920, pag. 4 e segg.:“Il Tirpitz non riteneva necessario l’avere una flotta forte come quella
della più grande potenza, ma tale che, anche se battuta, avrebbe indebolito a tal punto il nemico che, nonostante la vittoria, non avrebbe avuto più garantita la sua posizione grazie
alla sua flotta, oramai inadeguata. In sintesi disse Tirpitz: “vogliamo comandare il rispetto”, di fatto, “vogliamo imporre la nostra volontà”
10
Massimo Roccati, “La terra e il suo cuore - Halford John Mackinder e la teoria dell’Hertland”, in “La Riscoperta”, cita H. J. Mackinder, “The round World and the winning of the peace”,
in “Foreign Affaire”, XXI, july 1943, pag. 165.
5
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Osservatorio
proiettava con prepotenza in quest’elemento, posizionata al centro
di quello che una volta era stato
il mare nostrum, che ora invece
convogliava in sé notevoli interessi commerciali, coloniali e strategici
delle altre più mature potenze europee, quali la Francia con i suoi
possedimenti e l’Inghilterra che ne
controllava tutti i chokes point.
Come si sviluppò in questo
nuovo contesto il pensiero marittimo italiano?
Il 17 novembre 1860 vennero
unificate le Marine sarda, borbonica, toscana e pontificia e il 17
marzo 1861, con la proclamazione
del Regno d’Italia nacque la Regia
Marina. Fu in quella occasione che
il conte Camillo Benso di Cavour,
allora presidente del consiglio e
ministro della marina, affermò:
“voglio delle navi tali da servire
in tutto il Mediterraneo capaci di
portare le più potenti artiglierie, di
possedere la massima velocità, di
contenere una grande quantità di
combustibile. [..] Consacrerò tutte
le mie forze e ciò che posso aver
conquistato d’influenza parlamentare, affinché l’organizzazione della
nostra Marina Militare risponda alle
esigenze del Paese”11. Il padre della
patria morì in quello stesso anno,
ma il paese non si arrestò nella
spinta di completare il processo di
unificazione e le prioritarie esigenze del paese divennero la conquista
ed annessione di Roma, Venezia,
Trento e Trieste. Alla Regia Marina
fu quindi affidata, quale missione
prioritaria, la conquista del Mare
Adriatico, per riprendere il dominio
del mare già appartenuto alla serenissima, espropriandolo alla flotta
austriaca.
Dal 1861 al 1866 non si era
però avuto il tempo di creare dall’unione di marine diverse per mezzi, cultura, piani e procedure, uno
strumento navale uniforme che
potesse esprimere una prontezza
al combattimento univoca e consolidata, e si subì l’amara sconfitta di
Lissa... “Il discredito della Marina e
le condizioni di depressione morale, la triste situazione finanziaria del
Paese dopo la campagna del 1866,
che imponevano grandi economie,
implicavano il grave pericolo che
rimanesse incompresa la necessità del potere marittimo; il fatto che
la Marina italiana nel 1866 aveva
mancato ad un compito offensivo
non costituiva un insegnamento
capace di far emergere come essa
tuttavia fosse indispensabile quale
mezzo di difesa, data la nostra posizione geografica, l’estensione e la
vulnerabilità del litorale…”12.
Lentamente il Paese cominciò a riacquistare fiducia nella sua
Marina, e nel 1875 il ministro Saint
Bon dichiarò che “Non -si potevapermettere d’ora in poi che una
nave esca dai nostri cantieri senza
che essa sia, almeno in qualche
parte, superiore a quanto possiedono di migliore, in tempi analoghi,
le nazioni marittime più potenti”13.
Nel 1877, con Benedetto Brin ministro, venne approvata la prima legge navale in base alla quale si dette
il via alla costituzione di una flotta
moderna, che poteva orgogliosamente e a pieno titolo porsi tra le
prime flotte mondiali. Fu così che,
nel 1890, la Regia Marina aveva
conquistato la terza posizione tra le
Marine delle Potenze mondiali, ma
in pochi anni l’impegno economico
per il suo mantenimento e sviluppo risultò insufficiente a mantenere
questa prestigiosa posizione mentre altre nazioni, mantennero i loro
standard o aumentarono gli stanziamenti destinati alle loro Armate
così da superarla14.
Nel 1911 scoppiò la guerra italo
turca.
Al suo primo vero impegno
dopo la sfortunata impresa di
Lissa, “la Marina si mobilitò al massimo della sua organizzazione… Il
30 settembre una squadra navale
comandata dall’Ammiraglio Raffaele
Borea-Ricci si presentò davanti a
Tripoli, il 2 ottobre bombardò le sue
http://www.marina.difesa.it/storia/index.htm. Sito ufficiale della marina militare
R. Bernotti, op. citata, pag. 81 e segg.
ibidem, pag. 83 e segg..
14
F. Crispi, Rivista Marittima nel luglio del 1900, pag. 201. “La discussione sulle necessità militari dell’Italia è sempre stata inspirata a criteri opportunistici di parte politica, anziché alla
esatta cognizione di ciò che siamo e di ciò che dovremmo essere. La potenzialità di uno stato nelle sue armi di terra e di mare è uno dei fattori permanenti di sicurezza e di rispetto
nella sua vita e nelle sue azioni… In questo ventennio che cosa abbiamo fatto per la difesa nazionale? Il periodo era più che sufficiente a costituire un saldo e ben agguerrito esercito
e, soprattutto, ad organizzare la difesa marittima. L’Italia, nell’ipotesi spaventosa di una guerra offre il più facile e sicuro bersaglio dal mare. Non alla difesa continentale abbiamo
provveduto…non alla difesa delle nostre estesissime coste…vulnerabilissime, lungo le quali ricche, popolose e indifese città si estendono; perché alla difesa marittima si provvede
solo con la flotta numerosa, agile, pronta, armata oltre che dal coraggio dei nostri marinai da possenti artiglierie, protetta oltre che dal dio delle battaglie, da corazze impenetrabili.
E questa flotta noi non l’abbiamo!.., i sacrifici fatti dal paese ebbero questo risultato, che nel 1890 la marina italiana teneva il terzo posto fra le marine di tutto il mondo… in cinque
anni si sono risparmiati cento milioni di spesa; ma oggi, per riconquistare il terreno perduto, non ne basterebbero cinquecento. In dieci anni dal terzo posto siamo passati al settimo,
perché, purtroppo, oggi la potenzialità dell’Italia marinara viene dopo le flotte d’Inghilterra, della Francia, della Germania, del Giappone, della Russia e del Nord-America… Dopo
quarant’anni di amministrazione nazionale, l’Italia, che era ascesa a terza potenza marittima del mondo, occupa ora il settimo posto. Questo nostro paese…è vulnerabilissimo nei suoi
estesi confini marittimi; al cospetto di tanta prostrazione della nostra flotta marittima, primo fattore di difesa e prestigio nazionale, io mi domando se veramente si sia ancora in tempo
per provvedere a tante deficienze, e se carità di patria non c’imponga di pensare senza indugio a questa suprema necessità della difesa nazionale…. Chi ha responsabilità del governo
provveda. Nell’ora del pericolo, l’Italia non può sperare salvezza che da una forte e agguerrita flotta, la quale contrasti ai nemici lo sbarco sulle nostre coste. Rinunciare a ciò è quanto
abbandonare l’unica speranza di salvezza a cui l’Italia possa affidare le sue fortune nel giorno del cimento”
R. Bernotti, op. citata, pag. 90. In allegato “Il bilancio della Marina fu consolidato in 123 milioni per il periodo 1901-1906 ed in 134 milioni per il periodo 1907-1917 con un aumento, pure
consolidato di 29 milioni a partire dal 1909” , ciò nonostante “l’aspra campagna socialista contro le spese militari (1903), chiamate improduttive... Grazie all’energica amministrazione
del ministro Mirabello (1903-1908) con gli assegni straordinari in aggiunta al bilancio consolidato le Marina rimediò alle deficienze, e poté iniziare la costruzione delle Dreadnoughts,
di cui la prima fu varata nel 1910, altre tre nel 1911 e due nel 1913…”
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Osservatorio
fortificazioni e, il 5, un contingente di marinai da sbarco, comandati
dal C.V. Umberto Cagni, occupò la
città. L’Esercito giunse solo l’11 ottobre”15.
Il successo conseguito e i nuovi
possedimenti conquistati oltre mare
(si ricordino anche le Sporadi), non
ruscirono comunque a dare un impulso significativo allo spirito marittimo della nazione e si arrivò allo
scoppio della prima guerra mondiale con gravi lacune nel personale,
nei mezzi navali e nei sistemi di difesa delle coste.
Il periodo di neutralità servì
solo parzialmente a colmare le deficienze della nostra Marina che,
entrata in guerra, dovette confrontarsi con un nemico chiuso nei suoi
porti sicuri, che non avrebbe mai
accettato lo scontro frontale della
battaglia decisiva.
La guerra navale arrivò ad uno
stallo16, gli scarsi risultati, alcuni
affondamenti e le perdite dovute a
disgraziati incendi in porto, portò
l’opinione pubblica a criticare la politica navale prescelta, considerandola troppo prudente17.
Arrivò la vittoria e la Marina,
anche se non ebbe l’occasione di
esprimere tutte le sue capacità con
una battaglia decisiva, trovò il suo
posto tra le pagine della storia grazie soprattutto ad azioni di grande
valore strategico e morale, rese
possibili dalla lungimirante politica
riguardante lo sviluppo delle nuove
Foto: Nave Corsaro Dadda a Venezia 1916
macchine da guerra, come i mezzi
insidiosi, gli aerei e i sommergibili,
e portate a compimento da uomini
di particolare coraggio e valore che
colpirono il nemico all’interno dei
suoi porti.
Nel periodo che intercorse tra
le due guerre mondiali, l’Italia mirò
a costituire una forza navale pari a
quella della Francia18. La flotta arrivò
a contare sei corazzate, vari incrociatori pesanti da 10.000 tonn., un
buon numero di cacciatorpediniere
e ben 113 sommergibili (1940).
Prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale la Marina
venne impiegata nella campagna
d’Etiopia e nella guerra di Spagna.
Poi venne la seconda guerra
mondiale.
Non è questo il contesto per
commentare quanto successe durante questo conflitto e le terribili
conseguenze che ebbe sul nostro
paese, di fatto, ciò che risultò più
penalizzante per la marina dopo la
sconfitta, furono le severe restrizioni che dovette subire col trattato di
pace che decretò la fine dell’Italia
come “potenza navale”.
Da allora cosa è successo al
nostro senso di marittimità?
Al termine del secondo conflitto
mondiale la minaccia dell’espansione dell’Unione Sovietica che
incombeva ai confini del nostro
paese, portò la politica della neonata Repubblica a tendere verso le
15
Giorgio Giorgerini, “Da Matapan al Golfo Persico”, collana: “Le scie”, A. Mondatori editore, Milano, 1989, pag. 63.
16
P. G. Halpern, op. citata, pag. 152. Il termine “stallo” è la più accurata definizione che si possa dare alla guerra navale che si stava conducendo in Adriatico alla fine dell’estate del 1915.
Il Comandante Daveluy, ufficiale di collegamento francese con la flotta italiana, la descrive con questi termini: “da questi fatti si possono trarre le seguenti conclusioni: i sommergibili
proibiscono alle grandi navi da guerra di prendere il mare, ciascun partito si arrovella (scratches their heads) per “fare qualcosa” ma nessuno ha trovato qualcosa da fare ad eccezione
di operazioni minori che non hanno alcuna portata e che più che altro mirano a dare l’impressione che si stia facendo qualche cosa. Ma, dato che non si può bombardare indefinitamente gli stessi ponti, le stesse stazioni, le stesse linee ferroviarie, gli stessi fari e gli stessi semafori, appare chiaro che ora Italiani e Austriaci sono alla fine delle loro risorse; dopo aver
desiderato di “fare qualcosa” nessuno sa più “che cosa fare”. Durante questo periodo la navigazione mercantile è rimasta preclusa ad ambedue i belligeranti così nessuno dei due può
vantare la padronanza del mare, che appartiene invece ai sommergibili di tutte le nazioni”
17
R. Bernotti, articolo citato, “Previsioni…”, pag. 165 e segg.. Ciò portò il Bernotti, in un suo scritto che venne stampato sulla Rivista Marittima a replicare a quelle che egli chiama le
“delusioni marittime”. Esordisce: “La guerra delle nazioni segna in apparenza una rivoluzione più che una evoluzione dei metodi di guerra in mare. Volendoci esprimere con franchezza
bisogna riconoscere che è abbastanza diffusa, fra le persone colte, la persuasione che questa guerra segni il fallimento dei criteri di Arte Militare Marittima propugnati prima del 1914;
una parte del grosso pubblico ritiene addirittura che si possa proclamare il fallimento della Marina... Stabilire il blocco delle flotte nemiche (nel mare del Nord e) in Adriatico, isolare il
nemico dal resto del mondo e giovarsi della libertà in tal modo risultante, con il protrarsi della guerra acquistò un valore più alto di quanto si poteva presumere….
Si deve dunque riconoscere come matematicamente accertato che le flotte, anche se, per effetto della condotta del nemico, compiono un’opera sconosciuta e silenziosa, costituiscono tuttavia un elemento vitale al pari degli eserciti; e non si dovrà dimenticare nell’avvenire che con i disagi che ora noi subiamo, questa guerra ci ha dimostrato in che larga misura
dipendiamo dal mare. Le riflessioni sul rilevante carattere marittimo di questa guerra mondiale, e sulla piena garanzia di successo che deriva dal predominio navale dell’Intesa, sono
indispensabili per acquistare la limpida visione della certezza della nostra vittoria”. Questo concetto viene ripreso da C. S. Gray, The Leverage of Sea Power. The Strategic Advantage of
Navies in War, New York 1992, The Free Press of Macmillan, Inc., p. 174. Si cita C. R. M. F. Cruttwell, The Role of British Strategy in the Great War (1936), che afferma: “Sebbene la guerra
sia stata vinta come diretta conseguenza di una serie senza precedenti di battaglie terrestri, è decisamente vero che questo risultato è stato ottenuto solo attraverso la condotta della
guerra sul mare”
18
Sancita nella Conferenza di Washington del 1922
8
Osservatorio
democrazie occidentali e un passo
fondamentale fu l’ingresso nell’alleanza atlantica. Tale decisione
consentì al nostro paese una lenta
ma costante ricrescita socio-economica, e con essa, crebbe anche
il sistema “Difesa”.
La minaccia principale era costituita dal confine terrestre nordorientale, ma il Mediterraneo costituiva comunque un bacino di interesse per i due blocchi.
Vari programmi di potenziamento della Forza Armata si susseguirono negli anni, il primo del
1949 nacque proprio dall’adesione
all’alleanza atlantica19 (Studio sul
potenziamento della Marina Italiana
in relazione al patto atlantico),
ad esso ne seguì un secondo nel
1958.
Questi piani si svilupparono sia
con nuove costruzioni che con unità
navali di vario tipo cedute a vario
titolo dagli Stati Uniti.
Col passare degli anni si veniva intanto rafforzando la presenza
sovietica nel Mediterraneo, e questo bacino diventò protagonista di
varie crisi (1967 conflitto araboisraeliano denominato “Guerra dei
sei giorni”, 1969 colpo di stato in
Libia, 1973 altro conflitto araboistraeliano denominato “guerra del
Kippur o del Ramadan”), gli Stati
Uniti rafforzarono la loro presenza
e l’Italia non potè rimanere indifferente a quanto stava succedendo
e alla necessità di tutelare il proprio mare, potenziando la propria
Marina, la quale, all’inizio degli anni
’70 aveva cominciato a soffrire di
un nuovo periodo di crisi per l’invecchiamento della flotta cui non
corrispondeva un adeguato piano
di nuove costruzioni.
La Nato chiedeva agli stati componenti l’alleanza impegni sempre
maggiori e anche i compiti della
Marina Italiana erano gradualmente
cresciuti20.
La svolta si ebbe con la presentazione al governo del documento
“Prospettive ed orientamenti di
massima della Marina Militare per il
periodo 1974-1984” con il quale si
chiedeva l’emanazione di una legge
speciale pari ad un impegno economico di 1000 miliardi delle vecchie lire. La legge, nota come “libro
bianco” della Marina, venne emanata il 22 marzo del 1975. Grazie
ad essa l’Italia potè presto contare
in una flotta che si sarebbe collocata tra il 7° e l’8° posto21 della
tabella del Kearsley, entrando così
a pieno titolo tra le principali Marine
della Nato.
Nonostante questa presa di coscienza da parte della politica del
tempo sull’esigenza che la nostra
marina doveva rientrare tra i protagonisti della tutela del nostro mare
ed il gravoso impegno economico
assunto dalla nazione per raggiungere questo ambito traguardo
l’opera della Marina, tanto costante
quanto silenziosa, rimase in secondo piano.
Abbiamo impegnato decine di
migliaia di ore di moto per sorvegliare il Mediterraneo, garantirne le
linee di comunicazione, tutelare i
nostri pescherecci, per non contare
le operazioni di salvaguardia della
vita in mare e le esercitazioni con
le flotte alleate mirate alla piena integrazione tra esse, ma di tutto ciò
l’opinione pubblica non se ne rese
mai veramente conto, probabilmente anche perché poco informata di
quanto si faceva, di certo siamo
cresciuti guardando alla soglia di
Gorizia come unica, tangibile, imminente linea di demarcazione con il
nemico, certi che, se si fosse rotto il
precario equilibrio tra i due blocchi
le terribili invasioni sarebbe calate
dai nostri confini nord orientali22.
La solida alleanza atlantica ha
provveduto a difenderci da quella
invasore.
Una volta dissoltasi l’Unione
Sovietica e scomparso il nemico,
le frontiere terrestri dell’Italia sono
diventate finalmente sicure, è cambiata radicalmente la minaccia, sia
per tipologia sia per provenienza,
ora si deve porre l’attenzione su
nuovi orizzonti che riguardano soprattutto soggetti dai quali siamo
divisi (o uniti) dal mare!.
La pace tra due guerre è il periodo della storia che consente ai
popoli di evolvere.
Caduto il muro di Berlino il processo di globalizzazione ha subito
una forte accelerazione che sta
avendo due effetti contrastanti;
19
oltre alla tradizionale missione strettamente nazionale, legata alla difesa del territorio, le missioni principali della Marina nel contesto dell’alleanza atlantica consistevano nel controllo dell’Adriatico e del Canale d’Otranto e nella difesa delle linee di comunicazione marittime del Tirreno.
http://www.marina.difesa.it/storia/index.htm. Sito ufficiale della Marina.
20
ibidem. Le nuove missioni assegnate alla marina dalla Nato consistevano nell’assicurare l’adempimento dei compiti assegnati nell’ambito della difesa integrata dell’alleanza, nell’intervenire autonomamente in quei conflitti locali dove non fosse possibile contare sull’appoggio diretto dell’Alleanza, nonché nella protezione delle linee di rifornimento, nella difesa
delle frontiere marittime, delle isole e dei bacini di interesse strategico (Adriatico e canale di Sicilia), nel fornire in caso di conflitto Est-Ovest, la scorta ai gruppi di battaglia dell’US Navy
in Mediterraneo e ai gruppi di rifornimento in transito.
21
7° posto: Difesa Regionale, navi ad alta tecnologia, aerei imbarcati, limitate capacità anfibie, modesto supporto logistico, limitata capacità di proiezione di potenza in ambito globale.
8° posto :Pattugliamento Globale, navi dotate di tecnologia di primo livello, aerei imbarcati, limitate capacità anfibie e di supporto logistico, limitata capacità di proiezione di potenza
in ambito globale
22
Questa prevalenza nel percepire la minaccia terrestre su quella navale richiama alla mente un discorso (riproposto di E. Ferrante nel suo scritto “Il grande ammiraglio…”, pubblicato
nella Rivista Marittima del XXX) tenuto dall’ammiraglio Revel in veste di Ministro della Marina il 20 dicembre del 1924 al Senato del Regno relativo alla “Funzione della Marina Militare
nell’economia di guerra e di pace dell’Italia” in cui l’ammiraglio dichiara:“La Marina da guerra fu un tempo paragonata, con felice similitudine alla spada di una nazione, mentre l’Esercito ne rappresenterebbe lo scudo…la Marina opera lontano, è l’arma mobile, maneggevole; l’Esercito opera sul territorio e costituisce la difesa salda, pesante, a contatto con il corpo,
forse è per questo motivo che, non appena la Nazione si leva in armi gli occhi degli italiani si volgono prevalentemente verso le Alpi, a seguire la lotta terrestre, cioè quella che si vive
da vicino, e pochi, anzi pochissimi guardano verso il mare ove non vi è fragore di armati, non si scorge segno di lotta, la quale si svolge silenziosa, al di là dei limiti dell’orizzonte, sotto
la superficie delle acque e nella vastità del cielo. Vi è però una ragione, di natura psicologica collettiva che conduce…a questo unilaterale apprezzamento sulle situazioni di guerra.
Le nostre tradizioni storiche…ci presentano le invasioni dalle Alpi le più terribili; e difatti esse furono quelle che…causarono i maggiori danni alle nostre popolazioni, alle terre ed agli
ordinamenti politici. Le vie del mare, per contro vennero considerate, fin dai tempi delle repubbliche marinare come apportatrici di beni e di ricchezze”.
9
Osservatorio
se da un lato i paesi più evoluti si
trovano sempre più vicini tra loro e
insieme percorrono il percorso del
progresso, diventando sempre più
evoluti, dall’altro sta aumentando il
gap con i paesi che non riescono a
tenere il nostro passo e che si ritrovano sempre più emarginati dal
“sistema mondo”.
