Capitolo V 94 5 – ANALISI DI SFONDO: IL COMPARTO BOLOGNESE DELLE MACCHINE AUTOMATICHE 5.1 - Cosa sono le macchine automatiche A questo punto sembra doverosa una precisazione. Bisogna chiarire di cosa si parla quando ci si riferisce alle “macchine automatiche” del comparto bolognese. Diversamente si rischia di confondere e non cogliere le caratteristiche che ci hanno indotto a sceglierlo come oggetto di studio. Terminologi a Per lo Zingarelli una macchina è un “ordigno per applicare una forza motrice a vincere una resistenza e compiere un lavoro utile”. Dall’etimologia impariamo che il termine “macchina” implica il fare o compiere qualcosa, ma anche il crescere e l’aumentare. Sempre lo Zingarelli definisce l’automazione come “alta tecnica che si vale di apparecchi e procedimenti atti a rendere la produzione sempre meno dipendente dal lavoro e dalla valutazione dell’uomo; in modo da risparmiare a questi, fatica fisica ed intellettuale”. Etimologicamente “automa” è ciò che fa ed avviene spontaneamente e anche “macchina che sembra muoversi da sé, quasi abbia vita propria”. Gallino (1988) accredita la paternità del termine automazione al vice presidente della Ford D.G.Herder che l’avrebbe impiegata come contrazione di “produzione automatica”, nel 1944, con riferimento ai primi transfert, vale a dire a quei sistemi di trasporto automatico dei pezzi in lavoro da una stazione operatrice ad un’altra. Da allora la capacità del termine si è allargata a dismisura, man mano che il progresso tecnologico produceva innovazioni. Quest’argomento presenta infinite implicazioni, prime fra tutte le conseguenze sociali. Qui si tratterà solo del concetto di automazione in sé, per chiarirne il significato con cui sarà utilizzato, senza volerne valutare la positività o la negatività che rimanderebbe ad un ampio dibattito. Tra sostenitori e oppositori va chiarito che si tratta, innanzi tutto, di una questione di scelta morale. Vero è che l’argomento e la sua continua ed inimmaginabile evoluzione pongono, anche, il problema dell’adeguamento delle categorie analitiche impiegate per lo studio di tale fenomeno (Mazzette e Fadda 1979). Capitolo V 95 Nel vasto campo dell’industria meccanica, il comparto bolognese di macchine Definizioni automatiche si riferisce alle imprese che producono macchine destinate alla dosatura, al confezionamento e all’imballaggio di altri prodotti. Per semplicità, questo settore è denominato anche packaging (Capecchi e Alaimo, p.192). La semplificazione si rende necessaria per evitare una disquisizione più prettamente tecnica che, qui sarebbe fuori luogo. L’ERVET definisce il comparto delle macchine automatiche per l’imballaggio e il confezionamento come l’insieme di quelle imprese che producono macchine automatiche in grado di determinare la forma finale di un prodotto, di dosarlo, di suddividerlo nelle confezioni singole ed, infine, di imballarlo in formati di grande dimensione, adatti ad essere immagazzinati e/o trasportati. Sono inclusi i produttori di macchine per l’imbottigliamento. Si tiene conto, inoltre, della produzione di alcune macchine accessorie, come i nastri trasportatori. Anche l’ISTAT parla di macchine automatiche utilizzate per la dosatura, il confezionamento e l’imballaggio. Vengono identificate, così, tre fasi: la dosatura o il condizionamento che ha il compito di inserire il prodotto appena trasformato in un contenitore, il confezionamento che avviene in fasi successive (tea, filtro, bustina, scatola, cellophane) e l’imballaggio che comprende l’incartonatura per il trasporto e l’immagazzinamento in grandi quantità. A ciascuna corrispondono tecniche diverse: ad esempio la chiusura con filo metallico o l’avvolgimento con film flessibile, l’ordinamento orizzontale o verticale, l’inscatolamento mediante cartone, cartoncino o banda stagnata. A queste differenze dei prodotti, delle fasi produttive e tecniche, si aggiungono le richieste specifiche delle singole aziende utilizzatrici: caramelle a fiocco doppio, singolo, o a cestello, confezionate singolarmente, in stick, oppure in pacchetti duri o flosci. Per dare un’idea di cosa significa, in termini concreti, il packaging, bisogna dire che il suo impiego ha rivoluzionato le tecniche di vendita, in quanto il confezionamento sostituisce la vendita sfusa di prodotti, garantendo la trasportabilità, la quantità e l’asetticità degli stessi; in poche parole ha consentito il self-service. C’è, quindi, un’interazione molto forte tra le esigenze industriali, le richieste del In concreto Capitolo V 96 consumatore finale e il packaging. Quest’ultimo consente, infatti, la diffusione di nuove produzioni pensate, realizzate e vendute solo perché esiste questa tecnologia. Si può dire, quindi, che si va ben oltre alla semplice necessità di produzioni di massa. Il La domanda, in questo mercato, è estremamente differenziata. L’offerta delle aziende produttrici di macchine per il packaging si muove in un regime di concorrenza che non è soltanto sui prezzi, ma anche, e soprattutto, sulla capacità di soddisfare le esigenze, variabili, dei clienti. Le prestazioni che assumono maggior rilevanza sono: la velocità, l’efficacia dei controlli di qualità e di igiene sul prodotto, il suo trattamento e la compattezza (minor ingombro a parità di operazioni, o più operazioni svolte dalla stessa macchina). La differenziazione non implica, necessariamente, rivoluzioni tecnologiche delle macchine. Nella maggior parte dei casi, la diversificazione della domanda porta solo ad un allargamento dell’applicazione di principi già consolidati. Pur non mancando le innovazioni di rilievo, che fanno parlare di macchine tradizionali a “movimento alternato” e macchine a “movimento continuo”, la differenziazione è avvenuta mediante una costante evoluzione delle macchine esistenti. Da questi adattamenti risultano, più raramente, innovazioni molto significative. Le due culture, del miglioramento e dell’innovazione, spesso, coesistono all’interno della stessa azienda, in quanto la scelta dipende dal tipo di operazioni che la macchina deve compiere e dalle esigenze del cliente. Questa relativa compattezza della tecnologia del comparto ha consentito una circolazione di uomini e informazioni tra più aziende, a dispetto di qualche occasionale velleità di riservatezza, favorendo la proliferazione di imprese nello stesso settore. Fino ad una certa epoca, la competenza in materia era determinata più dall’esperienza sul campo che non dagli studi effettuati. In altre parole non c’era la necessità inderogabile della presenza di ingegneri che svolgessero particolari calcoli e progetti. Di quando in quando, in caso di bisogno, ci si rivolgeva a consulenti esterni, all’Istituto Aldini Valeriani o all’università. La tecnologia progrediva a partire dai risultati di un continuo processo di prova ed errore. Capitolo V 97 La variabile discriminante è sempre stata la risoluzione dei problemi posti dai Flessibili committenti. Questo fatto ha portato allo sviluppo della flessibilità come una condizione imposta, più che scelta. "Il paradigma della flessibilità tende a caratterizzare non solo, o non tanto, un sistema di produzione, ma in primo luogo descrive e definisce un obiettivo di un sistema organizzativo e, ancora più in generale, il "sistema sociale”. (…) Quando si parla di flessibilità, ancora oggi, si intende, spesso, soltanto un processo di adattamento dell'uomo alla macchina, di subordinazione delle esigenze dell'uomo alle esigenze della produzione. Ma la domanda di flessibilità proviene anche dall'uomo, non si tratta soltanto della possibilità dell'adattamento della macchina alle esigenze umane, sempre meno standardizzate, ma anche della possibilità di fornire una prestazione di lavoro meno rigida nei ritmi e negli orari, meno limitata nella durata delle fasi e più varia e stimolante nella qualità, di tollerare un minimo di degrado di prestazioni l'insorgere di fattori di disturbo, compresi quelli relativi ai comportamenti umani." (De Vita 1990, p.104) La gestione di macchine “personalizzate” contraddice la standardizzazione sempre perseguita dall’industrializzazione e dalla produzione in serie. Questo pone non pochi problemi di organizzazione del lavoro e di gestione amministrativa, in un regime di produzioni per commesse1. La stessa macchina è suddivisa in parti. Una prima serie di gruppi, diciamo “di moto”, trasferiscono il movimento motore alle zone di trattamento del prodotto. Ci sono poi i gruppi “di macchina” che trattano il prodotto. Questi sono fissi come i precedenti, cioè non cambiano al mutare del prodotto. Abbiamo, infine, i gruppi “a formato”, i quali variano per prodotto e per cliente. Nella prima serie troviamo particolari organi chiamati camme, o ruote a zeta, che traducono il movimento rotatorio in diversi movimenti, mediante cinematismi e leva di vario tipo. Le camme seguono le “leggi di moto” (spazio/tempo) in relazione al tipo di traiettoria che si 1 La lavorazione per commessa è una produzione in serie di un numero limitato di prodotti. Nel nostro caso solo di un certo numero di macchine. Per esempio una commessa nel settore tabacco può variare da una quantità di sei ad una di 12 macchine. Descrizion e Capitolo V 98 vuole dare al movimento, in funzione del trattamento del prodotto. La velocità, le accelerazioni e gli impatti degli organi di macchina sui prodotti sono da calcolare, spesso, di volta in volta. Si pensi, ad esempio, alle differenze di trattamento che esigono prodotti con una diversa consistenza quali cioccolatini, sigarette, caramelle, saponette, carta, dadi da brodo, bottiglie, ecc. A questo si aggiungano differenze quali caramelle ripiene o no, bottiglie in vetro o di plastica, saponette ovali o rettangolari, ecc. Ci sono anche gruppi opzionali che rispondono a particolari “specifiche” ed occasionali esigenze. Ad esempio l’inserimento di coupons all’interno delle confezioni, l’impiego di determinati materiali per l’imballaggio (come la stagnola aromatizzata al mentolo per le sigarette) o, addirittura, differenze di qualità e formato degli stessi materiali impiegati, a seconda delle forniture diverse nei diversi Paesi utilizzatori. E ancora: “bollini” antifalsificazione, controlli e prelievi statistici, stampa di dati e numerazioni e originali forme di incarto. Una considerazione La particolarità delle condizioni in cui si trovano ad agire le aziende che operano in questo settore ne ha determinato le peculiari caratteristiche. Questo punto è stato fondamentale nel suscitare il nostro interesse rispetto al tema trattato. Pur essendo un settore industriale a tutti gli effetti, le esigenze di mercato ne fanno un settore che deve mantenere caratteristiche artigianali. Al di là della ricerca o dell’imposizione di modelli di industrializzazione considerati superiori, il comparto delle macchine automatiche si è costruito, ed è cresciuto, fuori da schemi precostituiti di derivazione esclusivamente accademica o scientifica. Pur senza rifiutarli, ma anzi, probabilmente, inseguendoli, le imprese si sono sempre trovate, salvo qualche eccezione, nella condizione di dover essere orientate alla risoluzione di problemi specifici imposti dal cliente. Tale risultato nasce dalla combinazione tra “orientamento al prodotto”, nel senso di perfezione tecnica artigianale, l’ineludibile “orientamento al mercato” e alla “soddisfazione del cliente”. Fa eccezione, a quanto detto finora, la ditta svedese Tetrapack, la quale, avendo brevettato un tipo particolare di contenitore, vende le macchine per il suo confezionamento assieme all’uso del marchio, agendo, così, in un parziale monopolio. Capitolo V 99 L’instabilità dei mercati e il continuo mutamento della domanda, in relazione alle esigenze dei diversi paesi committenti, fanno sì che questo settore debba essere, per necessità, estremamente dinamico. Tale dinamicità si riflette anche all’interno: l’esperienza determina la competenza, ma la circolazione continua delle risorse umane da un’azienda all’altra sembra suggerire che l’esperienza ha bisogno di diversificarsi e che la competenza, per affinarsi, deve misurarsi con situazioni sconosciute. L’introduzione dell’elettronica e dell’informatica non ha provocato cambiamenti rilevanti come in altri settori. I miglioramenti, per quanto notevoli, si riferiscono a zone circoscritte di una macchina che resta, fondamentalmente, meccanica. I progressi fatti nella “qualità”, nella sicurezza e nell’automazione delle alimentazioni di supporto alla macchina, inoltre, non sono sempre vendibili a tutti i clienti. Un paese del terzo mondo ha legislazioni meno restrittive di quelle di un paese industrializzato, per cui le aziende di quel paese richiedono prestazioni e costi inferiori. Gli acquirenti indiani, generalmente, non acquistano i caricamenti automatici delle macchine, perché l’impiego della mano d’opera a basso costo risulta economicamente, e socialmente, più conveniente. I paesi industrializzati, invece, acquistano “linee” di produzione completamente automatiche in tutte le fasi, creando una domanda di mercato a cui possono rispondere più fornitori. La competizione, dunque, si riferisce, ancora oggi, a miglioramenti parziali, ma continui e “personalizzati”. Il miglioramento viene così a coincidere con l’adattamento alle esigenze della clientela. Per dare un idea della velocità di produzione si dirà che una macchina tradizionale per il confezionamento, per esempio di blister farmaceutici, produce 150-200 pezzi al minuto, mentre quella “in continuo” ne fa 400.Di recente, sembra si sia arrivati addirittura a 600 pezzi al minuto. Una linea per il confezionamento delle sigarette produce 12000-15000 sigarette al minuto, per 600 pacchetti e 120 stecche. L’ultima generazione arriverà a 700 pacchetti al minuto. Le caramelle viaggiano a 1600 pezzi al minuto; il tea a 2000 bustine. Evoluzione Capitolo V 100 Tra le caratteristiche significative di questo comparto va ricordato lo sviluppo di relazioni sindacali “anomale”, rispetto ad altri settori industriali, tali da essere il primo modello di “concertazione”. In modo particolare, l’accordo interno della GD, nel 1989, si occupava, anche, di organizzazione del lavoro a gruppi, di tempi attraversamento, ecc. (Marchisio e FIOM CGIL 1990). Un altro esempio riguarda lo scottante tema delle “35 ore” già sperimentate in alcune aziende bolognesi precorritrici, grazie alla contrattazione interna. La crescita delle aziende aumenta la “burocratizzazione” che può allontanare Quale modello quei fattori che più hanno contribuito all’evoluzione del comparto. La tentazione di rifarsi a modelli industriali, già affermatisi in altri contesti, è forte. Più coraggioso sarebbe capire effettivamente il successo del proprio funzionamento, fino a formulare un modello e poterne progettare gli sviluppi. La ricerca è, sicuramente, più dispendiosa e coinvolge in prima persona. L’incertezza derivante dal mettersi in gioco col continuo cambiamento, cosa che peraltro è accaduta finora, potrebbe far preferire l’acquisto di esperienze altrui. Il rischio permane anche in questo caso, in quanto ciò che è estraneo applicato a quello che non si conosce ancora troppo bene, potrebbe costare caro: i meccanismi relazionali che, pare, siano stati il fattore maggiormente rilevante per il successo del comparto potrebbero incepparsi. La storia insegna che l’estrema chiusura porta, nel lungo periodo, all’annientamento, come è successo al distretto serico bolognese2; ma il non salvaguardare la propria identità nel confronto con gli altri crea dipendenza. L’orientamento all’apertura appare inderogabile, ma deve essere bilanciato dalla profonda conoscenza delle proprie radici. Solo così è possibile una trasformazione senza troppi rischi, potendo rinunciare anche a qualcosa, nella consapevolezza del proprio, sacrosanto, diritto alla differenza. C’è il bisogno di ampliare la logica economica ad un’economia più vasta, che metta al primo posto della borsa valori il benessere dell'uomo. Accanto alle aziende vendute a “multinazionali”, c’è anche chi, invece, sceglie di non cedere a 2 Ci si riferisce alla fine del distretto della seta nel XVI° secolo. Si veda al proposito il 3.6 a p.68-69. Capitolo V 101 tale logica dominante, come Dario Rossi, proprietario della azienda a conduzione familiare Ebano, che con 250 dipendenti esporta lucido da scarpe in mezzo mondo. 5.2 - Descrizione della popolazione da cui viene tratto il caso3 5.2.1 – Struttura e caratteristiche L’industria italiana delle macchine per il confezionamento e l’imballaggio è formata da circa 250 aziende4 con dimensioni industriali, cui si aggiungono un centinaio di unità produttive con caratteristiche artigianali. Le aziende sono localizzate per oltre l’80% in Emilia Romagna (dove c’è la maggiore concentrazione di settore al mondo) e in Lombardia. Bologna è la capitale di quella che, oramai, è 5 soprannominata Packaging Valley . Giappone e Stati Uniti sono i maggiori produttori del settore, ma Germania e Italia coprono oltre il 60% del commercio internazionale delle “macchine vendute in un Paese diverso da quello di produzione”. Per questo motivo i due Paesi extraeuropei ed altri centri di ricerca stranieri stanno studiando, da tempo, l’eccellenza della gestione aziendale italiana in questo campo. Una peculiarità bolognese è la convivenza di grandi gruppi integrati e di piccole e medie imprese super specializzate. In ognuno dei principali segmenti produttivi (dosatura, confezionamento e imballaggio) il 75% delle aziende detiene fino al 50% delle quote di produzione, lasciando il resto a una miriade di aziende minori. La maggiore originalità della produzione italiana consiste nella realizzazione di macchine “su misura” alle esigenze del cliente. Si tratta di un vero e proprio prét a porter della meccanica strumentale. Per questo motivo solo il 40% degli addetti è impiegato direttamente nella produzione, mentre il restante 60% si divide nella progettazione, sperimentazione, controllo qualità e analisi clienti. Il risultato è che le esportazioni raggiungono ben 150 Paesi diversi nel mondo, in tutti i continenti. 3 Tutto il paragrafo è stato scritto facendo riferimento ai rapporti UCIMA (Unione costruttori italiani macchine automatiche per il confezionamento e l’imballaggio) delle assemblee ordinarie dei soci tenutesi il 23 giugno 1994 e il 18 giugno 1997, nonché del rapporto Ervet del gennaio 1993 4 Nella precedente assemblea il rapporto riportava la presenza di circa 200 aziende. Packaging Valley Capitolo V 102 5.2.2 – L’andamento del settore nazionale Dopo la straordinaria crescita del 1993-95, l’industria italiana del packaging ha chiuso il 1996 con un aumento sia del fatturato (10,5%), sia delle esportazioni (oltre il 13%), registrando un attivo record nella bilancia commerciale, superiore ai 3.200 miliardi di lire. Il numero di addetti è in crescita: dalle 14.000 persone del ’94, alle 15.000 del ’95, fino alle 16.000 del 1996. Se si tiene conto di tutto l’indotto produttivo e della subfornitura si può calcolare un’occupazione complessiva di oltre Gli investimenti 40.000 addetti, 10.000 in più rispetto al 1990. L’impennata gli investimenti nel 1995 (+28,6% rispetto al 1994) è imputabile agli effetti delle agevolazioni contenute nella “Legge Tremonti”. Decaduta tale legge, il 1996 ha segnato un calo dello 7,8% rispetto agli investimenti dell’anno precedente, restando, però, al livello degli anni “buoni”: 70.000 milioni di lire nel 1994, 83.000 nel ’96. L’indice investimenti/fatturato del 2% resta elevato confronto alla media dell’industria italiana, la quale ha risentito allo stesso modo della flessione del “dopo Tremonti”. L’aumento delle esportazioni (13,2%) ha superato del 50% quelli del 1993, realizzando l’85,6% del fatturato complessivo. Per la prima volta dal 1984 si è verificato un calo delle importazioni (-2,9%), in linea con la flessione del mercato interno (-3,1%). Il grado di penetrazione dei prodotti esteri resta sui valori dell’anno precedente (37,5%). Nel 1996 la ragione di scambio, data dal rapporto fra lire/Kg esportate ed importate, pur restando negativa, migliora leggermente: il divario tra i due valori medi passa da 0,82 a 0,87. Con riguardo alle diverse tipologie produttive, l’Ervet dice che si può affermare che quasi tutte le categorie merceologiche del settore risultano fortemente specializzate, perché presentano un indicatore superiore allo 0,5%. 5 L’espressione fa il verso alla Silicon Valley degli Stati Uniti dove c’è la massima concentrazione della produzione di componenti per computer. Il termine packaging (imballaggio) è comprensivo delle fasi di dosatura e confezionamento precedenti quella dell’imballaggio vero e proprio. Capitolo V 103 5.2.3 – I censimenti dell’Emilia Romagna Nell’indagine censuaria ell’Ervet nel 1991 sono presenti, in Emilia Romagna, 241 imprese del settore in questione. Il 30% risiede nella provincia di Bologna e anche le tre aziende di maggiore dimensione. L’occupazione complessiva è di 13.204 Un unità. La struttura produttiva si caratterizza per la piccola e la piccolissima quadro generale dimensione: il 30% delle imprese ha meno di 10 addetti e l’82,2% non supera i 50. Solo sei aziende (2,5%) superano i 500 dipendenti. Dal 1984 al 1991 il peso delle aziende con meno di 10 dipendenti è cresciuto dell’8,8%; le imprese con 21-50 occupati hanno “tenuto”, mentre in tutte le altre classi si è registrato una diminuzione. Se ne deduce una crescita delle imprese “di supporto” alle industrie già affermate sul mercato. La dimensione media in termini di addetti (54,7%), pur essendo aumentata leggermente nel triennio 1989-91, è ancora inferiore a quella registrata nel 1984 (70,8 lavoratori). Per 1991 si è stimato un fatturato complessivo del comparto regionale di quasi tremila miliardi, con una crescita del volume di affari del 117% rispetto all’84. Il fatturato medio per azienda è di quasi otto miliardi. Nella fascia di imprese con 51-500 addetti la crescita è stata molto forte (54%-60%); quasi nulla in quelle con 11-20 lavoratori. Il 40% del fatturato totale lo si deve alle imprese con più di 500 addetti; quelle con meno di 50 dipendenti non superano il 25%. Nel 1984 questo divario era maggiore: 43% contro 21%. Il fatturato per addetto è di circa 222 milioni. Il valore più basso si ha nelle imprese con 11-20 addetti (194,9 milioni); quello più alto in quelle con 21-50 lavoratori (228,9 milioni). La seconda metà degli anni ottanta ha visto un incremento del fatturato per addetto a valori costanti in tutte le fasce tranne quella con 11-20 dipendenti. La crescita più pronunciata è stata quella delle imprese con 151-500 lavoratori. 5.2.3.1 – La localizzazione Il 9% delle aziende attualmente attive nel comparto sono sorte prima del 1950; un quarto tra il ’50 e il ‘60, il 34% negli anni settanta e il rimanente 31% nel decennio ‘80-‘90. La dimensione media delle imprese in termini di addetti per generazione decresce man mano che la data di costituzione si avvicina ai giorni Capitolo V 104 nostri. Questo fatto riflette i vantaggi concorrenziali delle imprese più antiche e l’assenza di entrate recenti da parte di imprese di grosse dimensioni. La distribuzione geografica vede il 41,8% delle imprese nella provincia di Bologna, dove sono concentrate le imprese di maggiori dimensioni. Quattro aziende hanno più di 500 dipendenti e, in generale, qui la dimensione media è più elevata che nel resto della regione. Dal 1989 al 1991 la dimensione media è aumentata in tutta la regione, ma, rispetto al 1984, l’aumento ha riguardato solo Ferrara e Modena, mentre nelle altre province si è registrato un calo. Questi dati si riflettono nella struttura dimensionale in termini di fatturato. In ciascuna provincia vi è stato, rispetto al 1984, un aumento del volume di affari, sia a valori correnti sia a valori costanti. Nella seconda metà degli anni ottanta, il fatturato per addetto, che può essere considerato, con qualche cautela, indicatore di efficienza e produttività, è aumentato in tutte le province, sia quello a valori costanti sia quello a valori correnti. Il calcolo degli indici di concentrazione della struttura industriale del comparto regionale mostra come un insieme di imprese di dimensione medio-grande sia contrapposta ad un numero elevato di imprese di piccole dimensioni. La quota percentuale dell’azienda leader sul totale dell’occupazione era, nel 1991, pari al 14,5% (15% in termini di fatturato). Le prime quattro imprese contavano per il 40% (42,9% sul fatturato totale) e le prime otto per il 50% (55,3% come fatturato). Rispetto al 1984 gli indici di concentrazione sono lievemente calati. 5.2.3.2 – Gli assetti proprietari e lo “stile di gestione” Nell’area bolognese ci sono cinque grandi gruppi d’aziende produttrici di I gruppi industriali macchine automatiche: SASIB (appartenente a sua volta al gruppo CIR di De Benedetti), IMA, Martelli, Marchesini e GD, il maggiore per concentrazione di addetti. All’interno di questi gruppi troviamo aziende specializzate nella vendita e nell'assistenza ai clienti, aziende di servizio alle consorelle, aziende complementari che producono altri pezzi della stessa linea, aziende con produzioni differenti, fino ad agenzie finanziarie ed immobiliari. Capitolo V 105 Alla fine del 1992 circa un quarto delle aziende del comparto emilianoromagnolo faceva parte di un gruppo. Ne sono stati individuati 37, fra i quali cinque con capogruppo straniero. Il resto delle imprese ha dichiarato di essere giuridicamente autonomo. In realtà le imprese collegate ad altre, tramite l’assetto proprietario, sono più numerose: spesso la stessa famiglia ne possiede più di una, magari dello stesso comparto, ma sono tenute giuridicamente separate. La conduzione delle imprese è, per lo più, di tipo familiare fino ai 150 dipendenti. La struttura organizzativa è, normalmente, di tipo elementare o funzionale e la gestione è orientata, soprattutto, agli aspetti tecnici e produttivi. La commercializzazione viene, spesso, delegata a società esterne. Gli aspetti amministrativi sono curati solo in relazione agli obblighi fiscali e legali. Gli imprenditori del settore appaiono, generalmente, piuttosto deboli in campo economico e gestionale, mentre possiedono ottime capacità sul terreno tecnico produttivo. Alcune aziende, per lo più di recente costituzione e per la maggior parte localizzate a Parma e Modena, vengono gestite con criteri più evoluti. Sono aziende molto specializzate, oppure più simili ad imprese di servizi (engineering) che a realtà industriali e mostrano un forte decentramento delle funzioni produttive. Queste aziende curano moltissimo l’immagine (dinamismo, avanguardia tecnologica, massima disponibilità verso il cliente, assistenza post-vendita), concentrandosi più sul mercato che sugli aspetti produttivi. Per queste imprese l’influenza dei titolari nella gestione è meno accentuata e ciò è confermato dalla presenza, in posizioni dirigenziali, di persone al di fuori dell’assetto proprietario. La tipologia delle imprese con più di 150 addetti, di norma, è diversa dalla precedente. La quasi totalità delle aziende è gestita in maniera manageriale, ma è possibile imbattersi in curiose situazioni di organizzazione “patriarcale”. Queste sono guidate da anziani imprenditori carismatici, sicuramente “geniali” nelle loro competenze tecniche, che sono stati capaci di costruire, e mantenere nel tempo, una nicchia di mercato di cui, ancora oggi, detengono il monopolio. Le più evolute Capitolo V 106 La costituzione delle imprese rispecchia, nella maggior parte dei casi, una sorta di meccanismo di filiazione. La trasmissione dell’azienda ai figli è prevalente: nel 45% dei casi si è verificata, o è auspicata dal titolare. Durante gli anni ottanta le maggiori imprese del settore hanno acquisito diverse aziende, italiane ed estere. Alcune piccole e medie imprese emiliane sono così entrate a far parte di gruppi di grandi dimensioni, cambiando completamente le proprie prospettive competitive. Le imprese acquisite presentavano, in genere, sia difficoltà finanziarie, causate dalla forte crescita imprevista degli anni precedenti, sia difficoltà gestionali, dovute alla scarsa competenza commerciale, amministrativa ed organizzativa, degli imprenditori. Dopo l’acquisizione, i precedenti titolari difficilmente sono rimasti in azienda con cariche dirigenziali, e le procedure amministrative, quelle organizzative e la gestione commerciale, sono state importate dall’impresa capogruppo. Nel caso delle funzioni tecniche e di progettazione si è, in genere, mantenuto il personale già esistente. L’impressione generale è che l’azienda capogruppo abbia mantenuto il controllo di gran parte delle funzioni aziendali, lasciando alle “controllate” la gestione del livello operativo, che include attività più qualificate come la progettazione e la ricerca di nuove soluzioni produttive. 5.2.3.3 – La subfornitura Il ricorso alla subfornitura e all’esternalizzazione di molte delle funzioni produttive resta una caratteristica del comparto regionale. Qualche azienda tende a riportare al proprio interno alcune funzioni che, negli anni di maggior espansione, erano state totalmente decentrate. Il decentramento è molto elevato nelle lavorazioni meccaniche e nella produzione di componenti costruite su specifica. Lo sviluppo della parte elettronica è affidato per il 37% a società esterne specializzate. Nella metà degli anni ottanta tale percentuale era più elevata (48%). Questo calo può essere spiegato dal fatto che buona parte delle aziende ha sviluppato, nel tempo, un discreto know-how in campo elettronico, colmando una delle lacune del comparto rilevata nel precedente rapporto Ervet. Il ricorso al decentramento nelle funzioni di progettazione, assemblaggio, collaudo e commercializzazione, è invece più elevato Capitolo V 107 rispetto al 1985, ma non supera mai, per il complesso del campione, il 20%. Il numero medio di subfornitori utilizzati dalle imprese del campione è elevatissimo: 77. Si va da un minimo di tre ad un massimo di 300, in modo proporzionale alle dimensioni delle imprese, ma il numero maggiore (130) è nella fascia con 51-150 dipendenti. I subfornitori sono in gran parte localizzati nella provincia (80%); solo il 5% risiede fuori regione. La valutazione di tale rete regionale non è unanime. Le aziende minori la ritengono un vantaggio fondamentale per il loro successo, data l’elevata qualità, qualifica, esperienza e cultura che esprime. Altre, proprio per la presenza di numerosi committenti, ritengono la rete di subfornitura svantaggiosa economicamente, e si rivolgono fuori regione dove, a parità di qualità del lavoro, sono richieste remunerazioni minori. I committenti, normalmente, sono più di uno e non mutano frequentemente, indicando la prevalenza di rapporti continuativi nel tempo, basati sulla reciproca fiducia e collaborazione. Più della metà di loro ha dichiarato di ricorrere alla subfornitura per sfruttare quelle competenze di cui non sono in possesso. 