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MEDICINA OGGI
Collana diretta da Vito Cagli
Luca Genoni
L’UNICITÀ DEL PAZIENTE
L’ettagono di Ippocrate
ARMANDO
EDITORE
GENONI, Luca
L’unicità del paziente. L’ettagono di Ippocrate ;
Pres. di Ugo Fornari ; Postfaz. di André-Marie Jerumanis ;
Roma : Armando, © 2014
400 p. ; 20 cm. (Medicina oggi)
ISBN: 978-88-6677-722-9
1. Approccio al paziente
2. L’ettagono di Ippocrate
3. Medicina e bioetica
CDD 610
© 2014 Armando Armando s.r.l.
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Sommario
Presentazione di UGO FORNARI
9
Introduzione
15
1. Il primo triangolo: un concetto dell’essere umano
1.1. Il perché di un concetto dell’essere umano
1.2. La storia già avviata
1.3. L’individuo
1.4. Il triangolo di base dell’essere umano come tale
1.4.1. Il primo lato del triangolo: l’essere umano
quale soggetto
1.4.2. Il secondo lato del triangolo: l’essere umano
quale essere biologico-analizzabile
1.4.3. Il terzo lato del triangolo: l’essere umano
quale essere relazionale
1.4.4. I tre lati insieme: il triangolo di base come
unità armonica
1.4.5. La storicità del triangolo di base
33
33
35
38
42
2. Il secondo triangolo: il tempo
2.1. Considerazioni generali
2.2. Il tempo quale contesto dell’essere umano:
il tempo esterno all’uomo
2.2.1. Presente, passato e futuro e i tre aspetti
dell’essere umano
2.2.2. Identità: la sincronizzazione fra i movimenti
delle diverse storie
65
65
46
49
54
58
61
66
66
71
2.3. L’essere umano quale contesto del tempo:
il tempo interno all’uomo
2.4. Il tempo misurabile
2.5. Promuovere l’armonia dei tempi: un atto profondamente
terapeutico
73
80
84
3. Il terzo triangolo: il pensiero e l’operato del medico
3.1. Il medico che si meraviglia e accoglie
3.2. Il sapere e il fare del medico
3.3. L’immaginare e il progettare del medico
3.3.1. La definizione del problema
3.3.2. Il punto di partenza e la sua modificabilità
3.3.3. Il punto d’arrivo: il traguardo
3.4. Il sentirsi grati e il congedarsi
101
125
131
136
136
138
143
179
4. Il quarto triangolo: la libertà
4.1. La libertà dell’essere umano quale soggetto
4.2. La libertà dell’essere umano quale essere
biologico-analizzabile
4.2.1. Conflitti
4.3. La libertà dell’essere umano quale essere relazionale
4.4. Promuovere l’armonia delle libertà: un atto
profondamente terapeutico
185
185
5. Il quinto triangolo: la salute
5.1. La salute dell’essere umano quale soggetto
5.2. La salute dell’essere umano quale essere
biologico-analizzabile
5.3. La salute dell’essere umano quale essere relazionale
5.4. Mantenere tutti i tre tipi di salute dell’essere umano:
un atto medico fondamentale
211
211
6. Il sesto triangolo: i tre valori fondamentali
6.1. Il valore del bello
6.1.1. Il bello come sobrietà
6.1.2. Il bello sociale
6.1.3. Il bello spirituale
6.1.4. Riassunto
188
191
201
205
214
217
222
227
229
239
245
257
278
6.2. Il valore del vero
6.3. Il valore del bene
6.4. Armonia di bello, vero e bene
279
300
316
7. Il settimo triangolo: TU, LUI/LEI, IO – NOI
7.1. L’essere umano quale TU
7.2. L’essere umano quale LUI/LEI
7.3. L’essere umano quale IO
7.3.1. Aspetti generali
7.3.2. Il medico quale IO
7.3.3. Il paziente quale IO
7.3.4. I limiti dell’IO
325
328
337
352
353
356
374
380
Conclusione: l’ettagono
385
Postfazione di ANDRÉ-MARIE JERUMANIS
393
“Ringraziamo il dott. Genoni di aver permesso alla Clinica Luganese
di sostenere questa opera che favorisce una profonda riflessione sul
tema della malattia e della presa a carico della persona ammalata e
sofferente”.
Si ringraziano Carla e Piergiorgio Baroni per la revisione dei testi.
Elaborazione grafica e layout delle illustrazioni e della copertina:
www.micheldesign.ch.
Presentazione
UGO FORNARI1
Nella sua interessante e complessa monografia Luca Genoni cerca
di ampliare la concezione dell’essere umano andando al di là di quella
meramente (o prevalentemente) bio-antropologica o propria di altri modelli riduttivi e di altre visioni limitate che “tendono nel lavoro concreto
a ridurre il paziente a un puro punto di applicazione”, per rispondere
alla domanda: “Cosa è un essere umano?”.
La domanda non è nuova, ma nuova e originale è l’impostazione che
viene data allo svolgimento del tema e alla metodologia proposta.
Nel suo procedere Luca Genoni prende le mosse da tre ineludibili dati.
Il primo è che ogni essere umano è sempre un soggetto incondizionato. Il
secondo riguarda il fatto che ogni essere umano ha un corpo; l’uomo è di
conseguenza obbligatoriamente un essere biologico-analizzabile, perciò
condizionato. In fine ogni essere umano nasce quale ospite di un mondo
che lo accoglie e con il quale inevitabilmente interagisce fino alla sua
morte; egli è perciò necessariamente un essere relazionale. Questi tre
aspetti sono collegati fra loro e formano un tutt’uno che possiede un’identità vivente. L’identità richiede che domani resti qualcosa di quello
che oggi c’è del singolo individuo, e la vita che qualcosa cambi.
A suo avviso, “il triangolo è la figura che meglio riesce a rappresentare queste caratteristiche”, dato che può cambiare la sua forma senza
modificare la misura della sua superficie e giacché “il triangolo è la forma geometrica stabile per eccellenza”. Su questa base, egli propone una
sua personale concezione dell’essere umano, “formato da sette triangoli”, esaminati e discussi in sette specifici capitoli del libro.
1
Neuropsichiatra e medico legale, già professore ordinario di Psicopatologia
Forense presso l’Università degli Studi di Torino.
9
Il primo triangolo funziona da triangolo di base. Il suo primo lato
“rappresenta l’essere umano quale essere soggettivo che tramite il suo
unico e proprio modo di percepire, sentire, interpretare, selezionare – ricordando e dimenticando – agire e fare manifesta l’identità della propria
esistenza. Questa identità personale – inconfondibile rispetto al passato,
unica nel presente e irripetibile nel futuro – conferisce senso al singolo”.
Il secondo lato fa riferimento all’essere umano quale oggetto biologicoanalizzabile. Il terzo lato del triangolo descrive l’essere umano quale
essere relazionale. “Dico essere relazionale e non semplicemente essere
sociale, dato che l’essere umano oltre a interagire con le persone che lo
circondano, si relaziona sempre anche con tutto l’ambiente artificiale e
naturale che lo attornia”.
L’essere umano si colloca poi in un contesto temporale (il secondo
triangolo: il tempo) che, a sua volta, si costituisce come “fatto di un
passato il cui inizio assoluto nessuno conosce, di un presente infinitamente piccolo e di un futuro la cui fine non è immaginabile. Al passato
appartiene l’anamnesi del paziente, al presente la sua attuale sofferenza e la terapia in corso, al futuro il progetto terapeutico, la prognosi.
Passato, presente e futuro si escludono a vicenda. Contemporaneamente
sono necessariamente congiunti fra loro come collegati sono i tre aspetti
dell’essere umano”.
