Capitolo V
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5 – ANALISI DI SFONDO: IL COMPARTO BOLOGNESE
DELLE MACCHINE AUTOMATICHE
5.1 - Cosa sono le macchine automatiche
A questo punto sembra doverosa una precisazione. Bisogna chiarire di cosa si
parla quando ci si riferisce alle “macchine automatiche” del comparto bolognese.
Diversamente si rischia di confondere e non cogliere le caratteristiche che ci hanno
indotto a sceglierlo come oggetto di studio.
Terminologi
a
Per lo Zingarelli una macchina è un “ordigno per applicare una forza motrice
a vincere una resistenza e compiere un lavoro utile”. Dall’etimologia impariamo che
il termine “macchina” implica il fare o compiere qualcosa, ma anche il crescere e
l’aumentare. Sempre lo Zingarelli definisce l’automazione come “alta tecnica che si
vale di apparecchi e procedimenti atti a rendere la produzione sempre meno
dipendente dal lavoro e dalla valutazione dell’uomo; in modo da risparmiare a
questi, fatica fisica ed intellettuale”. Etimologicamente “automa” è ciò che fa ed
avviene spontaneamente e anche “macchina che sembra muoversi da sé, quasi abbia
vita propria”. Gallino (1988) accredita la paternità del termine automazione al vice
presidente della Ford D.G.Herder che l’avrebbe impiegata come contrazione di
“produzione automatica”, nel 1944, con riferimento ai primi transfert, vale a dire a
quei sistemi di trasporto automatico dei pezzi in lavoro da una stazione operatrice ad
un’altra. Da allora la capacità del termine si è allargata a dismisura, man mano che il
progresso tecnologico produceva innovazioni. Quest’argomento presenta infinite
implicazioni, prime fra tutte le conseguenze sociali. Qui si tratterà solo del concetto
di automazione in sé, per chiarirne il significato con cui sarà utilizzato, senza volerne
valutare la positività o la negatività che rimanderebbe ad un ampio dibattito. Tra
sostenitori e oppositori va chiarito che si tratta, innanzi tutto, di una questione di
scelta morale. Vero è che l’argomento e la sua continua ed inimmaginabile
evoluzione pongono, anche, il problema dell’adeguamento delle categorie analitiche
impiegate per lo studio di tale fenomeno (Mazzette e Fadda 1979).
Capitolo V
95
Nel vasto campo dell’industria meccanica, il comparto bolognese di macchine
Definizioni
automatiche si riferisce alle imprese che producono macchine destinate alla dosatura,
al confezionamento e all’imballaggio di altri prodotti. Per semplicità, questo settore è
denominato anche packaging (Capecchi e Alaimo, p.192). La semplificazione si
rende necessaria per evitare una disquisizione più prettamente tecnica che, qui
sarebbe fuori luogo.
L’ERVET definisce il comparto delle macchine automatiche per l’imballaggio
e il confezionamento come l’insieme di quelle imprese che producono macchine
automatiche in grado di determinare la forma finale di un prodotto, di dosarlo, di
suddividerlo nelle confezioni singole ed, infine, di imballarlo in formati di grande
dimensione, adatti ad essere immagazzinati e/o trasportati. Sono inclusi i produttori
di macchine per l’imbottigliamento. Si tiene conto, inoltre, della produzione di
alcune macchine accessorie, come i nastri trasportatori.
Anche l’ISTAT parla di macchine automatiche utilizzate per la dosatura, il
confezionamento e l’imballaggio. Vengono identificate, così, tre fasi: la dosatura o il
condizionamento che ha il compito di inserire il prodotto appena trasformato in un
contenitore, il confezionamento che avviene in fasi successive (tea, filtro, bustina,
scatola, cellophane) e l’imballaggio che comprende l’incartonatura per il trasporto e
l’immagazzinamento in grandi quantità. A ciascuna corrispondono tecniche diverse:
ad esempio la chiusura con filo metallico o l’avvolgimento con film flessibile,
l’ordinamento orizzontale o verticale, l’inscatolamento mediante cartone, cartoncino
o banda stagnata. A queste differenze dei prodotti, delle fasi produttive e tecniche, si
aggiungono le richieste specifiche delle singole aziende utilizzatrici: caramelle a
fiocco doppio, singolo, o a cestello, confezionate singolarmente, in stick, oppure in
pacchetti duri o flosci.
Per dare un’idea di cosa significa, in termini concreti, il packaging, bisogna
dire che il suo impiego ha rivoluzionato le tecniche di vendita, in quanto il
confezionamento sostituisce la vendita sfusa di prodotti, garantendo la trasportabilità,
la quantità e l’asetticità degli stessi; in poche parole ha consentito il self-service. C’è,
quindi, un’interazione molto forte tra le esigenze industriali, le richieste del
In concreto
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96
consumatore finale e il packaging. Quest’ultimo consente, infatti, la diffusione di
nuove produzioni pensate, realizzate e vendute solo perché esiste questa tecnologia.
Si può dire, quindi, che si va ben oltre alla semplice necessità di produzioni di massa.
Il
La domanda, in questo mercato, è estremamente differenziata. L’offerta delle
aziende produttrici di macchine per il packaging si muove in un regime di
concorrenza che non è soltanto sui prezzi, ma anche, e soprattutto, sulla capacità di
soddisfare le esigenze, variabili, dei clienti. Le prestazioni che assumono maggior
rilevanza sono: la velocità, l’efficacia dei controlli di qualità e di igiene sul prodotto,
il suo trattamento e la compattezza (minor ingombro a parità di operazioni, o più
operazioni svolte dalla stessa macchina).
La differenziazione non implica, necessariamente, rivoluzioni tecnologiche
delle macchine. Nella maggior parte dei casi, la diversificazione della domanda porta
solo ad un allargamento dell’applicazione di principi già consolidati. Pur non
mancando le innovazioni di rilievo, che fanno parlare di macchine tradizionali a
“movimento alternato” e macchine a “movimento continuo”, la differenziazione è
avvenuta mediante una costante evoluzione delle macchine esistenti. Da questi
adattamenti risultano, più raramente, innovazioni molto significative. Le due culture,
del miglioramento e dell’innovazione, spesso, coesistono all’interno della stessa
azienda, in quanto la scelta dipende dal tipo di operazioni che la macchina deve
compiere e dalle esigenze del cliente.
Questa relativa compattezza della tecnologia del comparto ha consentito una
circolazione di uomini e informazioni tra più aziende, a dispetto di qualche
occasionale velleità di riservatezza, favorendo la proliferazione di imprese nello
stesso settore. Fino ad una certa epoca, la competenza in materia era determinata più
dall’esperienza sul campo che non dagli studi effettuati. In altre parole non c’era la
necessità inderogabile della presenza di ingegneri che svolgessero particolari calcoli
e progetti. Di quando in quando, in caso di bisogno, ci si rivolgeva a consulenti
esterni, all’Istituto Aldini Valeriani o all’università. La tecnologia progrediva a
partire dai risultati di un continuo processo di prova ed errore.
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97
La variabile discriminante è sempre stata la risoluzione dei problemi posti dai
Flessibili
committenti. Questo fatto ha portato allo sviluppo della flessibilità come una
condizione imposta, più che scelta.
"Il paradigma della flessibilità tende a caratterizzare non solo, o non tanto, un
sistema di produzione, ma in primo luogo descrive e definisce un obiettivo di un
sistema organizzativo e, ancora più in generale, il "sistema sociale”. (…) Quando si
parla di flessibilità, ancora oggi, si intende, spesso, soltanto un processo di
adattamento dell'uomo alla macchina, di subordinazione delle esigenze dell'uomo
alle esigenze della produzione. Ma la domanda di flessibilità proviene anche
dall'uomo, non si tratta soltanto della possibilità dell'adattamento della macchina
alle esigenze umane, sempre meno standardizzate, ma anche della possibilità di
fornire una prestazione di lavoro meno rigida nei ritmi e negli orari, meno limitata
nella durata delle fasi e più varia e stimolante nella qualità, di tollerare un minimo
di degrado di prestazioni l'insorgere di fattori di disturbo, compresi quelli relativi ai
comportamenti umani." (De Vita 1990, p.104)
La gestione di macchine “personalizzate” contraddice la standardizzazione
sempre perseguita dall’industrializzazione e dalla produzione in serie. Questo pone
non pochi problemi di organizzazione del lavoro e di gestione amministrativa, in un
regime di produzioni per commesse1.
La stessa macchina è suddivisa in parti. Una prima serie di gruppi, diciamo “di
moto”, trasferiscono il movimento motore alle zone di trattamento del prodotto. Ci
sono poi i gruppi “di macchina” che trattano il prodotto. Questi sono fissi come i
precedenti, cioè non cambiano al mutare del prodotto. Abbiamo, infine, i gruppi “a
formato”, i quali variano per prodotto e per cliente. Nella prima serie troviamo
particolari organi chiamati camme, o ruote a zeta, che traducono il movimento
rotatorio in diversi movimenti, mediante cinematismi e leva di vario tipo. Le camme
seguono le “leggi di moto” (spazio/tempo) in relazione al tipo di traiettoria che si
1
La lavorazione per commessa è una produzione in serie di un numero limitato di prodotti. Nel nostro caso solo
di un certo numero di macchine. Per esempio una commessa nel settore tabacco può variare da una quantità di sei
ad una di 12 macchine.
Descrizion
e
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vuole dare al movimento, in funzione del trattamento del prodotto. La velocità, le
accelerazioni e gli impatti degli organi di macchina sui prodotti sono da calcolare,
spesso, di volta in volta. Si pensi, ad esempio, alle differenze di trattamento che
esigono prodotti con una diversa consistenza quali cioccolatini, sigarette, caramelle,
saponette, carta, dadi da brodo, bottiglie, ecc. A questo si aggiungano differenze
quali caramelle ripiene o no, bottiglie in vetro o di plastica, saponette ovali o
rettangolari, ecc. Ci sono anche gruppi opzionali che rispondono a particolari
“specifiche” ed occasionali esigenze. Ad esempio l’inserimento di coupons
all’interno delle confezioni, l’impiego di determinati materiali per l’imballaggio
(come la stagnola aromatizzata al mentolo per le sigarette) o, addirittura, differenze
di qualità e formato degli stessi materiali impiegati, a seconda delle forniture diverse
nei diversi Paesi utilizzatori. E ancora: “bollini” antifalsificazione, controlli e prelievi
statistici, stampa di dati e numerazioni e originali forme di incarto.
Una
considerazione
La particolarità delle condizioni in cui si trovano ad agire le aziende che
operano in questo settore ne ha determinato le peculiari caratteristiche. Questo punto
è stato fondamentale nel suscitare il nostro interesse rispetto al tema trattato. Pur
essendo un settore industriale a tutti gli effetti, le esigenze di mercato ne fanno un
settore che deve mantenere caratteristiche artigianali. Al di là della ricerca o
dell’imposizione di modelli di industrializzazione considerati superiori, il comparto
delle macchine automatiche si è costruito, ed è cresciuto, fuori da schemi
precostituiti di derivazione esclusivamente accademica o scientifica. Pur senza
rifiutarli, ma anzi, probabilmente, inseguendoli, le imprese si sono sempre trovate,
salvo qualche eccezione, nella condizione di dover essere orientate alla risoluzione di
problemi specifici imposti dal cliente. Tale risultato nasce dalla combinazione tra
“orientamento al prodotto”, nel senso di perfezione tecnica artigianale, l’ineludibile
“orientamento al mercato” e alla “soddisfazione del cliente”.
Fa eccezione, a quanto detto finora, la ditta svedese Tetrapack, la quale, avendo
brevettato un tipo particolare di contenitore, vende le macchine per il suo
confezionamento assieme all’uso del marchio, agendo, così, in un parziale
monopolio.
Capitolo V
99
L’instabilità dei mercati e il continuo mutamento della domanda, in relazione
alle esigenze dei diversi paesi committenti, fanno sì che questo settore debba essere,
per necessità, estremamente dinamico. Tale dinamicità si riflette anche all’interno:
l’esperienza determina la competenza, ma la circolazione continua delle risorse
umane da un’azienda all’altra sembra suggerire che l’esperienza ha bisogno di
diversificarsi e che la competenza, per affinarsi, deve misurarsi con situazioni
sconosciute.
L’introduzione
dell’elettronica
e
dell’informatica
non
ha
provocato
cambiamenti rilevanti come in altri settori. I miglioramenti, per quanto notevoli, si
riferiscono a zone circoscritte di una macchina che resta, fondamentalmente,
meccanica. I progressi fatti nella “qualità”, nella sicurezza e nell’automazione delle
alimentazioni di supporto alla macchina, inoltre, non sono sempre vendibili a tutti i
clienti. Un paese del terzo mondo ha legislazioni meno restrittive di quelle di un
paese industrializzato, per cui le aziende di quel paese richiedono prestazioni e costi
inferiori. Gli acquirenti indiani, generalmente, non acquistano i caricamenti
automatici delle macchine, perché l’impiego della mano d’opera a basso costo risulta
economicamente, e socialmente, più conveniente. I paesi industrializzati, invece,
acquistano “linee” di produzione completamente automatiche in tutte le fasi, creando
una domanda di mercato a cui possono rispondere più fornitori. La competizione,
dunque, si riferisce, ancora oggi, a miglioramenti parziali, ma continui e
“personalizzati”. Il miglioramento viene così a coincidere con l’adattamento alle
esigenze della clientela.
Per dare un idea della velocità di produzione si dirà che una macchina
tradizionale per il confezionamento, per esempio di blister farmaceutici, produce
150-200 pezzi al minuto, mentre quella “in continuo” ne fa 400.Di recente, sembra si
sia arrivati addirittura a 600 pezzi al minuto. Una linea per il confezionamento delle
sigarette produce 12000-15000 sigarette al minuto, per 600 pacchetti e 120 stecche.
L’ultima generazione arriverà a 700 pacchetti al minuto. Le caramelle viaggiano a
1600 pezzi al minuto; il tea a 2000 bustine.
Evoluzione
Capitolo V
100
Tra le caratteristiche significative di questo comparto va ricordato lo sviluppo
di relazioni sindacali “anomale”, rispetto ad altri settori industriali, tali da essere il
primo modello di “concertazione”. In modo particolare, l’accordo interno della GD,
nel 1989, si occupava, anche, di organizzazione del lavoro a gruppi, di tempi
attraversamento, ecc. (Marchisio e FIOM CGIL 1990). Un altro esempio riguarda lo
scottante tema delle “35 ore” già sperimentate in alcune aziende bolognesi
precorritrici, grazie alla contrattazione interna.
La crescita delle aziende aumenta la “burocratizzazione” che può allontanare
Quale
modello
quei fattori che più hanno contribuito all’evoluzione del comparto. La tentazione di
rifarsi a modelli industriali, già affermatisi in altri contesti, è forte. Più coraggioso
sarebbe capire effettivamente il successo del proprio funzionamento, fino a formulare
un modello e poterne progettare gli sviluppi. La ricerca è, sicuramente, più
dispendiosa e coinvolge in prima persona. L’incertezza derivante dal mettersi in
gioco col continuo cambiamento, cosa che peraltro è accaduta finora, potrebbe far
preferire l’acquisto di esperienze altrui. Il rischio permane anche in questo caso, in
quanto ciò che è estraneo applicato a quello che non si conosce ancora troppo bene,
potrebbe costare caro: i meccanismi relazionali che, pare, siano stati il fattore
maggiormente rilevante per il successo del comparto potrebbero incepparsi. La storia
insegna che l’estrema chiusura porta, nel lungo periodo, all’annientamento, come è
successo al distretto serico bolognese2; ma il non salvaguardare la propria identità nel
confronto con gli altri crea dipendenza. L’orientamento all’apertura appare
inderogabile, ma deve essere bilanciato dalla profonda conoscenza delle proprie
radici. Solo così è possibile una trasformazione senza troppi rischi, potendo
rinunciare anche a qualcosa, nella consapevolezza del proprio, sacrosanto, diritto alla
differenza. C’è il bisogno di ampliare la logica economica ad un’economia più vasta,
che metta al primo posto della borsa valori il benessere dell'uomo. Accanto alle
aziende vendute a “multinazionali”, c’è anche chi, invece, sceglie di non cedere a
2
Ci si riferisce alla fine del distretto della seta nel XVI° secolo. Si veda al proposito il 3.6 a p.68-69.
Capitolo V
101
tale logica dominante, come Dario Rossi, proprietario della azienda a conduzione
familiare Ebano, che con 250 dipendenti esporta lucido da scarpe in mezzo mondo.
5.2 - Descrizione della popolazione da cui viene tratto il caso3
5.2.1 – Struttura e caratteristiche
L’industria italiana delle macchine per il confezionamento e l’imballaggio è
formata da circa 250 aziende4 con dimensioni industriali, cui si aggiungono un
centinaio di unità produttive con caratteristiche artigianali. Le aziende sono
localizzate per oltre l’80% in Emilia Romagna (dove c’è la maggiore concentrazione
di settore al mondo) e in Lombardia. Bologna è la capitale di quella che, oramai, è
5
soprannominata Packaging Valley . Giappone e Stati Uniti sono i maggiori
produttori del settore, ma Germania e Italia coprono oltre il 60% del commercio
internazionale delle “macchine vendute in un Paese diverso da quello di produzione”.
Per questo motivo i due Paesi extraeuropei ed altri centri di ricerca stranieri stanno
studiando, da tempo, l’eccellenza della gestione aziendale italiana in questo campo.
Una peculiarità bolognese è la convivenza di grandi gruppi integrati e di piccole e
medie imprese super specializzate. In ognuno dei principali segmenti produttivi
(dosatura, confezionamento e imballaggio) il 75% delle aziende detiene fino al 50%
delle quote di produzione, lasciando il resto a una miriade di aziende minori. La
maggiore originalità della produzione italiana consiste nella realizzazione di
macchine “su misura” alle esigenze del cliente. Si tratta di un vero e proprio prét a
porter della meccanica strumentale. Per questo motivo solo il 40% degli addetti è
impiegato direttamente nella produzione, mentre il restante 60% si divide nella
progettazione, sperimentazione, controllo qualità e analisi clienti. Il risultato è che le
esportazioni raggiungono ben 150 Paesi diversi nel mondo, in tutti i continenti.
3
Tutto il paragrafo è stato scritto facendo riferimento ai rapporti UCIMA (Unione costruttori italiani macchine
automatiche per il confezionamento e l’imballaggio) delle assemblee ordinarie dei soci tenutesi il 23 giugno 1994
e il 18 giugno 1997, nonché del rapporto Ervet del gennaio 1993
4
Nella precedente assemblea il rapporto riportava la presenza di circa 200 aziende.
Packaging
Valley
Capitolo V
102
5.2.2 – L’andamento del settore nazionale
Dopo la straordinaria crescita del 1993-95, l’industria italiana del packaging ha
chiuso il 1996 con un aumento sia del fatturato (10,5%), sia delle esportazioni (oltre
il 13%), registrando un attivo record nella bilancia commerciale, superiore ai 3.200
miliardi di lire. Il numero di addetti è in crescita: dalle 14.000 persone del ’94, alle
15.000 del ’95, fino alle 16.000 del 1996. Se si tiene conto di tutto l’indotto
produttivo e della subfornitura si può calcolare un’occupazione complessiva di oltre
Gli
investimenti
40.000 addetti, 10.000 in più rispetto al 1990. L’impennata gli investimenti nel 1995
(+28,6% rispetto al 1994) è imputabile agli effetti delle agevolazioni contenute nella
“Legge Tremonti”. Decaduta tale legge, il 1996 ha segnato un calo dello 7,8%
rispetto agli investimenti dell’anno precedente, restando, però, al livello degli anni
“buoni”:
70.000
milioni
di
lire
nel
1994,
83.000
nel
’96.
L’indice
investimenti/fatturato del 2% resta elevato confronto alla media dell’industria
italiana, la quale ha risentito allo stesso modo della flessione del “dopo Tremonti”.
L’aumento delle esportazioni (13,2%) ha superato del 50% quelli del 1993,
realizzando l’85,6% del fatturato complessivo. Per la prima volta dal 1984 si è
verificato un calo delle importazioni (-2,9%), in linea con la flessione del mercato
interno (-3,1%). Il grado di penetrazione dei prodotti esteri resta sui valori dell’anno
precedente (37,5%). Nel 1996 la ragione di scambio, data dal rapporto fra lire/Kg
esportate ed importate, pur restando negativa, migliora leggermente: il divario tra i
due valori medi passa da 0,82 a 0,87. Con riguardo alle diverse tipologie produttive,
l’Ervet dice che si può affermare che quasi tutte le categorie merceologiche del
settore risultano fortemente specializzate, perché presentano un indicatore superiore
allo 0,5%.
5
L’espressione fa il verso alla Silicon Valley degli Stati Uniti dove c’è la massima concentrazione della
produzione di componenti per computer. Il termine packaging (imballaggio) è comprensivo delle fasi di dosatura
e confezionamento precedenti quella dell’imballaggio vero e proprio.
Capitolo V
103
5.2.3 – I censimenti dell’Emilia Romagna
Nell’indagine censuaria ell’Ervet nel 1991 sono presenti, in Emilia Romagna,
241 imprese del settore in questione. Il 30% risiede nella provincia di Bologna e
anche le tre aziende di maggiore dimensione. L’occupazione complessiva è di 13.204
Un
unità. La struttura produttiva si caratterizza per la piccola e la piccolissima
quadro
generale
dimensione: il 30% delle imprese ha meno di 10 addetti e l’82,2% non supera i 50.
Solo sei aziende (2,5%) superano i 500 dipendenti. Dal 1984 al 1991 il peso delle
aziende con meno di 10 dipendenti è cresciuto dell’8,8%; le imprese con 21-50
occupati hanno “tenuto”, mentre in tutte le altre classi si è registrato una
diminuzione. Se ne deduce una crescita delle imprese “di supporto” alle industrie già
affermate sul mercato. La dimensione media in termini di addetti (54,7%), pur
essendo aumentata leggermente nel triennio 1989-91, è ancora inferiore a quella
registrata nel 1984 (70,8 lavoratori). Per 1991 si è stimato un fatturato complessivo
del comparto regionale di quasi tremila miliardi, con una crescita del volume di affari
del 117% rispetto all’84. Il fatturato medio per azienda è di quasi otto miliardi. Nella
fascia di imprese con 51-500 addetti la crescita è stata molto forte (54%-60%); quasi
nulla in quelle con 11-20 lavoratori. Il 40% del fatturato totale lo si deve alle imprese
con più di 500 addetti; quelle con meno di 50 dipendenti non superano il 25%. Nel
1984 questo divario era maggiore: 43% contro 21%. Il fatturato per addetto è di circa
222 milioni. Il valore più basso si ha nelle imprese con 11-20 addetti (194,9 milioni);
quello più alto in quelle con 21-50 lavoratori (228,9 milioni). La seconda metà degli
anni ottanta ha visto un incremento del fatturato per addetto a valori costanti in tutte
le fasce tranne quella con 11-20 dipendenti. La crescita più pronunciata è stata quella
delle imprese con 151-500 lavoratori.
5.2.3.1 – La localizzazione
Il 9% delle aziende attualmente attive nel comparto sono sorte prima del 1950;
un quarto tra il ’50 e il ‘60, il 34% negli anni settanta e il rimanente 31% nel
decennio ‘80-‘90. La dimensione media delle imprese in termini di addetti per
generazione decresce man mano che la data di costituzione si avvicina ai giorni
Capitolo V
104
nostri. Questo fatto riflette i vantaggi concorrenziali delle imprese più antiche e
l’assenza di entrate recenti da parte di imprese di grosse dimensioni. La distribuzione
geografica vede il 41,8% delle imprese nella provincia di Bologna, dove sono
concentrate le imprese di maggiori dimensioni. Quattro aziende hanno più di 500
dipendenti e, in generale, qui la dimensione media è più elevata che nel resto della
regione. Dal 1989 al 1991 la dimensione media è aumentata in tutta la regione, ma,
rispetto al 1984, l’aumento ha riguardato solo Ferrara e Modena, mentre nelle altre
province si è registrato un calo. Questi dati si riflettono nella struttura dimensionale
in termini di fatturato. In ciascuna provincia vi è stato, rispetto al 1984, un aumento
del volume di affari, sia a valori correnti sia a valori costanti. Nella seconda metà
degli anni ottanta, il fatturato per addetto, che può essere considerato, con qualche
cautela, indicatore di efficienza e produttività, è aumentato in tutte le province, sia
quello a valori costanti sia quello a valori correnti. Il calcolo degli indici di
concentrazione della struttura industriale del comparto regionale mostra come un
insieme di imprese di dimensione medio-grande sia contrapposta ad un numero
elevato di imprese di piccole dimensioni. La quota percentuale dell’azienda leader
sul totale dell’occupazione era, nel 1991, pari al 14,5% (15% in termini di fatturato).
Le prime quattro imprese contavano per il 40% (42,9% sul fatturato totale) e le prime
otto per il 50% (55,3% come fatturato). Rispetto al 1984 gli indici di concentrazione
sono lievemente calati.
5.2.3.2 – Gli assetti proprietari e lo “stile di gestione”
Nell’area bolognese ci sono cinque grandi gruppi d’aziende produttrici di
I gruppi
industriali
macchine automatiche: SASIB (appartenente a sua volta al gruppo CIR di De
Benedetti), IMA, Martelli, Marchesini e GD, il maggiore per concentrazione di
addetti. All’interno di questi gruppi troviamo aziende specializzate nella vendita e
nell'assistenza ai clienti, aziende di servizio alle consorelle, aziende complementari
che producono altri pezzi della stessa linea, aziende con produzioni differenti, fino ad
agenzie finanziarie ed immobiliari.
Capitolo V
105
Alla fine del 1992 circa un quarto delle aziende del comparto emilianoromagnolo faceva parte di un gruppo. Ne sono stati individuati 37, fra i quali cinque
con capogruppo straniero. Il resto delle imprese ha dichiarato di essere
giuridicamente autonomo. In realtà le imprese collegate ad altre, tramite l’assetto
proprietario, sono più numerose: spesso la stessa famiglia ne possiede più di una,
magari dello stesso comparto, ma sono tenute giuridicamente separate. La
conduzione delle imprese è, per lo più, di tipo familiare fino ai 150 dipendenti. La
struttura organizzativa è, normalmente, di tipo elementare o funzionale e la gestione
è orientata, soprattutto, agli aspetti tecnici e produttivi. La commercializzazione
viene, spesso, delegata a società esterne. Gli aspetti amministrativi sono curati solo in
relazione agli obblighi fiscali e legali. Gli imprenditori del settore appaiono,
generalmente, piuttosto deboli in campo economico e gestionale, mentre possiedono
ottime capacità sul terreno tecnico produttivo.
Alcune aziende, per lo più di recente costituzione e per la maggior parte
localizzate a Parma e Modena, vengono gestite con criteri più evoluti. Sono aziende
molto specializzate, oppure più simili ad imprese di servizi (engineering) che a realtà
industriali e mostrano un forte decentramento delle funzioni produttive. Queste
aziende curano moltissimo l’immagine (dinamismo, avanguardia tecnologica,
massima disponibilità verso il cliente, assistenza post-vendita), concentrandosi più
sul mercato che sugli aspetti produttivi. Per queste imprese l’influenza dei titolari
nella gestione è meno accentuata e ciò è confermato dalla presenza, in posizioni
dirigenziali, di persone al di fuori dell’assetto proprietario.
La tipologia delle imprese con più di 150 addetti, di norma, è diversa dalla
precedente. La quasi totalità delle aziende è gestita in maniera manageriale, ma è
possibile imbattersi in curiose situazioni di organizzazione “patriarcale”. Queste sono
guidate da anziani imprenditori carismatici, sicuramente “geniali” nelle loro
competenze tecniche, che sono stati capaci di costruire, e mantenere nel tempo, una
nicchia di mercato di cui, ancora oggi, detengono il monopolio.
Le più
evolute
Capitolo V
106
La costituzione delle imprese rispecchia, nella maggior parte dei casi, una sorta
di meccanismo di filiazione. La trasmissione dell’azienda ai figli è prevalente: nel
45% dei casi si è verificata, o è auspicata dal titolare.
Durante gli anni ottanta le maggiori imprese del settore hanno acquisito diverse
aziende, italiane ed estere. Alcune piccole e medie imprese emiliane sono così
entrate a far parte di gruppi di grandi dimensioni, cambiando completamente le
proprie prospettive competitive. Le imprese acquisite presentavano, in genere, sia
difficoltà finanziarie, causate dalla forte crescita imprevista degli anni precedenti, sia
difficoltà gestionali, dovute alla scarsa competenza commerciale, amministrativa ed
organizzativa, degli imprenditori. Dopo l’acquisizione, i precedenti titolari
difficilmente sono rimasti in azienda con cariche dirigenziali, e le procedure
amministrative, quelle organizzative e la gestione commerciale, sono state importate
dall’impresa capogruppo. Nel caso delle funzioni tecniche e di progettazione si è, in
genere, mantenuto il personale già esistente. L’impressione generale è che l’azienda
capogruppo abbia mantenuto il controllo di gran parte delle funzioni aziendali,
lasciando alle “controllate” la gestione del livello operativo, che include attività più
qualificate come la progettazione e la ricerca di nuove soluzioni produttive.
5.2.3.3 – La subfornitura
Il ricorso alla subfornitura e all’esternalizzazione di molte delle funzioni
produttive resta una caratteristica del comparto regionale. Qualche azienda tende a
riportare al proprio interno alcune funzioni che, negli anni di maggior espansione,
erano state totalmente decentrate. Il decentramento è molto elevato nelle lavorazioni
meccaniche e nella produzione di componenti costruite su specifica. Lo sviluppo
della parte elettronica è affidato per il 37% a società esterne specializzate. Nella metà
degli anni ottanta tale percentuale era più elevata (48%). Questo calo può essere
spiegato dal fatto che buona parte delle aziende ha sviluppato, nel tempo, un discreto
know-how in campo elettronico, colmando una delle lacune del comparto rilevata nel
precedente rapporto Ervet. Il ricorso al decentramento nelle funzioni di
progettazione, assemblaggio, collaudo e commercializzazione, è invece più elevato
Capitolo V
107
rispetto al 1985, ma non supera mai, per il complesso del campione, il 20%. Il
numero medio di subfornitori utilizzati dalle imprese del campione è elevatissimo:
77. Si va da un minimo di tre ad un massimo di 300, in modo proporzionale alle
dimensioni delle imprese, ma il numero maggiore (130) è nella fascia con 51-150
dipendenti. I subfornitori sono in gran parte localizzati nella provincia (80%); solo il
5% risiede fuori regione. La valutazione di tale rete regionale non è unanime. Le
aziende minori la ritengono un vantaggio fondamentale per il loro successo, data
l’elevata qualità, qualifica, esperienza e cultura che esprime. Altre, proprio per la
presenza di numerosi committenti, ritengono la rete di subfornitura svantaggiosa
economicamente, e si rivolgono fuori regione dove, a parità di qualità del lavoro,
sono richieste remunerazioni minori. I committenti, normalmente, sono più di uno e
non mutano frequentemente, indicando la prevalenza di rapporti continuativi nel
tempo, basati sulla reciproca fiducia e collaborazione. Più della metà di loro ha
dichiarato di ricorrere alla subfornitura per sfruttare quelle competenze di cui non
sono in possesso.
5.2.3.4 – L’innovazione tecnologica
La dimensione media dei lotti di produzione è di otto macchine e cresce
all’aumentare della dimensione aziendale. Il prodotto è poco standardizzato. La
percentuale del costo primo di fabbricazione imputabile a parti standardizzate,
comuni a tutte le macchine, rispetto al costo totale di una macchina tipo, è del 37%.
Non sembra esserci relazione tra standardizzazione del prodotto e dimensione
aziendale. Si registra una notevole diffusione di macchinari per la produzione molto
avanzati. Le intenzioni dichiarate sono quelle di aumentarla ulteriormente. La media
delle spese in ricerca e sviluppo si aggira attorno al 6% del fatturato. Non sembrano
esistere laboratori specifici. L’innovazione avviene “sul campo”, tramite la
collaborazione fra progettisti, tecnici di produzione e uomini del marketing.
L’attività di ricerca è testimoniata dal numero di brevetti posseduti dalle imprese del
campione. Il 68% delle aziende ha affermato di essere in possesso di più brevetti, il
14% ne possiede uno solo, mentre il restante 18% non ne possiede affatto per precisa
La
valutazione
Capitolo V
108
scelta aziendale. Alcune imprese hanno sottolineato, infatti, che il possesso di
brevetti, nel comparto in esame, non tutela dall’imitazione e serve solamente a
divulgare informazioni presso i concorrenti. Solo il 14% delle imprese ha ceduto o
acquistato brevetti. Le cessioni sono state dirette verso imprese a bassa tecnologia,
sia italiane, sia straniere, che si rivolgono, per lo più, a mercati del Terzo Mondo.
L’ASTER (Associazione per lo sviluppo tecnologico dell’Emilia Romagna) ha
comunicato su “Il Resto del Carlino” del 28 febbraio 1998 che, se si prende come
indicatore il numero di brevetti europei depositati negli ultimi venti anni, la GD
S.p.A. di Bologna è l’azienda più innovativa della regione con 101 brevetti, di cui 90
fra il ’93 e l’inizio del ’97 Seconda è un’altra bolognese, la SASIB con 76. Dopo la
Barilla di Parma (56) troviamo un’altra bolognese, l’ACMA (gruppo GD), quarta con
53 brevetti. La Ferrari è solo quindicesima con 21 brevetti europei. Nel ’96 l’Emilia
Romagna ha superato il Piemonte, collocandosi, con 2.752 invenzioni, al secondo
posto dietro la Lombardia. Nella classifica ASTER compaiono 21 imprese di cui la
metà sono bolognesi. Tra quelle del comparto in esame troviamo la Marposs settima,
con 32 brevetti, e l’IMA ottava, con 28.