5.2.3.4 – L’innovazione tecnologica La dimensione media dei lotti di produzione è di otto macchine e cresce all’aumentare della dimensione aziendale. Il prodotto è poco standardizzato. La percentuale del costo primo di fabbricazione imputabile a parti standardizzate, comuni a tutte le macchine, rispetto al costo totale di una macchina tipo, è del 37%. Non sembra esserci relazione tra standardizzazione del prodotto e dimensione aziendale. Si registra una notevole diffusione di macchinari per la produzione molto avanzati. Le intenzioni dichiarate sono quelle di aumentarla ulteriormente. La media delle spese in ricerca e sviluppo si aggira attorno al 6% del fatturato. Non sembrano esistere laboratori specifici. L’innovazione avviene “sul campo”, tramite la collaborazione fra progettisti, tecnici di produzione e uomini del marketing. L’attività di ricerca è testimoniata dal numero di brevetti posseduti dalle imprese del campione. Il 68% delle aziende ha affermato di essere in possesso di più brevetti, il 14% ne possiede uno solo, mentre il restante 18% non ne possiede affatto per precisa La valutazione Capitolo V 108 scelta aziendale. Alcune imprese hanno sottolineato, infatti, che il possesso di brevetti, nel comparto in esame, non tutela dall’imitazione e serve solamente a divulgare informazioni presso i concorrenti. Solo il 14% delle imprese ha ceduto o acquistato brevetti. Le cessioni sono state dirette verso imprese a bassa tecnologia, sia italiane, sia straniere, che si rivolgono, per lo più, a mercati del Terzo Mondo. L’ASTER (Associazione per lo sviluppo tecnologico dell’Emilia Romagna) ha comunicato su “Il Resto del Carlino” del 28 febbraio 1998 che, se si prende come indicatore il numero di brevetti europei depositati negli ultimi venti anni, la GD S.p.A. di Bologna è l’azienda più innovativa della regione con 101 brevetti, di cui 90 fra il ’93 e l’inizio del ’97 Seconda è un’altra bolognese, la SASIB con 76. Dopo la Barilla di Parma (56) troviamo un’altra bolognese, l’ACMA (gruppo GD), quarta con 53 brevetti. La Ferrari è solo quindicesima con 21 brevetti europei. Nel ’96 l’Emilia Romagna ha superato il Piemonte, collocandosi, con 2.752 invenzioni, al secondo posto dietro la Lombardia. Nella classifica ASTER compaiono 21 imprese di cui la metà sono bolognesi. Tra quelle del comparto in esame troviamo la Marposs settima, con 32 brevetti, e l’IMA ottava, con 28. Come già era stato notato nel 1985, l’indirizzo innovativo prevalente nel comparto è legato all’introduzione dell’elettronica. Accanto ad esso assumono rilevanza anche altri due ambiti: la standardizzazione dei componenti e l’impiego di materiali sostitutivi. L’enfasi sulla standardizzazione indica una nuova concezione del prodotto, valorizzato meno per la sua unicità e più per la sua modularità; ciò consente economie di costo e di tempo, mantenendo la “personalizzazione”. L’uso di nuovi materiali ha due scopi: il miglioramento della qualità delle prestazioni della macchina e l’idoneità alle nuove esigenze anti-inquinamento e di smaltimento rifiuti. Materiali più leggeri e resistenti consentono maggiori velocità con il minimo di usura, anche a temperature critiche. Il minore sfregamento diminuisce il rischio di inglobare particelle metalliche estranee al prodotto da confezionare. La maggior parte delle imprese ha affermato che l'innovazione del prodotto ha allargato i propri mercati, consentendo l'introduzione di nuove macchine e il rinnovamento di quelle tradizionali. Il 68% delle aziende ha applicato nuove tecnologie per la realizzazione Capitolo V 109 dei nuovi prodotti, affiancandole a quelle vecchie. L’innovazione nasce dalla collaborazione coi clienti, i quali stimolano i loro fornitori con nuove esigenze. Ci sono casi di grosse multinazionali che hanno messo a disposizione, addirittura, laboratori e uomini. Dall’ottobre 1992 è attivato il progetto PUMA (Progetto Unificato Macchine Automatiche) nell’ambito delle iniziative supportate dal Polo Scientifico e Progetto PUMA Tecnologico dell’Emilia Romagna. Questo progetto è gestito da un consorzio creato da quattro fra le maggiori imprese del comparto (IMA, GD, ICA e Cassoli) e dall’università di Bologna. L’obiettivo è realizzare macchine programmabili e flessibili, in grado di autoconfigurarsi automaticamente in base al prodotto da trattare, utilizzando materiali diversi da quelli tradizionali. Questo progetto segna una svolta importante per la ricerca e l’innovazione, perché prefigura nuovi “schemi di macchina” fatti da sottosistemi integrati e modulari. Fondamentale sarà il ruolo che assumerà la parte elettronica. Questa, finora, era servita ad integrare le parti meccaniche con il monitoraggio mediante controlli, segnali, fornitura ed elaborazione dei dati, arresti, sicurezze, ecc.; ora si propone di semplificare la catena cinematica che distribuisce i movimenti alle varie parti della macchina. L’unico, grosso, motore centrale verrebbe sostituito da tanti, più piccoli e ognuno su un asse di moto, tutti comandati e regolati da un elaboratore che gestisce i diversi movimenti. La flessibilità di una macchina così strutturata sembra andare incontro ai problemi di instabilità qualitativa e quantitativa dei mercati in cui agiscono gli utilizzatori di tale prodotto. Naturalmente sono ancora numerosi i problemi da risolvere affinché un simile scenario sia realizzabile, non ultimo quello della convenienza economica rispetto agli investimenti disponibili. Nel febbraio 1998 è cominciata una serie di seminari di aggiornamento, aventi per oggetto gli “Strumenti innovativi nella progettazione di macchine automatiche per il packaging”. Questi sono organizzati in collaborazione con la facoltà di Ingegneria, alcuni dipartimenti dell’Università di Bologna, l’UCIMA (Unione costruttori italiani macchine automatiche) e l’ASTER (Associazione per lo sviluppo tecnologico dell’Emilia Romagna). Lo scopo di tale iniziativa è offrire tecniche I Masters Capitolo V 110 opportune per lo sviluppo di soluzioni innovative alle problematiche di base delle macchine automatiche per il packaging (velocità, flessibilità, affidabilità). La trattazione si snoda in otto moduli tematici, per un totale di 110 ore circa, in parte a carattere generale e in parte con un taglio più applicativo, analitico e tecnologico. Hanno aderito 19 società, per un totale di 45 iscritti, per lo più progettisti, ma sono presenti anche responsabili e alcuni dirigenti. I gruppi più numerosi appartengono alla GD (10) e alla Tetra Brik (4), seguiti dall’IMA, dalla Fameccanica e dalla BFB (3). L’importanza dell’iniziativa, nell’ambito delle attività del Polo Tecnologico bolognese, é nella co-partecipazione di numerose aziende e dell’Università. Si tenga conto che, alcuni anni fa, un corso di specializzazione biennale per 15 neodiplomati, da inserire in aziende del comparto, promosso dal Comune di Bologna, dall’Istituto Aldini Valeriani e dall’oggi Museo del Patrimonio Industriale, fu bocciato dal Consiglio Provinciale. Il prossimo anno si darà seguito ai seminari di cui sopra ed, inoltre, sono previsti dei “master” specifici riguardanti le macchine automatiche, della durata di 500 ore, per soli ingegneri. La rete L’Agenzia per lo Sviluppo Tecnologico dell’Emilia Romagna (ASTER) si propone di creare una “Rete del Trasferimento Tecnologico in Emilia Romagna”, con il CNR, l’ENEA, l’Università ed i Centri di Ricerca. La “rete” dovrebbe trasferire al mondo della produzione i risultati della ricerca scientifica e gli strumenti di sostegno per rendere l’innovazione, davvero, alla portata delle piccole e medie industrie. La stessa agenzia è già attiva con altre iniziative pubblicizzate sul periodico “ASTERnews” guida ai servizi per l’innovazione delle imprese. Sulla stessa pubblicazione, assieme all’ASTER compaiono altri enti: “sistema ERVET”, “irene” (italian relay centre north east) e Verne (Virtual Emilia Romagna Network for the European Resarch). ASTER ha un sito internet che offre l’accesso a numerose banche dati. Tra queste figurano risorse dell’ENEA, del CNR e di vari enti e associazioni regionali. C’è anche il profilo di 10.000 imprese dell’Emilia Romagna. Technet 2 Il sito “TECHNET2” offre una guida agli oltre 80 servizi per l’innovazione delle PMI (piccole e medie imprese).Lo sportello telematico è gestito da ASTER, CNA, Confartigianato, Unionapi, Confcooperative, Lega delle cooperative e cofinanziato Capitolo V 111 dalla Comunità Europea. I servizi coprono l’intera gamma di attività delle imprese divise per settore: finanza, amministrazione, ricerca, progettazione acquisti, produzione, manutenzione logistica, marketing nazionale ed internazionale, risorse umane, assicurazione “qualità”, sicurezza, sistema informativo e direzione aziendale. Più in concreto l’ASTER è impegnata: nel progetto HERMES per la realizzazione di Progetto HERMES un modello di razionalizzazione del traffico e riduzione dell’inquinamento ambientale, che ha già prodotto accordi istituzionali per l’attuazione di interventi nel distretto della ceramica di Sassuolo-Scandiano; nel progetto SMART (Satelite Progetto SMART Management for Remote Trucks) sistema satellitare integrato per la comunicazione e la logistica rivolto alle aziende del settore trasporti; nel progetto comunitario SAGE (Approcci Strategici all’Economia Globale) assieme a tre partners: WDA (Gran Bretagna), IMI (Irlanda) e ATTAC (Austria); nel progetto ADAPT BIS ELITE per lo sviluppo e la gestione del commercio elettronico allargato alle subforniture. Più specifico è il progetto EuroJoinIT. Si tratta di un sistema informativo che riguarda le implicazioni tecniche dei principali processi di saldatura: materiali, parametri standard, articoli tecnici, filmati e risultati di ricerche. Esso offre inoltre la possibilità di partecipare e gruppi di discussione e di ricevere assistenza on-line. Il progetto MEPI (Managing Effective Product Innovation) si propone di sperimentare, su alcune aziende pilota, interventi di formazione ed assistenza tecnica mirati alla specifica realtà aziendale. L’ASTER ha, inoltre, realizzato la “Guida alla metodologia per la selezione di software per l’assicurazione di qualità” che serve ad orientare l’imprenditore nella selva di prodotti che il mercato propone. 5.2.3.5 – L’utilizzo dell’informatica e di altri servizi nella gestione delle imprese La metà delle imprese considerate non usa supporti informatici per la gestione delle procedure di produzione e di statistica: non ci sono variazioni rispetto alla precedente indagine Ervet. L’utilizzo di computer è aumentato, invece, nella gestione dei “portafogli ordini clienti” e nella progettazione. Le consulenze per l’organizzazione aziendale e per il marketing sono utilizzate dalle imprese più grandi Progetto MEPI Capitolo V 112 e da quelle minori a gestione più avanzata. Non sembra esserci, tuttavia, particolare fiducia in ciò che viene offerto dalla consulenza esterna ed, infatti, più di due terzi di tale lavoro viene svolto internamente, da appositi uffici-studio o dai massimi dirigenti. L’azienda si occupa, per lo più, anche della ricerca del personale; attività ancora molto legata alle conoscenze personali di chi già opera in azienda. I corsi di formazione svolti da società esterne riguardano, essenzialmente, le aree impiegatizie e dirigenziali. Si tratta, molto spesso, di aggiornamenti sull’utilizzo dei programmi informatici. Le imprese preferiscono curare direttamente le attività di progettazione e di direzione, ma c’è anche chi si affida a studi esterni per l’intera progettazione. I servizi più acquistati sono, comunque, di carattere legale e riguardano i brevetti. Nessuna azienda si è rivolta a studi esterni per la formulazione scientifica o tecnica degli stessi. 5.2.3.6 – I settori di sbocco Il numero dei diversi settori di sbocco, citati dalle imprese intervistate, si aggira Quali sono intorno alla trentina. I più frequenti sono l’alimentare (77%) ed il farmaceutico (37%), seguiti dal chimico secondario (34%) e dal cosmetico (28%). Compaiono anche l’industria cartaria e editoriale (18%), quella ceramica, di casalinghi e tessile. Il 43% delle aziende intervistate ha affermato di rivolgersi a più di due settori di sbocco. Questo potrebbe far supporre una tendenza all’allargamento delle proprie gamme produttive. Ciò può essere vero per le aziende maggiori. Per quelle minori si tratta di produzioni di prototipi o di piccoli lotti, indirizzati, di volta in volta, al mercato che presenta la domanda più consistente e redditizia. I settori più consistenti sono quello del tabacco, quello chimico (primaria e Quelli più redditizi secondaria) e quello limentare. Nel mercato del tabacco operano solamente le due più grandi imprese del comparto. Negli altri l’offerta è caratterizzata da molti concorrenti che coesistono con i leaders, grazie alla specializzazione. Il mercato dell’editoria pare abbia diminuito la propria importanza rispetto agli anni ’80, in quanto la politica dei gadget ha imposto macchine “dedicate” ai singoli numeri commercializzati. Capitolo V 113 Questa situazione non alimenta né la domanda primaria, né quella di sostituzione, di macchinari. 5.2.3.7 – I rapporti con i clienti Oltre i due terzi delle imprese hanno dichiarato di avere rapporti prolungati nel tempo con la maggior parte dei clienti, italiani e stranieri. Molti casi presentano una Pro e contro reciproca fedeltà e un’attiva collaborazione. I vincoli riguardano principalmente la produzione, spesso molto personalizzata, e la progettazione, a cui partecipano anche gli acquirenti. Per contro, l’azienda fornitrice riceve dal cliente il know-how e le informazioni sulla concorrenza e sul mercato. Le dimensioni delle aziende-clienti sono alquanto superiori a quelle delle maggiori imprese del comparto, quindi, si tratta di comunicazioni particolarmente significative, tecnologiche e gestionali. Lo stimolo che ne deriva dovrebbe garantire una continua tensione alla modernizzazione ed all’innovazione. L’aspetto negativo riguarda la disparità contrattuale, particolarmente nei rapporti finanziari, in quanto, sebbene i rischi di insoluti siano molto bassi, i frequenti ritardi nei pagamenti creano problemi di copertura dell’investimento in capitale circolante. I vantaggi per i clienti scaturiscono dalla continua collaborazione per la risoluzione dei problemi di sincronizzazione della linea produttiva e dalla possibilità di una sempre maggiore personalizzazione della tipologia di packaging scelta per la vendita del prodotto finale. 5.2.3.8 – I principali indirizzi di investimento Oltre il 70% delle imprese intervistate intende investire nell’innovazione di prodotto, nella copertura di nuovi mercati e nella maggiore penetrazione di quelli già occupati. Gli sforzi di ampliamento della gamma dei prodotti è diminuita. L’acquisizione di altre imprese del comparto e la creazione di gruppi ha già saturato questa esigenza. Le piccole imprese sopravvivono grazie alla super specializzazione. La qualità dei prodotti, l’assistenza accurata post-vendita, la tecnologia incorporata nelle macchine, l’adeguamento alle esigenze del cliente ed, infine, l’efficacia ed Ciò che conta Capitolo V 114 efficienza della rete di vendita, sono considerati i principali fattori competitivi di Ciò che non conta successo. Meno importanti risultano essere: la capacità di adeguarsi ai mercati (qui intesi come linee di prodotto differenziate per zone geografiche o per segmenti di clientela all’interno dello stesso settore di sbocco), la particolare competitività dei prezzi e la vastità delle gamme di prodotti offerti. Strumenti competitivi quasi insignificanti appaiono la pubblicità e la possibilità di produrre i macchinari all’estero. Tali elementi sono omogenei per tutte le classi di addetti. Accanto ai tradizionali indirizzi competitivi adottati (estrema personalizzazione, specializzazione e prezzo più contenuto), si sono affermati nuovi concetti come: la “qualità totale” (non solo relativa ai prodotti, ma anche ai servizi di assistenza al cliente ed alla completezza della rete di vendita) e l’innovazione dei prodotti attraverso tecnologie nuove ed avanzate. 5.3 - Dalla performance produttiva alla memoria: il museo del patrimonio industriale L’importanza del ruolo svolto dall’istruzione nella storia dell’industrializzazione bolognese è già stata evidenziata nel terzo capitolo. In modo La Fondazion e Aldini Valeriani particolare è emerso il contributo dato dalla “scuola-officina” Aldini Valeriani, contributo che continua, tuttora, nell’Istituto Tecnico e Professionale. Tale istituto è dotato, oggi, di un museo che raccoglie le testimonianze della storia industriale bolognese e, in specifico, dell’industria delle macchine automatiche. Il Museo del Patrimonio Industriale sorge all’interno dell’ex fornace Gallotti, completamente ristrutturata dal Comune, lungo il canale Navile, nella prima periferia di Bologna, in una zona detta il “battiferro”. Sviluppatosi su due piani, oltre alla visita al forno Hoffmann6, utilizzato anche per mostre temporanee, il museo offre aree di esposizione interattiva destinate a divulgare la storia dei canali e delle vie d’acqua dal mulino dell’antica produzione serica all’evoluzione che arriva al motore a 6 Si tratta di un forno per la cottura dei mattoni che consentiva la continuità del processo, grazie alla sua forma circolare e alle particolari tecniche di trattamento dei prodotti. Capitolo V 115 vapore. Le proposte di diversi percorsi visitativi sono articolate per corsi scolastici. Il museo si propone, inoltre, di organizzare cicli di incontri sulla cultura industriale ed imprenditoriale con temi quali “Le conoscenze delle imprese nel rapporto con le subforniture e con i clienti”, “L’iniziativa delle imprese sul piano della formazione”, “La domanda di innovazione delle imprese nel rapporto con i centri di ricerca”, “Trasmissione delle conoscenze e ricambio generazionale delle imprese”. Il museo diventa, così, luogo per affrontare i problemi del presente. A questo punto vale, forse, la pena ripensare a che cos’è un museo e cosa può significare oggi. Dal dizionario etimologico apprendiamo che era, in origine, un luogo sacro alle Muse, un loro Tempio. Tolomeo Filadelfo ad Alessandria lo convertì in Istituto “per promuovere la cultura e mantenere uomini di lettere e di scienze, che vivevano quivi a pubbliche spese: oggi Galleria o raccolta di cose insigni per eccellenza, o rarità, o per antichità”. In buona sostanza il museo si pone, essenzialmente, come luogo della creatività, dove è possibile toccare con mano le soluzioni ai problemi che l’uomo ha affrontato nel tempo. Il museo è una cassaforte, poiché custodisce la più grande ricchezza umana, che è la conoscenza storica derivata dalle esperienze di diverse culture. Esso è un mezzo, un grande comunicatore, che riguarda l’uomo; perciò ci appartiene e deve essere accessibile a tutti, per renderci consapevoli dell’eredità che possediamo. In un’esistenza che corre sempre più veloce tra fili, schermi ed antenne la funzione che può svolgere un museo è molteplice. Esso è luogo di incontro “pieno”, interattivo, tra passato, presente e futuro, perché la comunicazione dei moderni media non può soddisfare la reciprocità dello scambio quanto una relazione tra persone. Un museo delle macchine automatiche a Bologna può offrire un luogo di incontro per elaborare la memoria storica di questo particolare comparto, per cercare di capire le ragioni che lo hanno reso tale e, quindi, sviluppare strategie adeguate ai grandi mutamenti in corso. Tale luogo si propone come possibilità d’incontro, dunque, tra “differenze”, fondamentali per la fecondità delle cose che si riproducono. Se pensiamo alle grosse invenzioni le colleghiamo immediatamente ai geni che le hanno realizzate. Non viene in mente che le soluzioni di certi disagi si sono Museo e creatività Capitolo V 116 costruite non nel corso di una sola vita, ma in quelle di intere popolazioni. Per sopperire ai disagi della caccia, l’uomo imparò a raccogliere i frutti della terra, ma impiegò molto tempo per diventare agricoltore. Queste scoperte sono il risultato di conoscenze tramandatesi per generazioni, anche se colte solo dagli ultimi arrivati. Importanti non sono solo i nomi, ma, soprattutto, le soluzioni. Il museo garantisce che tutte le conoscenze a disposizione, in un certo momento storico, possano essere divulgate, mostrando da quali situazioni vengono, di quali scelte sono il risultato e tra quali alternative, al fine di essere riutilizzate per alleviare i disagi. Le prime soluzioni non è detto che siano le più efficaci, anzi, spesso, occorrono molte elaborazioni per perfezionarle, eliminando gradatamente i problemi che perdurano. Molte scoperte sono dipese dal semplice guardare, come per la seminagione, ma chissà quante osservazioni e quanto tempo ciò ha richiesto. Nel museo si possono concentrare tutta una serie di attività, in funzione dell’innovazione, astraendo dal passato idee per progetti futuri. Certamente si pone anche un problema di interessi nel presente. Si pensi alle grandi compagnie di navigazione del passato che dovettero vincere i navigli, già esistenti, quando venne inventato il motore a vapore. Questo Un campo neutro delle convenienze fu un problema che tutti i grandi creativi dovettero affrontare. Il museo può essere un “campo neutro” in cui i diversi interessi trovano una mediazione per favorire, anziché ostacolare, il cambiamento migliorativo dell’esistente, neutralizzando la concorrenza al ribasso. A Bologna, per esempio, si è verificato un processo di adattamento reciproco a “causazione circolare” (Capecchi e Alaimo) tra fattori tecnici, economici, storici e sociali, all’interno di una cultura che ha alimentato, e si è alimentata, con questa alchimia, producendo un singolare sistema di relazioni. Il Museo del Patrimonio Industriale è un luogo soprattutto per addetti ai lavori, ma non solo per loro. Il vantaggio maggiore che un campo “neutro” può offrire è il “pensiero libero”. In altri luoghi, la rapidità delle routine rischia di impedire una corretta problematizzazione, facendo perdere di vista la realtà, la storia e le possibilità alternative a ciò che è stato previsto. Un luogo “neutro” può accogliere i problemi e stimolare progetti “comprensivi” con obiettivi comuni che compongano le convenienze di parte Capitolo V 117 affinché ognuno possa, e debba, trovarci e metterci, interessi e contributi di qualsiasi natura: tecnici, politici, sociali, economici, educativi, formativi e di apprendimento in genere. Questo perché difficilmente, specie a Bologna, si può intervenire in un campo, ignorando gli altri. Penso a progetti interaziendali di ricerca (di mercato, tecnologiche, ecc.) e a programmi politico-sociali per diffondere la consapevolezza che soltanto la comprensione della realtà, e l’utilizzo di tale conoscenza, possono garantire la possibilità di migliorare la “qualità della vita” finora raggiunta. Questa qualità è il risultato della combinazione di caratteristiche tipiche della nostra cultura, che deve poter continuare ad esprimersi spontaneamente, contaminandosi, ma senza snaturarsi, perché solo il riconoscimento della differenza può garantire l’identità e pari opportunità. Un impegno del genere riguarda tutti, perché coinvolge tutti, anche nella loro assenza: scuole, università, aziende, istituzioni, associazioni e cittadini. La formazione, la specializzazione, la riqualificazione, potrebbero trovare nel museo un alleato che non le esponga troppo alle parzialità degli interessi di chi le gestisce e che permetta di cogliere pienamente il senso di quell’avventura umana che è la tecnologia. Difficilmente si trovano soluzioni uniche e universali, ma solo le più convenienti nel contingente. La convenienza dipende dal contesto e dagli interessi che ci sono in esso. Per poter risolvere adeguatamente un problema occorre, Problem atizzare innanzitutto, saperlo cogliere correttamente per metterlo in relazione con le risorse disponibili. L’esatta problematizzazione del disagio è fondamentale per poter adeguare la soluzione alle diverse situazioni senza omogeneizzarle. Imparare a problematizzare è “il problema”, in un mondo dove chi dubita è ritenuto scomodo. Il miglioramento può nascere da un disagio, ma deve passare per la problematizzazione. Il museo esprime la storia delle problematizzazioni che hanno portato alle invenzioni. In questo senso esso è uno stimolo per l’immaginazione che viene istigata ad indagare sul dove, sul quando, sul come e sui perché, che hanno prodotto determinati congegni. Questo tragitto una volta percorso è ripercorribile anche in altre direzioni e la realizzazione di un’idea può suggerirne tante altre. Capitolo V 118 Da quando Platone ha diviso la scienza dalla tecnologia, il museo è divenuto un Teoria e pratica luogo necessario per le scuole. Un principio scientifico può essere espresso benissimo a parole, ma l’applicazione tecnologica ne richiede la realizzazione, la quale si nutre di idee, ma impegna tutti i sensi, la manualità e le conoscenze a disposizione. Il museo si presenta come il luogo di rappacificazione e armonizzazione del conflitto tra teoria e pratica ed è la dimostrazione di come l’una dipenda dall’altra. Il principio, tradotto in funzione, può essere considerato il “dentro” di un oggetto, mentre la realizzazione tecnica gli dà una forma fuori. In un museo tecnologico la forma estetica potrebbe essere considerato meno importante della funzione: la bellezza soddisfa l’occhio e l’intelligenza, ma raramente aggiunge qualcosa alla funzionalità. Con la Bauhaus e il surrealismo, l’arte e l’estetica sono entrate anche nella tecnologia, a sostegno della forma. La miniaturizzazione dell’oggetto (in uso quando non esistevano i cataloghi), oltre ad un sistema ludico ed estetico, realizza forme e può correggere strutture già esistenti nell’originale, ponendosi alla base della “prototipazione”. Molti sostengono che ci sia più cultura nella forma di un oggetto, che in cento anni di storia. De Masi (1991, p.3-27) fa notare come la civiltà di un popolo, in un determinato momento storico, possa essere descritto o rappresentato dalla curva della spalliera di una sedia. La forma può indicare appartenenze, identificazioni o contestazioni. Il museo può rendere conto anche di questo. La funzionalità sembrerebbe passare in secondo ordine, ma lo svecchiamento di un sistema passa anche per nuove funzionalità. Lungi dall’essere un cimitero, il museo è, anzi, un incubatrice, dove nuove idee attendono di essere percepite. Il progresso ha raggiunto livelli altissimi e ritmi vorticosi. Non si rischia più di Studiare il progress perire andando a caccia del proprio cibo, ma c’è chi muore ancora di fame. Per questo, oggi, bisogna studiare il progresso, riflettendo sul proprio passato per affinare le capacità di progettazione del futuro, evitando errori già commessi. Voglio dire che un museo dovrebbe far riflettere profondamente sul senso che la risoluzione di un problema deve avere. Intendo un’etica del progresso che non rischi di compromettere Capitolo V 119 ciò che è già stato raggiunto, per il quale si è già pagato un prezzo altissimo di cui un museo tiene vivo il ricordo. La principale e riconosciuta funzione di un museo è, certamente, quella di esporre, cioè mettere fuori. L’etimologia fa provenire tale termine dall’abbandono di Toccare con mano un infante in luogo pubblico, affinché possa essere raccolto da altri. E così è nel museo. Gli oggetti sono esposti affinché i visitatori possano raccogliere, per allevare in sé, il “dentro” e il “fuori” di quell’oggetto. La possibilità si sperimentare i propri sensi nel confronto con ciò che è esposto è fondamentale. “Toccare con mano” è un’espressione metaforica che fa riferimento ad un atto concreto d’informazione e comunicazione pari a nessun altro, se non integrando lo stesso con altre fonti cognitive. Ovviamente, questo non è possibile nella maggior parte dei casi, ma le nuove tecnologie informatiche virtuali potrebbero essere un notevole supporto all’interattività di un museo, dove non lo siano già. Sempre in riferimento alla virtualità penso a come possa tornare utile poter immaginare scenari ipotetici in cui sperimentare l’impatto della soluzione adottata sull’ambiente. Sì, perché la soluzione di un disagio deve potersi integrare nell’ambiente che, inevitabilmente, va a modificare. Del resto è vero anche l’inverso, cioè che l’ambiente influisce sulla stimolazione d’idee per il superamento di un disagio. Pasteur suggeriva di accordare l’innovazione con la tradizione, sulla base delle difficoltà che aveva dovuto affrontare in prima persona. In questo senso, il museo si presta come il luogo più adatto alla stimolazione, offrendo la possibilità di problematizzare adeguatamente una questione senza doverne rendere conto a nessuno, se non alla propria deontologia. E’ un luogo che salvaguarda gli interessi generali, fuori dalle convenienze di parte, ma in continuità con esse. 5.4 – Alcune ricerche precedenti Della particolare tipologia di proliferazione di aziende nel comparto, per “gemmazione” e a “grappolo” si è già detto, ma il fenomeno è analizzabile più in dettaglio. Una rappresentazione grafica (Curti e Grandi 1997, p.160-163) di questa Capitolo V 120 concatenazione merita un approfondimento. Sono rappresentate 47 aziende suddivise per anno di fondazione, dagli anni ’20 ad oggi. Solo sei (12%) si innestano su una produzione già esistente e sei sono i titolari di più di un’impresa. Ben 22 imprenditori su 49 (44%) hanno frequentato le scuole Aldini Valeriani. In 19 casi (38%) il ruolo di titolare corrisponde a quello di progettista. Complessivamente la sovrapposizione di queste due funzioni è avvenuta in 37 casi su 49 (75%). 