Nel collocare il paziente al centro della conoscenza e dell’intervento,
l’Autore riprende il concetto di relazione paziente-medico come il punto
fondamentale da cui prendere le mosse per svolgere ogni successivo ragionamento che si fondi su bilateralità, alterità, comunicazione, dialogo,
comprensione e rispetto dell’Altro come persona indipendente, autonoma, responsabile. Nel rapporto tra sanitario e paziente è fondamentale
il riconoscimento delle rispettive individualità, la capacità di reciproca
donazione e gratificazione, la condivisione e tolleranza delle frustrazioni, delle sofferenze e dei distacchi (terzo triangolo).
In ogni persona sono presenti (il quarto triangolo) tre forme di libertà
di cui nessuno può fare a meno (l’essere umano come soggetto dotato
di libero arbitrio, come essere biologico-analizzabile che occupando il
suo posto si scontra e come essere relazionale portato agli incontri). Da
parte del sanitario, promuovere l’armonia di queste tre libertà è un atto
profondamente terapeutico: “Nell’attività professionale quotidiana il
medico deve essere consapevole che una grande libertà biologica non è
10
sufficiente. Deve tenere sempre presente che un minimo delle altre due
deve essere conservato sia dal paziente sia da lui stesso. Deve badare
che le tre libertà devono essere le più ampie possibili”.
Luca Genoni illumina nel quinto triangolo ciò che è l’assenza di patologia: la salute. E nel sesto i valori fondamentali del bello, del vero
e del bene, soffermandosi sul piano etico sulla regola d’oro nelle due
accezioni; quella negativa che dice di non fare all’altro quello che non
vuoi venga fatto a te e quella positiva che postula di fare all’altro quello
che desideri venga fatto a te.
***
Giunti a questo punto, sospendo per un attimo la mia analisi del testo
e provo a svolgere il tema affrontato da Luca Genoni sotto un punto di
vista che prevede un altro tipo di lettura teorica e pratica che prende le
mosse da referenti teorici diversi e utilizza un altro linguaggio, ma che
giunge alle stesse conclusioni.
Inizio con il rilevare come tutti i comportamenti umani si costituiscano in un contesto sociale e non solo privato2.
In altre parole il comportamento umano è il risultato di un equilibrio
dinamico, funzionale e transattivo fra tre modelli concettuali e operativi
mutevoli nel tempo e nello spazio che si intersecano e che sono il modello di cultura, quello di personalità e quello di società. Dall’interazione
tra le caratteristiche innate, il sistema di cultura e l’ambiente, attraverso
processi di apprendimento e di modellamento, si sviluppa quella singola
persona, in un tempo e in uno spazio dati. Ogni persona, pertanto, non
è la somma delle sue parti, ma è un’identità nuova e unica, organizzata
secondo leggi biologiche, psicologiche e socio-culturali irripetibili e caratteristiche del suo modo di essere nel mondo in cui è stato gettato in un
dato periodo della (sua) storia.
In particolare, le caratteristiche individuali (substrato neurobiologico, apprendimento emotivo-relazionale) modellano nella normalità e
nella patologia le risposte della singola persona: risposte che devono
essere non solo spiegate, ma soprattutto comprese secondo il modello
2
Le pagine che seguono sono tratte da Fornari U., Trattato di psichiatria forense,
Utet, Torino, 2013, V edizione.
11
delle scienze umane (le scienze dello spirito = il comprendere) per le
quali la persona umana non è solo un sistema biologico, ma anche un’organizzazione psicologica, sociale e culturale.
Ne consegue che l’attività del clinico formato in ambito psicopatologico (e fenomenologico) si discosta nettamente dal modello delle
scienze naturali (le scienze della natura = lo spiegare).
In una visione integrata dell’attività sanitaria, un modello non esclude l’altro, ma riconosce e ammette la sussidiarietà e la parzialità del secondo rispetto al primo, quando, come specificato nel settimo triangolo
del volume di Luca Genoni (Tu, Lui/Lei, Io-Noi), al binomio “Io-Lui/
Lei” (le scienze naturali) subentra il binomio “Io-Tu”, nella costruzione
del “Noi” (la relazione).
In particolare, neuroscienze, neuropsicologia e genetica molecolare,
come ogni compromissione del bios devono essere valutate nell’ambito
di un discorso clinico integrato che prenda in considerazione l’intera
persona, nella sua storia di vita irripetibile e non riproducibile in laboratorio.
Un approccio di questo tipo pone in primo piano lo studio del funzionamento globale della personalità del paziente, di volta in volta collocato nelle quattro possibili dimensioni cliniche del funzionamento mentale (normale, abnorme nevrotica o psicopatica, borderline e psicotica).
Non sottovaluta, però, da un lato l’incidenza di eventuali componenti
patofisiologiche specifiche funzionalmente correlate ad altre (aspetti
biologici); dall’altro non sottace l’importanza delle caratteristiche culturali, sociali, ambientali, economiche, storiche e situazionali che sempre
fanno da sfondo ai nostri comportamenti (cultura e società).
Ecco allora che contro le discipline mediche che tendono sempre più
a costituirsi come i luoghi dell’oggettivizzazione e della reificazione,
ad appartenere alle scienze naturali che spiegano, misurano, oggettivano, psichiatria e psicologia diventano i luoghi della soggettivizzazione e
dell’alterità, e la psicopatologia rappresenta la loro essenziale categoria
conoscitiva. Essa da un lato individua e descrive i segni psicopatologici
presenti, allo scopo di costruire il contenuto della diagnosi psichiatrica
(psicopatologia descrittiva); dall’altro esplora cosa c’è di là del sintomo
(nevrotico o psicotico); come il soggetto lo vive; quali significati gli
conferisce (psicopatologia fenomenologica). Sulla comunicazione, sul
dialogo e sul colloquio si fondano lo statuto epistemologico della psico12
patologia e la comprensione della sofferenza umana quale si manifesta
nella relazione Io-Tu3.
In questo senso, “noi siamo un colloquio”4 anche quando la comunicazione si frammenta, si disperde e si dissolve in espressioni e in manifestazioni che danno comunque sempre senso e significato alle nostre
esperienze nevrotiche e psicotiche.
***
Con linguaggio mutato, ma di uguale pregnanza semantica e portata
terapeutica, Luca Genoni scrive che “non esiste l’IO come tale… IO e
TU possono esistere unicamente quale coppia di parole. Detto diversamente, se un essere umano pronuncia la parola TU implicitamente dice
anche la parola IO… Non può fare diversamente. La coppia di parole
IO-TU viene enunciata con l’essere e non può essere espressa che con
tutto l’essere. Nella relazione IO-TU il contatto è onnicomprensivo; non
può essere parziale. L’IO vede o il TU con il proprio occhio interno…
oppure il LUI/LEI… con l’occhio esterno. L’IO dell’essere umano è
perciò sempre doppio, o IO-TU oppure IO-LUI/LEI… Ogni coppia IOTU o IO-LUI/LEI è sempre anche una coppia TU-IO, rispettivamente
LUI/LEI-IO. Non può esistere una relazione fra due persone che in una
direzione è un contatto di tipo IO-TU e nell’altra è un legame LUI/LEIIO… Ritengo che una medicina che non tenga conto dei contatti IO-TU
sia una medicina esclusivamente riparativa che si muove al massimo ai
livelli di una regola d’oro nella sua accezione negativa. Una medicina
che fa il salto dalla formulazione negativa a quella positiva della regola
d’oro deve includere per necessità incontri di tipo IO-TU. In questo contesto nella relazione IO-TU il medico riesce a trovare in uno slancio di
auto-motivazione la ragione per continuare a lavorare quando non sono
più visibili traguardi di risultato significativi e raggiungibili, quando non
può più fare del bene”.
Al di là delle figure retoriche, o, meglio, suggestive (i sette triangoli
in una forma isoscele che confluiscono in un ettagono) utilizzate per
esporre la propria complessa e affascinante teoria e le sue ricadute pra3 Si veda, al proposito, Di Petta G. (a cura di), Io e Tu: fenomenologia dell’incontro,
Edizioni Universitarie Romane, Roma, 2008.
