Anno XVI - n. 137 - 2006 ������������ DELL’ISTITUTO DI STUDI MILITARI MARITTIMI Sommario DIREZIONE E REDAZIONE ISTITUTO DI STUDI MILITARI MARITTIMI CENTRO STUDI Castello, 2409 - 30122 VENEZIA Tel. Fax 041/2441730 - Mil.40730 e-mail: [email protected] DIRETTORE RESPONSABILE LA BUSSOLA 4 12 20 LA MARITTIMITA’ IL POTERE MARITTIMO VENEZIANO L’ORGANIZZAZIONE SNELLA COME POSSIBILE APROCCIO PER ACRESCERE LA C.F. Giuseppe SCHIVARDI Tel. 041/2441322 - Mil. 40322 FLESSIBILITA’ E DIMINUIRE GLI SPRECHI NELLA NOSTRA ORGANIZZAZIONE IMPAGINAZIONE E GESTIONE TESTI 28 Capo di 1^ Antonino TARANTINO SGT. Davide MAGLIONICO 38 IL MAHAN ED IL CORBETT A CONFRONTO UN ANALISI COMPARATA I TERMINI DELLA STRATEGIA DAGLI ATTI DELLA XIV GIORNATA DI STUDIO SALA FOTORIPRODUZIONE C.T. Aldo ROSSETTI AUS. Marco BUCCELLA AUS. Giovanna VIAN Registrazione al tribunale Civile di Venezia n. 1353. La riproduzione, totale o parziale degli scritti e delle illustrazioni è subordinata all’autorizzazione della Direzione del Bollettino. Pubblicazione non in commercio “I PERCORDI DELLA STRATEGIA” La BUSSOLA Quando buona parte delle popolazioni europee si sostenevano a stento grazie alla pastorizia e all’agricoltura, Venezia prosperava e accresceva la sua potenza politica ed economica in misura incomparabile rispetto a qualsiasi altra epoca successiva. Se pensiamo a l l’inospitalità della laguna e alla scarsità di tutto ciò che era necessario alla vita, cereali e acqua potabile, l’epopea della Serenissima ha qualcosa di incredibile, che gli storici hanno spesso difficoltà a spiegare. Infatti, per comprendere a fondo il fenomeno veneziano non è sufficiente essere degli esperti di storia medievale, occorre anche conoscere il mare e l’influenza dello stesso sui commerci, sull’arte della guerra e sugli scambi culturali; in altre parole è necessario avere un approccio alla storia fortemente “marittimo”. Occorre pertanto, così come illustrato in questo numero con un articolo del Contrammiraglio Favre, riflettere su che cosa s’intende per “marittimita”; occorre riappropriarci di ciò che ci appartiene e che è alle radici della nostra cultura. E’ sufficiente visitare il Palazzo Ducale e guardare con attenzione gli affreschi e i mappamondi, per accorgersi che i veneziani conoscevano molto prima dell’avvento delle “novità” di oltre oceano l’importanza del “Potere Marittimo”. Tutto ciò che oggi ci sembra nuovo e normalmente ci viene presentato con terminologia anglosassone, era già stato inventato, sperimentato e messo in pratica durante i secoli dalla Serenissima, compresa la dottrina del Combined Joint Task Force e le operazioni di power projection ashore. A tal proposito, il comandante Leoni ci illustra, con il suo articolo, l’ascesa e il declino della Serenissima utilizzando l’unica vera originalità del pensiero navale d’oltreoceano, i “sei fattori del Mahan”. Sarà, qualche anno più tardi, l’inglese Corbett, come possiamo vedere nell’articolo del comandante Rebuffat, a riportare in Europa il primato del pensiero navale con un opera di grande pregio per un pubblico molto più raffinato. Ad un secolo di distanza dalla pubblicazione di queste opere, però, riteniamo sia necessario riaffermare e operare un vero e proprio “recupero” anche del pensiero navale italiano. Ciò non vuol dire chiudersi a riccio nei confronti dell’attività di pensiero altrui, ma semplicemente accettare ciò che ci viene proposto con spirito più critico. Diffidando dalle novità che vere novità non sono, e nel dare merito al mondo anglosassone di aver codificato talune forme di operazioni e organizzazioni marittime, possiamo senz’altro affermare che queste erano già ampliamente applicate dalle marine quali quella della Serenissima, se non addirittura da latini e greci. In lingua italiana quando non addirittura in latino o in greco troviamo buona parte, per lo meno allo stato embrionale, dei termini che nel linguaggio della strategia marittima sono poi diventati di uso comune veicolati però dalle più diffuse dottrine dei teorici anglosassoni. Questi ultimi d’altro canto nell’elencare i principali fautori del pensiero marittimo non dimenticano di citare anche gli italiani ed in particolare quei Giulio Rocco e Domenico Bonamico il cui pensiero viene analizzato nei corsi di laurea in cui maggiormente si specula sullo stretto rapporto fra relazioni internazionali ed esercizio del potere marittimo. E’ ora dunque di fare rinascere e di esportare il pensiero di Bonamico, Sechi, Bernotti, di Giamberardino, Fioravanzo, le cui riflessioni sono ancora attuali e ricche d’insegnamenti. Pertanto ci associamo, cento anni dopo, alla Lega Navale Italiana, quando in occasione della ripubblicazione nel 1911 delle Riflessioni sul potere marittimo di Giulio Rocco del 1814, scriveva: “...i giovani ufficiali della Marina Italiana sappiano che un italiano scrisse del Potere Marittimo molti anni prima che giungessero dall’America le teorie del Sea Power.” Come Istituto di Studi Militari Marittimi crediamo molto in queste parole e per dimostrarlo abbiamo deciso di cominciare questa opera di recupero con numeri come questo, quasi monografico, in cui larga parte del materiale documentario è dedicato al potere marittimo. Completano il numero un saggio del del Prof. Paolo Fabbri sui “termini” della strategia ed un lavoro del T.V Magoni relativo all’organizzazione “snella” che ci riporta “con i piedi per terra” nel campo organizzativo dove la teoria deve trovare il modo di coniugarsi con l’efficacia. Buona lettura! LA MARITTIMITA’ Osservatorio Cont ra m m i ra gl io Franco FAV R E Che senso ha oggi parlare di marittimità intendendo con questo termine la propensione che una nazione deve avere per il mare, ma soprattutto quanto sviluppato deve essere il “senso del mare” di uno stato? La risposta più logica potrebbe essere che lo spirito marittimo di una nazione si misura in modo direttamente proporzionale con gli interessi che la stessa ha sul mare. Tale risposta è senz’altro avvalorata dalla storia, prendiamo come facili esempi la Serenissima Repubblica di Venezia e l’Inghilterra, che identificarono la loro grandezza con il Potere Marittimo che riuscirono a imporre e sviluppare; Potere Marittimo che va inteso nel senso bernottiano “di prodotto dei fattori dello sviluppo e della protezione degli interessi marittimi di uno stato”1. Maggiore era l’influenza che le loro navi mercantili avevano nel commercio marittimo, maggiore il controllo che le unità da combattimento garantivano nei bacini di interesse a sostegno del traffico mercantile e in difesa dei loro possedimenti, maggiore risultava, in valore assoluto, la grandezza della nazione nel mondo. La capacità di proiettarsi al di 1 là del mare per consolidare i vecchi traffici e istaurarne di nuovi o per conquistare nuove terre, portava ad un continuo aumento della grandezza politica ed economica della nazione cui doveva inequivocabilmente seguire un accrescimento delle marine, commerciale e militare. Le nazioni che sul mare e dal mare conquistarono il loro status di “grande” sembra che abbiano sviluppato quasi naturalmente lo spirito della marittimità, Venezia è una città d’acqua, l’Inghilterra un’isola insufficiente a se stessa e le loro popolazioni, nel guardarsi attorno alla ricerca di sviluppo e maggiori fortune vedevano solo l’elemento acqueo. Che dire di Nazioni più “giovani”, con caratteristiche spiccatamente continentali che riuscirono in una fase successiva della loro evoluzione a sviluppare una forte politica marittima? “Gli Stati Uniti considerano che le grandi flotte permanenti sono a detrimento continuo della prosperità nazionale e di danno perpetuo alla libertà civile. Le spese che esse cagionano sono onerose per il popolo. Esse sono, in certa misura, una minaccia costante per la pace delle Nazioni: una forza imponente sempre in armi induce nella tentazione di combattere…2 Se gli Stati Uniti si troveranno costretti a sostenere i loro diritti con le armi, essi si affideranno a corpi di volontari per le operazioni militari in terra e alla marina mercantile per la protezione del loro commercio”3. Fu questa la motivazione che dettero gli Stati Uniti quando decisero di rifiutare i principi che erano stati elaborati durante la dichiarazione di Parigi del 1856 e, al di là dei concetti non aggressivi portati avanti fino ad allora da questa nazione, pare evidente quanto poco spirito marittimo alimentasse la politica statunitense dell’epoca. La giovane federazione di stati stava ancora cercando una propria vocazione, ma la rapida crescita politica ed economica che seguì la guerra civile, generò dopo pochi decenni una figura quale il Mahan sui principi del quale gli Stati Uniti svilupparono una politica marittima che li portò presto a ricoprire i primi posti tra le potenze navali mondiali. Quando gli Stati Uniti ebbero la necessità di abbreviare le linee di comunicazione (concetto del Mahan) tra le loro coste Atlantica e Pacifica, dovettero cambiare la loro politica e renderla maggiormente aggressiva dovendosi garantire il dominio delle zone prospicienti l’istmo (altro concetto mahaniano del controllo delle zone focali) dove sarebbe stato costruito il canale di Panama4. Si arrivò così alla guerra con la Spagna. Inattaccabili per la posizione geografica che li vedeva come un’immensa isola tra i due oceani (teoria mahaniana della posizione centrale), più gli Stati Uniti assumevano una dimensione preminente tra le Potenze mondiali, con interessi sempre più diffusi nel resto del pianeta, più crescevano quale po- Ferruccio Botti, “la guerra marittima e aerea secondo Romeo Bernotti”, edizioni Forum di Relazioni internazionali, Roma, 2000, pag. 52 V. Mario Monterisi, “Diritto di guerra terrestre, marittimo e aeronautico”, Milano, 1938, pag. 241. così continua: “La politica degli USA fu e rimane costantemente contraria a tale indirizzo e giammai si otterrà che essa aderisca ad un cambiamento di sistema del suo diritto internazionale che imponga la necessità di mantenere una marina potente e un grande esercito permanente in tempo di pace 3 Termina “Opponendosi all’invito di modificare l’attuale diritto marittimo, gli Stati Uniti si elevano al di sopra dei loro particolari interessi, e guardano agli interessi di tutti i popoli che non hanno una marina preponderante. La situazione di questi popoli è la stessa degli Stati Uniti: per essi l’abbandono del diritto di corsa avrebbe conseguenze contrarie alla loro prosperità commerciale. Si proclami l’inviolabilità privata senza eccezioni; ma fino a che ciò non avvenga, la sola abolizione della guerra di corsa è effimera e dannosa”. 4 Alfred Thayer Mahan, “L’importanza del Potere Marittimo per gli interessi degli Stati Uniti”, Edizioni Forum di Relazioni internazionali, Roma 1996, cap. III. 2 5 Osservatorio tenza marittima e iniziarono così a diffondere le loro basi nei vari mari (ancora il Mahan col principio delle basi e delle colonie), e a sviluppare una flotta, dal carattere prevalentemente offensivo, a protezione dei propri interessi. Divennero presto la prima potenza mondiale e la maggiore Potenza Marittima, primati che mantengono a tutt’oggi. La Germania, anche se non può certo definirsi uno stato “giovane”, è un altro esempio di nazione naturalmente portata al “continentalismo”, che, in tempi poco lontani, dovette proiettarsi verso il mare per sviluppare e proteggere i propri interessi politici ed economici. Alla fine dell’ottocento il Bismark, “der eiserne Kanzler”, aveva oramai portato la Germania ad essere la potenza predominante in Europa innescando così una forte rivalità con l’Inghilterra5. Spinta da un sensibile incremento demografico6 la politica del cancelliere di ferro impostò un forte sviluppo dell’industria, da cui derivò proporzionalmente un aumento sempre maggiore del commercio internazionale e dei trasporti marittimi. “L’industria tedesca guadagnò un posto sempre più eminente nel mercato mondiale: il traffico marittimo divenne assai più grande di quello sulle vie terrestri e fluviali del continente; in ogni parte del mondo i nuovi carrettieri del mare fecero sventolare la loro Ammiraglio Von Tirpitz bandiera… Essendosi così estesi gli interessi tedeschi, la politica mondiale diventava una necessità; dal rapido sviluppo industriale e commerciale sorgeva la rivalità anglo-tedesca…d’altra parte, col crescere del traffico marittimo e degli interessi d’oltremare, la Germania diventava marittimamente vulnerabile”. Quando Guglielmo II° salì al trono, la flotta tedesca costituiva una forza assai modesta per il numero delle navi e per il loro tipo. Nel 1895, allorché fu inaugurato con grande solennità il canale di Kiel, la Marina tedesca…era sempre una Marina di secondo ordine”7. Fu l’ammiraglio Von Tirpitz nominato Segretario di Stato per la Marina nel 1897 a dare il via alla creazione della grande Marina tedesca con la prima vera legge navale (1898) che definiva chiaramente quale tipo di sviluppo dovesse interessare la flotta8. Il nuovo criterio fondamentale stabilito nella legge del 1900 era il seguente: “per proteggere il commercio marittimo e le colonie tedesche non vi è che un mezzo: la flotta tedesca da battaglia deve divenire così forte che anche per la più grande potenza marittima una guerra con la Germania implichi tali rischi da mettere in pericolo la sua posizione nel mondo”9. “La mossa intrapresa dalla Germania significava…che la nazione che possedeva la più grande potenza terrestre organizzata e che occupava la posizione strategica centrale in Europa stava per dotarsi di una potenza marittima abbastanza forte da neutralizzare quella britannica”10. Ecco quindi come si sviluppò lo spirito marittimo della più grande potenza continentale del tempo. E l’Italia, l’ultima nazione nata nel contesto europeo? Stati di diverse culture e ancora più diversificati nella loro propensione per il mare si ritrovarono unificati in una nuova nazione che si G. Caprin, op. citata, pag. XXXII. “La rivalità tedesco-britannica si era iniziata, iniziandosi in Germania la politica “mondiale 6 Romeo Bernotti, “Il potere marittimo nella Grande Guerra”, Raffaello Giusti ed., Livorno, 1920, pag. 4 e segg.. A differenza delle altre maggiori potenze europee di indole maggiormente marittima, che potevano contare nelle colonie per distribuire le proprie popolazioni “Il numero di abitanti dell’Impero tedesco, che era di 41 milioni nel 1871, era salito a 56 milioni nel 1900 (avrebbe raggiunto i 68 milioni prima della guerra). Alla Germania, come all’Italia, essendo queste nazioni arrivate troppo tardi nel campo delle competizioni coloniali, non si offriva la possibilità di creare importanti colonie di popolamento, ossia capaci di essere direttamente coltivate da europei. L’impero coloniale tedesco, pure essendo di vasta superficie (5 volte quella della Madre Patria),…non contava che 26 mila abitanti di razza bianca…” 7 Romeo Bernotti, “Il potere marittimo nella Grande Guerra”, Raffaello Giusti ed., Livorno, 1920, pag. 4 e segg.. 8 In un memorandum allegato alla legge navale il Tirpitz lamentava che “contro più forti potenze marittime la flotta da battaglia può avere importanza soltanto come flotta da sortita”, privilegiando la strategia della scelta del momento data l’invulnerabilità della coste. Nel Memorandum che accompagnava la legge navale del 1900 si faceva considerare che una flotta appena rispondente al criterio della flotta di sortita, anche se in uno scontro avesse riportato un successo, risulterebbe indebolita così, che la sua inferiorità verrebbe accentuata e sarebbe presto costretta a non uscire dalle sue basi. Si metteva quindi in rilievo la presumibile lunga durata di una guerra navale derivante da interessi economici e particolarmente commerciali, si accennava alle condizioni disastrose che pur solo dopo un anno si sarebbero prodotte in caso di guerra disgraziata, per effetto della distruzione del commercio tedesco, con grandi conseguenze economiche e sociali, a parte la gravità delle condizioni di pace imponibili al nemico vittorioso. Da ciò si traeva la necessità di una flotta assai più potente di quella prevista col criterio della flotta da sortita. 9 Romeo Bernotti, “Il potere marittimo nella Grande Guerra”, Raffaello Giusti ed., Livorno, 1920, pag. 4 e segg.:“Il Tirpitz non riteneva necessario l’avere una flotta forte come quella della più grande potenza, ma tale che, anche se battuta, avrebbe indebolito a tal punto il nemico che, nonostante la vittoria, non avrebbe avuto più garantita la sua posizione grazie alla sua flotta, oramai inadeguata. In sintesi disse Tirpitz: “vogliamo comandare il rispetto”, di fatto, “vogliamo imporre la nostra volontà” 10 Massimo Roccati, “La terra e il suo cuore - Halford John Mackinder e la teoria dell’Hertland”, in “La Riscoperta”, cita H. J. Mackinder, “The round World and the winning of the peace”, in “Foreign Affaire”, XXI, july 1943, pag. 165. 5 6 Osservatorio proiettava con prepotenza in quest’elemento, posizionata al centro di quello che una volta era stato il mare nostrum, che ora invece convogliava in sé notevoli interessi commerciali, coloniali e strategici delle altre più mature potenze europee, quali la Francia con i suoi possedimenti e l’Inghilterra che ne controllava tutti i chokes point. Come si sviluppò in questo nuovo contesto il pensiero marittimo italiano? Il 17 novembre 1860 vennero unificate le Marine sarda, borbonica, toscana e pontificia e il 17 marzo 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia nacque la Regia Marina. Fu in quella occasione che il conte Camillo Benso di Cavour, allora presidente del consiglio e ministro della marina, affermò: “voglio delle navi tali da servire in tutto il Mediterraneo capaci di portare le più potenti artiglierie, di possedere la massima velocità, di contenere una grande quantità di combustibile. [..] Consacrerò tutte le mie forze e ciò che posso aver conquistato d’influenza parlamentare, affinché l’organizzazione della nostra Marina Militare risponda alle esigenze del Paese”11. Il padre della patria morì in quello stesso anno, ma il paese non si arrestò nella spinta di completare il processo di unificazione e le prioritarie esigenze del paese divennero la conquista ed annessione di Roma, Venezia, Trento e Trieste. Alla Regia Marina fu quindi affidata, quale missione prioritaria, la conquista del Mare Adriatico, per riprendere il dominio del mare già appartenuto alla serenissima, espropriandolo alla flotta austriaca. Dal 1861 al 1866 non si era però avuto il tempo di creare dall’unione di marine diverse per mezzi, cultura, piani e procedure, uno strumento navale uniforme che potesse esprimere una prontezza al combattimento univoca e consolidata, e si subì l’amara sconfitta di Lissa... “Il discredito della Marina e le condizioni di depressione morale, la triste situazione finanziaria del Paese dopo la campagna del 1866, che imponevano grandi economie, implicavano il grave pericolo che rimanesse incompresa la necessità del potere marittimo; il fatto che la Marina italiana nel 1866 aveva mancato ad un compito offensivo non costituiva un insegnamento capace di far emergere come essa tuttavia fosse indispensabile quale mezzo di difesa, data la nostra posizione geografica, l’estensione e la vulnerabilità del litorale…”12. Lentamente il Paese cominciò a riacquistare fiducia nella sua Marina, e nel 1875 il ministro Saint Bon dichiarò che “Non -si potevapermettere d’ora in poi che una nave esca dai nostri cantieri senza che essa sia, almeno in qualche parte, superiore a quanto possiedono di migliore, in tempi analoghi, le nazioni marittime più potenti”13. Nel 1877, con Benedetto Brin ministro, venne approvata la prima legge navale in base alla quale si dette il via alla costituzione di una flotta moderna, che poteva orgogliosamente e a pieno titolo porsi tra le prime flotte mondiali. Fu così che, nel 1890, la Regia Marina aveva conquistato la terza posizione tra le Marine delle Potenze mondiali, ma in pochi anni l’impegno economico per il suo mantenimento e sviluppo risultò insufficiente a mantenere questa prestigiosa posizione mentre altre nazioni, mantennero i loro standard o aumentarono gli stanziamenti destinati alle loro Armate così da superarla14. Nel 1911 scoppiò la guerra italo turca. Al suo primo vero impegno dopo la sfortunata impresa di Lissa, “la Marina si mobilitò al massimo della sua organizzazione… Il 30 settembre una squadra navale comandata dall’Ammiraglio Raffaele Borea-Ricci si presentò davanti a Tripoli, il 2 ottobre bombardò le sue http://www.marina.difesa.it/storia/index.htm. Sito ufficiale della marina militare R. Bernotti, op. citata, pag. 81 e segg. ibidem, pag. 83 e segg.. 14 F. Crispi, Rivista Marittima nel luglio del 1900, pag. 201. “La discussione sulle necessità militari dell’Italia è sempre stata inspirata a criteri opportunistici di parte politica, anziché alla esatta cognizione di ciò che siamo e di ciò che dovremmo essere. La potenzialità di uno stato nelle sue armi di terra e di mare è uno dei fattori permanenti di sicurezza e di rispetto nella sua vita e nelle sue azioni… In questo ventennio che cosa abbiamo fatto per la difesa nazionale? Il periodo era più che sufficiente a costituire un saldo e ben agguerrito esercito e, soprattutto, ad organizzare la difesa marittima. L’Italia, nell’ipotesi spaventosa di una guerra offre il più facile e sicuro bersaglio dal mare. Non alla difesa continentale abbiamo provveduto…non alla difesa delle nostre estesissime coste…vulnerabilissime, lungo le quali ricche, popolose e indifese città si estendono; perché alla difesa marittima si provvede solo con la flotta numerosa, agile, pronta, armata oltre che dal coraggio dei nostri marinai da possenti artiglierie, protetta oltre che dal dio delle battaglie, da corazze impenetrabili. E questa flotta noi non l’abbiamo!.., i sacrifici fatti dal paese ebbero questo risultato, che nel 1890 la marina italiana teneva il terzo posto fra le marine di tutto il mondo… in cinque anni si sono risparmiati cento milioni di spesa; ma oggi, per riconquistare il terreno perduto, non ne basterebbero cinquecento. In dieci anni dal terzo posto siamo passati al settimo, perché, purtroppo, oggi la potenzialità dell’Italia marinara viene dopo le flotte d’Inghilterra, della Francia, della Germania, del Giappone, della Russia e del Nord-America… Dopo quarant’anni di amministrazione nazionale, l’Italia, che era ascesa a terza potenza marittima del mondo, occupa ora il settimo posto. Questo nostro paese…è vulnerabilissimo nei suoi estesi confini marittimi; al cospetto di tanta prostrazione della nostra flotta marittima, primo fattore di difesa e prestigio nazionale, io mi domando se veramente si sia ancora in tempo per provvedere a tante deficienze, e se carità di patria non c’imponga di pensare senza indugio a questa suprema necessità della difesa nazionale…. Chi ha responsabilità del governo provveda. Nell’ora del pericolo, l’Italia non può sperare salvezza che da una forte e agguerrita flotta, la quale contrasti ai nemici lo sbarco sulle nostre coste. Rinunciare a ciò è quanto abbandonare l’unica speranza di salvezza a cui l’Italia possa affidare le sue fortune nel giorno del cimento” R. Bernotti, op. citata, pag. 90. In allegato “Il bilancio della Marina fu consolidato in 123 milioni per il periodo 1901-1906 ed in 134 milioni per il periodo 1907-1917 con un aumento, pure consolidato di 29 milioni a partire dal 1909” , ciò nonostante “l’aspra campagna socialista contro le spese militari (1903), chiamate improduttive... Grazie all’energica amministrazione del ministro Mirabello (1903-1908) con gli assegni straordinari in aggiunta al bilancio consolidato le Marina rimediò alle deficienze, e poté iniziare la costruzione delle Dreadnoughts, di cui la prima fu varata nel 1910, altre tre nel 1911 e due nel 1913…” 11 12 13 7 Osservatorio fortificazioni e, il 5, un contingente di marinai da sbarco, comandati dal C.V. Umberto Cagni, occupò la città. L’Esercito giunse solo l’11 ottobre”15. Il successo conseguito e i nuovi possedimenti conquistati oltre mare (si ricordino anche le Sporadi), non ruscirono comunque a dare un impulso significativo allo spirito marittimo della nazione e si arrivò allo scoppio della prima guerra mondiale con gravi lacune nel personale, nei mezzi navali e nei sistemi di difesa delle coste. Il periodo di neutralità servì solo parzialmente a colmare le deficienze della nostra Marina che, entrata in guerra, dovette confrontarsi con un nemico chiuso nei suoi porti sicuri, che non avrebbe mai accettato lo scontro frontale della battaglia decisiva. La guerra navale arrivò ad uno stallo16, gli scarsi risultati, alcuni affondamenti e le perdite dovute a disgraziati incendi in porto, portò l’opinione pubblica a criticare la politica navale prescelta, considerandola troppo prudente17. Arrivò la vittoria e la Marina, anche se non ebbe l’occasione di esprimere tutte le sue capacità con una battaglia decisiva, trovò il suo posto tra le pagine della storia grazie soprattutto ad azioni di grande valore strategico e morale, rese possibili dalla lungimirante politica riguardante lo sviluppo delle nuove Foto: Nave Corsaro Dadda a Venezia 1916 macchine da guerra, come i mezzi insidiosi, gli aerei e i sommergibili, e portate a compimento da uomini di particolare coraggio e valore che colpirono il nemico all’interno dei suoi porti. Nel periodo che intercorse tra le due guerre mondiali, l’Italia mirò a costituire una forza navale pari a quella della Francia18. La flotta arrivò a contare sei corazzate, vari incrociatori pesanti da 10.000 tonn., un buon numero di cacciatorpediniere e ben 113 sommergibili (1940). Prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale la Marina venne impiegata nella campagna d’Etiopia e nella guerra di Spagna. Poi venne la seconda guerra mondiale. Non è questo il contesto per commentare quanto successe durante questo conflitto e le terribili conseguenze che ebbe sul nostro paese, di fatto, ciò che risultò più penalizzante per la marina dopo la sconfitta, furono le severe restrizioni che dovette subire col trattato di pace che decretò la fine dell’Italia come “potenza navale”. Da allora cosa è successo al nostro senso di marittimità? Al termine del secondo conflitto mondiale la minaccia dell’espansione dell’Unione Sovietica che incombeva ai confini del nostro paese, portò la politica della neonata Repubblica a tendere verso le 15 Giorgio Giorgerini, “Da Matapan al Golfo Persico”, collana: “Le scie”, A. Mondatori editore, Milano, 1989, pag. 63. 