Come già era stato notato nel 1985, l’indirizzo innovativo prevalente nel
comparto è legato all’introduzione dell’elettronica. Accanto ad esso assumono
rilevanza anche altri due ambiti: la standardizzazione dei componenti e l’impiego di
materiali sostitutivi. L’enfasi sulla standardizzazione indica una nuova concezione
del prodotto, valorizzato meno per la sua unicità e più per la sua modularità; ciò
consente economie di costo e di tempo, mantenendo la “personalizzazione”. L’uso di
nuovi materiali ha due scopi: il miglioramento della qualità delle prestazioni della
macchina e l’idoneità alle nuove esigenze anti-inquinamento e di smaltimento rifiuti.
Materiali più leggeri e resistenti consentono maggiori velocità con il minimo di
usura, anche a temperature critiche. Il minore sfregamento diminuisce il rischio di
inglobare particelle metalliche estranee al prodotto da confezionare. La maggior
parte delle imprese ha affermato che l'innovazione del prodotto ha allargato i propri
mercati, consentendo l'introduzione di nuove macchine e il rinnovamento di quelle
tradizionali. Il 68% delle aziende ha applicato nuove tecnologie per la realizzazione
Capitolo V
109
dei nuovi prodotti, affiancandole a quelle vecchie. L’innovazione nasce dalla
collaborazione coi clienti, i quali stimolano i loro fornitori con nuove esigenze. Ci
sono casi di grosse multinazionali che hanno messo a disposizione, addirittura,
laboratori e uomini.
Dall’ottobre 1992 è attivato il progetto PUMA (Progetto Unificato Macchine
Automatiche) nell’ambito delle iniziative supportate dal Polo Scientifico e
Progetto
PUMA
Tecnologico dell’Emilia Romagna. Questo progetto è gestito da un consorzio creato
da quattro fra le maggiori imprese del comparto (IMA, GD, ICA e Cassoli) e
dall’università di Bologna. L’obiettivo è realizzare macchine programmabili e
flessibili, in grado di autoconfigurarsi automaticamente in base al prodotto da
trattare, utilizzando materiali diversi da quelli tradizionali. Questo progetto segna una
svolta importante per la ricerca e l’innovazione, perché prefigura nuovi “schemi di
macchina” fatti da sottosistemi integrati e modulari. Fondamentale sarà il ruolo che
assumerà la parte elettronica. Questa, finora, era servita ad integrare le parti
meccaniche con il monitoraggio mediante controlli, segnali, fornitura ed
elaborazione dei dati, arresti, sicurezze, ecc.; ora si propone di semplificare la catena
cinematica che distribuisce i movimenti alle varie parti della macchina. L’unico,
grosso, motore centrale verrebbe sostituito da tanti, più piccoli e ognuno su un asse
di moto, tutti comandati e regolati da un elaboratore che gestisce i diversi movimenti.
La flessibilità di una macchina così strutturata sembra andare incontro ai problemi di
instabilità qualitativa e quantitativa dei mercati in cui agiscono gli utilizzatori di tale
prodotto. Naturalmente sono ancora numerosi i problemi da risolvere affinché un
simile scenario sia realizzabile, non ultimo quello della convenienza economica
rispetto agli investimenti disponibili.
Nel febbraio 1998 è cominciata una serie di seminari di aggiornamento, aventi
per oggetto gli “Strumenti innovativi nella progettazione di macchine automatiche
per il packaging”. Questi sono organizzati in collaborazione con la facoltà di
Ingegneria, alcuni dipartimenti dell’Università di Bologna, l’UCIMA (Unione
costruttori italiani macchine automatiche) e l’ASTER (Associazione per lo sviluppo
tecnologico dell’Emilia Romagna). Lo scopo di tale iniziativa è offrire tecniche
I Masters
Capitolo V
110
opportune per lo sviluppo di soluzioni innovative alle problematiche di base delle
macchine automatiche per il packaging (velocità, flessibilità, affidabilità). La
trattazione si snoda in otto moduli tematici, per un totale di 110 ore circa, in parte a
carattere generale e in parte con un taglio più applicativo, analitico e tecnologico.
Hanno aderito 19 società, per un totale di 45 iscritti, per lo più progettisti, ma sono
presenti anche responsabili e alcuni dirigenti. I gruppi più numerosi appartengono
alla GD (10) e alla Tetra Brik (4), seguiti dall’IMA, dalla Fameccanica e dalla BFB
(3). L’importanza dell’iniziativa, nell’ambito delle attività del Polo Tecnologico
bolognese, é nella co-partecipazione di numerose aziende e dell’Università. Si tenga
conto che, alcuni anni fa, un corso di specializzazione biennale per 15 neodiplomati,
da inserire in aziende del comparto, promosso dal Comune di Bologna, dall’Istituto
Aldini Valeriani e dall’oggi Museo del Patrimonio Industriale, fu bocciato dal
Consiglio Provinciale. Il prossimo anno si darà seguito ai seminari di cui sopra ed,
inoltre, sono previsti dei “master” specifici riguardanti le macchine automatiche,
della durata di 500 ore, per soli ingegneri.
La rete
L’Agenzia per lo Sviluppo Tecnologico dell’Emilia Romagna (ASTER) si
propone di creare una “Rete del Trasferimento Tecnologico in Emilia Romagna”,
con il CNR, l’ENEA, l’Università ed i Centri di Ricerca. La “rete” dovrebbe
trasferire al mondo della produzione i risultati della ricerca scientifica e gli strumenti
di sostegno per rendere l’innovazione, davvero, alla portata delle piccole e medie
industrie. La stessa agenzia è già attiva con altre iniziative pubblicizzate sul
periodico “ASTERnews” guida ai servizi per l’innovazione delle imprese. Sulla
stessa pubblicazione, assieme all’ASTER compaiono altri enti: “sistema ERVET”,
“irene” (italian relay centre north east) e Verne (Virtual Emilia Romagna Network
for the European Resarch). ASTER ha un sito internet che offre l’accesso a
numerose banche dati. Tra queste figurano risorse dell’ENEA, del CNR e di vari enti
e associazioni regionali. C’è anche il profilo di 10.000 imprese dell’Emilia Romagna.
Technet
2
Il sito “TECHNET2” offre una guida agli oltre 80 servizi per l’innovazione delle
PMI (piccole e medie imprese).Lo sportello telematico è gestito da ASTER, CNA,
Confartigianato, Unionapi, Confcooperative, Lega delle cooperative e cofinanziato
Capitolo V
111
dalla Comunità Europea. I servizi coprono l’intera gamma di attività delle imprese
divise per settore: finanza, amministrazione, ricerca, progettazione acquisti,
produzione, manutenzione logistica, marketing nazionale ed internazionale, risorse
umane, assicurazione “qualità”, sicurezza, sistema informativo e direzione aziendale.
Più in concreto l’ASTER è impegnata: nel progetto HERMES per la realizzazione di
Progetto
HERMES
un modello di razionalizzazione del traffico e riduzione dell’inquinamento
ambientale, che ha già prodotto accordi istituzionali per l’attuazione di interventi nel
distretto della ceramica di Sassuolo-Scandiano; nel progetto SMART (Satelite
Progetto
SMART
Management for Remote Trucks) sistema satellitare integrato per la comunicazione e
la logistica rivolto alle aziende del settore trasporti; nel progetto comunitario SAGE
(Approcci Strategici all’Economia Globale) assieme a tre partners: WDA (Gran
Bretagna), IMI (Irlanda) e ATTAC (Austria); nel progetto ADAPT BIS ELITE per lo
sviluppo e la gestione del commercio elettronico allargato alle subforniture. Più
specifico è il progetto EuroJoinIT. Si tratta di un sistema informativo che riguarda le
implicazioni tecniche dei principali processi di saldatura: materiali, parametri
standard, articoli tecnici, filmati e risultati di ricerche. Esso offre inoltre la possibilità
di partecipare e gruppi di discussione e di ricevere assistenza on-line. Il progetto
MEPI (Managing Effective Product Innovation) si propone di sperimentare, su
alcune aziende pilota, interventi di formazione ed assistenza tecnica mirati alla
specifica realtà aziendale. L’ASTER ha, inoltre, realizzato la “Guida alla
metodologia per la selezione di software per l’assicurazione di qualità” che serve ad
orientare l’imprenditore nella selva di prodotti che il mercato propone.
5.2.3.5 – L’utilizzo dell’informatica e di altri servizi nella gestione delle
imprese
La metà delle imprese considerate non usa supporti informatici per la gestione
delle procedure di produzione e di statistica: non ci sono variazioni rispetto alla
precedente indagine Ervet. L’utilizzo di computer è aumentato, invece, nella gestione
dei “portafogli ordini clienti” e nella progettazione. Le consulenze per
l’organizzazione aziendale e per il marketing sono utilizzate dalle imprese più grandi
Progetto
MEPI
Capitolo V
112
e da quelle minori a gestione più avanzata. Non sembra esserci, tuttavia, particolare
fiducia in ciò che viene offerto dalla consulenza esterna ed, infatti, più di due terzi di
tale lavoro viene svolto internamente, da appositi uffici-studio o dai massimi
dirigenti. L’azienda si occupa, per lo più, anche della ricerca del personale; attività
ancora molto legata alle conoscenze personali di chi già opera in azienda. I corsi di
formazione svolti da società esterne riguardano, essenzialmente, le aree impiegatizie
e dirigenziali. Si tratta, molto spesso, di aggiornamenti sull’utilizzo dei programmi
informatici. Le imprese preferiscono curare direttamente le attività di progettazione e
di direzione, ma c’è anche chi si affida a studi esterni per l’intera progettazione. I
servizi più acquistati sono, comunque, di carattere legale e riguardano i brevetti.
Nessuna azienda si è rivolta a studi esterni per la formulazione scientifica o tecnica
degli stessi.
5.2.3.6 – I settori di sbocco
Il numero dei diversi settori di sbocco, citati dalle imprese intervistate, si aggira
Quali
sono
intorno alla trentina. I più frequenti sono l’alimentare (77%) ed il farmaceutico
(37%), seguiti dal chimico secondario (34%) e dal cosmetico (28%). Compaiono
anche l’industria cartaria e editoriale (18%), quella ceramica, di casalinghi e tessile.
Il 43% delle aziende intervistate ha affermato di rivolgersi a più di due settori di
sbocco. Questo potrebbe far supporre una tendenza all’allargamento delle proprie
gamme produttive. Ciò può essere vero per le aziende maggiori. Per quelle minori si
tratta di produzioni di prototipi o di piccoli lotti, indirizzati, di volta in volta, al
mercato che presenta la domanda più consistente e redditizia.
I settori più consistenti sono quello del tabacco, quello chimico (primaria e
Quelli più
redditizi
secondaria) e quello limentare. Nel mercato del tabacco operano solamente le due più
grandi imprese del comparto. Negli altri l’offerta è caratterizzata da molti concorrenti
che coesistono con i leaders, grazie alla specializzazione. Il mercato dell’editoria
pare abbia diminuito la propria importanza rispetto agli anni ’80, in quanto la politica
dei gadget ha imposto macchine “dedicate” ai singoli numeri commercializzati.
Capitolo V
113
Questa situazione non alimenta né la domanda primaria, né quella di sostituzione, di
macchinari.
5.2.3.7 – I rapporti con i clienti
Oltre i due terzi delle imprese hanno dichiarato di avere rapporti prolungati nel
tempo con la maggior parte dei clienti, italiani e stranieri. Molti casi presentano una
Pro e
contro
reciproca fedeltà e un’attiva collaborazione. I vincoli riguardano principalmente la
produzione, spesso molto personalizzata, e la progettazione, a cui partecipano anche
gli acquirenti. Per contro, l’azienda fornitrice riceve dal cliente il know-how e le
informazioni sulla concorrenza e sul mercato. Le dimensioni delle aziende-clienti
sono alquanto superiori a quelle delle maggiori imprese del comparto, quindi, si
tratta di comunicazioni particolarmente significative, tecnologiche e gestionali. Lo
stimolo che ne deriva dovrebbe garantire una continua tensione alla modernizzazione
ed
all’innovazione.
L’aspetto
negativo
riguarda
la
disparità
contrattuale,
particolarmente nei rapporti finanziari, in quanto, sebbene i rischi di insoluti siano
molto bassi, i frequenti ritardi nei pagamenti creano problemi di copertura
dell’investimento in capitale circolante.
I vantaggi per i clienti scaturiscono dalla continua collaborazione per la
risoluzione dei problemi di sincronizzazione della linea produttiva e dalla possibilità
di una sempre maggiore personalizzazione della tipologia di packaging scelta per la
vendita del prodotto finale.
5.2.3.8 – I principali indirizzi di investimento
Oltre il 70% delle imprese intervistate intende investire nell’innovazione di
prodotto, nella copertura di nuovi mercati e nella maggiore penetrazione di quelli già
occupati. Gli sforzi di ampliamento della gamma dei prodotti è diminuita.
L’acquisizione di altre imprese del comparto e la creazione di gruppi ha già saturato
questa esigenza. Le piccole imprese sopravvivono grazie alla super specializzazione.
La qualità dei prodotti, l’assistenza accurata post-vendita, la tecnologia incorporata
nelle macchine, l’adeguamento alle esigenze del cliente ed, infine, l’efficacia ed
Ciò che
conta
Capitolo V
114
efficienza della rete di vendita, sono considerati i principali fattori competitivi di
Ciò che
non conta
successo. Meno importanti risultano essere: la capacità di adeguarsi ai mercati (qui
intesi come linee di prodotto differenziate per zone geografiche o per segmenti di
clientela all’interno dello stesso settore di sbocco), la particolare competitività dei
prezzi e la vastità delle gamme di prodotti offerti. Strumenti competitivi quasi
insignificanti appaiono la pubblicità e la possibilità di produrre i macchinari
all’estero. Tali elementi sono omogenei per tutte le classi di addetti.
Accanto
ai
tradizionali
indirizzi
competitivi
adottati
(estrema
personalizzazione, specializzazione e prezzo più contenuto), si sono affermati nuovi
concetti come: la “qualità totale” (non solo relativa ai prodotti, ma anche ai servizi di
assistenza al cliente ed alla completezza della rete di vendita) e l’innovazione dei
prodotti attraverso tecnologie nuove ed avanzate.
5.3 - Dalla performance produttiva alla memoria: il museo del
patrimonio industriale
L’importanza
del
ruolo
svolto
dall’istruzione
nella
storia
dell’industrializzazione bolognese è già stata evidenziata nel terzo capitolo. In modo
La
Fondazion
e Aldini
Valeriani
particolare è emerso il contributo dato dalla “scuola-officina” Aldini Valeriani,
contributo che continua, tuttora, nell’Istituto Tecnico e Professionale. Tale istituto è
dotato, oggi, di un museo che raccoglie le testimonianze della storia industriale
bolognese e, in specifico, dell’industria delle macchine automatiche. Il Museo del
Patrimonio Industriale sorge all’interno dell’ex fornace Gallotti, completamente
ristrutturata dal Comune, lungo il canale Navile, nella prima periferia di Bologna, in
una zona detta il “battiferro”. Sviluppatosi su due piani, oltre alla visita al forno
Hoffmann6, utilizzato anche per mostre temporanee, il museo offre aree di
esposizione interattiva destinate a divulgare la storia dei canali e delle vie d’acqua
dal mulino dell’antica produzione serica all’evoluzione che arriva al motore a
6
Si tratta di un forno per la cottura dei mattoni che consentiva la continuità del processo, grazie alla sua forma
circolare e alle particolari tecniche di trattamento dei prodotti.
Capitolo V
115
vapore. Le proposte di diversi percorsi visitativi sono articolate per corsi scolastici. Il
museo si propone, inoltre, di organizzare cicli di incontri sulla cultura industriale ed
imprenditoriale con temi quali “Le conoscenze delle imprese nel rapporto con le
subforniture e con i clienti”, “L’iniziativa delle imprese sul piano della formazione”,
“La domanda di innovazione delle imprese nel rapporto con i centri di ricerca”,
“Trasmissione delle conoscenze e ricambio generazionale delle imprese”. Il museo
diventa, così, luogo per affrontare i problemi del presente. A questo punto vale,
forse, la pena ripensare a che cos’è un museo e cosa può significare oggi. Dal
dizionario etimologico apprendiamo che era, in origine, un luogo sacro alle Muse, un
loro Tempio. Tolomeo Filadelfo ad Alessandria lo convertì in Istituto “per
promuovere la cultura e mantenere uomini di lettere e di scienze, che vivevano quivi
a pubbliche spese: oggi Galleria o raccolta di cose insigni per eccellenza, o rarità, o
per antichità”.
In buona sostanza il museo si pone, essenzialmente, come luogo della
creatività, dove è possibile toccare con mano le soluzioni ai problemi che l’uomo ha
affrontato nel tempo. Il museo è una cassaforte, poiché custodisce la più grande
ricchezza umana, che è la conoscenza storica derivata dalle esperienze di diverse
culture. Esso è un mezzo, un grande comunicatore, che riguarda l’uomo; perciò ci
appartiene e deve essere accessibile a tutti, per renderci consapevoli dell’eredità che
possediamo. In un’esistenza che corre sempre più veloce tra fili, schermi ed antenne
la funzione che può svolgere un museo è molteplice. Esso è luogo di incontro
“pieno”, interattivo, tra passato, presente e futuro, perché la comunicazione dei
moderni media non può soddisfare la reciprocità dello scambio quanto una relazione
tra persone. Un museo delle macchine automatiche a Bologna può offrire un luogo di
incontro per elaborare la memoria storica di questo particolare comparto, per cercare
di capire le ragioni che lo hanno reso tale e, quindi, sviluppare strategie adeguate ai
grandi mutamenti in corso. Tale luogo si propone come possibilità d’incontro,
dunque, tra “differenze”, fondamentali per la fecondità delle cose che si riproducono.
Se pensiamo alle grosse invenzioni le colleghiamo immediatamente ai geni che
le hanno realizzate. Non viene in mente che le soluzioni di certi disagi si sono
Museo e
creatività
Capitolo V
116
costruite non nel corso di una sola vita, ma in quelle di intere popolazioni. Per
sopperire ai disagi della caccia, l’uomo imparò a raccogliere i frutti della terra, ma
impiegò molto tempo per diventare agricoltore. Queste scoperte sono il risultato di
conoscenze tramandatesi per generazioni, anche se colte solo dagli ultimi arrivati.
Importanti non sono solo i nomi, ma, soprattutto, le soluzioni. Il museo garantisce
che tutte le conoscenze a disposizione, in un certo momento storico, possano essere
divulgate, mostrando da quali situazioni vengono, di quali scelte sono il risultato e tra
quali alternative, al fine di essere riutilizzate per alleviare i disagi. Le prime soluzioni
non è detto che siano le più efficaci, anzi, spesso, occorrono molte elaborazioni per
perfezionarle, eliminando gradatamente i problemi che perdurano.
Molte scoperte sono dipese dal semplice guardare, come per la seminagione,
ma chissà quante osservazioni e quanto tempo ciò ha richiesto. Nel museo si possono
concentrare tutta una serie di attività, in funzione dell’innovazione, astraendo dal
passato idee per progetti futuri. Certamente si pone anche un problema di interessi
nel presente. Si pensi alle grandi compagnie di navigazione del passato che dovettero
vincere i navigli, già esistenti, quando venne inventato il motore a vapore. Questo
Un
campo
neutro
delle convenienze fu un problema che tutti i grandi creativi dovettero affrontare. Il
museo può essere un “campo neutro” in cui i diversi interessi trovano una
mediazione per favorire, anziché ostacolare, il cambiamento migliorativo
dell’esistente, neutralizzando la concorrenza al ribasso.
A Bologna, per esempio, si è verificato un processo di adattamento reciproco a
“causazione circolare” (Capecchi e Alaimo) tra fattori tecnici, economici, storici e
sociali, all’interno di una cultura che ha alimentato, e si è alimentata, con questa
alchimia, producendo un singolare sistema di relazioni. Il Museo del Patrimonio
Industriale è un luogo soprattutto per addetti ai lavori, ma non solo per loro. Il
vantaggio maggiore che un campo “neutro” può offrire è il “pensiero libero”. In altri
luoghi, la rapidità delle routine rischia di impedire una corretta problematizzazione,
facendo perdere di vista la realtà, la storia e le possibilità alternative a ciò che è stato
previsto. Un luogo “neutro” può accogliere i problemi e stimolare progetti
“comprensivi” con obiettivi comuni che compongano le convenienze di parte
Capitolo V
117
affinché ognuno possa, e debba, trovarci e metterci, interessi e contributi di qualsiasi
natura: tecnici, politici, sociali, economici, educativi, formativi e di apprendimento in
genere. Questo perché difficilmente, specie a Bologna, si può intervenire in un
campo, ignorando gli altri. Penso a progetti interaziendali di ricerca (di mercato,
tecnologiche, ecc.) e a programmi politico-sociali per diffondere la consapevolezza
che soltanto la comprensione della realtà, e l’utilizzo di tale conoscenza, possono
garantire la possibilità di migliorare la “qualità della vita” finora raggiunta. Questa
qualità è il risultato della combinazione di caratteristiche tipiche della nostra cultura,
che deve poter continuare ad esprimersi spontaneamente, contaminandosi, ma senza
snaturarsi, perché solo il riconoscimento della differenza può garantire l’identità e
pari opportunità.
Un impegno del genere riguarda tutti, perché coinvolge tutti, anche nella loro
assenza: scuole, università, aziende, istituzioni, associazioni e cittadini. La
formazione, la specializzazione, la riqualificazione, potrebbero trovare nel museo un
alleato che non le esponga troppo alle parzialità degli interessi di chi le gestisce e che
permetta di cogliere pienamente il senso di quell’avventura umana che è la
tecnologia.
Difficilmente si trovano soluzioni uniche e universali, ma solo le più
convenienti nel contingente. La convenienza dipende dal contesto e dagli interessi
che ci sono in esso. Per poter risolvere adeguatamente un problema occorre,
Problem
atizzare
innanzitutto, saperlo cogliere correttamente per metterlo in relazione con le risorse
disponibili. L’esatta problematizzazione del disagio è fondamentale per poter
adeguare la soluzione alle diverse situazioni senza omogeneizzarle. Imparare a
problematizzare è “il problema”, in un mondo dove chi dubita è ritenuto scomodo. Il
miglioramento
può
nascere
da
un
disagio,
ma
deve
passare
per
la
problematizzazione. Il museo esprime la storia delle problematizzazioni che hanno
portato alle invenzioni. In questo senso esso è uno stimolo per l’immaginazione che
viene istigata ad indagare sul dove, sul quando, sul come e sui perché, che hanno
prodotto determinati congegni. Questo tragitto una volta percorso è ripercorribile
anche in altre direzioni e la realizzazione di un’idea può suggerirne tante altre.
Capitolo V
118
Da quando Platone ha diviso la scienza dalla tecnologia, il museo è divenuto un
Teoria e
pratica
luogo necessario per le scuole. Un principio scientifico può essere espresso
benissimo a parole, ma l’applicazione tecnologica ne richiede la realizzazione, la
quale si nutre di idee, ma impegna tutti i sensi, la manualità e le conoscenze a
disposizione. Il museo si presenta come il luogo di rappacificazione e
armonizzazione del conflitto tra teoria e pratica ed è la dimostrazione di come l’una
dipenda dall’altra. Il principio, tradotto in funzione, può essere considerato il
“dentro” di un oggetto, mentre la realizzazione tecnica gli dà una forma fuori. In un
museo tecnologico la forma estetica potrebbe essere considerato meno importante
della funzione: la bellezza soddisfa l’occhio e l’intelligenza, ma raramente aggiunge
qualcosa alla funzionalità. Con la Bauhaus e il surrealismo, l’arte e l’estetica sono
entrate anche nella tecnologia, a sostegno della forma. La miniaturizzazione
dell’oggetto (in uso quando non esistevano i cataloghi), oltre ad un sistema ludico ed
estetico, realizza forme e può correggere strutture già esistenti nell’originale,
ponendosi alla base della “prototipazione”. Molti sostengono che ci sia più cultura
nella forma di un oggetto, che in cento anni di storia. De Masi (1991, p.3-27) fa
notare come la civiltà di un popolo, in un determinato momento storico, possa essere
descritto o rappresentato dalla curva della spalliera di una sedia. La forma può
indicare appartenenze, identificazioni o contestazioni. Il museo può rendere conto
anche di questo. La funzionalità sembrerebbe passare in secondo ordine, ma lo
svecchiamento di un sistema passa anche per nuove funzionalità. Lungi dall’essere
un cimitero, il museo è, anzi, un incubatrice, dove nuove idee attendono di essere
percepite.
Il progresso ha raggiunto livelli altissimi e ritmi vorticosi. Non si rischia più di
Studiare
il
progress
perire andando a caccia del proprio cibo, ma c’è chi muore ancora di fame. Per
questo, oggi, bisogna studiare il progresso, riflettendo sul proprio passato per affinare
le capacità di progettazione del futuro, evitando errori già commessi. Voglio dire che
un museo dovrebbe far riflettere profondamente sul senso che la risoluzione di un
problema deve avere. Intendo un’etica del progresso che non rischi di compromettere
Capitolo V
119
ciò che è già stato raggiunto, per il quale si è già pagato un prezzo altissimo di cui un
museo tiene vivo il ricordo.
La principale e riconosciuta funzione di un museo è, certamente, quella di
esporre, cioè mettere fuori. L’etimologia fa provenire tale termine dall’abbandono di
Toccare
con
mano
un infante in luogo pubblico, affinché possa essere raccolto da altri. E così è nel
museo. Gli oggetti sono esposti affinché i visitatori possano raccogliere, per allevare
in sé, il “dentro” e il “fuori” di quell’oggetto. La possibilità si sperimentare i propri
sensi nel confronto con ciò che è esposto è fondamentale. “Toccare con mano” è
un’espressione metaforica che fa riferimento ad un atto concreto d’informazione e
comunicazione pari a nessun altro, se non integrando lo stesso con altre fonti
cognitive. Ovviamente, questo non è possibile nella maggior parte dei casi, ma le
nuove tecnologie informatiche virtuali potrebbero essere un notevole supporto
all’interattività di un museo, dove non lo siano già. Sempre in riferimento alla
virtualità penso a come possa tornare utile poter immaginare scenari ipotetici in cui
sperimentare l’impatto della soluzione adottata sull’ambiente. Sì, perché la soluzione
di un disagio deve potersi integrare nell’ambiente che, inevitabilmente, va a
modificare. Del resto è vero anche l’inverso, cioè che l’ambiente influisce sulla
stimolazione d’idee per il superamento di un disagio. Pasteur suggeriva di accordare
l’innovazione con la tradizione, sulla base delle difficoltà che aveva dovuto
affrontare in prima persona. In questo senso, il museo si presta come il luogo più
adatto alla stimolazione, offrendo la possibilità di problematizzare adeguatamente
una questione senza doverne rendere conto a nessuno, se non alla propria
deontologia. E’ un luogo che salvaguarda gli interessi generali, fuori dalle
convenienze di parte, ma in continuità con esse.
5.4 – Alcune ricerche precedenti
Della particolare tipologia di proliferazione di aziende nel comparto, per
“gemmazione” e a “grappolo” si è già detto, ma il fenomeno è analizzabile più in
dettaglio. Una rappresentazione grafica (Curti e Grandi 1997, p.160-163) di questa
Capitolo V
120
concatenazione merita un approfondimento. Sono rappresentate 47 aziende suddivise
per anno di fondazione, dagli anni ’20 ad oggi. Solo sei (12%) si innestano su una
produzione già esistente e sei sono i titolari di più di un’impresa. Ben 22 imprenditori
su 49 (44%) hanno frequentato le scuole Aldini Valeriani. In 19 casi (38%) il ruolo
di titolare corrisponde a quello di progettista. Complessivamente la sovrapposizione
di queste due funzioni è avvenuta in 37 casi su 49 (75%).
5.4.1 – La storia
5.4.1.1 - Dall’esposizione industriale del 1857 al sindaco Dozza
Nel discorso inaugurale dell’esposizione industriale tenutasi a Bologna l’1
luglio 1857 emergono alcune delle peculiarità della popolazione bolognese; si può
leggere, infatti:
Istinto e
bisogno
“Un popolo, per quanto sembri dalla natura predestinato alla industria
dei campi, non vuolsi per ciò tenere escluso dagli svariati esercizi dell’officina.
(…) Ma certo è ancora che la stessa agricoltura cresce in prosperità e
ricchezza allorché vengono in fiore le arti e si dilatano i commerci, perché la
produzione prende vita ed alimento dall’uso dei prodotti, e la richiesta dei
prodotti si moltiplica coll’attività dell’industria e dei traffici. (…) Noi non
siamo un popolo esclusivamente predestinato all’industria dei campi. (…)
Stava meglio (non si dubitava affermare) il povero artigiano l’anno 1590
quando pagava 15 o 20 scudi la corba il frumento, che non fa al presente;
perché le arti erano riconosciute, aiutate, protette, ma ora sono tutte oppresse,
abbandonate. (…) Ma l’istinto, il bisogno ed una volontà ferma e costante
trionfarono in parte di alcuni ostacoli, i quali a mano a mano scompariranno
colla operosa emulazione e colla stretta colleganza dei cittadini e coi savi
provvedimenti del governo.” (Associazione Industriali della Provincia di
Bologna, p.78-79)
Il discorso, tenuto da tal Massimiliano Martinelli della Camera di Commercio,
era rivolto al Pontefice Sovrano e al Principe Augusto, entrambi in visita alla città
(Ibidem p.97). Dello stesso avviso, più di mezzo secolo più tardi, era il Prefetto che
in uno dei suoi rapporti annuali diceva:
Il logorio
del
modernis
mo
“Bologna pareva città negata all’industria. Comodamente adagiata nel
chieto ambiente rurale, essa sembrava non accorgersi del modernismo
impellente, dell’eccezionale impulso meccanico della nuova civiltà per restar
ferma nella sua gloriosa posizione di centro agricolo importantissimo. (…) Più
Capitolo V
121
che la grande industria si sono andate con successo affermando la media e la
piccola industria, che ottimamente organizzate e attrezzate, si sono rivolte
favorevolmente a particolari caratteristiche di produzione portando l’industria
bolognese ad un alto grado di specializzazione, che ha creato a questa
industria mercati suoi e del tutto indipendenti.” (Gobbo e Varni, p.25)
Il rilievo è da inquadrare nell’ottica imperante nel ventennio che avrebbe
voluto Bologna capitale agricola e nodo dei trasporti. In relazione a questo fatto si
registra che, negli anni precedenti all’entrata in guerra, Aurelio Manaresi,
vicepresidente del Consiglio corporativo degli industriali, propone ad Alberto Pirelli
di aprire uno stabilimento nella zona di Bologna per “la sua felice posizione (…), per
avere delle maestranze intelligenti ed utili” (Gobbo 1987, p.28). La stessa tendenza a
mantenere il “proprio passo” nella modernizzazione la ritroviamo in un’affermazione
del sindaco Zangheri, negli anni ’70, in cui dice:
“La forza di Bologna è l’integrazione di un’agricoltura non decaduta
con un’industria molto dinamica e il terziario capace di svilupparsi.
Cerchiamo di mantenere questo equilibrio che è l’identità di Bologna a
garanzia per evitare squilibri gravi presenti altrove” (Gobbo 1987, p.90).
La connessione tra rapporti sociali, cultura e progettualità politica di sviluppo,
non solo economico, sembra essere una costante della storia7. Significativa, in questo
senso, è la carismatica figura del sindaco Dozza (Gobbo 1987, p.40-59) che, eletto
nel dopoguerra, riduce il deficit del 50% in pochi anni, pur salvaguardando i ceti
medio-bassi. Egli apparteneva ad un’ideologia apertamente contrastata a livello
nazionale, ma con pubblici investimenti dava lavoro e assistenza, attenuando lo
scontro sociale. Si attiva anche per il potenziamento degli istituti scolastici ad
indirizzo tecnico e professionale per fornire manodopera specializzata alle industrie
locali. Dal 1952 al 1973, data in cui viene soppressa l’autonomia tributaria, il
Comune di Bologna crea la propria politica fiscale. Le idee guida non erano una
novità assoluta, ma nascevano dal confronto fra imposizioni dirette sui redditi,
patrimoni e consumi (Gobbo 1987, p.235). La progressività del prelievo, la
7
Si veda al riguardo il 5.4.1.1 a p.121.
Il sindaco
Dozza
Capitolo V
122
differenziazione tra redditi, da lavoro e da capitale, l’allargamento della base
imponibile dell’imposta di consumo, garantivano maggiore giustizia tributaria. Il
carattere di imposta generale conferiva trasparenza ai rapporti fra amministrazione e
cittadini, limitava l’evasione fiscale e avvicinava i valori imponibili a quelli di
mercato, pur nella distinzione tra famiglie povere e più abbienti. Un altro segnale di
innovazione significativo fu, nel luglio 1959, l’avvio della procedura per la
definizione di un Piano Regolatore Intercomunale: la “città regione”.