Altro effetto della globalizzazione è stato l’ingresso nella ribalta mondiale di grandi paesi come
India e Cina, pronti a fare il balzo
nel mondo moderno e il cui inserimento nel sistema crea non poche
preoccupazioni data la grande influenza che hanno nelle loro regioni
di gravitazione, ad oggi non certamente stabili.
Come influisce tutto questo nel
nostro senso di marittimità?
Caduto il muro di Berlino si è
cominciato ad assistere ad una
serie di crisi, regionali e locali che
per intensità e soggetti coinvolti
risultarono costituire una minaccia
al nuovo equilibrio in quanto potenzialmente avrebbero potuto espandersi e intaccare il nuovo concetto
di sicurezza che il mondo globalizzato intendeva dare al pianeta.
In questo periodo è cambiato
anche il concetto di “Difesa”, che
aveva dominato la Guerra Fredda, e
si è passati al quello più complesso
e ampio di “Sicurezza”23, principio
che dalla concretezza rappresentata dal “nemico”, individuato in
modo univoco ci ha proiettati nella
sfera dell’astratto, del non misurabile, indefinito e imprevedibile.
La minaccia militare, dalla certa
provenienza e misurabile è stata sostituita dal rischio che una partico-
lare crisi (vocabolo che si è sostituito a guerra), che si fosse sviluppata in una data regione assumendo
specifiche caratteristiche, si possa
trasformare in un disordine politico
capace di degenerare in una minaccia all’ordine internazionale ed agli
interessi ad esso così strettamente collegati. Salvaguardare questo
ordine e tutelare così gli interessi
della nazione è diventato parte integrante degli obiettivi strategici
del nostro Paese.
Per questo motivo in questi
ultimi anni, abbiamo attivamente
partecipato a numerose operazioni, anche in aree molto lontane,
mirate a ripristinare pace, stabilità
e ordine.
Da quando il nostro Paese ha
assunto l’impegno, con i suoi alleati
e davanti alla comunità internazionale, di essere tra i primi tutori della sicurezza e dalla pace la Marina
Militare è diventata uno dei suoi
principali bracci operativi per assolvere tale impegno dovunque fosse
chiamata.
Questo ha richiesto una importante crescita culturale, dal Mare
Nostrum si è passati al concetto di
Mediterraneo allargato, ora questo
allargamento sembra aver perso i
già labili tratti che lo delimitavano ai
mari prospicienti il nostro bacino.
L’aspetto così marcato dato
dalla globalizzazione all’importanza dei mari in generale non deve
però distrarre la nostra attenzione
da quello che ci succede più vicino.
Il Mediterraneo è stato da poco
testimone della crisi dei Balcani ed
è recentissima la crisi tra Israele e
Libano. Se queste crisi dovessero
assumere connotazioni più forti
e coinvolgere altre nazioni che si
affacciano sul nostro mare, verrebbero direttamente interessate
acque sulle quali nello scorso anno
sono transitate petroliere che hanno trasportato il 20% del greggio
mondiale. Nei singoli porti italiani
sono movimentate ogni anno più di
170 milioni di tonnellate di idrocarburi, per quanto attiene al traffico
di merci in generale, l’andamento
del trasporto marittimo in Italia è
in netto rialzo: il 62% delle importazioni e il 47% delle esportazioni
avviene attualmente via mare24.
Su questi numeri deve svilupparsi il nostro senso di marittimità,
ma non solo.
Negli ultimi anni si è testimoni di una graduale, ma inesorabile territorializzazione del mare25.
Una ploriferazione di dichiarazioni, spesso unilaterali, di Zone
Economiche Esclusive (ZEE), Zone
di Protezione Ecologica (ZPE) e
Zone di Protezione della Pesca
(ZPP) stanno mettendo a confronto diversi paesi rivieraschi tesi
a mettere le mani sulle ricchezze
derivanti da diversi sfruttamenti del
mare (non dimentichiamo i tesori
archeologici sommersi) affermando
diritti su porzioni di alto mare, che
vengono ad indebolirne il principio
fondamentale di libertà. Preso atto
dell’incontenibilità di tale processo
l’Italia deve ovviamente tutelare i
propri interessi con tutte le capacità diplomatiche di cui dispone con
accordi bi-multi laterali con gli altri
stati frontalieri assicurandosi però
di poter effettuare una ferma azione
di controllo sul loro rispetto tramite
All’argomento vedere: G. Giorgerini, R. Nassigh, P.P. Ramoino: “Caratteri marittimi di una strategia globale italiana 2000-2030”, supplemento alla “Rivista Marittima”, Imago Media
Cesena, maggio 2004
Dati tratti dal “Rapporto” dello Stato Maggiore Marina del 2005.
Solo il porto di Venezia movimenta circa 1.500.000 di persone l’anno. Nella stagione estiva approdano una trentina di grandi navi la settimana. Nel 2005 al porto mercantile sono
approdate 4000 navi e movimentate 29 milioni di tonnellate di merci. (dati tratti dalla conferenza del C.A. (CP) Stefano Vignani al 41° Corso Normale di S.M.)
25
all’argomento, ma non solo su questo tema, Limes ha recentemente pubblicato un interessante volume dal titolo “Gli imperi del mare – la corsa agli oceani, allarme pirati, non solo
stelle e strisce”.
23
24
10
Osservatorio
un adeguato strumento navale.
E a proposito di controllo e
tornando alla sicurezza marittima,
è d’obbligo citare l’ambizioso progetto denominato virtual - regional
marittime traffic centre (V-RMTC),
nato durante il Simposio delle
Marine del Mediterraneo e del Mar
Nero del 200426, proprio tra queste
mura, di cui la nostra Marina è stata
ideatrice e attualmente è leader, cui
hanno aderito ben 26 nazioni, di
cui 13 non appartenenti all’Alleanza
Atlantica e il cui scopo è lo scambio
di informazioni sulla situazione del
traffico mercantile di stazza lorda
pari o superiore alle 300 tonn., per
garantirne, appunto, il controllo e la
massima sicurezza.
Per concludere vorrei dare una
indicazione più concreta del “costo”
di uno degli impegni che la nostra
Marina deve assolvere quotidianamente.
Il controllo dell’immigrazione
clandestina nel 2005 ha richiesto
1400 ore di moto mensili per le
unità navali e oltre 165 ore di volo
(pari a 21 missioni), sempre mensili
da parte dei velivoli di pattugliamento. Questa impegnativa attività
ha consentito di individuare 21.642
clandestini e, quando le operazioni
acquisivano la caratteristica di ricerca e soccorso, fornire assistenza in
mare aperto a 7000 migranti27.
Lo strumento navale deve essere dimensionato in modo tale da
poter assicurare le missioni che gli
potrebbero essere assegnate, deve
mantenersi addestrato per operare
sia nelle acque metropolitane sia
fuori area, anche molto lontano,
per periodi prolungati, deve garantire l’interoperabilità con flotte
alleate e amiche con cui spesso si
deve cooperare, deve infine garantire alti livelli tecnologici e operativi
per assolvere ruoli di comando e
controllo, anche quando inserito in
complessi navali ove siano presenti
le flotte più avanzate, quando l’interesse del paese, per quella specifica missione, è tale da doverne
assumere la direzione.
Questi sono i principali fattori in
merito ai quali la nazione deve essere sensibilizzata per poter sviluppare il proprio senso di marittimità.
Gli avvenimenti del secolo
scorso hanno profondamente segnato la storia del nostro pianeta
e in questo mondo ancora in via di
trasformazione il ruolo del mare è
cambiato.
Non sono cambiati però i principi fondamentali che legano una
Nazione con la sua Marina, primo
tra essi lo spirito marittimo che,
così come definito all’inizio della
presente trattazione, deve essere
tanto maggiore quanto più il mare
viene ad assumere un ruolo fondamentale nel nostro quotidiano.
Dell’immutabilità di questo
principio è prova l’attualità di un
discorso del grande Ammiraglio
Thaon di Revel del 1926, egli disse:
“L’orientamento politico è indissolubilmente legato con lo sviluppo
della Marina, che rappresenta nelle
regioni nelle quali l’influenza territoriale svanisce, per l’interposizione
del mare, l’unico mezzo di collaborazione effettiva alle varie attività
internazionali”.
È quindi necessario coltivare
una cultura del mare affinché sia
condivisa la certezza che, come
diceva ancora Revel, “la Marina da
guerra ha una vera funzione pacifica, reale, attuale, messa a profitto
degli intendimenti politici, affinché
questi abbiano rapidamente ed
onorevolmente giusto accoglimento.
Queste sono elementari necessità alle quali tutti i popoli marittimi
sottostanno.
Ecco perché l’Italia deve dare
alla sua Marina da guerra una importanza eccezionale, e concederle
i mezzi adeguati; non solo affinché
sia tenuta pronta ad ogni eventuale straordinario avvenimento, ma
anche per conseguire nel corso
dei fatti di una pacifica attività, gli
scopi politici che il Governo si prefigge”28.
Ammiraglio Thaon di Revel
Quest’anno avrà luogo la quinta edizione del Simposio delle Marine del Mediterraneo e del Mar Nero. Questa attività, nata nello stesso periodo in cui lo Stato Maggiore decise di
fare di Venezia il polo culturale della Marina dimostra l’importanza che la nostra Marina da alla costante ricerca di contatti con le Marine a noi più vicine per un continuo scambio di
capacità ed esperienze, nonché, come nel caso del V-RMTC, per lo studio e lo sviluppo di programmi comuni.
27
Dati tratti dal “Rapporto” dello Stato Maggiore Marina del 2005.
28
E. Ferrante, op. citata: “Il grande ammiraglio…”, pag. 208.
26
11
IL POTERE
MARITTIMO
VENEZIANO
Osservatorio
INTRODUZIONE
Ogni volta che si parla di potere marittimo viene naturale pensare
all’Inghilterra del periodo velico, quando i vascelli di “Sua Maestà il
Re” solcavano gli oceani di tutto il mondo. Le f lotte inglesi, soprattutto
dalla fine delle guerre napoleoniche fino agli inizi della Prima Guerra
Mondiale, riuscirono a mantenere quasi indisturbate il controllo delle
vie commerciali grazie alla politica che da sempre aveva caratterizzato i
governi britannici.
Quando alla fine dell‘Ottocento i primi studiosi di strategia navale
concentrarono la loro attenzione sul concetto di potere marittimo
guardarono naturalmente all’Inghilterra, che sin dal 1500 era stata quasi
sempre protagonista indiscussa dei mari. Al fine di comprendere le ragioni
della sua ascesa vennero analizzate le strategie che avevano determinato
tale supremazia e l’esito di memorabili battaglie navali.
Eppure, già qualche secolo prima, un piccolo villaggio di pescatori era
riuscito nel giro di pochi decenni a guadagnarsi il rango di potenza
marittima e a mantenerlo per un periodo lunghissimo prima di eclissarsi
e perdersi nella notte dei tempi.
Stiamo parlando della città di Venezia la cui singolare e affascinante
storia è stata da sempre fonte di innumerevoli miti.
Esistono delle caratteristiche comuni che determinarono l’ascesa di queste
due potenze?
Tenent e d i Va s cel lo
R iccardo LEON I
A.T. Mahan, nella sua opera “The
Influence of Sea Power Upon History,
1660-1783”, prende in considerazione
sei fattori che influenzano il potere
marittimo di un paese e cioè:
1. la posizione geografica;
2. la conformazione fisica;
3. l’e stensione del territorio;
4. l’entità della popolazione;
5. il carattere nazionale;
6. il carattere del governo.
Egli fa notare che l’Inghilterra,
rispetto a questi sei fattori, aveva
tutti i presupposti per imporsi
come potenza marittima nei
confronti degli altri stati. La sua
posizione geografica, in quanto
isola, le permise di non dover
ricorrere a enormi spese nel
mantenimento di un esercito per
la difesa terrestre e avere così più
fondi da investire nell’attività
marittima; inoltre, il fatto di essere
situata al centro della Manica le
1. F.C. Lane, Storia di Venezia, Trento, Einaudi, 1978, pag. 3
13
permise di controllare le linee di
traffico dell’Europa settentrionale.
Sia la conformazione fisica (le
caratteristiche della linea di
costa nonché il clima inospitale
e l’a gricoltura non fiorente) che
l’e stensione del territorio (la
lunghezza delle sue coste e la
qualità dei suoi porti) la spinsero
a intraprendere la via del mare. Il
carattere e la politica del governo,
che ben rappresentava quello del
popolo, incentivarono, dunque,
questa vocazione al mare.
Con il presente lavoro mi propongo
di analizzare, alla luce degli
studi condotti da A.T. Mahan,
i fattori che determinarono la
nascita del potere marittimo
veneziano e la conseguente ascesa
della Serenissima. Cercherò di
dimostrare altresì come, al variare
delle condizioni dei suddetti
fattori, Venezia andrà incontro al
suo declino.
La nascita di un mito
“La vita dei veneziani prima del mille è stata […] relativamente oscura”1.
La vecchia tradizione faceva risalire
Osservatorio
la nascita di Venezia alle invasioni
degli Ostrogoti di Alarico all’inizio
del V secolo e degli Unni di Attila nel
453-454 DC, con le popolazioni della
terraferma che si trasferivano nelle
lagune e creavano una nuova città.
In realtà esistono tracce di insediamenti indigeni sin dai tempi dell’Impero Romano. Lo storico latino Plinio
il Vecchio scrive dei “sette mari” riferendosi agli specchi d’acqua aperti
della laguna e “navigare i sette mari”
era sinonimo di abili navigatori. Tale
espressione fu attribuita ai popoli delle lagune molto prima che cominciassero ad andare per il Mediterraneo.
Le popolazioni stanziali, costituite
da pescatori, marinai e salinai, vengono descritte dettagliatamente per
la prima volta nella lettera del console Cassiodoro2 ai “tribuni marittimi”
nel 537-538 DC: “la pesca, i trasporti
e lo sfruttamento delle saline sono
le occupazioni di questi uomini”3.
Egli delinea una società povera ma
composta da persone libere e felici.
Una vita dura, in lotta continua con le
acque ma dove l’acqua stessa rende le
persone tutte uguali, che mangiano lo
stesso cibo e vivono nelle stesse case.
Una prima tappa verso la nascita
di uno stabile e cospicuo nucleo di
abitanti avviene con la discesa dei
Longobardi di Alboino nella seconda
metà del VI secolo4: gli abitanti della terraferma lasciano le loro città,
Altino, Treviso, Padova, in modo definitivo per insediarsi a Torcello, Rivolto (l’odierno Rialto) e Malamocco.
La presa di Oderzo nel 639 DC da parte del re longobardo Rotari segnerà
poi un altro passo importante nella
storia di Venezia; gli organi dell’amministrazione bizantina ripiegano
verso la laguna promuovendola a loro
sede. Viene così a costituirsi il primo
centro politico delle lagune. Ma sarà
l’anno 810 DC il momento definitivo
della storia di Venezia: nel tentativo
di sfuggire all’esercito dei carolingi,
intenzionato a conquistare Venezia,
la popolazione, e con essa la sede del
ducato, si trasferisce a Rialto. I veneziani resistono e sconfiggono i francesi. La provincia evita definitivamente l’annessione al Regno d’Italia
e un futuro agricolo e feudale; privata in tal modo di ogni possedimento
sulla terraferma “ritrovò nel mare la
propria area di espansione e nei rapporti economici e politici con l’Oriente il proprio campo di azione”. 5
Il ponte con l’Oriente
La tradizione e il mito avevano
sempre sostenuto che Venezia fosse stata libera e indipendente fin
dalle origini. In realtà il legame con
Bisanzio è stato sempre molto forte (lo stesso commercio del sale era
controllato, sin dai tempi dell’impero, tramite un rigido monopolio).
Anche nel trattato di pace che Carlo
Magno stipulò con Bisanzio dopo aver
rinunciato alla conquista di Venezia,
si ribadiva che il ducato veneziano
faceva parte dell’impero bizantino.
Tuttavia, questa sudditanza si rivelò per Venezia il primo trampolino
verso il mare: quando i Longobardi
conquistarono i due porti bizantini
di Ravenna e di Comacchio, Bisanzio
fu obbligata a cercare un’altra via per
il transito dei suoi commerci verso
l’entroterra italiano e l’Europa continentale. La scelta cadde naturalmente su Venezia. In poco tempo il
mercato di Torcello ebbe uno sviluppo enorme. I commercianti bizantini cominciarono a far affluire verso
la laguna ogni genere di mercanzie
(tessuti pregiati, spezie, metalli preziosi) che i Veneziani acquistavano e
poi rivendevano nell’entroterra. Tali
attività causarono ovviamente degli attriti con le popolazioni dell’alto
Adriatico. Numerosi furono i conflitti con la città di Comacchio, l’ultimo
dei quali nel 933, quando il doge Pietro II Candiano la ridusse definitivamente in cenere. Lo stesso doge
assoggettò poi Capodistria e alla fine
del X secolo il Nord Adriatico era in
mano ai popoli della laguna. Venezia divenne allora il principale porto
dell’Adriatico. In tutte le valli del Po i
veneziani si spingevano alla ricerca
di grano e in cambio offrivano, oltre
alle merci dell’Oriente, sale e pesce di
cui oramai detenevano il monopolio.
L’ultima spinta verso il mare fu data
a Venezia dagli Arabi. Verso la fine
del IX secolo quest’ultimi cominciarono la loro espansione verso
la Siria, il Nord Africa e la Spagna,
creando un sistema commerciale
che tagliava fuori Bisanzio dai mercati dell’Europa Occidentale. Venezia divenne l’unico possibile sbocco
per l’Impero d’Oriente e ciò fece della
città lagunare “la porta d’Europa”.6
Analisi di un’ascesa
Abbiamo già accennato ai fattori
che secondo A.T. Mahan influenzano
il potere marittimo di una nazione.
Nei suoi scritti l’autore non fa riferimento a Venezia. Nell’avvalorare la
sua tesi egli esamina il periodo storico che va dalla seconda metà del XVII
secolo alla fine del XVIII, facendo particolare riferimento all’Inghilterra.
Quegli stessi fattori possono essere
presi a riferimento anche per la Serenissima? Analizziamoli uno per volta.
Posizione geografica
Mahan rileva innanzitutto che “se
una nazione è situata in modo tale
da non essere costretta a difendersi
sulla terra né indotta a ricercare un
aumento del proprio suolo” 7, allora
sarà sicuramente favorita rispetto
ad un’altra che presenta invece delle frontiere di tipo continentale. Ciò
comporta innanzitutto il vantaggio
di non dover sostenere ingenti spese per un esercito o per costruire
delle fortezze. Venezia si è popolata
a causa delle invasioni barbariche
provenienti dal nord poiché le lagu-
2. - Cassiodoro, alto funzionario romano che godeva della fiducia del re ostrogoto, fu incaricato, nell’imminenza dell’attacco bizantino contro l’Italia ostrogota, dei negoziati con i capi veneziani per
rifornire Ravenna di olio, vino e grano. Dunque, al termine delle contrattazioni il trasporto delle merci fu affidato alle imbarcazioni veneziane.
3. - É. Crouzet-Pavan, Venezia Trionfante, Gli orizzonti di un mito, Torino, Einaudi, 2001, pag. 9
4. - I Longobardi non vennero in Italia per una semplice scorreria, come precedentemente avevano fatto le orde di Alarico e Attila, ma per rimanervi.
5. - A. Zorzi, La Repubblica del Leone, Milano, Rusconi, 1980, pag. 30
6. - F.C. Lane, Storia di Venezia, Trento, Einaudi, 1978, pag. 9
7. - A.T. Mahan, L’Influenza del Potere Marittimo sulla Storia, 1660-1783, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1994, pag. 64
14
Osservatorio
ne offrivano un’ottima difesa naturale. Coloro che nei tempi tentarono
di assoggettarla subirono pesanti
sconfitte. Nell’810 Pipino, re d’Italia e
figlio di Carlo Magno, dopo aver conquistato Malamocco non riuscì a superare le acque che lo separavano da
Rialto dove nel frattempo i Veneziani si erano ritirati. Le sue imbarcazioni si arenarono nelle acque basse
dei numerosi e complicati canali e
gli equipaggi vennero sterminati (la
zona lagunare dove si svolse la battaglia si chiamerà da allora Canal Orfano). Anche i Genovesi proveranno
invano nel 1379 durante la guerra di
Chioggia. Agli inizi del 1500 Venezia
viene presa d’assedio dalla coalizione di stati formatesi nella Lega di
Cambrai e ancora una volta le lagune riescono ad evitare la disfatta.
La posizione geografica al culmine
dell’Adriatico favoriva sia una buona
base per operazioni offensive contro
potenziali nemici sia la concentrazione delle forze navali. Queste non
dovevano difendere lunghi tratti di
costa ma solo gli accessi alla laguna,
che a quei tempi erano tre: Chioggia,
Malamocco, Lido. Grazie alla sua posizione favorevole Venezia riuscì con
successo a sferrare attacchi contro
tutte le popolazioni dell’A lto Adriatico che nei primi secoli la ostacolavano sul mare: istriani, dalmati,
le città di Ravenna e Comacchio.
Conformazione fisica
La linea di costa rappresenta il confine di un paese. Se tale frontiera ha
un facile accesso al mare più probabile sarà la tendenza di un popolo a
sviluppare una politica marittima.
Nel caso di Venezia credo sia difficile
capire quale sia la sua linea di costa;
più semplicemente possiamo dire
che praticamente non esiste. Tutta
la città è stata costruita sul mare.