16 P. G. Halpern, op. citata, pag. 152. Il termine “stallo” è la più accurata definizione che si possa dare alla guerra navale che si stava conducendo in Adriatico alla fine dell’estate del 1915. Il Comandante Daveluy, ufficiale di collegamento francese con la flotta italiana, la descrive con questi termini: “da questi fatti si possono trarre le seguenti conclusioni: i sommergibili proibiscono alle grandi navi da guerra di prendere il mare, ciascun partito si arrovella (scratches their heads) per “fare qualcosa” ma nessuno ha trovato qualcosa da fare ad eccezione di operazioni minori che non hanno alcuna portata e che più che altro mirano a dare l’impressione che si stia facendo qualche cosa. Ma, dato che non si può bombardare indefinitamente gli stessi ponti, le stesse stazioni, le stesse linee ferroviarie, gli stessi fari e gli stessi semafori, appare chiaro che ora Italiani e Austriaci sono alla fine delle loro risorse; dopo aver desiderato di “fare qualcosa” nessuno sa più “che cosa fare”. Durante questo periodo la navigazione mercantile è rimasta preclusa ad ambedue i belligeranti così nessuno dei due può vantare la padronanza del mare, che appartiene invece ai sommergibili di tutte le nazioni” 17 R. Bernotti, articolo citato, “Previsioni…”, pag. 165 e segg.. Ciò portò il Bernotti, in un suo scritto che venne stampato sulla Rivista Marittima a replicare a quelle che egli chiama le “delusioni marittime”. Esordisce: “La guerra delle nazioni segna in apparenza una rivoluzione più che una evoluzione dei metodi di guerra in mare. Volendoci esprimere con franchezza bisogna riconoscere che è abbastanza diffusa, fra le persone colte, la persuasione che questa guerra segni il fallimento dei criteri di Arte Militare Marittima propugnati prima del 1914; una parte del grosso pubblico ritiene addirittura che si possa proclamare il fallimento della Marina... Stabilire il blocco delle flotte nemiche (nel mare del Nord e) in Adriatico, isolare il nemico dal resto del mondo e giovarsi della libertà in tal modo risultante, con il protrarsi della guerra acquistò un valore più alto di quanto si poteva presumere…. Si deve dunque riconoscere come matematicamente accertato che le flotte, anche se, per effetto della condotta del nemico, compiono un’opera sconosciuta e silenziosa, costituiscono tuttavia un elemento vitale al pari degli eserciti; e non si dovrà dimenticare nell’avvenire che con i disagi che ora noi subiamo, questa guerra ci ha dimostrato in che larga misura dipendiamo dal mare. Le riflessioni sul rilevante carattere marittimo di questa guerra mondiale, e sulla piena garanzia di successo che deriva dal predominio navale dell’Intesa, sono indispensabili per acquistare la limpida visione della certezza della nostra vittoria”. Questo concetto viene ripreso da C. S. Gray, The Leverage of Sea Power. The Strategic Advantage of Navies in War, New York 1992, The Free Press of Macmillan, Inc., p. 174. Si cita C. R. M. F. Cruttwell, The Role of British Strategy in the Great War (1936), che afferma: “Sebbene la guerra sia stata vinta come diretta conseguenza di una serie senza precedenti di battaglie terrestri, è decisamente vero che questo risultato è stato ottenuto solo attraverso la condotta della guerra sul mare” 18 Sancita nella Conferenza di Washington del 1922 8 Osservatorio democrazie occidentali e un passo fondamentale fu l’ingresso nell’alleanza atlantica. Tale decisione consentì al nostro paese una lenta ma costante ricrescita socio-economica, e con essa, crebbe anche il sistema “Difesa”. La minaccia principale era costituita dal confine terrestre nordorientale, ma il Mediterraneo costituiva comunque un bacino di interesse per i due blocchi. Vari programmi di potenziamento della Forza Armata si susseguirono negli anni, il primo del 1949 nacque proprio dall’adesione all’alleanza atlantica19 (Studio sul potenziamento della Marina Italiana in relazione al patto atlantico), ad esso ne seguì un secondo nel 1958. Questi piani si svilupparono sia con nuove costruzioni che con unità navali di vario tipo cedute a vario titolo dagli Stati Uniti. Col passare degli anni si veniva intanto rafforzando la presenza sovietica nel Mediterraneo, e questo bacino diventò protagonista di varie crisi (1967 conflitto araboisraeliano denominato “Guerra dei sei giorni”, 1969 colpo di stato in Libia, 1973 altro conflitto araboistraeliano denominato “guerra del Kippur o del Ramadan”), gli Stati Uniti rafforzarono la loro presenza e l’Italia non potè rimanere indifferente a quanto stava succedendo e alla necessità di tutelare il proprio mare, potenziando la propria Marina, la quale, all’inizio degli anni ’70 aveva cominciato a soffrire di un nuovo periodo di crisi per l’invecchiamento della flotta cui non corrispondeva un adeguato piano di nuove costruzioni. La Nato chiedeva agli stati componenti l’alleanza impegni sempre maggiori e anche i compiti della Marina Italiana erano gradualmente cresciuti20. La svolta si ebbe con la presentazione al governo del documento “Prospettive ed orientamenti di massima della Marina Militare per il periodo 1974-1984” con il quale si chiedeva l’emanazione di una legge speciale pari ad un impegno economico di 1000 miliardi delle vecchie lire. La legge, nota come “libro bianco” della Marina, venne emanata il 22 marzo del 1975. Grazie ad essa l’Italia potè presto contare in una flotta che si sarebbe collocata tra il 7° e l’8° posto21 della tabella del Kearsley, entrando così a pieno titolo tra le principali Marine della Nato. Nonostante questa presa di coscienza da parte della politica del tempo sull’esigenza che la nostra marina doveva rientrare tra i protagonisti della tutela del nostro mare ed il gravoso impegno economico assunto dalla nazione per raggiungere questo ambito traguardo l’opera della Marina, tanto costante quanto silenziosa, rimase in secondo piano. Abbiamo impegnato decine di migliaia di ore di moto per sorvegliare il Mediterraneo, garantirne le linee di comunicazione, tutelare i nostri pescherecci, per non contare le operazioni di salvaguardia della vita in mare e le esercitazioni con le flotte alleate mirate alla piena integrazione tra esse, ma di tutto ciò l’opinione pubblica non se ne rese mai veramente conto, probabilmente anche perché poco informata di quanto si faceva, di certo siamo cresciuti guardando alla soglia di Gorizia come unica, tangibile, imminente linea di demarcazione con il nemico, certi che, se si fosse rotto il precario equilibrio tra i due blocchi le terribili invasioni sarebbe calate dai nostri confini nord orientali22. La solida alleanza atlantica ha provveduto a difenderci da quella invasore. Una volta dissoltasi l’Unione Sovietica e scomparso il nemico, le frontiere terrestri dell’Italia sono diventate finalmente sicure, è cambiata radicalmente la minaccia, sia per tipologia sia per provenienza, ora si deve porre l’attenzione su nuovi orizzonti che riguardano soprattutto soggetti dai quali siamo divisi (o uniti) dal mare!. La pace tra due guerre è il periodo della storia che consente ai popoli di evolvere. Caduto il muro di Berlino il processo di globalizzazione ha subito una forte accelerazione che sta avendo due effetti contrastanti; 19 oltre alla tradizionale missione strettamente nazionale, legata alla difesa del territorio, le missioni principali della Marina nel contesto dell’alleanza atlantica consistevano nel controllo dell’Adriatico e del Canale d’Otranto e nella difesa delle linee di comunicazione marittime del Tirreno. http://www.marina.difesa.it/storia/index.htm. Sito ufficiale della Marina. 20 ibidem. Le nuove missioni assegnate alla marina dalla Nato consistevano nell’assicurare l’adempimento dei compiti assegnati nell’ambito della difesa integrata dell’alleanza, nell’intervenire autonomamente in quei conflitti locali dove non fosse possibile contare sull’appoggio diretto dell’Alleanza, nonché nella protezione delle linee di rifornimento, nella difesa delle frontiere marittime, delle isole e dei bacini di interesse strategico (Adriatico e canale di Sicilia), nel fornire in caso di conflitto Est-Ovest, la scorta ai gruppi di battaglia dell’US Navy in Mediterraneo e ai gruppi di rifornimento in transito. 21 7° posto: Difesa Regionale, navi ad alta tecnologia, aerei imbarcati, limitate capacità anfibie, modesto supporto logistico, limitata capacità di proiezione di potenza in ambito globale. 8° posto :Pattugliamento Globale, navi dotate di tecnologia di primo livello, aerei imbarcati, limitate capacità anfibie e di supporto logistico, limitata capacità di proiezione di potenza in ambito globale 22 Questa prevalenza nel percepire la minaccia terrestre su quella navale richiama alla mente un discorso (riproposto di E. Ferrante nel suo scritto “Il grande ammiraglio…”, pubblicato nella Rivista Marittima del XXX) tenuto dall’ammiraglio Revel in veste di Ministro della Marina il 20 dicembre del 1924 al Senato del Regno relativo alla “Funzione della Marina Militare nell’economia di guerra e di pace dell’Italia” in cui l’ammiraglio dichiara:“La Marina da guerra fu un tempo paragonata, con felice similitudine alla spada di una nazione, mentre l’Esercito ne rappresenterebbe lo scudo…la Marina opera lontano, è l’arma mobile, maneggevole; l’Esercito opera sul territorio e costituisce la difesa salda, pesante, a contatto con il corpo, forse è per questo motivo che, non appena la Nazione si leva in armi gli occhi degli italiani si volgono prevalentemente verso le Alpi, a seguire la lotta terrestre, cioè quella che si vive da vicino, e pochi, anzi pochissimi guardano verso il mare ove non vi è fragore di armati, non si scorge segno di lotta, la quale si svolge silenziosa, al di là dei limiti dell’orizzonte, sotto la superficie delle acque e nella vastità del cielo. Vi è però una ragione, di natura psicologica collettiva che conduce…a questo unilaterale apprezzamento sulle situazioni di guerra. Le nostre tradizioni storiche…ci presentano le invasioni dalle Alpi le più terribili; e difatti esse furono quelle che…causarono i maggiori danni alle nostre popolazioni, alle terre ed agli ordinamenti politici. Le vie del mare, per contro vennero considerate, fin dai tempi delle repubbliche marinare come apportatrici di beni e di ricchezze”. 9 Osservatorio se da un lato i paesi più evoluti si trovano sempre più vicini tra loro e insieme percorrono il percorso del progresso, diventando sempre più evoluti, dall’altro sta aumentando il gap con i paesi che non riescono a tenere il nostro passo e che si ritrovano sempre più emarginati dal “sistema mondo”. Altro effetto della globalizzazione è stato l’ingresso nella ribalta mondiale di grandi paesi come India e Cina, pronti a fare il balzo nel mondo moderno e il cui inserimento nel sistema crea non poche preoccupazioni data la grande influenza che hanno nelle loro regioni di gravitazione, ad oggi non certamente stabili. Come influisce tutto questo nel nostro senso di marittimità? Caduto il muro di Berlino si è cominciato ad assistere ad una serie di crisi, regionali e locali che per intensità e soggetti coinvolti risultarono costituire una minaccia al nuovo equilibrio in quanto potenzialmente avrebbero potuto espandersi e intaccare il nuovo concetto di sicurezza che il mondo globalizzato intendeva dare al pianeta. In questo periodo è cambiato anche il concetto di “Difesa”, che aveva dominato la Guerra Fredda, e si è passati al quello più complesso e ampio di “Sicurezza”23, principio che dalla concretezza rappresentata dal “nemico”, individuato in modo univoco ci ha proiettati nella sfera dell’astratto, del non misurabile, indefinito e imprevedibile. La minaccia militare, dalla certa provenienza e misurabile è stata sostituita dal rischio che una partico- lare crisi (vocabolo che si è sostituito a guerra), che si fosse sviluppata in una data regione assumendo specifiche caratteristiche, si possa trasformare in un disordine politico capace di degenerare in una minaccia all’ordine internazionale ed agli interessi ad esso così strettamente collegati. Salvaguardare questo ordine e tutelare così gli interessi della nazione è diventato parte integrante degli obiettivi strategici del nostro Paese. Per questo motivo in questi ultimi anni, abbiamo attivamente partecipato a numerose operazioni, anche in aree molto lontane, mirate a ripristinare pace, stabilità e ordine. Da quando il nostro Paese ha assunto l’impegno, con i suoi alleati e davanti alla comunità internazionale, di essere tra i primi tutori della sicurezza e dalla pace la Marina Militare è diventata uno dei suoi principali bracci operativi per assolvere tale impegno dovunque fosse chiamata. Questo ha richiesto una importante crescita culturale, dal Mare Nostrum si è passati al concetto di Mediterraneo allargato, ora questo allargamento sembra aver perso i già labili tratti che lo delimitavano ai mari prospicienti il nostro bacino. L’aspetto così marcato dato dalla globalizzazione all’importanza dei mari in generale non deve però distrarre la nostra attenzione da quello che ci succede più vicino. Il Mediterraneo è stato da poco testimone della crisi dei Balcani ed è recentissima la crisi tra Israele e Libano. Se queste crisi dovessero assumere connotazioni più forti e coinvolgere altre nazioni che si affacciano sul nostro mare, verrebbero direttamente interessate acque sulle quali nello scorso anno sono transitate petroliere che hanno trasportato il 20% del greggio mondiale. Nei singoli porti italiani sono movimentate ogni anno più di 170 milioni di tonnellate di idrocarburi, per quanto attiene al traffico di merci in generale, l’andamento del trasporto marittimo in Italia è in netto rialzo: il 62% delle importazioni e il 47% delle esportazioni avviene attualmente via mare24. Su questi numeri deve svilupparsi il nostro senso di marittimità, ma non solo. Negli ultimi anni si è testimoni di una graduale, ma inesorabile territorializzazione del mare25. Una ploriferazione di dichiarazioni, spesso unilaterali, di Zone Economiche Esclusive (ZEE), Zone di Protezione Ecologica (ZPE) e Zone di Protezione della Pesca (ZPP) stanno mettendo a confronto diversi paesi rivieraschi tesi a mettere le mani sulle ricchezze derivanti da diversi sfruttamenti del mare (non dimentichiamo i tesori archeologici sommersi) affermando diritti su porzioni di alto mare, che vengono ad indebolirne il principio fondamentale di libertà. Preso atto dell’incontenibilità di tale processo l’Italia deve ovviamente tutelare i propri interessi con tutte le capacità diplomatiche di cui dispone con accordi bi-multi laterali con gli altri stati frontalieri assicurandosi però di poter effettuare una ferma azione di controllo sul loro rispetto tramite All’argomento vedere: G. Giorgerini, R. Nassigh, P.P. Ramoino: “Caratteri marittimi di una strategia globale italiana 2000-2030”, supplemento alla “Rivista Marittima”, Imago Media Cesena, maggio 2004 Dati tratti dal “Rapporto” dello Stato Maggiore Marina del 2005. Solo il porto di Venezia movimenta circa 1.500.000 di persone l’anno. Nella stagione estiva approdano una trentina di grandi navi la settimana. Nel 2005 al porto mercantile sono approdate 4000 navi e movimentate 29 milioni di tonnellate di merci. (dati tratti dalla conferenza del C.A. (CP) Stefano Vignani al 41° Corso Normale di S.M.) 25 all’argomento, ma non solo su questo tema, Limes ha recentemente pubblicato un interessante volume dal titolo “Gli imperi del mare – la corsa agli oceani, allarme pirati, non solo stelle e strisce”. 23 24 10 Osservatorio un adeguato strumento navale. E a proposito di controllo e tornando alla sicurezza marittima, è d’obbligo citare l’ambizioso progetto denominato virtual - regional marittime traffic centre (V-RMTC), nato durante il Simposio delle Marine del Mediterraneo e del Mar Nero del 200426, proprio tra queste mura, di cui la nostra Marina è stata ideatrice e attualmente è leader, cui hanno aderito ben 26 nazioni, di cui 13 non appartenenti all’Alleanza Atlantica e il cui scopo è lo scambio di informazioni sulla situazione del traffico mercantile di stazza lorda pari o superiore alle 300 tonn., per garantirne, appunto, il controllo e la massima sicurezza. Per concludere vorrei dare una indicazione più concreta del “costo” di uno degli impegni che la nostra Marina deve assolvere quotidianamente. Il controllo dell’immigrazione clandestina nel 2005 ha richiesto 1400 ore di moto mensili per le unità navali e oltre 165 ore di volo (pari a 21 missioni), sempre mensili da parte dei velivoli di pattugliamento. Questa impegnativa attività ha consentito di individuare 21.642 clandestini e, quando le operazioni acquisivano la caratteristica di ricerca e soccorso, fornire assistenza in mare aperto a 7000 migranti27. Lo strumento navale deve essere dimensionato in modo tale da poter assicurare le missioni che gli potrebbero essere assegnate, deve mantenersi addestrato per operare sia nelle acque metropolitane sia fuori area, anche molto lontano, per periodi prolungati, deve garantire l’interoperabilità con flotte alleate e amiche con cui spesso si deve cooperare, deve infine garantire alti livelli tecnologici e operativi per assolvere ruoli di comando e controllo, anche quando inserito in complessi navali ove siano presenti le flotte più avanzate, quando l’interesse del paese, per quella specifica missione, è tale da doverne assumere la direzione. Questi sono i principali fattori in merito ai quali la nazione deve essere sensibilizzata per poter sviluppare il proprio senso di marittimità. Gli avvenimenti del secolo scorso hanno profondamente segnato la storia del nostro pianeta e in questo mondo ancora in via di trasformazione il ruolo del mare è cambiato. Non sono cambiati però i principi fondamentali che legano una Nazione con la sua Marina, primo tra essi lo spirito marittimo che, così come definito all’inizio della presente trattazione, deve essere tanto maggiore quanto più il mare viene ad assumere un ruolo fondamentale nel nostro quotidiano. Dell’immutabilità di questo principio è prova l’attualità di un discorso del grande Ammiraglio Thaon di Revel del 1926, egli disse: “L’orientamento politico è indissolubilmente legato con lo sviluppo della Marina, che rappresenta nelle regioni nelle quali l’influenza territoriale svanisce, per l’interposizione del mare, l’unico mezzo di collaborazione effettiva alle varie attività internazionali”. È quindi necessario coltivare una cultura del mare affinché sia condivisa la certezza che, come diceva ancora Revel, “la Marina da guerra ha una vera funzione pacifica, reale, attuale, messa a profitto degli intendimenti politici, affinché questi abbiano rapidamente ed onorevolmente giusto accoglimento. Queste sono elementari necessità alle quali tutti i popoli marittimi sottostanno. Ecco perché l’Italia deve dare alla sua Marina da guerra una importanza eccezionale, e concederle i mezzi adeguati; non solo affinché sia tenuta pronta ad ogni eventuale straordinario avvenimento, ma anche per conseguire nel corso dei fatti di una pacifica attività, gli scopi politici che il Governo si prefigge”28. Ammiraglio Thaon di Revel Quest’anno avrà luogo la quinta edizione del Simposio delle Marine del Mediterraneo e del Mar Nero. Questa attività, nata nello stesso periodo in cui lo Stato Maggiore decise di fare di Venezia il polo culturale della Marina dimostra l’importanza che la nostra Marina da alla costante ricerca di contatti con le Marine a noi più vicine per un continuo scambio di capacità ed esperienze, nonché, come nel caso del V-RMTC, per lo studio e lo sviluppo di programmi comuni. 27 Dati tratti dal “Rapporto” dello Stato Maggiore Marina del 2005. 28 E. Ferrante, op. citata: “Il grande ammiraglio…”, pag. 208. 