Equilibrio
e ideologie
Le alleanze sociali, fin dal dopoguerra, travalicavano ideologie e classi. Gli
interessi delle parti sociali convergevano, identificandosi nella figura di Dozza. Il
sindaco “di tutta la città” fu attento difensore dei sottili equilibri di questa realtà
sociale. Al di là di astratte interpretazioni dogmatiche, lo sviluppo sembrava dover
passare per la rivitalizzazione di idee borghesi riformatrici e di iniziative
economiche. Questo era in linea con le vocazioni manifatturiere locali e intimamente
legate all’immagine che di sé aveva trasmesso, da sempre, la tradizione culturale
cittadina (Gobbo 1987, p.66-70). Si faceva strada, così, una sorta di via “bolognese”
alla crescita economica, lontana dalle grandi centrali finanziarie ed industriali. Il
fascino della personalità di Giuseppe Dossetti e del suo “Libro bianco su Bologna”
non rompono le connessioni empiriche sviluppate, nella pratica amministrativa, dal
sindaco “della liberazione” e non riescono a contrastarne il successo. Queste
connessioni integravano tutti i settori della società, accettati, così come si erano
venuti delineando, tra persistenze della tradizione e spinte innovative di un presente
in scomposto mutamento. L’allora direttore de “Il Resto del Carlino” Giovanni
Spadolini ammetteva con rammarico, ma con lucida intuizione della realtà cittadina,
l’impossibilità di mutare l’orientamento di queste relazioni (Gobbo 1987, p.70).
Lucidità che non ebbe il Prefetto nel dopoguerra. La riconversione in produzioni di
pace causò tanti licenziamenti, moltissimi dei quali “politici”. Il Prefetto aveva
Metter
si
messo “in guardia” la popolazione sulla debolezza delle piccole e medie imprese,
troppo sensibili alle turbative sociali di quel periodo e vulnerabili a causa di politiche
in
statali che le penalizzavano. Di fatto, si verificò il fenomeno opposto: a fronte di un
centinaio di cessazioni di attività, in un anno ne cominciarono circa il triplo. Il
Capitolo V
123
riscontro occupazionale fu ingentissimo: quasi 8.000 assunzioni, contro poco più di
1.000 licenziamenti. Una parziale spiegazione è la mancanza dei prodotti industriali
sul mercato, causata delle agitazioni sindacali e politiche. I licenziamenti liberavano
manodopera, anche specializzata, e la voglia di lavorare in tranquillità portava a
preferire l’attività in proprio, magari associata con altri artigiani. In agricoltura la
situazione era analoga; in più, il piccolo risparmio incentivava maggiormente il
fenomeno. Il lavoro, nella mentalità bolognese, non è mai stato solo sopravvivenza,
ma anche autorealizzazione, soddisfazione, esercizio di capacità e di creatività. Si
Etica del
lavoro
perfetto
pensi che la classe operaia durante la seconda guerra mondiale, pur recependo le
necessità del sabotaggio proposto dai nuclei della “resistenza”, era talmente
consapevole dell’insostituibilità del proprio lavoro a sostegno dell’apparato bellico
che solo un’acquisita consapevolezza di militanza politica riuscì a farle superare il
“problema di coscienza” generato dal compiere un lavoro tecnicamente “imperfetto”
(Gobbo 1987, p.34). Credo si possa notare come le peculiarità della cultura locale
siano un fatto ricorrente nella storia di questo territorio, ingrediente sempre presente
nell’evoluzione di questa comunità.
Nel già citato discorso inaugurale si mettono in luce anche altri elementi già
intravisti nel capitolo tre. Sull’importanza del confronto come stimolo, ad esempio, si
afferma:
“Colle moderne esposizioni s’intende al fine di giovare ai progressi
dell’industria porgendosi opportunità ad utili confronti fra i mezzi diversi di
produzione e le diverse qualità dei prodotti. (…) ad eccitare l’emulazione non
manca stimolo più efficace e sicuro che la libera introduzione di merci
straniere.” Sull’istruzione si sostiene che “…le buone discipline degli studi si
collegano coi progressi delle arti e colle condizioni del vivere civile. Sul quale
proposito mi sia lecito ricordare, che se vi è una educazione necessaria a tutti
gli uomini in generale per la conoscenza del vero e l’adempimento del bene, vi
è pure una educazione speciale che varia nelle forme e nei mezzi secondo le
diverse età e professioni. L’educazione scientifica, l’educazione letteraria e
l’educazione militare hanno un’importanza speciale che non si saprebbe poi
negare all’educazione industriale in ragione dei tempi, delle circostanze e
della numerosa popolazione. Si è quindi in molti luoghi provveduto o si va
provvedendo all’istituzione di scuole tecniche, come si è provveduto o si va
provvedendo all’insegnamento delle scienze economiche e commerciali.”
Il
confront
o
L’istruzion
e
Capitolo V
124
La citazione del testamento Aldini Valeriani è d’obbligo, ma si arriva a sollecitare
che:
“gli alunni più diligenti e meglio disposti avessero per premio di andare
a soggiornare per qualche tempo in quei paesi, nei quali si è toccato un grado
di eccellenza, che per la sola istruzione tecnica non accompagnata dalla
pratica sarebbe pressoché impossibile di conseguire.” (Associazione
Industriali della Provincia di Bologna, p.80-84)
L’importanza dell’istruzione tecnica veniva sottolineata anche durante la
seconda guerra mondiale dal Prefetto, il quale sollecitava, tra i problemi più urgenti,
l’assegnazione di una nuova sede più consona alle Scuole Aldini Valeriani.
Impresa e
associazio
ne
Altro elemento rilevato nel discorso dell’esposizione è uno “dei principali
argomenti onde ai giorni nostri si avvantaggiano le industrie ed il commercio, quello
spirito d’intrapresa e di associazione che per virtù di un istinto naturale ha
cominciato da pochi anni a risvegliarsi fra noi” (Associazione Industriali della
Provincia di Bologna, p.85-92). Ci furono imprese private che si fecero carico
dell’istruzione elementare e religiosa dei figli dei propri operai, istituirono una cassa
di mutuo soccorso per le spese sanitarie e per dare sussidi ai vecchi e agli invalidi,
dimostrando:
“come alla migliorata condizione degli operai risponda il miglioramento
dell’intrapresa. Nessuno di noi vorrà mettere in dubbio che l’istruzione, la
previdenza e il lavoro non siano elementi necessari ed efficacissimi di moralità
e di ben essere; ed è inoltre manifesto che dagli ordini di una educazione
cristiana e civile (onde la stessa istruzione è un mezzo indispensabile, come la
previdenza e il lavoro ne sono un effetto regolato e sicuro) principalmente ed
anzi unicamente dipendono l’ordine, la dignità e la floridezza degli Stati e
delle famiglie.” (Associazione Industriali della Provincia di Bologna, p.94-98)
Il Martinelli ricorda che Francesco Borghesano da Lucca si adoperò per
La città
della seta
radicare, a Bologna, l’arte del filare e del torcere la seta, dall’anno 1272: “Con
ardimento mirabile fu poscia scavato il canale che traversa la città, derivandosi
l’acqua dal fiume Reno e mettendosi in movimento gli ordigni filatori negli opifizi
appunto fabbricati pel lavoro della seta.” Le Banche ebbero un ruolo fondamentale
in questo, così come nel soccorso alle industrie e al commercio del territorio,
Capitolo V
125
consentendo la transizione dalle materie prime alla vendita del prodotto finito,
mediante il differimento dei rimborsi: “…senza l’aiuto di capitali proporzionali al
bisogno, non sarà dato di fare i progressi, che dal genio degli imprenditori,
dall’abbondanza della produzione interna, e dallo smercio dei prodotti
manufatturati avremmo ragione di riprometterci. All’aumento dei capitali
risponderà sempre meglio il corredo degli strumenti perfezionati…”. Lo scavo del
canale dimostra il ruolo avuto dall’amministrazione nell’incoraggiare l’insediamento,
tra le sue mura, di maestri ed artigiani stranieri. Questa politica di relazioni sembra
quella che abbiamo ritrovato in Dozza.
Alla conclusione di questo discorso inaugurale si prospetta una Società
“d’incoraggiamento” che divulghi tutto ciò che appartiene ai mestieri, ai disegni, alle
macchine, “proteggitrice delle arti belle che ha nobilmente preceduto quella per
l’incoraggiamento per le arti utili. Alle quali non verrà meno un patrocinio
illuminato ed efficace laddove alquanti benemeriti a loro spese mandarono alcuni
artisti a visitare l’esposizione di Londra e rinomate fabbriche e manifatture
straniere.” (Associazione Industriali della Provincia di Bologna, p.114)
5.4.1.2 - I casi dell’industrializzazione bolognese
I prodotti storici del territorio offrono indicazioni interessanti8.Abbiamo già
parlato del distretto serico. Sappiamo, inoltre, che la produzione di mortadella ha
trovato ospitalità tra le mura cittadine circa 800 anni fa. Essa veniva consumata
stagionalmente a causa delle difficoltà di conservazione. Alla metà del XIX° secolo,
Alessandro Forni, un intraprendente salsamentario, apprese, in Francia, le pratiche
che gli permisero di inscatolare grosse fette d’insaccato. Da allora, altri industriali,
Filippo Benfenati e tal Nenzoni, cominciarono a fabbricare le scatole di latta stagnata
necessarie alla produzione alimentare. Il Benfenati nel 1809 depositò il brevetto di
8
L’intero paragrafo fa riferimento a: Gobbo F. (a cura di), 1987, Bologna 1937-1987. Cinquant’anni di vita
economica, Cassa di Risparmio di Bologna; Curti R. e Grandi M. (a cura di), 1997, Per niente fragile Bologna
capitale del packaging, Bologna, Compositori; Alaimo A., Capecchi V., Curti R. et al., 1992, Packaging Valley,
in “Scuolaofficina”, n°2, p.7-42; Curti R., Capecchi V. et al., 1993, Speciale macchine automatiche, in
“Scuolaofficina” n°2, p.2-39.
La
“Bologna”
Capitolo V
126
una macchina per la saldatura esterna “ad immersione” utilizzata nella sua attività. Si
pensi che il solo Ulisse Colombini, salsamentario, nel 1883 ne utilizzò 120.000,
esportandole in Argentina, Uruguay, Colombia e nelle Indie. La prima fabbrica di
I tortellini
tortellini fu fondata, nel 1885, da Luigi Bertagni che in dieci anni aprirà 222 pastifici
nell’intera provincia con 497 dipendenti. Il titolare di una drogheria, Pietro Malmusi,
nel 1862 fonda la Malmusi & Gentili per produrre saponi, candele, fiammiferi e
lumi. Già nel 1867 egli introduce il metodo “catalitico” della scissione dei grassi per
la produzione di stearina, oleine e glicerine.
I
Maccaferri
Nel 1869, i Maccaferri, originari di Sacerno e fabbri dal ‘500, trasferiscono la
loro fucina a Zola Predosa, dove lavorano e vivono, con le loro famiglie, anche i
figli. Uno di questi, Luigi, è la “mente” industriale della famiglia: installa una
trafileria e inventa i “gabbioni” per sistemare un tratto stradale, verso Calderino, che
ogni anno veniva interrotto dalle frane. Questa idea procurerà ordini e commesse
“governative” per tutto l’inizio del secolo. Nel 1905, il quinto figlio di Luigi,
Gaetano, che aveva studiato in seminario, dopo essere ritornato dalla Calabria colpita
dal terremoto, promuove la produzione di “tiranti” e catene di ferro per legare gli
edifici pericolanti. Nel 1908 il terremoto di Messina procura una nuova occasione
d’intervento. Con un nuovo socio, un ferrarese che si chiamava Pisa e commerciava
nel ramo, avviene il “salto” definitivo: nel 1910 apre a Grenoble la prima succursale
e nel 1913 una fabbrica a Napoli. Il gruppo Maccaferri si distingue per il suo
sviluppo a “grappolo” che consiste nell’affidare le nuove aziende a propri dipendenti
di fiducia. Questo è avvenuto con: ICO (1921), HATU’ (1922), Invulnerabile (1924),
SAMP (1936), ILM (1940).
Calzoni
Un’altra storia significativa è quella di Alessandro Calzoni che a 23 anni è già
titolare di una bottega artigiana. Nel 1834 costruisce una filanda a vapore. Nel 1835
impianta, nell’ex chiesa del Carrobbio, una fonderia di ghisa che produce pluviali,
tubi, fornelli e ornamenti. Nel 1838 dà vita alla filanda di Modigliana che sarà,
successivamente, il “modello” del setificio toscano. Dopo un viaggio di
aggiornamento e istruzione a Torino, punta sul rinnovamento della meccanica
agricola, producendo parti in ferro sempre più complesse, fino alle pompe idrauliche.
Capitolo V
127
Il 1885 lo vede in giro per gli opifici e le manifatture di Torino, Lione e Parigi,
nonché all’Esposizione Universale di Londra. Nel 1907, i figli Costantino ed
Annibale, cui si aggiungono, dopo la laurea in ingegneria, anche Alfonso e Giuseppe,
iniziano, primi in Italia, la costruzione di turbine idrauliche. I riconoscimenti
internazionali ottenuti spingeranno l’azienda a specializzarsi in macchinari per
impianti idroelettrici, macchine per mulini, oleifici e costruzioni speciali, fra cui i
sistemi di caricamento dei siluri nei sommergibili e dei missili sugli aerei. Annibale è
il primo industriale bolognese ad essere nominato cavaliere dell’Ordine per merito
del lavoro. Alla sua morte, nel 1910, l’azienda è guidata da Costantino e Alfonso, ma
vi lavorano già anche i nipoti. Nel 1939 la Calzoni introduce, per la prima volta in
Italia, la lavorazione di metalli come il tungsteno e il molibdeno, propagandata dal
regime come un grande successo autarchico.
L’agricoltura stimola l’industrializzazione. Nel 1853 nasce l’Officina
Meccanica di Castelmaggiore. Rilevata nel 1865 da Edoardo De Morsier e Giovanni
De
Morsier
Mengotti, viene trasferita a Bologna. Divenuta in seguito “Italo Svizzera Macchine
Agricole di Bologna”, questa azienda introduce sempre nuovi perfezionamenti alla
meccanizzazione dell’agricoltura. Si specializza in molteplici modelli di trebbiatrici
per grano e macchine legate al ciclo completo della trebbiatura. L’agricoltura stimola
diverse produzioni: attrezzi, macchine, impianti di l’irrigazione “a pioggia” e per la
conservazione dei prodotti agrari. Un’altra azienda, la Fabbri, ad esempio, si sviluppa
dalla cultura che ricerca nuove utilizzazioni della frutta. Accanto alla marmellata e ai
“succhi zuccherati di frutta” (inventati prima della seconda guerra mondiale), nel
1954, vengono creati i “fruttini”.
Proseguendo
questa
carrellata
sui
protagonisti
dell’industrializzazione
bolognese troviamo Raffaele Giordani, un artigiano del ferro battuto che dopo anni di
gavetta in “bottega”, nel 1885 si mette in proprio. Dieci anni dopo, realizza il primo
triciclo per bambini. Oggi quel nome è abbinato a tutti gli accessori per la mobilità
infantile. E’ uno dei pochissimi casi bolognesi in cui si lavora “a catena”, per
produrre le carrozzine esportate in tutto il mondo.
Giordani
Capitolo V
128
Sempre nel 1885, troviamo anche Settimo Baschieri che, associatosi a Guido
Pellagri dottore in chimica, fonda il primo stabilimento in Italia per la produzione di
polvere da sparo alla nitrocellulosa detta “acpania” (senza fumo). In un altro settore,
Il Rizzoli
nel 1895 Gino Zabban fornisce tutto il materiale necessario all’Istituto Ortopedico
Rizzoli, inaugurato in quell’anno. Le Officine Ortopediche Rizzoli sono il primo
esempio di relazione diretta tra università e mondo produttivo. Nel 1905 Zabban
sviluppa, con il fratello Filippo, la produzione di materiali sanitari e specialità
farmaceutiche. Durante la prima guerra mondiale fornisce lo “sgualdrappo adesivo”;
durante quella di Libia produce, in tempi rapidissimi, migliaia di pacchetti per
medicazioni e, in tempo di pace, si specializza in prodotti farmaceutici denominati
“galenici” e in garza amidata leggera, con la consulenza del prof.Putti.
Cevolani
Nel 1900 nasce l’Officina Cevolani, di Edoardo Cevolani, che esegue
riparazioni con pochi arnesi. Figlio di un maniscalco, abbandona la fucina del padre a
Cento e si perfeziona in varie botteghe (Pirotecnico, Società Metallurgica Italiana),
frequentando l’Istituto Aldini Valeriani serale. Alla sua morte, nel ’34, i suoi
collaboratori Samoggia e Pazzaglia continuano la produzione indirizzandola verso
macchine speciali per stabilimenti militari e apparecchiature scientifiche di elevata
precisione per la nuova Scuola di Ingegneria di Bologna. Durante la guerra, oltre alle
macchine utensili si producono i ricambi per le macchine che fabbricano “scatolette”
per carni, negli stabilimenti militari di Casaralta. Questo specializza l’officina nella
produzione di macchine per la fabbricazione di scatole metalliche, attività che
prosegue tuttora.
Buton
Nel 1900 il dott. Filippo Sassoli de’Bianchi, arrivato ai vertici della Buton,
praticamente la rifonda. La ditta era nata, tra il 1820 e il ’21, dal sodalizio tra Jean
Buton (esule volontario dalla Francia dopo la caduta di Napoleone) in possesso di un
fornito ricettario e il proprietario di una pasticceria sotto il portico del Pavaglione, tal
Giacomo Rovinazzi. Nel 1902 Sassoli costruisce il grande camino per la caldaia a
vapore che dà una spinta alla produzione, consentendo un allargamento delle
specialità di distilleria. Nel dopoguerra la fortuna dell’azienda continua: nel ’46
Capitolo V
129
presenta alla Fiera di Milano la “Vecchia Romagna” e nel ’63 commercializza il
“Rosso Antico”.
Arturo Gazzoni si dedica al settore farmaceutico dopo aver gestito alcuni
Gazzoni
ristoranti. Nel 1901 fonda la Società per “l’Antinevrotico De Giovanni cav. Arturo
Gazzoni”, che continua il suo successo con altri prodotti come l’Idrolitina, la
Pasticca del Re Sole, il Resoldor, il Purgante Gazzoni, fino al dolcificante dietetico
Dietor e le caramelle a basso contenuto calorico Dietorelle. Per primo si avvale della
collaborazione di artisti affermati, tra cui Zangarini e Trilussa, per pubblicizzare i
ACMA
suoi prodotti. Nel 1908 si mette in Società con Gaetano Barbieri e lo sollecita a
fondare l’ACMA (Azienda Costruzione Macchine Automatiche). Nasce cosi, nel
1924, l’impresa “madre” del comparto del packaging bolognese: costruisce macchine
che confezionano l’Idrolitina. Barbieri, ragioniere ed amministratore di terreni
agricoli, rileva una piccola officina in Via Lame. Al suo interno operavano giovani
diplomati delle Aldini-Valeriani tra i quali Trombetti, Roffa e Ciliotta. Quest’ultimo
lasciò l’azienda nel 1935 per fondare una fabbrica di macchine etichettatrici a Parigi.
Le prime macchine prodotte, tra cui la “713”, stampavano le cartine, dosavano la
polvere e confezionavano il prodotto. Nel 1929 l’ACMA, in espansione, fu trasferita
in Via Fioravanti, allora prima periferia industriale, dove è rimasta fino al 1985,
quando è stata costruita la sede attuale. Alla fine degli anni ’30 c’era già una rete di
vendita che copriva tutti i paesi industriali europei e gli Stati Uniti. L’impulso
determinante allo sviluppo dell’ACMA venne da un giovane progettista, Bruto
Carpigiani (1903-1945), assunto nel 1927. Nato in provincia di Livorno da un
impresario teatrale e da una commerciante di Mirandola Emilia, Bruto trascorse qui
l’infanzia coi due fratelli, visto che il padre aveva comprato il Castello di Pico per
farne un teatro. La moglie ricorda la passione di Bruto per i motori: comprò una
moto Guzzi e si costruì un prototipo di automobile, per farsi vedere in paese prima di
sposarsi. Fu richiesto dall’ACMA, probabilmente per l’amicizia tra suo padre e Luigi
Barbieri, fratello di Gaetano. Chiamato da tutti “ingegnere”, in realtà Carpigiani era
solo un geometra che aveva ottenuto una qualifica tecnica, forse in Svizzera.
Successivamente si iscrisse alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di
Carpigiani
Capitolo V
130
Bologna, dal ’38 al ’42. Il fatto è che Bruto Carpigiani è riconosciuto da tante
testimonianze come “mitico fondatore”, padre ideale di un’intera generazione di
progettisti, tecnici ed imprenditori del comparto bolognese delle macchine
automatiche. Se i titoli ufficiali restano imprecisi, certe sono le grandi capacità che
egli dimostrò nella direzione tecnica dell’ACMA, fino alla sua prematura morte.
Carpigiani perfezionò le macchine già in produzione e ne progettò di nuove. Tra il
1929 e il 1930 introdusse l’innovazione decisiva per lo sviluppo di tutto il comparto:
Le
camme
la “ruota a zeta” (o camma). Si tratta di un meccanismo “intermittore” che trasforma
il moto circolare continuo in rettilineo alternato, ma in modo diverso rispetto, per
esempio, ad una “Croce di Malta”. La novità consiste nel poter variare soste e
movimenti, anche ad alte velocità, in modo preordinato dal progettista, in base alle
esigenze di utilizzazione. Questo congegno è alla base della flessibilità produttiva e
del successo del comparto bolognese delle macchine automatiche. Scartare una
caramella è un’operazione manuale molto semplice; incartarne migliaia è più
complicato. L’ACMA “749” è nata per fare questo lavoro. Frutto di perfezionamenti
di precedenti modelli, la “749” fu prodotta per decenni, continuamente variata per
realizzare diversi tipi di incarto. Ancora alla fine degli anni ’80, una gloriosa “749”
faceva bella mostra di sé nell’officina in disarmo di un vecchio artigiano,
sapientemente “truccata” per incartare i torroncini di una piccola impresa dolciaria.
Questa versatilità, espressa dalle pinze di questa macchina che sembrano una mano
che incarta, ha fronteggiato la maggiore potenza delle incartatrici americane, più
rigide e meno adattabili. Nel 1936 l’assunzione di Giuseppe Clerico (1894-1948),
ingegnere meccanico proveniente dall’Olivetti favorì la formazione di un secondo
gruppo progettuale, ma nettamente separato da quello di Carpigiani. Anche in questo
gruppo maturarono e si formarono progettisti e tecnici di alta professionalità. Dopo la
morte di Clerico cominciò quella fuoriuscita dall’ACMA che, tra il ’45 e il ’60, vide i
suoi progettisti e tecnici dar vita ad una nuova generazione di imprese
(gemmazione)9. Questi uomini avevano in comune la stessa cultura, la medesima
9
Si veda il capitolo 3.7 a p.73.
Capitolo V
131
voglia di sperimentare in proprio e un concetto basilare: la flessibilità. Lo stesso
Bruto Carpigiani, pur restando in azienda, nel ’42 fondò l’ARCA (Anonima
Riparazioni Costruzioni Automatiche), che era subfornitrice dell’ACMA. Assieme al
fratello Poerio era, anche, azionista della “S.A. Bondeno” che produceva ostie da
farmacia. Bruto aveva, inoltre, brevettato una valvola per il riempimento delle
bombole di metano e un’elaborazione innovativa di una macchina prodotta dalla
Cattabriga per fare i gelati. Rispetto a quest’ultima aveva sostituito la spatola a moto
alternato con una elicoidale rotativa e aveva migliorato l’igienicità del contenitore
del prodotto. Con questa macchina Bruto avvierà un’altra impresa, la Carpigiani,
assieme al fratello Poerio. Questi, dopo la repentina morte di Bruto, ne continuò il
progetto, producendo e commercializzando l’Autogelatiera, la prima macchina per la
produzione di gelato mantecato. Il successo della Carpigiani è testimoniato
dall’allargamento della produzione e dal numero di brevetti (pastorizzatori,
mantecatori orizzontali, macchine per bevande calde e fredde, per gelato soft shake e
granita). Arrivò, perfino, ad assorbire la Cattabriga. La riuscita dell’impresa si basa
sulla capacità commerciale di Poerio e sulla competenza di maestranze “di qualità”.
Nel ’89, la Carpigiani entra nel Gruppo ALI di Milano che si occupa di attrezzature
per la ristorazione collettiva. Il nuovo management rinnova l’impegno nella ricerca,
nell’applicazione di nuove tecnologie e nello sviluppo dell’organizzazione, lanciando
sul mercato mondiale altri prodotti e diversi servizi. La Carpigiani è, oggi, una realtà
di rilevanza internazionale, poiché è l’unica azienda al mondo a produrre e
commercializzare la linea completa di prodotti del suo settore, operando nei mercati
grazie a società “controllate”, presenti in tutto il mondo.
La panoramica dei casi dell’industrializzazione bolognese prosegue con il
Calzaturificio Bolognese di Felice Galuppi. Nel 1903, egli introduce le prime
Il
calzaturificio
macchine per agevolare il lavoro manuale; ma è nel 1909 che nasce la prima vera
fabbrica di calzature, la “Pederzoli, Donati & C.” Lo stesso Cesare Donati,
possidente modenese, assieme a Carlo Regazzoni, darà vita, nel 1919, alle Officine
Casaralta, azienda ancora in attività, anche se in crisi. Regazzoni è Perito Industriale
impiegato alle Reggiane, cresciuto alla Breda di Milano, alla Sofia di Napoli e alla
Capitolo V
132
Sigma di Livorno. Diventerà successivamente presidente dell’Associazione
Industriali bolognesi.
Toschi
Armando Toschi è un meccanico di Sant’Alberto di Ravenna. Lavora, con suo
suocero, a Milano, nelle Officine Zanfi, specializzate in produzioni di minuterie
meccaniche. Nel 1920 apre le Officine Toschi a Bologna, vicino alla Chiesa della
Grada che, oltre alle minuterie, producono una vasta gamma di componenti
meccanici. Negli anni ‘30-’40 fra i suoi committenti risultano tra gli altri: Ducati,
Calzoni, Minganti, Weber e Pancaldi. Nel 1925 Toschi venne chiamato dalla Ducati
per collaborare alla messa a punto del trasformatore Manens applicato nelle radio.
L’attività va avanti fino al 1990. L’officina è stata smantellata nel 1993.
Rispetto all’ottica di questa ricerca il curriculum di Vittorio Francia è
Vittorio
Francia
emblematico. Nato a San Giorgio di Piano nel 1908, da una famiglia molto povera,
dopo le elementari è messo “a bottega” ed impara a produrre finimenti per cavalli.
Nel 1922 è fattorino nell’officina meccanica di Biagio Fiori, ex tecnico della
Calzoni, a Bologna, vicino Porta Lame. Qui si producono macchine per insaccare
concime, per fare la ghiaia e carrelli per fornaci. Stanco di fare il fattorino, viene
assunto come apprendista all’Officina Costa, che produce torchi da pasta. L’azienda
stenta a adeguarsi alle novità tecniche del settore. Nel 1925, Francia va alla Parenti
(poi Sabiem), dove si fa un po’ di tutto, fra cui frantoi e i primi prototipi di
ascensore. Lavora, anche, alla Dalla di via San Felice che produce moderne
macchine per la pasta, e all’officina di Aldo Zurla, che produce pezzi per motori a
scoppio. Zurla è considerato il “maestro” di Francia, perché ne completa la
formazione, insegnandogli a lavorare di precisione. Dal 1930 al ’34 Francia è presso
Bruno Righi, sempre nel settore motoristico. A causa di dissidi passa alla Olindo
Bianchi, fuori Porta Mascarella, in cui si producono trivelle per pozzi artesiani e
alberi a gomito per grossi frantoi, ma resta poco. Nello stesso anno approda
all’ACMA dove incontra Caponi, un capo officina, che egli stesso ha definito “un
vero papà”. Francia studia da autodidatta le nozioni teoriche di cui aveva bisogno e,
in seguito, va alla Maserati, che produce auto da corsa fuori Porta Mazzini. Qui
conosce personalmente tutti i grandi corridori dell’epoca: Varzi, Nuvolari, Taruffi,
Capitolo V
133
Ascari, ecc. Quando, nel 1936, la Maserati si trasferisce a Modena, Francia passa alla
FORD a fare pezzi di trattori agricoli. Alla fine dell’anno è di nuovo all’ACMA.
Tornò anche alla Bianchi come capo officina, poi alla GD, di nuovo all’ACMA e,
infine, all’ARCA, nel 1944. Qui approfondisce un rapporto di collaborazione e stima
reciproca con Bruto Carpigiani che lo convince a restare, alla Carpigiani, come capo
officina e direttore della produzione, dal ‘47 fino agli anni ’70.
Interessante è anche il percorso lavorativo di Scipione Innocenti (1888-1967)
che si affermò negli anni ’20. Fu fattorino, garzone, operaio, collaboratore alla
direzione di una modesta bottega in cui si fabbricavano stampi per la pasta. Diventò
imprenditore aprendo una piccola officina meccanica, in via del Borgo, specializzata
nella costruzione di apparecchiature per la segnalazione ferroviaria. L’Officina
Meccanica Scipione Innocenti si caratterizzava per la qualità della produzione e per
la capacità di direzione attiva e lungimirante nell’avviare nuove strategie aziendali.
Molti dipendenti di Innocenti, fra cui Muzzi, Ramponi e Bitelli, lo seguiranno nelle
varie fasi di crescita dell’azienda. In particolare Bitelli diventerà, agli inizi degli anni
’60, direttore generale della futura SASIB (Società Anonima Scipione Innocenti
Bologna). Nel ’33 cambiò forma giuridica, grazie ai capitali di una finanziaria
milanese e nel ’34 aprì un moderno stabilimento in via di Corticella. Nel ’37
cominciò a produrre macchine confezionatrici per sigarette su brevetto dell’azienda
americana AMF. La specializzazione in questo settore fu resa possibile grazie alle
commesse pubbliche e alle relazioni tecniche e finanziarie, della cui importanza
Innocenti fu consapevole. Ciò lo spinse a intrattenere contatti con autorità cittadine e
statali, e a costruire saldi legami con varie multinazionali. Questi rapporti si
rivelarono importanti, soprattutto nel dopoguerra, quando l’ingresso nel settore delle
macchine automatiche portò l’azienda a competere con la concorrenza europea e
americana. Il boom fu tra il 1950 e il 1960, con la confezionatrice “CS” che, grazie
ad un nuovo sistema di alimentazione delle sigarette, riduceva la manipolazione del
tabacco. Alla fine degli anni ’60, Athos Cristiani migliorò ulteriormente la “CS” con
una tramoggia di nuova forma ed un coltello a tre lame che consentì di andare da
2.600 a 4.000 sigarette al minuto. Nel ’77 l’ingresso nel Gruppo De Benedetti ha
SASIB
Capitolo V
134
indirizzato l’azienda verso un processo di diversificazione. L’acquisto di aziende di
altri settori ha fatto sì che oggi la SASIB sia un gruppo industriale attivo a livello
mondiale in tre settori: macchine e impianti per l’industria alimentare; macchine e
impianti per l’industria del tabacco; impianti fissi tecnologici ferrotranviari.
Minganti
Anche Giuseppe Minganti viene dalla “gavetta”. Per fare esperienza all’estero
lascia l’officina del padre. Tornato dalla guerra, avvia, “in proprio”, quella che
diventerà una delle maggiori ditte costruttrici di macchine utensili destinate alle
grosse industrie, prima fra tutte la FIAT.
Laffi
Lascia l’officina del padre, anche Dante Laffi e va a lavorare presso la
Zamboni-Troncon. Dopo la prima guerra mondiale, è nella piccola azienda di Luigi
Comastri, in cui si fabbricano macchine per fare fiammiferi. Nel ’23 costituisce la
società Bassi-Laffi-Tarozzi e, nel ’39, la Laffi Dante Officine Meccaniche che
costruisce impianti completi per la produzione di fiammiferi.
Baroncini
Ettore Baroncini è un appassionato di corse motoristiche. Nel 1923 apre una
piccola officina in cui produce candele per motori a scoppio. Questa specializzazione
lo porterà, nel 1926, a brevettare e a lanciare una speciale candela per l’aviazione e,
più tardi, a lavorare per importanti costruttori di motori (Alfa Romeo, Piaggio, ecc.).
Gli anni ’30 vedono la valorizzazione di Bologna come nodo fondamentale per
L’universit
à
la viabilità e i trasporti. In quegli anni sorgono e si sviluppano anche nuove facoltà
universitarie tra cui: Chimica Industriale, l’Istituto Superiore di Scienze Economiche
e Sociali e Ingegneria, Quest’ultima deriva dalla Scuola di applicazione degli
Ingegneri che risale al 1877.
In questo scenario, nel ’41, le Officine Meccaniche Tartarini progettano e
Tartarini
realizzano, a livello artigianale, apparecchiature per l’utilizzo del gas nel campo
automobilistico.
Marchesini
La Marchesini è un’altra impresa “pionieristica” tramandata dal padre
fondatore ai figli. Oltre ai giocattoli tradizionali di metallo e gli originali
elettrodomestici per bambola, lancia nuovi prodotti come il “Tamburo del 1859” che
funziona automaticamente. Nel dopoguerra, anche in questo settore, si registra una
proliferazione di piccole e piccolissime imprese legate all’originalità dei prodotti
Capitolo V
135
proposti: Pizzoli lancia l’Oskar, giocattolo in plastica di poco prezzo, e il “Poldino”,
un vigile che ruota le braccia. Nel ’45, Corrado & Rimondini inventano il
“bitriciclo”, della “Baby’s Car” prima e della “Zannoni & C.” poi. Le automobili “a
pedali vere e proprie” risalgono al 1952.