Prendere la direzione del mare è stata, dunque, una scelta obbligata anche se sicuramente non facile per via
dei bassifondi e delle secche che rendevano estremamente difficoltosa la
navigazione. Ma la difficoltà la trovavano solo coloro che non conosce-
vano le paludi. I veneziani erano gli
unici a sapersi muovere con disinvoltura in quelle acque poiché sapevano
perfettamente dove si trovava ogni
canale navigabile. Ancor di più, essi si
preoccuparono nei secoli di rendere
percorribili da imbarcazioni le paludi
con continue opere di dragaggio e rinforzo degli argini. Vista la delicatezza
di tale compito nel 1224 fu creata la
figura di un magistrato agli stretti
che si occupava in particolar modo
di garantire che gli sbocchi verso il
mare aperto, soprattutto il Porto di
Lido e di Malamocco, non si ostruissero a causa dei detriti e del limo trasportati dalle maree. Quando verso
la fine del XV secolo i problemi idraulici della laguna si accentuarono, venne istituito dapprima il Magistrato
alle Acque e successivamente nel
1505 il Consiglio Solenne della Acque
Anche le caratteristiche fisiche del
territorio (il clima, la disponibilità di
suolo fertile, ecc.) possono influenzare la propensione di una popolazione
a rivolgersi al mare. Chi arrivava a
Venezia durante i primi secoli della sua vita poteva osservare come
ogni isolotto o lembo di terra disabitato fosse ricoperto da colture ed
orti. Tuttavia questi raccolti, che tra
l’altro consistevano solo in minima
parte di grano, non potevano bastare ad una popolazione che si andava
espandendo con estrema rapidità
(80˙000 abitanti nel 1200, 120˙000 nel
1300). I veneziani furono, dunque,
costretti a ricercare per mare una
qualche forma di ricchezza da poter poi smerciare nell’entroterra
in cambio di derrate alimentari.
Estensione del territorio
Con ciò non si intende la superficie
totale del paese ma l’estensione della
sua linea di costa e le caratteristiche
dei suoi porti. Inoltre la lunghezza
della fascia costiera può costituire sia
un fattore di forza che una condizione di vulnerabilità a seconda che la
popolazione sia più o meno numerosa. Mahan paragona un paese ad una
fortezza le cui mura devono essere
difese da un numero adeguato di sol-
dati. Nel precedente paragrafo ho già
accennato al numero di abitanti di
Venezia. Era una quantità notevole
per l’epoca che solo poche altre città
in Europa potevano vantare. È evidente, dunque, che in caso di attacco la difesa poteva fare affidamento su un nutrito numero di soldati.
Entità della popolazione
Per ciò che concerne la popolazione il
fattore importante non è solo il numero totale degli abitanti ma anche
la percentuale di questi dedita ad attività marinare e pronta per l’imbarco.
Non avendo risorse sulla terraferma
i veneziani furono costretti a prendere la via del mare. L’espansione
verso la terra era tra l’altro preclusa
ai lagunari per via delle occupazioni barbare. Inizialmente si sviluppa
quindi un’economia basata sulla produzione e commercio di sale e pesce
con cui i veneziani potevano acquistare i beni della terraferma necessari a vivere, in special modo grano.
Mahan introduce anche il concetto
di riserva, sia in termini di disponibilità di uomini che di supporto logistico. Venezia era ben conscia dell’importanza delle riserve8 e aveva
sempre profuso grandi sforzi verso
il raggiungimento di un’elevata efficienza del suo arsenale: le maestranze indaffarate e la pece bollente
avevano colpito anche Dante.9 Nella
seconda metà del Quattrocento le
dimensioni dell’A rsenale furono poi
più che raddoppiate. Nel 1473 fu ordinata la costruzione di una nuova ala,
l’A rsenale Novissimo, dove era sempre pronta una riserva di navi per far
fronte ad un eventuale attacco turco. Tale riserva contava inizialmente venticinque galere per arrivare a
più di cento alla metà del XVI secolo.
Carattere nazionale
La qualità più importante affinché
un popolo riesca a sviluppare un forte
potere marittimo è, secondo Mahan,
la sua propensione al commercio.
La particolarità del mondo economico di Venezia era l’adesione collettiva
di tutti i suoi abitanti alle attività
8. - A riguardo esistono negli archivi di Stato veneziani delle istruzioni emesse dalla Serenissima nel Cinquecento che disponevano l’uccisione di tutti i comandanti, ufficiali, nocchieri e maestri d’ascia delle
navi turche catturate, al fine di impedirne il possibile ritorno in attività. È palese, dunque, l’importanza che Venezia dava alle riserve.
9. - Dante Alighieri, La Divina Commedia - Inferno, Canto XXI, versi VII-XV.
15
Osservatorio
commerciali con la condivisione di
rischi e profitti. Lo stato appaltava le navi e gli appaltatori che assumevano il comando reclutavano
partecipanti tra tutti i ceti sociali
tramite l’istituto della colleganza.10
Un’altra caratteristica fondamentale del carattere nazionale è la
capacità di fondare e sfruttare
al meglio le colonie. Il concetto di
sfruttamento può assumere due
diversi significati: una colonia può
essere prosciugata di tutte le sue
risorse fino all’esaurimento oppure
si può cercare di incrementarne lo
sviluppo. Il primo caso è quello della Spagna e del Portogallo nei confronti delle Americhe che da subito
sfruttarono le miniere d’oro e d’argento. Diverso è l’esempio dell’Inghilterra, poiché gli inglesi che si insediavano stabilmente nelle nuove colonie
cercavano di svilupparne le risorse
nella convinzione che ciò avrebbe aumentato il volume dei commerci; essi
mantenevano buone relazioni con gli
apparati governativi locali allo scopo
di instaurare rapporti commerciali
e godevano di un certo margine di
libertà dalla madrepatria. Secondo
Mahan quest’ultimo caso di gestione
delle colonie sarebbe il più proficuo:
“le colonie progrediscono meglio autonomamente, in modo naturale”11.
Venezia non aspirava ad un’espansione territoriale12, ne è prova anche la
modesta estensione delle colonie,
ma solo ad un appoggio per poter
ricoverare le proprie navi e un ponte per i commerci con l’entroterra.
Da ogni colonia i veneziani prelevavano, commerciando, un particolare genere di mercanzia (vino, sale,
legname e pietra dall’Istria e dalla
Dalmazia, grano, olio, vino e cotone
dalle isole della Grecia e ovviamente
spezie, tessuti, pietre preziose dalle
colonie orientali). Era quindi per loro
fondamentale intrattenere ottime
relazioni con tutti i popoli al fine di
poter commerciare più liberamente.
Ne è prova il fatto che molto spesso
la Serenissima, al termine degli inevitabili conflitti di cui fu partecipe,
non chiedeva al tavo-
lo delle trattative
dei possedimenti territoriali bensì
agevolazioni sui dazi (ad esempio la
Bolla d’Oro ottenuta dall’imperatore
bizantino Alessio I nel 1082 e numerosi altri trattati stipulati con l’impero
ottomano)13.
Carattere del governo
Affinché un governo possa promuovere le naturali inclinazioni di un popolo occorre che esso sia il più possibile espressione diretta della volontà
del popolo stesso. Questa premessa
suggerisce, dunque, che un governo
di tipo democratico è quello che più si
avvicina al modello ideale per lo sviluppo del potere marittimo. Ci sono
esempi nella storia che sembrano
però dimostrare il contrario: la Francia di Luigi XIV, che affidò la gestione del settore del commercio, delle
manifatture, del naviglio e delle colonie a Colbert, riuscì ad espandersi
su mare grazie alla forte volontà di
un governo dispotico. È importante però notare che al momento in
cui cambia regnante il nuovo governo deve avere la capacità e la volontà di assicurare una continuità
di condotta. Questa continuità
è invece naturalmente garantita in un governo di tipo liberale.
Tra i tanti contesti in cui un governo può venirsi a trovare ce ne sono
due in cui il suo modo di agire è
particolarmente importante nell’influenzare lo sviluppo del potere marittimo di un popolo e cioè:
- “Primo, in pace: il governo, con la sua politica, può favorire la crescita delle industrie
e la tendenza del popolo a ricercare avventura e profitto per
mezzo del mare”. Questo può
essere ottenuto sviluppando
industrie e promuovendo attività rivolte al mare14, soprattutto nel caso in cui siano ancora inesistenti. Al contrario un governo può
frenare la naturale predisposizione
di un popolo con iniziative sbagliate;
- l’altro contesto è centrato sull’aspetto militare. Un governo può influire
sullo sviluppo del potere marittimo
di un popolo mantenendo una Marina da guerra di dimensioni adeguate alla sua flotta commerciale,
dotandola di forti istituzioni “che devono favorire spirito e attività sane
e provvedere in tempo di guerra a
un rapido aumento delle forze, con
10 - L’istituto della colleganza prevedeva la consegna di un capitale ad un comandante di galera e la resa, al rientro della nave, di una percentuale dei guadagni oltre al capitale iniziale, ammesso che gli
affari fossero andati bene.
11 - A.T. Mahan, L’Influenza del Potere Marittimo sulla Storia, 1660-1783, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1994, pag. 90
12 - Fa eccezione Creta. L’isola era estremamente importante per i commerci verso l’oriente e poiché i Cretesi continuavano a ribellarsi Venezia ne accentrò il controllo, facendone quasi una seconda patria
e dividendola in sei sestieri con gli stessi nomi di quelli di Venezia. Le terre furono suddivise tra centottanta feudatari e nella prima metà del XIII secolo ben trecentodieci importanti famiglie arriveranno a
Creta. La dominazione di quest’isola durò quasi cinquecento anni.
13 - Riguardo alle relazioni con la Sublime Porta, Venezia ha mantenuto sempre una politica diplomatica abbastanza ambigua. La Serenissima, pur spacciandosi spesso per il difensore occidentale della cristianità, non è stata mai ossessionata dall’idea di una crociata. I veneziani sapevano bene che durante le guerre i commerci subivano un calo. Diversi cronisti ritengono che Venezia non avesse mai pensato
di andare Oltremare nel corso della IV Crociata. Ci sono versioni che dicono che fu stipulato addirittura un accordo tra il sultano e i veneziani. Anche se queste voci sono alquanto isolate non è comunque
certo che Venezia avesse realmente intenzione di allontanare le sue flotte dalla Romania per andare a combattere in Palestina.
14 - A.T. Mahan, L’Influenza del Potere Marittimo sulla Storia, 1660-1783, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1994, pag. 115
16
Osservatorio
adeguate riserve di uomini e navi”15.
Ricade sotto questo aspetto anche la
formazione di basi navali collocate
lungo le rotte delle navi mercantili ed
idonee ad accogliere le unità militari.
Il mito ha sempre descritto Venezia
come una città libera. “Venezia era
la città senza mura, difesa dalle virtù delle sue istituzioni, e dunque da
quelle dei suoi cittadini […] Società
perfetta, essa si allontana dalla tirannia come dal governo dei molti
[…] Libertà, concordia e stabilità
sono i tre pilastri su cui si regge il decantato edificio di Venezia”16. Ciò alle
origini non era esattamente vero
vista la sudditanza che aveva nei
confronti dell’impero bizantino. Ma
c’è da dire, a difesa del mito, che la
politica interna della città era stata
sempre abbastanza indipendente.
Inoltre da un certo momento in poi
Venezia, pur facendo sempre parte
dell’Impero d’Oriente, ottenne un’autonomia politica ed economica quasi
totale. I governanti veneziani colsero
al riguardo alcune favorevoli occasioni. Intorno all’anno 1000 Pietro II
Orseolo difese i possedimenti bizantini della Puglia, della Calabria e della
Sicilia dalla conquista musulmana.
Ancora più decisivo fu l’intervento
dei veneziani nell’anno 1080 contro
un principe normanno, Roberto il
Guiscardo, che governava la Puglia,
e che astutamente era intenzionato a conquistare i porti principali
dell’Adriatico orientale. Venezia non
poteva permettere ciò e rimanere
tagliata fuori dall’asse dei commerci.
In aggiunta i turchi nello stesso periodo stavano invadendo le province
asiatiche di Bisanzio. Per far fronte al
quasi simultaneo attacco da est e da
ovest, l’imperatore d’Oriente Alessio I
chiese l’aiuto navale veneziano. Al termine delle operazioni l’imperatore
fu pienamente soddisfatto nei confronti di Venezia e nel 1082 emanò la
Bolla d’Oro che concedeva ai veneziani agevolazioni commerciali e l’esenzione dai dazi. Da questo momento
i veneziani accorreranno più volte a
difendere sul mare l’Impero d’Orien-
te e saranno proprio gli aiuti militari
dati a Bisanzio a dare lo slancio all’espansione commerciale di Venezia.
Tutte le operazioni che portarono
all’emanazione della Bolla d’Oro sono
state un magistrale esempio di come
la politica di un governo può influenzare il potere marittimo di un paese.
Durante tutta la fase della guerra la
politica del governo veneziano era
stata molto coerente: puntava ad
assumere il controllo del mare e non
all’acquisizione di nuovi territori. Lo
scopo delle sue azioni era il raggiungimento di accordi che portassero
vantaggi commerciali alla città a discapito delle potenze rivali oltre che
a rendere più sicure le rotte verso il
Levante, al fine di dare un impulso
aggiuntivo all’espansione commerciale di Venezia verso nuovi mercati.
Ho già scritto di Venezia come città libera, il cui governo rappresentava correttamente le aspirazioni
del popolo. I suoi organi formavano
una struttura di tipo piramidale:
alla base stava l’A ssemblea popolare, seguivano nell’ordine il Maggior
Consiglio, la Quarantia e il Senato,
il Consiglio Ducale ed infine il Doge.
L’A ssemblea popolare si riuniva per
decisioni di carattere fondamentale
e per acclamare l’elezione del doge. Il
centro del potere era il Maggior Consiglio17 che comprendeva un’ingente
rappresentanza del patriziato (agli
inizi del XIV secolo era composto da
oltre 1100 persone cioè circa il 10%
dell’intera popolazione!). Il Consiglio
eleggeva i magistrati e i membri degli altri consigli, votava leggi, decretava punizioni. Inoltre, a differenza
degli altri organi governativi europei
composti per lo più da nobili poco
interessati alle attività commerciali, la maggior parte dei suoi membri
era costituita da ricchi mercanti.
Appare evidente che una così grossa percentuale di commercianti
in seno alle strutture governative
della città doveva necessariamente
orientare la politica verso una visione economica e soddisfare in tal
modo le attitudini della popolazione.
15 - Ibidem, pag. 115
16 - L. Valensi, Venezia e la Sublime Porta, Bologna, Il Mulino, 1989, pag. 28
17 - Per una breve storia del Maggior Consiglio si rimanda all’Allegato B
18 - F.C. Lane, Storia di Venezia, Trento, Einaudi,1978, pag. 44
17
La politica della repubblica fu sempre
molto aggressiva, fondata su interessi militari e commerciali tra loro indissolubilmente legati. Le città rivali
vennero talvolta completamente
rase al suolo (si pensi a Comacchio). I
governanti veneziani di conseguenza
diedero sempre molta importanza
alla flotta. Le deliberazioni pubbliche
ripetevano che la marina era stata
da sempre la base della potenza di
Venezia. Leggi vietavano ai veneziani
di vendere le proprie navi a degli stranieri, a meno che non fossero troppo
vecchie. Grazie a questa mentalità
l’arsenale di Venezia riuscì a raggiungere degli standard costruttivi di elevato spessore. Ad esempio quando,
in occasione della Quarta Crociata,
fu chiesto al doge di provvedere alla
costruzione di una flotta idonea al
trasporto di 33500 soldati, costui non
mostrò esitazioni. Nei tempi previsti
(poco più di un anno!) i veneziani costruirono una flotta di tali dimensioni (circa duecentocinquanta navi tra
unità da trasporto e galere da guerra)
che Goffredo di Villehardouin, maresciallo di Champagne, incaricato dai
nobili cavalieri di Francia di negoziare il trasporto in Terrasanta, alla sua
vista disse entusiasticamente: “E la
flotta da essi allestita era di tanta bellezza ed eccellenza, che mai cristiano
ne vide una più bella ed eccellente”18.
Un altro aspetto a cui la politica della
repubblica dedicò molta attenzione
furono le basi navali. Venezia diede
sempre un’estrema importanza alle
sue basi. Dall’esame della distribuzione dei domini veneziani nei vari
secoli notiamo che essi erano di
modeste dimensioni ma distribuiti strategicamente lungo l’asse dei
loro commerci: Pola, Zara, Ragusa,
Corfù per il controllo dell’Adriatico Modone, in Morea, importante base
logistica per l’approvvigionamento
di acqua e viveri - Creta per i traffici
verso Alessandria, Cipro e l’Oltremare - Negroponte per i traffici diretti
a Costantinopoli, Trebisonda e La
Tana. Il governo della Serenissima ha
avuto sempre ben chiari i concetti di
Osservatorio
dominio del mare e delle line di traffico e ha difeso con tenacia le sue basi
disposte secondo queste direttrici.
Il declino della Serenissima
Molto si è scritto sulle possibili cause
che determinarono il declino di Venezia.
Numerose analisi storiografiche contemplano sia lo spostamento dell’asse dei commerci dal Mediterraneo
all’Atlantico che la dissolutezza dei
costumi dei suoi cittadini, in particolar modo dei governanti19; altre fanno
riferimento al cambiamento di mentalità del patriziato20 che trascura il
commercio per dedicarsi ai domini di
terraferma e altre ancora individuano i motivi nell’espansione dell’impero ottomano. In realtà, come spesso ci insegna la storia, non si tratta
di una sola causa ma di un insieme
di elementi che si sono evoluti nel
tempo. E che dire del potere marittimo? Le cause citate sopra possono
avere in qualche modo condizionato i fattori contemplati da Mahan?
Innanzitutto esaminiamo la posizione geografica. Ovviamente questa
non è cambiata con il tempo ma è il
contesto che ha subito enormi mutamenti. Venezia a partire dalla fine
del XIV secolo cambia la sua politica
di espansione e comincia ad acquisire i territori della terraferma. Dal
suo bilancio statale21 intorno al 1500
si evince l’entità del cambiamento.
In particolare due voci abbastanza
consistenti non erano presenti il secolo precedente: le rendite dalle città
di terraferma e le imposte dirette
riscosse a Venezia. Diverse furono
le cause di questa inversione di tendenza. Fra le tante enunciate si può
menzionare la continua espansione
dell’impero ottomano che ridusse
i mercati veneziani in oriente, causando una diminuzione dei traffici
commerciali. Quest’ultimi furono
colpiti ancor più duramente dalla
nascita di nuove rotte commerciali
atlantiche, battute in una fase iniziale dai Portoghesi e dagli Olandesi,
a cui Venezia seppe però far fronte
egregiamente, e successivamente dagli Inglesi. Quest’ultimi, con la
formazione delle Compagnie delle
Indie, acquisirono il monopolio delle
spezie dall’India e riuscirono a poco
a poco a sottrarre gran parte del
mercato alla Serenissima. La contrazione dei traffici marittimi veneziani che ne derivò spinse i mercanti a
reinvestire nei possedimenti in terraferma poiché adesso rappresentavano una fonte di guadagno più facile rispetto alle attività marittime.
Il carattere della popolazione cominciò a cambiare. Il commercio che
aveva reso Venezia una delle città più
ricche d’Europa iniziò ad essere visto
con diffidenza dalle classi nobiliari.
Poco per volta le attività commerciali
e armatoriali che erano state un vanto per la nobiltà veneziana, diventarono una pratica da disprezzare. Nel
XVI secolo il doge Nicolò Sagredo viene biasimato pubblicamente per la
sua attività di commercio del legname: un doge del Trecento ne sarebbe
invece andato orgoglioso. Nel 1610 i
Cinque Savi alla mercanzia lamentavano la decadenza della marina
mercantile; quando il governo inglese offrì l’apertura dei suoi porti alle
navi veneziane, ottenne la seguente
risposta da parte degli armatori: non
ci sono più navi “proprie da impiegare a questo servizio”22. Nello stesso
anno il governo della Serenissima
pensò di liberalizzare il commercio
concedendo ad armatori stranieri le
stesse condizioni dei Veneziani, ma il
Papato oppose resistenza nel timore
che i mercanti protestanti corrompessero una popolazione già di per
se troppo poco “cattolica”23. Non tutti
erano ovviamente di questo avviso.
Già agli inizi del XVI secolo, duran-
te gli anni della guerra della lega di
Cambrai, Girolamo Priuli24 riferisce
che alcuni veneziani, il cosiddetto partito marittimo, ritenevano
che in caso di perdita dei territori
continentali i cittadini si sarebbero
dedicati di nuovo al mare e ne avrebbero ricavato un grosso profitto. Egli
biasima la nobiltà corrotta dagli agi
della campagna e il Senato per i soldi
spesi nella fortificazione delle città
italiane e per assoldare i mercenari, invece che investire nella flotta.
In ogni caso, come la storia ha
dimostrato, il processo verso i
domini di terra non si fermò.
Anche il carattere del governo cominciò a cambiare. Come ho già detto il nuovo patriziato riteneva che
il proprio rango nobiliare comportasse l’abbandono del commercio e
l’investimento nella terra. Dovevano dar sfoggio di magnificenza. Si
moltiplicarono caffè e sale da gioco
dove i nobili passavano gran parte
del loro tempo. Tutta questa spensieratezza e frivolezza denotava la
mancanza di un serio impegno politico. La Venezia delle origini sceglieva
i suoi rappresentanti soprattutto
in base alle capacità dimostrate sul
campo. Alla fine del Settecento invece l’esercizio del potere era diventato esclusivamente ereditario. Gli
aristocratici arrivarono a provare
un senso di avversione verso coloro
che con il commercio tentavano di
ridare vita alla città e anche quando
quest’ultimi riuscivano ad entrare
negli organi di governo difficilmente
arrivavano fino alle più alte cariche.