26 11 IL POTERE MARITTIMO VENEZIANO Osservatorio INTRODUZIONE Ogni volta che si parla di potere marittimo viene naturale pensare all’Inghilterra del periodo velico, quando i vascelli di “Sua Maestà il Re” solcavano gli oceani di tutto il mondo. Le f lotte inglesi, soprattutto dalla fine delle guerre napoleoniche fino agli inizi della Prima Guerra Mondiale, riuscirono a mantenere quasi indisturbate il controllo delle vie commerciali grazie alla politica che da sempre aveva caratterizzato i governi britannici. Quando alla fine dell‘Ottocento i primi studiosi di strategia navale concentrarono la loro attenzione sul concetto di potere marittimo guardarono naturalmente all’Inghilterra, che sin dal 1500 era stata quasi sempre protagonista indiscussa dei mari. Al fine di comprendere le ragioni della sua ascesa vennero analizzate le strategie che avevano determinato tale supremazia e l’esito di memorabili battaglie navali. Eppure, già qualche secolo prima, un piccolo villaggio di pescatori era riuscito nel giro di pochi decenni a guadagnarsi il rango di potenza marittima e a mantenerlo per un periodo lunghissimo prima di eclissarsi e perdersi nella notte dei tempi. Stiamo parlando della città di Venezia la cui singolare e affascinante storia è stata da sempre fonte di innumerevoli miti. Esistono delle caratteristiche comuni che determinarono l’ascesa di queste due potenze? Tenent e d i Va s cel lo R iccardo LEON I A.T. Mahan, nella sua opera “The Influence of Sea Power Upon History, 1660-1783”, prende in considerazione sei fattori che influenzano il potere marittimo di un paese e cioè: 1. la posizione geografica; 2. la conformazione fisica; 3. l’e stensione del territorio; 4. l’entità della popolazione; 5. il carattere nazionale; 6. il carattere del governo. Egli fa notare che l’Inghilterra, rispetto a questi sei fattori, aveva tutti i presupposti per imporsi come potenza marittima nei confronti degli altri stati. La sua posizione geografica, in quanto isola, le permise di non dover ricorrere a enormi spese nel mantenimento di un esercito per la difesa terrestre e avere così più fondi da investire nell’attività marittima; inoltre, il fatto di essere situata al centro della Manica le 1. F.C. Lane, Storia di Venezia, Trento, Einaudi, 1978, pag. 3 13 permise di controllare le linee di traffico dell’Europa settentrionale. Sia la conformazione fisica (le caratteristiche della linea di costa nonché il clima inospitale e l’a gricoltura non fiorente) che l’e stensione del territorio (la lunghezza delle sue coste e la qualità dei suoi porti) la spinsero a intraprendere la via del mare. Il carattere e la politica del governo, che ben rappresentava quello del popolo, incentivarono, dunque, questa vocazione al mare. Con il presente lavoro mi propongo di analizzare, alla luce degli studi condotti da A.T. Mahan, i fattori che determinarono la nascita del potere marittimo veneziano e la conseguente ascesa della Serenissima. Cercherò di dimostrare altresì come, al variare delle condizioni dei suddetti fattori, Venezia andrà incontro al suo declino. La nascita di un mito “La vita dei veneziani prima del mille è stata […] relativamente oscura”1. La vecchia tradizione faceva risalire Osservatorio la nascita di Venezia alle invasioni degli Ostrogoti di Alarico all’inizio del V secolo e degli Unni di Attila nel 453-454 DC, con le popolazioni della terraferma che si trasferivano nelle lagune e creavano una nuova città. In realtà esistono tracce di insediamenti indigeni sin dai tempi dell’Impero Romano. Lo storico latino Plinio il Vecchio scrive dei “sette mari” riferendosi agli specchi d’acqua aperti della laguna e “navigare i sette mari” era sinonimo di abili navigatori. Tale espressione fu attribuita ai popoli delle lagune molto prima che cominciassero ad andare per il Mediterraneo. Le popolazioni stanziali, costituite da pescatori, marinai e salinai, vengono descritte dettagliatamente per la prima volta nella lettera del console Cassiodoro2 ai “tribuni marittimi” nel 537-538 DC: “la pesca, i trasporti e lo sfruttamento delle saline sono le occupazioni di questi uomini”3. Egli delinea una società povera ma composta da persone libere e felici. Una vita dura, in lotta continua con le acque ma dove l’acqua stessa rende le persone tutte uguali, che mangiano lo stesso cibo e vivono nelle stesse case. Una prima tappa verso la nascita di uno stabile e cospicuo nucleo di abitanti avviene con la discesa dei Longobardi di Alboino nella seconda metà del VI secolo4: gli abitanti della terraferma lasciano le loro città, Altino, Treviso, Padova, in modo definitivo per insediarsi a Torcello, Rivolto (l’odierno Rialto) e Malamocco. La presa di Oderzo nel 639 DC da parte del re longobardo Rotari segnerà poi un altro passo importante nella storia di Venezia; gli organi dell’amministrazione bizantina ripiegano verso la laguna promuovendola a loro sede. Viene così a costituirsi il primo centro politico delle lagune. Ma sarà l’anno 810 DC il momento definitivo della storia di Venezia: nel tentativo di sfuggire all’esercito dei carolingi, intenzionato a conquistare Venezia, la popolazione, e con essa la sede del ducato, si trasferisce a Rialto. I veneziani resistono e sconfiggono i francesi. La provincia evita definitivamente l’annessione al Regno d’Italia e un futuro agricolo e feudale; privata in tal modo di ogni possedimento sulla terraferma “ritrovò nel mare la propria area di espansione e nei rapporti economici e politici con l’Oriente il proprio campo di azione”. 5 Il ponte con l’Oriente La tradizione e il mito avevano sempre sostenuto che Venezia fosse stata libera e indipendente fin dalle origini. In realtà il legame con Bisanzio è stato sempre molto forte (lo stesso commercio del sale era controllato, sin dai tempi dell’impero, tramite un rigido monopolio). Anche nel trattato di pace che Carlo Magno stipulò con Bisanzio dopo aver rinunciato alla conquista di Venezia, si ribadiva che il ducato veneziano faceva parte dell’impero bizantino. Tuttavia, questa sudditanza si rivelò per Venezia il primo trampolino verso il mare: quando i Longobardi conquistarono i due porti bizantini di Ravenna e di Comacchio, Bisanzio fu obbligata a cercare un’altra via per il transito dei suoi commerci verso l’entroterra italiano e l’Europa continentale. La scelta cadde naturalmente su Venezia. In poco tempo il mercato di Torcello ebbe uno sviluppo enorme. I commercianti bizantini cominciarono a far affluire verso la laguna ogni genere di mercanzie (tessuti pregiati, spezie, metalli preziosi) che i Veneziani acquistavano e poi rivendevano nell’entroterra. Tali attività causarono ovviamente degli attriti con le popolazioni dell’alto Adriatico. Numerosi furono i conflitti con la città di Comacchio, l’ultimo dei quali nel 933, quando il doge Pietro II Candiano la ridusse definitivamente in cenere. Lo stesso doge assoggettò poi Capodistria e alla fine del X secolo il Nord Adriatico era in mano ai popoli della laguna. Venezia divenne allora il principale porto dell’Adriatico. In tutte le valli del Po i veneziani si spingevano alla ricerca di grano e in cambio offrivano, oltre alle merci dell’Oriente, sale e pesce di cui oramai detenevano il monopolio. L’ultima spinta verso il mare fu data a Venezia dagli Arabi. Verso la fine del IX secolo quest’ultimi cominciarono la loro espansione verso la Siria, il Nord Africa e la Spagna, creando un sistema commerciale che tagliava fuori Bisanzio dai mercati dell’Europa Occidentale. Venezia divenne l’unico possibile sbocco per l’Impero d’Oriente e ciò fece della città lagunare “la porta d’Europa”.6 Analisi di un’ascesa Abbiamo già accennato ai fattori che secondo A.T. Mahan influenzano il potere marittimo di una nazione. Nei suoi scritti l’autore non fa riferimento a Venezia. Nell’avvalorare la sua tesi egli esamina il periodo storico che va dalla seconda metà del XVII secolo alla fine del XVIII, facendo particolare riferimento all’Inghilterra. Quegli stessi fattori possono essere presi a riferimento anche per la Serenissima? Analizziamoli uno per volta. Posizione geografica Mahan rileva innanzitutto che “se una nazione è situata in modo tale da non essere costretta a difendersi sulla terra né indotta a ricercare un aumento del proprio suolo” 7, allora sarà sicuramente favorita rispetto ad un’altra che presenta invece delle frontiere di tipo continentale. Ciò comporta innanzitutto il vantaggio di non dover sostenere ingenti spese per un esercito o per costruire delle fortezze. Venezia si è popolata a causa delle invasioni barbariche provenienti dal nord poiché le lagu- 2. - Cassiodoro, alto funzionario romano che godeva della fiducia del re ostrogoto, fu incaricato, nell’imminenza dell’attacco bizantino contro l’Italia ostrogota, dei negoziati con i capi veneziani per rifornire Ravenna di olio, vino e grano. Dunque, al termine delle contrattazioni il trasporto delle merci fu affidato alle imbarcazioni veneziane. 3. - É. Crouzet-Pavan, Venezia Trionfante, Gli orizzonti di un mito, Torino, Einaudi, 2001, pag. 9 4. - I Longobardi non vennero in Italia per una semplice scorreria, come precedentemente avevano fatto le orde di Alarico e Attila, ma per rimanervi. 5. - A. Zorzi, La Repubblica del Leone, Milano, Rusconi, 1980, pag. 30 6. - F.C. Lane, Storia di Venezia, Trento, Einaudi, 1978, pag. 9 7. - A.T. Mahan, L’Influenza del Potere Marittimo sulla Storia, 1660-1783, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1994, pag. 64 14 Osservatorio ne offrivano un’ottima difesa naturale. Coloro che nei tempi tentarono di assoggettarla subirono pesanti sconfitte. Nell’810 Pipino, re d’Italia e figlio di Carlo Magno, dopo aver conquistato Malamocco non riuscì a superare le acque che lo separavano da Rialto dove nel frattempo i Veneziani si erano ritirati. Le sue imbarcazioni si arenarono nelle acque basse dei numerosi e complicati canali e gli equipaggi vennero sterminati (la zona lagunare dove si svolse la battaglia si chiamerà da allora Canal Orfano). Anche i Genovesi proveranno invano nel 1379 durante la guerra di Chioggia. Agli inizi del 1500 Venezia viene presa d’assedio dalla coalizione di stati formatesi nella Lega di Cambrai e ancora una volta le lagune riescono ad evitare la disfatta. La posizione geografica al culmine dell’Adriatico favoriva sia una buona base per operazioni offensive contro potenziali nemici sia la concentrazione delle forze navali. Queste non dovevano difendere lunghi tratti di costa ma solo gli accessi alla laguna, che a quei tempi erano tre: Chioggia, Malamocco, Lido. Grazie alla sua posizione favorevole Venezia riuscì con successo a sferrare attacchi contro tutte le popolazioni dell’A lto Adriatico che nei primi secoli la ostacolavano sul mare: istriani, dalmati, le città di Ravenna e Comacchio. Conformazione fisica La linea di costa rappresenta il confine di un paese. Se tale frontiera ha un facile accesso al mare più probabile sarà la tendenza di un popolo a sviluppare una politica marittima. Nel caso di Venezia credo sia difficile capire quale sia la sua linea di costa; più semplicemente possiamo dire che praticamente non esiste. Tutta la città è stata costruita sul mare. Prendere la direzione del mare è stata, dunque, una scelta obbligata anche se sicuramente non facile per via dei bassifondi e delle secche che rendevano estremamente difficoltosa la navigazione. Ma la difficoltà la trovavano solo coloro che non conosce- vano le paludi. I veneziani erano gli unici a sapersi muovere con disinvoltura in quelle acque poiché sapevano perfettamente dove si trovava ogni canale navigabile. Ancor di più, essi si preoccuparono nei secoli di rendere percorribili da imbarcazioni le paludi con continue opere di dragaggio e rinforzo degli argini. Vista la delicatezza di tale compito nel 1224 fu creata la figura di un magistrato agli stretti che si occupava in particolar modo di garantire che gli sbocchi verso il mare aperto, soprattutto il Porto di Lido e di Malamocco, non si ostruissero a causa dei detriti e del limo trasportati dalle maree. Quando verso la fine del XV secolo i problemi idraulici della laguna si accentuarono, venne istituito dapprima il Magistrato alle Acque e successivamente nel 1505 il Consiglio Solenne della Acque Anche le caratteristiche fisiche del territorio (il clima, la disponibilità di suolo fertile, ecc.) possono influenzare la propensione di una popolazione a rivolgersi al mare. Chi arrivava a Venezia durante i primi secoli della sua vita poteva osservare come ogni isolotto o lembo di terra disabitato fosse ricoperto da colture ed orti. Tuttavia questi raccolti, che tra l’altro consistevano solo in minima parte di grano, non potevano bastare ad una popolazione che si andava espandendo con estrema rapidità (80˙000 abitanti nel 1200, 120˙000 nel 1300). I veneziani furono, dunque, costretti a ricercare per mare una qualche forma di ricchezza da poter poi smerciare nell’entroterra in cambio di derrate alimentari. Estensione del territorio Con ciò non si intende la superficie totale del paese ma l’estensione della sua linea di costa e le caratteristiche dei suoi porti. Inoltre la lunghezza della fascia costiera può costituire sia un fattore di forza che una condizione di vulnerabilità a seconda che la popolazione sia più o meno numerosa. Mahan paragona un paese ad una fortezza le cui mura devono essere difese da un numero adeguato di sol- dati. Nel precedente paragrafo ho già accennato al numero di abitanti di Venezia. Era una quantità notevole per l’epoca che solo poche altre città in Europa potevano vantare. È evidente, dunque, che in caso di attacco la difesa poteva fare affidamento su un nutrito numero di soldati. Entità della popolazione Per ciò che concerne la popolazione il fattore importante non è solo il numero totale degli abitanti ma anche la percentuale di questi dedita ad attività marinare e pronta per l’imbarco. Non avendo risorse sulla terraferma i veneziani furono costretti a prendere la via del mare. L’espansione verso la terra era tra l’altro preclusa ai lagunari per via delle occupazioni barbare. Inizialmente si sviluppa quindi un’economia basata sulla produzione e commercio di sale e pesce con cui i veneziani potevano acquistare i beni della terraferma necessari a vivere, in special modo grano. Mahan introduce anche il concetto di riserva, sia in termini di disponibilità di uomini che di supporto logistico. Venezia era ben conscia dell’importanza delle riserve8 e aveva sempre profuso grandi sforzi verso il raggiungimento di un’elevata efficienza del suo arsenale: le maestranze indaffarate e la pece bollente avevano colpito anche Dante.9 Nella seconda metà del Quattrocento le dimensioni dell’A rsenale furono poi più che raddoppiate. Nel 1473 fu ordinata la costruzione di una nuova ala, l’A rsenale Novissimo, dove era sempre pronta una riserva di navi per far fronte ad un eventuale attacco turco. Tale riserva contava inizialmente venticinque galere per arrivare a più di cento alla metà del XVI secolo. Carattere nazionale La qualità più importante affinché un popolo riesca a sviluppare un forte potere marittimo è, secondo Mahan, la sua propensione al commercio. La particolarità del mondo economico di Venezia era l’adesione collettiva di tutti i suoi abitanti alle attività 8. - A riguardo esistono negli archivi di Stato veneziani delle istruzioni emesse dalla Serenissima nel Cinquecento che disponevano l’uccisione di tutti i comandanti, ufficiali, nocchieri e maestri d’ascia delle navi turche catturate, al fine di impedirne il possibile ritorno in attività. È palese, dunque, l’importanza che Venezia dava alle riserve. 9. - Dante Alighieri, La Divina Commedia - Inferno, Canto XXI, versi VII-XV. 15 Osservatorio commerciali con la condivisione di rischi e profitti. Lo stato appaltava le navi e gli appaltatori che assumevano il comando reclutavano partecipanti tra tutti i ceti sociali tramite l’istituto della colleganza.10 Un’altra caratteristica fondamentale del carattere nazionale è la capacità di fondare e sfruttare al meglio le colonie. Il concetto di sfruttamento può assumere due diversi significati: una colonia può essere prosciugata di tutte le sue risorse fino all’esaurimento oppure si può cercare di incrementarne lo sviluppo. Il primo caso è quello della Spagna e del Portogallo nei confronti delle Americhe che da subito sfruttarono le miniere d’oro e d’argento. Diverso è l’esempio dell’Inghilterra, poiché gli inglesi che si insediavano stabilmente nelle nuove colonie cercavano di svilupparne le risorse nella convinzione che ciò avrebbe aumentato il volume dei commerci; essi mantenevano buone relazioni con gli apparati governativi locali allo scopo di instaurare rapporti commerciali e godevano di un certo margine di libertà dalla madrepatria. Secondo Mahan quest’ultimo caso di gestione delle colonie sarebbe il più proficuo: “le colonie progrediscono meglio autonomamente, in modo naturale”11. Venezia non aspirava ad un’espansione territoriale12, ne è prova anche la modesta estensione delle colonie, ma solo ad un appoggio per poter ricoverare le proprie navi e un ponte per i commerci con l’entroterra. Da ogni colonia i veneziani prelevavano, commerciando, un particolare genere di mercanzia (vino, sale, legname e pietra dall’Istria e dalla Dalmazia, grano, olio, vino e cotone dalle isole della Grecia e ovviamente spezie, tessuti, pietre preziose dalle colonie orientali). Era quindi per loro fondamentale intrattenere ottime relazioni con tutti i popoli al fine di poter commerciare più liberamente. Ne è prova il fatto che molto spesso la Serenissima, al termine degli inevitabili conflitti di cui fu partecipe, non chiedeva al tavo- lo delle trattative dei possedimenti territoriali bensì agevolazioni sui dazi (ad esempio la Bolla d’Oro ottenuta dall’imperatore bizantino Alessio I nel 1082 e numerosi altri trattati stipulati con l’impero ottomano)13. Carattere del governo Affinché un governo possa promuovere le naturali inclinazioni di un popolo occorre che esso sia il più possibile espressione diretta della volontà del popolo stesso. Questa premessa suggerisce, dunque, che un governo di tipo democratico è quello che più si avvicina al modello ideale per lo sviluppo del potere marittimo. Ci sono esempi nella storia che sembrano però dimostrare il contrario: la Francia di Luigi XIV, che affidò la gestione del settore del commercio, delle manifatture, del naviglio e delle colonie a Colbert, riuscì ad espandersi su mare grazie alla forte volontà di un governo dispotico. È importante però notare che al momento in cui cambia regnante il nuovo governo deve avere la capacità e la volontà di assicurare una continuità di condotta. Questa continuità è invece naturalmente garantita in un governo di tipo liberale. Tra i tanti contesti in cui un governo può venirsi a trovare ce ne sono due in cui il suo modo di agire è particolarmente importante nell’influenzare lo sviluppo del potere marittimo di un popolo e cioè: - “Primo, in pace: il governo, con la sua politica, può favorire la crescita delle industrie e la tendenza del popolo a ricercare avventura e profitto per mezzo del mare”. Questo può essere ottenuto sviluppando industrie e promuovendo attività rivolte al mare14, soprattutto nel caso in cui siano ancora inesistenti. Al contrario un governo può frenare la naturale predisposizione di un popolo con iniziative sbagliate; - l’altro contesto è centrato sull’aspetto militare. Un governo può influire sullo sviluppo del potere marittimo di un popolo mantenendo una Marina da guerra di dimensioni adeguate alla sua flotta commerciale, dotandola di forti istituzioni “che devono favorire spirito e attività sane e provvedere in tempo di guerra a un rapido aumento delle forze, con 10 - L’istituto della colleganza prevedeva la consegna di un capitale ad un comandante di galera e la resa, al rientro della nave, di una percentuale dei guadagni oltre al capitale iniziale, ammesso che gli affari fossero andati bene. 11 - A.T. Mahan, L’Influenza del Potere Marittimo sulla Storia, 1660-1783, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1994, pag. 90 12 - Fa eccezione Creta. L’isola era estremamente importante per i commerci verso l’oriente e poiché i Cretesi continuavano a ribellarsi Venezia ne accentrò il controllo, facendone quasi una seconda patria e dividendola in sei sestieri con gli stessi nomi di quelli di Venezia. Le terre furono suddivise tra centottanta feudatari e nella prima metà del XIII secolo ben trecentodieci importanti famiglie arriveranno a Creta. La dominazione di quest’isola durò quasi cinquecento anni. 13 - Riguardo alle relazioni con la Sublime Porta, Venezia ha mantenuto sempre una politica diplomatica abbastanza ambigua. La Serenissima, pur spacciandosi spesso per il difensore occidentale della cristianità, non è stata mai ossessionata dall’idea di una crociata. I veneziani sapevano bene che durante le guerre i commerci subivano un calo. Diversi cronisti ritengono che Venezia non avesse mai pensato di andare Oltremare nel corso della IV Crociata. Ci sono versioni che dicono che fu stipulato addirittura un accordo tra il sultano e i veneziani. Anche se queste voci sono alquanto isolate non è comunque certo che Venezia avesse realmente intenzione di allontanare le sue flotte dalla Romania per andare a combattere in Palestina. 14 - A.T. Mahan, L’Influenza del Potere Marittimo sulla Storia, 1660-1783, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1994, pag. 115 16 Osservatorio adeguate riserve di uomini e navi”15. Ricade sotto questo aspetto anche la formazione di basi navali collocate lungo le rotte delle navi mercantili ed idonee ad accogliere le unità militari. Il mito ha sempre descritto Venezia come una città libera. “Venezia era la città senza mura, difesa dalle virtù delle sue istituzioni, e dunque da quelle dei suoi cittadini […] Società perfetta, essa si allontana dalla tirannia come dal governo dei molti […] Libertà, concordia e stabilità sono i tre pilastri su cui si regge il decantato edificio di Venezia”16. Ciò alle origini non era esattamente vero vista la sudditanza che aveva nei confronti dell’impero bizantino. Ma c’è da dire, a difesa del mito, che la politica interna della città era stata sempre abbastanza indipendente. Inoltre da un certo momento in poi Venezia, pur facendo sempre parte dell’Impero d’Oriente, ottenne un’autonomia politica ed economica quasi totale. I governanti veneziani colsero al riguardo alcune favorevoli occasioni. Intorno all’anno 1000 Pietro II Orseolo difese i possedimenti bizantini della Puglia, della Calabria e della Sicilia dalla conquista musulmana. Ancora più decisivo fu l’intervento dei veneziani nell’anno 1080 contro un principe normanno, Roberto il Guiscardo, che governava la Puglia, e che astutamente era intenzionato a conquistare i porti principali dell’Adriatico orientale. Venezia non poteva permettere ciò e rimanere tagliata fuori dall’asse dei commerci. In aggiunta i turchi nello stesso periodo stavano invadendo le province asiatiche di Bisanzio. Per far fronte al quasi simultaneo attacco da est e da ovest, l’imperatore d’Oriente Alessio I chiese l’aiuto navale veneziano. Al termine delle operazioni l’imperatore fu pienamente soddisfatto nei confronti di Venezia e nel 1082 emanò la Bolla d’Oro che concedeva ai veneziani agevolazioni commerciali e l’esenzione dai dazi. Da questo momento i veneziani accorreranno più volte a difendere sul mare l’Impero d’Orien- te e saranno proprio gli aiuti militari dati a Bisanzio a dare lo slancio all’espansione commerciale di Venezia. Tutte le operazioni che portarono all’emanazione della Bolla d’Oro sono state un magistrale esempio di come la politica di un governo può influenzare il potere marittimo di un paese. Durante tutta la fase della guerra la politica del governo veneziano era stata molto coerente: puntava ad assumere il controllo del mare e non all’acquisizione di nuovi territori. Lo scopo delle sue azioni era il raggiungimento di accordi che portassero vantaggi commerciali alla città a discapito delle potenze rivali oltre che a rendere più sicure le rotte verso il Levante, al fine di dare un impulso aggiuntivo all’espansione commerciale di Venezia verso nuovi mercati. Ho già scritto di Venezia come città libera, il cui governo rappresentava correttamente le aspirazioni del popolo. I suoi organi formavano una struttura di tipo piramidale: alla base stava l’A ssemblea popolare, seguivano nell’ordine il Maggior Consiglio, la Quarantia e il Senato, il Consiglio Ducale ed infine il Doge. L’A ssemblea popolare si riuniva per decisioni di carattere fondamentale e per acclamare l’elezione del doge. Il centro del potere era il Maggior Consiglio17 che comprendeva un’ingente rappresentanza del patriziato (agli inizi del XIV secolo era composto da oltre 1100 persone cioè circa il 10% dell’intera popolazione!). Il Consiglio eleggeva i magistrati e i membri degli altri consigli, votava leggi, decretava punizioni. Inoltre, a differenza degli altri organi governativi europei composti per lo più da nobili poco interessati alle attività commerciali, la maggior parte dei suoi membri era costituita da ricchi mercanti. Appare evidente che una così grossa percentuale di commercianti in seno alle strutture governative della città doveva necessariamente orientare la politica verso una visione economica e soddisfare in tal modo le attitudini della popolazione. 