4 Borgna E., Noi siamo un colloquio, Feltrinelli, Milano 1999.
13
tiche, è presente nella monografia dell’Autore, tra l’altro ricchissima di
dotte citazioni, un forte richiamo alla realtà, alla deontologia medica e
all’etica.
Nel riflettere sulla sua formazione di base e specialistica e nel raccontare con linguaggio innovativo e ricco di cultura filosofica e antropologica del formarsi e dello svilupparsi del suo sapere, del suo saper fare
e del suo saper essere, l’Autore descrive e propone al lettore il (suo) ruolo di medico come quello di un operatore della salute (fisica e mentale)
che si muove all’esterno di facili estremismi (l’esasperato naturalismo e
il radicale psicologismo) e che riporta costantemente tutta la sua azione
a un basilare principio che qui di seguito sintetizzo.
Il paziente è, al contempo, oggetto e soggetto della conoscenza e
dell’intervento sanitario: oggetto, quando lo si approccia in maniera
impersonale e si retribuiscono sintomi e comportamenti attraverso interventi sostanzialmente psicofarmacologici o contenitivi; soggetto, quando lo si avvicina come persona e ci si prefigge il compito di promuovere
la salute all’interno di una relazione fatta non solo di parole, ma soprattutto di empatia, di ascolto, di silenzi e di speranze.
14
Introduzione
Scrivo queste pagine principalmente per una necessità interiore.
Scrivere mi costa poca fatica; anzi è grande gioia. L’inerzia che devo superare è di scarsa consistenza, la spinta notevole nel voler riassumere le
mie esperienze accumulate in oltre 40 anni di vita professionale trascorsi
nel mondo della medicina, tempo degli studi inclusi. Si tratta di esperienze in un’attività professionale che ho sempre svolto con profonda
coscienza e grande passione. Quest’ultima la auguro a chiunque svolga
una qualsiasi attività; personalmente la vivo come una grande fortuna,
più precisamente come una grazia ricevuta: più passano gli anni più la
consapevolezza di questa grazia e la riconoscenza per essa diventano
indelebili.
Ho pensieri, concetti e sentimenti semplici e limpidi in merito a quanto voglio mettere su carta. Sento che ciò che sto scrivendo ha un solido
fondamento fatto di esperienza quotidiana, lettura e vive discussioni e
che mira a traguardi sia significativi che raggiungibili. Penso infatti che
il presente libro possa delimitare un contesto di critico e fertile dialogo
per medici, terapeuti, educatori, operatori sociali e tutte le altre persone
in stretto e frequente contatto con esseri umani, che nelle loro attività
professionali sono spinti dalla motivazione e attirati dal desiderio di favorire la fioritura di singoli individui o di comunità, ossia di promuovere
processi di sintesi.
Nel medesimo tempo non pretendo e nemmeno voglio, anzi proprio
non desidero, che il contenuto dei capitoli che seguono abbia sapore di
scientificità per dare inizio a un dibattito tipo “questa è l’unica verità e
chi la pensa diversamente è nell’errore”.
15
Ogni libro che ho letto mi ha permesso di imparare qualcosa. Non ce
n’è stato uno di cui conoscessi già tutto il contenuto. Alla fine di ogni
libro il mio sapere si era perciò incrementato. Quasi sempre era aumentata in maggior modo la mia consapevolezza di quanto non conoscevo
ancora, poiché nelle rispettive bibliografie scoprivo due o tre libri per
me nuovi e non ancora letti. Scrivo queste pagine convinto che qualcosa
so; questo mio sapere è come un grattare alla superficie di un blocco di
granito con uno spessore che supera il metro. Sono convinto che, grazie
al lavoro di scrivere, qualcosa imparerò. E sono altrettanto certo che alla
fine del percorso la mia consapevolezza del “non sapere” sarà cresciuta
ancora più.
Dopo l’ottenimento a Zurigo del diploma di maturità iniziai a studiare elettrotecnica al Politecnico di questa città. Già in quei tempi rimasi
sempre sconcertato e soffrii nell’osservare il degrado ambientale. Il professore Slovik, mio docente di biologia al ginnasio e al liceo, durante
un’uscita portò la classe a visitare impianti di depurazione delle acque
luride sommerse da metri di schiuma provocata dai fosfati, e spiagge sul
lago di Zugo coperte di pesci morti in seguito all’inquinamento; contemporaneamente andammo a “catturare” del plancton in una idilliaca riserva naturale – usando da una barchetta a remi una retina – per osservarlo
poi al microscopio: un microecosistema meraviglioso. Il professore Slovik mi aveva risvegliato allora un profondo rispetto, un vero e proprio
amore per il nostro ambiente. Da tredicenne e novello allievo del ginnasio, ossia all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, cominciai a
usare detersivi con parsimonia, a riciclare la carta e a rinunciare, quando
c’era un’alternativa, a salire sull’autovettura privata. I miei genitori mi
lasciarono fare e nel medesimo tempo mi fecero capire con un sorriso,
fra l’umoristico e l’ironico, che il mio atteggiamento era un po’ esagerato. Comunque qualche anno più tardi mio padre ristrutturò nel nostro
paese d’origine della Valle di Blenio una stalla situata a 1600 metri per
fare vivere e comprendere a noi, sei figli, come si svolgeva una volta la
vita: la baita venne resa abitabile senz’acqua corrente e senz’elettricità.
Andavamo a prendere l’acqua direttamente da una vicina sorgente. Nella cascina riscaldavamo e cucinavamo con il fuoco alimentato da legna
tagliata a mano senza motosega e la sera giocavamo a carte al lume di
candele o vecchie lampade a petrolio. La prima parte della mia adole16
scenza si svolse in questo contesto scolastico-familiare. Il mio obiettivo
professionale, da grande, divenne quasi obbligatoriamente fare qualcosa
contro l’inquinamento della natura e che la lasciasse fiorire nella sua
bellezza; concretamente, volli inventare l’automobile elettrica. L’anno
di ingegneria al Politecnico di Zurigo mi fece conoscere la bellezza della
matematica; per le altre materie invece proprio non riuscii a entusiasmarmi.
Decisi allora di studiare medicina con l’intenzione di voler fare del
bene alla gente. Quest’aspirazione mi era stata trasmessa dall’ambiente
familiare in cui ero cresciuto, dove aiutare chi avesse bisogno e giustizia
sociale erano parte integrante della vita quotidiana. Ricordo che mio
padre, ingegnere civile e direttore di una fabbrica con una settantina di
operai, aveva rifiutato la possibilità di aderire a una cassa di previdenza
sociale perché l’offerta era stata limitata alla direzione. Unicamente se
anche i “suoi” – non nel senso di possesso, bensì di essere delle persone
a lui care – operai avessero potuto usufruire dell’uguale diritto avrebbe
accettato.
In occasione delle Feste Natalizie del 1971, pochi mesi dopo l’inizio
dei miei studi di medicina all’Università di Zurigo, ricevetti dai miei
genitori un libro sulla storia della medicina1 con la dedica “… I bambini
del Bengala a Luca nel Natale 1971…”. Mia madre si era rivolta a suo
fratello medico, Alberto Pedrazzini, chiedendogli cosa avrebbe potuto
regalare a uno studente principiante di medicina. Mio zio, che sette anni
più tardi divenne il mio primo primario, le suggerì questo volume, la cui
prima edizione risale al 1920 e la quinta al 1965. Il manuale di oltre 300
pagine mi seguì in tutti gli innumerevoli traslochi fatti da studente, giovane medico-assistente e medico con formazione specialistica terminata
come un soprammobile facente parte del mio inventario personale. Tante volte lo guardai con attenzione, in diverse occasioni lo presi in mano
sfogliandolo con l’intenzione di iniziare a leggerlo. Mai lo lessi. Qualcosa non si stancò di ripetermi che era ancora troppo presto. Quando
all’inizio del 2010 germogliò in me l’idea di scrivere il presente lavoro
sentii che prima avrei dovuto leggere la storia della medicina. Durante
1 Meyer-Steineg T., Sudhoff K., Illustrierte Geschichte der Medizin, Gustav Fischer,
Stuttgart, 1965.