La storia della GD, nel campo delle macchine automatiche, inizia con Ariosto
Seragnoli, ex tecnico dell’ACMA. Nel ’39, suo cugino Enzo Seragnoli diventa
amministratore unico della “Fabbrica Italiana di Motobiciclette G.D.” Fondata nel
1923 da Ghirardi e Dall’Oglio, la G.D. primeggiava nelle gare nazionali della classe
125cc., tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30. La produzione si era, poi,
allargata alle cilindrate maggiori, fino ai motofurgoni. Durante la guerra l’officina di
via Pomponia è risistemata per la produzione bellica. Si fabbricavano, oltre ai motori,
anche piccole macchine per l’industria della conserva di pomodoro. Nel dopoguerra
la forte concorrenza fa orientare l’azienda verso altre aree merceologiche. Qui
emerge l’intraprendenza e l’esperienza di Ariosto. Egli rivelò indubbie capacità
organizzative e di scelta dei consulenti e collaboratori. Tra questi troviamo il
professor Morandi, docente di Ingegneria, l’ingegner Taino, preside dell’Istituto
Tecnico Professionale Alberghetti di Imola (che ritroveremo anche nel caso IMA), e
l’allora giovane Riccardo Mattei che gli succederà quale direttore tecnico.
Nell’ottobre del 1946, alla riapertura della Fiera di Milano, la GD espone la “2002”
incartatrice automatica idraulica regolabile per tavolette di cioccolato. La novità è
rappresentata dall’impiego di sistemi oleodinamici per sostituire i cinematismi
meccanici. La serie “2000”, così chiamata per porre l'accento sull’impronta
d’avanguardia, è una linea di macchine in grado di trattare: saponi, biscotti,
cioccolatini, praline e sostanze in polvere, grazie ad un dosatore ad elica e ad una
“mescolatrice”.
L’approfondimento
delle
problematiche
dei
diversi
settori
merceologici, per intuirne le prospettive di medio-lungo periodo, fa ritornare all’uso
di cinematismi meccanici, poiché consentono velocità di incarto più elevata, sono più
affidabili e semplificano movimenti e pezzi di macchina. La “2500”, incartatrice di
caramelle, è famosa per l’uso di un’alimentazione automatica a due dischi,
anticipatrice della “5000” per le Charms. Questa macchina, con un unico ciclo ad alta
GD
Capitolo V
136
velocità, realizza l’incarto singolo delle caramelle e il loro impacchettamento in stick.
Nel ’51 la GD fabbrica anche macchine avviluppatrici e cellofanatrici. La versatilità,
necessaria per la varietà di forme e contenuto delle caramelle, viene utilizzata anche
nel confezionamento di altri prodotti: saponi, compresse e scatole di pesce
conservato. In questo clima di grande fervore creativo, una grande manifattura
inglese produttrice di sigarette offre alla GD l’occasione per entrare nel settore
tabacco. La richiesta era di cellophanare i singoli pacchetti e le stecche. La prima
commessa per la “4300”, destinata al Monopolio Italiano, risale al 1962. All’inizio le
macchine GD non fanno concorrenza alla SASIB, leader nel campo dei pacchetti
“soffici”, perché si collocano alla fine della linea produttiva per compiere operazioni
diverse da quelle eseguite dalle macchine dell’altra azienda bolognese. La
“4350/Pack” cellophanava i singoli involucri alla velocità di 260 pacchetti al minuto.
Questa velocità costringeva ad abbinare due macchine SASIB che producevano 130
pacchetti al minuto ed un “polmone” GD che li accumulava, abbattendo i “tempi
morti” e consentendo altissimi rendimenti. Dalla cell-pack la GD percorre, a ritroso,
le fasi del confezionamento e verso la metà degli anni ’60 progetta la “X1” per
pacchetti “soffici”, la cui velocità è doppia (360/min) rispetto alle macchine della
concorrenza (SASIB) ed è collegabile alle altre macchine GD a valle. A Parigi,
Londra e Düsseldorf, intanto, la GD crea tre società di vendita. Negli anni ’70 scade
il brevetto dell’inglese Molins e la GD realizza la “X2” per pacchetti “rigidi”. Negli
anni ’80 si completa il ciclo di produzione con la “1.2.1” confezionatrice di singole
sigarette (a doppio “baco”, ma con un unico magazzino ed un’unica bobina di carta).
Il reparto “dolciario” costruisce una nuova generazione di incartatrici che soddisfano
la richiesta di altissime capacità produttive (1000/min), nel pieno rispetto della
tradizione di flessibilità e affidabilità che ha sempre contraddistinto l’azienda. Queste
macchine non subiscono il fenomeno fisiologico di obsolescenza, perché sono in
continua evoluzione e possono essere aggiornate per adeguarsi alle nuove esigenze.
Altri sforzi progettuali sono diretti verso l’automazione: collegamenti, caricamenti e
controllo elettronico, dal tabacco sfuso agli imballi delle stecche di sigarette. Lo
stesso avviene per le caramelle. Alla fine del 1986 la GD si avvia a diventare leader
Il
Gruppo
Capitolo V
137
europeo nella produzione di macchine automatiche per l’imballaggio. Amplia gli
stabilimenti e ne costruisce altri: a Bologna, a Firenze, a Richmond (USA) e in
Brasile, superando i 2.000 dipendenti. Dalla Emhart, un colosso della borsa di
NewYork, acquista il gruppo ACMA (Corniani, Ocea, Maco, specializzate in
branche diverse del settore “liquidi”), con tre stabilimenti a Bologna, a Mantova e a
Durham negli Stati Uniti. Oggi10 fanno parte del gruppo GD anche la JOBS di
Piacenza, specializzata in robotica; la GDM (Nuova Red e Tekma) di Cremona e
Pavia, specializzate nel condizionamento di articoli igienici monouso; la Volpack che
produce impianti complementari alle linee ACMA e la CSI che produce sistemi
automatici per il trattamento delle banconote. Le filiali non si contano: Berlino e
Langenfeld in Germania, Mosca, Richmond (Stati Uniti), San Paolo, Madrid, Parigi,
Maidenhead (Regno Unito), Hong Kong, Tokyo, Singapore, Guangzhou e Kunming
in Cina. La GD, del resto vanta una vendita di oltre 6.000 macchine in più di 100
paesi del mondo. Per questo motivo si è attrezzata con sei Training Centre a
Bologna, negli Stati Uniti, in Brasile, nel Regno Unito, in Germania e in Cina. Solo a
Bologna vengono formati più di 300 tecnici all’anno, in corsi a tempo pieno, per
piccoli gruppi, della durata media di 15 giorni. I centri utilizzano aule di teoria e
laboratori di simulazione dotati dei più avanzati sistemi formativi. Il dialogo è
coadiuvato dalla presenza di interpreti in possesso della terminologia tecnica
necessaria. Dei 2.400 dipendenti più del 20% non è italiano. Il 60% è diplomato e
laureato. Nel 1985 i diplomati erano 309 e 68 i laureati. Nel 1994 sono diventati,
rispettivamente, 591 e 143. L’area impiegatizia copre il 67% dell’organico. Gli uffici
tecnici sono divisi in sezioni per macchina e relativo ufficio “formati”. Tutti sono
supportati da un ufficio brevetti, un ufficio insiemi, cataloghi e manuali, un ufficio
ergonomia, una sala esperimenti, un ufficio CAD-CAM, un ufficio Ricerca e
Sviluppo, un ufficio Ricerca e Tecnologia, un ufficio Planning e normalizzazione,
una Segreteria Tecnica ed un Centro di Calcolo. La distribuzione delle qualifiche
mostra una media piuttosto elevata. Tra il 5° livello, il 5° Super e il 6°, nel 1994,
10
Tutti i dati che seguiranno sono presi da materiale GD: pubblicazioni pubblicitarie, periodico interno e
Capitolo V
138
erano comprese 830 persone (oltre il 50%); 247 erano di 4° livello, 205 di 7°. I
quadri erano una cinquantina, mentre meno di un centinaio le persone appartenenti
alle categorie più basse: 27 di 2° livello e 70 di 3°. L’azienda svolge frequenti corsi
di formazione riguardanti vari argomenti. Il progetto “Formazione Istituzionale”
articola i corsi per aree (economica, gestionale, delle relazioni, ecc.) con un
ammontare di 2363 giorni programmati a questo scopo. La GD ha, anche, ottenuto la
certificazione di “Qualità” ed ha adibito un ufficio alle relative mansioni. Il circolo
aziendale propone attività sportive, ricreative e culturali, tra cui una quantità notevole
di gite turistiche. Attraverso il circolo è possibile ottenere anche rimborsi per corsi
sportivi, libri scolastici e regali di Natale per i figli dei dipendenti. La GD fa parte dei
Sostenitori del Teatro Comunale al fine di mantenere la città nel prestigioso circuito
dei grandi teatri internazionali. Nel 75° anniversario di fondazione l’azienda ha
proposto un conveniente “piano sanitario” per dipendenti e familiari, gratuito per tre
anni. La polizza riguarda le spese mediche di qualsiasi tipo. La GD finanzia e
promuove ricerche sulla prevenzione dell’ansia e della depressione con l’Istituto di
Psichiatria dell’Università di Pisa. Finanzia, inoltre, la Fondazione Europea di
Oncologia e Scienze Ambientali “B. Ramazzini”, che svolge ricerche sulle malattie
La
famiglia
Seragnoli
e il
dell’ambiente: insieme stanno realizzando il primo Hospice oncologico d’Italia, il
“Maria Teresa Chiantore Seragnoli”, per dare assistenza ai pazienti affetti da tumori
in fase avanzata. Il diretto interessamento della famiglia Seragnoli ha coadiuvato
l’Ospedale Sant’Orsola di Bologna nello sviluppo dell’Istituto di Ematologia e di
quello di Oncologia Pediatrica. Il 5% del fatturato sono investiti in ricerca. Il motto
è: “GD: tradizione d’avanguardia”. Così è nato il DAMS (Data Acquisition and
Management System), un sofisticato software in grado di acquisire, memorizzare,
Tradizione
d’avanguardia
gestire e visualizzare tutti i dati di produzione, scarto e funzionamento del parco
macchine confezionatrici presenti in ambiente manifatturiero e/o delle informazioni
inerenti il consumo dei materiali ausiliari. Questa realizzazione va ad aggiungersi al
MIP (Modulo Integrato Polifunzionale) che controlla elettronicamente tutta la linea
pubblicazioni commemorative.
Capitolo V
139
di produzione GD, dall’arrotolamento delle sigarette, fino al confezionamento delle
stecche di pacchetti. Di recente è stato realizzato (in meno di otto mesi) un nuovo
magazzino totalmente automatico. Esso ha un volume di 40.000 mq. e può contenere
fino a 80.000 codici diversi. Sei “trasloelevatori” possono trovare e consegnare alla
stazione richiedente qualsiasi pezzo immagazzinato, in un minuto. Un sito internet
GD la collega con clienti e fornitori, aggiungendosi al già sofisticato sistema
informatico intranet: più di 2.000 terminali intelligenti gestiscono più di 100 milioni
di transazioni all’anno, con una potenza di 360 megabyte al secondo (pari ai caratteri
contenuti in 700 copie della Divina Commedia). Tra le macchine ultime nate
troviamo la “X3”, evoluzione della “X2”, la “X700” e la X2000NV”, rispettivamente
per pacchetti “soffici” e “duri” e con una velocità di 700 pacchetti al minuto. Le
ultime due hanno la prima parte in comune (“XE”) in relazione con la ricerca di
modularità delle macchine. Altri progetti sono già in cantiere… Non va dimenticata,
nel gruppo, la “ACMA 770”, astucciatrice per saponi, dotata di tre tipi di
alimentazione alternative che raggiunge una velocità di 500 pezzi al minuto. I suoi
pregi migliori sono: lo “user friendly” (semplicità di utilizzo), la velocità di “cambio
formato” (eseguibile in 15 minuti) e la bassa rumorosità (75dB).
Dopo questo approfondimento dovuto all’importanza dell’azienda e al fatto che
vi lavoro io, passiamo adesso ad Antonio Martelli che entrò all’ACMA nel 1930.
Aveva diciassette anni e si era appena diplomato alle Aldini-Valeriani. Da montatore
specializzato seguì le macchine ovunque, per poi passare in ufficio tecnico, dove
collaborò con Clerico alla progettazione di nuovi modelli. Nell’immediato
dopoguerra iniziò il graduale distacco dall’azienda: prima chiese a Barbieri
l’assistenza post-vendita, poi cominciò a progettare una macchina per caramelle a
“ciclo continuo”, diversa da quelle dell’ACMA che funzionavano a “ciclo
alternativo”. Questo progetto era portato avanti da Martelli fuori dell’orario di
lavoro, mentre continuava ad essere dipendente dell’ACMA. L’accordo gli destinava
il guadagno derivato dal prototipo che egli doveva realizzare, più il 10% del ricavato
dalle prime 10 macchine.
CAM
Martelli
Capitolo V
140
“Erano tempi in cui Ariosto Seragnoli era quasi sempre a casa nostra ricorda il figlio Guglielmo Martelli – e d’estate, dopo essere andati a prendere
il gelato da Pino, restavo ore dietro lo strapuntino della Topolino ad ascoltare
le loro discussioni su macchine e grandi progetti (…). Scherzavano, ricordo
che Ariosto sosteneva che essere investito da un motorino GD, la ditta rilevata
da suo cugino Enzo, era impossibile, perché si sentiva il rumore tre ore prima
che ti arrivi addosso. (…) Il prototipo a ciclo continuo venne realizzato nel
garage del cortile con l’aiuto del padre di un mio compagno di scuola e di noi
ragazzini, continuamente mandati in giro ad acquistare il necessario”. (Curti e
Grandi 1997, p.75)
Uscito dall’ACMA nel 1950, Martelli iniziò l’attività “in proprio” con la CAM
(Costruzioni Antonio Martelli) in una piccolissima officina in via della Salita, fuori
Porta San Vitale. La prima macchina realizzata fu venduta, assieme ai disegni, alla
REGIS che costruiva portafogli: tagliava e saldava la plastica per questi prodotti.
Successivamente la CAM realizzò macchine per dosare e modellare cioccolatini, per
dosare detersivi in polvere, ecc. Arrivò a costruire le inscatolatrici e le fascettatrici
per l’Idrolitina di Gazzoni, ideando il raggruppamento delle dieci bustine, di due tipi
diversi, con carta termosaldata. In seguito, la CAM iniziò, prima in Italia, a
progettare macchine astucciatrici per dadi da brodo, formaggini, matite, dentifrici. La
principale novità consisteva nello “spadone”: un semplice meccanismo “a doppia
lama con cerniera” che consentiva, una volta inserito tra le pareti schiacciate della
scatola, di aprirla e ridarle volume, indipendentemente dal materiale e dal modo con
cui era fatta (cordonata, incollata, ecc.). Nel ’62 si celebrò l’espansione dell’impresa
Gnudi
con il trasferimento nella più grande e moderna sede di Via Toscana. Bruno Gnudi,
tecnico diplomato alle Aldini-Valeriani curava a quei tempi l’attività commerciale
della CAM e ricorda gli inizi, quando si progettavano le modifiche alle macchine
ACMA, nelle ore libere. Egli rimase affascinato dalla personalità di Antonio Martelli
e da quelle macchine che imitavano il lavoro delle mani. Le astucciatrici erano
pressoché sconosciute fino ad allora. Grosse ditte alimentari, dolciarie, cosmetiche e,
soprattutto, farmaceutiche confezionavano i loro prodotti ancora a mano, su lunghi
tavoli, con tanti addetti controllati da un “caposala”. Gnudi ricorda la diffidenza dei
clienti ad ogni proposta di Martelli e la sua inesperienza nell’attività commerciale.
Capitolo V
141
Piazzate le macchine bisognava fornire l’assistenza post-vendita e lo stesso Gnudi
racconta: “Ero a contatto diretto con i clienti e quindi dovevo svolgere anche
interventi di manutenzione, collaudo e ricambio (…). Dopo tanti anni mi sento
ancora un uomo d’officina”. (Curti e Grandi 1997, p.78) Alla morte del fondatore,
nel 1966, la responsabilità del Gruppo viene assunta dal figlio Guglielmo. Egli
costruì un nuovo stabilimento a Rastignano per ampliare la produzione di macchine
in serie e intuì, con largo anticipo, quelle che sarebbero diventate, poi, scelte
obbligate dal mercato: fornire, in pratica, linee di confezionamento complete
controllate da sistemi computerizzati, con gruppi di collegamento tra le diverse unità
operative. Vennero avviate diverse unità produttive, specializzate in famiglie di
prodotti, che vendevano migliaia di esemplari: riempitrici per liquidi, blisteratrici,
Il
Gruppo
CAM
astucciatrici, cellofanatrici, fardellatrici, incartonatrici, ecc. Fu costituita una ditta, la
CAMEX per il coordinare le organizzazioni di vendita estere e le fabbriche. La
struttura era aperta anche ad altre ditte produttrici di apparecchiature complementari
nella realizzazione di linee complete. Nel 1965 nacque la “G.B.GNUDI Bruno
S.n.c.” e, in seguito, la CAMPAK: erano una sorta di strutture di assistenza postvendita con magazzino ricambi e gruppi per il pronto intervento sulle macchine
CAM.
La serie di tecnici sfornati da quella fucina di talenti che è stata l’ACMA
prosegue con Agostino Billi. Cresciuto, appunto, all’ACMA come progettista, egli si
mette in proprio nel 1954, seguito dal collega Frabboni. Il suo progetto è una
macchina incartatrice di caramelle che introduce, rispetto ai modelli ACMA, una
ruota a pinze e un sistema di alimentazione notevolmente più veloci del vecchio
processo ad intermittenza. Nel 1957 le Officine Meccaniche Billi vengono acquistate
dalla Carle & Montanari. Questa azienda milanese fabbricava macchine per la
produzione di cioccolata e caramelle dall’inizio del secolo e aveva già collaborato
con Billi. Nel nuovo stabilimento bolognese arrivano, sempre dall’ACMA, altri due
progettisti: Lullini (che in seguito fonderà la FARMOMAC) e Palmieri. Questa
filiale si specializzerà nel confezionamento di saponi, settore del tutto nuovo per
questa azienda.
Billi
Capitolo V
Preci
142
La storia di Giovanni Preci è esemplare: entrò all’ACMA a 14 anni a pulire gli
uffici. Riuscì, poi, a inserirsi nella “sala esperimenti” dell’azienda dove imparò la
meccanica e stabilì una buona intesa con Carpigiani. Questi lo spinse a frequentare le
Aldini-Valeriani. Dopo un’esperienza come montatore trasfertista, nel ’45 cominciò
l’attività autonoma di riparatore di macchine danneggiate, mantenendo buoni
rapporti con i tecnici ACMA. Bruto Carpigiani disegnò la sua nuova macchina da
gelato a casa di Preci. Nel ’46 la ditta Preci è iscritta alla Camera di Commercio. La
sua crescita fu molto limitata dal fatto che Giovanni volle far tutto soltanto con i
propri mezzi, seguendo personalmente tutte le fasi di realizzazione delle sue
“creature”. L’avvio di una produzione propria avviene nel ’47. Si trattava di una
macchina fatta con materiali di recupero (siamo nel periodo di riconversione
postbellica) per cuocere e mescolare il “croccante”. Successivamente Preci ideò e
produsse macchine per fascettare i gessetti da disegno, per unire la parte di gomma
tenera con quella rigida nelle tettarelle dei poppanti, per plissettare le guarnizioni dei
copricapi delle suore. Il settore dolciario, tuttavia, restò quello principale fino al ’70.
Nel ’68 iniziò la produzione di macchine per il settore farmaceutico. Giovanni Preci
morì nell’89, dopo aver finito una macchina per confezionare una complessa siringa
per dialisi domestiche. La figlia Rita ne ha proseguito l’attività fino ad oggi.
Corazza
Natalino Corazza entra all’ACMA nel ’36. Ha 18 anni e ha frequentato i corsi
serali di meccanica alle Aldini-Valeriani. Nel ’48 lascia l’azienda per svolgere
un’attività autonoma di riparatore. Nel ’53 fonda un’impresa insieme a sua moglie,
Maria Toschi nata a Ferrara da una famiglia di contadini. Maria aveva frequentato le
scuole di “avviamento” ed aveva lavorato come operaia alla Bonavia e Negri,
impresa farmaceutica. Tutto comincia con un prestito, come ricorda la signora
Corazza:
“C’era un affare (…) comprando tre macchine usate che confezionavano
formaggio fuso ed erano bruciate (…) Parla e riparla, l’affare non si poteva
concludere perché voleva un milione e mezzo in contanti e noi non lo
avevamo.(…) Allora sono dal mio salumiere (…) e così parlando capisce che
avevamo dei problemi e mi dice: ”Ha bisogno di soldi?” (…) In quel periodo
aveva ereditato (…) e disponeva della somma. Morale della favola: nel giro di
un’ora avevo trovato i soldi che servivano a mio marito per fare l’acquisto.
Capitolo V
143
“Non scherzare” mi dice Natalino tornando a casa. Nel frattempo sentiamo il
campanello e arriva questo signore con i soldi! (…) E’ stata una cosa che non
dimenticherò mai. Si può dire che è stato quasi l’inizio della nostra fortuna.
Era il 1956. Prima abbiamo sistemato queste macchine per il formaggio, dopo
mio marito ha creduto bene di costruirle lui, fatte molto diversamente. Però
quello è stato l’inizio.” (Curti e Grandi 1997, p.87)
La Corazza, successivamente, vince la concorrenza tedesca nella produzione di
macchine per dadi da brodo, con una soluzione meccanica: il “monoblocco”. Questo
meccanismo velocizza il processo, riunendo le operazioni di dosatura e
confezionamento in una sola macchina. In seguito la gamma di applicazioni possibili
viene ampliata. Nel ’75, alla morte di Natalino, la moglie prosegue l’attività, passata,
nel ’96, alla figlia Valeria. Oggi, le Officine Meccaniche Corazza sono incorporate
nel Gruppo Morningside e offrono le tradizionali linee per il dado da brodo di media
e alta velocità, ma anche numerose alternative per il condizionamento del formaggio
fuso e per l’industria casearia in genere.
Risale agli anni ’30 l’origine del Gruppo Fabbri, quando Ennio Fabbri rileva
Fabbri
una piccola tipografia fondata a Vignola nel 1870. Nel dopoguerra avviene l’incontro
con il packaging: viene installata la prima “rotativa flessografica a rotocalco” per la
stampa di imballaggi da frutta. Si producono, anche, diversi tipi di confezionamento:
dai “fazzoletti” per avvolgere gli agrumi, alle etichette, alle carte speciali. Nel ’60 la
Fabbri fonda l’AUTOMAC per progettare e produrre avvolgitrici automatiche con
carta paraffinata. Nel ’63 l’AUTOMAC lancia, per prima sul mercato, le macchine
per confezionare con film retraibili libri, giornali e riviste, mentre la Fabbri produce
le pellicole necessarie all’imballaggio. Negli anni ’70 brevettano nuovi sistemi di
imballaggio automatico, fra cui il PVC estensibile a freddo per l’avvolgimento di
prodotti freschi nei supermercati.
La Wrapmatic nasce nel 1960 dall’incontro tra tecnici bolognesi e finanziatori
del Gruppo Panigal. Gianni Boccato, perito meccanico delle Aldini-Valeriani che
aveva lavorato alla Rangoni-Puricelli, orienta la progettazione e la produzione verso
l’imballaggio di grandi risme di carta. Queste macchine coprono circa il 90% del loro
mercato mondiale. Dal ’90 l’azienda fa parte del Gruppo tedesco Korber (Gruppo
Wrapmatic
Capitolo V
144
che comprende l’AUNI, diretto concorrente della GD, nel settore tabacco). Dalla
fusione con la Cassoli, entrata a far parte del Gruppo, è nata la Casmatic.
IMA
Andrea Romagnoli, diplomatosi alle Aldini-Valeriani nel ’47, lavora
all’ACMA e alla GD e, nel 1961, fonda l’IMA (Industria Macchine
Automatiche).Con lui c’è il cognato Renato Taino, già collaboratore di Ariosto
Seragnoli alla GD. Il sostegno finanziario della famiglia Vacchi permette,
successivamente, l’allargamento dell’impresa. L’avvio vede la costruzione di
macchine imbustatrici di polveri d’acqua da tavola e un prototipo di confezionatrice
per uova di cioccolato. Nel ’67 la “C20”, confezionatrice per tea in bustina, apre al
settore dei sacchetti-filtro, nel quale l’IMA è, oggi, leader mondiale. Questa
macchina tratta il prodotto dalla formazione della bustina al suo inscatolamento in un
contenitore cellophanato ed ha la possibilità di variarne il formato con facilità. Nel
’76 l’IMA si inserisce nel mercato farmaceutico con una macchina “blisteratrice ad
astucciamento integrato” per capsule, confetti e compresse. La scelta strategica di
ricerca di nuovi mercati in cui non operassero già altre aziende bolognesi è comune a
molte imprese del comparto.
FIMA
Nel 1961 la FIMA S.p.A. (Fabbrica Italiana Macchine Automatiche) inizia la
sua attività a Zola Predosa, nella periferia bolognese. Sono anni di grande fermento: i
“tempi d’oro” dell’industria meccanica bolognese ed emiliano romagnola. La FIMA
si colloca subito nel carnet di produttori di macchine per cioccolato. La prima
macchina incarta grosse uova di Pasqua corredate dal tradizionale fiocco e sostituisce
una serie di accorte e pazienti operazioni manuali. La produzione si estende, poi, alle
incartatrici di Boeri, di Gianduiotti e di prodotti con altre fogge. Nel ’70 cambia la
proprietà, la dirigenza, la ragione sociale e si trasferisce ai confini con Casalecchio di
Reno, diventando “Nuova FIMA Imballaggi”. Inizia, così, l’allargamento delle
gamme produttive ed il miglioramento della loro produttività ed efficienza. A metà
degli anni ’80 c’è un ulteriore accelerazione della crescita, con l’acquisizione di
nuovi mercati esteri e col nuovo vigore impresso alla ricerca e al rinnovamento
tecnologico. L’ultima nata, la “GIOVA 020” incartatrice multifoggia ad alta velocità
per cioccolatini, è già al centro dell’attenzione dei produttori del settore.
Capitolo V
145
L’Arcotronics fa storia a sé, essendo legata alla produzione di componenti
elettronici e, soprattutto, dei relativi processi di produzione. La fondazione avviene
nel 1962, grazie ad un’idea innovativa di alcuni dipendenti della Ducati Elettronica,
tra cui Falchieri. Questi, dopo aver visto rifiutare il loro progetto, si mettono “in
proprio”, avendo ottenuto fondi da Dino Olivetti e, per qualche tempo, anche dal suo
amico Rockfeller. Un’altra nuova idea accompagna l’impresa: automatizzare la
produzione che, allora, era a cottimo. Questo si traduceva nell’ideare un prodotto
completo di sistema automatico per la sua produzione. Dopo una decina di anni
Olivetti vende l’Arcotronics alla Plessi, multinazionale inglese. L’acquisto è dettato
dalla necessità della Plessi di ammodernare altre aziende del Gruppo che producono
condensatori. Ha luogo, così, un confronto fra diversi principi che regolano il modo
di lavorare. I mansionari inglesi, ad esempio, erano molto rigidi ed esigevano un
impiego di personale tre volte superiore al necessario. Il confronto permette
all’ARCO di rendersi conto del valore delle innovazioni introdotte: nel 1973 viene
scorporata la Divisione Meccanica. Questo modello produttivo viene esportato, negli
stabilimenti in Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti, ma il nucleo progettuale resta
a Sasso Marconi (Bologna). Lo stabilimento americano incontra notevoli difficoltà,
perché la concezione di “mobilità” statunitense provoca un ricambio continuo di
manodopera non specializzata, quando, invece, questo modello produttivo, richiede
un notevole grado di specializzazione delle maestranze. La Plessi decide di chiudere
questa fabbrica e propone di vendere le sole automazioni. C’è uno scontro tra chi
teme di rafforzare gli altri produttori di condensatori e chi sostiene, invece, che il
confronto sul mercato può giovare al miglioramento delle macchine. Vince la
seconda posizione ed ha successo. Oggi l’Arcotronics è fra i maggiori produttori
mondiali di condensatori in film. L’azienda ha sempre mantenuto la direzione
interamente italiana, nonostante i cambiamenti di proprietà, con Mazzolini Direttore
Generale e Gruppioni Direttore della Divisione Meccanica. Questo ha assicurato
continuità allo sviluppo. La Divisione Meccanica ha circa 200 dipendenti, di cui 50
interamente dedicati alla “prototipazione”. L’esperienza accumulata nel ramo dei
prodotti-processi ha aperto diversi mercati: dai componenti elettronici miniaturizzati,
Arcotronics
Capitolo V
146
a diversi film plastici e metallizzati, dalle batterie ricaricabili avanzate, alle
applicazioni per auto elettriche. Le automazioni riguardano l’assemblaggio e
l’imballaggio dei componenti. Gli impianti sono sempre realizzati “su misura” di
cliente, ma si sta cercando di rendere modulari queste personalizzazioni per poterle
vendere anche separatamente.
Cassoli
Un altro ex dipendente ACMA è Paolo Cassoli che ha frequentato sia le
Aldini-Valeriani sia l’Istituto Fioravanti. Dopo l’esperienza di aggiustatore e
montatore all’ACMA, nel 1964, fonda con la moglie la Cassoli. Paolo progetta e
produce macchine per confezionare prodotti di carta, soprattutto, rotoli di carta
igienica e da cucina. Suo stretto collaboratore è Giorgio Bonafè, anch’egli perito
meccanico diplomatosi ai corsi serali delle Aldini-Valeriani. Entrata a far parte del
Gruppo Korber, recentemente la Cassoli si è fusa con la Wrapmatic, diventando
Casmatic.
MG2
La collaborazione tra un progettista, un tecnico collaudatore e un finanziatore
fa nascere, nel 1966, un impresa: la MG2. Ernesto Gamberini, il progettista, si è
formato all’Istituto Professionale Fioravanti ed ha lavorato alle Officine Zanasi,
durante la conversione della produzione dalle motociclette alle macchine
automatiche. Nel ’57, diventa responsabile di progetto e cura la realizzazione dei
prototipi. Le macchine erano dosatrici di polveri e granuli in capsule di gelatina dura,
con movimentazione “in continuo”. La concorrenza tedesca disponeva solo di
macchine a movimento “alternativo intermittente”. MG2 ha anche brevettato dei
sistemi di alimentazione e di orientamento delle capsule.
2M
Marchesini
Un’altra storia interessante è quella di Massimo Marchesini che ha frequentato,
alla fine degli anni ’40, i corsi di avviamento professionale delle Aldini-Valeriani.
Entra alla CAM fin dagli inizi: prima è operaio, poi trasfertista, quindi capoofficina
del reparto di montaggio e, infine, direttore tecnico di una società del Gruppo
Martelli. Nel 1974 fonda la “2M Marchesini” che progetta e realizza, in serie, gruppi
speciali da applicare a macchine automatiche già esistenti. Avvalendosi della
collaborazione di Giuseppe Monti, giovane progettista uscito anche lui dalle AldiniValeriani, la 2M comincia a realizzare macchine astucciatrici. L’impresa, innovando,
Capitolo V
147
si specializza in sistemi di messa in volume degli astucci e in alimentazioni
compatibili con diverse linee di confezionamento automatizzato. Negli anni ’80
allarga la produzione con le blisteratrici per il settore farmaceutico. Oggi è uno dei
cinque gruppi presenti nel comparto.
La “A.M.s.n.c.” nasce, nel 1977, per opera di due periti, entrambi diplomatisi
AM
alle Aldini-Valeriani: Gian Alberto Minelli e Giuliano Anidriti. Dopo tre anni di
crescita a livello nazionale entra nel Gruppo Oltremare, creando l’AMOTEK.
Attualmente leader mondiale nel settore delle macchine automatiche ad alta
tecnologia, realizza prodotti estremamente versatili, per l’imballaggio di carta
igienica, assorbenti, pannolini, rotoli e sacchi freezer.
La BAUMER di Castelfranco Emilia viene fondata nel ’79 da Mario Gambetti.
Baumer
Diplomatosi ai corsi serali delle Aldini-Valeriani, egli ha fatto esperienza in diverse
imprese del settore. La BAUMER possiede numerosi brevetti internazionali, in
aperta concorrenza con le imprese tedesche. L’azienda è collocata nel mercato
mondiale delle macchine avvolgitrici con pellicola termoretraibile. Sono macchine
capaci di trattare, ad elevata velocità, qualunque prodotto (bevande, alimentari,
cosmetici, ecc.) di qualsiasi forma (bottiglie, barattoli, astucci, ecc.). Il cambio di
formato avviene automaticamente.
Un altro fattore in comune tra le storie fino a qui incontrate è l’aver frequentato
le Aldini-Valeriani. La rassegna prosegue coi protagonisti di attività che non fanno
più parte del packaging, anche se vi sono collegate. Il primo è Clementino
Bonfiglioli, un giovane diplomato delle Aldini-Valeriani che, nel 1956, fonda
assieme ad altri due soci la Costruzioni Meccaniche Bonfiglioli. L’impresa produce
cambi di velocità per motociclette e macchine agricole. L’impiego dei “riduttori” nel
settore dell’imballaggio spiega la rapida crescita di quest’azienda. Nel ’60 è già alla
Fiera di Milano (allora paragonabile a quella di Hannover di oggi). Nel ’64 si
trasferisce nella sede attuale di Calderara di Reno per soddisfare le richieste di
mercato sempre più specifiche: giunti calettatori, gruppi “freno e frizione”, limitatori
di coppia, piccoli motori a corrente continua, oltre ai riduttori e motoriduttori a vite
senza fine, ad assi paralleli, ecc. Tra il 1973 ed il 1975 acquista la Transmital,
Bonfiglioli
Capitolo V
148
officina parastatale di Forlì che produce riduttori epicicloidali per betoniere, cingolati
e torrette rotanti. Altre acquisizioni sono la Lucmar nel ’74 e la “LS Meccanica” nel
1982.