15 - Ibidem, pag. 115 16 - L. Valensi, Venezia e la Sublime Porta, Bologna, Il Mulino, 1989, pag. 28 17 - Per una breve storia del Maggior Consiglio si rimanda all’Allegato B 18 - F.C. Lane, Storia di Venezia, Trento, Einaudi,1978, pag. 44 17 La politica della repubblica fu sempre molto aggressiva, fondata su interessi militari e commerciali tra loro indissolubilmente legati. Le città rivali vennero talvolta completamente rase al suolo (si pensi a Comacchio). I governanti veneziani di conseguenza diedero sempre molta importanza alla flotta. Le deliberazioni pubbliche ripetevano che la marina era stata da sempre la base della potenza di Venezia. Leggi vietavano ai veneziani di vendere le proprie navi a degli stranieri, a meno che non fossero troppo vecchie. Grazie a questa mentalità l’arsenale di Venezia riuscì a raggiungere degli standard costruttivi di elevato spessore. Ad esempio quando, in occasione della Quarta Crociata, fu chiesto al doge di provvedere alla costruzione di una flotta idonea al trasporto di 33500 soldati, costui non mostrò esitazioni. Nei tempi previsti (poco più di un anno!) i veneziani costruirono una flotta di tali dimensioni (circa duecentocinquanta navi tra unità da trasporto e galere da guerra) che Goffredo di Villehardouin, maresciallo di Champagne, incaricato dai nobili cavalieri di Francia di negoziare il trasporto in Terrasanta, alla sua vista disse entusiasticamente: “E la flotta da essi allestita era di tanta bellezza ed eccellenza, che mai cristiano ne vide una più bella ed eccellente”18. Un altro aspetto a cui la politica della repubblica dedicò molta attenzione furono le basi navali. Venezia diede sempre un’estrema importanza alle sue basi. Dall’esame della distribuzione dei domini veneziani nei vari secoli notiamo che essi erano di modeste dimensioni ma distribuiti strategicamente lungo l’asse dei loro commerci: Pola, Zara, Ragusa, Corfù per il controllo dell’Adriatico Modone, in Morea, importante base logistica per l’approvvigionamento di acqua e viveri - Creta per i traffici verso Alessandria, Cipro e l’Oltremare - Negroponte per i traffici diretti a Costantinopoli, Trebisonda e La Tana. Il governo della Serenissima ha avuto sempre ben chiari i concetti di Osservatorio dominio del mare e delle line di traffico e ha difeso con tenacia le sue basi disposte secondo queste direttrici. Il declino della Serenissima Molto si è scritto sulle possibili cause che determinarono il declino di Venezia. Numerose analisi storiografiche contemplano sia lo spostamento dell’asse dei commerci dal Mediterraneo all’Atlantico che la dissolutezza dei costumi dei suoi cittadini, in particolar modo dei governanti19; altre fanno riferimento al cambiamento di mentalità del patriziato20 che trascura il commercio per dedicarsi ai domini di terraferma e altre ancora individuano i motivi nell’espansione dell’impero ottomano. In realtà, come spesso ci insegna la storia, non si tratta di una sola causa ma di un insieme di elementi che si sono evoluti nel tempo. E che dire del potere marittimo? Le cause citate sopra possono avere in qualche modo condizionato i fattori contemplati da Mahan? Innanzitutto esaminiamo la posizione geografica. Ovviamente questa non è cambiata con il tempo ma è il contesto che ha subito enormi mutamenti. Venezia a partire dalla fine del XIV secolo cambia la sua politica di espansione e comincia ad acquisire i territori della terraferma. Dal suo bilancio statale21 intorno al 1500 si evince l’entità del cambiamento. In particolare due voci abbastanza consistenti non erano presenti il secolo precedente: le rendite dalle città di terraferma e le imposte dirette riscosse a Venezia. Diverse furono le cause di questa inversione di tendenza. Fra le tante enunciate si può menzionare la continua espansione dell’impero ottomano che ridusse i mercati veneziani in oriente, causando una diminuzione dei traffici commerciali. Quest’ultimi furono colpiti ancor più duramente dalla nascita di nuove rotte commerciali atlantiche, battute in una fase iniziale dai Portoghesi e dagli Olandesi, a cui Venezia seppe però far fronte egregiamente, e successivamente dagli Inglesi. Quest’ultimi, con la formazione delle Compagnie delle Indie, acquisirono il monopolio delle spezie dall’India e riuscirono a poco a poco a sottrarre gran parte del mercato alla Serenissima. La contrazione dei traffici marittimi veneziani che ne derivò spinse i mercanti a reinvestire nei possedimenti in terraferma poiché adesso rappresentavano una fonte di guadagno più facile rispetto alle attività marittime. Il carattere della popolazione cominciò a cambiare. Il commercio che aveva reso Venezia una delle città più ricche d’Europa iniziò ad essere visto con diffidenza dalle classi nobiliari. Poco per volta le attività commerciali e armatoriali che erano state un vanto per la nobiltà veneziana, diventarono una pratica da disprezzare. Nel XVI secolo il doge Nicolò Sagredo viene biasimato pubblicamente per la sua attività di commercio del legname: un doge del Trecento ne sarebbe invece andato orgoglioso. Nel 1610 i Cinque Savi alla mercanzia lamentavano la decadenza della marina mercantile; quando il governo inglese offrì l’apertura dei suoi porti alle navi veneziane, ottenne la seguente risposta da parte degli armatori: non ci sono più navi “proprie da impiegare a questo servizio”22. Nello stesso anno il governo della Serenissima pensò di liberalizzare il commercio concedendo ad armatori stranieri le stesse condizioni dei Veneziani, ma il Papato oppose resistenza nel timore che i mercanti protestanti corrompessero una popolazione già di per se troppo poco “cattolica”23. Non tutti erano ovviamente di questo avviso. Già agli inizi del XVI secolo, duran- te gli anni della guerra della lega di Cambrai, Girolamo Priuli24 riferisce che alcuni veneziani, il cosiddetto partito marittimo, ritenevano che in caso di perdita dei territori continentali i cittadini si sarebbero dedicati di nuovo al mare e ne avrebbero ricavato un grosso profitto. Egli biasima la nobiltà corrotta dagli agi della campagna e il Senato per i soldi spesi nella fortificazione delle città italiane e per assoldare i mercenari, invece che investire nella flotta. In ogni caso, come la storia ha dimostrato, il processo verso i domini di terra non si fermò. Anche il carattere del governo cominciò a cambiare. Come ho già detto il nuovo patriziato riteneva che il proprio rango nobiliare comportasse l’abbandono del commercio e l’investimento nella terra. Dovevano dar sfoggio di magnificenza. Si moltiplicarono caffè e sale da gioco dove i nobili passavano gran parte del loro tempo. Tutta questa spensieratezza e frivolezza denotava la mancanza di un serio impegno politico. La Venezia delle origini sceglieva i suoi rappresentanti soprattutto in base alle capacità dimostrate sul campo. Alla fine del Settecento invece l’esercizio del potere era diventato esclusivamente ereditario. Gli aristocratici arrivarono a provare un senso di avversione verso coloro che con il commercio tentavano di ridare vita alla città e anche quando quest’ultimi riuscivano ad entrare negli organi di governo difficilmente arrivavano fino alle più alte cariche. Questa compagine di governo rimase, dunque, completamente passiva alla vigilia della discesa di Napoleone in Italia. Venezia rifiutò di allearsi sia con la Francia che con L’Austria e respinse l’idea di una lega degli stati italiani. Una politica di neutralità richiedeva sicuramente meno sforzi. Così quando Napoleone arrivò al 19 - Il mito di una città dissoluta e viziosa nasceva agli inizi del XVIII secolo, così come emerge dagli scritti e dai diari dei viaggiatori del tempo.22 - Il patriziato, una volta arricchitosi con il commercio, iniziò ad investire il denaro nelle più sicure proprietà terriere assumendo un comportamento più consono allo status nobiliare dell’Europa cattolica che disprezzava le attività commerciali. 20 - Un estratto del bilancio statale degli inizi del XVI secolo è riportato in Allegato D 21 - A. Zorzi, La Repubblica del Leone”, Milano, Rusconi, 1980, pag. 392 22 - Erano gli anni della crisi con il Papato culminata nell’aprile del 1606 con l’interdetto emanato da Paolo V e lo scritto di fra Paolo Sarpi, Il Protesto, che viene diffuso nel maggio del 1606. 23 - Girolamo Priuli, cronista del periodo, era nato in una famiglia di nobili finanzieri. Nei suoi Diarii, descrive le notizie che circolavano a Rialto. Aveva vissuto diversi anni a Londra e fu decisamente influenzato dalle idee dei mercanti anglosassoni. Giudicato da molti più un moralista che un analista politico, egli biasima i nobili veneziani e considera un castigo divino le disfatte che la Repubblica stava subendo in quel periodo. 24 - Nasce in questo periodo il fenomeno veneto denominato “la civiltà delle ville”: numerosissimi nobili veneziani gareggiano con la buona società della terraferma nel costruire splendide ville dallo spirito bucolico di cui il maggior architetto fu Andrea Palladio, destinato a diventare famoso fino in Inghilterra con l’invenzione della cosiddetta “villa tempio”. 18 Osservatorio limite della laguna e ingiunse ai veneziani di sciogliere il governo nessuno si oppose. I comandanti della Serenissima confer mava no che la città non era pronta a difendersi da un attacco e anche se tra i ranghi inferiori c’era ancora molta voglia di combattere ciò non fu sufficiente a convincere i nobili che ricoprivano gli incarichi di comando. Circa tre secoli prima, durante le guerre della lega di Cambrai, il senato faceva ritirare tutti sulle isole per prepararsi alla difesa. Nel maggio del 1797 questa ipotesi non venne neanche presa in considerazione. Il 12 maggio 1797 il Gran Consiglio viene dunque sciolto. La Serenissima aveva cessato di esistere nel momento in cui il doge dimise le insegne dogali. Tre giorni dopo i soldati francesi, primi dopo milleduecento anni di indipendenza, entreranno sul suolo veneziano. Conclusioni L’ammiraglio A.T. Mahan nella sua opera più nota, “The Influence of Sea Power Upon History, 1660-1783”, ha individuato i fattori che secondo la sua opinione determinano lo sviluppo del potere marittimo di una nazione. Egli prende in esame il periodo che va dalla seconda metà del XVII secolo alla fine del XVIII ed analizza in particolar modo il caso della potenza marittima del tempo, l’Inghilterra, alla luce dei seguenti fattori: posizione geografica, conformazione fisica, estensione del territorio, entità della popolazione, carattere nazionale, carattere del governo. Rispetto a questi sei elementi l’Inghilterra aveva tutte le carte in regola per acquisire e detenere il monopolio dei mari. Nessun cenno fa l’autore riguardo a Venezia. Lo scopo del presente lavoro è stato mostrare come la Serenissima sia riuscita a diventare una potenza marittima, in rapporto ai Foto: Sala del Gran Consiglio Palazzo Ducale suddetti fattori. Più personale è stato poi ipotizzare un legame tra il suo declino e un mutamento all’interno delle sei condizioni sopracitate. Nel primo capitolo ho fatto un breve excursus sulla genesi di Venezia cercando di attenermi il più possibile a fatti storici anche se spesso è risultato difficile discendere il mito dalla realtà. Ripercorrendo la storia ho elencato i tre principali passi che hanno reso possibile la nascita della città: le invasioni longobarde del VI secolo dopo Cristo, la presa di Oderzo nel 637 DC ed infine il tentativo fallito di conquista da parte dei carolingi nel 810 DC che sancisce definitivamente l’allontanamento dei popoli della laguna dalla terraferma. Nel secondo capitolo ho esaminato la nascita del potere marittimo di Venezia alla luce dei fattori del Mahan avvalorando le mie ipotesi con eventi storici. Ho potuto così constatare che Venezia aveva tutti i presupposti e le condizioni, così come Mahan aveva dimostrato per l’Inghilterra, per imporsi come potenza marittima sugli altri popoli del Mediterraneo. Venezia conservò questa superiorità per più di seicento anni, fino a quando cominciarono ad affacciarsi sulla scena mondiale altre potenze che contesero alla Serenissima il suo primato: l’impero ottomano, grande antagonista di sempre, la Spagna e il Portogallo per un breve periodo, 19 l’Olanda e l’Inghilterra più tardi. Infine nel terzo capitolo ho cercato di individuare dei mutamenti nelle condizioni che avevano reso grande Venezia e ho potuto dedurre che tre dei sei fattori di Mahan avevano in particolare subito grossi cambiamenti: la posizione geografica non rappresentava più il fulcro del mercato occidentale, la porta d’Europa si era chiusa; il carattere della popolazione e del governo era inesorabilmente cambiato e, lontano ormai dal coraggio e dalla determinazione di un tempo, mostrava una pericolosa pigrizia nell’affrontare le sfide. Durante la trattazione ho riscontrato numerose analogie con la potenza anglosassone. Si tratta infatti, in entrambi i casi, di terre circondate dal mare che per tale motivo poterono trascurare la cura di un esercito a scopi difensivi e concentrare gli sforzi sulla creazione e il mantenimento di una flotta navale; erano situate in posizioni strategiche rispetto a potenziali avversari (Francia e Olanda per l’Inghilterra, popolazioni che si affacciavano sull’Adriatico per Venezia) cosa che permetteva loro di controllare tutte le principali linee di comunicazione; la scarsità di risorse interne le obbligò a cercarle oltremare; gli ottimi punti di accesso al mare uniti alla vocazione marinara e commerciale del popolo favorirono la spinta verso l’esterno; infine i governi di tipo liberale appoggiarono il naturale interesse mercantile degli abitanti. A distanza di secoli i fattori del Mahan si dimostrarono quindi determinanti per il raggiungimento di un potere marittimo. È innegabile che Mahan sia considerato un punto di riferimento per chiunque si accinga a parlare di potere marittimo o di strategia navale. I suoi scritti costituirono le basi di tutti gli studi successivi e, ancora oggi, risultano essere estremamente attuali. L’Organizzazione snella come possibile approccio per accrescere la flessibilità e diminuire gli sprechi nella nostra organizzazione INTRODUZIONE Il modello della organizzazione snella è il riferimento di eccellenza di questi anni. Le sue radici affondano nelle teorie del Total Quality Management (TQM), introdotte in Giappone a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso.1 Venti anni più tardi, con un ulteriore salto evolutivo, eminenti studiosi del settore idearono una nuova filosofia di managing, munita di innovativi strumenti di gestione. Nel 1991 tre ricercatori2 del Massachusetts Institute of Technology3 presentarono in Occidente questo nuovo modo di produrre teorizzandolo come Lean Production. La nuova mentalità manageriale si sviluppava secondo il cosiddetto Lean Thinking mentre il modello organizzativo di riferimento fu battezzato Lean Organization (LO). Scopo del presente lavoro è fornire un rapido richiamo dei concetti LO e presentarne uno studio di applicazione nell’ambito della Marina Militare. Verrà quindi condotta una verifica della fattibilità ed una stima dei vantaggi in termini di miglioramento produttivo. Nel corso della trattazione si vedranno infine le possibilità offerte dal S.I.G.A.4. (Sistema Informativo di Gestione Automatizzata). 1 2 3 4 William Edwards Deming, nato nel 1900, statistico americano, inventore del Total Quality Management, a partire dal 1950 introdusse in Giappone le proprie teorie manageriali. Nel 1960 l’Imperatore del Giappone lo insignì della medaglia del Sacro Tesoro per i servizi resi all’industria giapponese. James P. Womack, Daniel T. Jones, Daniel Roos. The machine that changed the world: the story of Lean Production. Massachusetts Institute of Technology. Sistema Informativo di Gestione Automatizzata. Osservatorio Tenent e d i Va s cel lo ( GN ) Tom maso M AGON I LEAN THINKING: I PRINCIPI Una organizzazione si dice snella quando ha ridotto i livelli gerarchici tradizionali, dando luogo ad una struttura piatta, cioè estesa in senso orizzontale. Nella organizzazione snella si favorisce il lavoro di gruppo e si privilegiano i rapporti di tipo fiduciario. La riorganizzazione della struttura viene fondata su ampie deleghe del potere decisionale5. Il personale, che dovrà essere altamente qualificato, viene dotato di maggiore autonomia, maggior potere e maggiore responsabilità. Ne derivano inoltre una maggior motivazione ed aumentate capacità di decisione e di risoluzione dei problemi. L’apporto creativo che si ottiene migliora il prodotto e riduce i costi. Riassumendo, i principali elementi caratteristici della LO sono: − − − − − − struttura produttiva piatta; lavoro di squadra; polivalenza dei ruoli operativi; miglioramento continuo diffuso; gestione per processi; adozione delle tecniche produttive giapponesi (TQM, Just in Time). Il Lean Thinking (LT) non esprime concetti assolutamente nuovi, piuttosto si può considerare come una evoluzione dei modelli organizzativi preesistenti, a cui riesce a dare una convincente integrazione. Il termine “snello” riferito ad un processo aziendale esprime il fatto che richiede meno scorte, meno spazi, meno addetti a lavori indiretti, meno movimenti di materiali, minori tempi per allestire i macchinari e via dicendo. Il cardine del LT è rappresentato dalla continua ricerca ed eliminazione degli sprechi, attraverso l’implementazione di alcuni principi che costituiscono 5 l’ossatura cui fare riferimento nell’azione di ripensamento dei processi aziendali: − − − − − − valore per il cliente; flusso di creazione del valore; scorrimento continuo del flusso di valore; logica pull; ricerca della perfezione; miglioramento concentrato e rapido. Valore per il cliente Parametro specifico per ciascun processo aziendale, il valore per il cliente è definito come il rapporto tra prestazioni ed incombenze (costi). Nella LO deve essere fatto tutto il possibile per recuperare valore. Flusso di creazione del valore Focalizzando l’attenzione su ciascun prodotto o servizio, si definisce flusso di creazione del valore (FV) la sequenza di tutte le operazioni che creano valore. A tale scopo occorre in primo luogo verificare tutti i processi aziendali per individuare tre categorie di azioni: 1) azioni che creano valore; 2) azioni che, pur non creando valore, sono utili alla produzione, oppure che non possono essere eliminate per vincoli di vario genere, per esempio legislativi; 3) azioni che non creano valore, non utili ad altre attività. Nella LO devono essere eliminate tutte le azioni appartenenti alla terza categoria. Scorrimento continuo del flusso di valore Allo scopo di quantificare il grado di scorrimento (e quindi di “snellezza”) di ciascun processo aziendale, la LO ha introdotto tre parametri/strumenti fondamentali: − TL/TA: rapporto tra tempo di lavoro effettivo e tempo di attraversamento. Rappresenta in sostanza la quantità di azioni che creano valore rispetto alla globalità delle azioni del processo (nel flusso ideale TL/TA=1); − WIP (work in progress): numero di prodotti contemporaneamente in lavorazione. La LO ricerca il raggiungimento del flusso per il quale sia WIP=1; − Takt time: rapporto tra ore complessivamente lavorabili e numero di richieste di prodotti/servizi. Definisce l’intervallo di tempo disponibile tra una risposta e la successiva per poter evadere tutte le richieste, una sorta di “battito cardiaco” del FV. Dipende dal numero di lavoratori impiegati su ciascun flusso. Il FV deve scorrere senza interruzioni evitando attese, scarti e sprechi. Per ogni processo produttivo si deve tendere al lotto ideale, il lotto unitario (WIP=1), eliminando i “colli di bottiglia” ed i lotti intermedi. E’ opportuno inoltre superare la divisione in uffici/ posizioni separate e concentrare l’attenzione sul prodotto/servizio. Il tutto allo scopo di rendere unitario il parametro TL/TA. Logica pull La LO richiede che la produzione sia attivata dalla richiesta del cliente (logica pull), diversamente dal modo tradizionale di produrre (logica push), in cui si produce per il magazzino facendo uso delle stime di vendita per determinare la quantità della produzione. Questo principio si estrinseca in sostanza nel Just in Time. Ricerca della perfezione Ricercare la perfezione significa sia ridurre gli sprechi sia raggiungere il “benessere organizzativo”, ossia porre le persone al centro dell’organizzazione. Con l’applicazione della LO ed un maggior coinvolgimento del personale non direttivo, si aprono ampi margini di miglioramento. L’aver ben definito il FV facilita l’identificazione degli spre- Le deleghe riguardano sia la Direzione Generale, sia le Direzioni funzionali o divisionali ed i quadri intermedi. 