17
la lettura capii finalmente una frase che mio zio mi disse il 1 ottobre
1978, il primo giorno di lavoro quale medico assistente: “Luca, fatti le
tue esperienze; stasera sei di picchetto”.
Era vero che avendo superato l’esame finale di medicina con la miglior nota in 17 su 18 materie ero ben preparato; era altrettanto vero
che sull’esperienza pratica risultavo quasi vergine. Possedevo ottime
nozioni della scienza allo stato teorico di allora; non avevo avuto che
marginalmente l’opportunità di fare conoscenza del paziente, quale essere umano con la sua storia personale, i suoi principi, le sue speranze e
perciò i suoi modi unici di percepire, interpretare e tentare di modificare
la realtà e con ciò che lo circondava: il suo contesto sociale e culturale e
il suo ambiente naturale. Tanto meno avevo avuto la possibilità di incontrare pazienti nella loro dimensione di essere essi stessi fiducia, amore
e speranza.
Infatti lo studio di medicina fu principalmente un insegnamento
fortemente scientifico e ben poco umanistico. Divenne per me, principalmente, un assimilare passivamente il più possibile di ciò che veniva
trasmesso a noi studenti. Più che una mente pensante in modo autonomo
e innovativo, mi ci volle una grande capacità di rimanere seduto alla
scrivania per imparare a memoria un’enormità di nozioni. Non nego che
con il passare del tempo insorse anche un certo piacere per la capacità
di collegare singoli dettagli appresi in diverse materie fra di loro: una
specie di giocare con la scienza, capacità che andava indubbiamente anche a favore dei malati. Questo ludico muoversi nel “sapere quasi tutto”
che ricorda la massima di Goethe: “Arbeite nur, die Freude kommt von
selbst”, tradotto in italiano: “Lavora, e il piacere arriva da solo”, non
attingeva le sue energie da quel tipo di spirito che mi aveva spinto a voler inventare l’automobile elettrica, rispettivamente a fare del bene alla
gente. Fu piuttosto espressione di un atteggiamento difensivo di sapere
il più possibile, per fare il meno possibile errori. Fu un amore astratto
per la scienza medica come tale, nato da tantissime ore di ininterrotto
studio. Il voler fare il bene della gente divenne quasi un traguardo secondario rispetto a quello di non commettere sbagli e di esibire ludicamente
il mio sapere accumulato. La paura dominava sull’amore, l’arroganza
sull’umiltà, la malattia sulla persona sofferente.
Una delle poche eccezioni nell’istruzione quasi esclusivamente
biologica-scientifica dello studio di medicina fu un corso incentrato sul
18
tema del colloquio medico. Il docente raccomandò a noi studenti di leggere il libro Haben und Sein, in italiano Avere e Essere di Balthasar
Staehelin2. Fu il mio primo libro di psichiatria letto al di fuori di quelli
necessari per passare gli esami. Lo rilessi trentacinque anni più tardi trovando fra le mie annotazione scritte a mano la seguente, datata 7 ottobre
1975, perciò situata nel tempo all’inizio della seconda metà degli studi
di medicina: “Mi accorgo come questo studio universitario mi ha allontanato progressivamente dalla motivazione iniziale di studiare medicina,
ossia di fare del bene alla gente e alla società in generale. Spero che un
giorno le cose cambieranno”.
Lo psichiatra e psicanalista Balthasar Staehelin scrive della necessità, nella medicina, di affiancare all’indelebile realtà del condizionato,
ossia di quanto in qualche modo è misurabile, quella altrettanto reale
dell’incondizionato, che nei colloqui medici emerge nel fatto che ogni
paziente è sempre anche fiducia, amore e speranza, malgrado che particolari condizioni della vita passata e presente possano camuffare queste
sue peculiarità. Esse le possono anche per lungo tempo nascondere, non
le possono mai distruggere.
L’inizio della mia prima attività di medico da mio zio era stato preceduto da due episodi per me importanti vissuti durante lo stage obbligatorio che occupava, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, quasi
interamente il penultimo anno dello studio di medicina delle università
svizzere.
La prima parte dello stage la feci in un ospedale della Svizzera Tedesca. Parte dell’ospedale era situata in un vecchio convento dotato di
un bellissimo cortile interno. La ristrutturazione del patio con una solida
pavimentazione in pietra naturale e un pozzo d’acqua centrale si trovava
in quel periodo nelle sue ultime fasi. Da una finestra del terzo piano
che dava su questo armonioso spazio interno osservai insieme al medico del reparto gli artigiani che completavano le ultime rifiniture. Quasi
contemporaneamente ci passò per la testa un pensiero con un fondo un
po’ sconsolante, che ci confidammo reciprocamente: “Quello che loro
fanno rimane, quello che facciamo noi in poco tempo non si vede più”.
Aggiunsi: “Il loro rimane un po’ di più”.
2
Staehelin B., Haben und Sein, Editio Academica, Zurigo, 1969.
19
Allora iniziai una lunga ricerca su ciò che durante la mia attività professionale potesse sottrarsi al proprio sgretolamento; sento che dopo circa 35 anni l’ho trovato. Esso è reperibile nel contenuto di questo libro.
La seconda parte la trascorsi in un ospedale a Ifakara, allora una piccola città della Tanzania situata a circa 400 km dalla capitale Dar es Salaam, lungo la linea ferroviaria che collega la capitale della Tanzania a
Lusaka, il capoluogo dello Zambia. Durante uno dei primi giorni visitai
nell’ambulatorio una donna sulla trentina sofferente di polmonite; mi
ricordo che fu una polmonite del lobo superiore sinistro. Dall’anamnesi
risultarono sei gravidanze portate a termine senza complicazioni con la
nascita di sei bimbi, tutti sani. Alle mie domande sull’attuale stato di
salute e sulla situazione dei sei figli mi rispose che tre erano morti. Non
abituato e impreparato a tali situazioni e rimasto in qualche modo personalmente sconvolto mostrai alla donna il mio dispiacere, sotto forma di
esternazione delle condoglianze. Immediata la reazione della paziente:
“Ti rendi conto che stupidità stai dicendo?” Il mio comportamento fu
vissuto da lei come totalmente inadeguato. Con il passare delle settimane capii il perché; allora in quella regione più o meno la metà dei bambini morivano prima di raggiungere i cinque anni. Per una donna perdere
la metà dei bambini era indubbiamente un dolore, non invece un evento
eccezionale, come per me. Mi resi conto che non esistono problemi di
una grandezza che per tutti è identica, ossia di una dimensione omologabile e standardizzabile secondo una scala “scientifica”. Una specifica
situazione può rappresentare per un individuo un dispiacere o una gioia
grande, per un altro essere invece di scarsa rilevanza.
Malgrado queste due esperienze molto umane e poco scientifiche, il
mio bagaglio per affrontare il “battesimo” del mio primo giorno quale
medico assistente, a mo’ di immersione totale, avvenne, viste le mie note
brillanti, in una rassicurante consapevolezza di sapere molto, “quasi tutto”. Fui dominato dalla mentalità dello studio universitario con ampia
componente difensiva, dettata da un’ansia di fondo e priva della speranza di costruire l’auto elettrica e di voler fare del bene alla gente e
alla società. L’obiettivo principale di tale mentalità, quello di ridurre a
un minimo gli errori, fu importantissimo e indispensabile. Nel medesimo tempo fu insufficiente per lasciare tracce indelebili del mio operato
e soprattutto per dialogare con l’unicità di ogni singolo paziente sulle
proprie questioni esistenziali. L’importanza di non commettere sbagli
20
l’avevo comunque toccata direttamente nel lavoro della mia tesi per l’ottenimento del dottorato, nel cui ambito avevo esaminato 44 casi di intossicazioni iatrogene letali che erano stati accertati all’Istituto di Medicina
Legale dell’Università di Zurigo.