5.4.1 – La storia 5.4.1.1 - Dall’esposizione industriale del 1857 al sindaco Dozza Nel discorso inaugurale dell’esposizione industriale tenutasi a Bologna l’1 luglio 1857 emergono alcune delle peculiarità della popolazione bolognese; si può leggere, infatti: Istinto e bisogno “Un popolo, per quanto sembri dalla natura predestinato alla industria dei campi, non vuolsi per ciò tenere escluso dagli svariati esercizi dell’officina. (…) Ma certo è ancora che la stessa agricoltura cresce in prosperità e ricchezza allorché vengono in fiore le arti e si dilatano i commerci, perché la produzione prende vita ed alimento dall’uso dei prodotti, e la richiesta dei prodotti si moltiplica coll’attività dell’industria e dei traffici. (…) Noi non siamo un popolo esclusivamente predestinato all’industria dei campi. (…) Stava meglio (non si dubitava affermare) il povero artigiano l’anno 1590 quando pagava 15 o 20 scudi la corba il frumento, che non fa al presente; perché le arti erano riconosciute, aiutate, protette, ma ora sono tutte oppresse, abbandonate. (…) Ma l’istinto, il bisogno ed una volontà ferma e costante trionfarono in parte di alcuni ostacoli, i quali a mano a mano scompariranno colla operosa emulazione e colla stretta colleganza dei cittadini e coi savi provvedimenti del governo.” (Associazione Industriali della Provincia di Bologna, p.78-79) Il discorso, tenuto da tal Massimiliano Martinelli della Camera di Commercio, era rivolto al Pontefice Sovrano e al Principe Augusto, entrambi in visita alla città (Ibidem p.97). Dello stesso avviso, più di mezzo secolo più tardi, era il Prefetto che in uno dei suoi rapporti annuali diceva: Il logorio del modernis mo “Bologna pareva città negata all’industria. Comodamente adagiata nel chieto ambiente rurale, essa sembrava non accorgersi del modernismo impellente, dell’eccezionale impulso meccanico della nuova civiltà per restar ferma nella sua gloriosa posizione di centro agricolo importantissimo. (…) Più Capitolo V 121 che la grande industria si sono andate con successo affermando la media e la piccola industria, che ottimamente organizzate e attrezzate, si sono rivolte favorevolmente a particolari caratteristiche di produzione portando l’industria bolognese ad un alto grado di specializzazione, che ha creato a questa industria mercati suoi e del tutto indipendenti.” (Gobbo e Varni, p.25) Il rilievo è da inquadrare nell’ottica imperante nel ventennio che avrebbe voluto Bologna capitale agricola e nodo dei trasporti. In relazione a questo fatto si registra che, negli anni precedenti all’entrata in guerra, Aurelio Manaresi, vicepresidente del Consiglio corporativo degli industriali, propone ad Alberto Pirelli di aprire uno stabilimento nella zona di Bologna per “la sua felice posizione (…), per avere delle maestranze intelligenti ed utili” (Gobbo 1987, p.28). La stessa tendenza a mantenere il “proprio passo” nella modernizzazione la ritroviamo in un’affermazione del sindaco Zangheri, negli anni ’70, in cui dice: “La forza di Bologna è l’integrazione di un’agricoltura non decaduta con un’industria molto dinamica e il terziario capace di svilupparsi. Cerchiamo di mantenere questo equilibrio che è l’identità di Bologna a garanzia per evitare squilibri gravi presenti altrove” (Gobbo 1987, p.90). La connessione tra rapporti sociali, cultura e progettualità politica di sviluppo, non solo economico, sembra essere una costante della storia7. Significativa, in questo senso, è la carismatica figura del sindaco Dozza (Gobbo 1987, p.40-59) che, eletto nel dopoguerra, riduce il deficit del 50% in pochi anni, pur salvaguardando i ceti medio-bassi. Egli apparteneva ad un’ideologia apertamente contrastata a livello nazionale, ma con pubblici investimenti dava lavoro e assistenza, attenuando lo scontro sociale. Si attiva anche per il potenziamento degli istituti scolastici ad indirizzo tecnico e professionale per fornire manodopera specializzata alle industrie locali. Dal 1952 al 1973, data in cui viene soppressa l’autonomia tributaria, il Comune di Bologna crea la propria politica fiscale. Le idee guida non erano una novità assoluta, ma nascevano dal confronto fra imposizioni dirette sui redditi, patrimoni e consumi (Gobbo 1987, p.235). La progressività del prelievo, la 7 Si veda al riguardo il 5.4.1.1 a p.121. Il sindaco Dozza Capitolo V 122 differenziazione tra redditi, da lavoro e da capitale, l’allargamento della base imponibile dell’imposta di consumo, garantivano maggiore giustizia tributaria. Il carattere di imposta generale conferiva trasparenza ai rapporti fra amministrazione e cittadini, limitava l’evasione fiscale e avvicinava i valori imponibili a quelli di mercato, pur nella distinzione tra famiglie povere e più abbienti. Un altro segnale di innovazione significativo fu, nel luglio 1959, l’avvio della procedura per la definizione di un Piano Regolatore Intercomunale: la “città regione”. Equilibrio e ideologie Le alleanze sociali, fin dal dopoguerra, travalicavano ideologie e classi. Gli interessi delle parti sociali convergevano, identificandosi nella figura di Dozza. Il sindaco “di tutta la città” fu attento difensore dei sottili equilibri di questa realtà sociale. Al di là di astratte interpretazioni dogmatiche, lo sviluppo sembrava dover passare per la rivitalizzazione di idee borghesi riformatrici e di iniziative economiche. Questo era in linea con le vocazioni manifatturiere locali e intimamente legate all’immagine che di sé aveva trasmesso, da sempre, la tradizione culturale cittadina (Gobbo 1987, p.66-70). Si faceva strada, così, una sorta di via “bolognese” alla crescita economica, lontana dalle grandi centrali finanziarie ed industriali. Il fascino della personalità di Giuseppe Dossetti e del suo “Libro bianco su Bologna” non rompono le connessioni empiriche sviluppate, nella pratica amministrativa, dal sindaco “della liberazione” e non riescono a contrastarne il successo. Queste connessioni integravano tutti i settori della società, accettati, così come si erano venuti delineando, tra persistenze della tradizione e spinte innovative di un presente in scomposto mutamento. L’allora direttore de “Il Resto del Carlino” Giovanni Spadolini ammetteva con rammarico, ma con lucida intuizione della realtà cittadina, l’impossibilità di mutare l’orientamento di queste relazioni (Gobbo 1987, p.70). Lucidità che non ebbe il Prefetto nel dopoguerra. La riconversione in produzioni di pace causò tanti licenziamenti, moltissimi dei quali “politici”. Il Prefetto aveva Metter si messo “in guardia” la popolazione sulla debolezza delle piccole e medie imprese, troppo sensibili alle turbative sociali di quel periodo e vulnerabili a causa di politiche in statali che le penalizzavano. Di fatto, si verificò il fenomeno opposto: a fronte di un centinaio di cessazioni di attività, in un anno ne cominciarono circa il triplo. Il Capitolo V 123 riscontro occupazionale fu ingentissimo: quasi 8.000 assunzioni, contro poco più di 1.000 licenziamenti. Una parziale spiegazione è la mancanza dei prodotti industriali sul mercato, causata delle agitazioni sindacali e politiche. I licenziamenti liberavano manodopera, anche specializzata, e la voglia di lavorare in tranquillità portava a preferire l’attività in proprio, magari associata con altri artigiani. In agricoltura la situazione era analoga; in più, il piccolo risparmio incentivava maggiormente il fenomeno. Il lavoro, nella mentalità bolognese, non è mai stato solo sopravvivenza, ma anche autorealizzazione, soddisfazione, esercizio di capacità e di creatività. Si Etica del lavoro perfetto pensi che la classe operaia durante la seconda guerra mondiale, pur recependo le necessità del sabotaggio proposto dai nuclei della “resistenza”, era talmente consapevole dell’insostituibilità del proprio lavoro a sostegno dell’apparato bellico che solo un’acquisita consapevolezza di militanza politica riuscì a farle superare il “problema di coscienza” generato dal compiere un lavoro tecnicamente “imperfetto” (Gobbo 1987, p.34). Credo si possa notare come le peculiarità della cultura locale siano un fatto ricorrente nella storia di questo territorio, ingrediente sempre presente nell’evoluzione di questa comunità. Nel già citato discorso inaugurale si mettono in luce anche altri elementi già intravisti nel capitolo tre. Sull’importanza del confronto come stimolo, ad esempio, si afferma: “Colle moderne esposizioni s’intende al fine di giovare ai progressi dell’industria porgendosi opportunità ad utili confronti fra i mezzi diversi di produzione e le diverse qualità dei prodotti. (…) ad eccitare l’emulazione non manca stimolo più efficace e sicuro che la libera introduzione di merci straniere.” Sull’istruzione si sostiene che “…le buone discipline degli studi si collegano coi progressi delle arti e colle condizioni del vivere civile. Sul quale proposito mi sia lecito ricordare, che se vi è una educazione necessaria a tutti gli uomini in generale per la conoscenza del vero e l’adempimento del bene, vi è pure una educazione speciale che varia nelle forme e nei mezzi secondo le diverse età e professioni. L’educazione scientifica, l’educazione letteraria e l’educazione militare hanno un’importanza speciale che non si saprebbe poi negare all’educazione industriale in ragione dei tempi, delle circostanze e della numerosa popolazione. Si è quindi in molti luoghi provveduto o si va provvedendo all’istituzione di scuole tecniche, come si è provveduto o si va provvedendo all’insegnamento delle scienze economiche e commerciali.” Il confront o L’istruzion e Capitolo V 124 La citazione del testamento Aldini Valeriani è d’obbligo, ma si arriva a sollecitare che: “gli alunni più diligenti e meglio disposti avessero per premio di andare a soggiornare per qualche tempo in quei paesi, nei quali si è toccato un grado di eccellenza, che per la sola istruzione tecnica non accompagnata dalla pratica sarebbe pressoché impossibile di conseguire.” (Associazione Industriali della Provincia di Bologna, p.80-84) L’importanza dell’istruzione tecnica veniva sottolineata anche durante la seconda guerra mondiale dal Prefetto, il quale sollecitava, tra i problemi più urgenti, l’assegnazione di una nuova sede più consona alle Scuole Aldini Valeriani. Impresa e associazio ne Altro elemento rilevato nel discorso dell’esposizione è uno “dei principali argomenti onde ai giorni nostri si avvantaggiano le industrie ed il commercio, quello spirito d’intrapresa e di associazione che per virtù di un istinto naturale ha cominciato da pochi anni a risvegliarsi fra noi” (Associazione Industriali della Provincia di Bologna, p.85-92). Ci furono imprese private che si fecero carico dell’istruzione elementare e religiosa dei figli dei propri operai, istituirono una cassa di mutuo soccorso per le spese sanitarie e per dare sussidi ai vecchi e agli invalidi, dimostrando: “come alla migliorata condizione degli operai risponda il miglioramento dell’intrapresa. Nessuno di noi vorrà mettere in dubbio che l’istruzione, la previdenza e il lavoro non siano elementi necessari ed efficacissimi di moralità e di ben essere; ed è inoltre manifesto che dagli ordini di una educazione cristiana e civile (onde la stessa istruzione è un mezzo indispensabile, come la previdenza e il lavoro ne sono un effetto regolato e sicuro) principalmente ed anzi unicamente dipendono l’ordine, la dignità e la floridezza degli Stati e delle famiglie.” (Associazione Industriali della Provincia di Bologna, p.94-98) Il Martinelli ricorda che Francesco Borghesano da Lucca si adoperò per La città della seta radicare, a Bologna, l’arte del filare e del torcere la seta, dall’anno 1272: “Con ardimento mirabile fu poscia scavato il canale che traversa la città, derivandosi l’acqua dal fiume Reno e mettendosi in movimento gli ordigni filatori negli opifizi appunto fabbricati pel lavoro della seta.” Le Banche ebbero un ruolo fondamentale in questo, così come nel soccorso alle industrie e al commercio del territorio, Capitolo V 125 consentendo la transizione dalle materie prime alla vendita del prodotto finito, mediante il differimento dei rimborsi: “…senza l’aiuto di capitali proporzionali al bisogno, non sarà dato di fare i progressi, che dal genio degli imprenditori, dall’abbondanza della produzione interna, e dallo smercio dei prodotti manufatturati avremmo ragione di riprometterci. All’aumento dei capitali risponderà sempre meglio il corredo degli strumenti perfezionati…”. Lo scavo del canale dimostra il ruolo avuto dall’amministrazione nell’incoraggiare l’insediamento, tra le sue mura, di maestri ed artigiani stranieri. Questa politica di relazioni sembra quella che abbiamo ritrovato in Dozza. Alla conclusione di questo discorso inaugurale si prospetta una Società “d’incoraggiamento” che divulghi tutto ciò che appartiene ai mestieri, ai disegni, alle macchine, “proteggitrice delle arti belle che ha nobilmente preceduto quella per l’incoraggiamento per le arti utili. Alle quali non verrà meno un patrocinio illuminato ed efficace laddove alquanti benemeriti a loro spese mandarono alcuni artisti a visitare l’esposizione di Londra e rinomate fabbriche e manifatture straniere.” (Associazione Industriali della Provincia di Bologna, p.114) 5.4.1.2 - I casi dell’industrializzazione bolognese I prodotti storici del territorio offrono indicazioni interessanti8.Abbiamo già parlato del distretto serico. Sappiamo, inoltre, che la produzione di mortadella ha trovato ospitalità tra le mura cittadine circa 800 anni fa. Essa veniva consumata stagionalmente a causa delle difficoltà di conservazione. Alla metà del XIX° secolo, Alessandro Forni, un intraprendente salsamentario, apprese, in Francia, le pratiche che gli permisero di inscatolare grosse fette d’insaccato. Da allora, altri industriali, Filippo Benfenati e tal Nenzoni, cominciarono a fabbricare le scatole di latta stagnata necessarie alla produzione alimentare. Il Benfenati nel 1809 depositò il brevetto di 8 L’intero paragrafo fa riferimento a: Gobbo F. (a cura di), 1987, Bologna 1937-1987. Cinquant’anni di vita economica, Cassa di Risparmio di Bologna; Curti R. e Grandi M. (a cura di), 1997, Per niente fragile Bologna capitale del packaging, Bologna, Compositori; Alaimo A., Capecchi V., Curti R. et al., 1992, Packaging Valley, in “Scuolaofficina”, n°2, p.7-42; Curti R., Capecchi V. et al., 1993, Speciale macchine automatiche, in “Scuolaofficina” n°2, p.2-39. La “Bologna” Capitolo V 126 una macchina per la saldatura esterna “ad immersione” utilizzata nella sua attività. Si pensi che il solo Ulisse Colombini, salsamentario, nel 1883 ne utilizzò 120.000, esportandole in Argentina, Uruguay, Colombia e nelle Indie. La prima fabbrica di I tortellini tortellini fu fondata, nel 1885, da Luigi Bertagni che in dieci anni aprirà 222 pastifici nell’intera provincia con 497 dipendenti. Il titolare di una drogheria, Pietro Malmusi, nel 1862 fonda la Malmusi & Gentili per produrre saponi, candele, fiammiferi e lumi. Già nel 1867 egli introduce il metodo “catalitico” della scissione dei grassi per la produzione di stearina, oleine e glicerine. I Maccaferri Nel 1869, i Maccaferri, originari di Sacerno e fabbri dal ‘500, trasferiscono la loro fucina a Zola Predosa, dove lavorano e vivono, con le loro famiglie, anche i figli. Uno di questi, Luigi, è la “mente” industriale della famiglia: installa una trafileria e inventa i “gabbioni” per sistemare un tratto stradale, verso Calderino, che ogni anno veniva interrotto dalle frane. Questa idea procurerà ordini e commesse “governative” per tutto l’inizio del secolo. Nel 1905, il quinto figlio di Luigi, Gaetano, che aveva studiato in seminario, dopo essere ritornato dalla Calabria colpita dal terremoto, promuove la produzione di “tiranti” e catene di ferro per legare gli edifici pericolanti. Nel 1908 il terremoto di Messina procura una nuova occasione d’intervento. Con un nuovo socio, un ferrarese che si chiamava Pisa e commerciava nel ramo, avviene il “salto” definitivo: nel 1910 apre a Grenoble la prima succursale e nel 1913 una fabbrica a Napoli. Il gruppo Maccaferri si distingue per il suo sviluppo a “grappolo” che consiste nell’affidare le nuove aziende a propri dipendenti di fiducia. Questo è avvenuto con: ICO (1921), HATU’ (1922), Invulnerabile (1924), SAMP (1936), ILM (1940). Calzoni Un’altra storia significativa è quella di Alessandro Calzoni che a 23 anni è già titolare di una bottega artigiana. Nel 1834 costruisce una filanda a vapore. Nel 1835 impianta, nell’ex chiesa del Carrobbio, una fonderia di ghisa che produce pluviali, tubi, fornelli e ornamenti. Nel 1838 dà vita alla filanda di Modigliana che sarà, successivamente, il “modello” del setificio toscano. Dopo un viaggio di aggiornamento e istruzione a Torino, punta sul rinnovamento della meccanica agricola, producendo parti in ferro sempre più complesse, fino alle pompe idrauliche. Capitolo V 127 Il 1885 lo vede in giro per gli opifici e le manifatture di Torino, Lione e Parigi, nonché all’Esposizione Universale di Londra. Nel 1907, i figli Costantino ed Annibale, cui si aggiungono, dopo la laurea in ingegneria, anche Alfonso e Giuseppe, iniziano, primi in Italia, la costruzione di turbine idrauliche. I riconoscimenti internazionali ottenuti spingeranno l’azienda a specializzarsi in macchinari per impianti idroelettrici, macchine per mulini, oleifici e costruzioni speciali, fra cui i sistemi di caricamento dei siluri nei sommergibili e dei missili sugli aerei. Annibale è il primo industriale bolognese ad essere nominato cavaliere dell’Ordine per merito del lavoro. Alla sua morte, nel 1910, l’azienda è guidata da Costantino e Alfonso, ma vi lavorano già anche i nipoti. Nel 1939 la Calzoni introduce, per la prima volta in Italia, la lavorazione di metalli come il tungsteno e il molibdeno, propagandata dal regime come un grande successo autarchico. L’agricoltura stimola l’industrializzazione. Nel 1853 nasce l’Officina Meccanica di Castelmaggiore. Rilevata nel 1865 da Edoardo De Morsier e Giovanni De Morsier Mengotti, viene trasferita a Bologna. Divenuta in seguito “Italo Svizzera Macchine Agricole di Bologna”, questa azienda introduce sempre nuovi perfezionamenti alla meccanizzazione dell’agricoltura. Si specializza in molteplici modelli di trebbiatrici per grano e macchine legate al ciclo completo della trebbiatura. L’agricoltura stimola diverse produzioni: attrezzi, macchine, impianti di l’irrigazione “a pioggia” e per la conservazione dei prodotti agrari. Un’altra azienda, la Fabbri, ad esempio, si sviluppa dalla cultura che ricerca nuove utilizzazioni della frutta. Accanto alla marmellata e ai “succhi zuccherati di frutta” (inventati prima della seconda guerra mondiale), nel 1954, vengono creati i “fruttini”. Proseguendo questa carrellata sui protagonisti dell’industrializzazione bolognese troviamo Raffaele Giordani, un artigiano del ferro battuto che dopo anni di gavetta in “bottega”, nel 1885 si mette in proprio. Dieci anni dopo, realizza il primo triciclo per bambini. Oggi quel nome è abbinato a tutti gli accessori per la mobilità infantile. E’ uno dei pochissimi casi bolognesi in cui si lavora “a catena”, per produrre le carrozzine esportate in tutto il mondo. Giordani Capitolo V 128 Sempre nel 1885, troviamo anche Settimo Baschieri che, associatosi a Guido Pellagri dottore in chimica, fonda il primo stabilimento in Italia per la produzione di polvere da sparo alla nitrocellulosa detta “acpania” (senza fumo). In un altro settore, Il Rizzoli nel 1895 Gino Zabban fornisce tutto il materiale necessario all’Istituto Ortopedico Rizzoli, inaugurato in quell’anno. Le Officine Ortopediche Rizzoli sono il primo esempio di relazione diretta tra università e mondo produttivo. Nel 1905 Zabban sviluppa, con il fratello Filippo, la produzione di materiali sanitari e specialità farmaceutiche. Durante la prima guerra mondiale fornisce lo “sgualdrappo adesivo”; durante quella di Libia produce, in tempi rapidissimi, migliaia di pacchetti per medicazioni e, in tempo di pace, si specializza in prodotti farmaceutici denominati “galenici” e in garza amidata leggera, con la consulenza del prof.Putti. Cevolani Nel 1900 nasce l’Officina Cevolani, di Edoardo Cevolani, che esegue riparazioni con pochi arnesi. Figlio di un maniscalco, abbandona la fucina del padre a Cento e si perfeziona in varie botteghe (Pirotecnico, Società Metallurgica Italiana), frequentando l’Istituto Aldini Valeriani serale. Alla sua morte, nel ’34, i suoi collaboratori Samoggia e Pazzaglia continuano la produzione indirizzandola verso macchine speciali per stabilimenti militari e apparecchiature scientifiche di elevata precisione per la nuova Scuola di Ingegneria di Bologna. Durante la guerra, oltre alle macchine utensili si producono i ricambi per le macchine che fabbricano “scatolette” per carni, negli stabilimenti militari di Casaralta. Questo specializza l’officina nella produzione di macchine per la fabbricazione di scatole metalliche, attività che prosegue tuttora. Buton Nel 1900 il dott. Filippo Sassoli de’Bianchi, arrivato ai vertici della Buton, praticamente la rifonda. La ditta era nata, tra il 1820 e il ’21, dal sodalizio tra Jean Buton (esule volontario dalla Francia dopo la caduta di Napoleone) in possesso di un fornito ricettario e il proprietario di una pasticceria sotto il portico del Pavaglione, tal Giacomo Rovinazzi. Nel 1902 Sassoli costruisce il grande camino per la caldaia a vapore che dà una spinta alla produzione, consentendo un allargamento delle specialità di distilleria. Nel dopoguerra la fortuna dell’azienda continua: nel ’46 Capitolo V 129 presenta alla Fiera di Milano la “Vecchia Romagna” e nel ’63 commercializza il “Rosso Antico”. Arturo Gazzoni si dedica al settore farmaceutico dopo aver gestito alcuni Gazzoni ristoranti. Nel 1901 fonda la Società per “l’Antinevrotico De Giovanni cav. Arturo Gazzoni”, che continua il suo successo con altri prodotti come l’Idrolitina, la Pasticca del Re Sole, il Resoldor, il Purgante Gazzoni, fino al dolcificante dietetico Dietor e le caramelle a basso contenuto calorico Dietorelle. Per primo si avvale della collaborazione di artisti affermati, tra cui Zangarini e Trilussa, per pubblicizzare i ACMA suoi prodotti. Nel 1908 si mette in Società con Gaetano Barbieri e lo sollecita a fondare l’ACMA (Azienda Costruzione Macchine Automatiche). Nasce cosi, nel 1924, l’impresa “madre” del comparto del packaging bolognese: costruisce macchine che confezionano l’Idrolitina. Barbieri, ragioniere ed amministratore di terreni agricoli, rileva una piccola officina in Via Lame. Al suo interno operavano giovani diplomati delle Aldini-Valeriani tra i quali Trombetti, Roffa e Ciliotta. Quest’ultimo lasciò l’azienda nel 1935 per fondare una fabbrica di macchine etichettatrici a Parigi. Le prime macchine prodotte, tra cui la “713”, stampavano le cartine, dosavano la polvere e confezionavano il prodotto. Nel 1929 l’ACMA, in espansione, fu trasferita in Via Fioravanti, allora prima periferia industriale, dove è rimasta fino al 1985, quando è stata costruita la sede attuale. Alla fine degli anni ’30 c’era già una rete di vendita che copriva tutti i paesi industriali europei e gli Stati Uniti. L’impulso determinante allo sviluppo dell’ACMA venne da un giovane progettista, Bruto Carpigiani (1903-1945), assunto nel 1927. Nato in provincia di Livorno da un impresario teatrale e da una commerciante di Mirandola Emilia, Bruto trascorse qui l’infanzia coi due fratelli, visto che il padre aveva comprato il Castello di Pico per farne un teatro. La moglie ricorda la passione di Bruto per i motori: comprò una moto Guzzi e si costruì un prototipo di automobile, per farsi vedere in paese prima di sposarsi. Fu richiesto dall’ACMA, probabilmente per l’amicizia tra suo padre e Luigi Barbieri, fratello di Gaetano. Chiamato da tutti “ingegnere”, in realtà Carpigiani era solo un geometra che aveva ottenuto una qualifica tecnica, forse in Svizzera. Successivamente si iscrisse alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Carpigiani Capitolo V 130 Bologna, dal ’38 al ’42. Il fatto è che Bruto Carpigiani è riconosciuto da tante testimonianze come “mitico fondatore”, padre ideale di un’intera generazione di progettisti, tecnici ed imprenditori del comparto bolognese delle macchine automatiche. Se i titoli ufficiali restano imprecisi, certe sono le grandi capacità che egli dimostrò nella direzione tecnica dell’ACMA, fino alla sua prematura morte. Carpigiani perfezionò le macchine già in produzione e ne progettò di nuove. Tra il 1929 e il 1930 introdusse l’innovazione decisiva per lo sviluppo di tutto il comparto: Le camme la “ruota a zeta” (o camma). Si tratta di un meccanismo “intermittore” che trasforma il moto circolare continuo in rettilineo alternato, ma in modo diverso rispetto, per esempio, ad una “Croce di Malta”. La novità consiste nel poter variare soste e movimenti, anche ad alte velocità, in modo preordinato dal progettista, in base alle esigenze di utilizzazione. Questo congegno è alla base della flessibilità produttiva e del successo del comparto bolognese delle macchine automatiche. Scartare una caramella è un’operazione manuale molto semplice; incartarne migliaia è più complicato. L’ACMA “749” è nata per fare questo lavoro. Frutto di perfezionamenti di precedenti modelli, la “749” fu prodotta per decenni, continuamente variata per realizzare diversi tipi di incarto. Ancora alla fine degli anni ’80, una gloriosa “749” faceva bella mostra di sé nell’officina in disarmo di un vecchio artigiano, sapientemente “truccata” per incartare i torroncini di una piccola impresa dolciaria. Questa versatilità, espressa dalle pinze di questa macchina che sembrano una mano che incarta, ha fronteggiato la maggiore potenza delle incartatrici americane, più rigide e meno adattabili. Nel 1936 l’assunzione di Giuseppe Clerico (1894-1948), ingegnere meccanico proveniente dall’Olivetti favorì la formazione di un secondo gruppo progettuale, ma nettamente separato da quello di Carpigiani. Anche in questo gruppo maturarono e si formarono progettisti e tecnici di alta professionalità. Dopo la morte di Clerico cominciò quella fuoriuscita dall’ACMA che, tra il ’45 e il ’60, vide i suoi progettisti e tecnici dar vita ad una nuova generazione di imprese (gemmazione)9. Questi uomini avevano in comune la stessa cultura, la medesima 9 Si veda il capitolo 3.7 a p.73. Capitolo V 131 voglia di sperimentare in proprio e un concetto basilare: la flessibilità. Lo stesso Bruto Carpigiani, pur restando in azienda, nel ’42 fondò l’ARCA (Anonima Riparazioni Costruzioni Automatiche), che era subfornitrice dell’ACMA. Assieme al fratello Poerio era, anche, azionista della “S.A. Bondeno” che produceva ostie da farmacia. Bruto aveva, inoltre, brevettato una valvola per il riempimento delle bombole di metano e un’elaborazione innovativa di una macchina prodotta dalla Cattabriga per fare i gelati. Rispetto a quest’ultima aveva sostituito la spatola a moto alternato con una elicoidale rotativa e aveva migliorato l’igienicità del contenitore del prodotto. Con questa macchina Bruto avvierà un’altra impresa, la Carpigiani, assieme al fratello Poerio. Questi, dopo la repentina morte di Bruto, ne continuò il progetto, producendo e commercializzando l’Autogelatiera, la prima macchina per la produzione di gelato mantecato. Il successo della Carpigiani è testimoniato dall’allargamento della produzione e dal numero di brevetti (pastorizzatori, mantecatori orizzontali, macchine per bevande calde e fredde, per gelato soft shake e granita). Arrivò, perfino, ad assorbire la Cattabriga. La riuscita dell’impresa si basa sulla capacità commerciale di Poerio e sulla competenza di maestranze “di qualità”. Nel ’89, la Carpigiani entra nel Gruppo ALI di Milano che si occupa di attrezzature per la ristorazione collettiva. Il nuovo management rinnova l’impegno nella ricerca, nell’applicazione di nuove tecnologie e nello sviluppo dell’organizzazione, lanciando sul mercato mondiale altri prodotti e diversi servizi. La Carpigiani è, oggi, una realtà di rilevanza internazionale, poiché è l’unica azienda al mondo a produrre e commercializzare la linea completa di prodotti del suo settore, operando nei mercati grazie a società “controllate”, presenti in tutto il mondo. La panoramica dei casi dell’industrializzazione bolognese prosegue con il Calzaturificio Bolognese di Felice Galuppi. Nel 1903, egli introduce le prime Il calzaturificio macchine per agevolare il lavoro manuale; ma è nel 1909 che nasce la prima vera fabbrica di calzature, la “Pederzoli, Donati & C.” Lo stesso Cesare Donati, possidente modenese, assieme a Carlo Regazzoni, darà vita, nel 1919, alle Officine Casaralta, azienda ancora in attività, anche se in crisi. Regazzoni è Perito Industriale impiegato alle Reggiane, cresciuto alla Breda di Milano, alla Sofia di Napoli e alla Capitolo V 132 Sigma di Livorno. Diventerà successivamente presidente dell’Associazione Industriali bolognesi. Toschi Armando Toschi è un meccanico di Sant’Alberto di Ravenna. Lavora, con suo suocero, a Milano, nelle Officine Zanfi, specializzate in produzioni di minuterie meccaniche. Nel 1920 apre le Officine Toschi a Bologna, vicino alla Chiesa della Grada che, oltre alle minuterie, producono una vasta gamma di componenti meccanici. Negli anni ‘30-’40 fra i suoi committenti risultano tra gli altri: Ducati, Calzoni, Minganti, Weber e Pancaldi. Nel 1925 Toschi venne chiamato dalla Ducati per collaborare alla messa a punto del trasformatore Manens applicato nelle radio. L’attività va avanti fino al 1990. L’officina è stata smantellata nel 1993. Rispetto all’ottica di questa ricerca il curriculum di Vittorio Francia è Vittorio Francia emblematico. Nato a San Giorgio di Piano nel 1908, da una famiglia molto povera, dopo le elementari è messo “a bottega” ed impara a produrre finimenti per cavalli. Nel 1922 è fattorino nell’officina meccanica di Biagio Fiori, ex tecnico della Calzoni, a Bologna, vicino Porta Lame. Qui si producono macchine per insaccare concime, per fare la ghiaia e carrelli per fornaci. Stanco di fare il fattorino, viene assunto come apprendista all’Officina Costa, che produce torchi da pasta. L’azienda stenta a adeguarsi alle novità tecniche del settore. Nel 1925, Francia va alla Parenti (poi Sabiem), dove si fa un po’ di tutto, fra cui frantoi e i primi prototipi di ascensore. Lavora, anche, alla Dalla di via San Felice che produce moderne macchine per la pasta, e all’officina di Aldo Zurla, che produce pezzi per motori a scoppio. Zurla è considerato il “maestro” di Francia, perché ne completa la formazione, insegnandogli a lavorare di precisione. Dal 1930 al ’34 Francia è presso Bruno Righi, sempre nel settore motoristico. A causa di dissidi passa alla Olindo Bianchi, fuori Porta Mascarella, in cui si producono trivelle per pozzi artesiani e alberi a gomito per grossi frantoi, ma resta poco. Nello stesso anno approda all’ACMA dove incontra Caponi, un capo officina, che egli stesso ha definito “un vero papà”. Francia studia da autodidatta le nozioni teoriche di cui aveva bisogno e, in seguito, va alla Maserati, che produce auto da corsa fuori Porta Mazzini. Qui conosce personalmente tutti i grandi corridori dell’epoca: Varzi, Nuvolari, Taruffi, Capitolo V 133 Ascari, ecc. Quando, nel 1936, la Maserati si trasferisce a Modena, Francia passa alla FORD a fare pezzi di trattori agricoli. Alla fine dell’anno è di nuovo all’ACMA. Tornò anche alla Bianchi come capo officina, poi alla GD, di nuovo all’ACMA e, infine, all’ARCA, nel 1944. Qui approfondisce un rapporto di collaborazione e stima reciproca con Bruto Carpigiani che lo convince a restare, alla Carpigiani, come capo officina e direttore della produzione, dal ‘47 fino agli anni ’70. Interessante è anche il percorso lavorativo di Scipione Innocenti (1888-1967) che si affermò negli anni ’20. Fu fattorino, garzone, operaio, collaboratore alla direzione di una modesta bottega in cui si fabbricavano stampi per la pasta. Diventò imprenditore aprendo una piccola officina meccanica, in via del Borgo, specializzata nella costruzione di apparecchiature per la segnalazione ferroviaria. L’Officina Meccanica Scipione Innocenti si caratterizzava per la qualità della produzione e per la capacità di direzione attiva e lungimirante nell’avviare nuove strategie aziendali. Molti dipendenti di Innocenti, fra cui Muzzi, Ramponi e Bitelli, lo seguiranno nelle varie fasi di crescita dell’azienda. In particolare Bitelli diventerà, agli inizi degli anni ’60, direttore generale della futura SASIB (Società Anonima Scipione Innocenti Bologna). Nel ’33 cambiò forma giuridica, grazie ai capitali di una finanziaria milanese e nel ’34 aprì un moderno stabilimento in via di Corticella. Nel ’37 cominciò a produrre macchine confezionatrici per sigarette su brevetto dell’azienda americana AMF. La specializzazione in questo settore fu resa possibile grazie alle commesse pubbliche e alle relazioni tecniche e finanziarie, della cui importanza Innocenti fu consapevole. Ciò lo spinse a intrattenere contatti con autorità cittadine e statali, e a costruire saldi legami con varie multinazionali. Questi rapporti si rivelarono importanti, soprattutto nel dopoguerra, quando l’ingresso nel settore delle macchine automatiche portò l’azienda a competere con la concorrenza europea e americana. Il boom fu tra il 1950 e il 1960, con la confezionatrice “CS” che, grazie ad un nuovo sistema di alimentazione delle sigarette, riduceva la manipolazione del tabacco. Alla fine degli anni ’60, Athos Cristiani migliorò ulteriormente la “CS” con una tramoggia di nuova forma ed un coltello a tre lame che consentì di andare da 2.600 a 4.000 sigarette al minuto. Nel ’77 l’ingresso nel Gruppo De Benedetti ha SASIB Capitolo V 134 indirizzato l’azienda verso un processo di diversificazione. L’acquisto di aziende di altri settori ha fatto sì che oggi la SASIB sia un gruppo industriale attivo a livello mondiale in tre settori: macchine e impianti per l’industria alimentare; macchine e impianti per l’industria del tabacco; impianti fissi tecnologici ferrotranviari. Minganti Anche Giuseppe Minganti viene dalla “gavetta”. Per fare esperienza all’estero lascia l’officina del padre. Tornato dalla guerra, avvia, “in proprio”, quella che diventerà una delle maggiori ditte costruttrici di macchine utensili destinate alle grosse industrie, prima fra tutte la FIAT. Laffi Lascia l’officina del padre, anche Dante Laffi e va a lavorare presso la Zamboni-Troncon. Dopo la prima guerra mondiale, è nella piccola azienda di Luigi Comastri, in cui si fabbricano macchine per fare fiammiferi. Nel ’23 costituisce la società Bassi-Laffi-Tarozzi e, nel ’39, la Laffi Dante Officine Meccaniche che costruisce impianti completi per la produzione di fiammiferi. Baroncini Ettore Baroncini è un appassionato di corse motoristiche. Nel 1923 apre una piccola officina in cui produce candele per motori a scoppio. Questa specializzazione lo porterà, nel 1926, a brevettare e a lanciare una speciale candela per l’aviazione e, più tardi, a lavorare per importanti costruttori di motori (Alfa Romeo, Piaggio, ecc.). Gli anni ’30 vedono la valorizzazione di Bologna come nodo fondamentale per L’universit à la viabilità e i trasporti. In quegli anni sorgono e si sviluppano anche nuove facoltà universitarie tra cui: Chimica Industriale, l’Istituto Superiore di Scienze Economiche e Sociali e Ingegneria, Quest’ultima deriva dalla Scuola di applicazione degli Ingegneri che risale al 1877. In questo scenario, nel ’41, le Officine Meccaniche Tartarini progettano e Tartarini realizzano, a livello artigianale, apparecchiature per l’utilizzo del gas nel campo automobilistico. Marchesini La Marchesini è un’altra impresa “pionieristica” tramandata dal padre fondatore ai figli. Oltre ai giocattoli tradizionali di metallo e gli originali elettrodomestici per bambola, lancia nuovi prodotti come il “Tamburo del 1859” che funziona automaticamente. Nel dopoguerra, anche in questo settore, si registra una proliferazione di piccole e piccolissime imprese legate all’originalità dei prodotti Capitolo V 135 proposti: Pizzoli lancia l’Oskar, giocattolo in plastica di poco prezzo, e il “Poldino”, un vigile che ruota le braccia. Nel ’45, Corrado & Rimondini inventano il “bitriciclo”, della “Baby’s Car” prima e della “Zannoni & C.” poi. Le automobili “a pedali vere e proprie” risalgono al 1952. La storia della GD, nel campo delle macchine automatiche, inizia con Ariosto Seragnoli, ex tecnico dell’ACMA. Nel ’39, suo cugino Enzo Seragnoli diventa amministratore unico della “Fabbrica Italiana di Motobiciclette G.D.” Fondata nel 1923 da Ghirardi e Dall’Oglio, la G.D. primeggiava nelle gare nazionali della classe 125cc., tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30. La produzione si era, poi, allargata alle cilindrate maggiori, fino ai motofurgoni. Durante la guerra l’officina di via Pomponia è risistemata per la produzione bellica. Si fabbricavano, oltre ai motori, anche piccole macchine per l’industria della conserva di pomodoro. Nel dopoguerra la forte concorrenza fa orientare l’azienda verso altre aree merceologiche. Qui emerge l’intraprendenza e l’esperienza di Ariosto. Egli rivelò indubbie capacità organizzative e di scelta dei consulenti e collaboratori. Tra questi troviamo il professor Morandi, docente di Ingegneria, l’ingegner Taino, preside dell’Istituto Tecnico Professionale Alberghetti di Imola (che ritroveremo anche nel caso IMA), e l’allora giovane Riccardo Mattei che gli succederà quale direttore tecnico. Nell’ottobre del 1946, alla riapertura della Fiera di Milano, la GD espone la “2002” incartatrice automatica idraulica regolabile per tavolette di cioccolato. La novità è rappresentata dall’impiego di sistemi oleodinamici per sostituire i cinematismi meccanici. La serie “2000”, così chiamata per porre l'accento sull’impronta d’avanguardia, è una linea di macchine in grado di trattare: saponi, biscotti, cioccolatini, praline e sostanze in polvere, grazie ad un dosatore ad elica e ad una “mescolatrice”. L’approfondimento delle problematiche dei diversi settori merceologici, per intuirne le prospettive di medio-lungo periodo, fa ritornare all’uso di cinematismi meccanici, poiché consentono velocità di incarto più elevata, sono più affidabili e semplificano movimenti e pezzi di macchina. La “2500”, incartatrice di caramelle, è famosa per l’uso di un’alimentazione automatica a due dischi, anticipatrice della “5000” per le Charms. Questa macchina, con un unico ciclo ad alta GD Capitolo V 136 velocità, realizza l’incarto singolo delle caramelle e il loro impacchettamento in stick. Nel ’51 la GD fabbrica anche macchine avviluppatrici e cellofanatrici. La versatilità, necessaria per la varietà di forme e contenuto delle caramelle, viene utilizzata anche nel confezionamento di altri prodotti: saponi, compresse e scatole di pesce conservato. In questo clima di grande fervore creativo, una grande manifattura inglese produttrice di sigarette offre alla GD l’occasione per entrare nel settore tabacco. La richiesta era di cellophanare i singoli pacchetti e le stecche. La prima commessa per la “4300”, destinata al Monopolio Italiano, risale al 1962. All’inizio le macchine GD non fanno concorrenza alla SASIB, leader nel campo dei pacchetti “soffici”, perché si collocano alla fine della linea produttiva per compiere operazioni diverse da quelle eseguite dalle macchine dell’altra azienda bolognese. La “4350/Pack” cellophanava i singoli involucri alla velocità di 260 pacchetti al minuto. Questa velocità costringeva ad abbinare due macchine SASIB che producevano 130 pacchetti al minuto ed un “polmone” GD che li accumulava, abbattendo i “tempi morti” e consentendo altissimi rendimenti. Dalla cell-pack la GD percorre, a ritroso, le fasi del confezionamento e verso la metà degli anni ’60 progetta la “X1” per pacchetti “soffici”, la cui velocità è doppia (360/min) rispetto alle macchine della concorrenza (SASIB) ed è collegabile alle altre macchine GD a valle. A Parigi, Londra e Düsseldorf, intanto, la GD crea tre società di vendita. Negli anni ’70 scade il brevetto dell’inglese Molins e la GD realizza la “X2” per pacchetti “rigidi”. Negli anni ’80 si completa il ciclo di produzione con la “1.2.1” confezionatrice di singole sigarette (a doppio “baco”, ma con un unico magazzino ed un’unica bobina di carta). Il reparto “dolciario” costruisce una nuova generazione di incartatrici che soddisfano la richiesta di altissime capacità produttive (1000/min), nel pieno rispetto della tradizione di flessibilità e affidabilità che ha sempre contraddistinto l’azienda. Queste macchine non subiscono il fenomeno fisiologico di obsolescenza, perché sono in continua evoluzione e possono essere aggiornate per adeguarsi alle nuove esigenze. Altri sforzi progettuali sono diretti verso l’automazione: collegamenti, caricamenti e controllo elettronico, dal tabacco sfuso agli imballi delle stecche di sigarette. Lo stesso avviene per le caramelle. Alla fine del 1986 la GD si avvia a diventare leader Il Gruppo Capitolo V 137 europeo nella produzione di macchine automatiche per l’imballaggio. Amplia gli stabilimenti e ne costruisce altri: a Bologna, a Firenze, a Richmond (USA) e in Brasile, superando i 2.000 dipendenti. Dalla Emhart, un colosso della borsa di NewYork, acquista il gruppo ACMA (Corniani, Ocea, Maco, specializzate in branche diverse del settore “liquidi”), con tre stabilimenti a Bologna, a Mantova e a Durham negli Stati Uniti. Oggi10 fanno parte del gruppo GD anche la JOBS di Piacenza, specializzata in robotica; la GDM (Nuova Red e Tekma) di Cremona e Pavia, specializzate nel condizionamento di articoli igienici monouso; la Volpack che produce impianti complementari alle linee ACMA e la CSI che produce sistemi automatici per il trattamento delle banconote. Le filiali non si contano: Berlino e Langenfeld in Germania, Mosca, Richmond (Stati Uniti), San Paolo, Madrid, Parigi, Maidenhead (Regno Unito), Hong Kong, Tokyo, Singapore, Guangzhou e Kunming in Cina. La GD, del resto vanta una vendita di oltre 6.000 macchine in più di 100 paesi del mondo. Per questo motivo si è attrezzata con sei Training Centre a Bologna, negli Stati Uniti, in Brasile, nel Regno Unito, in Germania e in Cina. Solo a Bologna vengono formati più di 300 tecnici all’anno, in corsi a tempo pieno, per piccoli gruppi, della durata media di 15 giorni. I centri utilizzano aule di teoria e laboratori di simulazione dotati dei più avanzati sistemi formativi. Il dialogo è coadiuvato dalla presenza di interpreti in possesso della terminologia tecnica necessaria. Dei 2.400 dipendenti più del 20% non è italiano. Il 60% è diplomato e laureato. Nel 1985 i diplomati erano 309 e 68 i laureati. Nel 1994 sono diventati, rispettivamente, 591 e 143. L’area impiegatizia copre il 67% dell’organico. Gli uffici tecnici sono divisi in sezioni per macchina e relativo ufficio “formati”. Tutti sono supportati da un ufficio brevetti, un ufficio insiemi, cataloghi e manuali, un ufficio ergonomia, una sala esperimenti, un ufficio CAD-CAM, un ufficio Ricerca e Sviluppo, un ufficio Ricerca e Tecnologia, un ufficio Planning e normalizzazione, una Segreteria Tecnica ed un Centro di Calcolo. La distribuzione delle qualifiche mostra una media piuttosto elevata. Tra il 5° livello, il 5° Super e il 6°, nel 1994, 10 Tutti i dati che seguiranno sono presi da materiale GD: pubblicazioni pubblicitarie, periodico interno e Capitolo V 138 erano comprese 830 persone (oltre il 50%); 247 erano di 4° livello, 205 di 7°. I quadri erano una cinquantina, mentre meno di un centinaio le persone appartenenti alle categorie più basse: 27 di 2° livello e 70 di 3°. L’azienda svolge frequenti corsi di formazione riguardanti vari argomenti. Il progetto “Formazione Istituzionale” articola i corsi per aree (economica, gestionale, delle relazioni, ecc.) con un ammontare di 2363 giorni programmati a questo scopo. La GD ha, anche, ottenuto la certificazione di “Qualità” ed ha adibito un ufficio alle relative mansioni. Il circolo aziendale propone attività sportive, ricreative e culturali, tra cui una quantità notevole di gite turistiche. Attraverso il circolo è possibile ottenere anche rimborsi per corsi sportivi, libri scolastici e regali di Natale per i figli dei dipendenti. La GD fa parte dei Sostenitori del Teatro Comunale al fine di mantenere la città nel prestigioso circuito dei grandi teatri internazionali. Nel 75° anniversario di fondazione l’azienda ha proposto un conveniente “piano sanitario” per dipendenti e familiari, gratuito per tre anni. La polizza riguarda le spese mediche di qualsiasi tipo. La GD finanzia e promuove ricerche sulla prevenzione dell’ansia e della depressione con l’Istituto di Psichiatria dell’Università di Pisa. Finanzia, inoltre, la Fondazione Europea di Oncologia e Scienze Ambientali “B. Ramazzini”, che svolge ricerche sulle malattie La famiglia Seragnoli e il dell’ambiente: insieme stanno realizzando il primo Hospice oncologico d’Italia, il “Maria Teresa Chiantore Seragnoli”, per dare assistenza ai pazienti affetti da tumori in fase avanzata. Il diretto interessamento della famiglia Seragnoli ha coadiuvato l’Ospedale Sant’Orsola di Bologna nello sviluppo dell’Istituto di Ematologia e di quello di Oncologia Pediatrica. Il 5% del fatturato sono investiti in ricerca. Il motto è: “GD: tradizione d’avanguardia”. Così è nato il DAMS (Data Acquisition and Management System), un sofisticato software in grado di acquisire, memorizzare, Tradizione d’avanguardia gestire e visualizzare tutti i dati di produzione, scarto e funzionamento del parco macchine confezionatrici presenti in ambiente manifatturiero e/o delle informazioni inerenti il consumo dei materiali ausiliari. Questa realizzazione va ad aggiungersi al MIP (Modulo Integrato Polifunzionale) che controlla elettronicamente tutta la linea pubblicazioni commemorative. Capitolo V 139 di produzione GD, dall’arrotolamento delle sigarette, fino al confezionamento delle stecche di pacchetti. Di recente è stato realizzato (in meno di otto mesi) un nuovo magazzino totalmente automatico. Esso ha un volume di 40.000 mq. e può contenere fino a 80.000 codici diversi. Sei “trasloelevatori” possono trovare e consegnare alla stazione richiedente qualsiasi pezzo immagazzinato, in un minuto. Un sito internet GD la collega con clienti e fornitori, aggiungendosi al già sofisticato sistema informatico intranet: più di 2.000 terminali intelligenti gestiscono più di 100 milioni di transazioni all’anno, con una potenza di 360 megabyte al secondo (pari ai caratteri contenuti in 700 copie della Divina Commedia). Tra le macchine ultime nate troviamo la “X3”, evoluzione della “X2”, la “X700” e la X2000NV”, rispettivamente per pacchetti “soffici” e “duri” e con una velocità di 700 pacchetti al minuto. Le ultime due hanno la prima parte in comune (“XE”) in relazione con la ricerca di modularità delle macchine. Altri progetti sono già in cantiere… Non va dimenticata, nel gruppo, la “ACMA 770”, astucciatrice per saponi, dotata di tre tipi di alimentazione alternative che raggiunge una velocità di 500 pezzi al minuto. I suoi pregi migliori sono: lo “user friendly” (semplicità di utilizzo), la velocità di “cambio formato” (eseguibile in 15 minuti) e la bassa rumorosità (75dB). Dopo questo approfondimento dovuto all’importanza dell’azienda e al fatto che vi lavoro io, passiamo adesso ad Antonio Martelli che entrò all’ACMA nel 1930. Aveva diciassette anni e si era appena diplomato alle Aldini-Valeriani. Da montatore specializzato seguì le macchine ovunque, per poi passare in ufficio tecnico, dove collaborò con Clerico alla progettazione di nuovi modelli. Nell’immediato dopoguerra iniziò il graduale distacco dall’azienda: prima chiese a Barbieri l’assistenza post-vendita, poi cominciò a progettare una macchina per caramelle a “ciclo continuo”, diversa da quelle dell’ACMA che funzionavano a “ciclo alternativo”. Questo progetto era portato avanti da Martelli fuori dell’orario di lavoro, mentre continuava ad essere dipendente dell’ACMA. L’accordo gli destinava il guadagno derivato dal prototipo che egli doveva realizzare, più il 10% del ricavato dalle prime 10 macchine. CAM Martelli Capitolo V 140 “Erano tempi in cui Ariosto Seragnoli era quasi sempre a casa nostra ricorda il figlio Guglielmo Martelli – e d’estate, dopo essere andati a prendere il gelato da Pino, restavo ore dietro lo strapuntino della Topolino ad ascoltare le loro discussioni su macchine e grandi progetti (…). Scherzavano, ricordo che Ariosto sosteneva che essere investito da un motorino GD, la ditta rilevata da suo cugino Enzo, era impossibile, perché si sentiva il rumore tre ore prima che ti arrivi addosso. (…) Il prototipo a ciclo continuo venne realizzato nel garage del cortile con l’aiuto del padre di un mio compagno di scuola e di noi ragazzini, continuamente mandati in giro ad acquistare il necessario”. (Curti e Grandi 1997, p.75) Uscito dall’ACMA nel 1950, Martelli iniziò l’attività “in proprio” con la CAM (Costruzioni Antonio Martelli) in una piccolissima officina in via della Salita, fuori Porta San Vitale. La prima macchina realizzata fu venduta, assieme ai disegni, alla REGIS che costruiva portafogli: tagliava e saldava la plastica per questi prodotti. Successivamente la CAM realizzò macchine per dosare e modellare cioccolatini, per dosare detersivi in polvere, ecc. Arrivò a costruire le inscatolatrici e le fascettatrici per l’Idrolitina di Gazzoni, ideando il raggruppamento delle dieci bustine, di due tipi diversi, con carta termosaldata. In seguito, la CAM iniziò, prima in Italia, a progettare macchine astucciatrici per dadi da brodo, formaggini, matite, dentifrici. La principale novità consisteva nello “spadone”: un semplice meccanismo “a doppia lama con cerniera” che consentiva, una volta inserito tra le pareti schiacciate della scatola, di aprirla e ridarle volume, indipendentemente dal materiale e dal modo con cui era fatta (cordonata, incollata, ecc.). Nel ’62 si celebrò l’espansione dell’impresa Gnudi con il trasferimento nella più grande e moderna sede di Via Toscana. Bruno Gnudi, tecnico diplomato alle Aldini-Valeriani curava a quei tempi l’attività commerciale della CAM e ricorda gli inizi, quando si progettavano le modifiche alle macchine ACMA, nelle ore libere. Egli rimase affascinato dalla personalità di Antonio Martelli e da quelle macchine che imitavano il lavoro delle mani. Le astucciatrici erano pressoché sconosciute fino ad allora. Grosse ditte alimentari, dolciarie, cosmetiche e, soprattutto, farmaceutiche confezionavano i loro prodotti ancora a mano, su lunghi tavoli, con tanti addetti controllati da un “caposala”. Gnudi ricorda la diffidenza dei clienti ad ogni proposta di Martelli e la sua inesperienza nell’attività commerciale. Capitolo V 141 Piazzate le macchine bisognava fornire l’assistenza post-vendita e lo stesso Gnudi racconta: “Ero a contatto diretto con i clienti e quindi dovevo svolgere anche interventi di manutenzione, collaudo e ricambio (…). Dopo tanti anni mi sento ancora un uomo d’officina”. (Curti e Grandi 1997, p.78) Alla morte del fondatore, nel 1966, la responsabilità del Gruppo viene assunta dal figlio Guglielmo. Egli costruì un nuovo stabilimento a Rastignano per ampliare la produzione di macchine in serie e intuì, con largo anticipo, quelle che sarebbero diventate, poi, scelte obbligate dal mercato: fornire, in pratica, linee di confezionamento complete controllate da sistemi computerizzati, con gruppi di collegamento tra le diverse unità operative. Vennero avviate diverse unità produttive, specializzate in famiglie di prodotti, che vendevano migliaia di esemplari: riempitrici per liquidi, blisteratrici, Il Gruppo CAM astucciatrici, cellofanatrici, fardellatrici, incartonatrici, ecc. Fu costituita una ditta, la CAMEX per il coordinare le organizzazioni di vendita estere e le fabbriche. La struttura era aperta anche ad altre ditte produttrici di apparecchiature complementari nella realizzazione di linee complete. Nel 1965 nacque la “G.B.GNUDI Bruno S.n.c.” e, in seguito, la CAMPAK: erano una sorta di strutture di assistenza postvendita con magazzino ricambi e gruppi per il pronto intervento sulle macchine CAM. La serie di tecnici sfornati da quella fucina di talenti che è stata l’ACMA prosegue con Agostino Billi. Cresciuto, appunto, all’ACMA come progettista, egli si mette in proprio nel 1954, seguito dal collega Frabboni. Il suo progetto è una macchina incartatrice di caramelle che introduce, rispetto ai modelli ACMA, una ruota a pinze e un sistema di alimentazione notevolmente più veloci del vecchio processo ad intermittenza. Nel 1957 le Officine Meccaniche Billi vengono acquistate dalla Carle & Montanari. Questa azienda milanese fabbricava macchine per la produzione di cioccolata e caramelle dall’inizio del secolo e aveva già collaborato con Billi. Nel nuovo stabilimento bolognese arrivano, sempre dall’ACMA, altri due progettisti: Lullini (che in seguito fonderà la FARMOMAC) e Palmieri. Questa filiale si specializzerà nel confezionamento di saponi, settore del tutto nuovo per questa azienda. Billi Capitolo V Preci 142 La storia di Giovanni Preci è esemplare: entrò all’ACMA a 14 anni a pulire gli uffici. Riuscì, poi, a inserirsi nella “sala esperimenti” dell’azienda dove imparò la meccanica e stabilì una buona intesa con Carpigiani. Questi lo spinse a frequentare le Aldini-Valeriani. Dopo un’esperienza come montatore trasfertista, nel ’45 cominciò l’attività autonoma di riparatore di macchine danneggiate, mantenendo buoni rapporti con i tecnici ACMA. Bruto Carpigiani disegnò la sua nuova macchina da gelato a casa di Preci. Nel ’46 la ditta Preci è iscritta alla Camera di Commercio. La sua crescita fu molto limitata dal fatto che Giovanni volle far tutto soltanto con i propri mezzi, seguendo personalmente tutte le fasi di realizzazione delle sue “creature”. L’avvio di una produzione propria avviene nel ’47. Si trattava di una macchina fatta con materiali di recupero (siamo nel periodo di riconversione postbellica) per cuocere e mescolare il “croccante”. Successivamente Preci ideò e produsse macchine per fascettare i gessetti da disegno, per unire la parte di gomma tenera con quella rigida nelle tettarelle dei poppanti, per plissettare le guarnizioni dei copricapi delle suore. Il settore dolciario, tuttavia, restò quello principale fino al ’70. Nel ’68 iniziò la produzione di macchine per il settore farmaceutico. Giovanni Preci morì nell’89, dopo aver finito una macchina per confezionare una complessa siringa per dialisi domestiche. La figlia Rita ne ha proseguito l’attività fino ad oggi. Corazza Natalino Corazza entra all’ACMA nel ’36. Ha 18 anni e ha frequentato i corsi serali di meccanica alle Aldini-Valeriani. Nel ’48 lascia l’azienda per svolgere un’attività autonoma di riparatore. Nel ’53 fonda un’impresa insieme a sua moglie, Maria Toschi nata a Ferrara da una famiglia di contadini. Maria aveva frequentato le scuole di “avviamento” ed aveva lavorato come operaia alla Bonavia e Negri, impresa farmaceutica. Tutto comincia con un prestito, come ricorda la signora Corazza: “C’era un affare (…) comprando tre macchine usate che confezionavano formaggio fuso ed erano bruciate (…) Parla e riparla, l’affare non si poteva concludere perché voleva un milione e mezzo in contanti e noi non lo avevamo.(…) Allora sono dal mio salumiere (…) e così parlando capisce che avevamo dei problemi e mi dice: ”Ha bisogno di soldi?” (…) In quel periodo aveva ereditato (…) e disponeva della somma. Morale della favola: nel giro di un’ora avevo trovato i soldi che servivano a mio marito per fare l’acquisto. Capitolo V 143 “Non scherzare” mi dice Natalino tornando a casa. Nel frattempo sentiamo il campanello e arriva questo signore con i soldi! (…) E’ stata una cosa che non dimenticherò mai. Si può dire che è stato quasi l’inizio della nostra fortuna. Era il 1956. Prima abbiamo sistemato queste macchine per il formaggio, dopo mio marito ha creduto bene di costruirle lui, fatte molto diversamente. Però quello è stato l’inizio.” (Curti e Grandi 1997, p.87) La Corazza, successivamente, vince la concorrenza tedesca nella produzione di macchine per dadi da brodo, con una soluzione meccanica: il “monoblocco”. Questo meccanismo velocizza il processo, riunendo le operazioni di dosatura e confezionamento in una sola macchina. In seguito la gamma di applicazioni possibili viene ampliata. Nel ’75, alla morte di Natalino, la moglie prosegue l’attività, passata, nel ’96, alla figlia Valeria. Oggi, le Officine Meccaniche Corazza sono incorporate nel Gruppo Morningside e offrono le tradizionali linee per il dado da brodo di media e alta velocità, ma anche numerose alternative per il condizionamento del formaggio fuso e per l’industria casearia in genere. Risale agli anni ’30 l’origine del Gruppo Fabbri, quando Ennio Fabbri rileva Fabbri una piccola tipografia fondata a Vignola nel 1870. Nel dopoguerra avviene l’incontro con il packaging: viene installata la prima “rotativa flessografica a rotocalco” per la stampa di imballaggi da frutta. Si producono, anche, diversi tipi di confezionamento: dai “fazzoletti” per avvolgere gli agrumi, alle etichette, alle carte speciali. Nel ’60 la Fabbri fonda l’AUTOMAC per progettare e produrre avvolgitrici automatiche con carta paraffinata. Nel ’63 l’AUTOMAC lancia, per prima sul mercato, le macchine per confezionare con film retraibili libri, giornali e riviste, mentre la Fabbri produce le pellicole necessarie all’imballaggio. Negli anni ’70 brevettano nuovi sistemi di imballaggio automatico, fra cui il PVC estensibile a freddo per l’avvolgimento di prodotti freschi nei supermercati. La Wrapmatic nasce nel 1960 dall’incontro tra tecnici bolognesi e finanziatori del Gruppo Panigal. Gianni Boccato, perito meccanico delle Aldini-Valeriani che aveva lavorato alla Rangoni-Puricelli, orienta la progettazione e la produzione verso l’imballaggio di grandi risme di carta. Queste macchine coprono circa il 90% del loro mercato mondiale. Dal ’90 l’azienda fa parte del Gruppo tedesco Korber (Gruppo Wrapmatic Capitolo V 144 che comprende l’AUNI, diretto concorrente della GD, nel settore tabacco). Dalla fusione con la Cassoli, entrata a far parte del Gruppo, è nata la Casmatic. IMA Andrea Romagnoli, diplomatosi alle Aldini-Valeriani nel ’47, lavora all’ACMA e alla GD e, nel 1961, fonda l’IMA (Industria Macchine Automatiche).Con lui c’è il cognato Renato Taino, già collaboratore di Ariosto Seragnoli alla GD. Il sostegno finanziario della famiglia Vacchi permette, successivamente, l’allargamento dell’impresa. L’avvio vede la costruzione di macchine imbustatrici di polveri d’acqua da tavola e un prototipo di confezionatrice per uova di cioccolato. Nel ’67 la “C20”, confezionatrice per tea in bustina, apre al settore dei sacchetti-filtro, nel quale l’IMA è, oggi, leader mondiale. Questa macchina tratta il prodotto dalla formazione della bustina al suo inscatolamento in un contenitore cellophanato ed ha la possibilità di variarne il formato con facilità. Nel ’76 l’IMA si inserisce nel mercato farmaceutico con una macchina “blisteratrice ad astucciamento integrato” per capsule, confetti e compresse. La scelta strategica di ricerca di nuovi mercati in cui non operassero già altre aziende bolognesi è comune a molte imprese del comparto. FIMA Nel 1961 la FIMA S.p.A. (Fabbrica Italiana Macchine Automatiche) inizia la sua attività a Zola Predosa, nella periferia bolognese. Sono anni di grande fermento: i “tempi d’oro” dell’industria meccanica bolognese ed emiliano romagnola. La FIMA si colloca subito nel carnet di produttori di macchine per cioccolato. La prima macchina incarta grosse uova di Pasqua corredate dal tradizionale fiocco e sostituisce una serie di accorte e pazienti operazioni manuali. La produzione si estende, poi, alle incartatrici di Boeri, di Gianduiotti e di prodotti con altre fogge. Nel ’70 cambia la proprietà, la dirigenza, la ragione sociale e si trasferisce ai confini con Casalecchio di Reno, diventando “Nuova FIMA Imballaggi”. Inizia, così, l’allargamento delle gamme produttive ed il miglioramento della loro produttività ed efficienza. A metà degli anni ’80 c’è un ulteriore accelerazione della crescita, con l’acquisizione di nuovi mercati esteri e col nuovo vigore impresso alla ricerca e al rinnovamento tecnologico. L’ultima nata, la “GIOVA 020” incartatrice multifoggia ad alta velocità per cioccolatini, è già al centro dell’attenzione dei produttori del settore. Capitolo V 145 L’Arcotronics fa storia a sé, essendo legata alla produzione di componenti elettronici e, soprattutto, dei relativi processi di produzione. La fondazione avviene nel 1962, grazie ad un’idea innovativa di alcuni dipendenti della Ducati Elettronica, tra cui Falchieri. Questi, dopo aver visto rifiutare il loro progetto, si mettono “in proprio”, avendo ottenuto fondi da Dino Olivetti e, per qualche tempo, anche dal suo amico Rockfeller. Un’altra nuova idea accompagna l’impresa: automatizzare la produzione che, allora, era a cottimo. Questo si traduceva nell’ideare un prodotto completo di sistema automatico per la sua produzione. Dopo una decina di anni Olivetti vende l’Arcotronics alla Plessi, multinazionale inglese. L’acquisto è dettato dalla necessità della Plessi di ammodernare altre aziende del Gruppo che producono condensatori. Ha luogo, così, un confronto fra diversi principi che regolano il modo di lavorare. I mansionari inglesi, ad esempio, erano molto rigidi ed esigevano un impiego di personale tre volte superiore al necessario. Il confronto permette all’ARCO di rendersi conto del valore delle innovazioni introdotte: nel 1973 viene scorporata la Divisione Meccanica. Questo modello produttivo viene esportato, negli stabilimenti in Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti, ma il nucleo progettuale resta a Sasso Marconi (Bologna). Lo stabilimento americano incontra notevoli difficoltà, perché la concezione di “mobilità” statunitense provoca un ricambio continuo di manodopera non specializzata, quando, invece, questo modello produttivo, richiede un notevole grado di specializzazione delle maestranze. La Plessi decide di chiudere questa fabbrica e propone di vendere le sole automazioni. C’è uno scontro tra chi teme di rafforzare gli altri produttori di condensatori e chi sostiene, invece, che il confronto sul mercato può giovare al miglioramento delle macchine. Vince la seconda posizione ed ha successo. Oggi l’Arcotronics è fra i maggiori produttori mondiali di condensatori in film. L’azienda ha sempre mantenuto la direzione interamente italiana, nonostante i cambiamenti di proprietà, con Mazzolini Direttore Generale e Gruppioni Direttore della Divisione Meccanica. Questo ha assicurato continuità allo sviluppo. La Divisione Meccanica ha circa 200 dipendenti, di cui 50 interamente dedicati alla “prototipazione”. L’esperienza accumulata nel ramo dei prodotti-processi ha aperto diversi mercati: dai componenti elettronici miniaturizzati, Arcotronics Capitolo V 146 a diversi film plastici e metallizzati, dalle batterie ricaricabili avanzate, alle applicazioni per auto elettriche. Le automazioni riguardano l’assemblaggio e l’imballaggio dei componenti. Gli impianti sono sempre realizzati “su misura” di cliente, ma si sta cercando di rendere modulari queste personalizzazioni per poterle vendere anche separatamente. Cassoli Un altro ex dipendente ACMA è Paolo Cassoli che ha frequentato sia le Aldini-Valeriani sia l’Istituto Fioravanti. Dopo l’esperienza di aggiustatore e montatore all’ACMA, nel 1964, fonda con la moglie la Cassoli. Paolo progetta e produce macchine per confezionare prodotti di carta, soprattutto, rotoli di carta igienica e da cucina. Suo stretto collaboratore è Giorgio Bonafè, anch’egli perito meccanico diplomatosi ai corsi serali delle Aldini-Valeriani. Entrata a far parte del Gruppo Korber, recentemente la Cassoli si è fusa con la Wrapmatic, diventando Casmatic. MG2 La collaborazione tra un progettista, un tecnico collaudatore e un finanziatore fa nascere, nel 1966, un impresa: la MG2. Ernesto Gamberini, il progettista, si è formato all’Istituto Professionale Fioravanti ed ha lavorato alle Officine Zanasi, durante la conversione della produzione dalle motociclette alle macchine automatiche. Nel ’57, diventa responsabile di progetto e cura la realizzazione dei prototipi. Le macchine erano dosatrici di polveri e granuli in capsule di gelatina dura, con movimentazione “in continuo”. La concorrenza tedesca disponeva solo di macchine a movimento “alternativo intermittente”. MG2 ha anche brevettato dei sistemi di alimentazione e di orientamento delle capsule. 2M Marchesini Un’altra storia interessante è quella di Massimo Marchesini che ha frequentato, alla fine degli anni ’40, i corsi di avviamento professionale delle Aldini-Valeriani. Entra alla CAM fin dagli inizi: prima è operaio, poi trasfertista, quindi capoofficina del reparto di montaggio e, infine, direttore tecnico di una società del Gruppo Martelli. Nel 1974 fonda la “2M Marchesini” che progetta e realizza, in serie, gruppi speciali da applicare a macchine automatiche già esistenti. Avvalendosi della collaborazione di Giuseppe Monti, giovane progettista uscito anche lui dalle AldiniValeriani, la 2M comincia a realizzare macchine astucciatrici. L’impresa, innovando, Capitolo V 147 si specializza in sistemi di messa in volume degli astucci e in alimentazioni compatibili con diverse linee di confezionamento automatizzato. Negli anni ’80 allarga la produzione con le blisteratrici per il settore farmaceutico. Oggi è uno dei cinque gruppi presenti nel comparto. La “A.M.s.n.c.” nasce, nel 1977, per opera di due periti, entrambi diplomatisi AM alle Aldini-Valeriani: Gian Alberto Minelli e Giuliano Anidriti. Dopo tre anni di crescita a livello nazionale entra nel Gruppo Oltremare, creando l’AMOTEK. Attualmente leader mondiale nel settore delle macchine automatiche ad alta tecnologia, realizza prodotti estremamente versatili, per l’imballaggio di carta igienica, assorbenti, pannolini, rotoli e sacchi freezer. La BAUMER di Castelfranco Emilia viene fondata nel ’79 da Mario Gambetti. Baumer Diplomatosi ai corsi serali delle Aldini-Valeriani, egli ha fatto esperienza in diverse imprese del settore. La BAUMER possiede numerosi brevetti internazionali, in aperta concorrenza con le imprese tedesche. L’azienda è collocata nel mercato mondiale delle macchine avvolgitrici con pellicola termoretraibile. Sono macchine capaci di trattare, ad elevata velocità, qualunque prodotto (bevande, alimentari, cosmetici, ecc.) di qualsiasi forma (bottiglie, barattoli, astucci, ecc.). Il cambio di formato avviene automaticamente. Un altro fattore in comune tra le storie fino a qui incontrate è l’aver frequentato le Aldini-Valeriani. La rassegna prosegue coi protagonisti di attività che non fanno più parte del packaging, anche se vi sono collegate. Il primo è Clementino Bonfiglioli, un giovane diplomato delle Aldini-Valeriani che, nel 1956, fonda assieme ad altri due soci la Costruzioni Meccaniche Bonfiglioli. L’impresa produce cambi di velocità per motociclette e macchine agricole. L’impiego dei “riduttori” nel settore dell’imballaggio spiega la rapida crescita di quest’azienda. Nel ’60 è già alla Fiera di Milano (allora paragonabile a quella di Hannover di oggi). Nel ’64 si trasferisce nella sede attuale di Calderara di Reno per soddisfare le richieste di mercato sempre più specifiche: giunti calettatori, gruppi “freno e frizione”, limitatori di coppia, piccoli motori a corrente continua, oltre ai riduttori e motoriduttori a vite senza fine, ad assi paralleli, ecc. Tra il 1973 ed il 1975 acquista la Transmital, Bonfiglioli Capitolo V 148 officina parastatale di Forlì che produce riduttori epicicloidali per betoniere, cingolati e torrette rotanti. Altre acquisizioni sono la Lucmar nel ’74 e la “LS Meccanica” nel 1982. Datalogic La Datalogic nasce nel 1972, ad opera dell’ingegner Romano Volta, già docente di elettronica all’Università di Bologna e all’Istituto Aldini-Valeriani. L’impresa produce dispositivi fotoelettrici per rilevare dati e controllare le diverse funzioni delle macchine per l’imballaggio. La rapida espansione dei sistemi automatici l’ha resa un’azienda leader in Europa, costringendola ad ampliare gli stabilimenti del Lippo di Calderara di Reno e ad aprirne un altro in Germania. Dal’78 è sorta la Data Engineering che, con ben 120 ingegneri, progetta e ricerca nel campo dell’ottica, dell’elettronica e dei software. Dal ’79 l’azienda ha sviluppato i sistemi di lettura dei “codici a barre”, diventandone il principale produttore europeo e tra i primi tre al mondo. Questa crescita ha fatto sorgere nuovi stabilimenti a Bologna, negli Stati Uniti (microprocessori per la raccolta dati nel campo automobilistico) e in Giappone (sensori fotoelettrici miniaturizzati per la robotica, color mark detectors e altri sensori ottici). La tradizione del territorio bolognese gareggia con l’automazione più avanzata: l’abilità nel costruire lenti di vetro degli artigiani del XVII° secolo, oggi è contenuta in una sola macchina computerizzata che produce lenti ottiche in plastica senza bisogno di operatori. ITM Da oltre trent’anni l’ITM (Italmec Elettronica) è specializzata nel controllo dei processi industriali (in particolare temperatura e umidità). Produce un’ampia gamma di prodotti che abbracciano l’intero loop di regolazione (sonde, indicatori, regolatori e programmatori). Oltre alla “qualità”, l’azienda ha sviluppato un servizio molto attento ai clienti dei diversi mercati. Tra questi figurano nomi prestigiosi del packaging nazionale. Recentemente, l’ITM ha ottenuto, dal Ministero della Ricerca Scientifica e Tecnologica, l’iscrizione all’albo ufficiale delle “Strutture di Ricerca”. Pulsar Un’altra azienda, la Pulsar, si costituisce nel 1989 per produrre componenti per trasmissioni meccaniche. Nel ’91 viene rilevata da Massimo Franzaroli. Franzaroli nel 1985 aveva fondato Mind Engineering, uno studio tecnico che progettava macchine automatiche speciali, impianti di convogliamento, di automazione e di Capitolo V 149 montaggio. Nel ’95 arriva un nuovo socio, Tienno Bettati, fondatore della BettSistemi di Correggio (Reggio Emilia) produttrice di componenti per l’automazione flessibile. Nasce, così, il progetto B-Flex, una linea di componenti modulari per sistemi di convogliamento (a tappeto, a pallet, a catena), poi, distribuita in tutto il mondo. La produzione si è specializzata in martinetti meccanici a vite, in rinvii angolari, nastri trasportatori, protezioni antinfortunistiche e “isole robotizzate”. Abbiamo, così, concluso la rassegna dei casi più significativi, ai fini di questa ricerca, tra quelli verificatisi in questo territorio. 