21 Osservatorio chi, tra cui ricordiamo i più comuni: − disservizi ed errori; − sovradimensionamento risorse; − pratiche o beni in attesa di lavorazione; − lavori non necessari; − spostamenti di persone non necessari; − elaborazione e trasferimento di informazioni non necessarie ; − attese del personale e dei clienti; − progettazione di servizi non adeguata; − non ottimale utilizzo delle potenzialità delle persone; − carente coinvolgimento del cliente. Miglioramento concentrato e rapido Per apportare i cambiamenti ed ottenere un consistente aumento di produttività, basta dedicare al miglioramento del processo gruppi di lavoro creati ad hoc (concentrato) per una settimana (rapido). I gruppi di lavoro devono essere costituiti dalle persone che si occuperanno del processo in esame, in quanto loro stesse sono i maggiori conoscitori delle problematiche esistenti6. LA LEAN ORGANIZATION NELLE FORZE ARMATE Le Forze Armate (FF.AA.) fanno parte del variegato universo delle Pubbliche Amministrazioni (PA). Uno dei principali riferimenti legislativi delle PA è la legge 241/90 che richiede loro di improntare la propria attività a criteri di efficacia ed economicità7. Negli ultimi anni le risorse di bilancio assegnate alla Difesa sono andate progressivamente diminuendo. Per il 2006 tali risorse sono prossime allo 0,8% del P.I.L. e per il futuro è lecito aspettar- 6 7 8 9 10 11 si assegnazioni simili. Va da sé che la ragionata trasposizione dei principi LO alle FF.AA. può essere un valido metodo per impiegare al meglio le scarse risorse disponibili rispettando al contempo i dettami della Legge. In un’ottica di riduzione di costi e sprechi, alcuni settori pubblici sono in pieno sviluppo nella ricerca della massima qualità offerta al cliente. Anche la Difesa ha un cliente ultimo, il cittadino. Tuttavia, come è vero che le FF.AA. esplicano un servizio pubblico, è vero anche che la maggior parte di tale servizio non è direttamente fruibile dal cittadino8. Diversamente da altre pubbliche amministrazioni9, il cittadino nei riguardi delle FF.AA. può essere definito cliente indiretto. La sua maggior soddisfazione può essere l’efficacia delle FF.AA. per gli scopi di indirizzo della Nazione, unita alla massima efficienza, ovvero senza spreco di risorse pubbliche. La Marina Militare Italiana (MM) è un’organizzazione di vaste proporzioni costituita da una pluralità di sistemi caratterizzati da strutture formali di diverso tipo e commisurate agli obiettivi. Le singole strutture formali sono i diversi enti, centrali o periferici, della Forza Armata. Ogni ente svolge dei compiti/servizi istituzionali, per i quali è fornitore verso altri enti, suoi clienti esterni (nella accezione LO del termine). Il cliente interno, invece, è individuabile in ciascun elemento dell’organizzazione10. Perseguire l’eccellenza equivale a perseguire la massima soddisfazione dei clienti, ovvero del personale che opera nei diversi enti, e la massima riduzione di ogni spreco di risorse. Nella MM, diversamente dal privato, che non ha obbligo di fornire evidenza dei propri procedimenti amministrativi, parte dei processi è regolata dalle norme del Diritto Pubblico. Tale stringente vincolo non consente margini di razionalizzazione e “snellimento” a meno di una rivisitazione della legislazione di riferimento. Altre attività seguono regole interne all’organizzazione, spesso codificate da normative e quindi standardizzate. Sembra quindi che il margine di intervento per migliorare i processi della MM sia minimo. Una rigorosa trasformazione in organizzazione snella appare difficilmente realizzabile, se non altro per l’impraticabilità di trasformare la struttura da gerarchica e verticale (tipica delle FF.AA.) a orizzontale (e quindi “snella”). Qui ci viene in aiuto il dottor Negro, uno dei maggiori esperti della LO in Italia: “L’ente pubblico può adottare l’organizzazione snella anche con gradualità a partire dall’avvio del miglioramento rapido e concentrato, per poi organizzare le diverse attività in flussi continui senza interruzioni che lavorano al takt time, per completare infine la struttura in team/realtà autonome su servizi finiti e organizzata in rete a gerarchia variabile e distribuita con gli enti/partner esterni”11. Se prendiamo per valida l’affermazione del dottor Negro, anche nella MM deve essere possibile “fare qualcosa” con i criteri LO. Da quanto detto finora risulta peraltro evidente che un’applicazione concreta di tali criteri deve te- E’ il concetto dell’Evidence Based Management: “La soluzione sta intorno a noi, non al di fuori”. Legge 241/90, Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi, Capo I, Art.1, comma 1: “L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed é retta da criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”. In altri termini si può dire che le FF.AA. prestano un servizio per il cittadino, ma non al cittadino. Ci si riferisca ad esempio a Scuola e Sanità, ma anche in parte agli enti locali o agli organismi di pubblica sicurezza. Si ricordi a proposito la nota massima di Ishikawa: “il processo dopo il tuo è il tuo cliente”. Giuseppe Negro. L’organizzazione snella nella Pubblica Amministrazione. Come realizzare la “lean organization” negli enti pubblici. Franco Angeli Editore, 2005. ISBN 88-464-6496-6. 22 Osservatorio ner conto delle peculiarità di ogni singola struttura organizzativa. Per rispettare i limiti della trattazione è opportuno focalizzare l’attenzione su una sola organizzazione, e porla come oggetto esemplare per l’applicazione dei criteri LO. In questo contesto verrà analizzato l’Arsenale Militare Marittimo di La Spezia. UN CASO CONCRETO: L’ARSENALE MILITARE MARITTIMO DI LA SPEZIA L’Arsenale Militare Marittimo di La Spezia, longa manus dell’Ispettorato Logistico per il mantenimento in efficienza dello strumento navale, espleta molteplici funzioni e compiti d’istituto. In questa sede trascuriamo i servizi di natura amministrativa e consultiva ed esaminiamo solamente le attività di manutenzione prestate a favore di altri enti. I risultati dello studio possono essere facilmente estesi agli altri stabilimenti di lavoro. Per proseguire nella trattazione occorre anzitutto individuare, all’interno dell’organizzazione Arsenale, gli elementi chiave ed i principi della LO. Gli elementi chiave ed i principi − Cliente esterno: tutti gli enti che richiedono prestazioni di servizi sono clienti esterni dell’Arsenale. Per semplicità di trattazione si trascura in ogni caso l’integrazione con gli enti gerarchicamente sovraordinati. − Cliente interno: la definizione di cliente interno della LO è completamente trasferibile all’Arsenale. Il cliente interno per ciascun ufficio/reparto/officina è quello che segue nel flusso di creazione del valore. − Logica pull: ricordando la definizione (l’impresa produce soltanto quello che le è stato ordinato ed elimina l’inventario), risulta evidente come le attività dell’Arsenale ed i relativi flussi produttivi seguano la logica pull, ovvero si attivino solo sulle richieste dei clienti esterni. − Processo: è definibile come la sommatoria delle operazioni manuali e decisionali, innescate da una richiesta del cliente esterno, agite/operate dall’Arsenale allo scopo di soddisfare la richiesta stessa. Il processo può concludersi in modo positivo o negativo. − Valore per il cliente: oltre alle azioni pratiche di condotta della manutenzione, valore per il cliente sono anche le operazioni di valutazione della richiesta. Ovviamente all’interno del flusso devono trovare ragion d’essere solo le operazioni finalizzate alla fornitura di un servizio rapido e soddisfacente. Qualità per il cliente L’Arsenale, in merito alle decisioni sulle richieste del cliente esterno, mantiene un margine di discrezionalità. Nel migliore dei casi la richiesta di manutenzione sarà fisicamente trattata e porterà alla risoluzione del problema. Nel caso di impossibilità di evasione della richiesta, è interesse e soddisfazione minima del cliente quantomeno ottenere risposta in tempi brevi. A riguardo è possibile individuare diversi livelli di qualità del servizio fornito. Si può definire qualità implicita la rapidità nella risposta alle richieste del cliente. Una risposta rapida lascia il cliente indifferente, una risposta in tempi lunghi comporta delusione. Definiamo qualità esplicita quando si perviene all’esecuzione di un intervento nel tentativo di risolvere il problema richiesto. Se l’intervento è inefficace e/o con tempi lunghi può anche essere deludente, se rapido ed efficace porta all’entusiasmo. Interventi risolutivi Figura 1: Qualità per il cliente 23 persino superiori alle richieste avanzate possono essere definite la qualità eccitante. In figura 1 è riportato un diagramma indicativo di quanto affermato in merito alla qualità per il cliente. Ogni organizzazione nella fornitura dei propri prodotti/servizi deve garantire almeno la qualità implicita ed una certa percentuale di qualità esplicita, che impediscano l’insorgere di insoddisfazione nel cliente. RICHIESTA DI LAVORO: LA PROCEDURA 2002 Focalizziamo l’attenzione sul processo decisionale riguardo le richieste di manutenzione. Una volta stabilite quali attività generino effettivamente valore per il cliente, dovranno essere eliminare tutte le rimanenti, qualora non imposte da altri vincoli. Mentre per le Unità Navali (UU.NN.) esistono diversi modi per avanzare richieste di lavoro nel campo delle manutenzioni12, per altri enti la modellistica prevista dal Regolamento per gli Stabilimenti ed Arsenali Militari a carattere industriale è il “modello 6” (mod. 6). Prendiamo quindi in esame tale modalità di richiesta e proviamo a valutarne l’efficienza con gli strumenti LO (in particolare il TL/TA) Diversamente dalla generica azienda di prodotti che non decide se accettare o meno la richiesta del cliente ma solo in che termini (per esempio temporali o di costo) soddisfarla, i mod. 6 invia- Osservatorio ti all’Arsenale sono soggetti a diversi gradi di decisione: valutazioni di correttezza formale, di liceità, di fattibilità tecnica, di opportunità economica e temporale13. Queste azioni fanno parte del FV del mod. 6. In figura 2 è riportato il flusso di creazione del valore (FV) di un mod. 6 secondo la procedura in uso in Arsenale dal 2002. Prima dell’esecuzione della manutenzione, la richiesta di lavoro è soggetta ad una sequenza di attività. Alcune di esse danno valore, come le operazioni di valutazione. Altre di valore ne danno poco, per quanto sembrino a prima vista necessarie o quantomeno utili al processo: le operazioni di smistamento del mod. 6 tra i vari uffici competenti. Ed è su queste operazioni che bisogna intervenire. I tempi riportati sono valori medi significativi all’interno dell’ampia “forbice” tra tempi minimi e massimi di attraversamento. Ricorrendo agli strumenti LO per valutare il FV, risulta evidente come il rapporto TL/TA sia terribilmente basso: a fronte di operazioni di valore pari a circa 9 ore, la durata complessiva del processo è di oltre 10 giorni14! I fattori generatori di ritardo sono i tempi di passaggio del mod. 6 da un ufficio all’altro. Occorre eliminare questi sprechi, per tendere al nostro obiettivo ultimo, il TL/TA unitario. Uno dei principi della LO è lo scorrimento continuo del FV, e suo corollario è il superamento della divisione in uffici e posizioni per diverse compe- tenze. Una prima razionalizzazione del processo consiste quindi nel demolire i confini delle mansioni e delle strutture per eliminare le interruzioni del FV. La recente riorganizzazione della Sezione Pianificazione Esecutiva (PE) dell’Arsenale con la creazione di un’Area Tecnica15 va in questa direzione. La PE è oggi competente per ricevere/ esaminare/autorizzare le richieste di lavoro, ed è in grado di predisporre l’esecuzione del lavoro con l’impiego sia di manodopera interna sia di eventuale manodopera esterna. La PE stessa è in grado poi di dare avvio a procedimenti amministrativi ad hoc oppure di impiegare contratti “a richiesta” già operanti (di tipo service). In questo modo si ottiene un consistente miglioramento del TL/TA, grazie alla concentrazione nella PE di tutte le attività di preparazione degli appalti esterni, eccetto le procedure squisitamente amministrative16. Il flusso del mod. 6 considerato in allegato A si ferma alla decisione di eseguire l’intervento, ma non entra nella fase successiva dell’eventuale procedimento amministrativo per manodopera esterna. La riorganizzazione della PE non risolve perciò le lungaggini dello smistamento del mod. 6 tra i diversi uffici. Che fare? Dal 1 gennaio 2006 l’Arsenale di La Spezia ha in funzione un nuovo sistema di gestione, il S.I.G.A.17. Vediamo come l’applicazione di questo strumento, ideato principalmente per la sicurezza dei dati (importante parametro Figura 2 12 13 14 15 16 Richieste occasionali, formulate a seconda dei casi con lettera, AVREP, mod. 6. Richieste programmate, come i Notamenti Lavori e le scadenze periodiche. In realtà la differenza è sempre più sfumata, poiché anche i mod. 6 possono essere usati per richiedere scadenze periodiche, così come nei Notamenti Lavori spesso sono riportate richieste già avanzate con AVREP o mod. 6. Inoltre con l’introduzione del S.I.G.A. le richieste di lavoro possono essere generate automaticamente dal sistema alla scadenza periodica impostata dall’utente. Cambia radicalmente la gestione delle manutenzioni in quanto l’Arsenale per molte attività potrà prescindere dalla richiesta di lavoro. La richiesta di lavoro fatta con mod. 6 è valutata dall’Arsenale sotto diversi aspetti: se formulata correttamente, se lecita, se fattibile tecnicamente, se compatibile con le risorse disponibili in termini di manodopera, costi, materiali, tempi di realizzazione. Un giorno lavorativo si intende formato da otto ore. Sotto questa ipotesi il rapporto (TL/TA) tra 9 ore e 10 giorni è circa 1/10, valore piuttosto comune per i processi aziendali tradizionali. L’Arsenale di La Spezia è stato interessato nel corso del 2005 da una decisa ristrutturazione organizzativa. Tra le modifiche più rilevanti e di stretta pertinenza con l’argomento trattato, emerge l’ampliamento dei compiti assegnati alla Sezione Pianificazione Esecutiva, divenuta vero organo di programmazione e di creazione delle attività interne ed esterne dell’Arsenale. All’interno della Sezione è stato infatti creato un organo denominato Area Tecnica incaricato della completa definizione tecnica ed economica di tutte le attività di manutenzione dell’Arsenale, sia quelle destinate ad appalti con ditte private sia quelle eseguibili con manodopera interna. Tali funzioni erano prima disperse tra i Reparti di lavoro. Parallelamente al trasferimento/accentramento di funzioni, è stato prelevato dai Reparti e raggruppato in un unico ufficio il personale competente, allo scopo di evitare duplicazione di lavoro e dispersione di forza lavorativa. La predisposizione degli appalti esterni è un flusso diviso a metà tra PE e Direzione Amministrativa. A quest’ultima sono in sostanza assegnate le operazioni regolate dalle norme del Diritto Pubblico. Altri organi dell’Arsenale sono responsabili infine del controllo di vari aspetti del processo. 24 Osservatorio del TQM), risulti utile per l’efficace implementazione dei concetti LO. UN’ARMA IN PIU’: IL S.I.G.A. Il S.I.G.A. è un sistema informativo basato su piattaforma SAP R/318, costituito da un insieme di moduli applicativi per la informatizzazione dei processi di gestione negli ambiti di manutenzione, logistica e materiali, contabilità, contratti e fornitori, amministrazione e finanza. Il sistema è in grado di: − conseguire la gestione ottimale delle manutenzioni delle UU.NN., perseguendo obiettivi di efficacia, efficienza ed economicità19; − mettere a disposizione dei vari enti, logistici ed operativi, gli elementi necessari a determinare il migliore impiego delle risorse per il raggiungimento degli obiettivi; − sintetizzare i dati provenienti dagli utenti e proporli a supporto per le decisioni di ambito tecnico ed economico; − assicurare il controllo dei costi d’esercizio delle attività di manutenzione ed il loro raffronto tra previsione e dati effettivi, identificando gli scostamenti e le loro cause. Un nuovo sistema gestionale dei processi aziendali comporta innovazioni che interessano per lo più la componente soft (competenze e know-how, comportamenti e azioni, valori e aspettative), prima ancora che la componente tecnologica. La massiccia introduzione di tali innovazioni determina quello che viene indicato come “Cambiamento Organizzativo” e come tale deve essere gestito, facendo ricorso alle metodologie di Change Management basate sulla comunicazione, sulla formazione, sul coinvolgimento e sulla respon- 17 18 19 20 sabilizzazione. Non è questa la sede per esaminare i motivi e le modalità che hanno portato all’introduzione del S.I.G.A. negli stabilimenti di lavoro della MMI. Vediamo però come questa circostanza ha innovato la gestione delle operazioni, la gestione del flusso di creazione del valore. Con l’impiego del S.I.G.A. il FV diventa estremamente visibile e le diverse azioni sono facilmente individuabili. Le azioni necessarie allo scorrimento del flusso possono, con opportune transazioni20, essere eseguite tramite un qualsiasi terminale connesso con la rete S.I.G.A.. Quindi la creazione del valore avviene in un ambiente unitario “virtuale”, superando la divisione per uffici. Una preparazione comune a più dipendenti (polivalenza dei ruoli operativi) consente inoltre di moltiplicare la flessibilità del processo e di uscire dalla rigida differenziazione tra incarico, compito, capacità e competenze. In figura 3 è riportato il FV del mod. 6 con la procedura S.I.G.A., confrontato con il flusso dello stesso mod. 6 con la “procedura 2002”. E’ evidente il cospicuo miglioramento del parametro di efficienza TL/TA. Ma l’evoluzione del S.I.G.A. non finisce qui. Figura 3 Lo Stato Maggiore della Marina, nell’ambito del processo di razionalizzazione e snellimento della propria organizzazione nell’area tecnico-logistica, ha avviato la dotazione della maggior parte degli enti dipendenti dall’Ispettorato di Supporto Logistico, tra i quali gli Arsenali e Maricegesco (Centro nazionale di Gestione delle Scorte), di sistemi idonei a supportare e gestire il cambiamento dell’organizzazione attraverso un’automazione integrata. Ulteriore obiettivo di questo strategico progetto per la F.A. è quello di consentire un utilizzo efficace dei dati per supportare il processo decisionale. Il progetto, approvato nel maggio 2002, ha dato origine ad un contratto, stipulato dalla Direzione Generale di Teledife con la ditta ELSAG di Genova, che prevede la realizzazione di un Sistema Informativo di Gestione Automatizzata (S.I.G.A.) per gli arsenali e di un Sistema Informativo per il Centro Gestione Scorte per le Unità Navali (Maricegesco). Il SAP R/3 è il programma di gestione aziendale più diffuso al mondo. Basato sul linguaggio di programmazione proprietario ABAP/4, il SAP R/3 è ampiamente personalizzabile e pertanto adattabile a organizzazioni di ogni tipo e dimensione. Si confronti con la già citata legge 241/90, nota 7. Programmi eseguibili, specifici per ciascun gruppo di operazioni. 25 Osservatorio Nei programmi di sviluppo del prossimo futuro le richieste di lavoro potranno essere inserite all’interno del S.I.G.A. già dagli enti originatori (come le UU.NN.) per mezzo di idonei programmi di interfaccia. In questo modo viene molto ridotto il tempo (inutile ai fini della creazione di valore) di trasferimento21 tra ente originatore e gli organi di controllo e decisione22 dell’Arsenale. Questi ultimi possono vedere in qualsiasi momento ed in tempo reale tutte le richieste dei clienti esterni, che a loro volta hanno facoltà di vedere lo stato di avanzamento delle proprie richieste, in una gestione assolutamente trasparente. La trattazione delle richie- ste è rapida ed è possibile eliminare qualsiasi passaggio cartaceo. In figura 4 è riportato il FV di una richiesta di lavoro inserita ab origine nel sistema, resa superflua persino la creazione cartacea del mod. 6. L’ulteriore vantaggio in termini di TL/TA è evidente23. I diversi organi competenti impartiscono le autorizzazioni a procedere direttamente via software, e lo status della richiesta è istantaneamente aggiornato e visibile, anche da parte dell’ente originatore. La decisione di prendere in considerazione (giudizio di conformità e liceità) le richieste non significa comunque decidere di intervenire (giudizio di fattibilità e di opportunità), né significa risolvere il problema. Tuttavia, ricordando la definizione di qualità implicita, individuata come necessaria per il servizio in esame (diritto del richiedente di avere risposta quanto prima), essa viene a essere così soddisfatta. Ma quali sono gli sprechi, nel FV delle manutenzioni, eliminati con una efficace riorganizzazione e l’implementazione del S.I.G.A.? Riprendiamo l’elenco degli sprechi più comuni presentato a pagina 3, evidenziando in grassetto quelli risolti: − disservizi ed errori; Figura 4 21 22 23 Abbiamo ritenuto opportuno mantenere una isteresi precauzionale di alcune ore tra l’inserimento a sistema della richiesta di lavoro ed i successivi passi di valutazione tecnico-economica. Teoricamente sarebbe possibile annullare questo tempo e raggiungere il valore ottimale di TL/TA unitario, se la valutazione della richiesta potesse avvenire nell’istante immediatamente successivo al suo inserimento a Sistema. I Capi Divisione, la Sezione Pianificazione Esecutiva, ma anche lo stesso vertice dell’Arsenale, il Direttore. Con le future applicazioni avanzate del S.I.G.A. si potrà raggiungere il. 26 Osservatorio − − − − − − − − − sovradimensionamento risorse; pratiche o beni in attesa di lavorazione; lavori non necessari: spostamenti di persone non necessari; elaborazione e trasferimento di in formazioni non necessarie ; attese del personale e dei clienti; progettazione di servizi non adeguata; non ottimale utilizzo delle potenzialità delle persone; carente coinvolgimento del cliente. CONCLUSIONI Abbiamo visto come, nonostante derivino da esperienze aziendali, i principi della LO per il miglioramento della produttività siano, almeno in parte, applicabili anche alle FF.AA.. In questa trattazione sono stati impiegati gli strumenti della LO per valutare nell’Arsenale di La Spezia l’efficienza della procedura di trattazione delle richieste di lavoro. I risultati ottenuti con la riorganizzazione della PE e con l’applicazione del S.I.G.A. sono confortanti sia in termini qualitativi (tipo di sprechi eliminati), sia in termini quantitativi, con le valutazioni del TL/TA. In particolare la procedura S.I.G.A. attualmente in vigore è in grado di ridurre alla metà il tempo di attraversamento (TA) rispetto alla “procedura 2002”, mentre ulteriori sviluppi del S.I.G.A. porterebbero ad un ulteriore dimezzamento del TA. In realtà oggi il sistema informatico convive con il classico sistema cartaceo della “procedura 2002”, ed il miglioramento di efficienza prodotto dal S.I.G.A. è di fatto vanificato. E’ evidente nonostante le riorganizzazioni strutturali e le implementazioni di nuovi strumenti di gestione, solo l’abbandono progressivo della documentazione cartacea non necessaria per Legge consentirà un reale miglioramento dei processi produttivi in Marina. Ma non solo. E’ vero che la Marina non può trasformarsi in una organizzazione orizzontale, e quindi snella. E’ vero d’altro canto che, riprendendo i concetti cari al TQM, ed il concetto LO del miglioramento concentrato, l’innovazione dei processi può avvenire solo dall’interno dell’organizzazione, può venire solo da coloro che giornalmente con tali processi occupano buona parte della propria giornata di lavoro. E’ questa la sfida. Valorizzare l’apporto creativo che scaturisce da personale sicuramente preparato, ma anche ben motivato, responsabilizzato, considerato nella propria professionalità. In poche parole, messo al centro dell’organizzazione. BIBLIOGR AFIA Riviste/articoli • Bonazzi G., Qualità totale e produzione snella: la lezione giapponese presa sul serio, Il Mulino, vol. 2/ 93; • C u s u m a n o M . A ., I l i m i t i d e l “ l e a n ”, S v i l u p p o e O r g a n i z z a z i o n e , l u g l i o / a g o s t o 19 9 5 ; • Fur lanet to L ., Il r uolo strategic o della manutenzione nella fabbr ic a snella, Logi stica e Management, gennaio/febbraio 2000 • Mat t D., Il pensiero logi (sti) co, Logistica e Management, aprile 20 0 4. 