Questa compagine di governo rimase, dunque, completamente passiva
alla vigilia della discesa di Napoleone in Italia. Venezia rifiutò di allearsi
sia con la Francia che con L’Austria e
respinse l’idea di una lega degli stati
italiani. Una politica di neutralità
richiedeva sicuramente meno sforzi. Così quando Napoleone arrivò al
19 - Il mito di una città dissoluta e viziosa nasceva agli inizi del XVIII secolo, così come emerge dagli scritti e dai diari dei viaggiatori del tempo.22 - Il patriziato, una volta arricchitosi con il commercio, iniziò
ad investire il denaro nelle più sicure proprietà terriere assumendo un comportamento più consono allo status nobiliare dell’Europa cattolica che disprezzava le attività commerciali.
20 - Un estratto del bilancio statale degli inizi del XVI secolo è riportato in Allegato D
21 - A. Zorzi, La Repubblica del Leone”, Milano, Rusconi, 1980, pag. 392
22 - Erano gli anni della crisi con il Papato culminata nell’aprile del 1606 con l’interdetto emanato da Paolo V e lo scritto di fra Paolo Sarpi, Il Protesto, che viene diffuso nel maggio del 1606.
23 - Girolamo Priuli, cronista del periodo, era nato in una famiglia di nobili finanzieri. Nei suoi Diarii,
descrive le notizie che circolavano a Rialto. Aveva vissuto diversi anni a Londra e fu
decisamente influenzato dalle idee dei mercanti anglosassoni. Giudicato da molti più un moralista che un analista politico, egli biasima i nobili veneziani e considera un castigo divino le disfatte che
la Repubblica stava subendo in quel periodo.
24 - Nasce in questo periodo il fenomeno veneto denominato “la civiltà delle ville”: numerosissimi nobili veneziani gareggiano con la buona società della terraferma nel costruire splendide ville dallo spirito
bucolico di cui il maggior architetto fu Andrea Palladio, destinato a diventare famoso fino in Inghilterra con l’invenzione della cosiddetta “villa tempio”.
18
Osservatorio
limite della laguna e ingiunse ai
veneziani di sciogliere il governo
nessuno si oppose. I comandanti
della Serenissima
confer mava no
che la città non
era pronta a difendersi da un attacco e anche se
tra i ranghi inferiori c’era ancora
molta voglia di
combattere ciò
non fu sufficiente a convincere
i nobili che ricoprivano gli incarichi di comando.
Circa tre secoli
prima, durante le guerre della lega
di Cambrai, il senato faceva ritirare
tutti sulle isole per prepararsi alla
difesa. Nel maggio del 1797 questa
ipotesi non venne neanche presa in
considerazione. Il 12 maggio 1797 il
Gran Consiglio viene dunque sciolto. La Serenissima aveva cessato di
esistere nel momento in cui il doge
dimise le insegne dogali. Tre giorni
dopo i soldati francesi, primi dopo
milleduecento anni di indipendenza, entreranno sul suolo veneziano.
Conclusioni
L’ammiraglio A.T. Mahan nella sua
opera più nota, “The Influence of Sea
Power Upon History, 1660-1783”, ha individuato i fattori che secondo la sua
opinione determinano lo sviluppo
del potere marittimo di una nazione.
Egli prende in esame il periodo che
va dalla seconda metà del XVII secolo alla fine del XVIII ed analizza in
particolar modo il caso della potenza
marittima del tempo, l’Inghilterra,
alla luce dei seguenti fattori: posizione geografica, conformazione fisica,
estensione del territorio, entità della popolazione, carattere nazionale,
carattere del governo. Rispetto a
questi sei elementi l’Inghilterra aveva tutte le carte in regola per acquisire e detenere il monopolio dei mari.
Nessun cenno fa l’autore riguardo
a Venezia. Lo scopo del presente lavoro è stato mostrare come la Serenissima sia riuscita a diventare una
potenza marittima, in rapporto ai
Foto: Sala del Gran Consiglio Palazzo Ducale
suddetti fattori. Più personale è stato poi ipotizzare un legame tra il suo
declino e un mutamento all’interno delle sei condizioni sopracitate.
Nel primo capitolo ho fatto un breve excursus sulla genesi di Venezia
cercando di attenermi il più possibile a fatti storici anche se spesso è
risultato difficile discendere il mito
dalla realtà. Ripercorrendo la storia ho elencato i tre principali passi
che hanno reso possibile la nascita
della città: le invasioni longobarde
del VI secolo dopo Cristo, la presa di
Oderzo nel 637 DC ed infine il tentativo fallito di conquista da parte dei
carolingi nel 810 DC che sancisce definitivamente l’allontanamento dei
popoli della laguna dalla terraferma.
Nel secondo capitolo ho esaminato la
nascita del potere marittimo di Venezia alla luce dei fattori del Mahan
avvalorando le mie ipotesi con eventi storici. Ho potuto così constatare
che Venezia aveva tutti i presupposti
e le condizioni, così come Mahan aveva dimostrato per l’Inghilterra, per
imporsi come potenza marittima
sugli altri popoli del Mediterraneo.
Venezia conservò questa superiorità per più di seicento anni, fino a
quando cominciarono ad affacciarsi
sulla scena mondiale altre potenze
che contesero alla Serenissima il suo
primato: l’impero ottomano, grande antagonista di sempre, la Spagna
e il Portogallo per un breve periodo,
19
l’Olanda e l’Inghilterra più tardi.
Infine nel terzo
capitolo ho cercato di individuare
dei mutamenti
nelle condizioni
che avevano reso
grande Venezia e
ho potuto dedurre che tre dei sei
fattori di Mahan
avevano in particolare subito grossi cambiamenti:
la posizione geografica non rappresentava più il
fulcro del mercato occidentale, la
porta d’Europa si
era chiusa; il carattere della popolazione e del governo era
inesorabilmente cambiato e, lontano
ormai dal coraggio e dalla determinazione di un tempo, mostrava una pericolosa pigrizia nell’affrontare le sfide.
Durante la trattazione ho riscontrato numerose analogie con la potenza
anglosassone. Si tratta infatti, in entrambi i casi, di terre circondate dal
mare che per tale motivo poterono
trascurare la cura di un esercito a scopi difensivi e concentrare gli sforzi sulla creazione e il mantenimento di una
flotta navale; erano situate in posizioni strategiche rispetto a potenziali avversari (Francia e Olanda per l’Inghilterra, popolazioni che si affacciavano
sull’Adriatico per Venezia) cosa che
permetteva loro di controllare tutte
le principali linee di comunicazione;
la scarsità di risorse interne le obbligò
a cercarle oltremare; gli ottimi punti
di accesso al mare uniti alla vocazione
marinara e commerciale del popolo
favorirono la spinta verso l’esterno;
infine i governi di tipo liberale appoggiarono il naturale interesse mercantile degli abitanti. A distanza di secoli
i fattori del Mahan si dimostrarono
quindi determinanti per il raggiungimento di un potere marittimo.
È innegabile che Mahan sia considerato un punto di riferimento per chiunque si accinga a parlare di potere marittimo o di strategia navale. I suoi
scritti costituirono le basi di tutti gli
studi successivi e, ancora oggi, risultano essere estremamente attuali.
L’Organizzazione snella
come possibile approccio
per accrescere la flessibilità
e diminuire gli sprechi
nella nostra organizzazione
INTRODUZIONE
Il modello della organizzazione snella è il riferimento di eccellenza di questi anni. Le sue radici affondano
nelle teorie del Total Quality Management (TQM), introdotte in Giappone a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso.1 Venti anni più tardi, con un ulteriore salto evolutivo, eminenti studiosi del settore
idearono una nuova filosofia di managing, munita di innovativi strumenti di gestione. Nel 1991 tre ricercatori2 del Massachusetts Institute of Technology3 presentarono in Occidente questo nuovo modo di produrre teorizzandolo come Lean Production. La nuova mentalità manageriale si sviluppava secondo il cosiddetto Lean Thinking mentre il modello organizzativo di riferimento fu battezzato Lean Organization (LO).
Scopo del presente lavoro è fornire un rapido richiamo dei concetti LO e presentarne uno studio
di applicazione nell’ambito della Marina Militare. Verrà quindi condotta una verifica della fattibilità ed una stima dei vantaggi in termini di miglioramento produttivo. Nel corso della trattazione si vedranno infine le possibilità offerte dal S.I.G.A.4. (Sistema Informativo di Gestione Automatizzata).
1
2
3
4
William Edwards Deming, nato nel 1900, statistico americano, inventore del Total Quality Management, a partire dal 1950 introdusse in
Giappone le proprie teorie manageriali. Nel 1960 l’Imperatore del Giappone lo insignì della medaglia del Sacro Tesoro per i servizi resi
all’industria giapponese.
James P. Womack, Daniel T. Jones, Daniel Roos. The machine that changed the world: the story of Lean Production.
Massachusetts Institute of Technology.
Sistema Informativo di Gestione Automatizzata.
Osservatorio
Tenent e d i Va s cel lo ( GN )
Tom maso M AGON I
LEAN THINKING:
I PRINCIPI
Una organizzazione si dice snella
quando ha ridotto i livelli gerarchici
tradizionali, dando luogo ad una struttura piatta, cioè estesa in senso orizzontale. Nella organizzazione snella si
favorisce il lavoro di gruppo e si privilegiano i rapporti di tipo fiduciario. La
riorganizzazione della struttura viene
fondata su ampie deleghe del potere
decisionale5. Il personale, che dovrà essere altamente qualificato, viene dotato
di maggiore autonomia, maggior potere e maggiore responsabilità. Ne derivano inoltre una maggior motivazione
ed aumentate capacità di decisione e
di risoluzione dei problemi. L’apporto
creativo che si ottiene migliora il prodotto e riduce i costi. Riassumendo, i
principali elementi caratteristici della
LO sono:
−
−
−
−
−
−
struttura produttiva piatta;
lavoro di squadra;
polivalenza dei ruoli operativi;
miglioramento continuo diffuso;
gestione per processi;
adozione delle tecniche produttive
giapponesi (TQM, Just in Time).
Il Lean Thinking (LT) non esprime concetti assolutamente nuovi, piuttosto si
può considerare come una evoluzione
dei modelli organizzativi preesistenti,
a cui riesce a dare una convincente integrazione. Il termine “snello” riferito
ad un processo aziendale esprime il
fatto che richiede meno scorte, meno
spazi, meno addetti a lavori indiretti,
meno movimenti di materiali, minori
tempi per allestire i macchinari e via
dicendo.
Il cardine del LT è rappresentato dalla
continua ricerca ed eliminazione degli
sprechi, attraverso l’implementazione
di alcuni principi che costituiscono
5
l’ossatura cui fare riferimento nell’azione di ripensamento dei processi
aziendali:
−
−
−
−
−
−
valore per il cliente;
flusso di creazione del valore;
scorrimento continuo del flusso di
valore;
logica pull;
ricerca della perfezione;
miglioramento concentrato e rapido.
Valore per il cliente
Parametro specifico per ciascun processo aziendale, il valore per il cliente
è definito come il rapporto tra prestazioni ed incombenze (costi). Nella LO
deve essere fatto tutto il possibile per
recuperare valore.
Flusso di creazione del valore
Focalizzando l’attenzione su ciascun
prodotto o servizio, si definisce flusso
di creazione del valore (FV) la sequenza di tutte le operazioni che creano valore. A tale scopo occorre in primo luogo verificare tutti i processi aziendali
per individuare tre categorie di azioni:
1) azioni che creano valore;
2) azioni che, pur non creando valore, sono utili alla produzione, oppure
che non possono essere eliminate per
vincoli di vario genere, per esempio legislativi;
3) azioni che non creano valore, non
utili ad altre attività.
Nella LO devono essere eliminate tutte
le azioni appartenenti alla terza categoria.
Scorrimento continuo del flusso di
valore
Allo scopo di quantificare il grado
di scorrimento (e quindi di “snellezza”)
di ciascun processo aziendale, la LO
ha introdotto tre parametri/strumenti
fondamentali:
− TL/TA: rapporto tra tempo di lavoro effettivo e tempo di attraversamento.
Rappresenta in sostanza la quantità di
azioni che creano valore rispetto alla
globalità delle azioni del processo (nel
flusso ideale TL/TA=1);
− WIP (work in progress): numero di prodotti contemporaneamente
in lavorazione. La LO ricerca il raggiungimento del flusso per il quale sia
WIP=1;
− Takt time: rapporto tra ore complessivamente lavorabili e numero di
richieste di prodotti/servizi. Definisce
l’intervallo di tempo disponibile tra
una risposta e la successiva per poter
evadere tutte le richieste, una sorta di
“battito cardiaco” del FV. Dipende dal
numero di lavoratori impiegati su ciascun flusso.
Il FV deve scorrere senza interruzioni
evitando attese, scarti e sprechi. Per
ogni processo produttivo si deve tendere al lotto ideale, il lotto unitario
(WIP=1), eliminando i “colli di bottiglia” ed i lotti intermedi. E’ opportuno
inoltre superare la divisione in uffici/
posizioni separate e concentrare l’attenzione sul prodotto/servizio. Il tutto
allo scopo di rendere unitario il parametro TL/TA.
Logica pull
La LO richiede che la produzione sia
attivata dalla richiesta del cliente (logica pull), diversamente dal modo
tradizionale di produrre (logica push),
in cui si produce per il magazzino facendo uso delle stime di vendita per
determinare la quantità della produzione. Questo principio si estrinseca in
sostanza nel Just in Time.
Ricerca della perfezione
Ricercare la perfezione significa sia
ridurre gli sprechi sia raggiungere il
“benessere organizzativo”, ossia porre
le persone al centro dell’organizzazione. Con l’applicazione della LO ed un
maggior coinvolgimento del personale
non direttivo, si aprono ampi margini
di miglioramento. L’aver ben definito il
FV facilita l’identificazione degli spre-
Le deleghe riguardano sia la Direzione Generale, sia le Direzioni funzionali o divisionali ed i quadri intermedi.
21
Osservatorio
chi, tra cui ricordiamo i più comuni:
− disservizi ed errori;
− sovradimensionamento risorse;
− pratiche o beni in attesa di lavorazione;
− lavori non necessari;
− spostamenti di persone non necessari;
− elaborazione e trasferimento di
informazioni non necessarie ;
− attese del personale e dei clienti;
− progettazione di servizi non adeguata;
− non ottimale utilizzo delle potenzialità delle persone;
− carente coinvolgimento del cliente.
Miglioramento concentrato e rapido
Per apportare i cambiamenti ed ottenere
un consistente aumento di produttività,
basta dedicare al miglioramento del
processo gruppi di lavoro creati ad hoc
(concentrato) per una settimana (rapido). I gruppi di lavoro devono essere
costituiti dalle persone che si occuperanno del processo in esame, in quanto
loro stesse sono i maggiori conoscitori
delle problematiche esistenti6.
LA LEAN ORGANIZATION
NELLE FORZE ARMATE
Le Forze Armate (FF.AA.) fanno parte
del variegato universo delle Pubbliche
Amministrazioni (PA). Uno dei principali riferimenti legislativi delle PA
è la legge 241/90 che richiede loro di
improntare la propria attività a criteri di efficacia ed economicità7. Negli
ultimi anni le risorse di bilancio assegnate alla Difesa sono andate progressivamente diminuendo. Per il 2006 tali
risorse sono prossime allo 0,8% del
P.I.L. e per il futuro è lecito aspettar-
6
7
8
9
10
11
si assegnazioni simili. Va da sé che la
ragionata trasposizione dei principi LO
alle FF.AA. può essere un valido metodo per impiegare al meglio le scarse
risorse disponibili rispettando al contempo i dettami della Legge.
In un’ottica di riduzione di costi e
sprechi, alcuni settori pubblici sono
in pieno sviluppo nella ricerca della massima qualità offerta al cliente.
Anche la Difesa ha un cliente ultimo,
il cittadino. Tuttavia, come è vero che
le FF.AA. esplicano un servizio pubblico, è vero anche che la maggior parte di tale servizio non è direttamente
fruibile dal cittadino8. Diversamente
da altre pubbliche amministrazioni9,
il cittadino nei riguardi delle FF.AA.
può essere definito cliente indiretto. La
sua maggior soddisfazione può essere
l’efficacia delle FF.AA. per gli scopi di
indirizzo della Nazione, unita alla massima efficienza, ovvero senza spreco di
risorse pubbliche.
La Marina Militare Italiana (MM) è
un’organizzazione di vaste proporzioni costituita da una pluralità di sistemi caratterizzati da strutture formali
di diverso tipo e commisurate agli
obiettivi. Le singole strutture formali
sono i diversi enti, centrali o periferici,
della Forza Armata. Ogni ente svolge
dei compiti/servizi istituzionali, per i
quali è fornitore verso altri enti, suoi
clienti esterni (nella accezione LO del
termine). Il cliente interno, invece, è
individuabile in ciascun elemento dell’organizzazione10. Perseguire l’eccellenza equivale a perseguire la massima
soddisfazione dei clienti, ovvero del
personale che opera nei diversi enti, e
la massima riduzione di ogni spreco di
risorse.
Nella MM, diversamente dal privato,
che non ha obbligo di fornire evidenza
dei propri procedimenti amministrativi, parte dei processi è regolata dalle
norme del Diritto Pubblico. Tale stringente vincolo non consente margini
di razionalizzazione e “snellimento”
a meno di una rivisitazione della legislazione di riferimento. Altre attività
seguono regole interne all’organizzazione, spesso codificate da normative
e quindi standardizzate. Sembra quindi
che il margine di intervento per migliorare i processi della MM sia minimo.
Una rigorosa trasformazione in organizzazione snella appare difficilmente
realizzabile, se non altro per l’impraticabilità di trasformare la struttura
da gerarchica e verticale (tipica delle
FF.AA.) a orizzontale (e quindi “snella”).
Qui ci viene in aiuto il dottor Negro,
uno dei maggiori esperti della LO in
Italia: “L’ente pubblico può adottare
l’organizzazione snella anche con gradualità a partire dall’avvio del miglioramento rapido e concentrato, per poi
organizzare le diverse attività in flussi
continui senza interruzioni che lavorano al takt time, per completare infine
la struttura in team/realtà autonome
su servizi finiti e organizzata in rete a
gerarchia variabile e distribuita con gli
enti/partner esterni”11.
Se prendiamo per valida l’affermazione del dottor Negro, anche nella MM
deve essere possibile “fare qualcosa”
con i criteri LO. Da quanto detto finora
risulta peraltro evidente che un’applicazione concreta di tali criteri deve te-
E’ il concetto dell’Evidence Based Management: “La soluzione sta intorno a noi, non al di fuori”.
Legge 241/90, Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi, Capo I, Art.1,
comma 1: “L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed é retta da criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e di
trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai
principi dell’ordinamento comunitario”.
In altri termini si può dire che le FF.AA. prestano un servizio per il cittadino, ma non al cittadino.
Ci si riferisca ad esempio a Scuola e Sanità, ma anche in parte agli enti locali o agli organismi di pubblica sicurezza.
Si ricordi a proposito la nota massima di Ishikawa: “il processo dopo il tuo è il tuo cliente”.
Giuseppe Negro. L’organizzazione snella nella Pubblica Amministrazione. Come realizzare la “lean organization” negli enti pubblici. Franco
Angeli Editore, 2005. ISBN 88-464-6496-6.
22
Osservatorio
ner conto delle peculiarità di ogni singola struttura organizzativa. Per rispettare i limiti della trattazione è opportuno focalizzare l’attenzione su una sola
organizzazione, e porla come oggetto
esemplare per l’applicazione dei criteri
LO. In questo contesto verrà analizzato l’Arsenale Militare Marittimo di La
Spezia.
UN CASO CONCRETO:
L’ARSENALE MILITARE
MARITTIMO DI LA SPEZIA
L’Arsenale Militare Marittimo di La
Spezia, longa manus dell’Ispettorato
Logistico per il mantenimento in efficienza dello strumento navale, espleta
molteplici funzioni e compiti d’istituto. In questa sede trascuriamo i servizi
di natura amministrativa e consultiva
ed esaminiamo solamente le attività di
manutenzione prestate a favore di altri enti. I risultati dello studio possono
essere facilmente estesi agli altri stabilimenti di lavoro. Per proseguire nella
trattazione occorre anzitutto individuare, all’interno dell’organizzazione
Arsenale, gli elementi chiave ed i principi della LO.
Gli elementi chiave ed i principi
−
Cliente esterno: tutti gli enti
che richiedono prestazioni di servizi
sono clienti esterni dell’Arsenale. Per
semplicità di trattazione si trascura in
ogni caso l’integrazione con gli enti
gerarchicamente sovraordinati.
−
Cliente interno: la definizione
di cliente interno della LO è completamente trasferibile all’Arsenale. Il
cliente interno per ciascun ufficio/reparto/officina è quello che segue nel
flusso di creazione del valore.
−
Logica pull: ricordando la definizione (l’impresa produce soltanto
quello che le è stato ordinato ed elimina l’inventario), risulta evidente come
le attività dell’Arsenale ed i relativi
flussi produttivi seguano la logica pull,
ovvero si attivino solo sulle richieste
dei clienti esterni.
−
Processo: è definibile come la
sommatoria delle operazioni manuali
e decisionali, innescate da una richiesta del cliente esterno, agite/operate
dall’Arsenale allo scopo di soddisfare
la richiesta stessa. Il processo può concludersi in modo positivo o negativo.
−
Valore per il cliente: oltre alle
azioni pratiche di condotta della manutenzione, valore per il cliente sono anche le operazioni di valutazione della
richiesta. Ovviamente all’interno del
flusso devono trovare ragion d’essere
solo le operazioni finalizzate alla fornitura di un servizio rapido e soddisfacente.