I risultati terapeutici organici e perciò riparativi durante il periodo
passato da mio zio furono buoni, in certi casi anche eccellenti. Ricordo
in modo particolare la rianimazione e le susseguenti cure di una donna
rimasta oltre venti minuti sott’acqua, che portarono a una guarigione
praticamente totale. Il “caso” venne presentato a un convegno annuale di medicina intensiva e pubblicato3. In precedenza avevo scritto con
l’aiuto di mio zio altri 2-3 articoli. Malgrado questi aspetti positivi non
riuscii a trovare quello slancio propositivo che mi aveva spinto a studiare prima elettrotecnica e poi medicina. Rimasi in bilico fra quanto
scrisse Blaise Pascal, ossia che “Quando saremo afflitti, la scienza della
realtà fuori di noi non ci consolerà dell’ignoranza morale, ma la scienza
morale ci consolerà sempre dell’ignoranza delle scienze oggettive”4 e i
dati delle “scienze oggettive” della medicina che indicano che in Germania ancora nel 1892 la difterite aveva ucciso 50.000 bambini e che
i decessi erano drasticamente calati in pochi anni dopo l’introduzione
della vaccinazione5.
Mio zio fu un medico abituato a frequentare e curare anche persone
di alto livello sociale. Verso la fine del tempo passato nel suo reparto mi
fece una confidenza ricca di un prezioso consiglio: “Le cose più interessanti della vita le ho sentite e imparate dai pazienti dei reparti comuni”.
Dopo circa due anni di attività quale medico assistente in reparti di
medicina interna venni chiamato a prestare servizio militare per quattro mesi quale medico di una scuola reclute in una caserma militare. I
problemi di natura fisica, vista l’età dei futuri soldati di 20 anni, furono
di minima entità. Diverso il discorso per le reazioni psicologiche dei
3
Genoni L., Domenighetti G., Beinahe-Ertrinken beim Erwachsenen: günstiger Verlauf nach 20minütiger Submersionszeit, Schweizerische Medizinische
Wochenschrift, 1982.
4 Pascal B., Pensieri, Garzanti, Milano, 2007, p. 9.
5 Meyer-Steineg T., Sudhoff K., Illustrierte Geschichte der Medizin, Gustav Fischer,
Stuttgart, 1965, p. 339.
21
giovani all’impatto con una situazione per tutti nuova e nel medesimo
tempo identica.
Gli uni furono contenti e curiosi di vivere un’esperienza al di fuori
della routine giornaliera e di fare nuove conoscenze, gli altri reagirono
con disturbi psichici, contrassegnati da una grande varietà di problemi e
sintomi, in parte presenti singolarmente, in parte in variabile combinazione fra di loro. La sofferenza poteva essere di leggera entità con possibilità di superamento, oppure assumere una portata che non lasciò altra
scelta che fare ritornare i giovani a domicilio da dove quasi tutti erano
partiti in un buono stato di salute psicologica. Essa si manifestava con:
malinconia da casa; preoccupazioni di perdere l’amica a causa della lontananza, il posto di lavoro per la prolungata assenza o il proprio stato di
preparazione fisica-sportiva per l’impossibilità di allenarsi, con conseguenti prestazioni competitive insufficienti; timore che la propria omosessualità non ancora apertamente dichiarata potesse essere scoperta;
paura di farsi male durante le esercitazioni militari e di subire un danno
che potesse compromettere future attività professionali, sportive, artistiche o di altro tipo; sofferenza ansiosa, incluse le varie forme di fobie,
insonnia, disturbi alimentari, scompensi depressivi, comportamenti di
fuga o di tipo aggressivo, eccessivo consumo di bevande alcoliche, ecc.
Al decimo giorno l’impossibile divenne possibile, capitò l’impensabile:
l’atto suicidale purtroppo riuscito di un giovane compiuto in presenza di
una mezza dozzina di compagni.
L’arco della gravità “oggettiva” dei disturbi manifestati dai giovani militi era simile a quello osservato al pronto soccorso e nelle corsie
del reparto di medicina interna dell’ospedale: dalla transitoria insonnia
paragonabile a un intercorrente infetto alla drammaticità del suicidio
equiparabile alla morte per overdose del consumatore di eroina o per
emorragia cerebrale della giovane apprendista.
La differenza consisteva nel vissuto privato di un’identica situazione e nella varietà di possibilità e di modi concreti di reagire. Questa
molteplicità era sicuramente presente anche nei pazienti curati in medicina interna, nel vissuto e nella reazione del singolo alla notizia di
doversi sottoporre a un intervento chirurgico oppure di essere affetto
da un “brutto male”. L’operato del medico nell’ospedale era però dominato dalla notizia oggettiva data al paziente e dai susseguenti passi
consigliatigli per affrontare il problema fisico; la malattia aveva priorità
22
sul paziente, l’omologabile sul privato. Quasi diametralmente opposta
la situazione con le reclute sofferenti: era il giovane milite ad avere la
precedenza sul disturbo ansioso, depressivo o di altro tipo diagnosticato.
Mi ritornò in mente la donna africana che aveva perso tre dei suoi sei
figli. In una situazione di massima standardizzazione, come quella rappresentata da una scuola militare, affiorava in modo prepotente l’aspetto
privato del singolo.
Le mie conoscenze medico-scientifiche, che per la mia posizione di
medico assistente allora erano assai buone, mi permisero d’una parte
di contenere l’ansia di fare errori e dall’altra di ricevere lodi e complimenti: un sentirmi sicuro, sicuro nella fortezza del sapere scientifico.
L’esperienza con i giovani militi mi costrinse nel vero senso della parola
a dare seguito al consiglio di mio zio, quello di “farmi le mie esperienze”; contemporaneamente riaccese una mia dinamica e speranzosa vena
inventiva, un desiderio simile a quello di voler costruire l’auto elettrica e
ridimensionò la statica sicurezza datami dalla conoscenza del contenuto
dei libri di medicina.
Alla fine dei quattro mesi passati quale medico militare decisi di
cambiare i miei progetti disdicendo un posto di medico assistente in una
clinica reumatologica universitaria francese e di cominciare una formazione in psichiatria.
La avviai in un reparto per pazienti lungodegenti di una clinica psichiatrica. L’impronta terapeutica in questo ambiente fu principalmente
di tipo organico-farmacologico e socioergoterapeutico. Vi rimasi per
oltre due anni. Quattro furono gli episodi che ricordo con particolare
lucidità:
– Un consiglio datomi dal capo-clinica nei primi giorni: “Ascolta
quello che ti dicono gli infermieri che conoscono questi pazienti
da anni”. Capii l’importanza di conoscere la storia dei pazienti e
le abitudini al di fuori dell’attuale stato di salute e dei semplici
dati anamnestici concernenti le malattie sofferte nel passato.
– Al ritorno da un intervento di recupero tramite elicottero di un
paziente allontanatosi senza consenso medico dal nosocomio e
rifugiatosi in una stalla in alta montagna, dove era rimasto bloc23
cato da impreviste abbondanti nevicate il primario mi disse le seguenti parole: “Bravo Luca, ottimo intervento; ricordati comunque che la psichiatria è anche pericolosa”. Capii solo più tardi
cosa intendesse l’anziano e saggio primario. L’intervento stesso
fu contrassegnato da una circostanza importante: il paziente non
fece nessuna resistenza al nostro arrivo, né partecipò attivamente
al suo trasporto dalla stalla all’elicottero. Assolutamente muto,
dovette essere spostato come un peso morto. Comunque il nostro
atteggiamento, ossia quello dell’agente di Polizia, dell’aiutante di
volo e il mio, fu di assoluto rispetto. Al momento che il paziente
fu accomodato su un sedile del velivolo l’agente di Polizia mi
guardò con un’espressione come se volesse chiedermi: “Cosa faccio ora”? Intesi che si trattava di ammanettare o meno il paziente.