Datalogic
La Datalogic nasce nel 1972, ad opera dell’ingegner Romano Volta, già
docente di elettronica all’Università di Bologna e all’Istituto Aldini-Valeriani.
L’impresa produce dispositivi fotoelettrici per rilevare dati e controllare le diverse
funzioni delle macchine per l’imballaggio. La rapida espansione dei sistemi
automatici l’ha resa un’azienda leader in Europa, costringendola ad ampliare gli
stabilimenti del Lippo di Calderara di Reno e ad aprirne un altro in Germania. Dal’78
è sorta la Data Engineering che, con ben 120 ingegneri, progetta e ricerca nel campo
dell’ottica, dell’elettronica e dei software. Dal ’79 l’azienda ha sviluppato i sistemi di
lettura dei “codici a barre”, diventandone il principale produttore europeo e tra i
primi tre al mondo. Questa crescita ha fatto sorgere nuovi stabilimenti a Bologna,
negli Stati Uniti (microprocessori per la raccolta dati nel campo automobilistico) e in
Giappone (sensori fotoelettrici miniaturizzati per la robotica, color mark detectors e
altri sensori ottici). La tradizione del territorio bolognese gareggia con l’automazione
più avanzata: l’abilità nel costruire lenti di vetro degli artigiani del XVII° secolo,
oggi è contenuta in una sola macchina computerizzata che produce lenti ottiche in
plastica senza bisogno di operatori.
ITM
Da oltre trent’anni l’ITM (Italmec Elettronica) è specializzata nel controllo dei
processi industriali (in particolare temperatura e umidità). Produce un’ampia gamma
di prodotti che abbracciano l’intero loop di regolazione (sonde, indicatori, regolatori
e programmatori). Oltre alla “qualità”, l’azienda ha sviluppato un servizio molto
attento ai clienti dei diversi mercati. Tra questi figurano nomi prestigiosi del
packaging nazionale. Recentemente, l’ITM ha ottenuto, dal Ministero della Ricerca
Scientifica e Tecnologica, l’iscrizione all’albo ufficiale delle “Strutture di Ricerca”.
Pulsar
Un’altra azienda, la Pulsar, si costituisce nel 1989 per produrre componenti per
trasmissioni meccaniche. Nel ’91 viene rilevata da Massimo Franzaroli. Franzaroli
nel 1985 aveva fondato Mind Engineering, uno studio tecnico che progettava
macchine automatiche speciali, impianti di convogliamento, di automazione e di
Capitolo V
149
montaggio. Nel ’95 arriva un nuovo socio, Tienno Bettati, fondatore della BettSistemi di Correggio (Reggio Emilia) produttrice di componenti per l’automazione
flessibile. Nasce, così, il progetto B-Flex, una linea di componenti modulari per
sistemi di convogliamento (a tappeto, a pallet, a catena), poi, distribuita in tutto il
mondo. La produzione si è specializzata in martinetti meccanici a vite, in rinvii
angolari, nastri trasportatori, protezioni antinfortunistiche e “isole robotizzate”.
Abbiamo, così, concluso la rassegna dei casi più significativi, ai fini di questa
ricerca, tra quelli verificatisi in questo territorio.
5.4.2 – Cosa è stato scritto
5.4.2.1 – Analisi di un percorso: lavoro, organizzazione e progetto.
Prendiamo in considerazione, adesso, il lavoro e ciò che significa per l’uomo.
Esso ha sempre un significato anche simbolico. Più si tratta di “eseguire”, anziché di
“fare” e più la consegna sarà concreta e meno simbolica: sarà descrizione del gesto
invece che dell’oggetto. Il lavoratore perde, così, la capacità di raffigurazione finale
di un oggetto che egli carica, sempre più, di simboli. Il lavoro che implica il fare,
procede per fasi che investono, in varia misura, sia il mondo interno dell’individuo
che la realtà esterna in cui egli opera. Il primo atto è la decodifica e la traduzione del
compito. Si passa poi alla prefigurazione mentale dello svolgimento pratico del
lavoro assegnato. Queste fasi riguardano il comprendere e la formazione e l’uso di
simboli. “L’uso dei simboli è (…) un modo di essere a contatto con la realtà psichica
interna” e implica, perciò, un temporaneo e parziale allontanamento dal mondo
esterno della realtà condivisa. Ogni simbolo rimanda ad altri e questo “viaggio nelle
possibilità” è suscettibile di generare angosce “di non essere capace di ritornare
(vale a dire di rimanere internamente preoccupato e paralizzato, o totalmente
confuso), o di tornare con qualche creazione mostruosa” (Jaques 1990). Una
selezione “secondo pertinenza” comporta la separazione di elementi e genera
angosce di frammentazione. Il lavoro ha successo se c’è contenimento delle ansie
generate dal lavoro simbolico. La presenza di strumenti tecnici, cognitivi ed
esperenziali e la conoscenza dei limiti reali, delle finalità e del processo, rassicurano
Lavoro e
simboli
Capitolo V
150
il soggetto sull’affrontabilità del compito, permettendogli di immaginare di essere in
grado di intervenire negli imprevisti. A questo scopo è utile, poter prevedere il tempo
a disposizione e la possibilità/necessità di passare alla fase decisionale ed operativa.
Decidere e
realizzare
Decidere (da de-caedere = tagliare via) vuol dire scegliere, scartando. A livello
inconscio, la decisione ha a che fare con la separazione, la perdita e la castrazione. E'
necessario “mantenere il processo del lavoro simbolico abbastanza a lungo e proprio
con la giusta quantità di selezione particolareggiata. Si richiede un delicato
equilibrio tra una chiusura affrettata ed un rinvio ossessivo” (Jaques 1990).
La realizzazione concreta del lavoro evidenzia le differenze tra l’oggetto
pensato e quello fatto. Occorre accettare la perdita del primo ed investire
affettivamente il secondo, riconoscendo le caratteristiche pensate nell’oggetto reale.
Se ciò non avviene il lavoro sarà da buttare, senza possibilità di riparazione. Il lavoro
L’apprendistato
implica, quindi, una “sofferenza” psicologica che nasce dal confronto con la propria
distruttività interna e con la separazione. L’apprendistato è quel momento nel quale
l’individuo riformula la propria formazione per acquisire la capacità di usare oggetti
e conoscenze del nuovo lavoro, inteso come oggetto significativo affettivamente
investito. All’inizio di questo percorso l’ambiente tollera errori ed inadeguatezze,
introducendo regole, vincoli e aspettative, in modo graduale. Le carenze in questa
fase provocano gravi distorsioni della relazione tra l’individuo e quel particolare
lavoro (Marchisio 1990, p.60).
Il conflitto
tra ordine
e caos
Per essere soddisfacente un lavoro deve prevedere discrezionalità, autonomia e
libertà11. Solo un lavoro creativo può dare quella particolare soddisfazione che deriva
dalla sensazione di vittoria sulla propria distruttività, sul caos e sull’angoscia di
separazione. C’è la continua necessità di tollerare l’ambivalenza “come base della
responsabilità sociale e del lavoro da portare a termine giorno dopo giorno”. Tale
ambivalenza si esprime, nei rapporti concreti, con la conflittualità (ben diversa dalla
competitività). L’area conflittuale deve essere gestita e non “risolta”. Tra caos e
rigidità, l’informalità è insufficiente (MET 1988). Il conflitto rende difficile la
11
Confronta con le quattro dimensioni del lavoro di Gallino in 2.2 a p.40, nota 11.
Capitolo V
151
presenza di un potere “per competenza”. Nelle organizzazioni umane (che
12
Gruppi
comprendono sempre sia “gruppi di base emozionali” sia “gruppi di lavoro” ) il
di base e
leader gerarchico è, sostanzialmente, il leader emotivo del “gruppo di base”, le cui
lavoro
gruppi di
modalità di funzionamento controllano anche il “gruppo di lavoro” (Marchisio 1990,
p.60). La capacità di evolversi riguarda il “gruppo di lavoro” ed ha a che fare con
l’applicazione di un’immaginazione creativa. Per sua natura un “gruppo di lavoro”
non è mai soddisfatto di riprodurre qualcosa di esistente. Il “gruppo di base”,
viceversa, non ha alcuna capacità evolutiva, perché si fonda sulle risposte “primitive”
a stimoli esterni (dipendenza dal leader, reazione ad un nemico esterno, attesa
messianica del nuovo leader). Il gruppo si situa tra due poli (MET 1988). Il primo
corrisponde alla funzionalità, che deve rendere efficace l’azione della direzione. Il
gruppo, in questo caso, serve al controllo e alla manipolazione del comportamento
individuale. Il secondo polo presuppone il coniugare motivazione, flessibilità,
comportamenti creativi e produttività: il gruppo diventa luogo di sedimentazione di
sentimenti di appartenenza e di forti relazioni affettive positive, il “noi” nella
struttura elementare, formale e reale, dell’impresa. Esso si colloca in un continuum
con la struttura sociale normatrice, come luogo dotato di senso e principio di identità
e protezione, in cui l’individuo può agire creativamente. Se la cooperazione è
“modalità eteronoma”, in cui le identità sono stereotipate, una “modalità autonoma”
è rappresentata dalla coalizione. Il MET definisce quest’ultima come l’insieme delle
informazioni che la “forza lavoro” trasmette nello spazio fisico e sociale del sistema
produttivo con motivazioni e fini ad esso esterni e/o antitetici (MET 1988). La “forza
lavoro” viene rappresentata come gruppo sociale con norme, valori e aspirazioni
autonomi ed esogeni rispetto alle finalità del processo produttivo. In questo senso,
l’informalità riconosciuta come risorsa negoziabile diventa base per l’autonomia;
mentre, non negoziata, può diventare un mezzo di coinvolgimento strisciante e
subalterno (Studio Giano 1992). La necessità di cooperazione, correlata al
12
Secondo Bion il comportamento dei gruppi si manifesta con l’alternanza tra stati di carattere emozionale
(assunti di base) e stati di carattere operativo (attività finalizzate). Il primo ha una valenza affettiva “chiusa” che
L’informalità
Capitolo V
152
dispositivo tecnologico, può essere il fondamento della negoziazione e della
dinamica della progettazione organizzativa. Se l’obiettivo è la riduzione del tempo di
attesa rispetto alle lavorazioni, il gruppo deve avere la capacità di progettare
l’interfunzionalità necessaria alla riduzione dei “tempi di attraversamento”13. “La
chiave di volta di un progetto è il corretto sviluppo, in tempi brevi, dall’idea alla sua
realizzazione (…) per questo si deve prevedere l’imprevedibile e mantenere
l’indagine di progetto aperta a soluzioni ampie e alternative”. (Sammarco 1998) Ai
“gruppi di lavoro” viene conferita la responsabilità unica di tale sviluppo, con ampia
delega e verifica preventiva dei “tempi di attraversamento”.
Lay-out
sociale
Si prefigura la necessità di progettare il lay-out14 fisico in relazione al lay-out
sociale, per governare il lavoro manuale e quello intellettuale, stabilendo un nuovo
assetto del rapporto tra sapere e potere, fra produttori di regole e pratiche sociali. Le
influenze disorganizzanti dell’ansietà e la povertà di comunicazione tra membri, e/o
tra questi e l’ambiente circostante, possono far regredire un “gruppo di lavoro” ad un
“gruppo base” (Marchisio 1990, p.60). La novità può indurre un “mutamento
catastrofico”, a cui il gruppo reagisce con la disorganizzazione e la disgregazione,
regredendo al livello di funzionamento per assunti di base. Un’organizzazione che
ostacola il cambiamento e che ha confini troppo rigidi, o eccessivamente permeabili
(tutto cambia affinché nulla cambi) facilita tale regressione. In questa situazione
l’assunto vincente sarà “attacco e fuga”. Non è possibile definire una precettistica a
priori che possa far prevalere il funzionamento razionale. Sono identificabili,
Tre
elementi
tuttavia, alcuni elementi che sostengono il gruppo, contenendo l’incertezza. Questi
elementi hanno a che fare con la conoscenza, con la prevalenza del compito
impedisce la realizzazione concreta dell’idea; il secondo si apre alla concretezza solo se si è già cementato nella
dimensione affettiva ed emotiva. (Bion W.R. 1976, Esperienze nei gruppi, Roma, Armando).
13
Studio Giano (a cura di), 1992, Il lavoro: progettazione e conflitto, Milano, Angeli, p.44: “Per tempo di
attraversamento si può intendere il tempo di una fase di lavoro, il tempo della fabbricazione, il tempo
complessivo dall’entrata dell’ordine all’uscita del prodotto finito, il tempo che intercorre dall’idea di un nuovo
prodotto alla messa in produzione. Un tale concetto si presta più che come misura in relazione ad un obiettivo di
cui bisognerebbe stabilire i parametri, esso rappresenta uno strumento mentale per l’analisi e l’impostazione del
lavoro e la raccolta delle informazioni. L’idea a cui rimanda questo modello è l’immagine di un flusso che si
sposta da un luogo ad un altro e che segnala il restringersi o il dilatarsi del tempo di passaggio, per evidenziare
il livello di integrazione tra il momento prima e quello dopo.”
14
Collocazione (o percorso) dei macchinari (o dei pezzi) all’interno di uno stabilimento.
Capitolo V
153
manifesto esplicito (obiettivo) sul compito latente implicito (conservazione della
gerarchia) e con il riconoscimento dell’inevitabile e necessario conflitto tra
conservazione ed evoluzione. Il piccolo gruppo, luogo di interazione tra struttura
sociale e soggettività, rischia di ridare al sistema bipolarizzato un’autonomia
impersonale. Il gruppo può essere, quindi, sia il luogo della soggettività, sia l’incubo
di un’articolazione sociale totalitaria (MET 1988). Problematizzare il lavoro di
gruppo è un problema urgente, perché un mondo costruito con piccoli gruppi
autoregolati può essere un incubo totalitario, così come un’esperienza democratica
piena (Marchisio 1990, p.40). Ogni organizzazione è, fondamentalmente,
conservatrice, ma alterna, ciclicamente, il predominio dell’evoluzione e il
predominio della conservazione. Il fatto paradossale è che la struttura gerarchica
Evoluzione
o conservazione
tende ad autoperpetuarsi attraverso l’obbedienza come strumento per risalire la scala
sociale. Questa condizione rende più difficile la promozione di leader votati alla
creazione e facilita quella di chi osserva, soprattutto, le regole. Ogni individuo è in
tensione tra conservazione e creatività rivoluzionaria. Egli sarà incline agli assunti
del “gruppo di base” per il bisogno di sicurezza e di omogeneità esterna, ma, allo
stesso tempo, pretenderà di realizzare qualcosa di creativo che lo identifichi per la
necessità di sicurezza interna.
L’impresa deve bilanciarsi tra necessità di integrazione e necessità di controllo
gerarchico. In questa contraddizione si inserisce l’esperienza sperimentata a Bologna,
Integrazione o
controllo
nei casi esaminati da Marchisio (1990, p.97). I percorsi dell’innovazione (di prodotto
o di processo) sono dispositivi informali molto complessi, perché media dell’identità
(Marchisio 1990, p.75). Nei modelli più creativi permane la centralità di comando,
ma deve confrontarsi, tra conflitto e cooperazione, con una struttura capace di
pensiero complessivo e di distribuzione delle conoscenze. L’impossibilità
dell’organizzazione di prevedere tutto provoca caos dovuto all’inadeguatezza.
Questo evidenzia il ruolo della discrezionalità e dell’informalità quali vie di uscita
(Studio Giano 1992, p.51). In un’azienda meccanica, dove si producono macchine
automatiche, capita, spesso, che un montatore esperto segua, di sua iniziativa,
l’approvvigionamento dei componenti necessari al montaggio. Capita anche che, a
Un
esempio
Capitolo V
154
causa di una distinta non aggiornata, il magazziniere gli consegni un pezzo non
corrispondente al disegno. Il montatore, accortosi di quel componente inutilizzabile,
torna dal magazziniere per sostituirlo, ma non ce ne sono altri disponibili, perché
l’azienda ha introdotto politiche di riduzione del magazzino (just in time). Egli si
reca, allora, al reparto macchine utensili, dove spiega ad un operatore il problema,
chiedendogli di realizzare una modifica affinché il pezzo difettoso possa essere
utilizzato. Nel frattempo, giunge la telefonata di un giovane montatore trasfertista
impegnato presso un cliente all’estero: la macchina non riesce a raggiungere la
velocità prevista, perché una parte di essa non assolve alle sue funzioni nel tempo
dovuto. Il montatore esperto gli dà dei suggerimenti, mettendolo in condizione di
risolvere il problema. Gli spiega, inoltre, che si tratta di palliativi, poiché la causa è
da ricercare nelle caratteristiche progettuali della macchina. Già che c’è, il giovane
dovrebbe controllare un’altra zona della macchina collegata a quella mal
funzionante, onde evitare che si verifichi un problema conseguente. Episodi come
questo sono la “banale” prassi quotidiana del lavoro di molte persone. Queste
consuetudini sono talmente routinarie che chi le esegue perde ha consapevolezza di
progettare e risolvere problemi che non rientrano in nessun organigramma,
mansionario o qualifica professionale. Un esempio lampante può venire da un caso
solo apparentemente diverso: lo “sciopero bianco” dei doganieri. Tale forma di
protesta consiste nell’attenersi scrupolosamente a quanto prescritto dalle regole e ciò
paralizza lo svolgimento del lavoro. In questo modo si rende visibile l’inadeguatezza
del regolamento e l’importanza dell’informalità, normalmente sommersa.
L’organizz
L’organizzazione del lavoro è la sintesi, sempre in precario equilibrio, di
azione e le
pratiche
diverse “pratiche sociali” veicolate in un sistema da attori riconoscibili.
L’innovazione in risposta alla variabilità e alla complessità dei mercati, presuppone
una ridondanza dei sistemi che necessita di una struttura morfogenetica15. All’interno
15
Buckley W., 1976, Sociologia e teoria dei sistemi, Torino, Rosemberg & Sellier, p.72-73: “…vale a dire la
morfostasi e la morfogenesi. Il primo si riferisce a quei processi, nei complessi scambi sistema-ambiente, che
tendono a preservare o a mantenere la forma, l’organizzazione o lo stato dato del sistema. La morfogenesi si
riferisce a quei processi che tendono ad elaborare, oppure a mutare, la forma, la struttura o lo stato dato del
Capitolo V
155
delle organizzazioni produttive ciò significa nuova dislocazione del sapere e, quindi,
del potere relativo allo sfalsamento tra regole ed eventi dovuto alla riduzione dei
“cicli di vita” dei prodotti. In questo spazio si verificano le possibili lotte di potere16,
ma si esprime, anche, la creatività “diffusa”. L’innovazione impone l’integrazione
verticale ed orizzontale, misurabile utilizzando come indicatore il “tempo di
attraversamento”. L’integrazione delle situazioni e dei modelli di regolazione
manageriale trovano riscontro nel decentramento della globalità gestionale. Ogni
decisione locale può essere presa in un’ottica generale. Tale processo non è indolore,
perché destabilizza i rapporti tra sapere e potere del sistema aziendale. La possibilità
di controllo professionale e sociale, che la riproduzione dei rapporti capitalistici
presuppone17, aumenta ad ogni livello e mette in luce il rapporto tra espropriazione
formale ed espropriazione reale. La realtà bolognese sembra incarnare, storicamente,
questi principi, che emergono ciclicamente, in un dato periodo storico, a seconda del
grado di consapevolezza consentita dalle relazioni dominanti.
Il compito strategico di ogni processo di progettazione non è tanto il problem
18
solving , quanto il problem setting, il quale pre-struttura il quadro delle possibilità di
soluzione, cioè il problem solving vero e proprio (Studio Giano 1992, p.55). In una
ricerca dello Studio Giano (1992) i concetti di formale e informale risultano
insufficienti per comprendere tale fenomeno. Ciò è spiegato dal fatto che
l’organizzazione indagata genera regole in modo autonomo dal formale e
dall’informale. L’esperienza19 quotidiana realizza interazioni, significati, linguaggi e
forme, connesse ad eventi non prevedibili che diventano regole. L’organizzazione
del lavoro si autoriproduce e si autocrea, trasformando la realtà fisica e simbolica in
sistema. I processi omeostatici negli organismi, e quelli rituali nei sistemi socioculturali, sono esempi di
morfostasi; l’evoluzione biologica, l’apprendimento, e lo sviluppo della società sono esempi di morfogenesi”.
16
Confronta con Crozier in 1.4 a p.10, 12.
17
Al riguardo, risulta interessante, a mio parere, il confronto con le attuali linee manageriali descritte nel
paragrafo 5.4.3 a p.195, ad esempio nell’intervista a Cook della Raychem Corporation.
18
Problem solving: risoluzione dei problemi; problem setting: collocazione, impostazione, contestualizzazione
dei problemi.
19
Esperienza deriva, etimologicamente da tentare, provare e penetrare, muoversi attraverso. La cognizione stessa
ottenuta mediante l’osservazione e lo studio. Corso o serie di atti mediante i quali si acquista la conoscenza di
cose particolari. La stessa radice riguarda esperto, perito, esperire. Derivazione simile ha, invece, il termine
Il problem
setting
Capitolo V
156
una nuova realtà. In questa dinamica di cambiamento, l’organizzazione evolve per
rispondere, in tempo reale, alle sollecitazioni del processo produttivo. Questa ricerca
(Studio Giano 1992, p.143) sembra indicare parecchi segnali di espropriazione e
razionalizzazione delle esperienze e delle conoscenze dei lavoratori, in contesti
tecnologici molto diversi. La conoscenza resta un oggetto di difficile produzione e
trasferimento, ma fondamentale sia per i lavoratori che per l’impresa. Fra tecnologia
Cooperazion
ee
coalizione
e “forza lavoro” vi sono due sotto-spazi sociali: la cooperazione e la coalizione. La
cooperazione è trasmissione in circuito dell’insieme di informazioni eccedenti la
quota incorporata nella tecnologia. Essa si esprime in due maniere: formale ed
informale, entrambe finalizzate ad un momento produttivo. Nell’insieme sociale
costituito da chi coopera viaggia un numero di informazioni molto maggiore di
quelle finalizzate alla produzione. Questo, lo abbiamo già visto, è anche il
presupposto della coalizione, ossia la trasmissione di informazioni, all’interno dello
spazio produttivo, tra componenti della “forza lavoro”, come gruppo sociale
autonomo, avente motivazioni e fini esterni o antitetici al processo produttivo.
Cooperazione e coalizione sono strettamente interdipendenti, pur fondandosi su basi
diverse: se la rigidità del comando riduce la cooperazione consapevole, cresce la
cooperazione anti-produttiva, che diventa coalizione (Studio Giano 1992). Per il
MET (1988) questa definizione rimanda ad una “forza lavoro” solidamente statica,
mentre, invece, essendo prodotta da processi sociali viventi, essa è provvisoria e
indeterminata. La convinzione, tuttavia, è che, nell’organizzazione reale, i rapporti di
coalizione siano un elemento virtuale tra evento e struttura.
Organizza
zione e
oggettiviz
-
L’organizzazione produttiva, come altre istituzioni, è un’oggettivazione di
processi sociali passati e presenti. Essa aliena gli esseri viventi di contenuto e senso,
perché richiede prestazioni impersonali. Nello stesso tempo fornisce identità e,
zazione di
quindi, sistemi di azione e strategie che la strutturano. Fra la cooperazione
giapponese, totalmente subalterna all’identità aziendale, e quella informale, che si
oppone al cambiamento o difende piccole aree di discrezionalità, vi è un’infinita
pratico, sinonimo di perito, di esperto, di dotto (dai quali si distingue per la maggiore concretezza). Il pratico
Capitolo V
157
gamma di variazioni. La cooperazione risulta, perciò, uno strumento parziale di
conoscenza e di progettazione organizzativa. Il mercato renderà sempre più
necessaria la capacità e la possibilità di strutture di gruppo autogestite, in cui si
discutano le regole dello scambio sociale tra formale ed informale. L’instabilità
derivata sarà sempre soggetta alla doppia valutazione sociale e di mercato. Una
simile struttura è supportata dalla dinamica informale, capace di organizzazione
virtuale, e dalle regole di scambio. Eventuali carenze provocano diverse situazioni
con diversi gradi di identificazione: anomia, resistenza, ecc. L’organizzazione
aziendale molto informale a forte professionalità, riesce a gestire la complessità,
anche se con costi e sprechi molto elevati. Il mercato delle macchine automatiche lo
ha sempre considerato un prezzo poco rilevante, in proporzione al gap20 tecnologico
compensato, rispetto alla concorrenza e al pieno accoglimento delle proprie esigenze.
Lo scambio informativo fra tecnici, clienti e fornitori rende, in breve, l’innovazione
un patrimonio comune, che determina una sorta di economia “di scala” di comparto
(Melotti 1998, p.13).
5.4.2.2 – Descrizione delle ricerche precedenti
Il tempo di lavorazione è nella maggioranza dei casi soltanto il 10-15% del
tempo di permanenza del prodotto in officina. Un aumento della produttività nelle
lavorazioni
è
quasi
ininfluente
ai
fini
della
riduzione
del
“tempo
di
attraversamento”21, se confrontato alla razionalizzazione organizzativa del flusso
produttivo (Marchisio 1990, p.20). Per questo la “giapponesizzazione” ha trovato
spazio anche nel nostro modello. Rieser e Rossotto evidenziano tre fattori
“dell’eccellenza” giapponese e le relative modalità locali di utilizzazione (Rieser e
Rossotto 1988). Il primo è la mobilità interna, ne sono un esempio: le iniziative
contrattuali più avanzate che hanno riguardato la Pai-Demm, dove la mobilità dei
lavoratori copre aree di prodotto diverse; l’Arcotronics, in cui dai gruppi di lavoro si
conosce più intimamente; il perito conosce, l’esperto giudica, il dotto crea ordine, dispone.
20
Lacuna, salto.
21
Per la definizione di “tempo di attraversamento” si veda la nota 13 in 5.4.2.1 a p.152.
La
giappon
e-
Capitolo V
158
è passati ad itinerari di mobilità verso aree più qualificate; la Biotec, dove dal lavoro
di gruppo nelle singole fasi si è andati verso una “polivalenza globale”,
comprendente l’intero ciclo produttivo. Il secondo fattore è il “just in time”, che è
stato tradotto come riduzione dei “tempi di attraversamento”. Il “gruppo di lavoro” è
centrale nell’autoregolazione della programmazione e della gestione del flusso
produttivo. Per questo all’interno dell’organizzazione ci devono essere polivalenza,
mobilità e crescita professionale. Il terzo è il controllo della “qualità”: secondo
l’affermata logica di “scaricamento dei problemi”, si sono responsabilizzati
maggiormente i subfornitori. Nelle aziende la “qualità” è interpretata come immagine
e coinvolgimento consensuale, spesso intrecciato con ulteriori divisioni del lavoro.
All’Italgel, risultata all’avanguardia, i gruppi di progetto sono interfunzionali,
temporanei e agiscono in aree impiegatizie scoperte dal controllo sindacale. I “circoli
di qualità” non bastano a modificare la logica organizzativa preesistente. La “qualità”
si presta sia ad un controllo gerarchico più stretto, sia ad un allargamento della
professionalità dei singoli lavoratori. Sarebbe semplicistico etichettare la resistenza e
la diffidenza dei lavoratori come “arretratezza culturale”. Per Melotti (1998, p.8) è
preoccupante l’applicazione di principi estranei al modello socioculturale del nostro
Estraneità
territorio, soprattutto per quel che riguarda i caratteri del management. Il mondo del
lavoro, che detiene buona parte delle conoscenze necessarie alle decisioni, non è
rappresentato a nessun livello e non partecipa alle scelte: si decide senza un’adeguata
conoscenza della realtà. Ciò è riscontrabile in molti corsi di formazione che si
occupano di “qualità” e leadership. La dimensione medio-piccola agevola la
contrattazione, anche di materie come queste. In ultimo, si rileva l’isolamento in cui
le esperienze citate si sono collocate nel panorama nazionale.
Proletari
zzazione
In una ricerca-intervento della FIOM-CGIL di Bologna del novembre 1989, si
ipotizza una “proletarizzazione” dei lavoratori, causata dall’uso dell’informatica
nelle fabbriche. Si riscontra la dicotomizzazione del lavoro impiegatizio tra ruoli
creativi, altamente specializzati, e ruoli esecutivi, a scarso contenuto professionale e
con ridotte possibilità di carriera. L’indagine non dice, però, che mansioni
dequalificate erano presenti da prima dell’introduzione dell’informatica. Le
Capitolo V
159
possibilità dei nuovi mezzi tecnologici possono determinare aspettative di
miglioramento qualitativo del proprio lavoro, poi sistematicamente insoddisfatte. Si
rileva, viceversa, la riduzione delle mansioni più ripetitive, faticose e mal retribuite,
del lavoro operaio, con una maggiore richiesta di personale qualificato per ruoli
professionalmente più consistenti. La “stupidità” della macchina si presta
maggiormente ad un’automazione dei movimenti fisici. Essa non è attrezzata, per
ora, a rimpiazzare i movimenti mentali, per quanto semplici essi siano. Emerge una
“sdifferenziazione” delle condizioni del lavoro manuale e intellettuale, nella
crescente permeabilità tra cultura di fabbrica operaia e impiegatizia. Questa
convergenza non si presenta nel modello “artigianale” dove la burocrazia e la
differenziazione tra ruoli sono praticamente nulle.
Una ricerca dello Studio Giano (1992, p.143) effettua un’analisi del lavoro
mediante tre coppie concettuali che lo
definiscono:
esecutivo/normativo,
creativo/libero, interattivo/cooperativo. Per una loro migliore comprensione viene
usata la metafora del chiodo. Esso è utilizzato, normalmente, per unire due elementi.
La
metafora
del
In un contesto esecutivo rigido il chiodo è usato solo per la sua funzione intrinseca.
In un contesto flessibile lo stesso chiodo può essere adoperato anche per altri usi: ad
esempio, se esso viene ritorto, può diventare un anello per sostenere o appendere. La
creatività si esprime con la libertà d’uso, la conoscenza e la discrezionalità di
intervento sull’oggetto. La progettazione può essere una modalità inconsapevole e,
perciò, non diviene metodo o descrizione. Tornando al chiodo appendi oggetti: se
servisse a più di una persona avverrebbe che, mediante l’interazione, il suo nuovo
impiego potrebbe diffondersi ed entrare nel processo produttivo per migliorarlo. La
libertà collettiva e individuale è basilare per la creatività “intesa come capacità di
individuare il problema e la sua soluzione, capacità di apprendere ad apprendere e
capacità di formare gli altri” (Marchisio 1990, p.78). Le interviste danno, su un
piano culturale, un’immagine di formazione aziendale molto differenziata, o assente.
Solo una piccola quota di intervistati (6 su 200) ha potuto usufruire della diffusione
di conoscenze, la cui dinamica sembra, peraltro, avere un valore di carattere più
generale.
Libertà e
creatività
Capitolo V
160
In una ricerca sulla contrattazione aziendale dal ’68 ad oggi (Melotti 1998,
I contratti
p.21) si evidenzia che dal’78 le piattaforme interne firmate hanno riguardato i
“gruppi di lavoro” (es. GD, SASIB, Arcoplessey) e la riduzione di orario (nelle
aziende che volevano il doppio turno di lavoro). Questi accordi non hanno incrinato
le condizioni salariali e normative, superiori al resto del Paese e hanno permesso
ugualmente lo sviluppo. Per dare un’idea dell’innovazione contenuta in tali accordi
basti pensare al clamore politico suscitato dal dibattito odierno sulle “35 ore”, quasi
vent’anni dopo. Del resto, la conferma viene dai dati22 nazionali relativi agli anni
successivi, i quali sembrerebbero giustificare l’adozione di tale provvedimento.
Uno studio più approfondito dei contratti appena citati è quello di Marchisio
(1990). Relativamente all’organizzazione del lavoro gli accordi vengono classificati
in quattro tipologie: accordi di principio (2 casi), accordi cornice (3 casi), accordi
quadro (6 casi) e accordi di progetto (5 casi). Più specificatamente, i contratti
analizzati riguardano 15 aziende in un periodo che va dal novembre 1987 al maggio
1989. Vengono distinti: accordi che non fanno riferimento all’organizzazione a
gruppi (1 caso), accordi che ne prevedono genericamente la sperimentazione in
alcune situazioni (3 casi), accordi che ne indicano in modo più specifico modalità e
condizioni di avviamento (2 casi), esperienze di concreto avviamento (5 casi).
Nell’accordo GD, per esempio, si esprime, soprattutto, l’importanza della
circolazione delle informazioni e dei seminari interni di approfondimento
tecnologico. Nel caso Acma si riconosce la creazione implicita di gruppi informali,
indispensabili alla correttezza dell’esecuzione del lavoro, prefigurando un loro
allargamento a tutta l’impresa. La trasparenza di tali gruppi si presta alla delega di
potere per gestire i tempi di consegna (“tempi di attraversamento”) come propria
responsabilità. In altre 10 aziende, oltre alle precedenti, sono state istituite delle
22
“Dall’89 al ’95 il valore aggiunto per dipendente non aumenta molto (+16,5% in ECU, +56,2% in £) contro il
+34,8% dell’aggregato europeo – ma è sempre più del doppio del costo del lavoro che, nello stesso periodo,
cresce appena del 7% contro il +36,3% dell’Europa.” Da “La stampa” 19 luglio 1997.