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Le flotte erano affidate ad abili, ed a volte geniali, comandanti che le conducevano secondo regole di pratica marinaresca, adottate a seconda dei momenti e delle circostanze1. Allo scadere del secolo, Alfred Thayer Mahan con la pubblicazione dell’opera The Influence of Sea Power upon History (1890), seguito vent’anni dopo da Julian Corbett con la sua Some Principles of Marittime Strategy (1911), cambiarono completamente il quadro di riferimento. L’uno godette immediatamente di un successo mondiale, in virtù della sue idee sul potere marittimo, riassunte in una teoria talmente forte e semplice (come solo i grandi insegnamenti sanno essere), da influenzare le politiche delle più grandi potenze di allora. L’altro trovò rapida accoglienza presso l’Ammiragliato britannico, grazie alla capacità con la quale aveva saputo compendiare poche e basilari regole di guerra navale. Il consenso di pubblico che accolse i due autori si giustifica grazie anche al verificarsi di due fenomeni mondiali che avevano preparato il terreno per le loro teorie. Il primo fu lo straordinario sviluppo della tecnologia navale che, con l’introduzione dalle macchine a vapore e di nuovi sistemi d’arma, offriva alle flotte una potenzialità di azione ben superiore al passato. Il secondo fu la crescente rivalità internazionale dell’epoca creatasi tra la Gran Bretagna, potenza marittima per eccellenza, gli altri Stati europei e gli Stati Uniti, tutti competitivamente protesi alla conquista di aree coloniali e di nuove rotte di traffico commerciale. I tempi erano dunque maturi per lo sviluppo di nuove idee sull’utilizzo delle forze navali. Il Mahan ed il Corbett aiutano a comprendere l’importanza di relazionare l’attività navale agli obiettivi di politica nazionale e, come tali, diventano i fondatori della moderna strategia marittima. Quanto poi alle regole fornite per l’utilizzo delle forze navali, il loro pensiero si separa profondamente. Qui si annida lo scopo del presente lavoro, con il quale si intende analizzare in dettaglio l’opera di ciascuno, ponendo in evidenza i punti di contatto e, soprattutto, quelli di divergenza, per i quali si tenterà da ultimo di individuarne l’origine. 1 Esistevano, invero, solo dei trattati di tattica navale, che contenevano istruzioni sulla condotta della battaglia. 29 Osservatorio Tenente di Vascello (CP) GIANFRANCO REBUFFAT MAHAN ED I FATTORI DEL POTERE MARITTIMO Nato a West Point il 27 settembre 1840, Alfred Thayer Mahan entrò giovanissimo al Naval War College di Annapolis, da dove ne uscì nel 1859 classificandosi tra i migliori del suo corso. Dopo aver partecipato alla guerra di secessione tra le file degli Unionisti, sulla quale scrisse un libro pubblicato nel 1883, egli condusse una vita professionale piuttosto anonima fino a quando non venne chiamato all’Accademia Navale di Newport per insegnare storia navale, tattica e strategia. Fu durante quel periodo che ideò, scrisse e fece pubblicare la sua opera più famosa: The Influence of Sea Power upon history (1890). Al di là della scontata funzione istruttiva nei confronti degli ufficiali di vascello, il volume persegue un più ampio obiettivo: avvalendosi dalla lezione della storia far comprendere l’importanza del potere marittimo, allo scopo di convincere i pubblici poteri americani della necessità di dotare la Marina di forze navali adeguate al ruolo mondiale della Nazione. Il Mahan parla ad una società, quale quella americana di fine ‘800, ancora legata alle conquiste territoriali nel Far West, che non possiede tradizioni marinare e per la quale le forze navali devono svolgere funzioni essenzialmente di difesa costiera. Egli vuole che si superi l’idea degli Stati Uniti come di un potenza solo continentale, per arrivare alla creazione di un paese a vocazione globale, sostenuto da una grande Marina alturiera, in grado di garantire la protezione degli interessi americani in tutto il mondo. Occorre, pertanto, proporre una formula chiara, decisa, attraente, che contenga in sé la chiave del successo, in altre parole vincente: il potere marittimo. Siccome l’audience americana è costituito da gente per niente ingenua, ma pratica e concreta, bisogna dimostrare la fondatezza della teoria, rendendola facilmente assimilabile. Niente di più semplice che guardare agli insegnamenti storici, che provano come un relativamente piccolo paese insulare come l’Inghilterra sia diventata una potenza imperiale attraverso l’uso prioritario dello strumento navale. Il governo degli Stati Uniti già da qualche anno aveva iniziato a rendersi conto che l’espansione economica americana avrebbe, da lì a poco, esaurito i suoi effetti se non fosse stata sostenuta da una flotta militare di rango. Nel 1883, infatti, era stata approvata la costruzione di una serie di navi da battaglia, completata pochi anni dopo. Le idee del Mahan rafforzarono questa convinzione: dopo la pubblicazione del suo libro, il Congresso approvò un ulteriore incremento del numero di unità da battaglia, abbracciando definitivamente la politica di potenza marittima. Analizziamo, allora, in dettaglio il pensiero mahaniano per coglierne i caratteri essenziali. Secondo il nostro autore l’influenza del potere marittimo è stata da sempre trascurata dagli storici. Con esplicito richiamo allo Jomini2, che ispirerà fortemente le sue riflessioni, egli afferma preliminarmente che lo studio della storia militare è indispensabile per i capi militari poiché aiuta a capire la giusta condotta da seguire nelle guerre future ed ad evitare gli errori del passato. Pertanto, lo studio della storia navale aiuterà ad individuare i principi della guerra marittima, che si rivelano nei successi e nelle sconfitte, sempre gli stessi in ogni epoca. Questi insegnamenti vanno rispettati sia nella tattica sia nella strategia. Anzi, proprio nella strategia navale gli insegnamenti del passato acquistano valore perenne. La tattica, infatti, è maggiormente dipendente dalla tipologia degli armamenti, che cambia continuamente. La strategia navale ha come scopo quello di fondare, sostenere ed aumentare, sia in pace sia in guerra, il potere marittimo della nazione. Ma cosa si intende per potere marittimo, quali sono i suoi elementi costitutivi e quali le condizioni essenziali per il suo esercizio? Il Mahan non dà una definizione precisa di potere marittimo. Si limita ad affermare che esso è lo strumento per ottenere il dominio del mare (command of the sea), che è identificato “in quell’autoritario potere marittimo che scaccia la bandiera nemica dai mari o le consente di apparire solo come un fuggiasco e che, controllando la grande proprietà comune, il mare, chiude le vie attraverso le quali il commercio si muove da e verso le coste nemiche”. Il mare, dunque, è visto come una grande via di comunica- 2 Antoine Henri Jomini (1779-1869), capostipite della scuola strategica francese, considera la strategia una scienza, poiché è retta da principi immutabili. Fa ricorso abbondantemente all’esempio storico per dimostrare che la guerra segue regole precise dovute a fattori oggettivi quali il materiale, la geografia, la storia e la preparazione. Per maggiori approfondimenti vedasi, tra gli altri, F. SANFELICE DI MONTEFORTE, Jomini e il Mare, Rivista Marittima n.7/98, p.14 e segg. 30 Osservatorio zione, attraverso la quale gli uomini scelgono delle linee di movimento chiamate vie commerciali. Nonostante tutti i pericoli, i viaggi ed i traffici via acqua sono sempre stati più facili e meno costosi di quelli terrestri. Quindi, ogni nazione ha interesse a creare una propria flotta mercantile e porti sicuri per garantirsi scambi di merci continui con altri paesi, anche molto distanti. Salvo che uno Stato non sia aggressivo, l’esistenza di una marina da guerra si spiega solo in funzione di protezione del naviglio mercantile. Una nazione che intraprende traffici commerciali avverte subito la necessità di crearsi punti di appoggio per assicurare rifugio e rifornimento alle proprie navi. Nascono così le colonie, come terre destinate alla estensione commerciale della madrepatria. Riportandosi principalmente all’esperienza britannica, egli spiega la storia marittima facendo ricorso ai seguenti tre elementi legati in ciclo tra di loro: la produzione di beni, con la conseguente necessità di scambio; le navi, quali mezzi attraverso i quali avvengono gli scambi; le colonie, che facilitano ed ampliano le operazioni marittime e commerciali. Il potere marittimo è il prodotto di questa serie di fattori, raggruppabili in una componente mercantile ed una militare. La prima formata dalla flotta mercantile, le industrie cantieristiche, le colonie e tutto ciò che si muove intorno ai commerci marittimi. La seconda costituita dalla Marina militare e dalle basi navali e di supporto. Il potere marittimo esiste solo se sono presenti tutti i suddetti elementi ed è sufficiente che uno venga a mancare perché esso decada: le colonie forniscono le materie prime che sono importate dalla madrepatria per la lavorazione e la trasformazione in prodotti finiti, successivamente riesportati; l’intero flusso è assicurato dalla marina Alfred Thayer Mahan mercantile, con la conseguente creazione di ricchezza. La Marina militare protegge il traffico commerciale, utilizzando una serie di basi navali, magari coincidenti con le stesse colonie. Vince chi riesce ad interrompere il ciclo di commercio nemico ed a sconfiggerne la flotta militare che lo protegge. Quest’ultima diventa allora il principale obiettivo dell’avversario. 31 Per il Mahan, le principali caratteristiche che influenzano il potere marittimo delle nazioni possono essere elencate come segue: 1, la posizione geografica; 2, la conformazione fisica, che comprende i prodotti naturali ed il clima; 3, l’ampiezza del territorio; 4, la quantità di popolazione; 5, il carattere del popolo; 6, il carattere del governo, incluse in questo le istituzioni nazionali. Iniziando dalla posizione geografica, una nazione che, come l’Inghilterra, non sia costretta a difendersi sulla terra, né cerchi di espandersi sulla stessa, risulterà avvantaggiata rispetto ad altre, come la Francia o l’Olanda, in quanto si vedrà obbligata a dissipare risorse per mantenere un grande esercito e per condurre guerre costose. Una posizione geografica centrale può inoltre fornire un vantaggio strategico ed una buona base per operazioni offensive verso i vicini. Tal è stato il caso dell’Inghilterra che riusciva contemporaneamente a contrastare la Francia e l’Olanda sfruttando la centralità della sua posizione. Relativamente all’Italia, mancandole il controllo della Tunisia, della Corsica e di Malta, non potrà rivestire il ruolo di potenza controllante i traffici verso levante attraverso il canale di Suez. Passando alla conformazione fisica, una linea di costa con la presenza di porti naturali e fiumi navigabili agevola i commerci marittimi per la facilità di accesso al mare. Tale caratteristica può però essere anche causa di debolezza, se le frontiere marittime non sono adeguatamente Osservatorio difese contro gli attacchi nemici. Il clima interno, la presenza di estese aree coltivabili che offrono alla popolazione risorse produttive in abbondanza non spingono il popolo ad intraprendere traffici marittimi. Si vedano, a titolo di esempio, le differenze tra i tre paesi prima citati. Mentre la Francia ricavava dalla terra quanto necessario per i bisogni interni, l’Inghilterra e l’Olanda venivano spinte da un’agricoltura povera a cercare fortuna nel mare. In merito all’estensione del territorio, non importa tanto la superficie occupata da una nazione, quanto la lunghezza della linea di costa, che può essere fonte di potenza o di debolezza, a seconda che la popolazione sia più o meno numerosa. Una estesa linea di costa è difendibile solo da una popolazione in numero adeguato. Come per il territorio, non è tanto importante la quantità della popolazione in generale ma la sua entità, ossia la percentuale di essa dedita ai commerci marittimi, all’imbarco ed ai lavori di costruzione e manutenzione del naviglio. Per quanto concerne il carattere nazionale, l’attitudine di un popolo al commercio influenza lo sviluppo dei traffici marittimi e, quindi, la creazione del potere marittimo. Ad esempio, la Spagna ed il Portogallo non svilupparono la manifattura di beni ma si dedicarono principalmente allo sfruttamento dei giacimenti di oro ed argento delle colonie. La loro flotta commerciale si ridusse a poche navi che trasportavano piccoli carichi. Gli inglesi, invece, hanno un forte ed innato istinto commerciale, che li ha spinti alla ricerca di nuovi e fiorenti mercati. Infine il nostro autore affronta il tema del carattere del governo, sostenendo che a volte il potere dispotico, tenuto con giudizio e risolutezza, ha agevolato la crea- zione di un grande commercio marittimo con una brillante Marina militare, con una direzione migliore di quella che si può ottenere con il lento processo decisionale di un popolo libero. L’Inghilterra nel corso dei secoli ha mantenuto una linea politica costante nell’appoggio ai traffici marittimi ed al mantenimento di una forte Marina da guerra, retta da Ammiragli promossi per il loro valore e non per nobiltà di nascita, come avveniva invece in Francia sino alla Rivoluzione del 1789. I governi democratici sono poco favorevoli alle spese militari. Queste, poi, sono frequentemente impiegate per fronteggiare gli attacchi sulla terraferma, impoverendo la forza navale. Se c’è l’impegno del governo la Marina militare cresce e con essa il potere marittimo, altrimenti deperisce seguita dal potere medesimo. In sintesi per il Mahan, in situazione di pace il governo deve sostenere la crescita delle industrie navali ed incentivare il popolo ad intraprendere i commerci marittimi. Una forte Marina da guerra si può mantenere solamente grazie ad un florido commercio. In caso di guerra, i pubblici poteri dovranno garantire il mantenimento di una Marina militare di dimensioni adeguate alla crescita ed all’importanza della marina mercantile ed all’importanza degli interessi ad essa connessi. Merita sottolineare che ancora più importante delle dimensioni sono le istituzioni della Marina da guerra, che devono favorire spirito ed attività sane e provvedere in tempo di guerra ad un rapido aumento delle forze. E’ determinante, altresì, il mantenimento di idonee basi navali in quelle lontane zone del mondo dove le navi da guerra sono costrette a seguire i bastimenti mercantili. La protezione di queste basi deve dipendere da una forza militare locale, come nel caso di Gibilterra o di Malta, oppure 32 da popolazioni vicine amiche. Ora che abbiamo fissato il concetto di potere marittimo, ed individuati i suoi elementi caratteristici, passiamo a definire la strategia marittima secondo il Mahan, collocandola nel quadro della strategia globale. IL CONCETTO STRATEGICO DI MAHAN Nell’opera Naval Strategy (1911), pubblicata a soli tre anni dalla sua morte, avvenuta il 1 dicembre 1914, il Mahan compendia il meglio delle sue lezioni tenute presso il Naval War College, in materia di strategia marittima, partendo dall’assunto che essa ha lo scopo di realizzare, sostenere ed aumentare, sia in pace sia in guerra, il potere marittimo di uno Stato. Occorre precisare che l’autore usa il termine naval strategy secondo un’ampia accezione comprendente, il più delle volte, il più ampio significato di strategia marittima. Dallo studio dei principi della guerra terrestre formulati dallo Jomini, egli ricavò che alcuni concetti potevano applicarsi sul mare e tentò di dimostrarlo attraverso l’analisi di scontri navali che avevano viste coinvolte le maggiori potenze marittime della storia. Questi concetti erano basati su idee fondamentali di posizione, linee di comunicazione, basi navali e controllo delle zone focali, nonché concentrazione delle forze. Esaminiamoli singolarmente. Innanzitutto, il possesso di una posizione centrale rispetto al nemico o al teatro operativo consente di fronteggiare contemporaneamente e con efficacia tutti i nemici circostanti, poiché permette di utilizzare linee di comunicazione interne più brevi rispetto a quelle esterne cui è costretto l’avversario. Basti citare il caso della Francia che, duran- Osservatorio te i secoli XVI e XVII, riusciva a contrastare la Spagna o l’Austria a seconda della necessità. Dalla posizione centrale si dipartono linee di spostamento, chiamate per l’appunto linee di comunicazione interne, che permettono di concentrare rapidamente le forze su di un nemico, tenendo l’altro in scacco con risorse anche inferiori. Il Canale di Suez, per esempio, è una linea interna rispetto alla rotta che doppia il Capo di Buona Speranza; l’istmo di Panama rispetto allo stretto di Magellano; il canale di Kiel rispetto alla penisola danese ed agli stretti di Oresund e Belt. Le risorse naturali e quelle del territorio limitrofo accrescono ancor di più l’importanza della posizione; e se le vie di comunicazione marittima attraverso quest’ultima si moltiplicano e diventano obbligatorie (choke point), il controllo della posizione diviene strategico. Tuttavia il possesso della posizione senza la disponibilità di una forza sufficiente a difenderla risulta vano, poiché il nemico non impiegherà molto ad impadronirsene. Dunque, la posizione deve sempre essere accompagnata dalla potenza (power plus position), senza la quale il vantaggio strategico è effimero. Ne discende la necessità di rafforzare le posizioni presso le quali è stanziata la flotta, cioè le basi navali. Queste devono la propria importanza alla posizione occupata, alla forza che sono in grado di esprimere ed alle risorse di cui hanno bisogno per il funzionamento. Più rotte commerciali passano nei pressi di una base navale, maggiore è il suo valore. Determinante, pertanto, è il controllo di quei passaggi obbligati o restringimenti, (come Suez, Gibilterra, Panama, la Manica) divenuti zone focali dei traffici marittimi. Parimenti decisiva è la capacità offensiva o difensiva della base. In caso di più porti le rispettive capacità devono esse- Antoine Henri Jomini re correttamente integrate per sfruttare il valore di ciascuno a beneficio degli altri, evitando dispersione di risorse. Nella difesa delle basi occorre un proficuo utilizzo dell’Esercito e della Marina, la quale va tenuta compatta e pronta ad offendere grazie alle sue capacità di movimento. Nelle azioni offensive la base deve essere in grado di accogliere la flotta (ricettività), consentirle di prendere subito il largo (proiettabilità), e garantirne il supporto (sostenibilità) per l’intera durata delle operazioni. Non va da ultimo dimenticato che i migliori porti sono anche quelli che dispongono di un retroterra ricco, in grado di provvedere alle necessità della base, evitandone la ricezione da lontano. Un’importanza fondamentale assume nel pensiero mahaniano il principio della concentrazione delle forze che, se applicato con intelligenza, permette di ottenere la superiorità sul nemico, anche disponendo di una flotta inferiore. La finalità è una sola: realizzare la superiorità locale sul nemico per sconfiggerlo. Considerata la rilevanza che riveste nel ciclo del commercio, lo sforzo deve essere rivolto verso la flotta nemica, la quale deve essere affrontata e completamente eliminata in una battaglia decisiva, anche inseguendo 33 le unità in fuga. Sotto l’influsso dello Jomini, per il quale “le forze organizzate del nemico devono sempre essere il principale obiettivo”, il Mahan sostiene che “le navi e la flotta del nemico sono il vero obiettivo da distruggere in ogni occasione”. Qui, più che altrove, egli mutua dalla tradizione navale britannica, tentando di imprimere negli ufficiali americani quella mentalità guerriera risoluta e vincente dimostrata nei secoli dai colleghi inglesi, che tanto lo aveva affascinato. Una mentalità frutto di una coscienza comune e condivisa circa la centralità della forza navale, quale strumento prevalentemente offensivo per una politica innanzitutto di sopravvienza e poi di potenza globale. Il blocco navale è un’alternativa alla battaglia navale decisiva, ma non altrettanto efficace, in quanto costringe a permanere per lunghi periodi in prossimità del porto avversario, con il pericolo che qualche mezzo riesca comunque a fuggire approfittando di occasioni favorevoli per esercitare la guerra di corsa; inoltre con l’avvento di mine, torpediniere e sommergibili, il blocco deve essere esercitato sempre più a distanza dal porto rispetto all’epoca velica, in cui le squadre pendolavano fuori dalla corta gittata delle batterie costiere. Non è ragionevole, pertanto, per gli Stati Uniti frazionare la flotta tra il Pacifico e l’Atlantico; ciò renderebbe la Marina debole dappertutto. Lo stesso dicasi in merito alla suddivisione delle forze francesi tra Brest e Tolone, tenuto conto che Gibilterra è in mano agli Inglesi. Applicando i principi della concentrazione e della comunicazione per linee interne il Mahan arriva ad elaborare, di fatto, una vera e propria teoria “geopolitica” (prima ancora che tale termine venisse inventato), la cui validità è stata confermata nel tempo: essa si basa sulla neces- Osservatorio sità, per gli interessi della nazione americana, di procedere all’apertura del canale di Panama, punto strategico da tenere sotto il proprio controllo; e di ottenere il dominio del mare del golfo del Messico e dei Caraibi sfruttando l’importanza strategica di Cuba, ancora appartenente alla Spagna. CORBETT E LO STUDIO TEORICO DELLA GUERRA Rivale del Mahan nella elaborazione di una strategia marittima e dei ruoli spettanti alle forze navali fu Sir Julian Corbett. Egli nacque a Londra il 12 novembre 1854 e, dopo aver esercitato la professione forense per qualche anno, si avvicinò allo studio della storia navale, pubblicando una serie di lavori a partire dal 1898, che attirarono l’attenzione dell’Ammiragliato britannico. Nell’agosto del 1902 venne così invitato a tenere alcune lezioni presso il Royal Naval College di Greenwich, per dimostrare l’influenza della politica sulla strategia3. Dopo aver pubblicato Some Principles of Marittime Strategy (1911), egli avviò una stretta collaborazione con la Marina, che durò fino alla sua morte avvenuta il 22 settembre 1922. A differenza dell’autore americano, il Corbett deve indirizzare la propria opera ad una dirigenza politica e militare dotata di un’altissima cultura marinara, e profondamente conoscitrice del concetto di potere marittimo, in quanto protagonista della crea- Julien Corbett zione di quell’impero mondiale che aveva reso l’Inghilterra la potenza navale per antonomasia. Un pubblico qualificato che, avendo da secoli individuato nel dominio del mare lo strumento fondamentale per la ricchezza del paese, attende di riflettere su nuovi concetti strategici che permettano un uso efficace ed efficiente della forza navale. Egli, quindi, imposta un’esposizione non basata su di una grande e semplice idea come aveva fatto il Mahan, bensì su di ragionamento sottile e penetrante tendente a ricercare moderni criteri di esercizio del command of the sea, idonei a consentirne il mantenimento con uno sforzo che oggi definiremmo sostenibile. Passiamo all’esame del pensiero del Corbett tentandone, ovunque sia possibile, la compara- zione con quello del Mahan. In primo luogo l’autore inglese concorda con quest’ultimo nel ritenere lo studio teorico della guerra come centrale nella formazione militare. Esso non deve avere la pretesa di donare la capacità di agire sul campo, ma solo di far acquisire una visione più ampia, in modo che il piano di battaglia copra tutto lo spettro dei casi, e possa essere afferrato con maggior rapidità e certezza ogni fattore di un improvviso cambio di situazione. Scopo della teoria è educare e non sviluppare competenze esecutive, che dipendono invece dalle intrinseche abilità di ciascuno. E’ di fondamentale importanza l’esame degli eventi del passato per determinare la normalità, ossia gli effetti che normalmente seguono a certe linee di condotta. Fissata la normalità si potrà valutare con maggiore efficacia i pro ed i contro di ogni variabile; si potrà, quindi, definire una strategia. Diversamente dal Mahan, egli definisce con precisione le differenze tra la strategia marittima e quella navale. Per strategia marittima il Corbett intende “i principi che governano una guerra nella quale il mare rappresenta un fattore sostanziale”. Essa è distinta dalla strategia navale che, invece, “è quella parte della strategia marittima che determina i movimenti della flotta quando la strategia marittima stessa ha determinato quale parte la flotta debba giocare in relazione alle azioni delle forze terrestri”. Quindi, la strategia marittima deve determinare le reciproche relazioni che, in un piano di guerra ben strutturato, Diversamente da quanto avviene nelle altre marine occidentali (Italia, Francia, USA), appartiene alla tradizione didattica della Royal Navy l’affidamento a personale civile e non militare dell’insegnamento della storia navale nell’ambito dei corsi di formazione degli ufficiali inglesi. 