A malincuore ma senza dubbio dissi di sì, comunicando la mia decisione al paziente stesso. Presi questa decisione fortemente invasiva, malgrado che il paziente non mi paresse per nulla violento;
fui preoccupato dalla sua scarsa prevedibilità. Un suo improvviso
stato di agitazione avrebbe messo in pericolo tutti quanti. Una
volta atterrati gli feci subito togliere le manette. In quel momento
il paziente mi sussurrò in un orecchio: “Grazie”; ricevetti l’assoluzione che il mio duro intervento (di ammanettare una persona
che non aveva avuto un minimo di manifestazione aggressiva) fu
comunque, nella specifica situazione, proporzionato.
– Un giorno venni chiamato dagli infermieri per ordinare una somministrazione intramuscolare di una terapia che il paziente per
bocca non voleva prendere. In sé il paziente non fu particolarmente agitato e sicuramente – almeno con il senno di poi – si sarebbe potuto e dovuto aspettare. Infatti ebbi un’intuizione; non la
ascoltai e diedi retta agli infermieri. Ne scaturì una scena al limite
della violenza terminata con l’iniezione intramuscolare. Mesi più
tardi mi fermai a parlare del più e del meno con due infermieri
in una piccola cucina situata accanto all’infermeria di reparto. Il
paziente entrò calmo nel locale e chiacchierò con noi tre, camminando tranquillamente avanti e indietro, senza mai sedersi. Passando dietro la mia sedia improvvisamente mi prese per il collo e
mi fece cadere supino per terra. Rimase un attimo sopra di me per
poi mollarmi. Capii al volo che era un regolamento di conti e gli
24
dissi: “Ora siamo pari”. Non ebbi più nessun dubbio che il mio
atteggiamento, in occasione della somministrazione intramuscolare, pur tenendo conto dell’insistente richiesta degli infermieri
(che avrei potuto rifiutare) era stato veramente sproporzionato.
Ricevetti la giusta punizione.
– Dopo circa un anno e mezzo di attività all’ospedale psichiatrico
organizzai, con il consenso del primario e la collaborazione di due
infermieri, un’uscita di tre giorni con dodici pazienti che da decenni non avevano più dormito al di fuori del nosocomio. Grazie
alla mia precedente attività di medico militare riuscii a ottenere
per le due notti l’infermeria della caserma, dove due anni prima
avevo lavorato per quattro mesi quale medico di una scuola reclute. Consumavamo la prima colazione e la cena all’interno della
struttura militare. Il resto della giornata era dedicato a passeggiate
nelle località turistiche del Lago Maggiore, Locarno, Ascona e
dintorni. Il comportamento dei pazienti fu adeguato e non ci fu
nessun problema, a parte un paziente che entrò nel locale dove si
svolgeva una riunione dello Stato Maggiore Generale per chiedere al relatore una sigaretta… Al ritorno in ospedale, due pazienti,
appena scesi dagli autoveicoli, urinarono sul parcheggio del nosocomio.
L’attività medica nell’ospedale psichiatrico fu inizialmente interessante e affascinante: un vero e proprio tuffo in un mare pieno di fortissime emozioni. Imparai presto a usare con più che discreto successo gli
psicofarmaci, riuscii a partecipare con una certa facilità alle diverse attività socioergoterapeutiche e acquistai conoscenze nel gestire i contatti
con i vari enti assicurativi e assistenziali.
Passata l’euforia del nuovo riemerse la mancanza di un esplicito
concetto professionale operativo, di un approccio teorico che mi avrebbe permesso di “costruire l’automobile elettrica in medicina, in modo
particolare in psichiatria”, insomma un orientamento che avrei potuto
“sposare”. L’approccio biologico-medicamentoso da solo fu di nuovo
troppo tecnico-scientifico e perciò difensivo; stesso discorso sia per
quello comportamentale di tipo biofeedback che per quello socioergoterapeutico; mi sembrarono tutti delle singole cornici ermeticamente chiuse verso l’esterno e dove la comunicazione poteva avvenire unicamente
25
all’interno della singola cornice. Ebbi l’impressione di essere caduto
dalla padella nella brace: avevo perso in buona parte la sicurezza che la
medicina scientifico-teorica mi aveva garantito e contemporaneamente
mi trovai di nuovo incatenato da concetti vissuti da me come statici,
riduttivi e simili a ciò che ha il nome scientifico con la differenza di una
assai minore precisione.
Grazie alla psicoterapia sistemica ebbi nuove speranza di poter lavorare nel campo della psichiatria in un modo professionale offensivo,
ossia rivolto al compimento, alla fioritura di chi mi affidava la propria
salute e non esclusivamente difensivo-riparativo nel senso di un puro
contenimento dei singoli disturbi e sintomi. Feci una formazione dallo
psichiatra Gottlieb Guntern. Per la prima volta in circa dieci anni di studio e di lavoro passati nel mondo della medicina sentii parlare di comunicazione, di aspetti che trascendono il singolo paziente come individuo
e del fatto che è il sistema superiore a dare il senso a quello inferiore,
tipo: il fegato dà senso alla singola cellula epatica, il sistema digestivo
nella sua totalità al fegato e l’organismo nel suo insieme al sistema digestivo. Si discusse di estetica, di etica, di relazioni la cui somma è zero,
di equilibri dinamici, ossia di situazioni mobili che passano senza interruzioni o comunque senza grossi scossoni da un equilibrio a un altro, di
ecosistema e via dicendo.
Furono descritti due metodi di arrivare alla conoscenza delle cose6.
Il primo fa capo al pensiero “analitico - dualistico”, che descrive il mondo scomponendolo in più parti; spiega il mondo riducendo, perciò pensiero analitico - dualistico - riduttivo, tutto a un unico elemento. Questo
metodo cerca la causa prima della malattia, analizzando un dettaglio, dividendolo in due per scartare ciò che è di scarso interesse e proseguendo
questo meccanismo di “dividi e scarti” all’infinito per arrivare all’elemento più piccolo possibile, una specie di atomo o di archè con il quale
si pretende poi di spiegare e curare la malattia. La terapia parte dal basso
e sale verso l’alto. Opposto al pensiero analitico - dualistico - riduttivo
venne teorizzato quello olistico, che descrive il mondo delineando un
quadro globale: enfatizza la conoscenza degli insiemi, in modo partico6
71.
26
Guntern G., Therapodos ovvero la via del terapeuta, Hoepli, Milano, 1993, p.
lare di quelli ai quali il paziente appartiene; la modulazione da parte del
terapeuta di un rispettivo gruppo porta alla guarigione del paziente, che
ha perso l’etichetta di paziente come tale, diventando il paziente “designato”, quello che porta i sintomi di un gruppo malato, per esempio la
famiglia, sui cui appunto bisogna agire. La terapia della visione olistica
parte dall’alto e scende verso il basso.
Il pensiero sistemico combina le due modalità. Il mio entusiasmo
iniziale venne parzialmente ridimensionato, quando mi accorsi che sia
il metodo che tende alla conoscenza “dell’atomo” – in greco l’indivisibile – sia quello olistico – in greco del tutto – perciò in qualche modo
dell’universo, sia la combinazione dei due nel pensiero sistemico tengono solo parzialmente conto del malato come persona inconfondibile,
unica e irripetibile: tutte le tre forme scotomizzavano l’unicità della
donna africana, rispettivamente dei giovani militi. Di conseguenza il
pensiero sistemico, una combinazione dei due pensieri, non portò per
me qualcosa di fondamentalmente diverso dalla somma dei due concetti. La relazione del terapeuta rimase sempre principalmente quella con
“oggetti”, indipendentemente se si trattasse della malattia, del gruppo
con le sue relazioni o di ambedue insieme. Il soggetto, quello che non
è l’IO e nemmeno il LUI o la LEI, bensì il TU, quello di cui Martin
Buber tramite la frase “Io dico io dicendo tu” afferma che dà identità al
singolo io7 non fu che marginalmente presente, rispettivamente preso
in considerazione. (Nel presente libro i pronomi personali soggetto al
singolare vengono scritti quando non riferiti a una determinata persona con caratteri maiuscoli in vista di quanto verrà discusso nell’ultimo
capitolo).