Qualità per il cliente
L’Arsenale, in merito alle decisioni
sulle richieste del cliente esterno, mantiene un margine di discrezionalità. Nel
migliore dei casi la richiesta di manutenzione sarà fisicamente trattata e porterà alla risoluzione del problema. Nel
caso di impossibilità di evasione della
richiesta, è interesse e soddisfazione
minima del cliente quantomeno ottenere risposta in tempi brevi. A riguardo
è possibile individuare diversi livelli di
qualità del servizio fornito.
Si può definire qualità implicita la
rapidità nella risposta alle richieste
del cliente. Una risposta rapida lascia
il cliente indifferente, una risposta
in tempi lunghi comporta delusione.
Definiamo qualità esplicita quando si
perviene all’esecuzione di un intervento nel tentativo di risolvere il problema
richiesto. Se l’intervento è inefficace
e/o con tempi lunghi può anche essere
deludente, se rapido ed efficace porta
all’entusiasmo. Interventi risolutivi
Figura 1: Qualità per il cliente
23
persino superiori alle richieste avanzate possono essere definite la qualità
eccitante. In figura 1 è riportato un diagramma indicativo di quanto affermato
in merito alla qualità per il cliente.
Ogni organizzazione nella fornitura
dei propri prodotti/servizi deve garantire almeno la qualità implicita ed una
certa percentuale di qualità esplicita,
che impediscano l’insorgere di insoddisfazione nel cliente.
RICHIESTA DI LAVORO: LA
PROCEDURA 2002
Focalizziamo l’attenzione sul processo decisionale riguardo le richieste di
manutenzione. Una volta stabilite quali
attività generino effettivamente valore
per il cliente, dovranno essere eliminare tutte le rimanenti, qualora non
imposte da altri vincoli. Mentre per le
Unità Navali (UU.NN.) esistono diversi modi per avanzare richieste di lavoro nel campo delle manutenzioni12, per
altri enti la modellistica prevista dal
Regolamento per gli Stabilimenti ed
Arsenali Militari a carattere industriale
è il “modello 6” (mod. 6). Prendiamo
quindi in esame tale modalità di richiesta e proviamo a valutarne l’efficienza
con gli strumenti LO (in particolare il
TL/TA)
Diversamente dalla generica azienda
di prodotti che non decide se accettare
o meno la richiesta del cliente ma solo
in che termini (per esempio temporali
o di costo) soddisfarla, i mod. 6 invia-
Osservatorio
ti all’Arsenale sono soggetti a diversi
gradi di decisione: valutazioni di correttezza formale, di liceità, di fattibilità tecnica, di opportunità economica e
temporale13. Queste azioni fanno parte
del FV del mod. 6.
In figura 2 è riportato il flusso di creazione del valore (FV) di un mod. 6 secondo la procedura in uso in Arsenale
dal 2002. Prima dell’esecuzione della
manutenzione, la richiesta di lavoro è
soggetta ad una sequenza di attività.
Alcune di esse danno valore, come le
operazioni di valutazione. Altre di valore ne danno poco, per quanto sembrino a prima vista necessarie o quantomeno utili al processo: le operazioni di
smistamento del mod. 6 tra i vari uffici
competenti. Ed è su queste operazioni
che bisogna intervenire.
I tempi riportati sono valori medi significativi all’interno dell’ampia “forbice”
tra tempi minimi e massimi di attraversamento. Ricorrendo agli strumenti
LO per valutare il FV, risulta evidente
come il rapporto TL/TA sia terribilmente basso: a fronte di operazioni
di valore pari a circa 9 ore, la durata
complessiva del processo è di oltre 10
giorni14! I fattori generatori di ritardo
sono i tempi di passaggio del mod. 6 da
un ufficio all’altro. Occorre eliminare
questi sprechi, per tendere al nostro
obiettivo ultimo, il TL/TA unitario.
Uno dei principi della LO è lo scorrimento continuo del FV, e suo corollario è il superamento della divisione in
uffici e posizioni per diverse compe-
tenze. Una prima razionalizzazione del
processo consiste quindi nel demolire i
confini delle mansioni e delle strutture
per eliminare le interruzioni del FV. La
recente riorganizzazione della Sezione
Pianificazione Esecutiva (PE) dell’Arsenale con la creazione di un’Area
Tecnica15 va in questa direzione.
La PE è oggi competente per ricevere/
esaminare/autorizzare le richieste di lavoro, ed è in grado di predisporre l’esecuzione del lavoro con l’impiego sia di
manodopera interna sia di eventuale
manodopera esterna. La PE stessa è in
grado poi di dare avvio a procedimenti
amministrativi ad hoc oppure di impiegare contratti “a richiesta” già operanti
(di tipo service). In questo modo si ottiene un consistente miglioramento del
TL/TA, grazie alla concentrazione nella PE di tutte le attività di preparazione
degli appalti esterni, eccetto le procedure squisitamente amministrative16.
Il flusso del mod. 6 considerato in allegato A si ferma alla decisione di eseguire l’intervento, ma non entra nella
fase successiva dell’eventuale procedimento amministrativo per manodopera
esterna. La riorganizzazione della PE
non risolve perciò le lungaggini dello
smistamento del mod. 6 tra i diversi
uffici. Che fare?
Dal 1 gennaio 2006 l’Arsenale di La
Spezia ha in funzione un nuovo sistema di gestione, il S.I.G.A.17. Vediamo
come l’applicazione di questo strumento, ideato principalmente per la sicurezza dei dati (importante parametro
Figura 2
12
13
14
15
16
Richieste occasionali, formulate a seconda dei casi con lettera, AVREP, mod. 6. Richieste programmate, come i Notamenti Lavori e le
scadenze periodiche. In realtà la differenza è sempre più sfumata, poiché anche i mod. 6 possono essere usati per richiedere scadenze
periodiche, così come nei Notamenti Lavori spesso sono riportate richieste già avanzate con AVREP o mod. 6. Inoltre con l’introduzione del
S.I.G.A. le richieste di lavoro possono essere generate automaticamente dal sistema alla scadenza periodica impostata dall’utente. Cambia
radicalmente la gestione delle manutenzioni in quanto l’Arsenale per molte attività potrà prescindere dalla richiesta di lavoro.
La richiesta di lavoro fatta con mod. 6 è valutata dall’Arsenale sotto diversi aspetti: se formulata correttamente, se lecita, se fattibile
tecnicamente, se compatibile con le risorse disponibili in termini di manodopera, costi, materiali, tempi di realizzazione.
Un giorno lavorativo si intende formato da otto ore. Sotto questa ipotesi il rapporto (TL/TA) tra 9 ore e 10 giorni è circa 1/10, valore piuttosto
comune per i processi aziendali tradizionali.
L’Arsenale di La Spezia è stato interessato nel corso del 2005 da una decisa ristrutturazione organizzativa. Tra le modifiche più rilevanti e
di stretta pertinenza con l’argomento trattato, emerge l’ampliamento dei compiti assegnati alla Sezione Pianificazione Esecutiva, divenuta
vero organo di programmazione e di creazione delle attività interne ed esterne dell’Arsenale. All’interno della Sezione è stato infatti creato un
organo denominato Area Tecnica incaricato della completa definizione tecnica ed economica di tutte le attività di manutenzione dell’Arsenale,
sia quelle destinate ad appalti con ditte private sia quelle eseguibili con manodopera interna. Tali funzioni erano prima disperse tra i Reparti di
lavoro. Parallelamente al trasferimento/accentramento di funzioni, è stato prelevato dai Reparti e raggruppato in un unico ufficio il personale
competente, allo scopo di evitare duplicazione di lavoro e dispersione di forza lavorativa.
La predisposizione degli appalti esterni è un flusso diviso a metà tra PE e Direzione Amministrativa. A quest’ultima sono in sostanza
assegnate le operazioni regolate dalle norme del Diritto Pubblico. Altri organi dell’Arsenale sono responsabili infine del controllo di vari
aspetti del processo.
24
Osservatorio
del TQM), risulti utile per l’efficace
implementazione dei concetti LO.
UN’ARMA IN PIU’: IL S.I.G.A.
Il S.I.G.A. è un sistema informativo
basato su piattaforma SAP R/318, costituito da un insieme di moduli applicativi per la informatizzazione dei processi
di gestione negli ambiti di manutenzione, logistica e materiali, contabilità,
contratti e fornitori, amministrazione e
finanza. Il sistema è in grado di:
− conseguire la gestione ottimale delle manutenzioni delle UU.NN.,
perseguendo obiettivi di efficacia, efficienza ed economicità19;
− mettere a disposizione dei vari
enti, logistici ed operativi, gli elementi necessari a determinare il migliore
impiego delle risorse per il raggiungimento degli obiettivi;
− sintetizzare i dati provenienti dagli
utenti e proporli a supporto per le decisioni di ambito tecnico ed economico;
− assicurare il controllo dei costi
d’esercizio delle attività di manutenzione ed il loro raffronto tra previsione
e dati effettivi, identificando gli scostamenti e le loro cause.
Un nuovo sistema gestionale dei processi aziendali comporta innovazioni
che interessano per lo più la componente soft (competenze e know-how, comportamenti e azioni, valori e aspettative), prima ancora che la componente
tecnologica. La massiccia introduzione
di tali innovazioni determina quello che
viene indicato come “Cambiamento
Organizzativo” e come tale deve essere gestito, facendo ricorso alle metodologie di Change Management basate
sulla comunicazione, sulla formazione, sul coinvolgimento e sulla respon-
17
18
19
20
sabilizzazione. Non è questa la sede
per esaminare i motivi e le modalità
che hanno portato all’introduzione del
S.I.G.A. negli stabilimenti di lavoro
della MMI. Vediamo però come questa circostanza ha innovato la gestione
delle operazioni, la gestione del flusso
di creazione del valore.
Con l’impiego del S.I.G.A. il FV diventa estremamente visibile e le diverse azioni sono facilmente individuabili. Le azioni necessarie allo scorrimento del flusso possono, con opportune
transazioni20, essere eseguite tramite
un qualsiasi terminale connesso con la
rete S.I.G.A.. Quindi la creazione del
valore avviene in un ambiente unitario
“virtuale”, superando la divisione per
uffici. Una preparazione comune a più
dipendenti (polivalenza dei ruoli operativi) consente inoltre di moltiplicare
la flessibilità del processo e di uscire
dalla rigida differenziazione tra incarico, compito, capacità e competenze.
In figura 3 è riportato il FV del mod.
6 con la procedura S.I.G.A., confrontato con il flusso dello stesso mod. 6
con la “procedura 2002”. E’ evidente il
cospicuo miglioramento del parametro
di efficienza TL/TA. Ma l’evoluzione
del S.I.G.A. non finisce qui.
Figura 3
Lo Stato Maggiore della Marina, nell’ambito del processo di razionalizzazione e snellimento della propria organizzazione nell’area tecnico-logistica, ha avviato la dotazione della maggior parte degli enti dipendenti dall’Ispettorato di Supporto Logistico, tra i quali gli Arsenali e
Maricegesco (Centro nazionale di Gestione delle Scorte), di sistemi idonei a supportare e gestire il cambiamento dell’organizzazione attraverso un’automazione integrata. Ulteriore obiettivo di questo strategico progetto per la F.A. è quello di consentire un utilizzo efficace dei dati per
supportare il processo decisionale. Il progetto, approvato nel maggio 2002, ha dato origine ad un contratto, stipulato dalla Direzione Generale
di Teledife con la ditta ELSAG di Genova, che prevede la realizzazione di un Sistema Informativo di Gestione Automatizzata (S.I.G.A.) per gli
arsenali e di un Sistema Informativo per il Centro Gestione Scorte per le Unità Navali (Maricegesco).
Il SAP R/3 è il programma di gestione aziendale più diffuso al mondo. Basato sul linguaggio di programmazione proprietario ABAP/4, il SAP
R/3 è ampiamente personalizzabile e pertanto adattabile a organizzazioni di ogni tipo e dimensione.
Si confronti con la già citata legge 241/90, nota 7.
Programmi eseguibili, specifici per ciascun gruppo di operazioni.
25
Osservatorio
Nei programmi di sviluppo del prossimo futuro le richieste di lavoro potranno essere inserite all’interno del
S.I.G.A. già dagli enti originatori (come
le UU.NN.) per mezzo di idonei programmi di interfaccia. In questo modo
viene molto ridotto il tempo (inutile ai
fini della creazione di valore) di trasferimento21 tra ente originatore e gli organi di controllo e decisione22 dell’Arsenale. Questi ultimi possono vedere
in qualsiasi momento ed in tempo reale
tutte le richieste dei clienti esterni, che
a loro volta hanno facoltà di vedere lo
stato di avanzamento delle proprie richieste, in una gestione assolutamente
trasparente. La trattazione delle richie-
ste è rapida ed è possibile eliminare
qualsiasi passaggio cartaceo. In figura
4 è riportato il FV di una richiesta di
lavoro inserita ab origine nel sistema,
resa superflua persino la creazione cartacea del mod. 6. L’ulteriore vantaggio
in termini di TL/TA è evidente23.
I diversi organi competenti impartiscono le autorizzazioni a procedere direttamente via software, e lo status della
richiesta è istantaneamente aggiornato e visibile, anche da parte dell’ente
originatore. La decisione di prendere
in considerazione (giudizio di conformità e liceità) le richieste non significa comunque decidere di intervenire
(giudizio di fattibilità e di opportunità), né significa risolvere il problema.
Tuttavia, ricordando la definizione di
qualità implicita, individuata come necessaria per il servizio in esame (diritto
del richiedente di avere risposta quanto
prima), essa viene a essere così soddisfatta.
Ma quali sono gli sprechi, nel FV delle
manutenzioni, eliminati con una efficace riorganizzazione e l’implementazione del S.I.G.A.? Riprendiamo l’elenco
degli sprechi più comuni presentato
a pagina 3, evidenziando in grassetto
quelli risolti:
−
disservizi ed errori;
Figura 4
21
22
23
Abbiamo ritenuto opportuno mantenere una isteresi precauzionale di alcune ore tra l’inserimento a sistema della richiesta di lavoro ed i
successivi passi di valutazione tecnico-economica. Teoricamente sarebbe possibile annullare questo tempo e raggiungere il valore ottimale
di TL/TA unitario, se la valutazione della richiesta potesse avvenire nell’istante immediatamente successivo al suo inserimento a Sistema.
I Capi Divisione, la Sezione Pianificazione Esecutiva, ma anche lo stesso vertice dell’Arsenale, il Direttore.
Con le future applicazioni avanzate del S.I.G.A. si potrà raggiungere il.
26
Osservatorio
−
−
−
−
−
−
−
−
−
sovradimensionamento risorse;
pratiche o beni in attesa di lavorazione;
lavori non necessari:
spostamenti di persone non necessari;
elaborazione e trasferimento di in
formazioni non necessarie ;
attese del personale e dei clienti;
progettazione di servizi non adeguata;
non ottimale utilizzo delle potenzialità delle persone;
carente coinvolgimento del cliente.
CONCLUSIONI
Abbiamo visto come, nonostante derivino da esperienze aziendali, i principi
della LO per il miglioramento della
produttività siano, almeno in parte, applicabili anche alle FF.AA.. In questa
trattazione sono stati impiegati gli strumenti della LO per valutare nell’Arsenale di La Spezia l’efficienza della
procedura di trattazione delle richieste
di lavoro.
I risultati ottenuti con la riorganizzazione della PE e con l’applicazione del
S.I.G.A. sono confortanti sia in termini
qualitativi (tipo di sprechi eliminati),
sia in termini quantitativi, con le valutazioni del TL/TA. In particolare la
procedura S.I.G.A. attualmente in vigore è in grado di ridurre alla metà il
tempo di attraversamento (TA) rispetto
alla “procedura 2002”, mentre ulteriori
sviluppi del S.I.G.A. porterebbero ad
un ulteriore dimezzamento del TA.
In realtà oggi il sistema informatico
convive con il classico sistema cartaceo della “procedura 2002”, ed il miglioramento di efficienza prodotto dal
S.I.G.A. è di fatto vanificato. E’ evidente nonostante le riorganizzazioni
strutturali e le implementazioni di nuovi strumenti di gestione, solo l’abbandono progressivo della documentazione cartacea non necessaria per Legge
consentirà un reale miglioramento dei
processi produttivi in Marina. Ma non
solo.
E’ vero che la Marina non può trasformarsi in una organizzazione orizzontale, e quindi snella. E’ vero d’altro
canto che, riprendendo i concetti cari
al TQM, ed il concetto LO del miglioramento concentrato, l’innovazione dei
processi può avvenire solo dall’interno
dell’organizzazione, può venire solo
da coloro che giornalmente con tali
processi occupano buona parte della
propria giornata di lavoro.
E’ questa la sfida. Valorizzare l’apporto creativo che scaturisce da personale
sicuramente preparato, ma anche ben
motivato, responsabilizzato, considerato nella propria professionalità. In
poche parole, messo al centro dell’organizzazione.
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•
w w w. s c h l a n ke - p r o d u k t i o n.d e.
27
Osservatorio
IL MAHAN E IL CORBETT
A CONFRONTO
un’analisi comparata
INTRODUZIONE
Fino a gran parte del 1800 non esisteva una teoria della guerra in mare; non c’erano dei principi generali comunemente conosciuti sull’utilizzo delle forze navali; non erano state messe a punto tecniche di
analisi degli avvenimenti marittimi; insomma, non esisteva una strategia marittima. Le flotte erano affidate ad abili, ed a volte geniali, comandanti che le conducevano secondo regole di pratica marinaresca,
adottate a seconda dei momenti e delle circostanze1.
Allo scadere del secolo, Alfred Thayer Mahan con la pubblicazione dell’opera The Influence of Sea Power
upon History (1890), seguito vent’anni dopo da Julian Corbett con la sua Some Principles of Marittime
Strategy (1911), cambiarono completamente il quadro di riferimento.
L’uno godette immediatamente di un successo mondiale, in virtù della sue idee sul potere marittimo,
riassunte in una teoria talmente forte e semplice (come solo i grandi insegnamenti sanno essere), da influenzare le politiche delle più grandi potenze di allora. L’altro trovò rapida accoglienza presso l’Ammiragliato britannico, grazie alla capacità con la quale aveva saputo compendiare poche e basilari regole di
guerra navale.
Il consenso di pubblico che accolse i due autori si giustifica grazie anche al verificarsi di due fenomeni
mondiali che avevano preparato il terreno per le loro teorie. Il primo fu lo straordinario sviluppo della
tecnologia navale che, con l’introduzione dalle macchine a vapore e di nuovi sistemi d’arma, offriva alle
flotte una potenzialità di azione ben superiore al passato. Il secondo fu la crescente rivalità internazionale
dell’epoca creatasi tra la Gran Bretagna, potenza marittima per eccellenza, gli altri Stati europei e gli Stati
Uniti, tutti competitivamente protesi alla conquista di aree coloniali e di nuove rotte di traffico commerciale. I tempi erano dunque maturi per lo sviluppo di nuove idee sull’utilizzo delle forze navali.
Il Mahan ed il Corbett aiutano a comprendere l’importanza di relazionare l’attività navale agli obiettivi
di politica nazionale e, come tali, diventano i fondatori della moderna strategia marittima. Quanto poi alle
regole fornite per l’utilizzo delle forze navali, il loro pensiero si separa profondamente. Qui si annida lo
scopo del presente lavoro, con il quale si intende analizzare in dettaglio l’opera di ciascuno, ponendo in
evidenza i punti di contatto e, soprattutto, quelli di divergenza, per i quali si tenterà da ultimo di individuarne l’origine.
1
Esistevano, invero, solo dei trattati di tattica navale, che contenevano istruzioni sulla condotta della battaglia.
29
Osservatorio
Tenente di Vascello (CP)
GIANFRANCO REBUFFAT
MAHAN ED I
FATTORI DEL POTERE
MARITTIMO
Nato a West Point il 27 settembre 1840, Alfred Thayer
Mahan entrò giovanissimo al
Naval War College di Annapolis,
da dove ne uscì nel 1859 classificandosi tra i migliori del suo
corso. Dopo aver partecipato
alla guerra di secessione tra le
file degli Unionisti, sulla quale
scrisse un libro pubblicato nel
1883, egli condusse una vita
professionale piuttosto anonima
fino a quando non venne chiamato all’Accademia Navale di
Newport per insegnare storia
navale, tattica e strategia.
Fu durante quel periodo che
ideò, scrisse e fece pubblicare la sua opera più famosa: The
Influence of Sea Power upon
history (1890). Al di là della
scontata funzione istruttiva nei
confronti degli ufficiali di vascello, il volume persegue un
più ampio obiettivo: avvalendosi dalla lezione della storia far
comprendere l’importanza del
potere marittimo, allo scopo di
convincere i pubblici poteri americani della necessità di dotare la
Marina di forze navali adeguate
al ruolo mondiale della Nazione.
Il Mahan parla ad una società,
quale quella americana di fine
‘800, ancora legata alle conquiste territoriali nel Far West, che
non possiede tradizioni marinare e per la quale le forze navali
devono svolgere funzioni essenzialmente di difesa costiera. Egli
vuole che si superi l’idea degli
Stati Uniti come di un potenza
solo continentale, per arrivare alla creazione di un paese a
vocazione globale, sostenuto da
una grande Marina alturiera, in
grado di garantire la protezione
degli interessi americani in tutto il mondo. Occorre, pertanto,
proporre una formula chiara,
decisa, attraente, che contenga in sé la chiave del successo,
in altre parole vincente: il potere marittimo. Siccome l’audience americana è costituito
da gente per niente ingenua,
ma pratica e concreta, bisogna
dimostrare la fondatezza della
teoria, rendendola facilmente
assimilabile. Niente di più semplice che guardare agli insegnamenti storici, che provano
come un relativamente piccolo
paese insulare come l’Inghilterra sia diventata una potenza
imperiale attraverso l’uso prioritario dello strumento navale.