5.4.2 – Cosa è stato scritto 5.4.2.1 – Analisi di un percorso: lavoro, organizzazione e progetto. Prendiamo in considerazione, adesso, il lavoro e ciò che significa per l’uomo. Esso ha sempre un significato anche simbolico. Più si tratta di “eseguire”, anziché di “fare” e più la consegna sarà concreta e meno simbolica: sarà descrizione del gesto invece che dell’oggetto. Il lavoratore perde, così, la capacità di raffigurazione finale di un oggetto che egli carica, sempre più, di simboli. Il lavoro che implica il fare, procede per fasi che investono, in varia misura, sia il mondo interno dell’individuo che la realtà esterna in cui egli opera. Il primo atto è la decodifica e la traduzione del compito. Si passa poi alla prefigurazione mentale dello svolgimento pratico del lavoro assegnato. Queste fasi riguardano il comprendere e la formazione e l’uso di simboli. “L’uso dei simboli è (…) un modo di essere a contatto con la realtà psichica interna” e implica, perciò, un temporaneo e parziale allontanamento dal mondo esterno della realtà condivisa. Ogni simbolo rimanda ad altri e questo “viaggio nelle possibilità” è suscettibile di generare angosce “di non essere capace di ritornare (vale a dire di rimanere internamente preoccupato e paralizzato, o totalmente confuso), o di tornare con qualche creazione mostruosa” (Jaques 1990). Una selezione “secondo pertinenza” comporta la separazione di elementi e genera angosce di frammentazione. Il lavoro ha successo se c’è contenimento delle ansie generate dal lavoro simbolico. La presenza di strumenti tecnici, cognitivi ed esperenziali e la conoscenza dei limiti reali, delle finalità e del processo, rassicurano Lavoro e simboli Capitolo V 150 il soggetto sull’affrontabilità del compito, permettendogli di immaginare di essere in grado di intervenire negli imprevisti. A questo scopo è utile, poter prevedere il tempo a disposizione e la possibilità/necessità di passare alla fase decisionale ed operativa. Decidere e realizzare Decidere (da de-caedere = tagliare via) vuol dire scegliere, scartando. A livello inconscio, la decisione ha a che fare con la separazione, la perdita e la castrazione. E' necessario “mantenere il processo del lavoro simbolico abbastanza a lungo e proprio con la giusta quantità di selezione particolareggiata. Si richiede un delicato equilibrio tra una chiusura affrettata ed un rinvio ossessivo” (Jaques 1990). La realizzazione concreta del lavoro evidenzia le differenze tra l’oggetto pensato e quello fatto. Occorre accettare la perdita del primo ed investire affettivamente il secondo, riconoscendo le caratteristiche pensate nell’oggetto reale. Se ciò non avviene il lavoro sarà da buttare, senza possibilità di riparazione. Il lavoro L’apprendistato implica, quindi, una “sofferenza” psicologica che nasce dal confronto con la propria distruttività interna e con la separazione. L’apprendistato è quel momento nel quale l’individuo riformula la propria formazione per acquisire la capacità di usare oggetti e conoscenze del nuovo lavoro, inteso come oggetto significativo affettivamente investito. All’inizio di questo percorso l’ambiente tollera errori ed inadeguatezze, introducendo regole, vincoli e aspettative, in modo graduale. Le carenze in questa fase provocano gravi distorsioni della relazione tra l’individuo e quel particolare lavoro (Marchisio 1990, p.60). Il conflitto tra ordine e caos Per essere soddisfacente un lavoro deve prevedere discrezionalità, autonomia e libertà11. Solo un lavoro creativo può dare quella particolare soddisfazione che deriva dalla sensazione di vittoria sulla propria distruttività, sul caos e sull’angoscia di separazione. C’è la continua necessità di tollerare l’ambivalenza “come base della responsabilità sociale e del lavoro da portare a termine giorno dopo giorno”. Tale ambivalenza si esprime, nei rapporti concreti, con la conflittualità (ben diversa dalla competitività). L’area conflittuale deve essere gestita e non “risolta”. Tra caos e rigidità, l’informalità è insufficiente (MET 1988). Il conflitto rende difficile la 11 Confronta con le quattro dimensioni del lavoro di Gallino in 2.2 a p.40, nota 11. Capitolo V 151 presenza di un potere “per competenza”. Nelle organizzazioni umane (che 12 Gruppi comprendono sempre sia “gruppi di base emozionali” sia “gruppi di lavoro” ) il di base e leader gerarchico è, sostanzialmente, il leader emotivo del “gruppo di base”, le cui lavoro gruppi di modalità di funzionamento controllano anche il “gruppo di lavoro” (Marchisio 1990, p.60). La capacità di evolversi riguarda il “gruppo di lavoro” ed ha a che fare con l’applicazione di un’immaginazione creativa. Per sua natura un “gruppo di lavoro” non è mai soddisfatto di riprodurre qualcosa di esistente. Il “gruppo di base”, viceversa, non ha alcuna capacità evolutiva, perché si fonda sulle risposte “primitive” a stimoli esterni (dipendenza dal leader, reazione ad un nemico esterno, attesa messianica del nuovo leader). Il gruppo si situa tra due poli (MET 1988). Il primo corrisponde alla funzionalità, che deve rendere efficace l’azione della direzione. Il gruppo, in questo caso, serve al controllo e alla manipolazione del comportamento individuale. Il secondo polo presuppone il coniugare motivazione, flessibilità, comportamenti creativi e produttività: il gruppo diventa luogo di sedimentazione di sentimenti di appartenenza e di forti relazioni affettive positive, il “noi” nella struttura elementare, formale e reale, dell’impresa. Esso si colloca in un continuum con la struttura sociale normatrice, come luogo dotato di senso e principio di identità e protezione, in cui l’individuo può agire creativamente. Se la cooperazione è “modalità eteronoma”, in cui le identità sono stereotipate, una “modalità autonoma” è rappresentata dalla coalizione. Il MET definisce quest’ultima come l’insieme delle informazioni che la “forza lavoro” trasmette nello spazio fisico e sociale del sistema produttivo con motivazioni e fini ad esso esterni e/o antitetici (MET 1988). La “forza lavoro” viene rappresentata come gruppo sociale con norme, valori e aspirazioni autonomi ed esogeni rispetto alle finalità del processo produttivo. In questo senso, l’informalità riconosciuta come risorsa negoziabile diventa base per l’autonomia; mentre, non negoziata, può diventare un mezzo di coinvolgimento strisciante e subalterno (Studio Giano 1992). La necessità di cooperazione, correlata al 12 Secondo Bion il comportamento dei gruppi si manifesta con l’alternanza tra stati di carattere emozionale (assunti di base) e stati di carattere operativo (attività finalizzate). Il primo ha una valenza affettiva “chiusa” che L’informalità Capitolo V 152 dispositivo tecnologico, può essere il fondamento della negoziazione e della dinamica della progettazione organizzativa. Se l’obiettivo è la riduzione del tempo di attesa rispetto alle lavorazioni, il gruppo deve avere la capacità di progettare l’interfunzionalità necessaria alla riduzione dei “tempi di attraversamento”13. “La chiave di volta di un progetto è il corretto sviluppo, in tempi brevi, dall’idea alla sua realizzazione (…) per questo si deve prevedere l’imprevedibile e mantenere l’indagine di progetto aperta a soluzioni ampie e alternative”. (Sammarco 1998) Ai “gruppi di lavoro” viene conferita la responsabilità unica di tale sviluppo, con ampia delega e verifica preventiva dei “tempi di attraversamento”. Lay-out sociale Si prefigura la necessità di progettare il lay-out14 fisico in relazione al lay-out sociale, per governare il lavoro manuale e quello intellettuale, stabilendo un nuovo assetto del rapporto tra sapere e potere, fra produttori di regole e pratiche sociali. Le influenze disorganizzanti dell’ansietà e la povertà di comunicazione tra membri, e/o tra questi e l’ambiente circostante, possono far regredire un “gruppo di lavoro” ad un “gruppo base” (Marchisio 1990, p.60). La novità può indurre un “mutamento catastrofico”, a cui il gruppo reagisce con la disorganizzazione e la disgregazione, regredendo al livello di funzionamento per assunti di base. Un’organizzazione che ostacola il cambiamento e che ha confini troppo rigidi, o eccessivamente permeabili (tutto cambia affinché nulla cambi) facilita tale regressione. In questa situazione l’assunto vincente sarà “attacco e fuga”. Non è possibile definire una precettistica a priori che possa far prevalere il funzionamento razionale. Sono identificabili, Tre elementi tuttavia, alcuni elementi che sostengono il gruppo, contenendo l’incertezza. Questi elementi hanno a che fare con la conoscenza, con la prevalenza del compito impedisce la realizzazione concreta dell’idea; il secondo si apre alla concretezza solo se si è già cementato nella dimensione affettiva ed emotiva. (Bion W.R. 1976, Esperienze nei gruppi, Roma, Armando). 13 Studio Giano (a cura di), 1992, Il lavoro: progettazione e conflitto, Milano, Angeli, p.44: “Per tempo di attraversamento si può intendere il tempo di una fase di lavoro, il tempo della fabbricazione, il tempo complessivo dall’entrata dell’ordine all’uscita del prodotto finito, il tempo che intercorre dall’idea di un nuovo prodotto alla messa in produzione. Un tale concetto si presta più che come misura in relazione ad un obiettivo di cui bisognerebbe stabilire i parametri, esso rappresenta uno strumento mentale per l’analisi e l’impostazione del lavoro e la raccolta delle informazioni. L’idea a cui rimanda questo modello è l’immagine di un flusso che si sposta da un luogo ad un altro e che segnala il restringersi o il dilatarsi del tempo di passaggio, per evidenziare il livello di integrazione tra il momento prima e quello dopo.” 14 Collocazione (o percorso) dei macchinari (o dei pezzi) all’interno di uno stabilimento. Capitolo V 153 manifesto esplicito (obiettivo) sul compito latente implicito (conservazione della gerarchia) e con il riconoscimento dell’inevitabile e necessario conflitto tra conservazione ed evoluzione. Il piccolo gruppo, luogo di interazione tra struttura sociale e soggettività, rischia di ridare al sistema bipolarizzato un’autonomia impersonale. Il gruppo può essere, quindi, sia il luogo della soggettività, sia l’incubo di un’articolazione sociale totalitaria (MET 1988). Problematizzare il lavoro di gruppo è un problema urgente, perché un mondo costruito con piccoli gruppi autoregolati può essere un incubo totalitario, così come un’esperienza democratica piena (Marchisio 1990, p.40). Ogni organizzazione è, fondamentalmente, conservatrice, ma alterna, ciclicamente, il predominio dell’evoluzione e il predominio della conservazione. Il fatto paradossale è che la struttura gerarchica Evoluzione o conservazione tende ad autoperpetuarsi attraverso l’obbedienza come strumento per risalire la scala sociale. Questa condizione rende più difficile la promozione di leader votati alla creazione e facilita quella di chi osserva, soprattutto, le regole. Ogni individuo è in tensione tra conservazione e creatività rivoluzionaria. Egli sarà incline agli assunti del “gruppo di base” per il bisogno di sicurezza e di omogeneità esterna, ma, allo stesso tempo, pretenderà di realizzare qualcosa di creativo che lo identifichi per la necessità di sicurezza interna. L’impresa deve bilanciarsi tra necessità di integrazione e necessità di controllo gerarchico. In questa contraddizione si inserisce l’esperienza sperimentata a Bologna, Integrazione o controllo nei casi esaminati da Marchisio (1990, p.97). I percorsi dell’innovazione (di prodotto o di processo) sono dispositivi informali molto complessi, perché media dell’identità (Marchisio 1990, p.75). Nei modelli più creativi permane la centralità di comando, ma deve confrontarsi, tra conflitto e cooperazione, con una struttura capace di pensiero complessivo e di distribuzione delle conoscenze. L’impossibilità dell’organizzazione di prevedere tutto provoca caos dovuto all’inadeguatezza. Questo evidenzia il ruolo della discrezionalità e dell’informalità quali vie di uscita (Studio Giano 1992, p.51). In un’azienda meccanica, dove si producono macchine automatiche, capita, spesso, che un montatore esperto segua, di sua iniziativa, l’approvvigionamento dei componenti necessari al montaggio. Capita anche che, a Un esempio Capitolo V 154 causa di una distinta non aggiornata, il magazziniere gli consegni un pezzo non corrispondente al disegno. Il montatore, accortosi di quel componente inutilizzabile, torna dal magazziniere per sostituirlo, ma non ce ne sono altri disponibili, perché l’azienda ha introdotto politiche di riduzione del magazzino (just in time). Egli si reca, allora, al reparto macchine utensili, dove spiega ad un operatore il problema, chiedendogli di realizzare una modifica affinché il pezzo difettoso possa essere utilizzato. Nel frattempo, giunge la telefonata di un giovane montatore trasfertista impegnato presso un cliente all’estero: la macchina non riesce a raggiungere la velocità prevista, perché una parte di essa non assolve alle sue funzioni nel tempo dovuto. Il montatore esperto gli dà dei suggerimenti, mettendolo in condizione di risolvere il problema. Gli spiega, inoltre, che si tratta di palliativi, poiché la causa è da ricercare nelle caratteristiche progettuali della macchina. Già che c’è, il giovane dovrebbe controllare un’altra zona della macchina collegata a quella mal funzionante, onde evitare che si verifichi un problema conseguente. Episodi come questo sono la “banale” prassi quotidiana del lavoro di molte persone. Queste consuetudini sono talmente routinarie che chi le esegue perde ha consapevolezza di progettare e risolvere problemi che non rientrano in nessun organigramma, mansionario o qualifica professionale. Un esempio lampante può venire da un caso solo apparentemente diverso: lo “sciopero bianco” dei doganieri. Tale forma di protesta consiste nell’attenersi scrupolosamente a quanto prescritto dalle regole e ciò paralizza lo svolgimento del lavoro. In questo modo si rende visibile l’inadeguatezza del regolamento e l’importanza dell’informalità, normalmente sommersa. L’organizz L’organizzazione del lavoro è la sintesi, sempre in precario equilibrio, di azione e le pratiche diverse “pratiche sociali” veicolate in un sistema da attori riconoscibili. L’innovazione in risposta alla variabilità e alla complessità dei mercati, presuppone una ridondanza dei sistemi che necessita di una struttura morfogenetica15. All’interno 15 Buckley W., 1976, Sociologia e teoria dei sistemi, Torino, Rosemberg & Sellier, p.72-73: “…vale a dire la morfostasi e la morfogenesi. Il primo si riferisce a quei processi, nei complessi scambi sistema-ambiente, che tendono a preservare o a mantenere la forma, l’organizzazione o lo stato dato del sistema. La morfogenesi si riferisce a quei processi che tendono ad elaborare, oppure a mutare, la forma, la struttura o lo stato dato del Capitolo V 155 delle organizzazioni produttive ciò significa nuova dislocazione del sapere e, quindi, del potere relativo allo sfalsamento tra regole ed eventi dovuto alla riduzione dei “cicli di vita” dei prodotti. In questo spazio si verificano le possibili lotte di potere16, ma si esprime, anche, la creatività “diffusa”. L’innovazione impone l’integrazione verticale ed orizzontale, misurabile utilizzando come indicatore il “tempo di attraversamento”. L’integrazione delle situazioni e dei modelli di regolazione manageriale trovano riscontro nel decentramento della globalità gestionale. Ogni decisione locale può essere presa in un’ottica generale. Tale processo non è indolore, perché destabilizza i rapporti tra sapere e potere del sistema aziendale. La possibilità di controllo professionale e sociale, che la riproduzione dei rapporti capitalistici presuppone17, aumenta ad ogni livello e mette in luce il rapporto tra espropriazione formale ed espropriazione reale. La realtà bolognese sembra incarnare, storicamente, questi principi, che emergono ciclicamente, in un dato periodo storico, a seconda del grado di consapevolezza consentita dalle relazioni dominanti. Il compito strategico di ogni processo di progettazione non è tanto il problem 18 solving , quanto il problem setting, il quale pre-struttura il quadro delle possibilità di soluzione, cioè il problem solving vero e proprio (Studio Giano 1992, p.55). In una ricerca dello Studio Giano (1992) i concetti di formale e informale risultano insufficienti per comprendere tale fenomeno. Ciò è spiegato dal fatto che l’organizzazione indagata genera regole in modo autonomo dal formale e dall’informale. L’esperienza19 quotidiana realizza interazioni, significati, linguaggi e forme, connesse ad eventi non prevedibili che diventano regole. L’organizzazione del lavoro si autoriproduce e si autocrea, trasformando la realtà fisica e simbolica in sistema. I processi omeostatici negli organismi, e quelli rituali nei sistemi socioculturali, sono esempi di morfostasi; l’evoluzione biologica, l’apprendimento, e lo sviluppo della società sono esempi di morfogenesi”. 16 Confronta con Crozier in 1.4 a p.10, 12. 17 Al riguardo, risulta interessante, a mio parere, il confronto con le attuali linee manageriali descritte nel paragrafo 5.4.3 a p.195, ad esempio nell’intervista a Cook della Raychem Corporation. 18 Problem solving: risoluzione dei problemi; problem setting: collocazione, impostazione, contestualizzazione dei problemi. 19 Esperienza deriva, etimologicamente da tentare, provare e penetrare, muoversi attraverso. La cognizione stessa ottenuta mediante l’osservazione e lo studio. Corso o serie di atti mediante i quali si acquista la conoscenza di cose particolari. La stessa radice riguarda esperto, perito, esperire. Derivazione simile ha, invece, il termine Il problem setting Capitolo V 156 una nuova realtà. In questa dinamica di cambiamento, l’organizzazione evolve per rispondere, in tempo reale, alle sollecitazioni del processo produttivo. Questa ricerca (Studio Giano 1992, p.143) sembra indicare parecchi segnali di espropriazione e razionalizzazione delle esperienze e delle conoscenze dei lavoratori, in contesti tecnologici molto diversi. La conoscenza resta un oggetto di difficile produzione e trasferimento, ma fondamentale sia per i lavoratori che per l’impresa. Fra tecnologia Cooperazion ee coalizione e “forza lavoro” vi sono due sotto-spazi sociali: la cooperazione e la coalizione. La cooperazione è trasmissione in circuito dell’insieme di informazioni eccedenti la quota incorporata nella tecnologia. Essa si esprime in due maniere: formale ed informale, entrambe finalizzate ad un momento produttivo. Nell’insieme sociale costituito da chi coopera viaggia un numero di informazioni molto maggiore di quelle finalizzate alla produzione. Questo, lo abbiamo già visto, è anche il presupposto della coalizione, ossia la trasmissione di informazioni, all’interno dello spazio produttivo, tra componenti della “forza lavoro”, come gruppo sociale autonomo, avente motivazioni e fini esterni o antitetici al processo produttivo. Cooperazione e coalizione sono strettamente interdipendenti, pur fondandosi su basi diverse: se la rigidità del comando riduce la cooperazione consapevole, cresce la cooperazione anti-produttiva, che diventa coalizione (Studio Giano 1992). Per il MET (1988) questa definizione rimanda ad una “forza lavoro” solidamente statica, mentre, invece, essendo prodotta da processi sociali viventi, essa è provvisoria e indeterminata. La convinzione, tuttavia, è che, nell’organizzazione reale, i rapporti di coalizione siano un elemento virtuale tra evento e struttura. Organizza zione e oggettiviz - L’organizzazione produttiva, come altre istituzioni, è un’oggettivazione di processi sociali passati e presenti. Essa aliena gli esseri viventi di contenuto e senso, perché richiede prestazioni impersonali. Nello stesso tempo fornisce identità e, zazione di quindi, sistemi di azione e strategie che la strutturano. Fra la cooperazione giapponese, totalmente subalterna all’identità aziendale, e quella informale, che si oppone al cambiamento o difende piccole aree di discrezionalità, vi è un’infinita pratico, sinonimo di perito, di esperto, di dotto (dai quali si distingue per la maggiore concretezza). Il pratico Capitolo V 157 gamma di variazioni. La cooperazione risulta, perciò, uno strumento parziale di conoscenza e di progettazione organizzativa. Il mercato renderà sempre più necessaria la capacità e la possibilità di strutture di gruppo autogestite, in cui si discutano le regole dello scambio sociale tra formale ed informale. L’instabilità derivata sarà sempre soggetta alla doppia valutazione sociale e di mercato. Una simile struttura è supportata dalla dinamica informale, capace di organizzazione virtuale, e dalle regole di scambio. Eventuali carenze provocano diverse situazioni con diversi gradi di identificazione: anomia, resistenza, ecc. L’organizzazione aziendale molto informale a forte professionalità, riesce a gestire la complessità, anche se con costi e sprechi molto elevati. Il mercato delle macchine automatiche lo ha sempre considerato un prezzo poco rilevante, in proporzione al gap20 tecnologico compensato, rispetto alla concorrenza e al pieno accoglimento delle proprie esigenze. Lo scambio informativo fra tecnici, clienti e fornitori rende, in breve, l’innovazione un patrimonio comune, che determina una sorta di economia “di scala” di comparto (Melotti 1998, p.13). 5.4.2.2 – Descrizione delle ricerche precedenti Il tempo di lavorazione è nella maggioranza dei casi soltanto il 10-15% del tempo di permanenza del prodotto in officina. Un aumento della produttività nelle lavorazioni è quasi ininfluente ai fini della riduzione del “tempo di attraversamento”21, se confrontato alla razionalizzazione organizzativa del flusso produttivo (Marchisio 1990, p.20). Per questo la “giapponesizzazione” ha trovato spazio anche nel nostro modello. Rieser e Rossotto evidenziano tre fattori “dell’eccellenza” giapponese e le relative modalità locali di utilizzazione (Rieser e Rossotto 1988). Il primo è la mobilità interna, ne sono un esempio: le iniziative contrattuali più avanzate che hanno riguardato la Pai-Demm, dove la mobilità dei lavoratori copre aree di prodotto diverse; l’Arcotronics, in cui dai gruppi di lavoro si conosce più intimamente; il perito conosce, l’esperto giudica, il dotto crea ordine, dispone. 20 Lacuna, salto. 21 Per la definizione di “tempo di attraversamento” si veda la nota 13 in 5.4.2.1 a p.152. La giappon e- Capitolo V 158 è passati ad itinerari di mobilità verso aree più qualificate; la Biotec, dove dal lavoro di gruppo nelle singole fasi si è andati verso una “polivalenza globale”, comprendente l’intero ciclo produttivo. Il secondo fattore è il “just in time”, che è stato tradotto come riduzione dei “tempi di attraversamento”. Il “gruppo di lavoro” è centrale nell’autoregolazione della programmazione e della gestione del flusso produttivo. Per questo all’interno dell’organizzazione ci devono essere polivalenza, mobilità e crescita professionale. Il terzo è il controllo della “qualità”: secondo l’affermata logica di “scaricamento dei problemi”, si sono responsabilizzati maggiormente i subfornitori. Nelle aziende la “qualità” è interpretata come immagine e coinvolgimento consensuale, spesso intrecciato con ulteriori divisioni del lavoro. All’Italgel, risultata all’avanguardia, i gruppi di progetto sono interfunzionali, temporanei e agiscono in aree impiegatizie scoperte dal controllo sindacale. I “circoli di qualità” non bastano a modificare la logica organizzativa preesistente. La “qualità” si presta sia ad un controllo gerarchico più stretto, sia ad un allargamento della professionalità dei singoli lavoratori. Sarebbe semplicistico etichettare la resistenza e la diffidenza dei lavoratori come “arretratezza culturale”. Per Melotti (1998, p.8) è preoccupante l’applicazione di principi estranei al modello socioculturale del nostro Estraneità territorio, soprattutto per quel che riguarda i caratteri del management. Il mondo del lavoro, che detiene buona parte delle conoscenze necessarie alle decisioni, non è rappresentato a nessun livello e non partecipa alle scelte: si decide senza un’adeguata conoscenza della realtà. Ciò è riscontrabile in molti corsi di formazione che si occupano di “qualità” e leadership. La dimensione medio-piccola agevola la contrattazione, anche di materie come queste. In ultimo, si rileva l’isolamento in cui le esperienze citate si sono collocate nel panorama nazionale. Proletari zzazione In una ricerca-intervento della FIOM-CGIL di Bologna del novembre 1989, si ipotizza una “proletarizzazione” dei lavoratori, causata dall’uso dell’informatica nelle fabbriche. Si riscontra la dicotomizzazione del lavoro impiegatizio tra ruoli creativi, altamente specializzati, e ruoli esecutivi, a scarso contenuto professionale e con ridotte possibilità di carriera. L’indagine non dice, però, che mansioni dequalificate erano presenti da prima dell’introduzione dell’informatica. Le Capitolo V 159 possibilità dei nuovi mezzi tecnologici possono determinare aspettative di miglioramento qualitativo del proprio lavoro, poi sistematicamente insoddisfatte. Si rileva, viceversa, la riduzione delle mansioni più ripetitive, faticose e mal retribuite, del lavoro operaio, con una maggiore richiesta di personale qualificato per ruoli professionalmente più consistenti. La “stupidità” della macchina si presta maggiormente ad un’automazione dei movimenti fisici. Essa non è attrezzata, per ora, a rimpiazzare i movimenti mentali, per quanto semplici essi siano. Emerge una “sdifferenziazione” delle condizioni del lavoro manuale e intellettuale, nella crescente permeabilità tra cultura di fabbrica operaia e impiegatizia. Questa convergenza non si presenta nel modello “artigianale” dove la burocrazia e la differenziazione tra ruoli sono praticamente nulle. Una ricerca dello Studio Giano (1992, p.143) effettua un’analisi del lavoro mediante tre coppie concettuali che lo definiscono: esecutivo/normativo, creativo/libero, interattivo/cooperativo. Per una loro migliore comprensione viene usata la metafora del chiodo. Esso è utilizzato, normalmente, per unire due elementi. La metafora del In un contesto esecutivo rigido il chiodo è usato solo per la sua funzione intrinseca. In un contesto flessibile lo stesso chiodo può essere adoperato anche per altri usi: ad esempio, se esso viene ritorto, può diventare un anello per sostenere o appendere. La creatività si esprime con la libertà d’uso, la conoscenza e la discrezionalità di intervento sull’oggetto. La progettazione può essere una modalità inconsapevole e, perciò, non diviene metodo o descrizione. Tornando al chiodo appendi oggetti: se servisse a più di una persona avverrebbe che, mediante l’interazione, il suo nuovo impiego potrebbe diffondersi ed entrare nel processo produttivo per migliorarlo. La libertà collettiva e individuale è basilare per la creatività “intesa come capacità di individuare il problema e la sua soluzione, capacità di apprendere ad apprendere e capacità di formare gli altri” (Marchisio 1990, p.78). Le interviste danno, su un piano culturale, un’immagine di formazione aziendale molto differenziata, o assente. Solo una piccola quota di intervistati (6 su 200) ha potuto usufruire della diffusione di conoscenze, la cui dinamica sembra, peraltro, avere un valore di carattere più generale. Libertà e creatività Capitolo V 160 In una ricerca sulla contrattazione aziendale dal ’68 ad oggi (Melotti 1998, I contratti p.21) si evidenzia che dal’78 le piattaforme interne firmate hanno riguardato i “gruppi di lavoro” (es. GD, SASIB, Arcoplessey) e la riduzione di orario (nelle aziende che volevano il doppio turno di lavoro). Questi accordi non hanno incrinato le condizioni salariali e normative, superiori al resto del Paese e hanno permesso ugualmente lo sviluppo. Per dare un’idea dell’innovazione contenuta in tali accordi basti pensare al clamore politico suscitato dal dibattito odierno sulle “35 ore”, quasi vent’anni dopo. Del resto, la conferma viene dai dati22 nazionali relativi agli anni successivi, i quali sembrerebbero giustificare l’adozione di tale provvedimento. Uno studio più approfondito dei contratti appena citati è quello di Marchisio (1990). Relativamente all’organizzazione del lavoro gli accordi vengono classificati in quattro tipologie: accordi di principio (2 casi), accordi cornice (3 casi), accordi quadro (6 casi) e accordi di progetto (5 casi). Più specificatamente, i contratti analizzati riguardano 15 aziende in un periodo che va dal novembre 1987 al maggio 1989. Vengono distinti: accordi che non fanno riferimento all’organizzazione a gruppi (1 caso), accordi che ne prevedono genericamente la sperimentazione in alcune situazioni (3 casi), accordi che ne indicano in modo più specifico modalità e condizioni di avviamento (2 casi), esperienze di concreto avviamento (5 casi). Nell’accordo GD, per esempio, si esprime, soprattutto, l’importanza della circolazione delle informazioni e dei seminari interni di approfondimento tecnologico. Nel caso Acma si riconosce la creazione implicita di gruppi informali, indispensabili alla correttezza dell’esecuzione del lavoro, prefigurando un loro allargamento a tutta l’impresa. La trasparenza di tali gruppi si presta alla delega di potere per gestire i tempi di consegna (“tempi di attraversamento”) come propria responsabilità. In altre 10 aziende, oltre alle precedenti, sono state istituite delle 22 “Dall’89 al ’95 il valore aggiunto per dipendente non aumenta molto (+16,5% in ECU, +56,2% in £) contro il +34,8% dell’aggregato europeo – ma è sempre più del doppio del costo del lavoro che, nello stesso periodo, cresce appena del 7% contro il +36,3% dell’Europa.” Da “La stampa” 19 luglio 1997. “Secondo l’OCSE l’Italia lavora meno e produce di più” Da un grafico allegato si apprende che l’Italia è al terzo posto per il minor numero di ore lavorate e al secondo per il PIL prodotto in un’ora lavorativa. Fonte “La Repubblica” 18 ottobre 1997. Capitolo V 161 commissioni tecniche bilaterali per la progettazione congiunta azienda-sindacato dell’organizzazione del lavoro. Nello stesso periodo contrattuale, in più di 100 imprese si è ottenuto un allargamento dei diritti all’informazione ad un numero di addetti superiore a quello previsto dal contratto nazionale. In circa 85 di queste si sono realizzate delle vere e proprie procedure di divulgazione, solo in 30 casi generiche. In 50 casi le informazioni dovranno anticipare l’innovazione tecnologica, in 16 casi alla progettazione, in 15 casi dovranno essere chiare anche ai non esperti, in 25 casi potranno prevedere approfondimenti tecnici. In 20 casi alle commissioni bilaterali potranno partecipare anche i non delegati sindacali e tecnici esterni proposti dal sindacato (9 casi). In 28 accordi c’è la possibilità di una proposta sindacale, a conclusione della procedura d’informazione e nove prevedono il diritto ad una trattativa precedente alla procedura. Più in dettaglio, nell’accordo della Giuliani si può leggere che: “eventuali diversi modelli organizzativi dovranno assicurare risultati di produttività e di qualità nell’ambito di una costante ricerca di maggiore competitività dei prodotti aziendali e al contempo perseguire una maggiore professionalità dei lavoratori e migliorarne le condizioni di lavoro”. Nell’accordo IMA le definizioni sono più sfumate: “dare a tutti i lavoratori il massimo di opportunità di sviluppo professionale; permettere una reale circolazione delle informazioni; permettere un’integrazione tra le varie funzioni aziendali; migliorare la qualità del lavoro e delle condizioni di lavoro”. L’accordo SASIB è più circostanziato e afferma che: “gli obiettivi che si prefigge il gruppo di lavoro sono: l’ottimizzazione del funzionamento del sistema, la flessibilità, la qualità e il tempo di reazione ai problemi; la socializzazione delle conoscenze, una crescita professionale individuale e collettiva da perseguire favorendo le autonomie professionali. Nell’attività del gruppo verrà favorita l’integrazione tra i diversi ruoli al fine di garantire gli obiettivi, l’ampliamento delle conoscenze, il raggiungimento di buoni livelli di autonomia”. “A fronte degli incrementi di fatturato e di produttività, nella grande industria e nei servizi anche nel 1997 cala Capitolo V 162 Gli accordi sulla formazione si differenziano rispetto: al diritto