Questo fu in grandi linee il mio bagaglio con il quale nel 1985 ottenni
il titolo di specialista in psichiatria e psicoterapia, bagaglio arricchito da
un lavoro su me stesso svolto sull’arco di quattro anni da una collega e
da esperienze nel campo peritale. Quest’ultima attività mi dimostrò indirettamente l’ineluttabilità della parte soggettiva del peritando – perciò
di ogni paziente e in senso lato di ogni essere umano. Compresi che una
o più diagnosi psichiatriche non furono mai in grado di descrivere una
persona nella sua totalità. Di conseguenza mi fu chiaro che il margine di
7
Buber M., Ich und Du, Philipp Reclam jun., Stuttgart, 2009, p. 3.
27
valutazione non omologabile da parte del perito nel rispondere a quesiti
di tipo abilità lavorativa, idoneità alla guida di autovetture, capacità di
intendere e volere, pericolosità, ecc. ebbe una dimensione non indifferente. Le rispettive opinioni furono difficilmente estranee alle convinzioni e alle caratteristiche individuali del perito e alla sua relazione
specifica con il periziando, malgrado sinceri sforzi di neutralità; essa
non fu mai raggiungibile in modo assoluto. Di seguito riassumo una tale
situazione, che sta al posto di tante.
Donna 54enne primogenita di quattro fratelli; sin dall’età di otto anni
dovette accudire i suoi fratellini. Padre di professione manovale, madre
affetta da malattia psichiatrica caratterizzata da comportamenti violenti,
risorse finanziarie molto esigue. Prima di andare a scuola preparava la
colazione per i fratellini, dopo la scuola doveva sbrigare le faccende domestiche, la sera e il fine settimana non usciva mai con le amiche. Riporto
con il permesso della paziente parti di una relazione scritta dalla direzione
della scuola che la paziente aveva frequentato all’attenzione dell’ispettorato scolastico: “L’alunna BA ha conseguito nello scorso anno scolastico
la licenza elementare e non si è potuta iscrivere alla scuola media proprio
perché deve aver cura della mamma ammalata e della famiglia.
La mamma è quasi sempre degente in ospedale, così che la cura dei tre
fratellini più piccoli e anche del padre resta affidata quasi esclusivamente
a lei.
Quello che importa rilevare è però la cura e l’amore con cui disimpegna
questi difficili compiti. I suoi fratellini sono sempre puliti e vanno a scuola
sempre in ordine; la sua casa è sempre ordinata ed ella non si risparmia
neanche la fatica di passare ogni giorno lo straccio sul ruvido pavimento
di mattoni della sua casa.
I vicini di casa quando ella andava a scuola la vedevano già in piedi
alle cinque del mattino e mentre i suoi dormivano lavava spesso la biancheria in una tinozza. Fa pena agli stessi vicini questa ragazza piccola,
mingherlina e gracile che ha rinunziato senza rimpianti alle gioie e ai
giochi della sua età per accollarsi il grave peso della famiglia che la tiene
impegnata tutto il giorno. […] Ella si distingueva sempre per la cura e
l’impegno che metteva nel lavoro scolastico, così che ha conseguito la
licenza elementare con otto in tutte le materie e con la lode della commissione esaminatrice”.
28
Inizia a lavorare a 14 anni, si sposa a 20 anni e ha presto due figli. Con
il suo stipendio paga gli studi universitari a un fratello. Per decenni fa da
madre, moglie, casalinga e donna delle pulizie. Passati i cinquant’anni
inizia a sentirsi stanca, ha un po’ ovunque dolori ai muscoli e alle articolazioni, dorme male e soffre di cefalea. A 54 anni non riesce più a seguire
un’attività lavorativa lucrativa. Tutti gli esami organici sono nel limite della norma, a parte un certo sovrappeso. Sul piano biologico è perciò sicuramente abile al lavoro. Anche sul piano umano dopo 46 anni di lavoro? Il
perito può avere un atteggiamento distaccato e prendere in considerazione
principalmente gli esami somatici oppure può mettersi almeno parzialmente nei panni della donna e sentire l’esaurimento delle risorse.
La fortuna di poter far parte per dodici anni di una commissione di
“psichiatria di guerra e di catastrofe” mi permise di formarmi, lavorare e
poi insegnare nel campo della psicotraumatologia. Essa mi confermò di
nuovo dopo l’esperienza militare e quanto vissuto anni prima in Tanzania, che non esistono situazioni problematiche o gioiose come tali bensì
unicamente situazioni vissute da un singolo individuo come problematiche o meno: un identico evento traumatogeno, ossia potenzialmente
traumatico, può sia sfiorare solo marginalmente gli uni sia colpire in
maniera profonda gli altri. Feci anche esperienza di quanto importante
sia conoscere nel singolo traumatizzato – e di conseguenza per il lavoro
terapeutico nel singolo paziente – sia la storia delle malattie sia quella delle risorse individuali per superare eventi difficili come un evento
traumatico. Una vera e propria scoperta personale fu l’importanza del
rito come soglia per ridare continuità alla vita quando un evento traumatico ha fatto sì che “l’impossibile è diventato possibile”.
Di grande importanza fu la proposta fattami nella seconda metà degli
anni Novanta dal mio amico Andrea, infermiere psichiatrico che conosco sin dai primi giorni della mia attività quale medico assistente in
psichiatria, di frequentare insieme dei corsi di filosofia alla Facoltà di
Teologia di Lugano, fondata pochi anni prima. Seguii per tre anni dei
corsi, dando anche gli esami e ottenendo circa la metà dei crediti per
un Bachelor. Lasciai gli studi per la nascita della terza figlia. Da una
parte gli studi furono un ampliamento del modo di pensare: fino ad allora non avevo mai discusso su concetti come sostanza e forma, su cosa
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possano essere il tempo, la salute, la libertà, la responsabilità, il lavoro
ecc.. Il pensiero che mi affascinò, che mi incuriosì più di tutti fu quello
in merito a ciò che è l’armonia. Dall’altra gli studi portarono a una collaborazione e amicizia con Paolo Pagani, ora professore associato alla
Università Cà Foscari di Venezia. Insieme fondammo una piccola società, attribuendole il nome della mia terza figlia: Anastasia, la risorta. La
società ha offerto sull’arco di una decina d’anni consulenza e coaching
a impronta filosofica e medica a professionisti. Di grande insegnamento
fu l’esperienza fatta nella collaborazione con sportivi professionisti di
alto livello: un mondo fortemente orientato all’ottenimento di risultati
immediati e quantificabili si dimostrò sensibile, molto sensibile a concetti estetici, etici e di giusti equilibri.
In questo mio percorso formativo voglio aggiungere gli innumerevoli preziosi insegnamenti ricevuti liberamente dai pazienti che, nell’affidarmi la loro salute, furono e sono tuttora sempre anche miei maestri,
aprendomi la porta alla loro parte privata, sempre unica, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla formazione scolastica o professionale,
dal grado d’integrazione nella società, dallo stato di salute, dalla provenienza, dalle proprie convinzioni politiche, religiose o di altro tipo; fu ed
è così, come mi aveva anticipato mio zio Alberto Pedrazzini, in merito ai
pazienti del reparto comune. Cito quattro frasi ricevute come regalo dai
pazienti in giorni qualsiasi della mia attività professionale: “Sa dottore,
io so divertirmi anche con un filo d’erba”; “Dottore, questa depressione
proprio ci voleva; mi – o meglio in famiglia ci – ha fatto bene”; “Dottore
la cura è troppa buona; è tempo che sto bene. Ho bisogno di dare fuori di
testa. Le preannuncio che sospendo le pastiglie e che mi farò ricoverare
in clinica psichiatrica”; “Sa dottore, non voglio sprofondare troppo nella
realtà”.