3 34 Osservatorio devono instaurarsi fra l’Esercito e la Marina. Quando ciò sia stato fatto, e non prima, la strategia navale può iniziare a studiare il modo con il quale la flotta può assolvere la funzione assegnatale. Per comprendere le relazioni intercorrenti tra i fattori terrestri e marittimi occorre riferirsi ai fondamentali principi della guerra. Come il Mahan con lo Jomini, così il Corbett si richiama esplicitamente alle idee del Clausewitz4, concordando con la sua teoria che “la guerra è semplicemente la continuazione della politica con altri mezzi”, e di conseguenza il piano bellico deve aver chiaro l’obiettivo politico da perseguire, perché da esso discende la natura e l’importanza del conflitto. A seconda del fine politico, sottrarre qualcosa al nemico o impedirgli di ottenere vantaggi a nostro discapito, le guerre sono classificate in offensive e difensive. Anche nel caso della difesa occorre preservare lo spirito aggressivo delle forze, spingendole al contrattacco non appena il nemico abbassi la guardia. Sempre in funzione dell’obiettivo politico, le guerre si dividono in illimitate o limitate, a seconda della necessità o meno di distruggere tutto il potenziale bellico del nemico. Va da sé che nel caso di conflitto limitato potrebbe essere sufficiente fare dell’obiettivo, e non delle forze nemiche, l’oggetto dell’offensiva strategica principale. Tuttavia, anche la guerra limitata richiede un grosso dispendio di forze, poiché occorre evitare di lasciare scoperto il fronte interno. In pratica, nella guerra tra due Stati continentali conti- gui, nella quale l’obiettivo sia la conquista di un pezzo di territorio adiacente alle loro frontiere, non si ricava alcuna differenza tra la guerra limitata e quella illimitata, poiché le forze in campo dovranno essere in ogni caso le massime disponibili. Applicando le teorie clausewitziane al mare, il Corbett sostiene che la guerra limitata è, invece, sempre possibile per le potenze insulari o separate dal mare perché, se sono in grado di dominare il mare, possono isolare l’obiettivo lontano e contemporaneamente rendere impossibile l’invasione del proprio territorio. Ecco il segreto del successo dell’Inghilterra: chi ha il dominio del mare possiede la libertà di scegliere quanto impegnarsi in un conflitto, gestendo al meglio le proprie forze, mentre chi si trova sulla terraferma spesso si trova in grande difficoltà. Attraverso l’uso di una forma limitata di guerra una potenza militare debole può ottenere il successo contro una più forte. Vi sono casi nei quali può essere vantaggioso non cercare a tutti i costi la sconfitta delle forze nemiche, ma tentare il conseguimento di un obiettivo più limitato, quale quello della occupazione di una piccola parte del territorio avverso, specie se lontano dalla madrepatria. Ciò avviene di frequente proprio nelle guerre marittime, come insegna l’esperienza britannica, dove non occorre distruggere l’intero potenziale di resistenza del nemico ma solo quella parte che esso destina alla difesa dell’obiettivo territoriale altrui. Qui entra in gioco la Marina che ha il compito di isolare completamente l’obiettivo, tramite operazioni destinate a sconfiggere le forze navali nemiche. Si passa così nel campo della strategia navale. LA STRATEGIA NAVALE DI CORBETT Pur concordando con il Mahan sul fatto che “l’obiettivo della guerra navale deve sempre essere, direttamente o indirettamente, quello di assicurarsi il dominio del mare o di impedire al nemico di ottenerlo”, Il Corbett fa notare che normalmente nessuno dei contendenti ha il pieno comando del mare. A differenza del territorio, il mare non è suscettibile di essere posseduto, almeno al di fuori delle acque territoriali. Infatti, non si può impedire il suo uso da parte dei neutrali, né si può immaginare di mantenere costantemente le forze armate su di esso. Il valore che il mare può avere per un paese è soprattutto come mezzo di comunicazione. Dunque, “il dominio del mare non significa altro che il controllo delle comunicazioni marittime, per scopi commerciali o militari. L’oggetto della guerra marittima è il controllo delle comunicazioni e non, come per la guerra terrestre, la conquista del territorio”. Poiché il nemico, fino a quando ha una flotta sufficiente, è teoricamente in grado di togliere all’avversario il controllo di una particolare zona di mare, il controllo del mare incontra costantemente dei limiti di tempo e di spazio. Sbaglia, quindi, chi pensa di non poter trasportare le proprie forze per mare fino a Karl Von Clausewitz (1780-1831), generale prussiano, autore della monumentale opera Della guerra (1830), che costituisce ancora oggi un punto di riferimento per gli studiosi di strategia non solo militare. Egli intende la guerra come atto politico di forza per indurre l’avversario al nostro volere, per la quale non esiste una regola assoluta che possa sostituire il genio del comandante sul campo di battaglia. L’azione bellica deve tendere alla concentrazione delle forze per la distruzione del centro di gravità del nemico. 4 35 Osservatorio quando la flotta nemica non sia stata completamente sconfitta. Prova ne è stata la condotta tenuta dagli americani contro gli spagnoli per la conquista di Cuba (1898), durante la quale la flotta statunitense esitò ad invadere l’isola nel timore di un ipotetico intervento navale nemico. In pratica, diversamente dal Mahan, egli ritiene che il dominio del mare non può mai essere assoluto, giacché nessun livello di superiorità navale può mai impedire sporadici attacchi alle comunicazioni. Però questi, con un accorto “controllo del mare”, non potranno mai seriamente interferire sul traffico marittimo e sull’esito della guerra. Il principio clausewitziano di concentrazione delle forze, così centrale nel pensiero strategico mahaniano, secondo il Corbett non può essere applicato tout-court alla guerra navale, nella quale esso va sapientemente bilanciato con quello della flessibilità, in modo che i vari elementi che compongono la flotta possano, a seconda delle esigenze, riunirsi rapidamente o tenersi divisi a presidio delle varie rotte commerciali. A differenza della guerra terrestre, in mare non è sempre possibile attaccare le forze del nemico, che in qualsiasi momento può decidere di far uscire dal gioco la sua flotta ritirandola in porto: lo scontro decisivo, seppur auspicabile, può essere evitato dall’avversario. Inoltre le flotte, oltre e prima del compito di vincere battaglie, hanno quello di proteggere il commercio. Considerate tali peculiarità, le operazioni navali possono raggrupparsi in tre grandi categorie, a seconda che servano ad assicurare, disputare o esercitare il dominio del mare. Potendo contare su forze navali preponderanti è ovvio che, come sostiene il Mahan, il primo compito da assegnare alla Marina per assicurare il dominio del mare è quello di scovare la flotta nemica e distruggerla. Questo è stato il segreto del successo britannico in mare. Se però l’offensiva principale è terrestre, allora lo sforzo navale deve essere subordinato ai movimenti dell’esercito, e non cercare ad ogni costo lo scontro decisivo. Appare evidente che il Corbett esprime una teoria non tanto alternativa quanto evolutiva rispetto a quella mahaniana, in quanto frutto di una cultura navale superiore, ossia più sviluppata, che ha già vissuto e sperimentato gli sforzi occorrenti alla conservazione del command of the sea, e che ne ricerca ora più efficienti modalità di esercizio. Infatti, qualora non sia possibile costringere il nemico allo scontro oppure il piano di guerra richiede l’immediato controllo delle comunicazioni, sarà conveniente considerare tutte le forme di blocco, sia militari sia commerciali. Con il blocco militare, o navale, si cerca di impedire alla forza armata avversaria di lasciare il porto o di costringere la stessa alla battaglia. Nel primo caso la flotta sarà tenuta a poca distanza dal sorgitore (blocco stretto); nel secondo, le unità saranno allontanate dalla costa (blocco aperto) ad una distanza tale da indurre il nemico ad uscire in mare in tentativo di evasione. Il blocco commerciale ha come obiettivo immediato quello di interrompere ogni commercio nemico e quello ulteriore di costringere la flotta avversaria ad uscire in mare. In tal senso esso è unito, in subordine, ad un blocco navale. Una potenza troppo debole per ottenere il dominio del mare con operazioni offensive, può adottare alcuni metodi per contenderlo attraverso un atteggiamento generalmente difensivo. In mare la difesa consiste essenzialmente nell’evitare lo scontro decisivo tenendo la flotta “in being”, che possa in qualsiasi 36 momento tentare azioni improvvise ed insidiose (contrattacchi minori) per mettere fuori combattimento una parte della flotta avversaria. La possibilità di usare siluri e sommergibili, accompagnata al valore ed alla abilità dei comandanti, aumentano sicuramente le capacità difensive della potenza più debole. Nei metodi per esercitare il dominio del mare si ricomprendono le operazioni che non sono dirette contro la flotta da battaglia nemica, ma servono a difendersi contro l’invasione, ad ostacolare il commercio altrui e difendere il proprio, a proteggere le proprie spedizione oltremare. Nella difesa contro l’invasione l’obiettivo delle operazioni è sempre l’esercito del nemico e non la sua flotta. Tale è stato in ogni occasione il sistema difensivo britannico. L’attacco al traffico commerciale può essere condotto ai terminali di partenza o destinazione, ai punti focali (choke point), o alle principali rotte. I primi due sono più proficui ma richiedono maggiore forza e rischio; l’ultimo è il più incerto ma implica minor sforzo e rischio. Infine, per quanto riguarda le spedizioni, la regola principale per un’azione offensiva è che sia rivolta verso i trasporti e non verso le scorte. Queste devono essere allontanate o contenute ma mai trattate come obiettivo principale. Nell’azione di difesa la squadra di scorta va sempre tenuta compatta e pronta all’azione navale indipendente, come insegna l’episodio di Lissa (1866) nel quale le forze italiane furono sconfitte da quelle austriache perché, quantunque superiori, non designarono una squadra di copertura indipendente per tenere a bada il nemico. CONCLUSIONI Entrambi gli autori oggetto del presente studio hanno avuto Osservatorio il grande merito di far riconoscere dignità scientifica ad un settore del sapere, quale quello della strategia marittima, sino ad allora ristretto nell’ambito della pratica marinaresca, legata a singole circostanze ed ad abilità individuali. Essi hanno dimostrato come, attraverso lo studio sistematico ed analitico dei conflitti navali, sia possibile desumere l’esistenza di principi generali regolanti la guerra in mare universalmente applicabili. Tali principi inquadrati in un sistema concettuale più ampio ed organico, così come avevano intuito per la guerra terrestre lo Jomini ed il Clausewitz, possono condurre alla elaborazione di formule di strategia marittima in grado di ispirare le politiche nazionali. Sia il Mahan con la sua teoria generale del potere marittimo, sia il Corbett con i sui principi di strategia marittima hanno esercitato una grossa influenza sulle potenze dell’epoca, rivelando che esiste un modo corretto per l’esercizio del potere marittimo. Il loro grande merito consiste anche nell’aver illuminato le Marine mondiali sull’importanza dello studio della storia nella formazione degli Ufficiali, sul valore della teoria come guida educativa, sul legame indispensabile dell’attività navale con gli obiettivi della politica. Come si è visto, tra i due studiosi non mancano differenze. Il pensiero del Mahan è più ampio e seducente; quello del Corbett più sofisticato e logico. Il primo individua nella concentrazione delle forze la regola principe della guerra navale e vede nello scontro decisivo la chiave di risoluzione dei problemi strategici. Il secondo non dimentica l’importanza della flessibilità della flotta in funzione dell’esigenza primaria di protezione delle rotte commerciali; evidenzia i limiti che incontra l’azione decisiva nei confronti di un nemico sfuggevole che preferisca mantenere le proprie forze in being; e ritiene il dominio del mare una situazione eccezionale, ove la regola è fornita da un controllo del mare (sea control), temporaneo o locale, finalizzato a garantire la sicurezza delle comunicazioni. Si è detto che dette diversità si possono giustificare in ragione della distinta estrazione culturale degli autori e del differente audience cui si rivolgono. Il Mahan si rivolge ad una società prevalentemente terriera, senza tradizioni marinare, che deve essere convinta circa la necessità della creazione di una grande Marina d’altura, idonea a proteggere gli interessi americani nel mondo. Non bisogna mostrare incertezze, ma proporre un’idea seducente e comprensibile senza sforzo: ecco il potere marittimo! La prova della bontà della formula? Basta guardare all’esperienza della regina dei mari, l’Inghilterra. D’altro canto, il Corbett si indirizza alla platea britannica: un pubblico maturo, che da secoli vive il mare, ne conosce le insidie e sa le difficoltà che si incon- trano per conquistare e mantenere il dominio marittimo. Non occorre convincere dell’importanza del command of the sea, poiché ciò è scontato. Bisogna, invece, ragionare di fino per trovare la regola che permetta di conservare la supremazia navale, con economie di risorse, in un mondo nel quale nuove e vigorose potenze si affacciano ai traffici marittimi. Basta illusioni sul dominio assoluto del mare. La regola è il controllo, limitato nel tempo e nello spazio, delle linee di comunicazione, al fine di assicurare la continuità degli scambi. In tal senso la tesi corbettiana non si può considerare “alternativa” ma “evolutiva” rispetto a quella mahaniana. In conclusione, nonostante i limiti che le teorie esposte incontrano oggi per lo sviluppo tridimensionale (superficiale, sottomarino ed aereo) dell’ambiente marittimo, il Mahan ed il Corbett conserveranno per sempre il pregio di aver identificato le basi del problema della guerra navale, al quale ciascuna epoca deve fornire le sue risposte. BIBLIOGR AFIA J . S . C O R B E T T, A l c u n i P r i n c i p i d i S t r a t e g i a M a r i t t i m a , U f f i c i o S t o r i c o d e l l a M a r i n a M i l i t a r e ( U . S . M . M ) , Roma 1995; J. 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Ecco, questa definizione preliminare vi mostra chiaramente che non si tratta soltanto dello studio dei segnali, che pure sono fondamentali, soprattutto in condizioni di comunicazione conflittuale, e tuttavia che non è altro che una parte di una disciplina generale che tenta di capire come vengono sistematizzati e come procedono, qual è il processo della significazione. Capite quindi che è evidente che siamo interessati alla terminologia diciamo metastrategica, cioè a quali sono i termini che oggi ci consentano di pensare le nostre discipline con un’attenzione particolare alla loro definizione e interdefinizione. La cosa fondamentale che sa un linguista e un semiologo, sapete che sono nello stesso mondo, è che i termini vanno definiti ma soprattutto interdefiniti, ogni termine ha un significato in quanto si oppone per antinomia o si associa per sinonimia ad altri termini; quindi l’attenzione alla verifica della terminologia è centrale per la nostra conoscenza. Vorrei fare quindi, com’è stato detto giustamente oggi una affermazione di una descrizione per me difficilmente accettabile della nozione e della strategia. Sapete che oggi esiste un’esportazione generale del termine come quello di strategia in tutto il mondo della comunicazione, e sentite i risultati che dà per esempio, il dizionario di strategia pubblicato a Parigi presso le università francesi nel 2000, in cui dice: “scienza o arte dell’azione umana finalizzata volontaria e difficile”. Questa è una definizione evidentemente infinitamente povera, che può essere interessante ridefinire, ripensare, perché come quasi tutti i termini tecnici, i termini tecnici appena vengono adottati generalmente da ambienti, dentro cui non sono stati definiti e interdefiniti, hanno tenden- Osservatorio za a perdere alcuni tratti ed assumerne degli altri, mentre le parole comuni, le parole del discorso quotidiano invece sono sottoposte ad un’attività contraria cioè ad una definizione all’interno dei sistemi tecnici. Quindi esiste una specie di interdefinizione delle parole; le parole tecniche prendono valori connotativi all’interno dei discorsi quotidiani, le parole quotidiane spesso le stesse, vengono ridefinite nuovamente all’interno dei discorsi tecnici. Ecco cosa vorrei fare oggi, cioè tentare di vedere se esistono alcuni elementi di questa polisemia, cioè di questa complessità di significazione lessicale, che ci potrebbe aiutare a ridefinire il concetto di strategia. La prima domanda è: com’è stato possibile, soprattutto nel mondo del marketing, arrivare alla definizione “scienza dell’arte dell’azione umana finalizzata volontaria o difficile?” Guardate che questa definizione è ricca di implicazioni, cosa ha perduto e che cosa ha guadagnato? Lasciatemi fare una distinzione preliminare che è stata fatta da una grande filosofa che si chiama Hannah Arendt, la distinzione fra fabbricazione e azione. La fabbricazione non tiene conto di interazione cioè la risposta dell’altro, voi potete fabbricare un oggetto, c’è resistenza dei materiali per fabbricare un oggetto, nel caso dell’azione la vostra azione è interpretata dall’altro e voi dovete tener conto dell’interpretazione dell’altro, e non solo sapendo che anche lui ha un’azione ed una interpretazione, quindi la distinzione che la Arendt fa tra fabbricazione e azione, ci consente di dimostrare abbastanza efficacemente che, quest’idea di scienza dell’azione umana finalizzata volontaria e difficile, è dell’ordine della fabbricazione, cioè tiene scarsamente conto o quasi per nulla dell’altro. In altri termini, pensate per uno che faccia una campagna pubblicitaria, è più portata sulle qualità dell’oggetto da vendere e sulla relazione con il destinatario, cioè con il ricevente, che non sul concorrente, cioè questa definizione fa l’economia della concorrenza, fa l’economia dell’altro e della sua strategia, e questo a mio avviso è molto importante, perché in generale si può così dire nella definizione attuale di strategia come si è diffusa, a partire senza dubbio dal concetto della strategia militare, che è la sua matrice, restano due nozioni fondamentali, che è quella di programmazione e di calcolo che è implicito nel concetto di fabbricazione. Manca invece radicalmente la definizione di azione interdipendente, cioè quello che mi sembra il nocciolo della definizione strategica, qualunque azione che sia obbligata a tenere conto del fatto che sarà interpretata, e che chi gli risponde, cioè quello che verrà e che ha capito la significazione o interpretata in un certo modo, compirà o è suscettibile di compiere o di non compiere, di fare o di omettere un’azione che gli risponda e che sia anch’essa interpretabile. Vedete questa dimensione toglie alla strategia, quella voglio dire di fabbricazione, toglie alla strategia la sfumatura sostanzialmente semantica, cioè conoscenza della azione altrui, dei suoi fini dei suoi progetti, della sua significazione in relazione alla mia, questa idea che la strategia sia eminentemente interlocutoria, ma non nel senso dell’interlocutorio, nel senso della reciprocità e della interdipendenza, si è venuta a perdere nelle definizioni generali della strategia oggi. Oggi si dice strategia nella fabbricazione di un prodotto, per definizione noi diremmo che non è strategia, avremmo strategia quando c’è un concorrente sullo stesso mercato, che tenta di vendere il proprio prodotto o lo stesso prodotto in maniera diversa, mi scuso di questa preliminare definizione che però ritengo necessaria. Questa è la prima osservazione, lasciatemi fare una seconda osservazione che mi sembra di grande importanza, il concetto di strategia può essere definito in maniera sistematica, e così tenteremo di farlo. Il secondo punto invece tocca alla sua definizione storica. Questa distinzione non è una distinzione volontaria, è chiaro che qualunque definizione storica, nel senso che è immersa all’interno dell’evoluzione delle sue definizioni, dico soltanto che le parole sono nello stesso tempo entrate nel dizionario e nei termini, notatelo que- 39 sto dettaglio. Cosa vuol dire che una è entrata in un dizionario, vuol dire che a partire dal dizionario voi potete fare diverse uscite, potete reinterpretare il termine come storicamente è necessario. Nello stesso tempo voi sapete che la parola è un termine, cosa vuol dire, vuol dire che la parola dentro il dizionario è il termine di tutti gli usi potenziali che è stato fatto di questa parola, quindi la parola è nello stesso tempo il termine di tutti gli usi storici che ne sono stati fatti, ma anche un’entrata, un’entrata delle future interpretazioni che non dipendono dalla storicità, ma che dipendono dalla storicità che aprono sulla utilizzazione futura; ritengo molto importante dovendo parlare di termini, sapere che ogni termine è un’entrata oltre che un termine. Bene, se dovessimo però tener conto della dimensione