di co-decidere i contenuti del corso, alla platea di utenti e ai criteri di partecipazione (funzionale o ridondante). I corsi sono previsti in orario di lavoro. Nell’accordo GD si specifica che gli argomenti trattati saranno finalizzati a concrete esigenze riscontrabili nei reparti, per consentire ai fruitori un’immediata applicazione e verifica delle cose apprese. I temi dovranno rispondere al controllo dell’evoluzione tecnologica e alle esigenze di aggiornamento e sviluppo professionale dei singoli lavoratori. Alla MecTrack è previsto un affiancamento di “addetti” ai vari operatori e un’informazione ai gruppi che risponda a criteri di integrazione, anziché per fasi di lavorazione. Potere Un altro dato importante è il potere d’acquisto (Melotti 1998, p.39): dal ’75 al d’acquist o ’95 è cresciuto, mediamente, del 4,27% nelle categorie più basse (3° livello), mentre in quelle più alte (6° livello) c’è stato un calo del 20%. Bisogna dire che, nel comparto, i livelli inferiori sono molto diminuiti numericamente; sono aumentati, invece, sia quelli molto qualificati sia quelli più dequalificati o atipici (decentramento). Alle perdite di potere d’acquisto dei livelli più alti è corrisposto, però, un aumento dei “super minimi” individuali, gestiti unilateralmente dalle aziende in rapporto diretto con il singolo. La differenza di salario tende, comunque, ad appiattirsi. Lo stesso settore in Germania, nostro maggior concorrente, presenta salari maggiori del 40%; certo, con un costo della vita più alto, ma anche con un altro tenore di servizi sociali. Le imprese tedesche restano competitive anche con norme e trattamenti economici più onerosi dei nostri; così come il comparto bolognese ha permesso salari più alti che in altri settori produttivi italiani, senza essere in contraddizione con lo sviluppo economico, anche in periodi di recessione. Un altro confronto interessante, nella stessa ricerca, è quello tra i vari contratti aziendali e nazionali. Emerge una disparità notevole di trattamento che conferma che il salario dipende più dal luogo di lavoro che dai contenuti professionali. Nelle industrie metalmeccaniche bolognesi, per esempio, c’è differenza tra imprese con l’occupazione (-2,6% e –2,3% rispettivamente”. Da “Il sole-24 ore” 23 gennaio 1998. Capitolo V 163 contratto aziendale e quelle senza. Più evidente è il divario tra un operaio artigiano tessile (22 milioni l’anno) e uno, di pari qualifica e livello, nel settore aeroportuale (44 milioni). Molte imprese lamentano la carenza di manodopera specializzata e si sono attrezzate con proprie “scuole aziendali” per formare operai e tecnici. La scuola non Scuole aziendali può fornire una preparazione al passo con l’evoluzione tecnologica. L’addestramento può avvenire solo direttamente nei luoghi di lavoro. Sembra che la mitica figura del “cinno di bottega” riemerga dalla storia per ritrovare la sua collocazione, riveduta e corretta alla luce dei tempi. La professionalità è strategica, ma comporta impegno, stress e un tempo di formazione necessario a fare esperienza. Il tutto non è ricompensato dal reddito offerto, perciò s’inseguono situazioni migliori. L’incertezza occupazionale rafforza la fuga dalla fabbrica. Questa situazione denota carenze del sistema formativo, problemi remunerativi e di collocazione sociale. Si pensi al caso degli infermieri di una decina di anni fa: la loro mancanza negli ospedali è stata compensata, in breve tempo, mediante l’adeguamento dei salari, secondo il più tradizionale principio di domanda e offerta. Gli anni ’80 segnano la crisi degli Istituti tecnici e professionali. Il lavoro in fabbrica è considerato di tipo residuale e si preferiscono le attività di servizio. Adair Turner23, leader della “Confederation of British Industry”, afferma, suscitando non poco scalpore, che i salari dei lavoratori vanno aumentati al di sopra del tasso di inflazione, ribaltando l’equazione ritenuta valida fino ad oggi. “Il vecchio legame tra salari e inflazione si è rotto”, le aziende si possono permettere, adesso, di pagare di più del costo della vita, perché la forza lavoro è diventata “più efficiente, flessibile e innovatrice”. Il giovane imprenditore è andato oltre, sostenendo che i dipendenti devono partecipare al successo dell’impresa, tesi cara al leader laburista Blair nel dibattito fra stakeholders e shareholders24. Le piattaforme aziendali dei metalmeccanici bolognesi del periodo ‘87-’90 (Melotti 1998, p.7) presentano una strategia molto innovativa: la codeterminazione, 23 Fonte: “L’Unità” 27 gennaio 1996. La coodeterminazione Capitolo V 164 proposta che anticipa i congressi nazionali Fiom e CGIL del ’91 e anche le imprese. C’è la necessità di adottare nuovi modelli gestionali, coerenti con gli obiettivi produttivi. Si propone uno scambio tra consenso e partecipazione da una parte, e principi organizzativi e regole contrattuali dall’altra. Vengono firmati molti accordi, la cui gestione rimane lettera morta. Le imprese contrarie hanno buon gioco per le strategie adottate a livello nazionale: il sindacato bolognese rimane isolato. Questo tipo di relazioni presuppone, probabilmente, un livello di democrazia industriale estraneo alla cultura di entrambe le parti. C’è ambivalenza fra la tendenza ad uniformarsi al contesto nazionale o, addirittura, globale, ritenendolo più sicuro, e l’interesse a coltivare quel prezioso ambito di relazioni maturate storicamente sul territorio. Questo tipo di relazioni richiede un’attenzione continua. Ci vuole disponibilità e tolleranza nei confronti di un equilibrio dinamico molto diverso dall’ambita stabilità dei sistemi tradizionali. Questi evolvono a balzi, spesso traumatici. Forse c’è la paura di essere gli unici a pagare, o di pagare un prezzo troppo alto per l’elevato grado di sviluppo raggiunto. La mancata gestione di quegli accordi segnala una carenza culturale che ha impedito l’adeguamento degli attori sociali. Da alcune aziende provengono segnali diversi. E’ il caso dell’IMA di Ozzano Emilia, 860 dipendenti in Italia (la maggioranza professionalizzati e tecnici) e 180 nelle filiali estere. L’IMA nel ’95 ha superato i 300 miliardi di fatturato; erano 280 del ’94. Il 93% della sua produzione (impacchettamento del tea, profumi, medicinali e generi alimentari) è venduta all’estero. Il 7% del fatturato è investito in ricerca, “la nostra ricchezza più importante insieme alle risorse umane”, dice Daniele Vacchi, responsabile del settore “Immagine e comunicazione”. La finanziaria di famiglia, la FinVacchi, gestisce il 51% del gruppo che è quotato in borsa dal ‘95. Nel 199625 all’IMA si è firmato un accordo che riconosce al lavoratore tre livelli “ombra” di professionalità: certificazione, gestione e integrazione. Quest’accordo, veramente innovativo, prevede il diritto del lavoratore di chiedere di essere valutato 24 Il dibattito contrappone chi vorrebbe i dipendenti simili a soci sostenitori e chi li vorrebbe come azionisti. Capitolo V 165 dall’azienda, eventualmente assistito dal sindacato. L’azienda ha il dovere di rispondere per iscritto. Ai livelli di valutazione corrispondono tre parametri di moltiplicazione del salario (per un massimo di 300.000 lire al 5° livello “super”). La verifica potrà avvenire ogni due anni. Il riconoscimento raggiunto sarà sempre mantenuto in busta paga e riparametrato, nel caso di passaggi di categoria tradizionali. C’è, inoltre, un quarto livello “ombra”: la capacità di “trasferimento delle competenze” che è alla base della formazione “sul campo”. Per ogni mese in cui il lavoratore svolge questo compito aggiuntivo gli viene riconosciuto un premio di 150.000 lire. La valutazione premia il lavoratore autonomo, creativo, capace di fare e insegnare, abile nel lavorare in gruppo. Sono tutti elementi finora impliciti nel comportamento di molti lavoratori, utilizzati, ma non formalmente riconosciuti dalle imprese. “Con questo accordo - dice Daniele Vacchi - si vuole generare una maggiore consapevolezza degli obiettivi aziendali”. Da parte sindacale, Gianguido Naldi, segretario della FIOM-CGIL, rileva la distribuzione di competenze e la restrizione delle gerarchie burocratiche. “Se ben gestito potrà innescare una crescita culturale di tutta l’azienda”, gli fa eco Francesco Longo, direttore del personale. Lo stesso Longo, alla domanda se l’accordo piacerà agli altri industriali, risponde che il contratto nazionale ha caratteri universali, ma ogni azienda ha le sue particolarità. Queste lo portano a credere che per l’IMA sia un accordo vantaggioso, perché non c’è “catena di montaggio” e l’operaio deve essere capace di risolvere da solo i problemi. 5.4.2.3 – Una ricerca specifica sull’argomento26 In questa ricerca risulta che l’organizzazione del lavoro delle imprese studiate è caratterizzata da relazioni informali e da professionalità polivalenti (Bartolozzi e Garibaldo 1995). L’integrazione si fonda sull’informalità, sullo scambio e sulla 25 Fonte: L’Unità _ mattina 28 gennaio 1996 L’intero sottoparagrafo fa riferimento a: Bartolozzi P. e Garibaldo F. (a cura di), 1995, Lavoro creativo e impresa efficiente. Ricerca sulle piccole e medie imprese, Roma, Ediesse. Indagine su 296 interviste, 112 casi aziendali distribuiti in sei province dell’Emilia Romagna e quattro settori produttivi. Hanno contribuito: Baldoni, 26 L’informalità Capitolo V 166 fiducia. L’organizzazione tollera solamente l’informalità che le garantisce l’adattamento agli imprevisti, malgrado essa sia sempre vista come “disturbo”. L’informalità è efficace, perché è cooperazione autoregolata tra i soggetti della produzione. Essa riduce l’incertezza derivante dalla “razionalità limitata” (Simon 1967), la quale induce ad accontentarsi della sufficienza. L’informalità presenta obblighi impliciti, fondati su valori e obiettivi condivisi, che sfociano in un’autonomia operativa con specifiche capacità di risolvere problemi e contraddizioni. Non è tanto la vicinanza dell’imprenditore o lo “spirito comunitario” ad indurre relazioni di questo tipo, quanto un’organizzazione “particolare”. Questa particolarità risiede nella regolazione congiunta mediante negoziazione: è una strategia cooperativa che riduce l’incertezza dell’ambiente ed assicura flessibilità. L’informalità consente un pronto intervento per gestire imprevisti e “varianze” (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.236). Un coordinamento del genere, è un “mutuo adattamento” che non è frutto della spontaneità, ma è una costruzione storica che può essere negoziata. L’informalità è connessa alla polivalenza delle mansioni. Ciò consente intercambiabilità, flessibilità e mobilità. Nello stesso tempo, la polivalenza, in misura variabile nelle diverse situazioni, è rapida crescita professionale, minore ripetitività, maggiore conoscenza del ciclo produttivo, relazioni sociali più ricche e diversificate. Un simile concetto d’intercambiabilità è molto differente da quello “tayloristico”, perché il lavoratore è considerato un “capitale”, investito in addestramento. Nelle industrie metalmeccaniche studiate ciò è ancor più vero, perché la polivalenza comporta l’integrazione di percorsi cognitivi diversi, ad esempio nelle interazioni tra progettazione, montaggio e manutenzione. Per il lavoratore “coinvolgimento” significa possibilità di “metterci del suo”, disponibilità all’apprendimento, continuo scambio d’informazioni e capacità di percezione dell’utilità del proprio contributo all’obiettivo comune. La vicinanza del titolare alla produzione è una peculiarità e un punto di forza della piccola impresa. La struttura gerarchica è debole. Le comunicazioni e la Bellini, Bertini, Brusco, Capecchi, Diazzi, Dubini, Fiorani, Franchi, La Rosa, Lugli, Maraffa, Piccinini, Rau, Capitolo V 167 trasmissione d’informazioni sono fluide e costanti. La consuetudine di valutare e discutere “tutti insieme” scelte, risultati e necessità, è descritta come esigenza Fare insieme organizzativa e fatto naturale (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.97). Le imprese con spiccata connotazione familiare mostrano la tendenza all’autosufficienza, distribuendo i compiti tra i membri della famiglia. La linea di successione risponde a logiche di “terziarizzazione” interna: la divisione del lavoro avviene in base al sesso, in funzione del settore di appartenenza. Il confronto tra imprese del settore Divisione del lavoro metalmeccanico e dell'abbigliamento mostra una specularità: nelle prime i ruoli tecnici, produttivi e commerciali sono prettamente maschili, mentre le femmine si occupano di amministrazione; nell’abbigliamento, invece, le parti s’invertono. Tra dimensione e anno di nascita dell’impresa c’è una relazione diretta (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.25): il 50% del campione è posteriore al 1975 e solo il 5% è anteriore al 1950; nessuna impresa con meno di 10 dipendenti nasce prima del 1950 e nessuna con oltre 100 addetti dopo il 1980. La crescita è lenta: occorre un ventennio per superare i 100 dipendenti. Un numero consistente di aziende, pur nascendo prima del 1970, resta abbondantemente al di sotto di tale soglia. La variabile settoriale è considerata ininfluente in questa crescita “frenata”27. Si può parlare di modello regionale che si caratterizza per la diffusione di forme associative, essenziali per l’orientamento e la regolazione del conflitto sociale, Le associazio ni in particolare nelle imprese. Oltre l’80% delle piccole imprese indagate è affiliata ad un’associazione di categoria e in più dell’88% dei casi vi è una rappresentanza sindacale. Nelle imprese metalmeccaniche i radicali mutamenti organizzativi in relazione alle dimensioni hanno una soglia inferiore a quella di altri settori (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.117). La differenza più rilevante è tra aziende che operano in “conto proprio” e in “conto terzi”: nelle prime l’organizzazione si formalizza quando raggiunge i 20 dipendenti circa; le altre molto dopo. Il funzionamento delle piccole Rebecchi, Rieser, Rubini, Tugnoli, Verzeletti. 27 Atteggiamento imprenditoriale di “non superamento” di certe soglie dimensionali, non legato alla tecnologica o al mercato, ma al controllo. Conto proprio e conto terzi Capitolo V 168 imprese è comprensibile solo nella “rete” in cui sono inserite. La crescita si accompagna all’intensificarsi degli intrecci con l’esterno: decentramento, servizi e collaborazioni interaziendali, supportate da reciproca fiducia, informalità e consuetudine, tipiche di relazioni comunitarie. I gruppi industriali sono esclusi, perché hanno intrecci societari formalizzati. Gli orientamenti Gli orientamenti aziendali più recenti sono: l’allargamento della “rete” di relazioni e la ricerca di cooperazione formale tra imprese simili o complementari. Nelle imprese con 20/100 addetti si può ipotizzare una razionalizzazione, come risposta alla crescente complessità delle informazioni, che evita la crescita dimensionale (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.128). Questo contrasta con una cultura d’impresa proiettata su rappresentazioni di sé, e del proprio ruolo, di tipo comunitario. I processi reali sono più rapidi dell’adeguamento culturale. La trasformazione è ostacolata dall’identità proprietà-management che si oppone alla formalizzazione e al decentramento del potere verso figure autonome. I modelli organizzativi di grandi e piccole imprese si avvicinano senza omologarsi. La razionalizzazione si correla ad ipotesi di evoluzione del rapporto con il mercato; spesso si accompagna al passaggio da produzione in “conto terzi” a produzione “in proprio”. In altri termini: si pensano nuovi prodotti, si trasforma l’assetto giuridico da forme semplici a forme più complesse, si investe maggiormente in risorse strategiche. Questi cambiamenti si abbinano a significativi mutamenti organizzativi. La crescita dimensionale e del fatturato sono un passaggio successivo. Il settore metalmeccanico Il settore metalmeccanico è quello più rappresentato (oltre il 50% del campione) e mostra un numero di dirigenti ed impiegati proporzionalmente maggiore agli altri settori. La composizione della struttura occupazionale risulta sensibile alla dimensione aziendale: quando l’imprenditore non può più assorbire tutte le funzioni, a causa della complessità, aumentano le figure dirigenziali. Oltre i 100 addetti, tuttavia, vi è un’inversione di tendenza dovuta, probabilmente, ad una maggiore razionalizzazione dei ruoli (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.31). Gli apprendisti sono presenti solo nelle imprese con meno di 10 dipendenti. Le aziende che hanno perseguito una politica di sostanziali mutamenti della gamma produttiva hanno avuto Capitolo V 169 un incremento occupazionale del 59%. Le aziende “contoterziste”, viceversa, registrano un decremento occupazionale del 6,4%. La “rete” di subfornitura assorbe le discontinuità del mercato, permettendo alle imprese che vi si trovano di non pagarne il prezzo. L’85% delle imprese intervistate in questa ricerca ha persistito nello stesso segmento produttivo in cui è nato (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.28). Questo dato può nascondere, però, situazioni diverse: dalle aziende che perseguono l’innovazione continua ed incrementale del prodotto, a quelle che perseguono l’innovazione radicale delle strategie di vendita. Solo il 4% dell’aggregato ha approntato sostanziali cambiamenti alla gamma produttiva, mentre l’11% si è limitato alla diversificazione. Le variabili dimensionali e settoriali non sembrano avere influenza significativa neanche in questo caso. La flessibilità del sistema produttivo è favorita dalla “terziarizzazione”, che funge da volano protetto ed economico. L’indice di “terziarizzazione implicita” misura il rapporto percentuale, sul totale dell’organico, dei lavoratori indiretti occupati in funzioni aziendali terziarie di controllo, gestione, progettazione, marketing, ecc. (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.33-37). Il peso di tale quota è ritenuto indizio di crescita delle funzioni produttive interne e dei processi di trasformazione manifatturiera. Corrisponde, in sostanza, ad una complessificazione delle strategie aziendali. Nel periodo 1986-1991 questo indice, nel gruppo di imprese osservate, ha registrato un incremento del 4% (dal 29% al 33%). Il settore metalmeccanico, in particolare, è al primo posto con il 36%. La variabile dimensionale evidenzia una caduta della crescita se si superano i 100 addetti. L’analisi funzionale e organizzativa indica uno “schiacciamento” verso funzioni tradizionali (amministrazione e produzione). L’area di progettazione è presente in quasi 2/3 delle imprese, mentre solo poco più del 50% ha funzioni di controllo “qualità” e gestione del personale. Sorprende che il 75% delle aziende con meno di 10 dipendenti le abbia tutte e tre. Certo non si tratta di una dotazione strutturata, bensì di una proiezione dell’imprenditore-fondatore che implementa tali funzioni e resiste alla delega di ruoli direttivi. La centralità di questa figura può far capire la limitata crescita dimensionale del sistema manifatturiero regionale e il notevole Terziariz zazione Capitolo V 170 sviluppo dei servizi all’impresa (pubblici, privati e di categoria) nell’ultimo decennio. L’indice di accentramento organizzativo, infatti, risulta medio-alto, anche se c’è un nucleo di imprese con meno di 10 addetti che ha un indice basso. Fare o comprare Le aziende con produzione propria e maggiori dimensioni si pongono il quesito se sia più conveniente fare/innovare o comprare (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.210). Le articolazioni possibili producono una mappa assai diversificata dell’innovazione tecnologica all’interno dell’azienda. Ci sarà, ad esempio, chi punta sul decentramento, perché non ha moderne tecnologie di processo, pur avendo introdotto il CAD in tutta la progettazione, e chi costruisce il suo vantaggio sul prodotto, grazie alle sofisticate tecnologie con cui lo realizza internamente. La visione “globale” è una costante del campione: meno centrata sulla produzione, essa ha frequenti sviluppi di articolazioni interno-esterno, ed un sistema informativo sempre più rapido e potente. Qui si misura il superamento del modello, per così dire, “artigianale”, anche rispetto ad imprese di dimensioni relativamente piccole. La trasformazione non impedisce la sopravvivenza di sottosistemi aziendali “artigianali”, ma inseriti in un sistema governato da una logica diversa. L’indagine conferma la nascita di nuove imprese per spin-off, un processo di Spin-off apprendimento, fuoriuscita e nuovo avviamento28 (ciò non è avvenuto solo in sette casi su 256). I soggetti intervistati che annoverano due o più esperienze lavorative sono numerosissimi in tutte le fasce di istruzione. La scelta dell’attività imprenditoriale è maturata per “vocazioni successive”, grazie al significativo accumulo di conoscenze differenziate. La funzione aziendale esercitata è coerente con il livello di formazione post-diploma e, soprattutto, post-laurea. C’è una sostanziale continuità nel processo di sviluppo industriale e nella diffusione delle conoscenze tecnologiche. La totalità delle esperienze fatte dai soggetti si è formata all’interno del territorio, confermandone l’importanza. Le possibilità di nuovi avviamenti imprenditoriali dipendono dall’esperienza diretta sul campo, anche se la famiglia ha, spesso, un ruolo cruciale (continuità e crescita aziendale). Si notano due 28 Cfr. con “gemmazione” in 3.7 a p.73. Capitolo V 171 funzioni fondamentali per lo sviluppo dell’imprenditorialità: commerciale e tecnicoprogettuale, quasi mai apprese insieme dallo stesso imprenditore. In sostanza, Due funzioni l’alternativa si riassume nel “come fare” o nel “che cosa fare”, cioè che cosa chiede il mercato o cosa gli si può vendere. Le attività nascono mediante: rilevazione dell’azienda o di una quota azionaria da parte di dirigenti o impiegati; fuoriuscita da un’impresa “madre” di cui si diventa subfornitori o collaboratori; individuazione di un business grazie all’esperienza commerciale e la percezione della possibilità di inserirsi in quel mercato; impiego deliberato del know-how specifico per creare imitando, diversificando o integrando (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.56). Nei primi due casi l’azienda è promotrice e garante dell’iniziativa individuale; negli altri, è il soggetto che provvede a crearsi le condizioni necessarie. Forni afferma che si sta verificando una brusca frenata del processo di moltiplicazione delle imprese e un arresto della crescita della base occupazionale, pur con un volume di affari che risulta in crescita (AAVV 1992, p.24-29). Oggi mettersi “in proprio” è più difficile che vent’anni fa, perché la complessità ha aumentato le competenze necessarie per farlo; ci sono, anche, difficoltà nel reperimento dei capitali che servono più che in passato. Gli andamenti demografici, inoltre, gli atteggiamenti delle nuove generazioni e la separazione tra proprietà e management, ostacolano la continuità familiare che aveva contraddistinto il comparto (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.84). La formazione scolastica degli imprenditori indica una crescita del livello di cultura e istruzione, anche nelle aziende minori. La formazione, tuttavia, è vista come un bisogno continuativo solo da una quota minima di imprese (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.52). Il completamento degli studi rappresenta l’espletamento di un obbligo o il raggiungimento di un obiettivo in sé. Le logiche imprenditoriali permettono di far tesoro di ciò che è stato appreso, ma non stimolano ad apprendere nozioni ulteriori all’esperienza operativa. L’impresa assorbe totalmente il tempo e gli interessi dell’imprenditore: la formazione è una base di partenza, un input acquisito che si arricchisce solo sul campo. Nelle interviste fatte in questa ricerca, si rileva che la formazione scolastica non ha influito sulla percezione delle proprie possibilità imprenditoriali, né sulle possibilità di operare sul mercato con successo e continuità. La formazion e Capitolo V 172 La fortissima dinamicità delle iniziative del sistema si muove per continuità, per trasmissione diretta di conoscenze apprese sul campo e per progressi incrementali, ma senza mai sconvolgere il contesto tecnologico e competitivo. Il fattore formazione sembra più importante per rilevare un’azienda (anche nella successione di tipo familiare), piuttosto che per avviarla (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.56). La “rete” locale facilita l’inserimento di neo imprenditori, sia di quelli che hanno acquisito un’esperienza tecnica o commerciale sul campo, sia di quelli che hanno limitate conoscenze di settore. Il know-how specifico diffuso sul territorio consente di ridurre i costi di apprendimento dei processi tecnologici e di conoscenza dei mercati, favorendo la nascita di imprese. L’effetto “distretto” e la diffusione delle conoscenze esercitata dalle imprese “storiche” locali si confermano, in quest’ottica, molto rilevanti. Il livello di formazione imprenditoriale incide molto sulla capacità e la flessibilità progettuale innovativa, ma non sull’organizzazione complessiva, in genere, piuttosto debole. La conduzione delle imprese è, spesso, a carattere La rete locale fortemente individualistico e ciò fa ruotare le scelte strategiche intorno alla funzione in cui l’imprenditore detiene la massima competenza. In tutte le interviste è impossibile dividere la sfera personale/familiare da quella aziendale. La forte contiguità del contesto fiscale e creditizio induce ad un’ulteriore accentuazione di modelli personalistici. Questa situazione valorizza solo la componente più specificatamente tecnica della formazione e della cultura. I ricercatori sostengono che un intervento su questi fattori ambientali esterni potrebbe liberare la rivalutazione della risorsa umana e, in particolare, di quella imprenditoriale (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.56). La centralità delle conoscenze acquisite suggerisce la creazione di un intreccio più stretto tra percorso scolastico (tecnico, professionale, universitario) e mondo del lavoro. Dal 1993 una legge quadro pende tra Camera e Senato. La regione Emilia Romagna ha ovviato all’inconveniente, firmando protocolli con strutture scolastiche e centri di formazione professionale, per istituire percorsi formativi che prevedano stage aziendali. Il Comune di Bologna ha redatto un programma di riorganizzazione degli istituti di formazione che parta dalla valutazione delle tendenze all’industrializzazione rilevabili nell’area della provincia Capitolo V 173 bolognese. L’intento è quello di indirizzare ciò che è già sul territorio verso altri ambiti del quotidiano, creando nuove imprese. Si cerca, anche, di invertire la tendenza ad assumere personale con bassa scolarità, piuttosto che diplomati (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.85). Il problema è stimolare e sostenere nuovi possibili sottosistemi fondati sull’innovazione del quotidiano. Il comparto in esame ha sempre mediato tra l’alta innovazione dei centri specializzati, lontanissimi dalle piccole imprese, e lo sviluppo del territorio. In Italia c’è stato, storicamente, solo uno strumento di politica industriale: la sovvenzione all’impresa (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.216). Cultura aziendale e società civile ruotano attorno allo Stato erogatore di risorse finanziarie. Mancano poteri e capacità di persuasione in nome di un interesse collettivo. Si agisce solo con variazioni artificiali degli interessi economici delle imprese: incentivi, disincentivi, sovvenzioni e sconti fiscali. L’efficacia di un sussidio all’innovazione è subordinata ad un contesto ambientale che convinca l’impresa ad innovare. Una politica industriale di innovazione promuove e sostiene la ricerca, i rapporti imprese-università, i servizi alle aziende, le infrastrutture, l’istruzione pubblica, ed è anche coerente con le politiche di concorrenza e di concentrazione industriale. La fragilità delle imprese “contoterziste” è evidenziata dal maggiore calo degli investimenti (-70%) durante la crisi congiunturale nell’intero territorio nazionale dall’89 al ’91. E’ presente, comunque, una tensione al rinnovamento organizzativo che, complessivamente, porta all’aumento delle figure professionali impiegate nelle attività strategiche e di supporto al processo produttivo, pur privilegiando le funzioni più tradizionali. Sembra possibile identificare (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.39) un gruppo di aziende che ha conseguito migliori risultati di performance produttive e organizzative: sono imprese meccaniche che si collocano al di sopra della fascia delle micro-imprese, producono per il mercato e si muovono con estrema prudenza, sia rispetto alle modificazioni della gamma produttiva, sia rispetto alla loro crescita dimensionale. La natura “autarchica” del reperimento dei capitali di rischio può ostacolare una spontanea evoluzione della piccola impresa verso la dimensione media. La Il finanziamento Capitolo V 174 struttura dei servizi finanziari della regione non è particolarmente dotata per lo sviluppo e l’innovazione finanziaria. Il doversi affidare quasi esclusivamente all’autofinanziamento rappresenta un forte limite e fa perdere opportunità a molte imprese che non hanno risorse per realizzare innovazioni e imporle sul mercato (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.56). Sembra esistere una sorta di subalternità psicologica degli imprenditori nei confronti delle banche, parzialmente esorcizzata dalla scelta di istituti locali, più alla portata anche se meno innovativi nei sistemi di credito (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.272). La mobilità professionale, interna ed esterna al mercato del lavoro emiliano, permette, al singolo, il controllo delle alternative e induce le aziende al miglioramento continuo, alla competitività e all’innovazione. Questo rende il distretto un’incubatrice naturale di imprenditorialità (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.253). Il mercato del lavoro è un’istituzione sociale determinata da norme di comportamento. L’esperienza storica di un’identità che rafforza comportamenti cooperativi, piuttosto che gare al ribasso per i posti migliori, vale anche per la domanda e per l’offerta. Innovazion e Nel momento della fondazione di un’azienda l’innovazione tecnologica è, spesso, limitata. Solo il successivo rafforzamento dell’ufficio tecnico può svilupparla. Si tratta, per lo più, di adattamenti di ciò che esiste. Ciò che fa la differenza tra imprese di successo e non, è il realizzarli prima di altri e, contemporaneamente, in tutti i livelli aziendali (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.74). Le aziende più dinamiche cercano la deverticalizzazione per dare maggiore autonomia alle funzioni. La scarsa standardizzazione dei prodotti induce maggiore flessibilità, ma comporta l’aggravio dei costi. Il magazzino, ad esempio, deve trattare moltissimi pezzi diversi, in più. La circolazione delle conoscenze all’interno dell’azienda è essenziale per le carriere e per i nuovi percorsi imprenditoriali. La quantità di conoscenze da suddividere genera una contraddizione (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.79): più aumentano le figure professionali atte a favorirne la circolazione e più si irrigidiscono aree e ruoli che ostacolano burocraticamente la comunicazione. Di conseguenza c’è una netta separazione tra aree a professionalità bloccata e aree a più Capitolo V 175 elevata professionalità. Queste situazioni possono non coincidere con gli atteggiamenti aziendali: si creano, così, situazioni molto articolate. La dimensione aziendale e la posizione di mercato porta a due strategie di innovazione (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.210). Le imprese “contoterziste”, di Due strategie minore dimensione, innovano in modo empirico induttivo: i retrofitting (ammodernamenti di vecchi macchinari o adattamento di quelli nuovi) esprimono la cultura del “farsi in casa”. Il numero maggiore di macchine rispetto agli uomini è significativo. Il sotto utilizzo ha una sua razionalità: sono macchinari ampiamente ammortizzati, destinati a lavorazioni marginali o “di ripresa”, che non aumentano i costi. Il “non buttare via nulla” riguarda macchine e uomini, perché rappresentano un patrimonio da non sprecare. Il decentramento non interessa mai il cuore della produzione, ma solo operazioni molto speciali, o marginali, poco qualificate. Il parco macchine è composto da macchine flessibili (tradizionali o innovate) e da macchine “dedicate”. Il percorso innovativo comincia, in