“Secondo l’OCSE l’Italia lavora meno e produce di più” Da un grafico allegato si apprende che l’Italia è al terzo
posto per il minor numero di ore lavorate e al secondo per il PIL prodotto in un’ora lavorativa. Fonte “La
Repubblica” 18 ottobre 1997.
Capitolo V
161
commissioni tecniche bilaterali per la progettazione congiunta azienda-sindacato
dell’organizzazione del lavoro. Nello stesso periodo contrattuale, in più di 100
imprese si è ottenuto un allargamento dei diritti all’informazione ad un numero di
addetti superiore a quello previsto dal contratto nazionale. In circa 85 di queste si
sono realizzate delle vere e proprie procedure di divulgazione, solo in 30 casi
generiche. In 50 casi le informazioni dovranno anticipare l’innovazione tecnologica,
in 16 casi alla progettazione, in 15 casi dovranno essere chiare anche ai non esperti,
in 25 casi potranno prevedere approfondimenti tecnici. In 20 casi alle commissioni
bilaterali potranno partecipare anche i non delegati sindacali e tecnici esterni proposti
dal sindacato (9 casi). In 28 accordi c’è la possibilità di una proposta sindacale, a
conclusione della procedura d’informazione e nove prevedono il diritto ad una
trattativa precedente alla procedura. Più in dettaglio, nell’accordo della Giuliani si
può leggere che:
“eventuali diversi modelli organizzativi dovranno assicurare risultati di
produttività e di qualità nell’ambito di una costante ricerca di maggiore
competitività dei prodotti aziendali e al contempo perseguire una maggiore
professionalità dei lavoratori e migliorarne le condizioni di lavoro”.
Nell’accordo IMA le definizioni sono più sfumate:
“dare a tutti i lavoratori il massimo di opportunità di sviluppo
professionale; permettere una reale circolazione delle informazioni;
permettere un’integrazione tra le varie funzioni aziendali; migliorare la
qualità del lavoro e delle condizioni di lavoro”.
L’accordo SASIB è più circostanziato e afferma che:
“gli obiettivi che si prefigge il gruppo di lavoro sono: l’ottimizzazione del
funzionamento del sistema, la flessibilità, la qualità e il tempo di reazione ai
problemi; la socializzazione delle conoscenze, una crescita professionale
individuale e collettiva da perseguire favorendo le autonomie professionali.
Nell’attività del gruppo verrà favorita l’integrazione tra i diversi ruoli al fine
di garantire gli obiettivi, l’ampliamento delle conoscenze, il raggiungimento di
buoni livelli di autonomia”.
“A fronte degli incrementi di fatturato e di produttività, nella grande industria e nei servizi anche nel 1997 cala
Capitolo V
162
Gli accordi sulla formazione si differenziano rispetto: al diritto di co-decidere i
contenuti del corso, alla platea di utenti e ai criteri di partecipazione (funzionale o
ridondante). I corsi sono previsti in orario di lavoro. Nell’accordo GD si specifica
che gli argomenti trattati saranno finalizzati a concrete esigenze riscontrabili nei
reparti, per consentire ai fruitori un’immediata applicazione e verifica delle cose
apprese. I temi dovranno rispondere al controllo dell’evoluzione tecnologica e alle
esigenze di aggiornamento e sviluppo professionale dei singoli lavoratori. Alla
MecTrack è previsto un affiancamento di “addetti” ai vari operatori e
un’informazione ai gruppi che risponda a criteri di integrazione, anziché per fasi di
lavorazione.
Potere
Un altro dato importante è il potere d’acquisto (Melotti 1998, p.39): dal ’75 al
d’acquist
o
’95 è cresciuto, mediamente, del 4,27% nelle categorie più basse (3° livello), mentre
in quelle più alte (6° livello) c’è stato un calo del 20%. Bisogna dire che, nel
comparto, i livelli inferiori sono molto diminuiti numericamente; sono aumentati,
invece, sia quelli molto qualificati sia quelli più dequalificati o atipici
(decentramento). Alle perdite di potere d’acquisto dei livelli più alti è corrisposto,
però, un aumento dei “super minimi” individuali, gestiti unilateralmente dalle
aziende in rapporto diretto con il singolo. La differenza di salario tende, comunque,
ad appiattirsi. Lo stesso settore in Germania, nostro maggior concorrente, presenta
salari maggiori del 40%; certo, con un costo della vita più alto, ma anche con un altro
tenore di servizi sociali. Le imprese tedesche restano competitive anche con norme e
trattamenti economici più onerosi dei nostri; così come il comparto bolognese ha
permesso salari più alti che in altri settori produttivi italiani, senza essere in
contraddizione con lo sviluppo economico, anche in periodi di recessione.
Un altro confronto interessante, nella stessa ricerca, è quello tra i vari contratti
aziendali e nazionali. Emerge una disparità notevole di trattamento che conferma che
il salario dipende più dal luogo di lavoro che dai contenuti professionali. Nelle
industrie metalmeccaniche bolognesi, per esempio, c’è differenza tra imprese con
l’occupazione (-2,6% e –2,3% rispettivamente”. Da “Il sole-24 ore” 23 gennaio 1998.
Capitolo V
163
contratto aziendale e quelle senza. Più evidente è il divario tra un operaio artigiano
tessile (22 milioni l’anno) e uno, di pari qualifica e livello, nel settore aeroportuale
(44 milioni).
Molte imprese lamentano la carenza di manodopera specializzata e si sono
attrezzate con proprie “scuole aziendali” per formare operai e tecnici. La scuola non
Scuole
aziendali
può fornire una preparazione al passo con l’evoluzione tecnologica. L’addestramento
può avvenire solo direttamente nei luoghi di lavoro. Sembra che la mitica figura del
“cinno di bottega” riemerga dalla storia per ritrovare la sua collocazione, riveduta e
corretta alla luce dei tempi. La professionalità è strategica, ma comporta impegno,
stress e un tempo di formazione necessario a fare esperienza. Il tutto non è
ricompensato dal reddito offerto, perciò s’inseguono situazioni migliori. L’incertezza
occupazionale rafforza la fuga dalla fabbrica. Questa situazione denota carenze del
sistema formativo, problemi remunerativi e di collocazione sociale. Si pensi al caso
degli infermieri di una decina di anni fa: la loro mancanza negli ospedali è stata
compensata, in breve tempo, mediante l’adeguamento dei salari, secondo il più
tradizionale principio di domanda e offerta. Gli anni ’80 segnano la crisi degli Istituti
tecnici e professionali. Il lavoro in fabbrica è considerato di tipo residuale e si
preferiscono le attività di servizio. Adair Turner23, leader della “Confederation of
British Industry”, afferma, suscitando non poco scalpore, che i salari dei lavoratori
vanno aumentati al di sopra del tasso di inflazione, ribaltando l’equazione ritenuta
valida fino ad oggi. “Il vecchio legame tra salari e inflazione si è rotto”, le aziende si
possono permettere, adesso, di pagare di più del costo della vita, perché la forza
lavoro è diventata “più efficiente, flessibile e innovatrice”. Il giovane imprenditore è
andato oltre, sostenendo che i dipendenti devono partecipare al successo
dell’impresa, tesi cara al leader laburista Blair nel dibattito fra stakeholders e
shareholders24.
Le piattaforme aziendali dei metalmeccanici bolognesi del periodo ‘87-’90
(Melotti 1998, p.7) presentano una strategia molto innovativa: la codeterminazione,
23
Fonte: “L’Unità” 27 gennaio 1996.
La
coodeterminazione
Capitolo V
164
proposta che anticipa i congressi nazionali Fiom e CGIL del ’91 e anche le imprese.
C’è la necessità di adottare nuovi modelli gestionali, coerenti con gli obiettivi
produttivi. Si propone uno scambio tra consenso e partecipazione da una parte, e
principi organizzativi e regole contrattuali dall’altra. Vengono firmati molti accordi,
la cui gestione rimane lettera morta. Le imprese contrarie hanno buon gioco per le
strategie adottate a livello nazionale: il sindacato bolognese rimane isolato. Questo
tipo di relazioni presuppone, probabilmente, un livello di democrazia industriale
estraneo alla cultura di entrambe le parti. C’è ambivalenza fra la tendenza ad
uniformarsi al contesto nazionale o, addirittura, globale, ritenendolo più sicuro, e
l’interesse a coltivare quel prezioso ambito di relazioni maturate storicamente sul
territorio. Questo tipo di relazioni richiede un’attenzione continua. Ci vuole
disponibilità e tolleranza nei confronti di un equilibrio dinamico molto diverso
dall’ambita stabilità dei sistemi tradizionali. Questi evolvono a balzi, spesso
traumatici. Forse c’è la paura di essere gli unici a pagare, o di pagare un prezzo
troppo alto per l’elevato grado di sviluppo raggiunto. La mancata gestione di quegli
accordi segnala una carenza culturale che ha impedito l’adeguamento degli attori
sociali.
Da alcune aziende provengono segnali diversi. E’ il caso dell’IMA di Ozzano
Emilia, 860 dipendenti in Italia (la maggioranza professionalizzati e tecnici) e 180
nelle filiali estere. L’IMA nel ’95 ha superato i 300 miliardi di fatturato; erano 280
del ’94. Il 93% della sua produzione (impacchettamento del tea, profumi, medicinali
e generi alimentari) è venduta all’estero. Il 7% del fatturato è investito in ricerca, “la
nostra ricchezza più importante insieme alle risorse umane”, dice Daniele Vacchi,
responsabile del settore “Immagine e comunicazione”. La finanziaria di famiglia, la
FinVacchi, gestisce il 51% del gruppo che è quotato in borsa dal ‘95. Nel 199625
all’IMA si è firmato un accordo che riconosce al lavoratore tre livelli “ombra” di
professionalità: certificazione, gestione e integrazione. Quest’accordo, veramente
innovativo, prevede il diritto del lavoratore di chiedere di essere valutato
24
Il dibattito contrappone chi vorrebbe i dipendenti simili a soci sostenitori e chi li vorrebbe come azionisti.
Capitolo V
165
dall’azienda, eventualmente assistito dal sindacato. L’azienda ha il dovere di
rispondere per iscritto. Ai livelli di valutazione corrispondono tre parametri di
moltiplicazione del salario (per un massimo di 300.000 lire al 5° livello “super”). La
verifica potrà avvenire ogni due anni. Il riconoscimento raggiunto sarà sempre
mantenuto in busta paga e riparametrato, nel caso di passaggi di categoria
tradizionali. C’è, inoltre, un quarto livello “ombra”: la capacità di “trasferimento
delle competenze” che è alla base della formazione “sul campo”. Per ogni mese in
cui il lavoratore svolge questo compito aggiuntivo gli viene riconosciuto un premio
di 150.000 lire. La valutazione premia il lavoratore autonomo, creativo, capace di
fare e insegnare, abile nel lavorare in gruppo. Sono tutti elementi finora impliciti nel
comportamento di molti lavoratori, utilizzati, ma non formalmente riconosciuti dalle
imprese. “Con questo accordo - dice Daniele Vacchi - si vuole generare una
maggiore consapevolezza degli obiettivi aziendali”. Da parte sindacale, Gianguido
Naldi, segretario della FIOM-CGIL, rileva la distribuzione di competenze e la
restrizione delle gerarchie burocratiche. “Se ben gestito potrà innescare una crescita
culturale di tutta l’azienda”, gli fa eco Francesco Longo, direttore del personale. Lo
stesso Longo, alla domanda se l’accordo piacerà agli altri industriali, risponde che il
contratto nazionale ha caratteri universali, ma ogni azienda ha le sue particolarità.
Queste lo portano a credere che per l’IMA sia un accordo vantaggioso, perché non
c’è “catena di montaggio” e l’operaio deve essere capace di risolvere da solo i
problemi.
5.4.2.3 – Una ricerca specifica sull’argomento26
In questa ricerca risulta che l’organizzazione del lavoro delle imprese studiate è
caratterizzata da relazioni informali e da professionalità polivalenti (Bartolozzi e
Garibaldo 1995). L’integrazione si fonda sull’informalità, sullo scambio e sulla
25
Fonte: L’Unità _ mattina 28 gennaio 1996
L’intero sottoparagrafo fa riferimento a: Bartolozzi P. e Garibaldo F. (a cura di), 1995, Lavoro creativo e
impresa efficiente. Ricerca sulle piccole e medie imprese, Roma, Ediesse. Indagine su 296 interviste, 112 casi
aziendali distribuiti in sei province dell’Emilia Romagna e quattro settori produttivi. Hanno contribuito: Baldoni,
26
L’informalità
Capitolo V
166
fiducia. L’organizzazione tollera solamente l’informalità che le garantisce
l’adattamento agli imprevisti, malgrado essa sia sempre vista come “disturbo”.
L’informalità è efficace, perché è cooperazione autoregolata tra i soggetti della
produzione. Essa riduce l’incertezza derivante dalla “razionalità limitata” (Simon
1967), la quale induce ad accontentarsi della sufficienza. L’informalità presenta
obblighi impliciti, fondati su valori e obiettivi condivisi, che sfociano in
un’autonomia operativa con specifiche capacità di risolvere problemi e
contraddizioni. Non è tanto la vicinanza dell’imprenditore o lo “spirito comunitario”
ad indurre relazioni di questo tipo, quanto un’organizzazione “particolare”. Questa
particolarità risiede nella regolazione congiunta mediante negoziazione: è una
strategia cooperativa che riduce l’incertezza dell’ambiente ed assicura flessibilità.
L’informalità consente un pronto intervento per gestire imprevisti e “varianze”
(Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.236). Un coordinamento del genere, è un “mutuo
adattamento” che non è frutto della spontaneità, ma è una costruzione storica che può
essere negoziata. L’informalità è connessa alla polivalenza delle mansioni. Ciò
consente intercambiabilità, flessibilità e mobilità. Nello stesso tempo, la polivalenza,
in misura variabile nelle diverse situazioni, è rapida crescita professionale, minore
ripetitività, maggiore conoscenza del ciclo produttivo, relazioni sociali più ricche e
diversificate. Un simile concetto d’intercambiabilità è molto differente da quello
“tayloristico”, perché il lavoratore è considerato un “capitale”, investito in
addestramento. Nelle industrie metalmeccaniche studiate ciò è ancor più vero, perché
la polivalenza comporta l’integrazione di percorsi cognitivi diversi, ad esempio nelle
interazioni tra progettazione, montaggio e manutenzione. Per il lavoratore
“coinvolgimento” significa possibilità di “metterci del suo”, disponibilità
all’apprendimento, continuo scambio d’informazioni e capacità di percezione
dell’utilità del proprio contributo all’obiettivo comune.
La vicinanza del titolare alla produzione è una peculiarità e un punto di forza
della piccola impresa. La struttura gerarchica è debole. Le comunicazioni e la
Bellini, Bertini, Brusco, Capecchi, Diazzi, Dubini, Fiorani, Franchi, La Rosa, Lugli, Maraffa, Piccinini, Rau,
Capitolo V
167
trasmissione d’informazioni sono fluide e costanti. La consuetudine di valutare e
discutere “tutti insieme” scelte, risultati e necessità, è descritta come esigenza
Fare
insieme
organizzativa e fatto naturale (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.97). Le imprese con
spiccata
connotazione
familiare
mostrano
la
tendenza
all’autosufficienza,
distribuendo i compiti tra i membri della famiglia. La linea di successione risponde a
logiche di “terziarizzazione” interna: la divisione del lavoro avviene in base al sesso,
in funzione del settore di appartenenza. Il confronto tra imprese del settore
Divisione
del
lavoro
metalmeccanico e dell'abbigliamento mostra una specularità: nelle prime i ruoli
tecnici, produttivi e commerciali sono prettamente maschili, mentre le femmine si
occupano di amministrazione; nell’abbigliamento, invece, le parti s’invertono.
Tra dimensione e anno di nascita dell’impresa c’è una relazione diretta
(Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.25): il 50% del campione è posteriore al 1975 e solo
il 5% è anteriore al 1950; nessuna impresa con meno di 10 dipendenti nasce prima
del 1950 e nessuna con oltre 100 addetti dopo il 1980. La crescita è lenta: occorre un
ventennio per superare i 100 dipendenti. Un numero consistente di aziende, pur
nascendo prima del 1970, resta abbondantemente al di sotto di tale soglia. La
variabile settoriale è considerata ininfluente in questa crescita “frenata”27.
Si può parlare di modello regionale che si caratterizza per la diffusione di
forme associative, essenziali per l’orientamento e la regolazione del conflitto sociale,
Le
associazio
ni
in particolare nelle imprese. Oltre l’80% delle piccole imprese indagate è affiliata ad
un’associazione di categoria e in più dell’88% dei casi vi è una rappresentanza
sindacale.
Nelle imprese metalmeccaniche i radicali mutamenti organizzativi in relazione
alle dimensioni hanno una soglia inferiore a quella di altri settori (Bartolozzi e
Garibaldo 1995, p.117). La differenza più rilevante è tra aziende che operano in
“conto proprio” e in “conto terzi”: nelle prime l’organizzazione si formalizza quando
raggiunge i 20 dipendenti circa; le altre molto dopo. Il funzionamento delle piccole
Rebecchi, Rieser, Rubini, Tugnoli, Verzeletti.
27
Atteggiamento imprenditoriale di “non superamento” di certe soglie dimensionali, non legato alla tecnologica o
al mercato, ma al controllo.
Conto
proprio e
conto terzi
Capitolo V
168
imprese è comprensibile solo nella “rete” in cui sono inserite. La crescita si
accompagna all’intensificarsi degli intrecci con l’esterno: decentramento, servizi e
collaborazioni interaziendali, supportate da reciproca fiducia, informalità e
consuetudine, tipiche di relazioni comunitarie. I gruppi industriali sono esclusi,
perché hanno intrecci societari formalizzati.
Gli orientamenti
Gli orientamenti aziendali più recenti sono: l’allargamento della “rete” di
relazioni e la ricerca di cooperazione formale tra imprese simili o complementari.
Nelle imprese con 20/100 addetti si può ipotizzare una razionalizzazione, come
risposta alla crescente complessità delle informazioni, che evita la crescita
dimensionale (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.128). Questo contrasta con una cultura
d’impresa proiettata su rappresentazioni di sé, e del proprio ruolo, di tipo
comunitario. I processi reali sono più rapidi dell’adeguamento culturale. La
trasformazione è ostacolata dall’identità proprietà-management che si oppone alla
formalizzazione e al decentramento del potere verso figure autonome. I modelli
organizzativi di grandi e piccole imprese si avvicinano senza omologarsi. La
razionalizzazione si correla ad ipotesi di evoluzione del rapporto con il mercato;
spesso si accompagna al passaggio da produzione in “conto terzi” a produzione “in
proprio”. In altri termini: si pensano nuovi prodotti, si trasforma l’assetto giuridico
da forme semplici a forme più complesse, si investe maggiormente in risorse
strategiche. Questi cambiamenti si abbinano a significativi mutamenti organizzativi.
La crescita dimensionale e del fatturato sono un passaggio successivo.
Il settore
metalmeccanico
Il settore metalmeccanico è quello più rappresentato (oltre il 50% del
campione) e mostra un numero di dirigenti ed impiegati proporzionalmente maggiore
agli altri settori. La composizione della struttura occupazionale risulta sensibile alla
dimensione aziendale: quando l’imprenditore non può più assorbire tutte le funzioni,
a causa della complessità, aumentano le figure dirigenziali. Oltre i 100 addetti,
tuttavia, vi è un’inversione di tendenza dovuta, probabilmente, ad una maggiore
razionalizzazione dei ruoli (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.31). Gli apprendisti sono
presenti solo nelle imprese con meno di 10 dipendenti. Le aziende che hanno
perseguito una politica di sostanziali mutamenti della gamma produttiva hanno avuto
Capitolo V
169
un incremento occupazionale del 59%. Le aziende “contoterziste”, viceversa,
registrano un decremento occupazionale del 6,4%. La “rete” di subfornitura assorbe
le discontinuità del mercato, permettendo alle imprese che vi si trovano di non
pagarne il prezzo. L’85% delle imprese intervistate in questa ricerca ha persistito
nello stesso segmento produttivo in cui è nato (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.28).
Questo dato può nascondere, però, situazioni diverse: dalle aziende che perseguono
l’innovazione continua ed incrementale del prodotto, a quelle che perseguono
l’innovazione radicale delle strategie di vendita. Solo il 4% dell’aggregato ha
approntato sostanziali cambiamenti alla gamma produttiva, mentre l’11% si è
limitato alla diversificazione. Le variabili dimensionali e settoriali non sembrano
avere influenza significativa neanche in questo caso.
La flessibilità del sistema produttivo è favorita dalla “terziarizzazione”, che
funge da volano protetto ed economico. L’indice di “terziarizzazione implicita”
misura il rapporto percentuale, sul totale dell’organico, dei lavoratori indiretti
occupati in funzioni aziendali terziarie di controllo, gestione, progettazione,
marketing, ecc. (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.33-37). Il peso di tale quota è
ritenuto indizio di crescita delle funzioni produttive interne e dei processi di
trasformazione manifatturiera. Corrisponde, in sostanza, ad una complessificazione
delle strategie aziendali. Nel periodo 1986-1991 questo indice, nel gruppo di imprese
osservate, ha registrato un incremento del 4% (dal 29% al 33%). Il settore
metalmeccanico, in particolare, è al primo posto con il 36%. La variabile
dimensionale evidenzia una caduta della crescita se si superano i 100 addetti.
L’analisi funzionale e organizzativa indica uno “schiacciamento” verso funzioni
tradizionali (amministrazione e produzione). L’area di progettazione è presente in
quasi 2/3 delle imprese, mentre solo poco più del 50% ha funzioni di controllo
“qualità” e gestione del personale. Sorprende che il 75% delle aziende con meno di
10 dipendenti le abbia tutte e tre. Certo non si tratta di una dotazione strutturata,
bensì di una proiezione dell’imprenditore-fondatore che implementa tali funzioni e
resiste alla delega di ruoli direttivi. La centralità di questa figura può far capire la
limitata crescita dimensionale del sistema manifatturiero regionale e il notevole
Terziariz
zazione
Capitolo V
170
sviluppo dei servizi all’impresa (pubblici, privati e di categoria) nell’ultimo
decennio. L’indice di accentramento organizzativo, infatti, risulta medio-alto, anche
se c’è un nucleo di imprese con meno di 10 addetti che ha un indice basso.
Fare o
comprare
Le aziende con produzione propria e maggiori dimensioni si pongono il quesito
se sia più conveniente fare/innovare o comprare (Bartolozzi e Garibaldo 1995,
p.210). Le articolazioni possibili producono una mappa assai diversificata
dell’innovazione tecnologica all’interno dell’azienda. Ci sarà, ad esempio, chi punta
sul decentramento, perché non ha moderne tecnologie di processo, pur avendo
introdotto il CAD in tutta la progettazione, e chi costruisce il suo vantaggio sul
prodotto, grazie alle sofisticate tecnologie con cui lo realizza internamente. La
visione “globale” è una costante del campione: meno centrata sulla produzione, essa
ha frequenti sviluppi di articolazioni interno-esterno, ed un sistema informativo
sempre più rapido e potente. Qui si misura il superamento del modello, per così dire,
“artigianale”, anche rispetto ad imprese di dimensioni relativamente piccole. La
trasformazione non
impedisce la sopravvivenza
di
sottosistemi
aziendali
“artigianali”, ma inseriti in un sistema governato da una logica diversa.
L’indagine conferma la nascita di nuove imprese per spin-off, un processo di
Spin-off
apprendimento, fuoriuscita e nuovo avviamento28 (ciò non è avvenuto solo in sette
casi su 256). I soggetti intervistati che annoverano due o più esperienze lavorative
sono numerosissimi in tutte le fasce di istruzione. La scelta dell’attività
imprenditoriale è maturata per “vocazioni successive”, grazie al significativo
accumulo di conoscenze differenziate. La funzione aziendale esercitata è coerente
con il livello di formazione post-diploma e, soprattutto, post-laurea. C’è una
sostanziale continuità nel processo di sviluppo industriale e nella diffusione delle
conoscenze tecnologiche. La totalità delle esperienze fatte dai soggetti si è formata
all’interno del territorio, confermandone l’importanza. Le possibilità di nuovi
avviamenti imprenditoriali dipendono dall’esperienza diretta sul campo, anche se la
famiglia ha, spesso, un ruolo cruciale (continuità e crescita aziendale). Si notano due
28
Cfr. con “gemmazione” in 3.7 a p.73.
Capitolo V
171
funzioni fondamentali per lo sviluppo dell’imprenditorialità: commerciale e tecnicoprogettuale, quasi mai apprese insieme dallo stesso imprenditore. In sostanza,
Due
funzioni
l’alternativa si riassume nel “come fare” o nel “che cosa fare”, cioè che cosa chiede il
mercato o cosa gli si può vendere. Le attività nascono mediante: rilevazione
dell’azienda o di una quota azionaria da parte di dirigenti o impiegati; fuoriuscita da
un’impresa “madre” di cui si diventa subfornitori o collaboratori; individuazione di
un business grazie all’esperienza commerciale e la percezione della possibilità di
inserirsi in quel mercato; impiego deliberato del know-how specifico per creare
imitando, diversificando o integrando (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.56). Nei primi
due casi l’azienda è promotrice e garante dell’iniziativa individuale; negli altri, è il
soggetto che provvede a crearsi le condizioni necessarie. Forni afferma che si sta
verificando una brusca frenata del processo di moltiplicazione delle imprese e un
arresto della crescita della base occupazionale, pur con un volume di affari che
risulta in crescita (AAVV 1992, p.24-29). Oggi mettersi “in proprio” è più difficile
che vent’anni fa, perché la complessità ha aumentato le competenze necessarie per
farlo; ci sono, anche, difficoltà nel reperimento dei capitali che servono più che in
passato. Gli andamenti demografici, inoltre, gli atteggiamenti delle nuove
generazioni e la separazione tra proprietà e management, ostacolano la continuità
familiare che aveva contraddistinto il comparto (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.84).
La formazione scolastica degli imprenditori indica una crescita del livello di
cultura e istruzione, anche nelle aziende minori. La formazione, tuttavia, è vista
come un bisogno continuativo solo da una quota minima di imprese (Bartolozzi e
Garibaldo 1995, p.52). Il completamento degli studi rappresenta l’espletamento di un
obbligo o il raggiungimento di un obiettivo in sé. Le logiche imprenditoriali
permettono di far tesoro di ciò che è stato appreso, ma non stimolano ad apprendere
nozioni ulteriori all’esperienza operativa. L’impresa assorbe totalmente il tempo e gli
interessi dell’imprenditore: la formazione è una base di partenza, un input acquisito
che si arricchisce solo sul campo. Nelle interviste fatte in questa ricerca, si rileva che
la formazione scolastica non ha influito sulla percezione delle proprie possibilità
imprenditoriali, né sulle possibilità di operare sul mercato con successo e continuità.
La
formazion
e
Capitolo V
172
La fortissima dinamicità delle iniziative del sistema si muove per continuità, per
trasmissione diretta di conoscenze apprese sul campo e per progressi incrementali,
ma senza mai sconvolgere il contesto tecnologico e competitivo. Il fattore
formazione sembra più importante per rilevare un’azienda (anche nella successione
di tipo familiare), piuttosto che per avviarla (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.56). La
“rete” locale facilita l’inserimento di neo imprenditori, sia di quelli che hanno
acquisito un’esperienza tecnica o commerciale sul campo, sia di quelli che hanno
limitate conoscenze di settore. Il know-how specifico diffuso sul territorio consente
di ridurre i costi di apprendimento dei processi tecnologici e di conoscenza dei
mercati, favorendo la nascita di imprese. L’effetto “distretto” e la diffusione delle
conoscenze esercitata dalle imprese “storiche” locali si confermano, in quest’ottica,
molto rilevanti. Il livello di formazione imprenditoriale incide molto sulla capacità e
la flessibilità progettuale innovativa, ma non sull’organizzazione complessiva, in
genere, piuttosto debole. La conduzione delle imprese è, spesso, a carattere
La rete
locale
fortemente individualistico e ciò fa ruotare le scelte strategiche intorno alla funzione
in cui l’imprenditore detiene la massima competenza. In tutte le interviste è
impossibile dividere la sfera personale/familiare da quella aziendale. La forte
contiguità del contesto fiscale e creditizio induce ad un’ulteriore accentuazione di
modelli personalistici. Questa situazione valorizza solo la componente più
specificatamente tecnica della formazione e della cultura. I ricercatori sostengono
che un intervento su questi fattori ambientali esterni potrebbe liberare la
rivalutazione della risorsa umana e, in particolare, di quella imprenditoriale
(Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.56). La centralità delle conoscenze acquisite
suggerisce la creazione di un intreccio più stretto tra percorso scolastico (tecnico,
professionale, universitario) e mondo del lavoro. Dal 1993 una legge quadro pende
tra Camera e Senato. La regione Emilia Romagna ha ovviato all’inconveniente,
firmando protocolli con strutture scolastiche e centri di formazione professionale, per
istituire percorsi formativi che prevedano stage aziendali. Il Comune di Bologna ha
redatto un programma di riorganizzazione degli istituti di formazione che parta dalla
valutazione delle tendenze all’industrializzazione rilevabili nell’area della provincia
Capitolo V
173
bolognese. L’intento è quello di indirizzare ciò che è già sul territorio verso altri
ambiti del quotidiano, creando nuove imprese. Si cerca, anche, di invertire la
tendenza ad assumere personale con bassa scolarità, piuttosto che diplomati
(Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.85). Il problema è stimolare e sostenere nuovi
possibili sottosistemi fondati sull’innovazione del quotidiano. Il comparto in esame
ha sempre mediato tra l’alta innovazione dei centri specializzati, lontanissimi dalle
piccole imprese, e lo sviluppo del territorio. In Italia c’è stato, storicamente, solo uno
strumento di politica industriale: la sovvenzione all’impresa (Bartolozzi e Garibaldo
1995, p.216). Cultura aziendale e società civile ruotano attorno allo Stato erogatore
di risorse finanziarie. Mancano poteri e capacità di persuasione in nome di un
interesse collettivo. Si agisce solo con variazioni artificiali degli interessi economici
delle imprese: incentivi, disincentivi, sovvenzioni e sconti fiscali. L’efficacia di un
sussidio all’innovazione è subordinata ad un contesto ambientale che convinca
l’impresa ad innovare. Una politica industriale di innovazione promuove e sostiene la
ricerca, i rapporti imprese-università, i servizi alle aziende, le infrastrutture,
l’istruzione pubblica, ed è anche coerente con le politiche di concorrenza e di
concentrazione industriale.
La fragilità delle imprese “contoterziste” è evidenziata dal maggiore calo degli
investimenti (-70%) durante la crisi congiunturale nell’intero territorio nazionale
dall’89 al ’91. E’ presente, comunque, una tensione al rinnovamento organizzativo
che, complessivamente, porta all’aumento delle figure professionali impiegate nelle
attività strategiche e di supporto al processo produttivo, pur privilegiando le funzioni
più tradizionali. Sembra possibile identificare (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.39) un
gruppo di aziende che ha conseguito migliori risultati di performance produttive e
organizzative: sono imprese meccaniche che si collocano al di sopra della fascia
delle micro-imprese, producono per il mercato e si muovono con estrema prudenza,
sia rispetto alle modificazioni della gamma produttiva, sia rispetto alla loro crescita
dimensionale.
La natura “autarchica” del reperimento dei capitali di rischio può ostacolare
una spontanea evoluzione della piccola impresa verso la dimensione media. La
Il finanziamento
Capitolo V
174
struttura dei servizi finanziari della regione non è particolarmente dotata per lo
sviluppo e l’innovazione finanziaria. Il doversi affidare quasi esclusivamente
all’autofinanziamento rappresenta un forte limite e fa perdere opportunità a molte
imprese che non hanno risorse per realizzare innovazioni e imporle sul mercato
(Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.56). Sembra esistere una sorta di subalternità
psicologica degli imprenditori nei confronti delle banche, parzialmente esorcizzata
dalla scelta di istituti locali, più alla portata anche se meno innovativi nei sistemi di
credito (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.272). La mobilità professionale, interna ed
esterna al mercato del lavoro emiliano, permette, al singolo, il controllo delle
alternative e induce le aziende al miglioramento continuo, alla competitività e
all’innovazione. Questo rende il distretto un’incubatrice naturale di imprenditorialità
(Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.253). Il mercato del lavoro è un’istituzione sociale
determinata da norme di comportamento. L’esperienza storica di un’identità che
rafforza comportamenti cooperativi, piuttosto che gare al ribasso per i posti migliori,
vale anche per la domanda e per l’offerta.
Innovazion
e
Nel momento della fondazione di un’azienda l’innovazione tecnologica è,
spesso, limitata. Solo il successivo rafforzamento dell’ufficio tecnico può
svilupparla. Si tratta, per lo più, di adattamenti di ciò che esiste. Ciò che fa la
differenza tra imprese di successo e non, è il realizzarli prima di altri e,
contemporaneamente, in tutti i livelli aziendali (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.74).
Le aziende più dinamiche cercano la deverticalizzazione per dare maggiore
autonomia alle funzioni. La scarsa standardizzazione dei prodotti induce maggiore
flessibilità, ma comporta l’aggravio dei costi. Il magazzino, ad esempio, deve trattare
moltissimi pezzi diversi, in più.