storica io credo che dovremmo tentare, nel contesto che ci caratterizza oggi ma sarà certamente fatto, di mettere a fuoco due punti fondamentali, nessun organismo sia umano che vivente voglio dire, è capace di essere senza definire quello che è, in altri termini è un postulato della semiotica, che qualcuno vive e dice come vive, o pensa a come vive, che qualcuno pratica e definisce la propria pratica. La definizione delle proprie pratiche è costitutiva delle pratiche, quindi è chiaro che ogni termine e anche un meta-termine, cioè un termine che definisce i propri termini. Quando facciamo qualcosa, diciamo chi siamo e come lo facciamo mentre lo siamo e lo facciamo, questa ipotesi è costitutiva, quindi è costitutiva della nozione di strategia, il modo con cui una cultura definisce la propria strategia, definire le proprie strategie è parte della strategia, non è la strategia. Ecco perché non si può ridurre il concetto di strategia alla somma dei suoi usi potenziali, perché ce ne sono degli altri futuri, ma nello stesso tempo il modo con cui lo definiamo, condiziona il modo con cui noi usiamo una strategia. Mi spiace dire queste cose che sembrano tanto logiche, ma ritengo fondamentale dire che i metalinguaggi descrittivi non sono metalinguaggi, perché sono perfor- Osservatorio mativi e influenti sul modo stesso con cui noi descriviamo e pratichiamo. Faccio un esempio subito per non essere troppo astratto, è stato detto prima, l’opposizione tra occidentale e orientale. Per semplificare sapete che Goethe una volta era arrivato a Padova, ha visto il “gincobiloba” che è un delizioso albero tra i più antichi di origine cinese, ha guardato la foglia dell’albero l’ha vista perfettamente simmetrica, ha detto l’oriente e l’occidente, si sbagliava non è simmetrica è fortemente asimmetrica. Di recente uno studio di un amico, di un sinologo, cioè un specialista in sinologia, che si chiama François Jullien che conosce molto bene i lavori di semiotica, ha tentato di mettere a punto quest’idea del trattato dell’efficacia, dove ha opposto alcune categorie della metastrategia occidentale per semplificare molto, e dall’altra parte di una metastrategia orientale. La prima quella occidentale, orientata sull’idea di mezzo fine, ci sono dei fini da ottenere e dei mezzi per raggiungerli, se ci sono dei fini da ottenere attraverso questi mezzi, è necessario costruire un piano di mezzi che realizzi quei fini. Questa tesi evidentemente comporta tutto il platonismo della cultura occidentale. E’ necessario costruire un piano, chi di voi conosce la storia della strategia, certamente meglio di me, ricorda quanto i prussiani hanno organizzato l’occupazione della Francia dal 14 al 18; il piano famoso di occupazione fu corretto infinite volte, poi eseguito. Ecco il concetto fondamentale fortemente platonico, là in realtà si tratta di preparare all’inizio qualcosa che accadrà più o meno bene. Poi arriva Clausewitz e sa che c’è il concetto di attrito, ma il concetto di attrito non è altro che una maniera per correggere implicitamente la relazione platonica tra mezzo e fine, cioè l’idea che tutto sommato le cose vanno realizzate a partire da un progetto preciso. Nell’arte della guerra del Machiavelli, sapete c’è una descrizione famosa di come una volta organizzato perfettamente l’esercito, la battaglia si definisca come “facile macello”, è la parola di Machiavelli, cioè è l’esecuzione in corpore vili di un piano platonico nettamente preparato. Non è così esatto, se prendete e sarebbe molto interessante la rappresentazione del concetto figurativo del concetto di stratagemma, che pone il fonema e l’unità dei suoni, il monema o il morfema è l’unità della forma della lingua, lo stratagema è l’unità dell’organizzazione strategica, troverete che le descrizioni sono molto diverse. Il “Ripa” nel rappresentare che cos’è uno stratagemma mostra un uomo armato con uno scudo, e in quello scudo si vede un serpente e una rana che tiene in bocca una canna. Sapete benissimo cosa vuol dire, il serpente vorrebbe inghiottire la rana, ma la rana si è messa una canna in bocca e il serpente non ce la fa. Il concetto di strategia, di stratagemma quindi, è stato la correzione sistematica come il concetto di attrito della definizione platonica, della relazione mezzo fine. Ritengo questa nozione cruciale, ed è cruciale perché evidentemente ha tendenza a sottovalutare il problema del piano dell’altro, perché l’altro ha lo stesso piano, e quindi il concetto di manipolazione che invece è 40 caratteristico della cultura orientale, che è orientata invece verso il concetto a lungo termine di produzione di effetti, non mezzo fine ma produrre effetti, cioè l’idea di un pensiero, di un’efficacia, di volta in volta sostenuto sui concetti come potenzialità di situazione, di spiegamento dell’efficacia, effetti a lungo termine e così via. E’ evidente che, entro nel dibattito perché credo che Jullien nel suo libro quello che lui chiama la semiologia della sinologia, nel suo libro sul trattato dell’efficacia è stato molto preciso su quest’idea idea, che secondo me è centrale perché ritengo fondamentale, come vi ho detto fin dall’inizio, nella definizione di concetti strategici, l’autodefinizione stessa dei concetti, quindi l’autodefinizione costitutiva delle definizioni. Credo che ormai Sun Tzu sia stato integrato nei manuali correnti della vita dei Marines, quindi non c’è bisogno di tornarci su troppo. Bene, cosa fa la semiotica da questo punto di vista, ecco vorrei tentare di dimostrare perché siamo interessati a questa questione, perché siamo interessati e perché speriamo di trovare, come ho già trovato in questo luogo una rispondenza di interessi, per una ragione molto semplice, se noi siamo interessati alla costruzione della significazione, è perché noi pensiamo che la significazione è fatta di differenze, cioè che nessun termine ha dei significati intrinseci, ma soltanto relazionalmente ad altri termini, l’ho già detto lo ripeto, è il postulato su cui si fonda la linguistica contemporanea. Cioè tutti i comportamenti dotati di significazione sono comportamenti differenziali, bene, non è detto che Osservatorio tutti i comportamenti siano differenziali, sapete cosa vuol dire far la differenza, siano nello stesso tempo comportamenti conflittuali, tuttavia è vero che, per esempio noi riteniamo che per capire la parola bene bisogna capire la parola male, anzi meglio la relazione tra il bene e il male, per capire l’idea di vittoria bisogna capire cosa vuol dire sconfitta, cioè in altri termini l’idea fondamentale della semiotica, è che la significazione è eminentemente contraria, si capisce per contrarietà, e che quindi l’intelligibilità delle azioni è una intelligibilità del conflitto di senso, il senso è conflitto di senso, almeno per la nostra cultura. Ebbene credo che da questo punto di vista, un modello della definizione della significazione sia necessariamente un modello strategico, ma non un modello strategico delle azioni umane, finalizzate volontarie e difficili, ma delle azioni umane in condizioni di differenza e di contrasto, eventualmente di scontro. Ecco dunque l’idea di fondo è che, per capire il significato di un termine dovete pensare a quali termini si oppone, primo, e secondo per capire il significato di un’azione dovete capire a quale controazione essa si offre, so benissimo che ha l’aria molto generica, tuttavia credo che sia un modo per pensare il senso di grande peso. Di qui il tentativo della semiotica di ridefinire alcune nozioni fondamentali, una la nozione di azione, la nozione di competenza, la nozione di mossa, la nozione di manovra, la nozione di conversazione, la nozione di narratività. Non ho il tempo né il modo di svilupparle, tuttavia per esempio è evidente che per noi azione è interferenza su uno stato di cose, ma questa sarebbe una definizione del tipo azione umana finalizzata. Definiremo invece azione significativa, ogni interferenza con uno stato di significazione, in cui in presenza di una possibile contro definizione dell’azione e della sua significazione. Il senso delle azioni si definisce in condizione di conflitto, non di programmazione e di calcolo, che senza dubbio c’e, ciascuna delle due azioni e contro-azioni si definisce come, certa- mente programmata nei suoi fini e calcolata, economizzata, ma fondamentalmente come contro azione, ogni azione è contro-azione, quindi ogni azione è parte di una manovra, ma non di una manovra di programmazione e una manovra di calcolo, ma una manovra che è una contro manovra, comprese le azioni che noi compiamo rispetto alle nostre interpretazioni del significato. Cioè, anche noi quando costruiamo un testo ci mettiamo dal punto di vista di come lo faremo altrimenti, ogni libro contiene il suo anti-libro, ogni azione contiene la sua contro-azione possibile. Questa definizione minima dell’azione, colloca l’azione non all’inizio della strategia, ci fa pensare che la strategia è l’unità fondamentale dei comportamenti dotati di senso, e che l’azione è una delle sue, se oso dire, divisioni elementari. Lasciatemi fare una metafora semplicissima, non esistono le parole, le parole sono invenzioni astratte, esistono i discorsi, poi i discorsi vengono divisi accuratamente e producono un’unità che si chiamano parole, non esistono le azioni esistono solo le mosse, ma le mosse sono in realtà la divisione che noi possiamo costruire a partire da comportamenti strategici e complessi, si comincia con il studiare la strategia, e si arriva alla definizione minima delle mosse a partire dal senso globale della strategia. Mi scuso di dire queste tremende banalità, ma so benissimo che alcuni pensano il contrario, cioè che il linguaggio è fatto di parole che vengono combinate insieme, non è vero, sono testi complessi che vengono articolati in unità e pensano anche che è possibile pensare analiticamente le mosse e combinarle l’una con l’altra, non si ottiene assolutamente niente, bisogna pensare sistemi complessi, storicamente dati empiricamente verificabili, cioè la storia della strategia della guerra, e poi discendere caso per caso dividendole pian piano in unità, è quello che ha fatto per esempio Clausewitz nella sua famosa storia della campagna di Russia, che a mio avviso è più interessante a volte del suo trattato della guerra, almeno da questo punto di vista. 41 Un secondo punto che ci interessa profondamente è il problema di come creare un modello semplice delle competenze all’azione, sapete benissimo che le azioni vengono rappresentate prima di essere prodotte, oppure che vengono in qualche modo prodotte mentre vengono rappresentate, e sapete molto bene che non possono essere fatte, se oso dire con un sapere totale, per la semplice ragione che il sapere dell’altro dovrebbe essere la parte del vostro sapere, questo distingue le azioni dalle fabbricazioni, quando costruite una sequenza interdefinita della presenza dell’altro, in cui il sapere in relazione altrui fa parte del vostro sapere, e in cui voi dovete ottenere che l’azione vostra preveda l’azione dell’altro come propria parte, citiamo a giocare a tennis o giocare a calcio, avere delle strategie interattive, siete obbligati in qualche modo a rappresentarvi il tipo di competenza dell’altro in relazione alla vostra competenza. Noi abbiamo elaborato un modello molto semplice a quattro termini, che tenta di definire la competenza, eccolo qui, riteniamo che sia di profonda utilità operativa tentare di differenziare la competenza dell’altro, così come ce la rappresentiamo in relazione alla nostra, secondo quelli che vengono chiamati una volta i vili verbi modali, detti anche servili, potere, sapere, dovere e volere, cioè che calcolare l’azione dell’altro implica avere delle ipotesi sul suo volere, cioè sui suoi orientamenti sulle sue conoscenze. Di qui l’esistenza come sappiamo della necessità dell’intelligence, naturalmente, il terzo, di quello che lui non può non fare, per i suoi doveri per i suoi obblighi, che possono essere morali, possono essere limitazioni tecniche, limitazioni strategiche, assenze di conoscenza, e evidentemente la sua capacità di potere di calcolo dei poteri. Ritengo che, un calcolo modale così semplice che tenga conto di questi elementi possa dare grandissime valutazioni, capacità di valutazione, come togliere sapere all’altro e come aumentare il proprio, come aumentare le costrizioni dell’altro aumentando le possibilità proprie, come aumentare il morale della truppa, Osservatorio cioè il desiderio e il volere di quelli che stanno con te e diminuire quello dell’altro, scoraggiare l’altro e incoraggiare sé stessi. In altri termini questi termini semplicissimi, un calcolo molto semplice, che ovviamente è di una astrazione ridicola rispetto alla complessità del mondo mi sembra di grande utilità, ritengo che quindi l’integrazione delle azioni rispetto agli altri definisca delle mosse, delle manovre, l’integrazione complessa è il problema di quello che chiamiamo narratività, noi chiamiamo le mosse le contromosse elementi conversazionali, è un modo linguistico per dire che c’è conversione di prospettive, e chiamiamo narrativo l’insieme di mosse e contromosse che due attori competenti, dotati di potere, sapere, volere, differenziali, compiano a volte piuttosto che agire sull’azione dell’altro, potete agire sulla competenza dell’altro, toglierli il sapere, scoraggiarlo, incastrarlo in posizioni in cui non si può muovere e così via. Ritengo che questo modello, è un modello che ci consente nella combinazione delle mosse, di rispondere ad una grande quantità di situazioni concrete. Vengo alle due mosse che mi interessano molto, e che sono già state annunciate dal Comandante Volta. Il problema fondamentale delle azioni è, se torniamo di nuovo al mio tema fondamentale, l’entrata e l’uscita, è “l’open closing”, voi sapete molto bene che per dare intelligibilità ai fenomeni bisogna dire dove cominciano e dove finiscono, allora il problema della delimitazione delle condizioni di conflitto è essenziale. Ritengo fondamentale pensare che esistono morfologie dei conflitti a partire dalla loro definizione, dal loro inizio e dalla loro fine, naturalmente intendiamoci, capisco benissimo che esistono i conflitti endemici, cioè quelli che ci sono sempre stati e che forse non finiranno mai, è un’ipotesi, poi ci sono conflitti che cominciano e poi non finiscono, non riescono a chiuderli, parliamo di casi recenti, abbiamo la possibilità al contrario di conflitti endemici a cui si può porre la fine. Allora il problema che si pone secondo me, è di integrare nella riflessione delle mosse, delle contromosse, della narrativizzazione di queste, due grandi figure semiotiche che sono le figure di segmentazione delle condizioni di conflitto, che sono creatrici di morfologia di conflitti, anziché costruire cioè a priori che cosa sia un conflitto e dare per esempio, la guerra romana, la guerra oplitica è stata citata, la guerra di bande partigiane, la guerriglia eccetera, mi piacerebbe tentare di provare a costruire delle morfologie storicamente definite, a partire dalla presenza e dell’assenza di morfologie definite da azioni interne, sapendo benissimo com’è stato detto, che purtroppo la nebbia della guerra appena scoppia, “riannebbia” le condizioni della propria definizione. E’ possibile volere cominciare una guerra e se l’altro non risponde, sappiamo benissimo la guerra non c’è, è possibile chiudere una guerra quando l’altro non è d’accordo per chiuderla, l’abbiamo visto anche di recente, abbiamo visto il famoso Presidente vestito da aviatore che annunciava la fine di una guerra che non è finita. Quindi l’idea che la segmentazione dei conflitti è performativa, cioè non è soltanto la constatazione di un inizio di una fine, è che decidere un inizio decidere una fine ha senso nella costruzione della significazione del conflitto. Esistono pochi studi di semiotica di questo tipo di forme comunicative, c’è un famoso libro di un filosofo che probabilmente conoscete, Filonenco, che ha scritto un famoso articolo sulle figure della guerra, ma lui studiava cose diverse, studiava i proclami, i proclami di Napoleone, i proclami di Hitler eccetera, mi sembra poco interessante dal punto di vista della costruzione di una morfologia dei conflitti. Attualmente gli studi di semiotica, su cui però non tornerò, si sono orientati in due direzioni, lo studio del concetto di ultimatum, cos’è l’ultimatum? L’amico Bozzo mi diceva che non c’e una grande letteratura sull’argomento, ma sarei molto lieto se invece voi che lo conoscete, se ne potesse discutere, cos’è un ultimatum, allora quali sono le condizioni per farlo. Per esempio, vedete un caso tipico delle situazioni, quali sono le compo- 42 nenti di una situazione, gli attori e le loro relazioni, lo spazio e le sue condizioni, e il tempo e le sue costrizioni. Ogni situazione è definita da attori spazio e tempo, se così è vero l’ultimatum riorganizza la morfologia delle relazioni, stabilendo delle condizioni, per esempio, che noi diremo “modalmente” di necessità, chiunque da un ultimatum costringe l’altro in condizione di non poter fare se non due azioni, o fai questo o no, ti punisco, ma costringe anche se stesso, cioè l’ultimatum è un distributore di modalità deontiche noi diciamo, cioè un distributore di obbligazioni, io vi do un ultimatum e in questo caso voi non avete più scelta, o si o no, io stesso però non ho più scelta perché io stesso mi sono condizionato. Dunque un’azione linguistica come l’ultimatum, ricostruisce la competenza di entrambi gli attori, competenza modale, creando le possibilità di azione differenti. Un mio allievo basco, ha studiato in un libro che mi piacerebbe condividere con voi come informazione, l’ultimatum del governo spagnolo all’ETA, ed è molto divertente vedere che l’ultimatum non è mai un ultimatum è sempre un penultimatum, il penultimatum è costantemente ridefinito dalle risposte, dalle definizioni degli attori, e tiene conto costantemente di un terzo attore di cui noi teniamo pochissimo conto nella strategia, che è l’opinione pubblica, cioè l’attore opinione pubblica a cui tutti si fa riferimento, attraverso i media consente costantemente un terzo effetto. Quindi nella strategia pensata come interazione di due elementi, in realtà bisogna sempre introdurre almeno un terzo, voi sapete quanto complica i calcoli, di un’opinione pubblica influenzabile, non ci ritorno, ma sarebbe profondamente interessante vedere da quando l’ultimatum diventa davvero un ultimatum. Ora l’ultimatum nello stesso tempo è un tentativo di delimitazione della morfologia del conflitto, ma nello stesso tempo, la nebbia della guerra annebbia i suoi confini stessi, l’ultimatum finisce col diventare, perché avete visto che quando Bush ha minacciato Saddam e gli è stato dato un ultimatum, Saddam ha continuato a trat- Osservatorio tare perché, perché non considerava l’ultimatum un ultimatum, paradosso dunque è che, per farsi la guerra bisogna essere d’accordo. La dimensione conflittuale è simultanea alla dimensione contrattuale, la guerra è un luogo in cui conflitto è contratto e il contratto è conflitto, è una banalità lo so allora lasciatemi dare un esempio spero divertente. Vi sarà capitato sicuramente che vi telefona uno scocciatore, voi lo salutate gli dite ciao ciao ma lo scocciatore continua a parlare. Come mai non buttate giù, perché bisogna che dica ciao anche lui, si chiamano paia adiacenti nell’analisi conversazionale, cioè voi non riuscite a buttar giù salvo che, pretestando che state bruciando l’arrosto che la casa sta andando a fuoco, perché c’è comunque necessità di un consenso conflittuale sulla chiusura e sull’apertura. Adesso arriviamo alla questione fondamentale, la resa. Gli studi della resa non sono sufficienti a mio avviso, ho letto molte storie della resa, non troppe, non quante il mio amico Bozzo certamente, però mi interessa moltissimo questa questione, perché nella resa è in questione qualcosa di più, mentre l’ultimatum costituisce l’avversario in un avversario dotato di legittimità, l’ETA diventa legittimità dal momento in cui viene dato l’ultimatum, nel caso della resa siamo al contrario è la perdita di legittimità, guardate che la resa è un momento cruciale che andrebbe più riesaminato attentamente, perché è il gesto costretto non costretto, condizionato incondizionato, di perdita della sovranità, ed è quindi uno dei momenti centrali della chiusura della guerra. Cosa significa? Avete visto perché Bush ha fatto questa straordinaria manifestazione, La ragione era perché in quel momento lui assumeva la sovranità, ma nessuno era li per dargliela, allora ci voleva qualcuno che dicesse si si, d’accordo ciao ciao, bene la co- struzione della questione della sovranità è a mio avviso fondamentale. Siccome non ho più tempo per parlarne, mi dispiace ma spero nella discussione, volevo ricordarvi un quadro straordinario, gli studiosi di storia dell’arte sono sempre impressionati dai quadri di resa, e mi stupisco sempre che non ci siano altrettanti interessi, perché i quadri di vittoria ci sono, ma c’è anche una grande quantità di quadri di resa, e insieme a degli amici abbiamo studiato la rappresentazione della resa, e quella certamente più spettacolare che conoscete tutti per ragione storiche è quella di Breda, la resa di Breda di Velasquez, vi ricorderete c’è il Generale Spinola, che è quello che ha fatto arrendere la città, è un genovese lo sapete, comandava le truppe spagnole, e davanti a lui in condizione di quasi inginocchiamento, ma non troppo c’è il Capo, poi ci sono i soldati, i soldati spagnoli sono organizzati con le loro perfette lance e archibugi, e dall’altra parte gli altri con lance un po’ disordinate, sono quelli che hanno perduto ma con la 43 stessa dignità, il gesto di magnanimità nel momento della resa che cos’è? Sarebbe interessante rifletterlo profondamente, perché non bisogna umiliare l’avversario nella resa, il momento della resa è il momento di passaggio della sovranità, la perdita della sovranità minaccia tutti, non c’è Stato che non sia minacciato all’interno della sovranità, che sia vero o non è vero, che sia morta la patria come si dice oggi in un certo periodo della storia italiana o no, ma l’idea vedete interpretativa, l’idea che ci sia stata l’8 settembre la morte della patria, caso interessantissimo e di segmentazione della storia, attraverso un problema fondamentale che è quello della fine della sovranità, del passaggio di sovranità, come si conserva la sovranità. Ebbene, io trovo che la resa sia molto importante, volevo raccontarvi un dettaglio e su questo chiudo, tutti i soldati sono distratti in questa resa, non so se ve lo ricordate guardano tutti fuori, perché guardano fuori, non stanno affatto guardando i due che si stanno scambiando le chiavi della città, stanno guardando lo spettatore, chiamano gli spettatori, l’opinione pubblica, il terzo, noi, a vedere che cosa sta succedendo, il rischio per tutti gli Stati nella guerra è la resa, e Dio sa se lo sapevano nell’ultima guerra mondiale. Bene il momento di fine della sovranità mi sembra di un’importanza straordinaria, è un dettaglio che però io vi lascio interpretare anche scherzosamente, chi guarda attentamente quel quadro, vedrà sulla destra in un angolo un largo foglio di carta su cui doveva esserci la firma del pittore, non c’è è carta bianca.