genere, con l’acquisto di macchine a controllo numerico, sempre più sofisticate, per poi estendersi ad attrezzature per la “qualità” o per attività logistiche di supporto. Si passa, infine, all’adozione del CAD, collegato al controllo numerico, e al CAD/CAM (progettazione, produzione e gestione magazzino). Questi passaggi producono una cultura informatica centrata sulle operazioni produttive. A questo livello può determinarsi un “salto” nella logica organizzativa dell’azienda: è la soglia della strategia graduale d’innovazione centrata sul prodotto che si affaccia su orizzonti più ampi. Diventa naturale domandarsi se non si assuma la tecnologia come fine del mutamento, anziché, come mezzo (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.227). Nell’esperienza emiliana la monosettorialità dei centri di servizio ha avuto rilievo particolare. Oggi può rappresentare un limite. In discussione è il ruolo delle istituzioni per la “formazione alla crescita”. Queste devono farsi carico dell’offerta di risorse ai sistemi territoriali. Lo scopo è aprire una nuova fase di sviluppo della cultura dell’innovazione tecnologica, organizzativa e finanziaria. Modelli adeguati non possono essere mutuati dalla grande impresa. Se il contratto di lavoro non impegna alla creatività, la gerarchia è, per sua natura, insufficiente a costringere ad un maggiore rendimento (Bartolozzi e Risorse e terrritorio Capitolo V 176 Garibaldo 1995, p.234). Le dosi addizionali di impegno sono a totale discrezione del lavoratore. Solo un coinvolgimento vero può indurre la partecipazione attiva delle maestranze. Il lavoro deve apparire utile anche al subalterno, non solo dell’azienda. La partecipazione ad alti livelli fa acquisire all’impresa una straordinaria capacità competitiva. Questo è il vantaggio del modello giapponese. Partecipazione e coinvolgimento sono risultato di una lunga serie di presupposti, diversi per luogo e nel tempo. Questi riguardano l’organizzazione del lavoro e il livello di vita esterna; hanno a che fare con: il sistema politico, le istituzioni, le organizzazioni e la loro stabilità nel tempo, lo stile di regolamentazione, la cultura, i valori, i meccanismi di creazione e di trasmissione del sapere e infinite altre variabili. Dalla ricerca emerge l’importanza della fiducia nell’indurre competitività e sviluppo. Il caso dei distretti mostra che, in alcune occasioni riconoscibili nello spazio e nel tempo, il capitalismo occidentale ha risolto problemi simili a quelli risolti da altri capitalismi, utilizzando istituzioni, storie di vita, comunità e sistemi di valori del tutto diversi fra loro. Le piccole imprese Le piccole imprese differiscono per il tipo di produzione e per il ruolo che assumono nelle diverse strutture industriali (distretto, distretto con un’impresa leader, mercato, “conto terzi”). La piccola impresa dinamica (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.67) ha qualità di conoscenze e capacità di soluzioni innovative diverse per genere di produzione o di lavorazioni effettuate. Le due conoscenze principali, emerse dall’indagine, sono: le conoscenze tecniche per la progettazione di quel prodotto o l’esecuzione di quella determinata lavorazione e le conoscenze di mercato che identificano il prodotto o la lavorazione in grado di essere competitive con ciò che è già presente. Non compaiono conoscenze relative all’organizzazione del lavoro. Il loro apprendimento avviene per trasmissione diretta, interna alla famiglia o attraverso un percorso scolastico, lavorativo o nel sottosistema in genere. Risultano importanti le competenze acquisite nella collaborazione con l’ufficio tecnico e con la partecipazione alle fiere, ma, soprattutto, con l’esperienza di montatore “trasfertista”. Questa consente la conoscenza dettagliata della macchina e la sua verifica di fronte a clienti e concorrenza. Capitolo V 177 L’assenza di grossi ostacoli iniziali, tecnici o di mercato, ha reso poco influenti le barriere finanziarie. Le garanzie risiedono nelle relazioni comunitarie. In questo senso, il territorio ha avuto un ruolo protettivo e favorevole all’avviamento di nuove attività, ma non ha stimolato la nascita di imprese a valenza più fortemente progettuale e innovativa, se non in continuità con altre (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.56). I ricercatori sostengono (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.133) che la grande azienda si apre all’informalità, al riaccorpamento delle funzioni, alla riduzione di Convergenze lavoratori indiretti, alla centralità del fattore umano e delle relazioni, all’idea di controllo della “qualità” interno alla produzione. La piccola impresa, invece, accresce il numero di funzioni, di figure professionali e di lavoratori indiretti, si apre alle tecnologie di elaborazione e gestione delle informazioni, separa il controllo di qualità mediante un responsabile addetto. In definitiva, c’è una convergenza tra i paradigmi organizzativi orientati alla produzione e quelli orientati al mercato. Esigenze analoghe producono comportamenti divergenti. Le posizioni di partenza sono assai diverse, ma lo scopo è comune: la produzione “snella e flessibile” utile al mercato e alla “qualità” dei prodotti. Non c’è omologazione al modello “taylorista”, bensì creazione di forme peculiari di organizzazione che conservano polivalenza, coinvolgimento, integrazione e flessibilità. I risultati (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.148) mostrano che non c’è correlazione tra dimensione e informalità (organizzazione elementare o articolata). Il nuovo rapporto tra prodotto e mercato influenza la relazione tra progettazione e commercializzazione. La progettazione non deve essere, necessariamente, tutta interna: è sufficiente dirigere le scelte. Non è indispensabile inventare, perché le innovazioni incrementali o le “imitazioni creative”, se adeguate al mercato, possono bastare. Si tratta di vedere cosa si progetta, con quali input, da chi provengono e come è organizzato il tutto. L’ufficio vendite commercializza e fornisce input precisi e programmati alla progettazione. Lo sviluppo della parte commerciale dipende da investimenti legati a fattori culturali, ma anche, e soprattutto, dalla disponibilità di capitali. Più in generale, l’organizzazione deve essere capace di sostenere questa Dimensione e informalità Capitolo V 178 crescita senza squilibrarsi e, trattandosi di piccole imprese, la dimensione aziendale conta. Dimensione e innovazione Le piccole imprese metalmeccaniche emiliane hanno innovato allo stesso ritmo delle grandi (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.181). Ciò non significa che logica e sequenza siano state simili. L’organizzazione e la cultura aziendale hanno avuto una grande rilevanza, variabile secondo il tipo di innovazione. L’introduzione di un centro di lavoro a controllo numerico, ad esempio, potrebbe avvenire senza creare tensioni. L’avvento del computer, invece, potrebbe trovare ostacoli, se comportasse una diversa allocazione dei compiti o una differenziazione organizzativa. Non è un caso che il CAD (sistema computerizzato per la progettazione e la produzione) sia stato utilizzato come tecnologia di organizzazione solo molto tempo dopo la sua introduzione. Il percorso va da una cultura empirica, centrata sull’esperienza, a livelli d’astrazione e formalizzazione via via più elevati. Il fatto che nelle piccole imprese non fosse presente l’organizzazione tayloristica non significa che le nuove tecnologie abbiano avuto un impatto meno sconvolgente. Le relazioni tra specializzazionepolivalenza, formalità-informalità, predeterminazione-autonomia, scolarità- esperienza e tra l’importanza dei ruoli è cambiato. Nella ricerca si afferma (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.184) che l’uso dell’informatica, nell’organizzazione aziendale, si intreccia con i processi di formalizzazione e differenziazione organizzativa, i quali costituiscono un aspetto chiave dell'attuale fase di Due soglie trasformazione delle piccole imprese. L’uso più o meno dinamico e innovativo del computer è la prima soglia di discriminazione (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.195). A ciò si accompagnano i relativi aspetti della cultura aziendale in senso lato. La piccola azienda non è impermeabile alla mentalità informatica. La vera difficoltà è nella carenza interna del know-how. Questo crea una dipendenza dall’esterno che può avere effetti perversi, come il contrabbando di trasformazioni organizzative non coerenti e non decise consapevolmente. La seconda soglia di discriminazione è la prospettiva d’uso della logica del sistema informativo: da strumento per la soluzione di problemi a strumento di lettura e organizzazione dell’impresa. Il sistema informativo ha sempre implicazioni rilevanti sull’organizzazione. Le differenze Capitolo V 179 rilevate nell’uso dell’informatica sembrano dipendere dal grado di articolazione del modello organizzativo: le aziende più avanzate appartengono anche a quel ristretto gruppo di imprese individuate precedentemente come esempi di organizzazione più evoluta del rapporto prodotto-mercato. Le imprese che hanno un centro elaborazione dati, anche composto da poche persone, superano tutte i 100 dipendenti. La minore dimensione delle aziende non spiega, però, il maggiore coinvolgimento e consenso della “forza lavoro”. Dall’indagine risultano numerose Rapporti umani piccole imprese con metodi tradizionali di coordinamento e di esercizio dell’autorità (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.242). Le testimonianze sembrano indicare, a ragione del coinvolgimento, la qualità dei rapporti umani e sociali nei singoli luoghi di lavoro. In un contesto statico la variazione di potere di un soggetto comporta una variazione di segno opposto in un altro. Ne consegue che, avendo rilevato una minore presenza di burocrazia nell’organizzazione dei distretti, dovremmo rilevare una sensibile presenza di forme di autorità di tipo carismatico o tradizionale29. Le interviste rivelano, invece, che queste, non solo sono eccezioni, ma anzi, sono ritenute inefficaci o sbagliate dagli stessi imprenditori. L’uso più diffuso dell’autorità consiste nella mediazione tra spinte contrapposte. Il modello di Simon è forse il più adatto ad una spiegazione: l’autorità si esplica nel momento della decisione e si basa su premesse di fatto e di valore. L’organizzazione può definirsi come un campo strutturato di premesse, in quanto le decisioni hanno una gerarchia, secondo il rapporto mezzi-fini. La minore divisione del lavoro nelle imprese distrettuali consente un controllo più ampio sulle premesse di fatto, mentre le premesse di valore possono convergere su obiettivi comuni. Questo genera la consuetudine di governare e risolvere i conflitti, tanto che il venire meno di tali valori crea pressioni sociali atte a rimuovere i comportamenti scorretti. Il clima di fiducia non è scontato, perché l’informalità costringe il processo decisionale a basarsi sulla competenza: chi fa il furbo viene isolato. Le relazioni industriali, pur conflittuali, hanno una base comune 29 Forzando un po’ la ricchezza del pensiero di Weber. Conflitto e fiducia Capitolo V 180 di regole e di riconoscimento dei ruoli. La fiducia è accordata in modo critico dai lavoratori, in base a giudizi rispondenti a criteri definiti. La maggiore autonomia delle maestranze porta alla maggiore possibilità di valutazione dei favoritismi, dell’equità tra salari e profitti e del reinvestimento degli utili. Il controllo è reso possibile dalla vicinanza delle relazioni sociali, interne ed esterne, all’impresa. Informazio ni Il processo informativo è determinante sia per coinvolgere che per decidere. La decisione è la conclusione di un processo informativo che ne struttura le premesse. Non tutti i dati, però, diventano informazioni. Affinché ciò avvenga occorre la loro elaborazione. Gli imprenditori sanno bene che le loro decisioni dipendono da ciò che hanno saputo cogliere dai propri dipendenti. Per questo occorre il coinvolgimento, variabile per funzioni ed aree, ma che non escluda intrecci tra loro, anche in presenza di un responsabile del sistema informativo. Ruoli e funzioni Un altro fenomeno tipico è l’accettazione delle differenze di ruolo. Ciò è dovuto alla consapevolezza che esse sono solo di carattere funzionale. Lavoratori e imprenditori sono persone complesse. Essi si cimentano da pari a pari e si esprimono in un ampio arco di interessi e valori, nella ricchezza della vita associativa, politica, culturale e ricreativa. Da questa loro complessità traggono materia per la riproduzione delle competenze, per lo scambio di idee e per i processi di autostima. Relazioni industriali Le relazioni industriali sono un procedimento sociale che risolve le controversie, trasformando il disordine in ordine attraverso la creazione di norme (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.253). L’Emilia è terra di forti tradizioni solidaristiche e associative. Negli anni ’70 i sindacati hanno reagito al decentramento produttivo con una politica contrattuale che non scontava nulla, né alle piccole aziende, costrette a ricercare l’innovazione per sopravvivere, né alle istituzioni locali, per ottenere sostegno allo sviluppo. Le origini operaie di molti imprenditori hanno consentito pratiche gestionali e contrattuali fondate sulla ricerca del consenso. Tranne qualche eccezione, il conflitto non ha mai prodotto situazioni ingestibili o Un gioco distruttive e ciò è stato utilizzato come deterrente per la concorrenza sleale. Siamo in presenza di un “gioco negoziale”, con regole scritte e non, fatto di affidabilità, rappresentatività, informazione preventiva, svolgimento delle trattative e Capitolo V 181 conciliazione. La rappresentanza sindacale in questa zona ha radici storiche ed ha prodotto una contrattazione territoriale in aggiunta a quella nazionale e aziendale. L’Emilia è stata un laboratorio di relazioni industriali che ha anticipato nei fatti comportamenti poi recepiti dalle leggi nazionali. Gli elementi e le condizioni che possono aver favorito queste sperimentazioni sono: la vicinanza degli attori sociali, la condivisione di vita e dei problemi, la trasparenza che ha permesso verifiche incrociate, l’origine operaia di molti imprenditori, le “reti” di relazioni associative che ritualizzavano la soluzione dei conflitti sulla base della pari dignità dei ruoli. Le Le autorità autorità locali hanno svolto un importante compito di mediazione tra le parti. Gli interventi più efficaci hanno riguardato l’urbanistica, le infrastrutture, i servizi locali e la sociali, le politiche industriali senza incentivazioni finanziarie e con servizi di qualità non presenti sul mercato. La lungimiranza culturale ha avuto una ricaduta economica strepitosa. L’impulso alla socializzazione e alla mobilità professionale e sociale ha realizzato un esempio difficilmente imitabile da politiche padronali o “paternalistiche”. Questo ha reso possibile l’affermarsi di aziende di tipo comunitario. Il controllo sociale sulle imprese è stato esercitato mediante la restrizione degli interventi sopra descritti e con il discredito presso la comunità; quello sui sindacati, attraverso il rifiuto di solidarietà in caso di richieste “corporativiste”. Incoraggiare le trattative a livello di associazioni ha reso gli attori sociali meno diseguali nella partecipazione in vista delle decisioni. I rapporti di fiducia e le “reti” sociali sono il risultato di un processo storico, ancor prima che precondizione del buon andamento economico. La mancanza di fiducia rende gli scambi più rischiosi, lenti e costosi. Lo si nota solo quando non c’è, perché le regole sono, spesso, implicite. Un economia senza codice morale rende deboli le sue performance. Questa situazione è descritta come “apprendimento tramite monitoraggio”, cioè continua regolazione reciproca delle aspettative e dei risultati delle transazioni. Ognuno si attende che gli altri adattino le loro aspettative in base alla loro esperienza, agendo non “sul cosa”, ma “sul come”: in questo modo si riduce l’incertezza. Un processo storico Capitolo V I premi 182 La sola incentivazione economica risulta poco rilevante: è stato dimostrato come il salario variabile non risolve il problema della motivazione. Tale strumento è inadatto, soprattutto perché non rileva il contributo di squadra e sopravvaluta il risultato individuale. Il fabbisogno salariale è legato alla percezione dei bisogni sociali e culturali. Il lavoratore sa di non essere mai risarcito completamente dal salario. Egli giudica l’equità della retribuzione confrontandosi coi suoi “pari” e valutando il lavoro rispetto alle sue aspirazioni e alla sua soddisfazione globale. Quattro prerequisiti Una ricerca dell’IRES identifica i pre-requisiti delle relazioni industriali emiliane con la cultura cooperativa, con il contesto socioeconomico, regolato consensualmente, e con la legislazione di sostegno (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.260). La situazione non è omogenea in tutte le imprese. Dove lo è, si riscontrano diverse gradazioni. La possibile ambiguità del complesso intreccio tra aspetti oggettivi e soggettivi di varia natura, porta a constatare che mentre il coinvolgimento non implica la soddisfazione, la sua assenza genera senz’altro insoddisfazione, anomia, senso di esclusione. Ne deriva che il rapporto sociale conta molto e può compensare aspetti organizzativi sgradevoli. Il superamento della fabbrica “fordista” Distretto e non implica la sua scomparsa, ma genera convivenze articolate. Secondo Becattini il integrazio ne dato discriminante dei distretti industriali è l’integrazione sociale. Caratteristiche rilevanti sono: la sicurezza del posto, l’ansia di reputazione e la “rete” sociale. In Emilia il punto cruciale sembra, dunque, essere l’equilibrio tra economia (la fabbrica) e la società (fuori dalla fabbrica). Ad esempio, il peggioramento del sistema previdenziale ha una ricaduta anche sul raggiungimento di maggiori livelli di produttività. Lontano dall’Emilia Adriano Olivetti era riuscito, con ideologie e motivazioni differenti, ad ottenere risultati analoghi; Marzotto, invece, no. L’importanza del contesto evidenzia che la politica conta, sia a livello nazionale che a livello locale. Non si pensi ad un “mito dell’informalità”, ma di un panorama differenziato di situazioni ibride tra l’artigianale e l’industriale (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.281). La polivalenza, ad esempio, ha diversi livelli di L’autonomia qualificazione, cioè gradi di segmentazione della forza lavoro (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.290). L’autonomia, invece, ha livelli soggettivi di riferimento Capitolo V 183 (esecuzione solitaria delle mansioni, possibilità di micro variazioni, ampia possibilità di decisione tecnica e di rapporto con altri) e di percezione della stessa (quella di cui si usufruisce o quella da cui si è esclusi). C’è uno spazio d’incertezza che circonda l’autonomia: a fronte di nuovi problemi la responsabilità decisionale è quasi sempre di figure gerarchiche. Questo può essere solo un fatto formale, nel caso in cui essa sia esercitata ascoltando le proposte dei lavoratori. Gli spazi d’autonomia sono legati più ai tipi di mansione che al modello organizzativo. L’autonomia, come possibilità di risolvere i problemi, si collega alla partecipazione alle decisioni gestionali e organizzative, non a quelle strategiche. Per questo motivo autonomia e partecipazione non viaggiano parallele (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.300). La consuetudine “artigianale” di interpellare informalmente i dipendenti va in crisi con l’organizzazione industriale, in cui il processo decisionale si esplicita e si formalizza nelle figure intermedie. I lavoratori possono organizzare le modalità spontanee e informali (artigianali) nella pratica, oppure ricorrere a politiche partecipative che, anche se “scopiazzate” dalle grandi aziende, possono, comunque, informare e formare. Tali politiche sono complementari e non alternative, alla partecipazione più ampia. Il bivio, nella transizione da modello artigianale a quello industriale, può condurre a ricalcare le orme degli altri o ad elaborare formule originali. La grande fluidità organizzativa non elimina le aree di dequalificazione Quali modelli professionale: è necessario migliorare i servizi di consulenza organizzativa, perché la piccola impresa non possiede le conoscenze necessarie ai suoi bisogni (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.321).. Le aziende che offrono questo servizio impongono modelli di successo o di moda mutuati dalla grande impresa. Le strutture di consulenza adeguate alle piccole aziende dovrebbero sviluppare modelli specifici, per evitare i rischi di soluzioni inadatte o imitazioni mal riuscite. Lo stesso vale per la formazione, la quale deve rivolgersi “specificatamente” al fabbisogno della piccola impresa. Occupazione e qualità del lavoro non sono argomenti inconciliabili (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.327). La loro divisione legittima la spaccatura tra ricchezza e povertà, intollerabile per una società che vuol essere integrata. I ricercatori Etica del lavoro contingent Capitolo V 184 ipotizzano un’etica del lavoro “contingente”, in cui si rigetta la massimizzazione a tutti i costi e si ridimensionano gli eccessi. La professionalità e il senso del lavoro cambiano senza perdere rilevanza. Essi sono vissuti e percepiti in una dimensione qualitativa differente. L’investimento personale è gestito dal soggetto più che imposto dal controllo sociale. Il lavoro convive con una pluralità d’interessi, altrettanto importanti, che non rappresentano il momento esclusivo della realizzazione personale e non monopolizzano tempo ed energie. La finalità dell’individuo è raggiungere l’equilibrio necessario per curare in modo soddisfacente entrambi (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.343). La ricerca d’autonomia è un elemento costitutivo dell’imprenditorialità, quale espressione più autentica del sé. Questa, a sua volta, è un indicatore di creatività, secondo la definizione di McKinnon30. La ricerca di soluzioni a problemi complessi è tipica di chi ha una spiccata attitudine alla creatività (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.357, 373). Quattro problemi I problemi denunciati dagli intervistati possono essere riassunti in quattro tipologie: la possibilità di utilizzare le proprie capacità per risolvere problemi nell’ambito del proprio lavoro, il coinvolgimento nelle scelte del gruppo a cui si sente di appartenere, il non subire controlli arbitrari e superflui, avere un ruolo adeguato alle proprie capacità e differenziato, nel gruppo. Nelle piccole come nelle grandi aziende il lavoratore non è “naturalmente” felice. Contrariamente a ciò che di solito si pensa sul “piccolo è bello”, il minor grado di sofferenza e il livello più alto di creatività si hanno nelle aziende in cui l’organizzazione del lavoro è più complessa. Il gruppo si presenta come strumento possibile per affrontare i limiti della misurabilità del lavoro, senza rinunciare ad essa. Il territorio Il territorio può essere considerato una struttura sociale per mezzo della quale si determinano “circoli virtuosi” o “circuiti viziosi” di trasformazione. L’innovazione va affrontata con un intreccio di strategie imprenditoriali e d’organizzazione sociale del territorio. Il “gruppo di lavoro” è una struttura “molto leggera”, capace di fornire Capitolo V 185 un nuovo genere di “beni pubblici” per migliorare e diffondere il processo d’innovazione. Questo “bene” è costituito da una ricerca “pubblica”, capace di valutare criticamente le organizzazioni e di attivare un dialogo sociale basato sul consenso, sulla partecipazione e sulla mobilitazione delle risorse. 5.4.2.4 – Il punto di vista sindacale: sindacato, imprese e istituzioni Dal 1984 la CGIL di Bologna ha sviluppato un proprio programma di ricerca e di formazione sindacale31. Il programma interdisciplinare coinvolge gruppi d’esperti, specialisti, docenti e ricercatori. Assieme alla ricerca procedono corsi di base specifici e d’approfondimento tematico, per formatori. Lo scopo è la progettazione autonoma delle soluzioni ai propri problemi di lavoro in fabbrica. Si sono realizzati numerosi “studi di caso” nelle aziende di macchine automatiche. Questi hanno evidenziato: il rafforzamento delle strutture gerarchiche e di controllo sociale, la ricerca di partecipazione subalterna (marketing interno, propaganda, ipnosi, manipolazione), l’incentivazione salariale in base alla disponibilità individuale, l’emarginazione dei lavoratori portatori della vecchia cultura partecipativa (reputata ostacolo al mutamento), l’uso della tecnologia come risoluzione dei problemi organizzativi, il decentramento e la concentrazione d’imprese complementari in gruppi (anche stranieri) per diversificare la produzione (Melotti 1998, p.27). Il ricambio generazionale e l’avvento di manager di scuola “FIAT-Bocconiana” sono un problema per i lavoratori, perché rendono le regole unilaterali, allontanandole dalla loro cultura tradizionale. Si smantella il vecchio sistema di relazioni industriali a favore di relazioni fondate sulla fedeltà. I gruppi diventano fonte di pressione sui lavoratori che perdono il controllo e la gestione del proprio lavoro. Qualsiasi bilateralità è esclusa. Il modello sociale basato su solidarietà, cooperazione e su una forte identità sociale e professionale, si destabilizza. Il “saper fare” tradizionale è 30 Un processo che si svolge nel tempo e che si caratterizza per l’originalità, lo spirito di adattamento e la preoccupazione di realizzazione concreta. 31 L’intero sottoparagrafo fa riferimento a: Melotti M. (a cura di), 1998, Lavoro, qualità, sviluppo, contrattazione, Archivio storico della CdLM di Bologna e CGIL Emilia Romagna, CIReF CGIL di Bologna e FIOM-CGIL; testo provvisorio. Il programm a della Capitolo V 186 visto come ostacolo anziché come risorsa. La difficoltà di contrattazione è culturale. La divisione tra conoscenze tradizionali e nuove tecnologie distorce la visione dei problemi del prodotto e del mercato. Si genera, conseguentemente, una frattura nel sistema di relazioni industriali: non si pratica più la contrattazione collettiva delle regole contraccambiata dall’offerta di conoscenza e consenso. Le piattaforme contrattuali aziendali sono state la prima importante Le piattaform e innovazione del sindacato. Sono progetti che mettono in relazione formazione, ricerca e azione sindacale (Melotti 1998, p.30). I lavoratori sono protagonisti: dalla loro conoscenza dei luoghi di lavoro derivano le proposte di strumenti e politiche per affrontare e risolvere i problemi. L’abilità di risoluzione dei problemi sostituisce o si sovrappone al lavoro esecutivo. Il montatore rappresenta l’azienda a casa del cliente e riporta i feedback32 in sede (Melotti 1998, p.15). L’operatore di macchine utensili è autonomo fino al controllo dei suoi prodotti. Egli autogestisce, informalmente, anche il “ciclo di lavoro” che tiene nel “credenzino”, per ogni pezzo lavorato. Nella progettazione l’inventiva del singolo si avvale del lavoro di un’équipe formata da operatori commerciali, montatori, tecnici di produzione, addetti agli acquisti e alla subfornitura. Le piattaforme aziendali si prefiggono di “codeterminare” le azioni per la competitività dell’impresa e per la “qualità della vita lavorativa”. Gli strumenti sono: la progettazione organizzativa congiunta (modelli, soluzioni organizzative e caratteristiche del sistema), il “problem setting”33, la ricerca delle risorse (tecnologia e professionalità), lo scambio d’informazioni tra azienda e lavoratori (da una parte mercati, risorse, strategie, problemi dei clienti, ecc. e dall’altra lavoro reale, informale e tecnologia). Questo scambio va dal generale al particolare e viceversa. In questo modo se ne verifica l’efficacia. I lavoratori partecipano “mettendoci del proprio” e risolvendo problemi aziendali: “ciclo di vita”, personalizzazione e qualità del prodotto. L’azienda s’impegna a definire, insieme ai lavoratori, i criteri oggettivi per lo sviluppo di carriere basate sulle competenze e sulle capacità professionali. Si regolano inoltre: la formazione permanente, i modelli organizzativi che utilizzano 32 Informazione di ritorno sull’effetto di una certa azione svolta in precedenza. Capitolo V 187 autonomia, responsabilità, creatività e apprendimento, le norme che definiscono ruoli e sistemi retributivi coerenti. Si risolve, così, un altro problema strategico: la prevedibilità delle relazioni industriali. Gestire il cambiamento organizzativo può consentire più flessibilità e maggiore rapidità di decisione nella complessità. Il decentramento decisionale e l’uso dell’intelligenza e della creatività dei lavoratori è utile sia alla qualità del prodotto, sia all’efficienza dell’impresa. Si hanno miglioramenti nell’organizzazione del attraversamento”), nel “time to market” 34 lavoro (produttività e “tempi di (interfunzionalità e decisioni orizzontali), nella riduzione degli stock35 e nei “gruppi di lavoro” (integrati, interdisciplinari, interfunzionali). Se il sistema è integrato ed articolato l’informatizzazione del circuito informativo può migliorare il funzionamento dei gruppi. Diversamente si possono creare discontinuità e rotture, perché i computer sono una tecnologia esterna che interviene sul modo di fare organizzativo e può ridisegnare relazioni e sistemi sociali. In questo modo, i lavoratori organizzati perdono, per la prima volta, la visione globale dell’azienda, la lettura autonoma dei processi e, quindi, la capacità di negoziare l’organizzazione del lavoro e i suoi contenuti. A Bologna vengono definite le politiche di FIOM e CGIL per i congressi nazionali di Verona del 1989 e di Rimini del 1991. Temi quali la formazione continua e congiunta, il salario aziendale, la riduzione d’orario con maggiore occupazione nei doppi turni, la flessibilità (oraria, tempo determinato, orari annuali, flessibilità temporanee, part-time, contratti di solidarietà), anticipano di 6/7 anni l’accordo nazionale sulla concertazione del 1993 (Melotti 1998, p.32). Questa flessibilità non ha creato provvisorietà nel mercato del lavoro. La codeterminazione voleva modificare la cultura delle relazioni industriali, presupponendo un sistema che non esisteva nel 1991 e non esiste, tuttora, nella cultura delle parti sociali. In un sistema di democrazia industriale debole come quello italiano è comprensibile il fallimento di tale strategia e il mancato accordo del ’93. Gli stessi metalmeccanici 33 Si veda la nota 18 in 5.4.2.1 a p.155. Termine tecnico per indicare il tempo che intercorre dall’idea del prodotto alla sua introduzione sul mercato. 35 Quantità tenuta a magazzino. 