Il governo degli Stati Uniti già
da qualche anno aveva iniziato a
rendersi conto che l’espansione
economica americana avrebbe,
da lì a poco, esaurito i suoi effetti se non fosse stata sostenuta
da una flotta militare di rango.
Nel 1883, infatti, era stata approvata la costruzione di una
serie di navi da battaglia, completata pochi anni dopo. Le idee
del Mahan rafforzarono questa
convinzione: dopo la pubblicazione del suo libro, il Congresso
approvò un ulteriore incremento
del numero di unità da battaglia,
abbracciando definitivamente la
politica di potenza marittima.
Analizziamo, allora, in dettaglio il pensiero mahaniano per
coglierne i caratteri essenziali.
Secondo il nostro autore l’influenza del potere marittimo è
stata da sempre trascurata dagli
storici. Con esplicito richiamo
allo Jomini2, che ispirerà fortemente le sue riflessioni, egli
afferma preliminarmente che
lo studio della storia militare è
indispensabile per i capi militari poiché aiuta a capire la giusta
condotta da seguire nelle guerre
future ed ad evitare gli errori del
passato. Pertanto, lo studio della
storia navale aiuterà ad individuare i principi della guerra marittima, che si rivelano nei successi e nelle sconfitte, sempre
gli stessi in ogni epoca. Questi
insegnamenti vanno rispettati
sia nella tattica sia nella strategia. Anzi, proprio nella strategia
navale gli insegnamenti del passato acquistano valore perenne.
La tattica, infatti, è maggiormente dipendente dalla tipologia degli armamenti, che cambia continuamente. La strategia
navale ha come scopo quello di
fondare, sostenere ed aumentare, sia in pace sia in guerra, il
potere marittimo della nazione.
Ma cosa si intende per potere marittimo, quali sono i suoi elementi costitutivi e quali le condizioni essenziali per il suo esercizio?
Il Mahan non dà una definizione precisa di potere marittimo.
Si limita ad affermare che esso
è lo strumento per ottenere il
dominio del mare (command
of the sea), che è identificato
“in quell’autoritario potere marittimo che scaccia la bandiera
nemica dai mari o le consente
di apparire solo come un fuggiasco e che, controllando la
grande proprietà comune, il
mare, chiude le vie attraverso
le quali il commercio si muove da e verso le coste nemiche”.
Il mare, dunque, è visto come
una grande via di comunica-
2
Antoine Henri Jomini (1779-1869), capostipite della scuola strategica francese, considera la strategia una scienza, poiché è retta da principi immutabili. Fa ricorso abbondantemente all’esempio storico
per dimostrare che la guerra segue regole precise dovute a fattori oggettivi quali il materiale, la geografia, la storia e la preparazione. Per maggiori approfondimenti vedasi, tra gli altri, F. SANFELICE DI
MONTEFORTE, Jomini e il Mare, Rivista Marittima n.7/98, p.14 e segg.
30
Osservatorio
zione, attraverso la quale gli
uomini scelgono delle linee di
movimento chiamate vie commerciali. Nonostante tutti i pericoli, i viaggi ed i traffici via acqua sono sempre stati più facili e
meno costosi di quelli terrestri.
Quindi, ogni nazione ha interesse a creare una propria flotta
mercantile e porti sicuri per garantirsi scambi di merci continui
con altri paesi, anche
molto distanti. Salvo
che uno Stato non sia
aggressivo, l’esistenza di una marina da
guerra si spiega solo
in funzione di protezione del naviglio
mercantile. Una nazione che intraprende
traffici commerciali
avverte subito la necessità di crearsi punti
di appoggio per assicurare rifugio e rifornimento alle proprie
navi. Nascono così le
colonie, come terre
destinate alla estensione
commerciale
della
madrepatria.
Riportandosi
principalmente all’esperienza britannica, egli
spiega la storia marittima facendo ricorso
ai seguenti tre elementi legati in ciclo
tra di loro: la produzione di beni, con la
conseguente necessità di scambio; le navi, quali mezzi attraverso i quali avvengono gli scambi;
le colonie, che facilitano ed ampliano le operazioni marittime e
commerciali. Il potere marittimo è il prodotto di questa serie
di fattori, raggruppabili in una
componente mercantile ed una
militare. La prima formata dalla flotta mercantile, le industrie
cantieristiche, le colonie e tutto
ciò che si muove intorno ai commerci marittimi. La seconda costituita dalla Marina militare e
dalle basi navali e di supporto.
Il potere marittimo esiste solo
se sono presenti tutti i suddetti elementi ed è sufficiente che
uno venga a mancare perché
esso decada: le colonie forniscono le materie prime che sono
importate dalla madrepatria per
la lavorazione e la trasformazione in prodotti finiti, successivamente riesportati; l’intero
flusso è assicurato dalla marina
Alfred Thayer Mahan
mercantile, con la conseguente
creazione di ricchezza. La Marina militare protegge il traffico commerciale, utilizzando
una serie di basi navali, magari
coincidenti con le stesse colonie.
Vince chi riesce ad interrompere il ciclo di commercio nemico ed a sconfiggerne la flotta
militare che lo protegge. Quest’ultima diventa allora il principale obiettivo dell’avversario.
31
Per il Mahan, le principali caratteristiche che influenzano il
potere marittimo delle nazioni
possono essere elencate come
segue: 1, la posizione geografica; 2, la conformazione fisica,
che comprende i prodotti naturali ed il clima; 3, l’ampiezza del
territorio; 4, la quantità di popolazione; 5, il carattere del popolo; 6, il carattere del governo,
incluse in questo le
istituzioni nazionali.
Iniziando dalla posizione geografica, una
nazione che, come
l’Inghilterra, non sia
costretta a difendersi
sulla terra, né cerchi di
espandersi sulla stessa, risulterà avvantaggiata rispetto ad
altre, come la Francia
o l’Olanda, in quanto
si vedrà obbligata a
dissipare risorse per
mantenere un grande esercito e per condurre guerre costose.
Una posizione geografica centrale può inoltre fornire un vantaggio strategico ed una
buona base per operazioni offensive verso i vicini. Tal è stato
il caso dell’Inghilterra che riusciva contemporaneamente a
contrastare la Francia
e l’Olanda sfruttando
la centralità della sua posizione.
Relativamente all’Italia, mancandole il controllo della Tunisia, della Corsica e di Malta, non
potrà rivestire il ruolo di potenza controllante i traffici verso levante attraverso il canale di Suez.
Passando alla conformazione
fisica, una linea di costa con la
presenza di porti naturali e fiumi navigabili agevola i commerci marittimi per la facilità di accesso al mare. Tale caratteristica
può però essere anche causa di
debolezza, se le frontiere marittime non sono adeguatamente
Osservatorio
difese contro gli attacchi nemici.
Il clima interno, la presenza di
estese aree coltivabili che offrono alla popolazione risorse
produttive in abbondanza non
spingono il popolo ad intraprendere traffici marittimi. Si
vedano, a titolo di esempio, le
differenze tra i tre paesi prima
citati. Mentre la Francia ricavava dalla terra quanto necessario per i bisogni interni, l’Inghilterra e l’Olanda venivano
spinte da un’agricoltura povera a cercare fortuna nel mare.
In merito all’estensione del
territorio, non importa tanto
la superficie occupata da una
nazione, quanto la lunghezza della linea di costa, che può
essere fonte di potenza o di debolezza, a seconda che la popolazione sia più o meno numerosa. Una estesa linea di costa
è difendibile solo da una popolazione in numero adeguato.
Come per il territorio, non è
tanto importante la quantità della popolazione in generale ma la sua entità, ossia la
percentuale di essa dedita ai
commerci marittimi, all’imbarco ed ai lavori di costruzione e manutenzione del naviglio.
Per quanto concerne il carattere nazionale, l’attitudine di un
popolo al commercio influenza
lo sviluppo dei traffici marittimi e, quindi, la creazione del
potere marittimo. Ad esempio,
la Spagna ed il Portogallo non
svilupparono la manifattura di
beni ma si dedicarono principalmente allo sfruttamento dei
giacimenti di oro ed argento
delle colonie. La loro flotta commerciale si ridusse a poche navi
che trasportavano piccoli carichi. Gli inglesi, invece, hanno
un forte ed innato istinto commerciale, che li ha spinti alla ricerca di nuovi e fiorenti mercati.
Infine il nostro autore affronta il
tema del carattere del governo,
sostenendo che a volte il potere
dispotico, tenuto con giudizio e
risolutezza, ha agevolato la crea-
zione di un grande commercio
marittimo con una brillante
Marina militare, con una direzione migliore di quella che si
può ottenere con il lento processo decisionale di un popolo libero. L’Inghilterra nel corso dei
secoli ha mantenuto una linea
politica costante nell’appoggio
ai traffici marittimi ed al mantenimento di una forte Marina da
guerra, retta da Ammiragli promossi per il loro valore e non per
nobiltà di nascita, come avveniva invece in Francia sino alla Rivoluzione del 1789. I governi democratici sono poco favorevoli
alle spese militari. Queste, poi,
sono frequentemente impiegate per fronteggiare gli attacchi
sulla terraferma, impoverendo
la forza navale. Se c’è l’impegno
del governo la Marina militare
cresce e con essa il potere marittimo, altrimenti deperisce
seguita dal potere medesimo.
In sintesi per il Mahan, in situazione di pace il governo deve sostenere la crescita delle industrie
navali ed incentivare il popolo ad
intraprendere i commerci marittimi. Una forte Marina da guerra
si può mantenere solamente grazie ad un florido commercio. In
caso di guerra, i pubblici poteri
dovranno garantire il mantenimento di una Marina militare di
dimensioni adeguate alla crescita ed all’importanza della marina mercantile ed all’importanza
degli interessi ad essa connessi.
Merita sottolineare che ancora
più importante delle dimensioni
sono le istituzioni della Marina
da guerra, che devono favorire
spirito ed attività sane e provvedere in tempo di guerra ad un
rapido aumento delle forze. E’
determinante, altresì, il mantenimento di idonee basi navali in
quelle lontane zone del mondo
dove le navi da guerra sono costrette a seguire i bastimenti mercantili. La protezione di queste
basi deve dipendere da una forza
militare locale, come nel caso
di Gibilterra o di Malta, oppure
32
da popolazioni vicine amiche.
Ora che abbiamo fissato il concetto di potere marittimo, ed
individuati i suoi elementi caratteristici, passiamo a definire
la strategia marittima secondo il Mahan, collocandola nel
quadro della strategia globale.
IL CONCETTO
STRATEGICO DI
MAHAN
Nell’opera Naval Strategy (1911),
pubblicata a soli tre anni dalla
sua morte, avvenuta il 1 dicembre 1914, il Mahan compendia il
meglio delle sue lezioni tenute
presso il Naval War College, in
materia di strategia marittima,
partendo dall’assunto che essa
ha lo scopo di realizzare, sostenere ed aumentare, sia in pace
sia in guerra, il potere marittimo di uno Stato. Occorre precisare che l’autore usa il termine
naval strategy secondo un’ampia accezione comprendente, il
più delle volte, il più ampio significato di strategia marittima.
Dallo studio dei principi della
guerra terrestre formulati dallo Jomini, egli ricavò che alcuni concetti potevano applicarsi
sul mare e tentò di dimostrarlo attraverso l’analisi di scontri navali che avevano viste
coinvolte le maggiori potenze
marittime della storia. Questi
concetti erano basati su idee
fondamentali di posizione, linee
di comunicazione, basi navali e
controllo delle zone focali, nonché concentrazione delle forze.
Esaminiamoli
singolarmente.
Innanzitutto, il possesso di una
posizione centrale rispetto al nemico o al teatro operativo consente di fronteggiare contemporaneamente e con efficacia tutti
i nemici circostanti, poiché permette di utilizzare linee di comunicazione interne più brevi
rispetto a quelle esterne cui è costretto l’avversario. Basti citare
il caso della Francia che, duran-
Osservatorio
te i secoli XVI e XVII, riusciva a
contrastare la Spagna o l’Austria
a seconda della necessità. Dalla
posizione centrale si dipartono
linee di spostamento, chiamate
per l’appunto linee di comunicazione interne, che permettono
di concentrare rapidamente le
forze su di un nemico, tenendo
l’altro in scacco con risorse anche inferiori. Il Canale di Suez,
per esempio, è una linea interna
rispetto alla rotta che doppia il
Capo di Buona Speranza; l’istmo
di Panama rispetto allo stretto
di Magellano; il canale di Kiel
rispetto alla penisola danese ed
agli stretti di Oresund e Belt.
Le risorse naturali e quelle del
territorio limitrofo accrescono
ancor di più l’importanza della
posizione; e se le vie di comunicazione marittima attraverso
quest’ultima si moltiplicano e
diventano obbligatorie (choke
point), il controllo della posizione diviene strategico. Tuttavia il
possesso della posizione senza
la disponibilità di una forza sufficiente a difenderla risulta vano,
poiché il nemico non impiegherà molto ad impadronirsene.
Dunque, la posizione deve sempre essere accompagnata dalla
potenza (power plus position),
senza la quale il vantaggio strategico è effimero. Ne discende la
necessità di rafforzare le posizioni presso le quali è stanziata
la flotta, cioè le basi navali. Queste devono la propria importanza alla posizione occupata, alla
forza che sono in grado di esprimere ed alle risorse di cui hanno
bisogno per il funzionamento.
Più rotte commerciali passano
nei pressi di una base navale,
maggiore è il suo valore. Determinante, pertanto, è il controllo di quei passaggi obbligati
o restringimenti, (come Suez,
Gibilterra, Panama, la Manica)
divenuti zone focali dei traffici
marittimi. Parimenti decisiva è
la capacità offensiva o difensiva
della base. In caso di più porti le
rispettive capacità devono esse-
Antoine Henri Jomini
re correttamente integrate per
sfruttare il valore di ciascuno a
beneficio degli altri, evitando dispersione di risorse. Nella difesa
delle basi occorre un proficuo
utilizzo dell’Esercito e della Marina, la quale va tenuta compatta
e pronta ad offendere grazie alle
sue capacità di movimento. Nelle azioni offensive la base deve
essere in grado di accogliere la
flotta (ricettività), consentirle di
prendere subito il largo (proiettabilità), e garantirne il supporto (sostenibilità) per l’intera
durata delle operazioni. Non
va da ultimo dimenticato che i
migliori porti sono anche quelli
che dispongono di un retroterra ricco, in grado di provvedere
alle necessità della base, evitandone la ricezione da lontano.
Un’importanza fondamentale
assume nel pensiero mahaniano
il principio della concentrazione
delle forze che, se applicato con
intelligenza, permette di ottenere la superiorità sul nemico,
anche disponendo di una flotta
inferiore. La finalità è una sola:
realizzare la superiorità locale sul nemico per sconfiggerlo.
Considerata la rilevanza che riveste nel ciclo del commercio, lo
sforzo deve essere rivolto verso
la flotta nemica, la quale deve
essere affrontata e completamente eliminata in una battaglia decisiva, anche inseguendo
33
le unità in fuga. Sotto l’influsso
dello Jomini, per il quale “le forze organizzate del nemico devono sempre essere il principale
obiettivo”, il Mahan sostiene che
“le navi e la flotta del nemico
sono il vero obiettivo da distruggere in ogni occasione”. Qui, più
che altrove, egli mutua dalla tradizione navale britannica, tentando di imprimere negli ufficiali americani quella mentalità
guerriera risoluta e vincente dimostrata nei secoli dai colleghi
inglesi, che tanto lo aveva affascinato. Una mentalità frutto di
una coscienza comune e condivisa circa la centralità della forza navale, quale strumento prevalentemente offensivo per una
politica innanzitutto di sopravvienza e poi di potenza globale.
Il blocco navale è un’alternativa
alla battaglia navale decisiva, ma
non altrettanto efficace, in quanto costringe a permanere per
lunghi periodi in prossimità del
porto avversario, con il pericolo che qualche mezzo riesca comunque a fuggire approfittando
di occasioni favorevoli per esercitare la guerra di corsa; inoltre
con l’avvento di mine, torpediniere e sommergibili, il blocco
deve essere esercitato sempre
più a distanza dal porto rispetto
all’epoca velica, in cui le squadre
pendolavano fuori dalla corta
gittata delle batterie costiere.
Non è ragionevole, pertanto,
per gli Stati Uniti frazionare la
flotta tra il Pacifico e l’Atlantico; ciò renderebbe la Marina
debole dappertutto. Lo stesso
dicasi in merito alla suddivisione delle forze francesi tra Brest
e Tolone, tenuto conto che Gibilterra è in mano agli Inglesi.
Applicando i principi della concentrazione e della comunicazione per linee interne il Mahan
arriva ad elaborare, di fatto, una
vera e propria teoria “geopolitica” (prima ancora che tale termine venisse inventato), la cui
validità è stata confermata nel
tempo: essa si basa sulla neces-
Osservatorio
sità, per gli interessi della nazione americana, di
procedere all’apertura
del canale di Panama,
punto strategico da tenere sotto il proprio
controllo; e di ottenere il dominio del mare
del golfo del Messico e
dei Caraibi sfruttando
l’importanza strategica di Cuba, ancora appartenente alla Spagna.
CORBETT E LO
STUDIO TEORICO
DELLA GUERRA
Rivale del Mahan nella elaborazione di una
strategia marittima e dei
ruoli spettanti alle forze navali fu Sir Julian
Corbett. Egli nacque a
Londra il 12 novembre
1854 e, dopo aver esercitato la
professione forense per qualche anno, si avvicinò allo studio
della storia navale, pubblicando
una serie di lavori a partire dal
1898, che attirarono l’attenzione
dell’Ammiragliato britannico.
Nell’agosto del 1902 venne così
invitato a tenere alcune lezioni
presso il Royal Naval College di
Greenwich, per dimostrare l’influenza della politica sulla strategia3. Dopo aver pubblicato Some
Principles of Marittime Strategy
(1911), egli avviò una stretta
collaborazione con la Marina,
che durò fino alla sua morte
avvenuta il 22 settembre 1922.
A differenza dell’autore americano, il Corbett deve indirizzare
la propria opera ad una dirigenza politica e militare dotata di
un’altissima cultura marinara, e
profondamente conoscitrice del
concetto di potere marittimo, in
quanto protagonista della crea-
Julien Corbett
zione di quell’impero mondiale
che aveva reso l’Inghilterra la
potenza navale per antonomasia. Un pubblico qualificato che,
avendo da secoli individuato nel
dominio del mare lo strumento
fondamentale per la ricchezza
del paese, attende di riflettere su nuovi concetti strategici
che permettano un uso efficace
ed efficiente della forza navale.
Egli, quindi, imposta un’esposizione non basata su di una grande
e semplice idea come aveva fatto
il Mahan, bensì su di ragionamento sottile e penetrante tendente a ricercare moderni criteri
di esercizio del command of the
sea, idonei a consentirne il mantenimento con uno sforzo che
oggi definiremmo sostenibile.
Passiamo all’esame del pensiero
del Corbett tentandone, ovunque sia possibile, la compara-
zione con quello del Mahan.
In primo luogo l’autore inglese concorda con quest’ultimo nel ritenere lo studio
teorico della guerra come
centrale nella formazione militare. Esso non deve
avere la pretesa di donare la
capacità di agire sul campo,
ma solo di far acquisire una
visione più ampia, in modo
che il piano di battaglia copra tutto lo spettro dei casi,
e possa essere afferrato con
maggior rapidità e certezza
ogni fattore di un improvviso cambio di situazione.
Scopo della teoria è educare
e non sviluppare competenze esecutive, che dipendono invece dalle intrinseche
abilità di ciascuno. E’ di
fondamentale importanza l’esame degli eventi del
passato per determinare
la normalità, ossia gli effetti che normalmente seguono
a certe linee di condotta. Fissata la normalità si potrà valutare
con maggiore efficacia i pro ed i
contro di ogni variabile; si potrà,
quindi, definire una strategia.
Diversamente dal Mahan, egli
definisce con precisione le differenze tra la strategia marittima e quella navale. Per strategia
marittima il Corbett intende
“i principi che governano una
guerra nella quale il mare rappresenta un fattore sostanziale”. Essa è distinta dalla strategia navale che, invece, “è quella
parte della strategia marittima
che determina i movimenti della
flotta quando la strategia marittima stessa ha determinato quale parte la flotta debba giocare in
relazione alle azioni delle forze
terrestri”. Quindi, la strategia
marittima deve determinare le
reciproche relazioni che, in un
piano di guerra ben strutturato,
Diversamente da quanto avviene nelle altre marine occidentali (Italia, Francia, USA), appartiene alla tradizione didattica della Royal Navy l’affidamento a personale civile e non militare dell’insegnamento della storia navale nell’ambito dei corsi di formazione degli ufficiali inglesi.
3
34
Osservatorio
devono instaurarsi fra l’Esercito
e la Marina. Quando ciò sia stato fatto, e non prima, la strategia
navale può iniziare a studiare il
modo con il quale la flotta può assolvere la funzione assegnatale.
Per comprendere le relazioni intercorrenti tra i fattori terrestri e
marittimi occorre riferirsi ai fondamentali principi della guerra.
Come il Mahan con lo Jomini, così il Corbett si richiama
esplicitamente alle idee del
Clausewitz4, concordando con
la sua teoria che “la guerra è
semplicemente la continuazione della politica con altri mezzi”, e di conseguenza il piano
bellico deve aver chiaro l’obiettivo politico da perseguire, perché da esso discende la natura
e l’importanza del conflitto.
A seconda del fine politico, sottrarre qualcosa al nemico o impedirgli di ottenere vantaggi a
nostro discapito, le guerre sono
classificate in offensive e difensive. Anche nel caso della difesa occorre preservare lo spirito
aggressivo delle forze, spingendole al contrattacco non appena il nemico abbassi la guardia.