La circolazione delle conoscenze all’interno dell’azienda è essenziale per le
carriere e per i nuovi percorsi imprenditoriali. La quantità di conoscenze da
suddividere genera una contraddizione (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.79): più
aumentano le figure professionali atte a favorirne la circolazione e più si
irrigidiscono aree e ruoli che ostacolano burocraticamente la comunicazione. Di
conseguenza c’è una netta separazione tra aree a professionalità bloccata e aree a più
Capitolo V
175
elevata professionalità. Queste situazioni possono non coincidere con gli
atteggiamenti aziendali: si creano, così, situazioni molto articolate.
La dimensione aziendale e la posizione di mercato porta a due strategie di
innovazione (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.210). Le imprese “contoterziste”, di
Due
strategie
minore dimensione, innovano in modo empirico induttivo: i retrofitting
(ammodernamenti di vecchi macchinari o adattamento di quelli nuovi) esprimono la
cultura del “farsi in casa”. Il numero maggiore di macchine rispetto agli uomini è
significativo. Il sotto utilizzo ha una sua razionalità: sono macchinari ampiamente
ammortizzati, destinati a lavorazioni marginali o “di ripresa”, che non aumentano i
costi. Il “non buttare via nulla” riguarda macchine e uomini, perché rappresentano un
patrimonio da non sprecare. Il decentramento non interessa mai il cuore della
produzione, ma solo operazioni molto speciali, o marginali, poco qualificate. Il parco
macchine è composto da macchine flessibili (tradizionali o innovate) e da macchine
“dedicate”. Il percorso innovativo comincia, in genere, con l’acquisto di macchine a
controllo numerico, sempre più sofisticate, per poi estendersi ad attrezzature per la
“qualità” o per attività logistiche di supporto. Si passa, infine, all’adozione del CAD,
collegato al controllo numerico, e al CAD/CAM (progettazione, produzione e
gestione magazzino). Questi passaggi producono una cultura informatica centrata
sulle operazioni produttive. A questo livello può determinarsi un “salto” nella logica
organizzativa dell’azienda: è la soglia della strategia graduale d’innovazione centrata
sul prodotto che si affaccia su orizzonti più ampi. Diventa naturale domandarsi se
non si assuma la tecnologia come fine del mutamento, anziché, come mezzo
(Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.227). Nell’esperienza emiliana la monosettorialità
dei centri di servizio ha avuto rilievo particolare. Oggi può rappresentare un limite.
In discussione è il ruolo delle istituzioni per la “formazione alla crescita”. Queste
devono farsi carico dell’offerta di risorse ai sistemi territoriali. Lo scopo è aprire una
nuova fase di sviluppo della cultura dell’innovazione tecnologica, organizzativa e
finanziaria. Modelli adeguati non possono essere mutuati dalla grande impresa.
Se il contratto di lavoro non impegna alla creatività, la gerarchia è, per sua
natura, insufficiente a costringere ad un maggiore rendimento (Bartolozzi e
Risorse e
terrritorio
Capitolo V
176
Garibaldo 1995, p.234). Le dosi addizionali di impegno sono a totale discrezione del
lavoratore. Solo un coinvolgimento vero può indurre la partecipazione attiva delle
maestranze. Il lavoro deve apparire utile anche al subalterno, non solo dell’azienda.
La partecipazione ad alti livelli fa acquisire all’impresa una straordinaria capacità
competitiva. Questo è il vantaggio del modello giapponese. Partecipazione e
coinvolgimento sono risultato di una lunga serie di presupposti, diversi per luogo e
nel tempo. Questi riguardano l’organizzazione del lavoro e il livello di vita esterna;
hanno a che fare con: il sistema politico, le istituzioni, le organizzazioni e la loro
stabilità nel tempo, lo stile di regolamentazione, la cultura, i valori, i meccanismi di
creazione e di trasmissione del sapere e infinite altre variabili. Dalla ricerca emerge
l’importanza della fiducia nell’indurre competitività e sviluppo. Il caso dei distretti
mostra che, in alcune occasioni riconoscibili nello spazio e nel tempo, il capitalismo
occidentale ha risolto problemi simili a quelli risolti da altri capitalismi, utilizzando
istituzioni, storie di vita, comunità e sistemi di valori del tutto diversi fra loro.
Le piccole
imprese
Le piccole imprese differiscono per il tipo di produzione e per il ruolo che
assumono nelle diverse strutture industriali (distretto, distretto con un’impresa
leader, mercato, “conto terzi”). La piccola impresa dinamica (Bartolozzi e Garibaldo
1995, p.67) ha qualità di conoscenze e capacità di soluzioni innovative diverse per
genere di produzione o di lavorazioni effettuate. Le due conoscenze principali,
emerse dall’indagine, sono: le conoscenze tecniche per la progettazione di quel
prodotto o l’esecuzione di quella determinata lavorazione e le conoscenze di mercato
che identificano il prodotto o la lavorazione in grado di essere competitive con ciò
che è già presente. Non compaiono conoscenze relative all’organizzazione del
lavoro. Il loro apprendimento avviene per trasmissione diretta, interna alla famiglia o
attraverso un percorso scolastico, lavorativo o nel sottosistema in genere. Risultano
importanti le competenze acquisite nella collaborazione con l’ufficio tecnico e con la
partecipazione alle fiere, ma, soprattutto, con l’esperienza di montatore “trasfertista”.
Questa consente la conoscenza dettagliata della macchina e la sua verifica di fronte a
clienti e concorrenza.
Capitolo V
177
L’assenza di grossi ostacoli iniziali, tecnici o di mercato, ha reso poco influenti
le barriere finanziarie. Le garanzie risiedono nelle relazioni comunitarie. In questo
senso, il territorio ha avuto un ruolo protettivo e favorevole all’avviamento di nuove
attività, ma non ha stimolato la nascita di imprese a valenza più fortemente
progettuale e innovativa, se non in continuità con altre (Bartolozzi e Garibaldo 1995,
p.56).
I ricercatori sostengono (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.133) che la grande
azienda si apre all’informalità, al riaccorpamento delle funzioni, alla riduzione di
Convergenze
lavoratori indiretti, alla centralità del fattore umano e delle relazioni, all’idea di
controllo della “qualità” interno alla produzione. La piccola impresa, invece,
accresce il numero di funzioni, di figure professionali e di lavoratori indiretti, si apre
alle tecnologie di elaborazione e gestione delle informazioni, separa il controllo di
qualità mediante un responsabile addetto. In definitiva, c’è una convergenza tra i
paradigmi organizzativi orientati alla produzione e quelli orientati al mercato.
Esigenze analoghe producono comportamenti divergenti. Le posizioni di partenza
sono assai diverse, ma lo scopo è comune: la produzione “snella e flessibile” utile al
mercato e alla “qualità” dei prodotti. Non c’è omologazione al modello “taylorista”,
bensì creazione di forme peculiari di organizzazione che conservano polivalenza,
coinvolgimento, integrazione e flessibilità.
I risultati (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.148) mostrano che non c’è
correlazione tra dimensione e informalità (organizzazione elementare o articolata). Il
nuovo rapporto tra prodotto e mercato influenza la relazione tra progettazione e
commercializzazione. La progettazione non deve essere, necessariamente, tutta
interna: è sufficiente dirigere le scelte. Non è indispensabile inventare, perché le
innovazioni incrementali o le “imitazioni creative”, se adeguate al mercato, possono
bastare. Si tratta di vedere cosa si progetta, con quali input, da chi provengono e
come è organizzato il tutto. L’ufficio vendite commercializza e fornisce input precisi
e programmati alla progettazione. Lo sviluppo della parte commerciale dipende da
investimenti legati a fattori culturali, ma anche, e soprattutto, dalla disponibilità di
capitali. Più in generale, l’organizzazione deve essere capace di sostenere questa
Dimensione e
informalità
Capitolo V
178
crescita senza squilibrarsi e, trattandosi di piccole imprese, la dimensione aziendale
conta.
Dimensione
e
innovazione
Le piccole imprese metalmeccaniche emiliane hanno innovato allo stesso ritmo
delle grandi (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.181). Ciò non significa che logica e
sequenza siano state simili. L’organizzazione e la cultura aziendale hanno avuto una
grande rilevanza, variabile secondo il tipo di innovazione. L’introduzione di un
centro di lavoro a controllo numerico, ad esempio, potrebbe avvenire senza creare
tensioni. L’avvento del computer, invece, potrebbe trovare ostacoli, se comportasse
una diversa allocazione dei compiti o una differenziazione organizzativa. Non è un
caso che il CAD (sistema computerizzato per la progettazione e la produzione) sia
stato utilizzato come tecnologia di organizzazione solo molto tempo dopo la sua
introduzione. Il percorso va da una cultura empirica, centrata sull’esperienza, a livelli
d’astrazione e formalizzazione via via più elevati. Il fatto che nelle piccole imprese
non fosse presente l’organizzazione tayloristica non significa che le nuove tecnologie
abbiano avuto un impatto meno sconvolgente. Le relazioni tra specializzazionepolivalenza,
formalità-informalità,
predeterminazione-autonomia,
scolarità-
esperienza e tra l’importanza dei ruoli è cambiato. Nella ricerca si afferma
(Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.184) che l’uso dell’informatica, nell’organizzazione
aziendale, si intreccia con i processi di formalizzazione e differenziazione
organizzativa, i quali costituiscono un aspetto chiave dell'attuale fase di
Due
soglie
trasformazione delle piccole imprese. L’uso più o meno dinamico e innovativo del
computer è la prima soglia di discriminazione (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.195).
A ciò si accompagnano i relativi aspetti della cultura aziendale in senso lato. La
piccola azienda non è impermeabile alla mentalità informatica. La vera difficoltà è
nella carenza interna del know-how. Questo crea una dipendenza dall’esterno che può
avere effetti perversi, come il contrabbando di trasformazioni organizzative non
coerenti e non decise consapevolmente. La seconda soglia di discriminazione è la
prospettiva d’uso della logica del sistema informativo: da strumento per la soluzione
di problemi a strumento di lettura e organizzazione dell’impresa. Il sistema
informativo ha sempre implicazioni rilevanti sull’organizzazione. Le differenze
Capitolo V
179
rilevate nell’uso dell’informatica sembrano dipendere dal grado di articolazione del
modello organizzativo: le aziende più avanzate appartengono anche a quel ristretto
gruppo di imprese individuate precedentemente come esempi di organizzazione più
evoluta del rapporto prodotto-mercato. Le imprese che hanno un centro elaborazione
dati, anche composto da poche persone, superano tutte i 100 dipendenti.
La minore dimensione delle aziende non spiega, però, il maggiore
coinvolgimento e consenso della “forza lavoro”. Dall’indagine risultano numerose
Rapporti
umani
piccole imprese con metodi tradizionali di coordinamento e di esercizio dell’autorità
(Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.242). Le testimonianze sembrano indicare, a ragione
del coinvolgimento, la qualità dei rapporti umani e sociali nei singoli luoghi di
lavoro.
In un contesto statico la variazione di potere di un soggetto comporta una
variazione di segno opposto in un altro. Ne consegue che, avendo rilevato una
minore presenza di burocrazia nell’organizzazione dei distretti, dovremmo rilevare
una sensibile presenza di forme di autorità di tipo carismatico o tradizionale29. Le
interviste rivelano, invece, che queste, non solo sono eccezioni, ma anzi, sono
ritenute inefficaci o sbagliate dagli stessi imprenditori. L’uso più diffuso dell’autorità
consiste nella mediazione tra spinte contrapposte. Il modello di Simon è forse il più
adatto ad una spiegazione: l’autorità si esplica nel momento della decisione e si basa
su premesse di fatto e di valore. L’organizzazione può definirsi come un campo
strutturato di premesse, in quanto le decisioni hanno una gerarchia, secondo il
rapporto mezzi-fini. La minore divisione del lavoro nelle imprese distrettuali
consente un controllo più ampio sulle premesse di fatto, mentre le premesse di valore
possono convergere su obiettivi comuni. Questo genera la consuetudine di governare
e risolvere i conflitti, tanto che il venire meno di tali valori crea pressioni sociali atte
a rimuovere i comportamenti scorretti. Il clima di fiducia non è scontato, perché
l’informalità costringe il processo decisionale a basarsi sulla competenza: chi fa il
furbo viene isolato. Le relazioni industriali, pur conflittuali, hanno una base comune
29
Forzando un po’ la ricchezza del pensiero di Weber.
Conflitto
e fiducia
Capitolo V
180
di regole e di riconoscimento dei ruoli. La fiducia è accordata in modo critico dai
lavoratori, in base a giudizi rispondenti a criteri definiti. La maggiore autonomia
delle maestranze porta alla maggiore possibilità di valutazione dei favoritismi,
dell’equità tra salari e profitti e del reinvestimento degli utili. Il controllo è reso
possibile dalla vicinanza delle relazioni sociali, interne ed esterne, all’impresa.
Informazio
ni
Il processo informativo è determinante sia per coinvolgere che per decidere. La
decisione è la conclusione di un processo informativo che ne struttura le premesse.
Non tutti i dati, però, diventano informazioni. Affinché ciò avvenga occorre la loro
elaborazione. Gli imprenditori sanno bene che le loro decisioni dipendono da ciò che
hanno saputo cogliere dai propri dipendenti. Per questo occorre il coinvolgimento,
variabile per funzioni ed aree, ma che non escluda intrecci tra loro, anche in presenza
di un responsabile del sistema informativo.
Ruoli e
funzioni
Un altro fenomeno tipico è l’accettazione delle differenze di ruolo. Ciò è
dovuto alla consapevolezza che esse sono solo di carattere funzionale. Lavoratori e
imprenditori sono persone complesse. Essi si cimentano da pari a pari e si esprimono
in un ampio arco di interessi e valori, nella ricchezza della vita associativa, politica,
culturale e ricreativa. Da questa loro complessità traggono materia per la
riproduzione delle competenze, per lo scambio di idee e per i processi di autostima.
Relazioni
industriali
Le relazioni industriali sono un procedimento sociale che risolve le
controversie, trasformando il disordine in ordine attraverso la creazione di norme
(Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.253). L’Emilia è terra di forti tradizioni
solidaristiche e associative. Negli anni ’70 i sindacati hanno reagito al decentramento
produttivo con una politica contrattuale che non scontava nulla, né alle piccole
aziende, costrette a ricercare l’innovazione per sopravvivere, né alle istituzioni locali,
per ottenere sostegno allo sviluppo. Le origini operaie di molti imprenditori hanno
consentito pratiche gestionali e contrattuali fondate sulla ricerca del consenso.
Tranne qualche eccezione, il conflitto non ha mai prodotto situazioni ingestibili o
Un
gioco
distruttive e ciò è stato utilizzato come deterrente per la concorrenza sleale. Siamo in
presenza di un “gioco negoziale”, con regole scritte e non, fatto di affidabilità,
rappresentatività,
informazione
preventiva,
svolgimento
delle
trattative
e
Capitolo V
181
conciliazione. La rappresentanza sindacale in questa zona ha radici storiche ed ha
prodotto una contrattazione territoriale in aggiunta a quella nazionale e aziendale.
L’Emilia è stata un laboratorio di relazioni industriali che ha anticipato nei fatti
comportamenti poi recepiti dalle leggi nazionali. Gli elementi e le condizioni che
possono aver favorito queste sperimentazioni sono: la vicinanza degli attori sociali,
la condivisione di vita e dei problemi, la trasparenza che ha permesso verifiche
incrociate, l’origine operaia di molti imprenditori, le “reti” di relazioni associative
che ritualizzavano la soluzione dei conflitti sulla base della pari dignità dei ruoli. Le
Le
autorità
autorità locali hanno svolto un importante compito di mediazione tra le parti. Gli
interventi più efficaci hanno riguardato l’urbanistica, le infrastrutture, i servizi
locali e
la
sociali, le politiche industriali senza incentivazioni finanziarie e con servizi di qualità
non presenti sul mercato. La lungimiranza culturale ha avuto una ricaduta economica
strepitosa. L’impulso alla socializzazione e alla mobilità professionale e sociale ha
realizzato
un
esempio
difficilmente
imitabile
da
politiche
padronali
o
“paternalistiche”. Questo ha reso possibile l’affermarsi di aziende di tipo
comunitario. Il controllo sociale sulle imprese è stato esercitato mediante la
restrizione degli interventi sopra descritti e con il discredito presso la comunità;
quello sui sindacati, attraverso il rifiuto di solidarietà in caso di richieste
“corporativiste”. Incoraggiare le trattative a livello di associazioni ha reso gli attori
sociali meno diseguali nella partecipazione in vista delle decisioni.
I rapporti di fiducia e le “reti” sociali sono il risultato di un processo storico,
ancor prima che precondizione del buon andamento economico. La mancanza di
fiducia rende gli scambi più rischiosi, lenti e costosi. Lo si nota solo quando non c’è,
perché le regole sono, spesso, implicite. Un economia senza codice morale rende
deboli le sue performance. Questa situazione è descritta come “apprendimento
tramite monitoraggio”, cioè continua regolazione reciproca delle aspettative e dei
risultati delle transazioni. Ognuno si attende che gli altri adattino le loro aspettative
in base alla loro esperienza, agendo non “sul cosa”, ma “sul come”: in questo modo
si riduce l’incertezza.
Un
processo
storico
Capitolo V
I premi
182
La sola incentivazione economica risulta poco rilevante: è stato dimostrato
come il salario variabile non risolve il problema della motivazione. Tale strumento è
inadatto, soprattutto perché non rileva il contributo di squadra e sopravvaluta il
risultato individuale. Il fabbisogno salariale è legato alla percezione dei bisogni
sociali e culturali. Il lavoratore sa di non essere mai risarcito completamente dal
salario. Egli giudica l’equità della retribuzione confrontandosi coi suoi “pari” e
valutando il lavoro rispetto alle sue aspirazioni e alla sua soddisfazione globale.
Quattro
prerequisiti
Una ricerca dell’IRES identifica i pre-requisiti delle relazioni industriali
emiliane con la cultura cooperativa, con il contesto socioeconomico, regolato
consensualmente, e con la legislazione di sostegno (Bartolozzi e Garibaldo 1995,
p.260). La situazione non è omogenea in tutte le imprese. Dove lo è, si riscontrano
diverse gradazioni. La possibile ambiguità del complesso intreccio tra aspetti
oggettivi e soggettivi di varia natura, porta a constatare che mentre il coinvolgimento
non implica la soddisfazione, la sua assenza genera senz’altro insoddisfazione,
anomia, senso di esclusione. Ne deriva che il rapporto sociale conta molto e può
compensare aspetti organizzativi sgradevoli. Il superamento della fabbrica “fordista”
Distretto e
non implica la sua scomparsa, ma genera convivenze articolate. Secondo Becattini il
integrazio
ne
dato discriminante dei distretti industriali è l’integrazione sociale. Caratteristiche
rilevanti sono: la sicurezza del posto, l’ansia di reputazione e la “rete” sociale. In
Emilia il punto cruciale sembra, dunque, essere l’equilibrio tra economia (la
fabbrica) e la società (fuori dalla fabbrica). Ad esempio, il peggioramento del sistema
previdenziale ha una ricaduta anche sul raggiungimento di maggiori livelli di
produttività. Lontano dall’Emilia Adriano Olivetti era riuscito, con ideologie e
motivazioni differenti, ad ottenere risultati analoghi; Marzotto, invece, no.
L’importanza del contesto evidenzia che la politica conta, sia a livello nazionale che
a livello locale. Non si pensi ad un “mito dell’informalità”, ma di un panorama
differenziato di situazioni ibride tra l’artigianale e l’industriale (Bartolozzi e
Garibaldo 1995, p.281). La polivalenza, ad esempio, ha diversi livelli di
L’autonomia
qualificazione, cioè gradi di segmentazione della forza lavoro (Bartolozzi e
Garibaldo 1995, p.290). L’autonomia, invece, ha livelli soggettivi di riferimento
Capitolo V
183
(esecuzione solitaria delle mansioni, possibilità di micro variazioni, ampia possibilità
di decisione tecnica e di rapporto con altri) e di percezione della stessa (quella di cui
si usufruisce o quella da cui si è esclusi). C’è uno spazio d’incertezza che circonda
l’autonomia: a fronte di nuovi problemi la responsabilità decisionale è quasi sempre
di figure gerarchiche. Questo può essere solo un fatto formale, nel caso in cui essa sia
esercitata ascoltando le proposte dei lavoratori. Gli spazi d’autonomia sono legati più
ai tipi di mansione che al modello organizzativo. L’autonomia, come possibilità di
risolvere i problemi, si collega alla partecipazione alle decisioni gestionali e
organizzative, non a quelle strategiche. Per questo motivo autonomia e
partecipazione non viaggiano parallele (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.300). La
consuetudine “artigianale” di interpellare informalmente i dipendenti va in crisi con
l’organizzazione industriale, in cui il processo decisionale si esplicita e si formalizza
nelle figure intermedie. I lavoratori possono organizzare le modalità spontanee e
informali (artigianali) nella pratica, oppure ricorrere a politiche partecipative che,
anche se “scopiazzate” dalle grandi aziende, possono, comunque, informare e
formare. Tali politiche sono complementari e non alternative, alla partecipazione più
ampia. Il bivio, nella transizione da modello artigianale a quello industriale, può
condurre a ricalcare le orme degli altri o ad elaborare formule originali.
La grande fluidità organizzativa non elimina le aree di dequalificazione
Quali
modelli
professionale: è necessario migliorare i servizi di consulenza organizzativa, perché la
piccola impresa non possiede le conoscenze necessarie ai suoi bisogni (Bartolozzi e
Garibaldo 1995, p.321).. Le aziende che offrono questo servizio impongono modelli
di successo o di moda mutuati dalla grande impresa. Le strutture di consulenza
adeguate alle piccole aziende dovrebbero sviluppare modelli specifici, per evitare i
rischi di soluzioni inadatte o imitazioni mal riuscite. Lo stesso vale per la
formazione, la quale deve rivolgersi “specificatamente” al fabbisogno della piccola
impresa.
Occupazione e qualità del lavoro non sono argomenti inconciliabili (Bartolozzi
e Garibaldo 1995, p.327). La loro divisione legittima la spaccatura tra ricchezza e
povertà, intollerabile per una società che vuol essere integrata. I ricercatori
Etica del
lavoro
contingent
Capitolo V
184
ipotizzano un’etica del lavoro “contingente”, in cui si rigetta la massimizzazione a
tutti i costi e si ridimensionano gli eccessi. La professionalità e il senso del lavoro
cambiano senza perdere rilevanza. Essi sono vissuti e percepiti in una dimensione
qualitativa differente. L’investimento personale è gestito dal soggetto più che
imposto dal controllo sociale. Il lavoro convive con una pluralità d’interessi,
altrettanto importanti, che non rappresentano il momento esclusivo della
realizzazione personale e non monopolizzano tempo ed energie. La finalità
dell’individuo è raggiungere l’equilibrio necessario per curare in modo soddisfacente
entrambi (Bartolozzi e Garibaldo 1995, p.343).
La ricerca d’autonomia è un elemento costitutivo dell’imprenditorialità, quale
espressione più autentica del sé. Questa, a sua volta, è un indicatore di creatività,
secondo la definizione di McKinnon30. La ricerca di soluzioni a problemi complessi è
tipica di chi ha una spiccata attitudine alla creatività (Bartolozzi e Garibaldo 1995,
p.357, 373).
Quattro
problemi
I problemi denunciati dagli intervistati possono essere riassunti in quattro
tipologie: la possibilità di utilizzare le proprie capacità per risolvere problemi
nell’ambito del proprio lavoro, il coinvolgimento nelle scelte del gruppo a cui si
sente di appartenere, il non subire controlli arbitrari e superflui, avere un ruolo
adeguato alle proprie capacità e differenziato, nel gruppo.
Nelle piccole come nelle grandi aziende il lavoratore non è “naturalmente”
felice. Contrariamente a ciò che di solito si pensa sul “piccolo è bello”, il minor
grado di sofferenza e il livello più alto di creatività si hanno nelle aziende in cui
l’organizzazione del lavoro è più complessa. Il gruppo si presenta come strumento
possibile per affrontare i limiti della misurabilità del lavoro, senza rinunciare ad essa.
Il territorio
Il territorio può essere considerato una struttura sociale per mezzo della quale
si determinano “circoli virtuosi” o “circuiti viziosi” di trasformazione. L’innovazione
va affrontata con un intreccio di strategie imprenditoriali e d’organizzazione sociale
del territorio. Il “gruppo di lavoro” è una struttura “molto leggera”, capace di fornire
Capitolo V
185
un nuovo genere di “beni pubblici” per migliorare e diffondere il processo
d’innovazione. Questo “bene” è costituito da una ricerca “pubblica”, capace di
valutare criticamente le organizzazioni e di attivare un dialogo sociale basato sul
consenso, sulla partecipazione e sulla mobilitazione delle risorse.
5.4.2.4 – Il punto di vista sindacale: sindacato, imprese e istituzioni
Dal 1984 la CGIL di Bologna ha sviluppato un proprio programma di ricerca e
di formazione sindacale31. Il programma interdisciplinare coinvolge gruppi d’esperti,
specialisti, docenti e ricercatori. Assieme alla ricerca procedono corsi di base
specifici e d’approfondimento tematico, per formatori. Lo scopo è la progettazione
autonoma delle soluzioni ai propri problemi di lavoro in fabbrica. Si sono realizzati
numerosi “studi di caso” nelle aziende di macchine automatiche. Questi hanno
evidenziato: il rafforzamento delle strutture gerarchiche e di controllo sociale, la
ricerca di partecipazione subalterna (marketing interno, propaganda, ipnosi,
manipolazione), l’incentivazione salariale in base alla disponibilità individuale,
l’emarginazione dei lavoratori portatori della vecchia cultura partecipativa (reputata
ostacolo al mutamento), l’uso della tecnologia come risoluzione dei problemi
organizzativi, il decentramento e la concentrazione d’imprese complementari in
gruppi (anche stranieri) per diversificare la produzione (Melotti 1998, p.27). Il
ricambio generazionale e l’avvento di manager di scuola “FIAT-Bocconiana” sono
un problema per i lavoratori, perché rendono le regole unilaterali, allontanandole
dalla loro cultura tradizionale. Si smantella il vecchio sistema di relazioni industriali
a favore di relazioni fondate sulla fedeltà. I gruppi diventano fonte di pressione sui
lavoratori che perdono il controllo e la gestione del proprio lavoro. Qualsiasi
bilateralità è esclusa. Il modello sociale basato su solidarietà, cooperazione e su una
forte identità sociale e professionale, si destabilizza. Il “saper fare” tradizionale è
30
Un processo che si svolge nel tempo e che si caratterizza per l’originalità, lo spirito di adattamento e la
preoccupazione di realizzazione concreta.
31
L’intero sottoparagrafo fa riferimento a: Melotti M. (a cura di), 1998, Lavoro, qualità, sviluppo, contrattazione,
Archivio storico della CdLM di Bologna e CGIL Emilia Romagna, CIReF CGIL di Bologna e FIOM-CGIL; testo
provvisorio.
Il
programm
a della
Capitolo V
186
visto come ostacolo anziché come risorsa. La difficoltà di contrattazione è culturale.
La divisione tra conoscenze tradizionali e nuove tecnologie distorce la visione dei
problemi del prodotto e del mercato. Si genera, conseguentemente, una frattura nel
sistema di relazioni industriali: non si pratica più la contrattazione collettiva delle
regole contraccambiata dall’offerta di conoscenza e consenso.
Le piattaforme contrattuali aziendali sono state la prima importante
Le
piattaform
e
innovazione del sindacato. Sono progetti che mettono in relazione formazione,
ricerca e azione sindacale (Melotti 1998, p.30). I lavoratori sono protagonisti: dalla
loro conoscenza dei luoghi di lavoro derivano le proposte di strumenti e politiche per
affrontare e risolvere i problemi. L’abilità di risoluzione dei problemi sostituisce o si
sovrappone al lavoro esecutivo. Il montatore rappresenta l’azienda a casa del cliente
e riporta i feedback32 in sede (Melotti 1998, p.15). L’operatore di macchine utensili è
autonomo fino al controllo dei suoi prodotti. Egli autogestisce, informalmente, anche
il “ciclo di lavoro” che tiene nel “credenzino”, per ogni pezzo lavorato. Nella
progettazione l’inventiva del singolo si avvale del lavoro di un’équipe formata da
operatori commerciali, montatori, tecnici di produzione, addetti agli acquisti e alla
subfornitura. Le piattaforme aziendali si prefiggono di “codeterminare” le azioni per
la competitività dell’impresa e per la “qualità della vita lavorativa”. Gli strumenti
sono: la progettazione organizzativa congiunta (modelli, soluzioni organizzative e
caratteristiche del sistema), il “problem setting”33, la ricerca delle risorse (tecnologia
e professionalità), lo scambio d’informazioni tra azienda e lavoratori (da una parte
mercati, risorse, strategie, problemi dei clienti, ecc. e dall’altra lavoro reale,
informale e tecnologia). Questo scambio va dal generale al particolare e viceversa. In
questo modo se ne verifica l’efficacia. I lavoratori partecipano “mettendoci del
proprio” e risolvendo problemi aziendali: “ciclo di vita”, personalizzazione e qualità
del prodotto. L’azienda s’impegna a definire, insieme ai lavoratori, i criteri oggettivi
per lo sviluppo di carriere basate sulle competenze e sulle capacità professionali. Si
regolano inoltre: la formazione permanente, i modelli organizzativi che utilizzano
32
Informazione di ritorno sull’effetto di una certa azione svolta in precedenza.
Capitolo V
187
autonomia, responsabilità, creatività e apprendimento, le norme che definiscono ruoli
e sistemi retributivi coerenti. Si risolve, così, un altro problema strategico: la
prevedibilità delle relazioni industriali. Gestire il cambiamento organizzativo può
consentire più flessibilità e maggiore rapidità di decisione nella complessità. Il
decentramento decisionale e l’uso dell’intelligenza e della creatività dei lavoratori è
utile sia alla qualità del prodotto, sia all’efficienza dell’impresa. Si hanno
miglioramenti
nell’organizzazione
del
attraversamento”), nel “time to market”
34
lavoro
(produttività
e
“tempi
di
(interfunzionalità e decisioni orizzontali),
nella riduzione degli stock35 e nei “gruppi di lavoro” (integrati, interdisciplinari,
interfunzionali). Se il sistema è integrato ed articolato l’informatizzazione del
circuito informativo può migliorare il funzionamento dei gruppi. Diversamente si
possono creare discontinuità e rotture, perché i computer sono una tecnologia esterna
che interviene sul modo di fare organizzativo e può ridisegnare relazioni e sistemi
sociali. In questo modo, i lavoratori organizzati perdono, per la prima volta, la
visione globale dell’azienda, la lettura autonoma dei processi e, quindi, la capacità di
negoziare l’organizzazione del lavoro e i suoi contenuti.
A Bologna vengono definite le politiche di FIOM e CGIL per i congressi
nazionali di Verona del 1989 e di Rimini del 1991. Temi quali la formazione
continua e congiunta, il salario aziendale, la riduzione d’orario con maggiore
occupazione nei doppi turni, la flessibilità (oraria, tempo determinato, orari annuali,
flessibilità temporanee, part-time, contratti di solidarietà), anticipano di 6/7 anni
l’accordo nazionale sulla concertazione del 1993 (Melotti 1998, p.32). Questa
flessibilità non ha creato provvisorietà nel mercato del lavoro. La codeterminazione
voleva modificare la cultura delle relazioni industriali, presupponendo un sistema che
non esisteva nel 1991 e non esiste, tuttora, nella cultura delle parti sociali. In un
sistema di democrazia industriale debole come quello italiano è comprensibile il
fallimento di tale strategia e il mancato accordo del ’93. Gli stessi metalmeccanici
33
Si veda la nota 18 in 5.4.2.1 a p.155.
Termine tecnico per indicare il tempo che intercorre dall’idea del prodotto alla sua introduzione sul mercato.
35
Quantità tenuta a magazzino.
34
Il
laboratorio
bolognese
Capitolo V
188
bolognesi, nonostante il successo iniziale tradotto in molti accordi importanti, hanno
visto la mancata gestione delle piattaforme controfirmate. Le aziende hanno tradotto
la carta in prassi operativa unilaterale. “E’ prevalsa la cultura dei diritti di un élite
sindacal-illuministica centralizzata; cultura che ha spostato risorse sindacali verso
nuovi
apparati
all’esterno,
contribuendo
ad
aggravare
ulteriormente
la
burocratizzazione della struttura sindacale” (Melotti 1998, p.37).
Imprese e
sindacato
Le posizioni dei singoli imprenditori o manager si possono dividere in tre
blocchi (Melotti 1998, p.35). Il primo è in completa sintonia con la Confindustria
nazionale. Il secondo considera il sindacato un interlocutore difficilmente alienabile,
ma solo riferito alla base operaia tradizionale e solo per la contrattazione salariale
legata alla redditività dell’impresa. La terza posizione si distacca dalla Confindustria
nazionale, incoraggiando e mostrando interesse per le esperienze locali, perché
valuta gli obiettivi e non i rapporti di forza. Un sindacato competente è considerato
un punto di vista importante ed un elemento di trasparenza, perché offre la possibilità
di evidenziare i problemi al loro insorgere e, quindi, di intervenire con tempestività.
Quest’atteggiamento indica: una filosofia del consenso, una partecipazione negoziale
non subalterna, un coinvolgimento lavorativo e una prevedibilità delle relazioni
sindacali. Tutto ciò induce reciproco riconoscimento e fiducia, che permettono una
conflittualità non ideologica vista, come nella migliore tradizione liberale, risorsa e
fattore di sviluppo e di crescita.