34 Il laboratorio bolognese Capitolo V 188 bolognesi, nonostante il successo iniziale tradotto in molti accordi importanti, hanno visto la mancata gestione delle piattaforme controfirmate. Le aziende hanno tradotto la carta in prassi operativa unilaterale. “E’ prevalsa la cultura dei diritti di un élite sindacal-illuministica centralizzata; cultura che ha spostato risorse sindacali verso nuovi apparati all’esterno, contribuendo ad aggravare ulteriormente la burocratizzazione della struttura sindacale” (Melotti 1998, p.37). Imprese e sindacato Le posizioni dei singoli imprenditori o manager si possono dividere in tre blocchi (Melotti 1998, p.35). Il primo è in completa sintonia con la Confindustria nazionale. Il secondo considera il sindacato un interlocutore difficilmente alienabile, ma solo riferito alla base operaia tradizionale e solo per la contrattazione salariale legata alla redditività dell’impresa. La terza posizione si distacca dalla Confindustria nazionale, incoraggiando e mostrando interesse per le esperienze locali, perché valuta gli obiettivi e non i rapporti di forza. Un sindacato competente è considerato un punto di vista importante ed un elemento di trasparenza, perché offre la possibilità di evidenziare i problemi al loro insorgere e, quindi, di intervenire con tempestività. Quest’atteggiamento indica: una filosofia del consenso, una partecipazione negoziale non subalterna, un coinvolgimento lavorativo e una prevedibilità delle relazioni sindacali. Tutto ciò induce reciproco riconoscimento e fiducia, che permettono una conflittualità non ideologica vista, come nella migliore tradizione liberale, risorsa e fattore di sviluppo e di crescita. Partiti e istituzioni I partiti e le istituzioni locali sono molto sensibili all’occupazione, ma sottovalutano le trasformazioni e la destabilizzazione sociale del lavoro in fabbrica, anche se svolgono un ruolo mediatore molto attivo: la stessa SS.Chiesa è intervenuta nel caso ACMA36 (Melotti 1998, p.36). Inizia a farsi strada l’idea di un intervento che riqualifichi il territorio come fattore di sviluppo coerente con il suo ruolo storico: aumentano, infatti, i servizi al lavoro e i modelli organizzativi per la gestione della complessità urbana. L’accentuazione del potere centrale ha alimentato, anche a Bologna, le carenze nelle strutture locali che dovrebbero promuovere l’innovazione e Capitolo V 189 la formazione di nuove professionalità. Ciononostante il tratto distintivo di questa città, la sua “cifra” culturale e istituzionale, rimane vivo nella sua storia: la vocazione istintiva a promuovere e organizzare le conoscenze è dimostrata, tuttora, dalla più che decennale esperienza delle aule didattiche nei musei e dagli operatori impegnati nei progetti informatici al servizio dell’istruzione. La nostra città sarà, non a caso, il laboratorio in cui sperimentare, per conto del Ministero, l’obbligo scolastico fin dal quinto anno di età37. Un’altra caratteristica già citata è la collaborazione tra vari enti. L’apertura pomeridiana delle scuole e le altre iniziative, che vedono la collaborazione di Provveditorato, Comune, Provincia e sindacati, fanno sì che Bologna diventi un grande cantiere della conoscenza e della socializzazione, senza sottrarla alle sfide della riforma dello stato sociale. Il Progetto D.O.P.O. (Dispersione Osservatorio Prevenzione Orientamento), ad esempio, si prefigge di inserire nel ciclo di studi le conoscenze relative al mondo della scuola e del lavoro, al fine di sviluppare progetti individuali di scelta, utili nei passaggi tra scuola media, studi superiori, formazione e lavoro. Dal 1995 è attivo il servizio “Bologna Lavoro” che vede la collaborazione di Provincia, Direzione provinciale del lavoro, Comune e Progetto DOPO Agenzia per l’impiego dell’Emilia Romagna. Esso ha come obiettivo l’offerta di servizi reali a lavoratori e aziende, come la promozione dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro. Nel ’97 più di 5.000 datori di lavoro si sono rivolti al servizio, Bologna Lavoro richiedendo 6.106 lavoratori, mentre gli utenti in cerca di lavoro che si sono recati agli sportelli sono stati 6.023. La Provincia di Bologna ha speso 19 miliardi in corsi Corsi di di formazione professionale nel 1997 e ha in programma di investirne 21 nel ’98 e formazion nel ’9938. I corsi sono selezionati per qualità ed economicità: nel 1997 su 1149 corsi e presentati ne sono stati approvati 496 (per circa 9.908 allievi). I corsi iniziali (‘93-’94 e ‘94-’95) hanno qualificato 512 persone: il 78.6%, ora, è occupato, il 6.4% ha proseguito gli studi e solo il 12.2% è disoccupato. I “qualificati” dai corsi per 36 Nella ristrutturazione conseguente al passaggio dal Gruppo Emhart al Gruppo GD ci fu una forte riduzione del personale. 37 Comune di Bologna, 1998, Cantiere scuola, ne “Il foglione”, n° di marzo. 38 I dati sono tratti da: “Programma provinciale della Formazione e dell’orientamento professionale 1998-99” e da “Lavoro, Economia, Formazione 1996” dell’Osservatorio sul mercato del lavoro della Provincia di Bologna. Capitolo V 190 diplomati, nel 1995, sono stati 214: il 71.2% è occupato e il 21% disoccupato. Esistono in tutta la provincia dei centri di informazione e orientamento professionale (CIOP) che, attraverso materiale specializzato e colloqui, aiutano le persone a scegliere il loro percorso formativo. Ogni anno vengono organizzate le “Borse Estive”, periodi di stage (4 o 6 settimane) per i ragazzi delle scuole medie superiori nelle aziende del territorio. Durante questa permanenza i ragazzi sono seguiti da un tutore. Un’iniziativa della Provincia di Bologna, “Progetti d’impresa”39, si prefigge Le “Borse estive” di incentivare e promuovere la creazione, lo sviluppo ed il sostegno di nuove imprese, singole o associate, economicamente valide. Finora il centro è stato utilizzato da 473 soggetti, di cui la metà sono donne. Gli sportelli sono a Bologna, Progetti d’impresa Vergato, Imola e nell’area persicetana. L’età degli utilizzatori è compresa, per il 73%, fra i 26 e i 45 anni. Quasi il 60% è diplomato, ma c’è, anche un 10% che ha solo la licenza media inferiore. Le attività più frequenti sono: commercio, servizi alle imprese e artigianato. Le richieste riguardano finanziamenti (37%), consulenze (22%), orientamento (21%) e messa a punto delle idee (14%). Lo stato occupazionale degli utenti va dai disoccupati di breve durata (26%), ai lavoratori dipendenti (20.5%), ai liberi professionisti (16%) e agli imprenditori (14%). Solo il 5.5% è disoccupato di lunga durata. Una soluzione al bisogno di agevolare l’imprenditorialità e il miglioramento della qualità della vita viene dall’Ervet che ha presentato al Parlamento Europeo il “Progetto Idea”. Si tratta della promozione di soluzioni tecnologiche ai problemi degli anziani. L’intento è quello di attivare l’imprenditorialità per la rilevazione dei bisogni e per la relativa e adeguata risposta. I finanziamenti assegnati alle idee approvate soddisfano due condizioni: la creazione Progetto IDEA di mercati economici e la risposta a bisogni sociali. Nella stessa direzione vanno anche il “Laboratorio teatrale per disabili”40 e la “Casa intelligente”41, perché 39 Fonte: Comune di Bologna 1998, “Il foglione”, numero del 24 luglio. Si tratta di un laboratorio teatrale che oltre a insegnare la recitazione a livello professionale organizza delle tournée come qualsiasi altra compagnia teatrale. 41 E’ una casa realizzata con accessori automatici già reperibili sul mercato in grado di permettere ad un disabile di vivere da solo. 40 Capitolo V 191 nascono dalla problematizzazione del bisogno sociale, dando una soluzione “di mercato”, in un mercato che non esiste e va creato. Il territorio offre un buon livello d’infrastrutture (Melotti 1998, p.14) fin dagli anni ’60-’70: tangenziale, quartiere fieristico, aeroporto, aree industrializzate, Infrastrutture assistenza e servizi efficienti e di buona qualità, sistema sanitario decente, scuole tecniche comunali, ricerca universitaria, servizi alle imprese e urbanistica qualitativa (centro storico e colli). A questo punto viene da chiedersi cos’è che si acquista dalla realtà emiliana? Si acquista il modo di fabbricare di un sistema, sociale e tecnologico, che è un Un modo di fabbricare dispositivo complesso di produzione a “rete” (Marchisio 1990, p.196). L’Emilia è vista come luogo del fabbricare in cui si compra la qualità della fabbricazione. Finora l’egemonia culturale di questa area, dal punto di vista industriale, è stata sproporzionata rispetto al suo peso reale. Nella Regione, e a Bologna in particolare, c’è stata una grande capacità di fabbricare e un debolissimo potere industriale, inteso come modello culturale capace di rappresentare e definire strategie in risposta a problemi generali. Le novità del mercato di settore riguardano: la riduzione del tempi necessario per eseguire un cambio “formato” e riallestire la produzione; il portafoglio ordini che, da una provvigione di 4-5 anni, va riducendosi; il restringimento dei tempi di consegna; la riprogettazione del prodotto per includere parti di linea finora ignorate e sistemi automatici di collegamento; la realizzazione di un mix di macchine in serie; infine, l’evoluzione incrementale più spinta su tutti i prodotti. Il decentramento produttivo ha raggiunto il 70-90% della produzione totale. La subfornitura, da semplice ammortizzatore, è diventata una funzione primaria effettiva del sistema produttivo. E’ sempre più difficile, infatti, stare al passo con l’evoluzione tecnologica e gestionale in questo settore, a causa della scarsità delle risorse finanziarie e per come è organizzato il processo produttivo. In molti casi le subforniture si stratificano: da un “capo commessa” che lo preleva, il lavoro viene girato ad altri suoi sub-subfornitori. Le novità del settore Capitolo V Tre fattori 192 Tra i molteplici fattori che incidono sulle contrattazioni, gli eventi esterni al comparto assumono grande rilievo. Le caratteristiche del territorio espresse da imprese e sindacato hanno altrettanta importanza. Gli anni ’80 hanno ridotto la rappresentatività del sindacato, anche a Bologna: è sceso il numero di tesserati, ma, soprattutto, ne è calato il prestigio (Melotti 1998, p.12). Relazioni e rappresentanza si fondano su fiducia e rispetto reciproco. Queste permettono la “gestione del conflitto”, senza esasperarlo. L’arma più efficace non è lo sciopero tradizionale, ma la caduta del consenso e della partecipazione: sciopero bianco, dello straordinario, ecc. (Melotti 1998, p.23). Le resistenze sono, spesso, di carattere ideologico: nonostante la distanza dalla realtà locale, si cerca di uniformarsi alle grandi imprese nazionali. Molte trattative bloccate a Roma si sono concluse rapidamente in Emilia Romagna. Capitale da lavoro Le peculiarità del settore sono indotte dalla complessità del prodotto e del processo, ma, soprattutto, dal tipo di origine delle imprese, che nascono dal lavoro, anziché dal capitale (Melotti 1998, p.16). Solo chi proviene dal lavoro sa valorizzare, come risorse, queste caratteristiche, di cui ci si accorge solo se mancano. Il passaggio generazionale della proprietà e l’avvento dei manager rischia di cambiare le cose. Fino ad un certo momento, il “saper fare” finalizzato alla soluzione dei problemi si è anteposto al rispetto delle procedure, anche nel settore pubblico. L’operatore ha funzionato da “terminale” dell’ente locale nei confronti della collettività, intreccio virtuoso di feedback, poiché convogliava richieste e suggerimenti verso il centro. Il governo locale, così, poteva decidere con le conoscenze necessarie. In questo modo si è migliorato e innovato continuamente e complessivamente. Lavoro “vivo” Teniamo presente che il lavoro in questo territorio è “vivo”, cioè non solo fisico, ma, soprattutto, creativo e intellettuale (Melotti 1998, p.17). L’individuo, prima di essere lavoratore, è cittadino a pieno titolo, inserito nella vita politica, sociale, e culturale della città. L’etica del lavoro si basa sulla “qualità”, il cui valore aggiunto è l’insieme di capacità relazionali, comunicative, creative, tecniche (specifiche e tradizionali), per l’individuazione e la risoluzione dei problemi. La collaborazione non produce né identificazione né subalternità all’impresa. Ci si Capitolo V 193 identifica con il proprio lavoro e si mantiene l’autonomia politica e culturale. L’interazione non è mai un adattamento passivo, ma modificazione della struttura in maniera contrattata e continua, tenendo conto delle alterazioni (varianze) sociali e lavorative che intervengono. Il conflitto ha rappresentato una risorsa per il cambiamento, perché ha reso la gestione più trasparente, consentendo l’individuazione dei problemi al loro insorgere. Le ragioni dell’equilibrio dentrofuori la fabbrica sono tre: la condivisione di un obiettivo che è anche sviluppo territoriale; la rappresentanza politica e sociale nel governo del territorio; la rappresentanza sindacale nel mondo del lavoro. Queste ragioni sono inserite in un sistema di contropartite materiali e immateriali: stabilità, norme e trattamenti, superiori al resto d’Italia. I consigli di fabbrica, autonomi da partiti e sindacati, si scontrano anche con i vertici della Camera del Lavoro, che fatica a adeguarsi alle trasformazioni del lavoro industriale (Melotti 1998, p.19). Il sindacato delle fabbriche bolognesi è diverso da quello di altre zone industriali: i delegati sono operai molto specializzati e impiegati degli uffici tecnici (non operai della catena di montaggio). La cultura del lavoro dei metalmeccanici bolognesi ha sempre considerato l’organizzazione del lavoro e le condizioni di vita in reciproca relazione. Ciò si è Lavoro e vita tradotto nella lotta contro la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ne è derivato un concetto di professionalità che è autonomia, culturale e sociale, del lavoro rispetto al capitale. Il lavoro va oltre la sopravvivenza, per investire l’interezza della persona umana. La politica rivendicativa si è basata proprio su questo. Dal ’71 gli obiettivi raggiunti sono stati: l’unificazione delle categorie operaie ed impiegatizie con declaratorie uniche, l’arricchimento professionale per una maggiore autonomia nel “ciclo di lavoro”, l’intensificazione della formazione (le “150 ore” usate anche per scuole tecniche ed università) ed , infine, l’addestramento e la rotazione per ricomporre le mansioni. Per la prima volta la professionalità (passaggi di categoria) è diventata oggetto di contrattazione. I “consigli di zona intercategoriali” erano il luogo d’incontro e di scambio tra esperienze lavorative diverse, pubbliche e private, di produzione di servizi e di I consigli di zona intercategoriali Capitolo V 194 utenze (Melotti 1998, p.22). Essi elaboravano piattaforme territoriali da proporre alle imprese e all’amministrazione locale. Tra le materie oggetto di iniziative vanno ricordate: l’ambiente di lavoro e la sanità, il diritto a medici e tecnici di fiducia (diversi da quelli dell’ispettorato del lavoro), la formazione coordinata tra imprese, scuole e università; i servizi sociali, gli asili nido e i trasporti (fasce orarie gratuite); la partecipazione delle aziende alla spesa pubblica (l’1% del monte salari), le mense interaziendali delle piccole imprese, lo spostamento delle fabbriche fuori dal centro storico senza speculare sui terreni, la messa a coltura delle terre incolte e male coltivate mediante l’utilizzo della legge Gullo 1946 (caso più unico che raro); la creazione di parchi e “borse di studio”. Queste sono state tutte proposte decisive per lo sviluppo locale. Le decisioni hanno fatto i conti con le conoscenze dei processi reali che il mondo del lavoro aveva. La mentalità bolognese ha prodotto un sindacato rappresentativo che non si è mai opposto al cambiamento, ma ha sempre preteso di discuterne le modalità di gestione (Melotti 1998, p.5). Le relazioni sindacali sono coinvolte nel processo produttivo e nel prodotto (Melotti 1998, p.6). Il conflitto diventa risorsa per il cambiamento, raramente è un ostacolo. La possibilità di partecipare al governo del territorio, attraverso i consigli di zona intersettoriali, ha creato l’equilibrio tra “dentro” e “fuori” la fabbrica. La globalizzazione ha rotto questo equilibrio con l’introduzione di modalità di relazione di stampo FIAT-Bocconiano, di nuove tecnologie e delle relative filosofie gestionali. 5.4.3 – Cosa si fa: sulla formazione all’innovazione I consulenti che svolgono attività di formazione all’innovazione nelle aziende utilizzano del materiale che è stato visionato. Tra questo ci sono sembrate significative due interviste che vengono adottate come esempi di riferimento. La prima (Taylor 1990) ha come protagonista Paul Cook fondatore della Raychem Corporation, azienda che fornisce prodotti ad alto contenuto tecnologico a industrie di vari settori, dall’aerospaziale, alle telecomunicazioni. Nata nel 1957, la Raychem vende oggi 50.000 prodotti, con un’entrata di oltre un miliardo di dollari, Capitolo V 195 di cui il 60% proviene dall’estero. L’azienda possiede più di 900 brevetti statunitensi e 3.000 brevetti esteri, cui si aggiungono quelli depositati in attesa di concessione: 300 negli Stati Uniti e più di 9.000 all’estero. L’intervistato è convinto che non ci sia nessuno, all’interno di Tutti sono creativi un’organizzazione, che non possa trovare soluzioni creative per svolgere più efficacemente il proprio lavoro: scienziati, segretarie e addetti allo scarico merci. Una certa pressione costruttiva è necessaria. Essa si manifesta attraverso le comunicazioni, con l’autentica curiosità per il lavoro degli altri. Così facendo si stimolano i collaboratori a tenere vivo il processo creativo. L’innovazione ha una parte entusiasmante, quella più facile, in cui si trova l’idea giusta, ma anche una parte noiosa, che consiste nel tradurre l’idea in pratica. In questa seconda fase c’è più bisogno di incoraggiamento, perché è quella che fa la differenza fra successo e insuccesso. Il Giappone, per esempio, pur non brillando per originalità, ha una spiccata capacità di cogliere e studiare, documentandosi, le idee altrui; poi le traduce in concreto in modo efficacissimo. Per Cook è possibile addestrare tecnicamente le persone all’innovazione, ma essa è un’esperienza emotiva: non si può insegnare la curiosità. Il desiderio di innovare è, in parte, un fatto genetico, ma dipende anche dall’esperienza infantile, dall’istruzione e dal tipo di incoraggiamento ricevuto. Le tipologie sono molto soggettive: c’è chi è felice solo quando è alle prese con un nuovo problema e chi, invece, è depresso fino alla sua soluzione. La selezione molto accurata dei dipendenti è importantissima, quanto il loro addestramento. I top manager della Raychem impiegano circa il 20% del loro tempo a ricercare, intervistare e addestrare i nuovi assunti. Cook afferma che per motivare le persone a lungo occorre il riconoscimento individuale. Esso risponde al bisogno di identificazione che la maggior parte delle persone ha nei confronti del proprio lavoro. La cultura aziendale deve incoraggiare il lavoro di squadra, la passione, l’entusiasmo; deve stimolare tutti a fare le cose in modo diverso e meglio di prima, e deve riconoscere e premiare le persone che eccellono. Non è il fattore monetario quello che più conta: le gratifiche maggiori dipendono dai risultati globali dell’azienda. L’importante è che le persone accettino il modo nel quale avviene la Le due facce della Capitolo V 196 valutazione personale. La Raychem non si limita a premiare il successo, ma anche gli sforzi compiuti con intelligenza. Al riguardo, Cook parla del premio per “la miglior non-invenzione”: è un riconoscimento alla capacità personale di prendere spunto da altre unità aziendali per le applicazioni nel proprio lavoro. Sul trofeo c’è scritto: “Ho rubato un’idea ad un altro e la sto applicando con successo”. Certamente anche il produttore di quell’idea viene premiato: “Ho avuto un’idea brillante e c’è chi la sta sfruttando con successo”. Questo metodo, afferma Cook, agevola anche lo scambio informativo e le comunicazioni fra diverse specializzazioni disciplinari e ciò è fondamentale per un’infrastruttura intellettuale innovativa. Il turnover è molto basso e non ci sono casi di dipendenti che si siano messi “in proprio”, facendo concorrenza. Il successo è un ostacolo I rapporti con i clienti devono basarsi sulla fiducia, sia per consentire l’anticipazione dei loro problemi, sia per promuovere quelle innovazioni che li possono risolvere. Cook sottolinea che il successo di una soluzione è l’ostacolo maggiore alla creatività, perché può far perdere di vista alternative possibili migliori. Un altro ostacolo sono le grandi dimensioni (più di qualche centinaio di persone). Per questo la Raychem è organizzata in serie di piccoli gruppi, ciascuno dei quali ha una sua autonomia tecnica, di produzione, di marketing e di progettazione. Le decisioni vengono prese dai tecnologi, più che dai manager professionisti. Le persone ruotano I gruppi in squadre di lavoro e gruppi di progetto. L’innovazione richiede investitori pazienti, sostiene Cook, che rileva quanto sia bassa la spesa per la ricerca negli Stati Uniti (molto inferiore al 2% del fatturato). La Raychem spende mediamente dal 6 al 7% del fatturato, con punte che arrivano all’11%. In sintesi Riassumendo: la necessità è madre dell’invenzione, la quale è per l’1% ispirazione e per il 99% duro lavoro. Altri fattori importanti sono: la proprietà intellettuale (che deve essere tutelata adeguatamente dal diritto), la sempre maggior interdipendenza e complessità tecnologica, e la globalità dell’innovazione. Il laboratorio più innovativo della Raychem si trova in Belgio. E’ piuttosto piccolo, ma è un crogiuolo di culture europee, mescolate a quella americana. La capacità di mettere insieme e combinare tutte le competenze è molto importante. L’essenza dell’innovazione è scoprire un campo in cui la propria organizzazione possiede una Capitolo V 197 competenza specifica, sfruttandola per produrre o fornire servizi migliori di quelli della concorrenza. Uno dei sistemi della Raychem è rendere obsoleto un prodotto in pieno rigoglio, prima che lo facciano altri: si cercano soluzioni innovative capaci di generare prodotti brevettabili. Woody Morcott, il secondo intervistato (Pelt 1996), è proprietario della Dana Corporation, leader mondiale di componenti per autocarri. Nel 1995 ha fatturato 7,6 miliardi di dollari, un miliardo in più del ’94. La Dana ha una dozzina di filiali all’estero da cui proviene il 25% del suo fatturato. Ha incorporato 17 aziende attive nei suoi segmenti di produzione. Morcott è convinto che un’attività economica sia Formazion e per tutti per il 10% denaro e per il 90% uomini. Per questo motivo ha creato la “Dana University, un college con 40 istruttori a tempo pieno. Ogni stabilimento ha la sua aula. Ciascuno dei 45.000 dipendenti frequenta, mediamente, 32 ore all’anno di corsi di addestramento, ma i programmi prevedono di portarle a 40. In cambio la Dana si attende un contributo di due idee al mese, per il migliorare i processi di produzione. La direzione rende esecutive circa l’80% di queste idee. Niente è escluso: spazi di lavoro, riduzione dei rifiuti, economizzazione delle risorse. Sono tutte riduzioni di costi che dipendono dalle capacità dei dipendenti. Morcott crede in questa straordinaria potenzialità “in un epoca”, dice, “in cui ciò che conta è la creatività, non i muscoli”. Un'altra parte del materiale formativo analizzato riguarda la dinamica delle comunicazioni. Allen (1986, p.113-118) fa notare una serie di riscontri empirici che evidenziano le correlazioni tra comunicazioni tecniche interne ad un’azienda e l’aumento della produttività dei suoi reparti di “Ricerca e Sviluppo”. Queste correlazioni riguardano la qualità delle proposte di ricerca, lo scambio di idee, l’aggiornamento, le idee di successo, la rapidità dello sviluppo di prodotti e processi. Le comunicazioni tecniche sono di due tipi: di aggiornamento, rispetto agli ambiti di specializzazione, ed esecutive, di coordinamento. Nel nostro caso la dinamica comunicativa informale e la circolazione delle risorse al suo interno, sembrerebbero avere agito come se il comparto bolognese del packaging fosse un’unica grande azienda. La comunità ha provveduto ad alimentarsi Comunicazioni Capitolo V 198 di stimoli, diffondendo capillarmente informazioni e favorendo scambi e confronti. Sarebbe interessante verificare se la trama descritta si sia riprodotta all’interno delle aziende che hanno beneficiato di queste risorse offerte dal territorio. Sempre Allen ci Generale e particolare dice che l’organizzazione della “Ricerca e Sviluppo” deve conciliare due obiettivi spesso divergenti: la specializzazione e la multidisciplinarietà. Non si può, né si deve, rinunciare agli aggiornamenti riguardanti lo “stato dell’arte” delle varie conoscenze su cui ogni disciplina si appoggia. L’organizzazione “a matrice” prevede un’articolazione in aree di specializzazione disciplinari e tecniche; quella “per progetti” accentra in sé tutto ciò di cui ha bisogno per realizzare l’obiettivo. Il territorio in questione potrebbe essere paragonato ad una matrice in cui le varie imprese si sono formate ed hanno attinto le risorse necessarie al proprio progetto. Proseguendo questo confronto metaforico e parallelo, è importante aggiungere che “il problema non è la misura dell’efficienza del processo di immagazzinamento e di distribuzione delle informazioni, quanto la loro conversione (traduzione) in una forma che assuma rilevanza ed utilità.” (Ibidem, p.126) Lo stesso autore riconosce che il principale strumento di trasmissione delle conoscenze tra il personale scientifico, (e “non” aggiungiamo noi), è, e resterà sempre, lo scambio verbale. La matrice comunitaria si presenta come “rete” che garantisce la proliferazione delle relazioni verbali e affettive/identificative, sulle quali sembra essere cresciuta la specializzazione e la flessibilità tecnica del comparto delle macchine automatiche. In una rivista specializzata del settore (Sammarco 1998) si parla di progettazione integrata realizzata mediante team. Questo sistema accorpa varie funzioni aziendali. Il gruppo deve essere formato prima del progetto del prodotto. Eventuali “esperienze” mancanti devono essere procurate dall’esterno. Malgrado la motivazione e la sintonia del gruppo, questo metodo diventa più oneroso di quanto non sarebbe l’impiego di operatori polivalenti. Ad esempio, se il progettista conoscesse tutti i limiti dei processi produttivi non ci sarebbe bisogno del tecnico di officina per verificare la fattibilità del progetto. La polivalenza non è conoscenza “di tutto un po’”, ma l’acquisizione di anni di esperienze in vari campi: sarà deficitaria sui dettagli, ma non sulle regole e sulle conoscenze basilari. Il mercato del lavoro Capitolo V 199 non consente iter formativi di questo genere. La ricerca del personale insegue esperienze specifiche ed è fortunata se il nuovo assunto è operativo rapidamente. Ne deriva una competenza, forse, più ricca per l’apporto di esperienze di altre realtà aziendali, ma sempre monodisciplinare. La multidisciplinarietà e le sovrapposizioni continue dei ruoli richiedono che il “gruppo di lavoro” abbia una cultura condivisa e non imposta, non sempre raggiungibile con un semplice corso di formazione. Uno dei vantaggi della polivalenza è l’assenza dei problemi legati all’integrazione degli individui in un gruppo di progettazione. La diversa visione dei problemi, dovuta alla disomogeneità della cultura e delle competenze, genera una naturale competizione per far valere le proprie idee. La concorrenza va valorizzata, perché è fonte di nuove idee. Queste non stravolgono i concetti consolidati, ma innescano motivi sufficienti a rompere i tradizionali metodi di risoluzione dei problemi. Il successo del team stimolerà i componenti a fare meglio e bene, la prima volta. La sovrapposizione dei ruoli produce sinergie, ma genera confusione e minaccia la gerarchia. Spetta al team leader evitare che ciò accada senza ricorrere a preferenze sistematiche o a ottiche di soluzione dei problemi stabilite. La tecnologia evolve troppo rapidamente. L’unico rimedio possibile al bisogno di multidisciplinarietà è la progettazione integrata adeguata ad ogni azienda. Un altro articolo parla delle questioni che impongono all’Europa una radicale revisione dello status acquisito (Buffa 1997, p.41). Il nodo centrale è la competitività. L’adozione di esperienze più avanzate necessita di un adattamento alla nostra cultura imprenditoriale. Dagli Stati Uniti vengono i concetti di privatizzazione e di flessibilità del lavoro, ma il neo-liberismo crea disoccupazione e precarietà. Poco proviene dall’oriente, a causa della nostra diffidenza e paura. Nulla si sa della cultura di impresa e di solidarietà fra ceti e generazioni giapponesi. Decenni di conflittualità nelle nostre fabbriche hanno irrigidito relazioni e strutture, gonfiando le burocrazie. E’ caduto il muro di Berlino, ma non la diversità tra operaio e padrone, tra produttore e fornitore, tra pubblico e privato. In Giappone la competitività è basata su punti fermi quali: la valorizzazione delle risorse umane, la formazione, gli obiettivi comuni e gli incontri periodici con i fornitori. Noi, individualisti, con le nostre strutture La competitività Capitolo V 200 piramidali, abbiamo bisogno di umiltà per apprendere e coraggio per intraprendere. Le aziende devono aprirsi alla consapevolezza “attiva” dei dipendenti e alla Abbattere i muri collaborazione tra imprese. Gli operai sono una cosa diversa dalla “massa” e il profitto non è avulso dai dipendenti. Questo muro è caduto nel nostro “nord-est”, mediante l’adattabilità, la responsabilità, la flessibilità, che hanno stimolato creatività e fantasia. La nuova cultura deve riguardare anche il settore pubblico, affinché non sia solo controparte, ma infrastruttura logistica a sostegno di scambi e movimenti nel mercato globale. La flessibilità deve applicarsi alla burocrazia e alle leggi, anche attraverso una fiscalità giusta e non scoraggiante. “Alla logica delle controparti e delle contrapposizioni occorre sostituire la logica del dialogo e delle sinergie, per abbattere i muri di casa nostra dopo che sono stati abbattuti i muri fra i sistemi e i Paesi del mondo”.(Ibidem, p.41) 5.4.4 - Alcune riflessioni Penso si possa notare come la cultura, le relazioni, la tolleranza dei punti di vista divergenti, la tendenza alla risoluzione dei problemi, l’equilibrio tra istanze individuali e collettive, emersi dalla precedente analisi come elementi “creativogenici”, trovino un riscontro storico ricorrente, pur mescolandosi ad altri fattori di varia natura. La particolare identità sociale funge da catalizzatore ed è essa stessa, in primo luogo, elemento “creativogenico”. L’identità sociale, come valore condiviso, è cultura prodotta dalle esperienze storiche di relazioni fra “diversità” (identità individuale). Il valore del diritto alla differenza è interiorizzato: è risorsa di confronto e di scambio, destinata ad arricchire tutti i partecipanti. La creatività è una modalità espressiva tipica di questa cultura, soprattutto per ciò che attende alla risoluzione dei problemi. Il fenomeno cooperativo42, ad esempio, unisce l’associazionismo all’identità di “risolutore di problemi”, ma anche l’operaio-imprenditore si riconosce in una tale identità, così come l’amministrazione comunale. I risultati sono relazioni sociali e 42 Si veda il 3.8 a p.75. Capitolo V 201 politiche che mantengono nella forma una distanza riconoscibile a livello nazionale, ma nel contesto locale tendono ad un avvicinamento43. Ad evidenziare la centralità delle relazioni sociali comunitarie, peculiari per la creazione di modelli produttivi, bastino, con le dovute differenze storiche e culturali, gli esempi del BadenWurttemberg (modello Renano) in Germania e del Giappone. Quello che interessa, ai fini della creatività, è rilevare quali sono gli elementi comuni. Il modello Renano è simile a quello bolognese tranne che per l’assetto proprietario: il nostro è di tipo familiare, mentre quello tedesco è costituito da nuclei complessi di azionisti che possiedono le aziende. Questi nuclei sono formati da banche, assicurazioni, ecc.…, ma anche da fondi collegati ai dipendenti o ai sindacati (Melotti 1998, p.38-45). Si potrebbe dire che la comunità sta alla creatività sociale, come la famiglia alla creatività individuale. Si tratta di una proporzione semplicistica e a puro titolo esemplificativo, in quanto la creatività sociale passa per l’individuo il quale, a sua volta, ha bisogno della comunità per acquisire lo status di “creativo”. Solo una solida identità sociale può permettere il confronto con il diverso, apprendendo ed adattandosi senza perdere le proprie radici culturali identificative, perché nel cambiamento ci si riconosce. Qua risiede la differenza, sottilissima nella pratica e profondissima negli effetti, tra un percorso evolutivo e la cooptazione. Si può affermare che l’industrializzazione del XVI° secolo, che ha reso Bologna capitale della seta, non ha predisposto il territorio all’avvento del “fordismo”: le produzioni meccaniche moderne presenti sul territorio non hanno utilizzato nessuna catena di montaggio. Forte della propria identità culturale il territorio si è contaminato, ma non si è fatto colonizzare dai cambiamenti esterni che ricadevano su di esso. La “specializzazione flessibile” che contraddistingue, oggi, il comparto può essere letta come relazione che incontra le esigenze del cliente, che risolvere i suoi problemi produttivi, e dei produttori, che si vedono riconosciuta l’identità di risolutori di problemi. La tendenziale convergenza tra le aziende più grandi, che si flessibilizzano, e quelle più piccole, che si burocratizzano, va vista, credo, in questa 43 Mi viene in mente, a questo proposito, la rappresentazione delle due anime della cultura emiliana nella saga di Capitolo V 202 ottica. L’ambiente impone un continuo adattamento e il mercato richiede sempre un prezzo da pagare per partecipare al gioco. Un cambiamento che comporti lo snaturamento dei caratteri della comunità, nella contraddizione tra ordine e caos implicita nella società, provocherebbe disagi tali da non essere raccomandabile nemmeno agli eventuali vincitori. La schiavitù o i regimi produttivi totalitari sono risultati sempre i meno redditizi da un punto di vista puramente economico, anche se soddisfacevano esigenze di potere e di dominio sociale di classe. Don Camillo di Guareschi.