Sempre in funzione dell’obiettivo politico, le guerre si dividono in illimitate o limitate, a
seconda della necessità o meno
di distruggere tutto il potenziale bellico del nemico. Va da sé
che nel caso di conflitto limitato potrebbe essere sufficiente
fare dell’obiettivo, e non delle
forze nemiche, l’oggetto dell’offensiva strategica principale.
Tuttavia, anche la guerra limitata richiede un grosso dispendio
di forze, poiché occorre evitare di lasciare scoperto il fronte
interno. In pratica, nella guerra
tra due Stati continentali conti-
gui, nella quale l’obiettivo sia la
conquista di un pezzo di territorio adiacente alle loro frontiere,
non si ricava alcuna differenza
tra la guerra limitata e quella illimitata, poiché le forze in
campo dovranno essere in ogni
caso le massime disponibili. Applicando le teorie clausewitziane al mare, il Corbett sostiene
che la guerra limitata è, invece,
sempre possibile per le potenze insulari o separate dal mare
perché, se sono in grado di dominare il mare, possono isolare
l’obiettivo lontano e contemporaneamente rendere impossibile
l’invasione del proprio territorio. Ecco il segreto del successo
dell’Inghilterra: chi ha il dominio del mare possiede la libertà
di scegliere quanto impegnarsi
in un conflitto, gestendo al meglio le proprie forze, mentre chi
si trova sulla terraferma spesso si trova in grande difficoltà.
Attraverso l’uso di una forma
limitata di guerra una potenza
militare debole può ottenere il
successo contro una più forte.
Vi sono casi nei quali può essere
vantaggioso non cercare a tutti i costi la sconfitta delle forze
nemiche, ma tentare il conseguimento di un obiettivo più limitato, quale quello della occupazione di una piccola parte del
territorio avverso, specie se lontano dalla madrepatria. Ciò avviene di frequente proprio nelle
guerre marittime, come insegna
l’esperienza britannica, dove non
occorre distruggere l’intero potenziale di resistenza del nemico ma solo quella parte che esso
destina alla difesa dell’obiettivo
territoriale altrui. Qui entra in
gioco la Marina che ha il compito di isolare completamente
l’obiettivo, tramite operazioni
destinate a sconfiggere le forze
navali nemiche. Si passa così nel
campo della strategia navale.
LA STRATEGIA
NAVALE DI
CORBETT
Pur concordando con il Mahan
sul fatto che “l’obiettivo della
guerra navale deve sempre essere, direttamente o indirettamente, quello di assicurarsi il dominio del mare o di impedire al
nemico di ottenerlo”, Il Corbett
fa notare che normalmente nessuno dei contendenti ha il pieno
comando del mare. A differenza
del territorio, il mare non è suscettibile di essere posseduto,
almeno al di fuori delle acque
territoriali. Infatti, non si può
impedire il suo uso da parte dei
neutrali, né si può immaginare
di mantenere costantemente le
forze armate su di esso. Il valore che il mare può avere per un
paese è soprattutto come mezzo
di comunicazione. Dunque, “il
dominio del mare non significa
altro che il controllo delle comunicazioni marittime, per scopi commerciali o militari. L’oggetto della guerra marittima è il
controllo delle comunicazioni e
non, come per la guerra terrestre, la conquista del territorio”.
Poiché il nemico, fino a quando
ha una flotta sufficiente, è teoricamente in grado di togliere all’avversario il controllo di
una particolare zona di mare, il
controllo del mare incontra costantemente dei limiti di tempo
e di spazio. Sbaglia, quindi, chi
pensa di non poter trasportare
le proprie forze per mare fino a
Karl Von Clausewitz (1780-1831), generale prussiano, autore della monumentale opera Della guerra (1830), che costituisce ancora oggi un punto di riferimento per gli studiosi di strategia non solo
militare. Egli intende la guerra come atto politico di forza per indurre l’avversario al nostro volere, per la quale non esiste una regola assoluta che possa sostituire il genio del comandante sul campo di
battaglia. L’azione bellica deve tendere alla concentrazione delle forze per la distruzione del centro di gravità del nemico.
4
35
Osservatorio
quando la flotta nemica non sia
stata completamente sconfitta. Prova ne è stata la condotta
tenuta dagli americani contro
gli spagnoli per la conquista di
Cuba (1898), durante la quale la
flotta statunitense esitò ad invadere l’isola nel timore di un ipotetico intervento navale nemico. In pratica, diversamente dal
Mahan, egli ritiene che il dominio del mare non può mai essere
assoluto, giacché nessun livello
di superiorità navale può mai
impedire sporadici attacchi alle
comunicazioni. Però questi, con
un accorto “controllo del mare”,
non potranno mai seriamente
interferire sul traffico marittimo e sull’esito della guerra.
Il principio clausewitziano di
concentrazione delle forze, così
centrale nel pensiero strategico mahaniano, secondo il Corbett non può essere applicato
tout-court alla guerra navale,
nella quale esso va sapientemente bilanciato con quello
della flessibilità, in modo che i
vari elementi che compongono la flotta possano, a seconda
delle esigenze, riunirsi rapidamente o tenersi divisi a presidio
delle varie rotte commerciali.
A differenza della guerra terrestre, in mare non è sempre
possibile attaccare le forze del
nemico, che in qualsiasi momento può decidere di far uscire
dal gioco la sua flotta ritirandola in porto: lo scontro decisivo,
seppur auspicabile, può essere
evitato dall’avversario. Inoltre
le flotte, oltre e prima del compito di vincere battaglie, hanno
quello di proteggere il commercio. Considerate tali peculiarità, le operazioni navali possono
raggrupparsi in tre grandi categorie, a seconda che servano ad assicurare, disputare o
esercitare il dominio del mare.
Potendo contare su forze navali
preponderanti è ovvio che, come
sostiene il Mahan, il primo compito da assegnare alla Marina
per assicurare il dominio del
mare è quello di scovare la flotta
nemica e distruggerla. Questo
è stato il segreto del successo
britannico in mare. Se però l’offensiva principale è terrestre,
allora lo sforzo navale deve essere subordinato ai movimenti
dell’esercito, e non cercare ad
ogni costo lo scontro decisivo.
Appare evidente che il Corbett
esprime una teoria non tanto
alternativa quanto evolutiva rispetto a quella mahaniana, in
quanto frutto di una cultura navale superiore, ossia più sviluppata, che ha già vissuto e sperimentato gli sforzi occorrenti alla
conservazione del command of
the sea, e che ne ricerca ora più
efficienti modalità di esercizio.
Infatti, qualora non sia possibile
costringere il nemico allo scontro oppure il piano di guerra
richiede l’immediato controllo
delle comunicazioni, sarà conveniente considerare tutte le
forme di blocco, sia militari sia
commerciali. Con il blocco militare, o navale, si cerca di impedire alla forza armata avversaria
di lasciare il porto o di costringere la stessa alla battaglia. Nel
primo caso la flotta sarà tenuta
a poca distanza dal sorgitore
(blocco stretto); nel secondo, le
unità saranno allontanate dalla
costa (blocco aperto) ad una distanza tale da indurre il nemico
ad uscire in mare in tentativo di
evasione. Il blocco commerciale ha come obiettivo immediato quello di interrompere ogni
commercio nemico e quello
ulteriore di costringere la flotta avversaria ad uscire in mare.
In tal senso esso è unito, in subordine, ad un blocco navale.
Una potenza troppo debole per
ottenere il dominio del mare
con operazioni offensive, può
adottare alcuni metodi per contenderlo attraverso un atteggiamento generalmente difensivo.
In mare la difesa consiste essenzialmente nell’evitare lo scontro
decisivo tenendo la flotta “in
being”, che possa in qualsiasi
36
momento tentare azioni improvvise ed insidiose (contrattacchi minori) per mettere fuori
combattimento una parte della
flotta avversaria. La possibilità
di usare siluri e sommergibili,
accompagnata al valore ed alla
abilità dei comandanti, aumentano sicuramente le capacità difensive della potenza più debole.
Nei metodi per esercitare il dominio del mare si ricomprendono le operazioni che non sono
dirette contro la flotta da battaglia nemica, ma servono a difendersi contro l’invasione, ad
ostacolare il commercio altrui e
difendere il proprio, a proteggere
le proprie spedizione oltremare.
Nella difesa contro l’invasione l’obiettivo delle operazioni
è sempre l’esercito del nemico e non la sua flotta. Tale è
stato in ogni occasione il sistema difensivo britannico.
L’attacco al traffico commerciale può essere condotto ai terminali di partenza o destinazione,
ai punti focali (choke point), o
alle principali rotte. I primi due
sono più proficui ma richiedono maggiore forza e rischio;
l’ultimo è il più incerto ma implica minor sforzo e rischio.
Infine, per quanto riguarda le
spedizioni, la regola principale per un’azione offensiva è che
sia rivolta verso i trasporti e non
verso le scorte. Queste devono
essere allontanate o contenute
ma mai trattate come obiettivo
principale. Nell’azione di difesa la squadra di scorta va sempre tenuta compatta e pronta
all’azione navale indipendente,
come insegna l’episodio di Lissa (1866) nel quale le forze italiane furono sconfitte da quelle
austriache perché, quantunque
superiori, non designarono una
squadra di copertura indipendente per tenere a bada il nemico.
CONCLUSIONI
Entrambi gli autori oggetto del
presente studio hanno avuto
Osservatorio
il grande merito di far riconoscere dignità scientifica ad un
settore del sapere, quale quello
della strategia marittima, sino
ad allora ristretto nell’ambito
della pratica marinaresca, legata a singole circostanze ed ad
abilità individuali. Essi hanno
dimostrato come, attraverso lo
studio sistematico ed analitico dei conflitti navali, sia possibile desumere l’esistenza di
principi generali regolanti la
guerra in mare universalmente
applicabili. Tali principi inquadrati in un sistema concettuale più ampio ed organico, così
come avevano intuito per la
guerra terrestre lo Jomini ed il
Clausewitz, possono condurre
alla elaborazione di formule di
strategia marittima in grado di
ispirare le politiche nazionali.
Sia il Mahan con la sua teoria
generale del potere marittimo,
sia il Corbett con i sui principi di
strategia marittima hanno esercitato una grossa influenza sulle potenze dell’epoca, rivelando
che esiste un modo corretto per
l’esercizio del potere marittimo. Il loro grande merito consiste anche nell’aver illuminato
le Marine mondiali sull’importanza dello studio della storia
nella formazione degli Ufficiali, sul valore della teoria come
guida educativa, sul legame indispensabile dell’attività navale
con gli obiettivi della politica.
Come si è visto, tra i due studiosi non mancano differenze. Il
pensiero del Mahan è più ampio
e seducente; quello del Corbett
più sofisticato e logico. Il primo
individua nella concentrazione delle forze la regola principe
della guerra navale e vede nello
scontro decisivo la chiave di risoluzione dei problemi strategici.
Il secondo non dimentica l’importanza della flessibilità della
flotta in funzione dell’esigenza primaria di protezione delle
rotte commerciali; evidenzia i
limiti che incontra l’azione decisiva nei confronti di un nemico
sfuggevole che preferisca mantenere le proprie forze in being;
e ritiene il dominio del mare una
situazione eccezionale, ove la regola è fornita da un controllo del
mare (sea control), temporaneo
o locale, finalizzato a garantire la
sicurezza delle comunicazioni.
Si è detto che dette diversità si
possono giustificare in ragione
della distinta estrazione culturale degli autori e del differente audience cui si rivolgono.
Il Mahan si rivolge ad una società prevalentemente terriera,
senza tradizioni marinare, che
deve essere convinta circa la
necessità della creazione di una
grande Marina d’altura, idonea
a proteggere gli interessi americani nel mondo. Non bisogna
mostrare incertezze, ma proporre un’idea seducente e comprensibile senza sforzo: ecco
il potere marittimo! La prova
della bontà della formula? Basta guardare all’esperienza della regina dei mari, l’Inghilterra.
D’altro canto, il Corbett si indirizza alla platea britannica: un
pubblico maturo, che da secoli
vive il mare, ne conosce le insidie e sa le difficoltà che si incon-
trano per conquistare e mantenere il dominio marittimo. Non
occorre convincere dell’importanza del command of the sea,
poiché ciò è scontato. Bisogna,
invece, ragionare di fino per
trovare la regola che permetta
di conservare la supremazia navale, con economie di risorse,
in un mondo nel quale nuove e
vigorose potenze si affacciano ai
traffici marittimi. Basta illusioni
sul dominio assoluto del mare.
La regola è il controllo, limitato
nel tempo e nello spazio, delle
linee di comunicazione, al fine
di assicurare la continuità degli
scambi. In tal senso la tesi corbettiana non si può considerare “alternativa” ma “evolutiva”
rispetto a quella mahaniana.
In conclusione, nonostante i
limiti che le teorie esposte incontrano oggi per lo sviluppo
tridimensionale
(superficiale,
sottomarino ed aereo) dell’ambiente marittimo, il Mahan ed il
Corbett conserveranno per sempre il pregio di aver identificato
le basi del problema della guerra
navale, al quale ciascuna epoca deve fornire le sue risposte.
BIBLIOGR AFIA
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37
Professore
PAOLO FABBRI
i termini
della
Strategia
La semiotica è una disciplina che studia i
sistemi e i processi di significazione, cioè
il modo con cui noi diamo significato alle
azioni che compiamo. Ecco, questa definizione preliminare vi mostra chiaramente
che non si tratta soltanto dello studio dei
segnali, che pure sono fondamentali, soprattutto in condizioni di comunicazione
conflittuale, e tuttavia che non è altro che
una parte di una disciplina generale che
tenta di capire come vengono sistematizzati e come procedono, qual è il processo
della significazione. Capite quindi che è
evidente che siamo interessati alla terminologia diciamo metastrategica, cioè a
quali sono i termini che oggi ci consentano
di pensare le nostre discipline con un’attenzione particolare alla loro definizione
e interdefinizione. La cosa fondamentale
che sa un linguista e un semiologo, sapete che sono nello stesso mondo, è che
i termini vanno definiti ma soprattutto interdefiniti, ogni termine ha un significato
in quanto si oppone per antinomia o si associa per sinonimia ad altri termini; quindi
l’attenzione alla verifica della terminologia
è centrale per la nostra conoscenza.
Vorrei fare quindi, com’è stato detto giustamente oggi una affermazione di una
descrizione per me difficilmente accettabile della nozione e della strategia. Sapete
che oggi esiste un’esportazione generale
del termine come quello di strategia in tutto il mondo della comunicazione, e sentite
i risultati che dà per esempio, il dizionario
di strategia pubblicato a Parigi presso le
università francesi nel 2000, in cui dice:
“scienza o arte dell’azione umana finalizzata volontaria e difficile”.
Questa è una definizione evidentemente
infinitamente povera, che può essere interessante ridefinire, ripensare, perché
come quasi tutti i termini tecnici, i termini
tecnici appena vengono adottati generalmente da ambienti, dentro cui non sono
stati definiti e interdefiniti, hanno tenden-
Osservatorio
za a perdere alcuni tratti ed assumerne
degli altri, mentre le parole comuni, le parole del discorso quotidiano invece sono
sottoposte ad un’attività contraria cioè
ad una definizione all’interno dei sistemi
tecnici. Quindi esiste una specie di interdefinizione delle parole; le parole tecniche
prendono valori connotativi all’interno dei
discorsi quotidiani, le parole quotidiane
spesso le stesse, vengono ridefinite nuovamente all’interno dei discorsi tecnici.
Ecco cosa vorrei fare oggi, cioè tentare
di vedere se esistono alcuni elementi di
questa polisemia, cioè di questa complessità di significazione lessicale, che ci
potrebbe aiutare a ridefinire il concetto di
strategia.
La prima domanda è: com’è stato possibile, soprattutto nel mondo del marketing,
arrivare alla definizione “scienza dell’arte
dell’azione umana finalizzata volontaria o
difficile?” Guardate che questa definizione
è ricca di implicazioni, cosa ha perduto e
che cosa ha guadagnato? Lasciatemi fare
una distinzione preliminare che è stata
fatta da una grande filosofa che si chiama
Hannah Arendt, la distinzione fra fabbricazione e azione. La fabbricazione non
tiene conto di interazione cioè la risposta
dell’altro, voi potete fabbricare un oggetto, c’è resistenza dei materiali per fabbricare un oggetto, nel caso dell’azione la
vostra azione è interpretata dall’altro e voi
dovete tener conto dell’interpretazione
dell’altro, e non solo sapendo che anche
lui ha un’azione ed una interpretazione,
quindi la distinzione che la Arendt fa tra
fabbricazione e azione, ci consente di dimostrare abbastanza efficacemente che,
quest’idea di scienza dell’azione umana
finalizzata volontaria e difficile, è dell’ordine della fabbricazione, cioè tiene scarsamente conto o quasi per nulla dell’altro.
In altri termini, pensate per uno che faccia
una campagna pubblicitaria, è più portata sulle qualità dell’oggetto da vendere
e sulla relazione con il destinatario, cioè
con il ricevente, che non sul concorrente,
cioè questa definizione fa l’economia della concorrenza, fa l’economia dell’altro e
della sua strategia, e questo a mio avviso
è molto importante, perché in generale
si può così dire nella definizione attuale
di strategia come si è diffusa, a partire
senza dubbio dal concetto della strategia
militare, che è la sua matrice, restano due
nozioni fondamentali, che è quella di programmazione e di calcolo che è implicito
nel concetto di fabbricazione. Manca invece radicalmente la definizione di azione
interdipendente, cioè quello che mi sembra il nocciolo della definizione strategica, qualunque azione che sia obbligata a
tenere conto del fatto che sarà interpretata, e che chi gli risponde, cioè quello che
verrà e che ha capito la significazione o
interpretata in un certo modo, compirà o
è suscettibile di compiere o di non compiere, di fare o di omettere un’azione che
gli risponda e che sia anch’essa interpretabile.
Vedete questa dimensione toglie alla strategia, quella voglio dire di fabbricazione,
toglie alla strategia la sfumatura sostanzialmente semantica, cioè conoscenza
della azione altrui, dei suoi fini dei suoi
progetti, della sua significazione in relazione alla mia, questa idea che la strategia sia eminentemente interlocutoria, ma
non nel senso dell’interlocutorio, nel senso della reciprocità e della interdipendenza, si è venuta a perdere nelle definizioni
generali della strategia oggi.
Oggi si dice strategia nella fabbricazione
di un prodotto, per definizione noi diremmo che non è strategia, avremmo strategia quando c’è un concorrente sullo stesso mercato, che tenta di vendere il proprio
prodotto o lo stesso prodotto in maniera
diversa, mi scuso di questa preliminare
definizione che però ritengo necessaria.
Questa è la prima osservazione, lasciatemi fare una seconda osservazione che mi
sembra di grande importanza, il concetto
di strategia può essere definito in maniera
sistematica, e così tenteremo di farlo.
Il secondo punto invece tocca alla sua definizione storica. Questa distinzione non
è una distinzione volontaria, è chiaro che
qualunque definizione storica, nel senso
che è immersa all’interno dell’evoluzione
delle sue definizioni, dico soltanto che le
parole sono nello stesso tempo entrate
nel dizionario e nei termini, notatelo que-
39
sto dettaglio.
Cosa vuol dire che una è entrata in un
dizionario, vuol dire che a partire dal
dizionario voi potete fare diverse uscite, potete reinterpretare il termine come
storicamente è necessario. Nello stesso
tempo voi sapete che la parola è un termine, cosa vuol dire, vuol dire che la parola
dentro il dizionario è il termine di tutti gli
usi potenziali che è stato fatto di questa
parola, quindi la parola è nello stesso
tempo il termine di tutti gli usi storici che
ne sono stati fatti, ma anche un’entrata,
un’entrata delle future interpretazioni che
non dipendono dalla storicità, ma che dipendono dalla storicità che aprono sulla
utilizzazione futura; ritengo molto importante dovendo parlare di termini, sapere
che ogni termine è un’entrata oltre che un
termine. Bene, se dovessimo però tener
conto della dimensione storica io credo
che dovremmo tentare, nel contesto che
ci caratterizza oggi ma sarà certamente
fatto, di mettere a fuoco due punti fondamentali, nessun organismo sia umano
che vivente voglio dire, è capace di essere
senza definire quello che è, in altri termini è un postulato della semiotica, che
qualcuno vive e dice come vive, o pensa
a come vive, che qualcuno pratica e definisce la propria pratica. La definizione
delle proprie pratiche è costitutiva delle
pratiche, quindi è chiaro che ogni termine
e anche un meta-termine, cioè un termine
che definisce i propri termini.
Quando facciamo qualcosa, diciamo chi
siamo e come lo facciamo mentre lo siamo e lo facciamo, questa ipotesi è costitutiva, quindi è costitutiva della nozione
di strategia, il modo con cui una cultura
definisce la propria strategia, definire le
proprie strategie è parte della strategia,
non è la strategia. Ecco perché non si può
ridurre il concetto di strategia alla somma
dei suoi usi potenziali, perché ce ne sono
degli altri futuri, ma nello stesso tempo il
modo con cui lo definiamo, condiziona il
modo con cui noi usiamo una strategia.
Mi spiace dire queste cose che sembrano
tanto logiche, ma ritengo fondamentale
dire che i metalinguaggi descrittivi non
sono metalinguaggi, perché sono perfor-
Osservatorio
mativi e influenti sul modo stesso con cui
noi descriviamo e pratichiamo.