Partiti e
istituzioni
I partiti e le istituzioni locali sono molto sensibili all’occupazione, ma
sottovalutano le trasformazioni e la destabilizzazione sociale del lavoro in fabbrica,
anche se svolgono un ruolo mediatore molto attivo: la stessa SS.Chiesa è intervenuta
nel caso ACMA36 (Melotti 1998, p.36). Inizia a farsi strada l’idea di un intervento
che riqualifichi il territorio come fattore di sviluppo coerente con il suo ruolo storico:
aumentano, infatti, i servizi al lavoro e i modelli organizzativi per la gestione della
complessità urbana. L’accentuazione del potere centrale ha alimentato, anche a
Bologna, le carenze nelle strutture locali che dovrebbero promuovere l’innovazione e
Capitolo V
189
la formazione di nuove professionalità. Ciononostante il tratto distintivo di questa
città, la sua “cifra” culturale e istituzionale, rimane vivo nella sua storia: la vocazione
istintiva a promuovere e organizzare le conoscenze è dimostrata, tuttora, dalla più
che decennale esperienza delle aule didattiche nei musei e dagli operatori impegnati
nei progetti informatici al servizio dell’istruzione. La nostra città sarà, non a caso, il
laboratorio in cui sperimentare, per conto del Ministero, l’obbligo scolastico fin dal
quinto anno di età37. Un’altra caratteristica già citata è la collaborazione tra vari enti.
L’apertura pomeridiana delle scuole e le altre iniziative, che vedono la
collaborazione di Provveditorato, Comune, Provincia e sindacati, fanno sì che
Bologna diventi un grande cantiere della conoscenza e della socializzazione, senza
sottrarla alle sfide della riforma dello stato sociale. Il Progetto D.O.P.O. (Dispersione
Osservatorio Prevenzione Orientamento), ad esempio, si prefigge di inserire nel ciclo
di studi le conoscenze relative al mondo della scuola e del lavoro, al fine di
sviluppare progetti individuali di scelta, utili nei passaggi tra scuola media, studi
superiori, formazione e lavoro. Dal 1995 è attivo il servizio “Bologna Lavoro” che
vede la collaborazione di Provincia, Direzione provinciale del lavoro, Comune e
Progetto
DOPO
Agenzia per l’impiego dell’Emilia Romagna. Esso ha come obiettivo l’offerta di
servizi reali a lavoratori e aziende, come la promozione dell’incontro fra domanda e
offerta di lavoro. Nel ’97 più di 5.000 datori di lavoro si sono rivolti al servizio,
Bologna
Lavoro
richiedendo 6.106 lavoratori, mentre gli utenti in cerca di lavoro che si sono recati
agli sportelli sono stati 6.023. La Provincia di Bologna ha speso 19 miliardi in corsi
Corsi di
di formazione professionale nel 1997 e ha in programma di investirne 21 nel ’98 e
formazion
nel ’9938. I corsi sono selezionati per qualità ed economicità: nel 1997 su 1149 corsi
e
presentati ne sono stati approvati 496 (per circa 9.908 allievi). I corsi iniziali (‘93-’94
e ‘94-’95) hanno qualificato 512 persone: il 78.6%, ora, è occupato, il 6.4% ha
proseguito gli studi e solo il 12.2% è disoccupato. I “qualificati” dai corsi per
36
Nella ristrutturazione conseguente al passaggio dal Gruppo Emhart al Gruppo GD ci fu una forte riduzione del
personale.
37
Comune di Bologna, 1998, Cantiere scuola, ne “Il foglione”, n° di marzo.
38
I dati sono tratti da: “Programma provinciale della Formazione e dell’orientamento professionale 1998-99” e da
“Lavoro, Economia, Formazione 1996” dell’Osservatorio sul mercato del lavoro della Provincia di Bologna.
Capitolo V
190
diplomati, nel 1995, sono stati 214: il 71.2% è occupato e il 21% disoccupato.
Esistono in tutta la provincia dei centri di informazione e orientamento professionale
(CIOP) che, attraverso materiale specializzato e colloqui, aiutano le persone a
scegliere il loro percorso formativo. Ogni anno vengono organizzate le “Borse
Estive”, periodi di stage (4 o 6 settimane) per i ragazzi delle scuole medie superiori
nelle aziende del territorio. Durante questa permanenza i ragazzi sono seguiti da un
tutore. Un’iniziativa della Provincia di Bologna, “Progetti d’impresa”39, si prefigge
Le
“Borse
estive”
di incentivare e promuovere la creazione, lo sviluppo ed il sostegno di nuove
imprese, singole o associate, economicamente valide. Finora il centro è stato
utilizzato da 473 soggetti, di cui la metà sono donne. Gli sportelli sono a Bologna,
Progetti
d’impresa
Vergato, Imola e nell’area persicetana. L’età degli utilizzatori è compresa, per il
73%, fra i 26 e i 45 anni. Quasi il 60% è diplomato, ma c’è, anche un 10% che ha
solo la licenza media inferiore. Le attività più frequenti sono: commercio, servizi alle
imprese e artigianato. Le richieste riguardano finanziamenti (37%), consulenze
(22%), orientamento (21%) e messa a punto delle idee (14%). Lo stato occupazionale
degli utenti va dai disoccupati di breve durata (26%), ai lavoratori dipendenti
(20.5%), ai liberi professionisti (16%) e agli imprenditori (14%). Solo il 5.5% è
disoccupato
di
lunga
durata.
Una
soluzione
al
bisogno
di
agevolare
l’imprenditorialità e il miglioramento della qualità della vita viene dall’Ervet che ha
presentato al Parlamento Europeo il “Progetto Idea”. Si tratta della promozione di
soluzioni tecnologiche ai problemi degli anziani. L’intento è quello di attivare
l’imprenditorialità per la rilevazione dei bisogni e per la relativa e adeguata risposta.
I finanziamenti assegnati alle idee approvate soddisfano due condizioni: la creazione
Progetto
IDEA
di mercati economici e la risposta a bisogni sociali. Nella stessa direzione vanno
anche il “Laboratorio teatrale per disabili”40 e la “Casa intelligente”41, perché
39
Fonte: Comune di Bologna 1998, “Il foglione”, numero del 24 luglio.
Si tratta di un laboratorio teatrale che oltre a insegnare la recitazione a livello professionale organizza delle
tournée come qualsiasi altra compagnia teatrale.
41
E’ una casa realizzata con accessori automatici già reperibili sul mercato in grado di permettere ad un disabile
di vivere da solo.
40
Capitolo V
191
nascono dalla problematizzazione del bisogno sociale, dando una soluzione “di
mercato”, in un mercato che non esiste e va creato.
Il territorio offre un buon livello d’infrastrutture (Melotti 1998, p.14) fin dagli
anni ’60-’70: tangenziale, quartiere fieristico, aeroporto, aree industrializzate,
Infrastrutture
assistenza e servizi efficienti e di buona qualità, sistema sanitario decente, scuole
tecniche comunali, ricerca universitaria, servizi alle imprese e urbanistica qualitativa
(centro storico e colli).
A questo punto viene da chiedersi cos’è che si acquista dalla realtà emiliana?
Si acquista il modo di fabbricare di un sistema, sociale e tecnologico, che è un
Un modo
di
fabbricare
dispositivo complesso di produzione a “rete” (Marchisio 1990, p.196). L’Emilia è
vista come luogo del fabbricare in cui si compra la qualità della fabbricazione. Finora
l’egemonia culturale di questa area, dal punto di vista industriale, è stata
sproporzionata rispetto al suo peso reale. Nella Regione, e a Bologna in particolare,
c’è stata una grande capacità di fabbricare e un debolissimo potere industriale, inteso
come modello culturale capace di rappresentare e definire strategie in risposta a
problemi generali.
Le novità del mercato di settore riguardano: la riduzione del tempi necessario
per eseguire un cambio “formato” e riallestire la produzione; il portafoglio ordini
che, da una provvigione di 4-5 anni, va riducendosi; il restringimento dei tempi di
consegna; la riprogettazione del prodotto per includere parti di linea finora ignorate e
sistemi automatici di collegamento; la realizzazione di un mix di macchine in serie;
infine, l’evoluzione incrementale più spinta su tutti i prodotti. Il decentramento
produttivo ha raggiunto il 70-90% della produzione totale. La subfornitura, da
semplice ammortizzatore, è diventata una funzione primaria effettiva del sistema
produttivo. E’ sempre più difficile, infatti, stare al passo con l’evoluzione tecnologica
e gestionale in questo settore, a causa della scarsità delle risorse finanziarie e per
come è organizzato il processo produttivo. In molti casi le subforniture si
stratificano: da un “capo commessa” che lo preleva, il lavoro viene girato ad altri
suoi sub-subfornitori.
Le novità
del
settore
Capitolo V
Tre fattori
192
Tra i molteplici fattori che incidono sulle contrattazioni, gli eventi esterni al
comparto assumono grande rilievo. Le caratteristiche del territorio espresse da
imprese e sindacato hanno altrettanta importanza. Gli anni ’80 hanno ridotto la
rappresentatività del sindacato, anche a Bologna: è sceso il numero di tesserati, ma,
soprattutto, ne è calato il prestigio (Melotti 1998, p.12). Relazioni e rappresentanza si
fondano su fiducia e rispetto reciproco. Queste permettono la “gestione del
conflitto”, senza esasperarlo. L’arma più efficace non è lo sciopero tradizionale, ma
la caduta del consenso e della partecipazione: sciopero bianco, dello straordinario,
ecc. (Melotti 1998, p.23). Le resistenze sono, spesso, di carattere ideologico:
nonostante la distanza dalla realtà locale, si cerca di uniformarsi alle grandi imprese
nazionali. Molte trattative bloccate a Roma si sono concluse rapidamente in Emilia
Romagna.
Capitale
da lavoro
Le peculiarità del settore sono indotte dalla complessità del prodotto e del
processo, ma, soprattutto, dal tipo di origine delle imprese, che nascono dal lavoro,
anziché dal capitale (Melotti 1998, p.16). Solo chi proviene dal lavoro sa valorizzare,
come risorse, queste caratteristiche, di cui ci si accorge solo se mancano. Il passaggio
generazionale della proprietà e l’avvento dei manager rischia di cambiare le cose.
Fino ad un certo momento, il “saper fare” finalizzato alla soluzione dei problemi si è
anteposto al rispetto delle procedure, anche nel settore pubblico. L’operatore ha
funzionato da “terminale” dell’ente locale nei confronti della collettività, intreccio
virtuoso di feedback, poiché convogliava richieste e suggerimenti verso il centro. Il
governo locale, così, poteva decidere con le conoscenze necessarie. In questo modo
si è migliorato e innovato continuamente e complessivamente.
Lavoro
“vivo”
Teniamo presente che il lavoro in questo territorio è “vivo”, cioè non solo
fisico, ma, soprattutto, creativo e intellettuale (Melotti 1998, p.17). L’individuo,
prima di essere lavoratore, è cittadino a pieno titolo, inserito nella vita politica,
sociale, e culturale della città. L’etica del lavoro si basa sulla “qualità”, il cui valore
aggiunto è l’insieme di capacità relazionali, comunicative, creative, tecniche
(specifiche e tradizionali), per l’individuazione e la risoluzione dei problemi. La
collaborazione non produce né identificazione né subalternità all’impresa. Ci si
Capitolo V
193
identifica con il proprio lavoro e si mantiene l’autonomia politica e culturale.
L’interazione non è mai un adattamento passivo, ma modificazione della struttura in
maniera contrattata e continua, tenendo conto delle alterazioni (varianze) sociali e
lavorative che intervengono. Il conflitto ha rappresentato una risorsa per il
cambiamento,
perché
ha
reso
la
gestione
più
trasparente,
consentendo
l’individuazione dei problemi al loro insorgere. Le ragioni dell’equilibrio dentrofuori la fabbrica sono tre: la condivisione di un obiettivo che è anche sviluppo
territoriale; la rappresentanza politica e sociale nel governo del territorio; la
rappresentanza sindacale nel mondo del lavoro. Queste ragioni sono inserite in un
sistema di contropartite materiali e immateriali: stabilità, norme e trattamenti,
superiori al resto d’Italia. I consigli di fabbrica, autonomi da partiti e sindacati, si
scontrano anche con i vertici della Camera del Lavoro, che fatica a adeguarsi alle
trasformazioni del lavoro industriale (Melotti 1998, p.19). Il sindacato delle
fabbriche bolognesi è diverso da quello di altre zone industriali: i delegati sono
operai molto specializzati e impiegati degli uffici tecnici (non operai della catena di
montaggio).
La cultura del lavoro dei metalmeccanici bolognesi ha sempre considerato
l’organizzazione del lavoro e le condizioni di vita in reciproca relazione. Ciò si è
Lavoro
e vita
tradotto nella lotta contro la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ne è
derivato un concetto di professionalità che è autonomia, culturale e sociale, del
lavoro rispetto al capitale. Il lavoro va oltre la sopravvivenza, per investire
l’interezza della persona umana. La politica rivendicativa si è basata proprio su
questo. Dal ’71 gli obiettivi raggiunti sono stati: l’unificazione delle categorie
operaie ed impiegatizie con declaratorie uniche, l’arricchimento professionale per
una maggiore autonomia nel “ciclo di lavoro”, l’intensificazione della formazione (le
“150 ore” usate anche per scuole tecniche ed università) ed , infine, l’addestramento
e la rotazione per ricomporre le mansioni. Per la prima volta la professionalità
(passaggi di categoria) è diventata oggetto di contrattazione.
I “consigli di zona intercategoriali” erano il luogo d’incontro e di scambio tra
esperienze lavorative diverse, pubbliche e private, di produzione di servizi e di
I consigli
di zona
intercategoriali
Capitolo V
194
utenze (Melotti 1998, p.22). Essi elaboravano piattaforme territoriali da proporre alle
imprese e all’amministrazione locale. Tra le materie oggetto di iniziative vanno
ricordate: l’ambiente di lavoro e la sanità, il diritto a medici e tecnici di fiducia
(diversi da quelli dell’ispettorato del lavoro), la formazione coordinata tra imprese,
scuole e università; i servizi sociali, gli asili nido e i trasporti (fasce orarie gratuite);
la partecipazione delle aziende alla spesa pubblica (l’1% del monte salari), le mense
interaziendali delle piccole imprese, lo spostamento delle fabbriche fuori dal centro
storico senza speculare sui terreni, la messa a coltura delle terre incolte e male
coltivate mediante l’utilizzo della legge Gullo 1946 (caso più unico che raro); la
creazione di parchi e “borse di studio”. Queste sono state tutte proposte decisive per
lo sviluppo locale. Le decisioni hanno fatto i conti con le conoscenze dei processi
reali che il mondo del lavoro aveva.
La mentalità bolognese ha prodotto un sindacato rappresentativo che non si è
mai opposto al cambiamento, ma ha sempre preteso di discuterne le modalità di
gestione (Melotti 1998, p.5). Le relazioni sindacali sono coinvolte nel processo
produttivo e nel prodotto (Melotti 1998, p.6). Il conflitto diventa risorsa per il
cambiamento, raramente è un ostacolo. La possibilità di partecipare al governo del
territorio, attraverso i consigli di zona intersettoriali, ha creato l’equilibrio tra
“dentro” e “fuori” la fabbrica. La globalizzazione ha rotto questo equilibrio con
l’introduzione di modalità di relazione di stampo FIAT-Bocconiano, di nuove
tecnologie e delle relative filosofie gestionali.
5.4.3 – Cosa si fa: sulla formazione all’innovazione
I consulenti che svolgono attività di formazione all’innovazione nelle aziende
utilizzano del materiale che è stato visionato. Tra questo ci sono sembrate
significative due interviste che vengono adottate come esempi di riferimento.
La prima (Taylor 1990) ha come protagonista Paul Cook fondatore della
Raychem Corporation, azienda che fornisce prodotti ad alto contenuto tecnologico a
industrie di vari settori, dall’aerospaziale, alle telecomunicazioni. Nata nel 1957, la
Raychem vende oggi 50.000 prodotti, con un’entrata di oltre un miliardo di dollari,
Capitolo V
195
di cui il 60% proviene dall’estero. L’azienda possiede più di 900 brevetti statunitensi
e 3.000 brevetti esteri, cui si aggiungono quelli depositati in attesa di concessione:
300 negli Stati Uniti e più di 9.000 all’estero.
L’intervistato
è
convinto
che
non
ci
sia
nessuno,
all’interno
di
Tutti sono
creativi
un’organizzazione, che non possa trovare soluzioni creative per svolgere più
efficacemente il proprio lavoro: scienziati, segretarie e addetti allo scarico merci.
Una certa pressione costruttiva è necessaria. Essa si manifesta attraverso le
comunicazioni, con l’autentica curiosità per il lavoro degli altri. Così facendo si
stimolano i collaboratori a tenere vivo il processo creativo. L’innovazione ha una
parte entusiasmante, quella più facile, in cui si trova l’idea giusta, ma anche una parte
noiosa, che consiste nel tradurre l’idea in pratica. In questa seconda fase c’è più
bisogno di incoraggiamento, perché è quella che fa la differenza fra successo e
insuccesso. Il Giappone, per esempio, pur non brillando per originalità, ha una
spiccata capacità di cogliere e studiare, documentandosi, le idee altrui; poi le traduce
in concreto in modo efficacissimo. Per Cook è possibile addestrare tecnicamente le
persone all’innovazione, ma essa è un’esperienza emotiva: non si può insegnare la
curiosità. Il desiderio di innovare è, in parte, un fatto genetico, ma dipende anche
dall’esperienza infantile, dall’istruzione e dal tipo di incoraggiamento ricevuto. Le
tipologie sono molto soggettive: c’è chi è felice solo quando è alle prese con un
nuovo problema e chi, invece, è depresso fino alla sua soluzione. La selezione molto
accurata dei dipendenti è importantissima, quanto il loro addestramento. I top
manager della Raychem impiegano circa il 20% del loro tempo a ricercare,
intervistare e addestrare i nuovi assunti. Cook afferma che per motivare le persone a
lungo occorre il riconoscimento individuale. Esso risponde al bisogno di
identificazione che la maggior parte delle persone ha nei confronti del proprio lavoro.
La cultura aziendale deve incoraggiare il lavoro di squadra, la passione,
l’entusiasmo; deve stimolare tutti a fare le cose in modo diverso e meglio di prima, e
deve riconoscere e premiare le persone che eccellono. Non è il fattore monetario
quello che più conta: le gratifiche maggiori dipendono dai risultati globali
dell’azienda. L’importante è che le persone accettino il modo nel quale avviene la
Le due
facce
della
Capitolo V
196
valutazione personale. La Raychem non si limita a premiare il successo, ma anche gli
sforzi compiuti con intelligenza. Al riguardo, Cook parla del premio per “la miglior
non-invenzione”: è un riconoscimento alla capacità personale di prendere spunto da
altre unità aziendali per le applicazioni nel proprio lavoro. Sul trofeo c’è scritto: “Ho
rubato un’idea ad un altro e la sto applicando con successo”. Certamente anche il
produttore di quell’idea viene premiato: “Ho avuto un’idea brillante e c’è chi la sta
sfruttando con successo”. Questo metodo, afferma Cook, agevola anche lo scambio
informativo e le comunicazioni fra diverse specializzazioni disciplinari e ciò è
fondamentale per un’infrastruttura intellettuale innovativa. Il turnover è molto basso
e non ci sono casi di dipendenti che si siano messi “in proprio”, facendo concorrenza.
Il successo
è un
ostacolo
I rapporti con i clienti devono basarsi sulla fiducia, sia per consentire
l’anticipazione dei loro problemi, sia per promuovere quelle innovazioni che li
possono risolvere. Cook sottolinea che il successo di una soluzione è l’ostacolo
maggiore alla creatività, perché può far perdere di vista alternative possibili migliori.
Un altro ostacolo sono le grandi dimensioni (più di qualche centinaio di persone). Per
questo la Raychem è organizzata in serie di piccoli gruppi, ciascuno dei quali ha una
sua autonomia tecnica, di produzione, di marketing e di progettazione. Le decisioni
vengono prese dai tecnologi, più che dai manager professionisti. Le persone ruotano
I gruppi
in squadre di lavoro e gruppi di progetto. L’innovazione richiede investitori pazienti,
sostiene Cook, che rileva quanto sia bassa la spesa per la ricerca negli Stati Uniti
(molto inferiore al 2% del fatturato). La Raychem spende mediamente dal 6 al 7%
del fatturato, con punte che arrivano all’11%.
In sintesi
Riassumendo: la necessità è madre dell’invenzione, la quale è per l’1%
ispirazione e per il 99% duro lavoro. Altri fattori importanti sono: la proprietà
intellettuale (che deve essere tutelata adeguatamente dal diritto), la sempre maggior
interdipendenza e complessità tecnologica, e la globalità dell’innovazione. Il
laboratorio più innovativo della Raychem si trova in Belgio. E’ piuttosto piccolo, ma
è un crogiuolo di culture europee, mescolate a quella americana. La capacità di
mettere insieme e combinare tutte le competenze è molto importante. L’essenza
dell’innovazione è scoprire un campo in cui la propria organizzazione possiede una
Capitolo V
197
competenza specifica, sfruttandola per produrre o fornire servizi migliori di quelli
della concorrenza. Uno dei sistemi della Raychem è rendere obsoleto un prodotto in
pieno rigoglio, prima che lo facciano altri: si cercano soluzioni innovative capaci di
generare prodotti brevettabili.
Woody Morcott, il secondo intervistato (Pelt 1996), è proprietario della Dana
Corporation, leader mondiale di componenti per autocarri. Nel 1995 ha fatturato 7,6
miliardi di dollari, un miliardo in più del ’94. La Dana ha una dozzina di filiali
all’estero da cui proviene il 25% del suo fatturato. Ha incorporato 17 aziende attive
nei suoi segmenti di produzione. Morcott è convinto che un’attività economica sia
Formazion
e per tutti
per il 10% denaro e per il 90% uomini. Per questo motivo ha creato la “Dana
University, un college con 40 istruttori a tempo pieno. Ogni stabilimento ha la sua
aula. Ciascuno dei 45.000 dipendenti frequenta, mediamente, 32 ore all’anno di corsi
di addestramento, ma i programmi prevedono di portarle a 40. In cambio la Dana si
attende un contributo di due idee al mese, per il migliorare i processi di produzione.
La direzione rende esecutive circa l’80% di queste idee. Niente è escluso: spazi di
lavoro, riduzione dei rifiuti, economizzazione delle risorse. Sono tutte riduzioni di
costi che dipendono dalle capacità dei dipendenti. Morcott crede in questa
straordinaria potenzialità “in un epoca”, dice, “in cui ciò che conta è la creatività,
non i muscoli”.
Un'altra parte del materiale formativo analizzato riguarda la dinamica delle
comunicazioni. Allen (1986, p.113-118) fa notare una serie di riscontri empirici che
evidenziano le correlazioni tra comunicazioni tecniche interne ad un’azienda e
l’aumento della produttività dei suoi reparti di “Ricerca e Sviluppo”. Queste
correlazioni riguardano la qualità delle proposte di ricerca, lo scambio di idee,
l’aggiornamento, le idee di successo, la rapidità dello sviluppo di prodotti e processi.
Le comunicazioni tecniche sono di due tipi: di aggiornamento, rispetto agli ambiti di
specializzazione, ed esecutive, di coordinamento.
Nel nostro caso la dinamica comunicativa informale e la circolazione delle
risorse al suo interno, sembrerebbero avere agito come se il comparto bolognese del
packaging fosse un’unica grande azienda. La comunità ha provveduto ad alimentarsi
Comunicazioni
Capitolo V
198
di stimoli, diffondendo capillarmente informazioni e favorendo scambi e confronti.
Sarebbe interessante verificare se la trama descritta si sia riprodotta all’interno delle
aziende che hanno beneficiato di queste risorse offerte dal territorio. Sempre Allen ci
Generale e
particolare
dice che l’organizzazione della “Ricerca e Sviluppo” deve conciliare due obiettivi
spesso divergenti: la specializzazione e la multidisciplinarietà. Non si può, né si
deve, rinunciare agli aggiornamenti riguardanti lo “stato dell’arte” delle varie
conoscenze su cui ogni disciplina si appoggia. L’organizzazione “a matrice” prevede
un’articolazione in aree di specializzazione disciplinari e tecniche; quella “per
progetti” accentra in sé tutto ciò di cui ha bisogno per realizzare l’obiettivo. Il
territorio in questione potrebbe essere paragonato ad una matrice in cui le varie
imprese si sono formate ed hanno attinto le risorse necessarie al proprio progetto.
Proseguendo questo confronto metaforico e parallelo, è importante aggiungere che
“il problema non è la misura dell’efficienza del processo di immagazzinamento e di
distribuzione delle informazioni, quanto la loro conversione (traduzione) in una
forma che assuma rilevanza ed utilità.” (Ibidem, p.126) Lo stesso autore riconosce
che il principale strumento di trasmissione delle conoscenze tra il personale
scientifico, (e “non” aggiungiamo noi), è, e resterà sempre, lo scambio verbale. La
matrice comunitaria si presenta come “rete” che garantisce la proliferazione delle
relazioni verbali e affettive/identificative, sulle quali sembra essere cresciuta la
specializzazione e la flessibilità tecnica del comparto delle macchine automatiche.
In una rivista specializzata del settore (Sammarco 1998) si parla di
progettazione integrata realizzata mediante team. Questo sistema accorpa varie
funzioni aziendali. Il gruppo deve essere formato prima del progetto del prodotto.
Eventuali “esperienze” mancanti devono essere procurate dall’esterno. Malgrado la
motivazione e la sintonia del gruppo, questo metodo diventa più oneroso di quanto
non sarebbe l’impiego di operatori polivalenti. Ad esempio, se il progettista
conoscesse tutti i limiti dei processi produttivi non ci sarebbe bisogno del tecnico di
officina per verificare la fattibilità del progetto. La polivalenza non è conoscenza “di
tutto un po’”, ma l’acquisizione di anni di esperienze in vari campi: sarà deficitaria
sui dettagli, ma non sulle regole e sulle conoscenze basilari. Il mercato del lavoro
Capitolo V
199
non consente iter formativi di questo genere. La ricerca del personale insegue
esperienze specifiche ed è fortunata se il nuovo assunto è operativo rapidamente. Ne
deriva una competenza, forse, più ricca per l’apporto di esperienze di altre realtà
aziendali, ma sempre monodisciplinare. La multidisciplinarietà e le sovrapposizioni
continue dei ruoli richiedono che il “gruppo di lavoro” abbia una cultura condivisa e
non imposta, non sempre raggiungibile con un semplice corso di formazione. Uno
dei vantaggi della polivalenza è l’assenza dei problemi legati all’integrazione degli
individui in un gruppo di progettazione. La diversa visione dei problemi, dovuta alla
disomogeneità della cultura e delle competenze, genera una naturale competizione
per far valere le proprie idee. La concorrenza va valorizzata, perché è fonte di nuove
idee. Queste non stravolgono i concetti consolidati, ma innescano motivi sufficienti a
rompere i tradizionali metodi di risoluzione dei problemi. Il successo del team
stimolerà i componenti a fare meglio e bene, la prima volta. La sovrapposizione dei
ruoli produce sinergie, ma genera confusione e minaccia la gerarchia. Spetta al team
leader evitare che ciò accada senza ricorrere a preferenze sistematiche o a ottiche di
soluzione dei problemi stabilite. La tecnologia evolve troppo rapidamente. L’unico
rimedio possibile al bisogno di multidisciplinarietà è la progettazione integrata
adeguata ad ogni azienda.
Un altro articolo parla delle questioni che impongono all’Europa una radicale
revisione dello status acquisito (Buffa 1997, p.41). Il nodo centrale è la competitività.
L’adozione di esperienze più avanzate necessita di un adattamento alla nostra cultura
imprenditoriale. Dagli Stati Uniti vengono i concetti di privatizzazione e di
flessibilità del lavoro, ma il neo-liberismo crea disoccupazione e precarietà. Poco
proviene dall’oriente, a causa della nostra diffidenza e paura. Nulla si sa della cultura
di impresa e di solidarietà fra ceti e generazioni giapponesi. Decenni di conflittualità
nelle nostre fabbriche hanno irrigidito relazioni e strutture, gonfiando le burocrazie.
E’ caduto il muro di Berlino, ma non la diversità tra operaio e padrone, tra produttore
e fornitore, tra pubblico e privato. In Giappone la competitività è basata su punti
fermi quali: la valorizzazione delle risorse umane, la formazione, gli obiettivi comuni
e gli incontri periodici con i fornitori. Noi, individualisti, con le nostre strutture
La
competitività
Capitolo V
200
piramidali, abbiamo bisogno di umiltà per apprendere e coraggio per intraprendere.
Le aziende devono aprirsi alla consapevolezza “attiva” dei dipendenti e alla
Abbattere
i muri
collaborazione tra imprese. Gli operai sono una cosa diversa dalla “massa” e il
profitto non è avulso dai dipendenti. Questo muro è caduto nel nostro “nord-est”,
mediante l’adattabilità, la responsabilità, la flessibilità, che hanno stimolato creatività
e fantasia. La nuova cultura deve riguardare anche il settore pubblico, affinché non
sia solo controparte, ma infrastruttura logistica a sostegno di scambi e movimenti nel
mercato globale. La flessibilità deve applicarsi alla burocrazia e alle leggi, anche
attraverso una fiscalità giusta e non scoraggiante. “Alla logica delle controparti e
delle contrapposizioni occorre sostituire la logica del dialogo e delle sinergie, per
abbattere i muri di casa nostra dopo che sono stati abbattuti i muri fra i sistemi e i
Paesi del mondo”.(Ibidem, p.41)
5.4.4 - Alcune riflessioni
Penso si possa notare come la cultura, le relazioni, la tolleranza dei punti di
vista divergenti, la tendenza alla risoluzione dei problemi, l’equilibrio tra istanze
individuali
e
collettive,
emersi
dalla
precedente
analisi
come
elementi
“creativogenici”, trovino un riscontro storico ricorrente, pur mescolandosi ad altri
fattori di varia natura. La particolare identità sociale funge da catalizzatore ed è essa
stessa, in primo luogo, elemento “creativogenico”. L’identità sociale, come valore
condiviso, è cultura prodotta dalle esperienze storiche di relazioni fra “diversità”
(identità individuale). Il valore del diritto alla differenza è interiorizzato: è risorsa di
confronto e di scambio, destinata ad arricchire tutti i partecipanti. La creatività è una
modalità espressiva tipica di questa cultura, soprattutto per ciò che attende alla
risoluzione dei problemi.
Il fenomeno cooperativo42, ad esempio, unisce l’associazionismo all’identità di
“risolutore di problemi”, ma anche l’operaio-imprenditore si riconosce in una tale
identità, così come l’amministrazione comunale. I risultati sono relazioni sociali e
42
Si veda il 3.8 a p.75.
Capitolo V
201
politiche che mantengono nella forma una distanza riconoscibile a livello nazionale,
ma nel contesto locale tendono ad un avvicinamento43. Ad evidenziare la centralità
delle relazioni sociali comunitarie, peculiari per la creazione di modelli produttivi,
bastino, con le dovute differenze storiche e culturali, gli esempi del BadenWurttemberg (modello Renano) in Germania e del Giappone. Quello che interessa, ai
fini della creatività, è rilevare quali sono gli elementi comuni. Il modello Renano è
simile a quello bolognese tranne che per l’assetto proprietario: il nostro è di tipo
familiare, mentre quello tedesco è costituito da nuclei complessi di azionisti che
possiedono le aziende. Questi nuclei sono formati da banche, assicurazioni, ecc.…,
ma anche da fondi collegati ai dipendenti o ai sindacati (Melotti 1998, p.38-45). Si
potrebbe dire che la comunità sta alla creatività sociale, come la famiglia alla
creatività individuale. Si tratta di una proporzione semplicistica e a puro titolo
esemplificativo, in quanto la creatività sociale passa per l’individuo il quale, a sua
volta, ha bisogno della comunità per acquisire lo status di “creativo”. Solo una solida
identità sociale può permettere il confronto con il diverso, apprendendo ed
adattandosi senza perdere le proprie radici culturali identificative, perché nel
cambiamento ci si riconosce. Qua risiede la differenza, sottilissima nella pratica e
profondissima negli effetti, tra un percorso evolutivo e la cooptazione. Si può
affermare che l’industrializzazione del XVI° secolo, che ha reso Bologna capitale
della seta, non ha predisposto il territorio all’avvento del “fordismo”: le produzioni
meccaniche moderne presenti sul territorio non hanno utilizzato nessuna catena di
montaggio. Forte della propria identità culturale il territorio si è contaminato, ma non
si è fatto colonizzare dai cambiamenti esterni che ricadevano su di esso.
La
“specializzazione flessibile” che contraddistingue, oggi, il comparto può essere letta
come relazione che incontra le esigenze del cliente, che risolvere i suoi problemi
produttivi, e dei produttori, che si vedono riconosciuta l’identità di risolutori di
problemi. La tendenziale convergenza tra le aziende più grandi, che si
flessibilizzano, e quelle più piccole, che si burocratizzano, va vista, credo, in questa
43
Mi viene in mente, a questo proposito, la rappresentazione delle due anime della cultura emiliana nella saga di
Capitolo V
202
ottica. L’ambiente impone un continuo adattamento e il mercato richiede sempre un
prezzo da pagare per partecipare al gioco. Un cambiamento che comporti lo
snaturamento dei caratteri della comunità, nella contraddizione tra ordine e caos
implicita nella società, provocherebbe disagi tali da non essere raccomandabile
nemmeno agli eventuali vincitori. La schiavitù o i regimi produttivi totalitari sono
risultati sempre i meno redditizi da un punto di vista puramente economico, anche se
soddisfacevano esigenze di potere e di dominio sociale di classe.
Don Camillo di Guareschi.
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IL COMPARTO BOLOGNESE DELLE MACCHINE AUTOMATICHE