Faccio un esempio subito per non essere
troppo astratto, è stato detto prima, l’opposizione tra occidentale e orientale. Per
semplificare sapete che Goethe una volta
era arrivato a Padova, ha visto il “gincobiloba” che è un delizioso albero tra i più
antichi di origine cinese, ha guardato la
foglia dell’albero l’ha vista perfettamente simmetrica, ha detto l’oriente e l’occidente, si sbagliava non è simmetrica è
fortemente asimmetrica. Di recente uno
studio di un amico, di un sinologo, cioè
un specialista in sinologia, che si chiama
François Jullien che conosce molto bene i
lavori di semiotica, ha tentato di mettere a
punto quest’idea del trattato dell’efficacia,
dove ha opposto alcune categorie della
metastrategia occidentale per semplificare molto, e dall’altra parte di una metastrategia orientale.
La prima quella occidentale, orientata sull’idea di mezzo fine, ci sono dei fini da ottenere e dei mezzi per raggiungerli, se ci
sono dei fini da ottenere attraverso questi
mezzi, è necessario costruire un piano di
mezzi che realizzi quei fini. Questa tesi
evidentemente comporta tutto il platonismo della cultura occidentale. E’ necessario costruire un piano, chi di voi conosce la storia della strategia, certamente
meglio di me, ricorda quanto i prussiani
hanno organizzato l’occupazione della
Francia dal 14 al 18; il piano famoso di
occupazione fu corretto infinite volte, poi
eseguito.
Ecco il concetto fondamentale fortemente
platonico, là in realtà si tratta di preparare all’inizio qualcosa che accadrà più o
meno bene. Poi arriva Clausewitz e sa che
c’è il concetto di attrito, ma il concetto di
attrito non è altro che una maniera per
correggere implicitamente la relazione
platonica tra mezzo e fine, cioè l’idea che
tutto sommato le cose vanno realizzate a
partire da un progetto preciso.
Nell’arte della guerra del Machiavelli, sapete c’è una descrizione famosa di come
una volta organizzato perfettamente
l’esercito, la battaglia si definisca come
“facile macello”, è la parola di Machiavelli, cioè è l’esecuzione in corpore vili di un
piano platonico nettamente preparato.
Non è così esatto, se prendete e sarebbe
molto interessante la rappresentazione
del concetto figurativo del concetto di
stratagemma, che pone il fonema e l’unità
dei suoni, il monema o il morfema è l’unità della forma della lingua, lo stratagema
è l’unità dell’organizzazione strategica,
troverete che le descrizioni sono molto
diverse.
Il “Ripa” nel rappresentare che cos’è uno
stratagemma mostra un uomo armato con
uno scudo, e in quello scudo si vede un
serpente e una rana che tiene in bocca
una canna. Sapete benissimo cosa vuol
dire, il serpente vorrebbe inghiottire la
rana, ma la rana si è messa una canna
in bocca e il serpente non ce la fa. Il concetto di strategia, di stratagemma quindi,
è stato la correzione sistematica come il
concetto di attrito della definizione platonica, della relazione mezzo fine. Ritengo questa nozione cruciale, ed è cruciale
perché evidentemente ha tendenza a sottovalutare il problema del piano dell’altro,
perché l’altro ha lo stesso piano, e quindi
il concetto di manipolazione che invece è
40
caratteristico della cultura orientale, che è
orientata invece verso il concetto a lungo
termine di produzione di effetti, non mezzo fine ma produrre effetti, cioè l’idea di
un pensiero, di un’efficacia, di volta in volta sostenuto sui concetti come potenzialità di situazione, di spiegamento dell’efficacia, effetti a lungo termine e così via. E’
evidente che, entro nel dibattito perché
credo che Jullien nel suo libro quello che
lui chiama la semiologia della sinologia,
nel suo libro sul trattato dell’efficacia è
stato molto preciso su quest’idea idea,
che secondo me è centrale perché ritengo
fondamentale, come vi ho detto fin dall’inizio, nella definizione di concetti strategici, l’autodefinizione stessa dei concetti,
quindi l’autodefinizione costitutiva delle
definizioni. Credo che ormai Sun Tzu sia
stato integrato nei manuali correnti della
vita dei Marines, quindi non c’è bisogno di
tornarci su troppo.
Bene, cosa fa la semiotica da questo punto
di vista, ecco vorrei tentare di dimostrare
perché siamo interessati a questa questione, perché siamo interessati e perché
speriamo di trovare, come ho già trovato
in questo luogo una rispondenza di interessi, per una ragione molto semplice, se
noi siamo interessati alla costruzione della significazione, è perché noi pensiamo
che la significazione è fatta di differenze,
cioè che nessun termine ha dei significati
intrinseci, ma soltanto relazionalmente ad
altri termini, l’ho già detto lo ripeto, è il
postulato su cui si fonda la linguistica contemporanea. Cioè tutti i comportamenti
dotati di significazione sono comportamenti differenziali, bene, non è detto che
Osservatorio
tutti i comportamenti siano differenziali,
sapete cosa vuol dire far la differenza,
siano nello stesso tempo comportamenti
conflittuali, tuttavia è vero che, per esempio noi riteniamo che per capire la parola
bene bisogna capire la parola male, anzi
meglio la relazione tra il bene e il male,
per capire l’idea di vittoria bisogna capire
cosa vuol dire sconfitta, cioè in altri termini l’idea fondamentale della semiotica,
è che la significazione è eminentemente
contraria, si capisce per contrarietà, e che
quindi l’intelligibilità delle azioni è una intelligibilità del conflitto di senso, il senso
è conflitto di senso, almeno per la nostra
cultura. Ebbene credo che da questo punto di vista, un modello della definizione
della significazione sia necessariamente
un modello strategico, ma non un modello
strategico delle azioni umane, finalizzate
volontarie e difficili, ma delle azioni umane in condizioni di differenza e di contrasto, eventualmente di scontro.
Ecco dunque l’idea di fondo è che, per
capire il significato di un termine dovete
pensare a quali termini si oppone, primo, e secondo per capire il significato di
un’azione dovete capire a quale controazione essa si offre, so benissimo che ha
l’aria molto generica, tuttavia credo che
sia un modo per pensare il senso di grande peso.
Di qui il tentativo della semiotica di ridefinire alcune nozioni fondamentali, una la
nozione di azione, la nozione di competenza, la nozione di mossa, la nozione di
manovra, la nozione di conversazione, la
nozione di narratività. Non ho il tempo né
il modo di svilupparle, tuttavia per esempio è evidente che per noi azione è interferenza su uno stato di cose, ma questa
sarebbe una definizione del tipo azione
umana finalizzata.
Definiremo invece azione significativa,
ogni interferenza con uno stato di significazione, in cui in presenza di una possibile contro definizione dell’azione e della
sua significazione. Il senso delle azioni si
definisce in condizione di conflitto, non di
programmazione e di calcolo, che senza
dubbio c’e, ciascuna delle due azioni e
contro-azioni si definisce come, certa-
mente programmata nei suoi fini e calcolata, economizzata, ma fondamentalmente come contro azione, ogni azione è
contro-azione, quindi ogni azione è parte
di una manovra, ma non di una manovra
di programmazione e una manovra di calcolo, ma una manovra che è una contro
manovra, comprese le azioni che noi compiamo rispetto alle nostre interpretazioni
del significato. Cioè, anche noi quando
costruiamo un testo ci mettiamo dal punto
di vista di come lo faremo altrimenti, ogni
libro contiene il suo anti-libro, ogni azione
contiene la sua contro-azione possibile.
Questa definizione minima dell’azione,
colloca l’azione non all’inizio della strategia, ci fa pensare che la strategia è l’unità
fondamentale dei comportamenti dotati di
senso, e che l’azione è una delle sue, se
oso dire, divisioni elementari. Lasciatemi
fare una metafora semplicissima, non esistono le parole, le parole sono invenzioni
astratte, esistono i discorsi, poi i discorsi
vengono divisi accuratamente e producono un’unità che si chiamano parole, non
esistono le azioni esistono solo le mosse,
ma le mosse sono in realtà la divisione
che noi possiamo costruire a partire da
comportamenti strategici e complessi, si
comincia con il studiare la strategia, e si
arriva alla definizione minima delle mosse
a partire dal senso globale della strategia.
Mi scuso di dire queste tremende banalità, ma so benissimo che alcuni pensano
il contrario, cioè che il linguaggio è fatto
di parole che vengono combinate insieme,
non è vero, sono testi complessi che vengono articolati in unità e pensano anche
che è possibile pensare analiticamente le
mosse e combinarle l’una con l’altra, non
si ottiene assolutamente niente, bisogna
pensare sistemi complessi, storicamente
dati empiricamente verificabili, cioè la storia della strategia della guerra, e poi discendere caso per caso dividendole pian
piano in unità, è quello che ha fatto per
esempio Clausewitz nella sua famosa storia della campagna di Russia, che a mio
avviso è più interessante a volte del suo
trattato della guerra, almeno da questo
punto di vista.
41
Un secondo punto che ci interessa profondamente è il problema di come creare un modello semplice delle competenze all’azione, sapete benissimo che le
azioni vengono rappresentate prima di
essere prodotte, oppure che vengono in
qualche modo prodotte mentre vengono
rappresentate, e sapete molto bene che
non possono essere fatte, se oso dire con
un sapere totale, per la semplice ragione
che il sapere dell’altro dovrebbe essere la
parte del vostro sapere, questo distingue
le azioni dalle fabbricazioni, quando costruite una sequenza interdefinita della
presenza dell’altro, in cui il sapere in relazione altrui fa parte del vostro sapere, e in
cui voi dovete ottenere che l’azione vostra
preveda l’azione dell’altro come propria
parte, citiamo a giocare a tennis o giocare
a calcio, avere delle strategie interattive,
siete obbligati in qualche modo a rappresentarvi il tipo di competenza dell’altro in
relazione alla vostra competenza.
Noi abbiamo elaborato un modello molto
semplice a quattro termini, che tenta di
definire la competenza, eccolo qui, riteniamo che sia di profonda utilità operativa tentare di differenziare la competenza
dell’altro, così come ce la rappresentiamo
in relazione alla nostra, secondo quelli
che vengono chiamati una volta i vili verbi
modali, detti anche servili, potere, sapere,
dovere e volere, cioè che calcolare l’azione dell’altro implica avere delle ipotesi sul
suo volere, cioè sui suoi orientamenti sulle
sue conoscenze. Di qui l’esistenza come
sappiamo della necessità dell’intelligence,
naturalmente, il terzo, di quello che lui
non può non fare, per i suoi doveri per
i suoi obblighi, che possono essere morali, possono essere limitazioni tecniche,
limitazioni strategiche, assenze di conoscenza, e evidentemente la sua capacità
di potere di calcolo dei poteri.
Ritengo che, un calcolo modale così semplice che tenga conto di questi elementi possa dare grandissime valutazioni,
capacità di valutazione, come togliere
sapere all’altro e come aumentare il proprio, come aumentare le costrizioni dell’altro aumentando le possibilità proprie,
come aumentare il morale della truppa,
Osservatorio
cioè il desiderio e il volere di quelli che
stanno con te e diminuire quello dell’altro, scoraggiare l’altro e incoraggiare sé
stessi. In altri termini questi termini semplicissimi, un calcolo molto semplice, che
ovviamente è di una astrazione ridicola
rispetto alla complessità del mondo mi
sembra di grande utilità, ritengo che quindi l’integrazione delle azioni rispetto agli
altri definisca delle mosse, delle manovre,
l’integrazione complessa è il problema di
quello che chiamiamo narratività, noi chiamiamo le mosse le contromosse elementi
conversazionali, è un modo linguistico per
dire che c’è conversione di prospettive, e
chiamiamo narrativo l’insieme di mosse e
contromosse che due attori competenti,
dotati di potere, sapere, volere, differenziali, compiano a volte piuttosto che agire
sull’azione dell’altro, potete agire sulla
competenza dell’altro, toglierli il sapere,
scoraggiarlo, incastrarlo in posizioni in cui
non si può muovere e così via.
Ritengo che questo modello, è un modello
che ci consente nella combinazione delle mosse, di rispondere ad una grande
quantità di situazioni concrete.
Vengo alle due mosse che mi interessano molto, e che sono già state annunciate
dal Comandante Volta. Il problema fondamentale delle azioni è, se torniamo di
nuovo al mio tema fondamentale, l’entrata
e l’uscita, è “l’open closing”, voi sapete
molto bene che per dare intelligibilità ai
fenomeni bisogna dire dove cominciano
e dove finiscono, allora il problema della
delimitazione delle condizioni di conflitto
è essenziale.
Ritengo fondamentale pensare che esistono morfologie dei conflitti a partire dalla
loro definizione, dal loro inizio e dalla loro
fine, naturalmente intendiamoci, capisco
benissimo che esistono i conflitti endemici, cioè quelli che ci sono sempre stati e
che forse non finiranno mai, è un’ipotesi,
poi ci sono conflitti che cominciano e poi
non finiscono, non riescono a chiuderli,
parliamo di casi recenti, abbiamo la possibilità al contrario di conflitti endemici a cui
si può porre la fine.
Allora il problema che si pone secondo
me, è di integrare nella riflessione delle
mosse, delle contromosse, della narrativizzazione di queste, due grandi figure
semiotiche che sono le figure di segmentazione delle condizioni di conflitto, che
sono creatrici di morfologia di conflitti, anziché costruire cioè a priori che cosa sia
un conflitto e dare per esempio, la guerra
romana, la guerra oplitica è stata citata,
la guerra di bande partigiane, la guerriglia eccetera, mi piacerebbe tentare di
provare a costruire delle morfologie storicamente definite, a partire dalla presenza
e dell’assenza di morfologie definite da
azioni interne, sapendo benissimo com’è
stato detto, che purtroppo la nebbia della
guerra appena scoppia, “riannebbia” le
condizioni della propria definizione.
E’ possibile volere cominciare una guerra e se l’altro non risponde, sappiamo
benissimo la guerra non c’è, è possibile
chiudere una guerra quando l’altro non è
d’accordo per chiuderla, l’abbiamo visto
anche di recente, abbiamo visto il famoso Presidente vestito da aviatore che annunciava la fine di una guerra che non è
finita. Quindi l’idea che la segmentazione
dei conflitti è performativa, cioè non è soltanto la constatazione di un inizio di una
fine, è che decidere un inizio decidere una
fine ha senso nella costruzione della significazione del conflitto.
Esistono pochi studi di semiotica di questo tipo di forme comunicative, c’è un famoso libro di un filosofo che probabilmente conoscete, Filonenco, che ha scritto un
famoso articolo sulle figure della guerra,
ma lui studiava cose diverse, studiava i
proclami, i proclami di Napoleone, i proclami di Hitler eccetera, mi sembra poco
interessante dal punto di vista della costruzione di una morfologia dei conflitti.
Attualmente gli studi di semiotica, su cui
però non tornerò, si sono orientati in due
direzioni, lo studio del concetto di ultimatum, cos’è l’ultimatum?
L’amico Bozzo mi diceva che non c’e una
grande letteratura sull’argomento, ma sarei molto lieto se invece voi che lo conoscete, se ne potesse discutere, cos’è un
ultimatum, allora quali sono le condizioni
per farlo. Per esempio, vedete un caso tipico delle situazioni, quali sono le compo-
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nenti di una situazione, gli attori e le loro
relazioni, lo spazio e le sue condizioni, e
il tempo e le sue costrizioni. Ogni situazione è definita da attori spazio e tempo,
se così è vero l’ultimatum riorganizza la
morfologia delle relazioni, stabilendo delle condizioni, per esempio, che noi diremo
“modalmente” di necessità, chiunque da
un ultimatum costringe l’altro in condizione di non poter fare se non due azioni, o
fai questo o no, ti punisco, ma costringe
anche se stesso, cioè l’ultimatum è un distributore di modalità deontiche noi diciamo, cioè un distributore di obbligazioni, io
vi do un ultimatum e in questo caso voi
non avete più scelta, o si o no, io stesso
però non ho più scelta perché io stesso
mi sono condizionato. Dunque un’azione
linguistica come l’ultimatum, ricostruisce
la competenza di entrambi gli attori, competenza modale, creando le possibilità di
azione differenti.
Un mio allievo basco, ha studiato in un
libro che mi piacerebbe condividere con
voi come informazione, l’ultimatum del
governo spagnolo all’ETA, ed è molto divertente vedere che l’ultimatum non è mai
un ultimatum è sempre un penultimatum,
il penultimatum è costantemente ridefinito
dalle risposte, dalle definizioni degli attori, e tiene conto costantemente di un terzo
attore di cui noi teniamo pochissimo conto
nella strategia, che è l’opinione pubblica,
cioè l’attore opinione pubblica a cui tutti si
fa riferimento, attraverso i media consente costantemente un terzo effetto.
Quindi nella strategia pensata come interazione di due elementi, in realtà bisogna sempre introdurre almeno un terzo,
voi sapete quanto complica i calcoli, di
un’opinione pubblica influenzabile, non
ci ritorno, ma sarebbe profondamente interessante vedere da quando l’ultimatum
diventa davvero un ultimatum.
Ora l’ultimatum nello stesso tempo è un
tentativo di delimitazione della morfologia
del conflitto, ma nello stesso tempo, la
nebbia della guerra annebbia i suoi confini stessi, l’ultimatum finisce col diventare,
perché avete visto che quando Bush ha
minacciato Saddam e gli è stato dato un
ultimatum, Saddam ha continuato a trat-
Osservatorio
tare perché, perché non considerava l’ultimatum un ultimatum, paradosso dunque
è che, per farsi la guerra bisogna essere
d’accordo. La dimensione conflittuale è
simultanea alla dimensione contrattuale, la guerra è un luogo in cui conflitto è
contratto e il contratto è conflitto, è una
banalità lo so allora lasciatemi dare un
esempio spero divertente.
Vi sarà capitato sicuramente che vi telefona uno scocciatore, voi lo salutate gli
dite ciao ciao ma lo scocciatore continua a
parlare. Come mai non buttate giù, perché
bisogna che dica ciao anche lui, si chiamano paia adiacenti nell’analisi conversazionale, cioè voi non riuscite a buttar giù
salvo che, pretestando che state
bruciando l’arrosto che la casa
sta andando a fuoco, perché
c’è comunque necessità di
un consenso conflittuale
sulla chiusura e sull’apertura. Adesso arriviamo alla
questione fondamentale, la
resa. Gli studi della resa
non sono sufficienti a mio avviso, ho letto molte storie della
resa, non troppe, non quante il
mio amico Bozzo certamente,
però mi interessa moltissimo
questa questione, perché nella resa è in questione qualcosa di più, mentre l’ultimatum
costituisce l’avversario in
un avversario dotato di legittimità, l’ETA diventa legittimità dal momento in cui
viene dato l’ultimatum, nel
caso della resa siamo al contrario è la
perdita di legittimità, guardate che la resa
è un momento cruciale che andrebbe più
riesaminato attentamente, perché è il gesto costretto non costretto, condizionato
incondizionato, di perdita della sovranità,
ed è quindi uno dei momenti centrali della chiusura della guerra. Cosa significa?
Avete visto perché Bush ha fatto questa
straordinaria manifestazione, La ragione
era perché in quel momento lui assumeva
la sovranità, ma nessuno era li per dargliela, allora ci voleva qualcuno che dicesse si si, d’accordo ciao ciao, bene la co-
struzione della questione della sovranità
è a mio avviso fondamentale. Siccome non
ho più tempo per parlarne, mi dispiace ma
spero nella discussione, volevo ricordarvi un quadro straordinario, gli studiosi di
storia dell’arte sono sempre impressionati dai quadri di resa, e mi stupisco sempre che non ci siano altrettanti interessi,
perché i quadri di vittoria ci sono, ma
c’è anche una grande quantità di quadri
di resa, e insieme a degli amici abbiamo
studiato la rappresentazione della resa, e
quella
certamente più spettacolare che conoscete tutti per ragione storiche è quella
di Breda, la resa di Breda di Velasquez,
vi ricorderete c’è il Generale Spinola, che
è quello che ha fatto arrendere la città,
è un genovese lo sapete, comandava le
truppe spagnole, e davanti a lui in condizione di quasi inginocchiamento, ma non
troppo c’è il Capo, poi ci sono i soldati, i
soldati spagnoli sono organizzati con le
loro perfette lance e archibugi, e dall’altra
parte gli altri con lance un po’ disordinate,
sono quelli che hanno perduto ma con la
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stessa dignità, il gesto di magnanimità nel
momento della resa che cos’è?
Sarebbe interessante rifletterlo profondamente, perché non bisogna umiliare l’avversario nella resa, il momento della resa
è il momento di passaggio della sovranità,
la perdita della sovranità minaccia tutti,
non c’è Stato che non sia minacciato all’interno della sovranità, che sia vero o non è
vero, che sia morta la patria come si dice
oggi in un certo periodo della storia italiana o no, ma l’idea vedete interpretativa,
l’idea che ci sia stata l’8 settembre la morte della patria, caso
interessantissimo e di
segmentazione
della storia,
attraverso
un problema
fondamentale
che è quello
della fine della
sovranità, del passaggio di sovranità, come
si conserva la sovranità.
Ebbene, io trovo che la resa sia
molto importante, volevo raccontarvi un dettaglio e su questo chiudo, tutti i soldati sono
distratti in questa resa, non so
se ve lo ricordate guardano tutti fuori, perché guardano fuori,
non stanno affatto guardando
i due che si stanno scambiando
le chiavi della città, stanno guardando lo spettatore, chiamano gli
spettatori, l’opinione pubblica, il
terzo, noi, a vedere che cosa sta
succedendo, il rischio per tutti gli
Stati nella guerra è la resa, e Dio sa se lo
sapevano nell’ultima guerra mondiale.
Bene il momento di fine della sovranità mi
sembra di un’importanza straordinaria, è
un dettaglio che però io vi lascio interpretare anche scherzosamente, chi guarda
attentamente quel quadro, vedrà sulla destra in un angolo un largo foglio di carta
su cui doveva esserci la firma del pittore,
non c’è è carta bianca.
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