L’insieme degli insegnamenti ricevuti e delle esperienze fatte – fra di
loro a volte “con quasi impossibile congiunzione congiunte”, comunque
mai completamente scollegate e in nessuna circostanza completamente
contraddittorie fra di loro come sono gli opposti manichei – fece sbocciare e fiorire in me in questi quaranta anni un’immagine di un loro
necessario denominatore comune. Tale rappresentazione voleva dare
una risposta a una fondamentale domanda, che in qualche modo ogni
30
medico si pone: “Per poter svolgere nel miglior modo possibile la mia
professione come posso descrivere l’essere umano che in veste di paziente ho davanti a me, rispettivamente quali sono i punti di vista che lo
caratterizzano e che devo prendere in considerazione?”
L’immagine volle pure delineare quei criteri, valori e aspetti che
sono ineluttabilmente e necessariamente legati all’operato medico, anche se non peculiari di esso. Essa tende a dare una risposta alla domanda
il più possibile completa nella consapevolezza di mai raggiungere la
completezza. La figura base di quest’immagine divenne il triangolo, il
loro numero sette. Insieme formano un ettagono. Ai due numeri – il 3 e
il 7 – sono arrivato magari per caso, forse per inevitabile necessità. Nel
sette volte tre espongo pochi, essenzialmente tre, fondamentali concetti
diverse volte, in certe occasioni con un volto nuovo e in altre ripetendomi, facendo i rispettivi riferimenti alle pagine precedenti.
31
1. Il primo triangolo: un concetto dell’essere umano
1.1. Il perché di un concetto dell’essere umano
Tutti hanno quotidianamente a che fare con esseri umani, in modo
particolare chi lavora nel campo terapeutico; di esso fanno parte oltre
alla professione medica anche quella infermieristica, di assistente di
cura, di laboratorista, di tecnico di radiologia, di soccorritore, di coordinatore e altre. Pure a stretto contatto con individui sono gli educatori
e gli operatori sociali. Gli approcci teorici e le loro applicazioni tecniche-pratiche sono in questi contesti professionali innumerevoli. Sovente manca però un concetto dell’essere umano. Infatti se si domanda:
“Cosa è un essere umano?” la prima risposta è nella mia esperienza:
“Uno come me”. Sotto questo uno come me, ossia come io mi vedo, si
cela comunque una propria convinzione, che si svela parzialmente al
momento che ci presentiamo: abitualmente dapprima diciamo il nostro
nome, ossia qualche cosa di (quasi) unico, poi la professione, cioè cosa
facciamo e infine la parentela (a dipendenza se si hanno importanti legami familiari o meno), il luogo dove si abita o la nazionalità: “Mio cugino
è il …”; “Abito a Lugano”; “Sono svizzero”. Magari c’è chi confida una
particolarità personale di tipo “Sono tifoso di …” o “Nel tempo libero
mi piace fare…” oppure aggiunge la propria credenza religiosa, dando
così espressione all’inerente personale convinzione, che l’essere umano
ha un aspetto trascendente.
Quale medico ho partecipato a decine di congressi, che evidentemente hanno avuto come tema principale l’essere umano. Molto raramente la
discussione si è basata su un concetto dell’essere umano esplicitamente
discusso. Chi parlava doveva però per forza avere un proprio concetto.
33
Non se ne è mai parlato – come a un congresso all’inizio di una presentazione si usa e si deve rendere pubblici i propri contatti professionali
legati a interessi commerciali proiettando l’immagine con la rispettiva
lista – forse per una relativa debole consapevolezza. Magari il concetto
era limpidamente tracciato nella mente dell’oratore e lui lo riteneva tacitamente valido per tutti.
Con un po’ di umoristica enfatizzazione si può affermare che a un
congresso a impronta psicofarmacologica l’essere umano viene vissuto
come una specie di prosciutto che per guarirlo è sufficiente condirlo
adeguatamente con psicofarmaci; dopo dieci anni di terapia lo psicoanalista rimane irremovibilmente dell’opinione che il paziente non ancora guarito non ha finora risolto i suoi più profondi e perciò essenziali
problemi relazionali a livello emotivo con le principali persone di riferimento avute nei primi anni di vita. Il clown-dottore è convinto che
il paziente si è ammalato perché non ha riso sufficientemente, rispettivamente non guarisce perché non è abbastanza gioioso e così dicendo
si mette in sintonia con il fondamentalista religioso che sostiene che le
cause stanno nel fatto che il paziente non crede e non ha pregato quanto
basterebbe. Il terapeuta orientato a un concetto sistemico vede le principali cause della malattia nella disarmonia dell’ambiente familiare e/o
lavorativo e ritiene prioritario riportare equilibrio nei rispettivi sistemi.
Sono tutte frasi da me udite più di una volta durante i quattro decenni
di studio e lavoro. Esse esprimono un sottostante concetto dell’essere
umano, non sempre dichiarato in modo così risolutivo, sovente invece
difeso in maniera radicale, soprattutto quando il proprio concetto arriva
a raggiungere i suoi limiti. Non di raro ne consegue una guerra da trincea con altri concetti per inconciliabili posizioni. Infatti, sempre con un
po’ di humor rivolto anche alle mie convinzioni, sembra che gli specialisti nel campo della psichiatria e psicologia diventino essi stessi vittime
del ritorno dell’archetipo o degli “antecedenti senza antecedente” che
con la propria visione unilaterale hanno rimosso. L’arcaico desiderio di
una univoca e onnicomprensiva mono-concezione porta in prima linea
e inevitabilmente a una staticità non conciliabile con la contemporanea necessità della vita sia di stabilità sia di flessibilità. Infatti l’essere
umano esiste unicamente se muta e nel medesimo tempo è lui stesso a
esistere solamente se resta immutabile. Da qui la mia proposta di un
concetto dell’essere umano che sia in grado di accordare queste due ine34
luttabili esigenze della vita, raffigurabili nell’immagine del funambolo
che rinunciando a opporre l’indispensabile stabilità al flessibile movimento riesce a conciliare e addirittura a fare reciprocamente esaltare i
due aspetti della vita.
1.2. La storia già avviata
Inizio con “la storia già avviata”, ossia quella preesistente al singolo
essere umano, rispettivamente a tutta l’umanità. Essa mi serve per sviluppare il mio concetto dell’essere umano.
Fra le varie possibilità che raccontano “la storia già avviata” ho scelto quella proposta dalla Bibbia, perché in qualche modo a me nota in
seguito alla mia educazione. Avrei indubbiamente potuto far riferimento
ad altre convinzioni o miti, in modo particolare alla mitologia greca,
della quale ho ricevuto una certa infarinatura.
Inizio con il primo versetto del primo capitolo del primo libro del
Vecchio Testamento, ossia la Genesi.
“In principio Dio creò il cielo e la terra. Il mondo era vuoto e deserto,
le tenebre coprivano gli abissi”1.
Finisco qui la citazione e riassumo i seguenti versetti:
il primo giorno creò la luce.
Il secondo giorno Dio separò le acque: una parte rimase sopra, ossia le
nuvole, una parte rimase in basso, i mari.
Il terzo giorno creò l’asciutto e divise terra e mare. Sulla terra fece crescere
erba, grano, alberi e fiori.
Il quarto giorno creò il sole, la luna e le stelle e con loro giorno e notte.
Il quinto giorno creò i pesci e gli uccelli.
1
Parola del Signore: La Bibbia: traduzione interconfessionale in lingua corrente,
Elle di ci, Leumann, Torino, 1985.
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Il sesto giorno creò gli animali domestici, quelli selvatici e quelli che strisciano. Sempre al sesto giorno creò infine l’uomo; diede vita a due che creò
singolarmente prima uno e dopo l’altro e non Adamo ed Eva contemporaneamente.
Il settimo giorno riposò.
Nell’ultimo versetto, il ventinovesimo, sempre del primo capitolo si
legge:
“Dio disse: ‘Vi do tutte le piante con il proprio seme, tutti gli alberi
da frutta con il proprio seme. Così avrete il vostro cibo’”.
Nel quindicesimo versetto del secondo capitolo infine sta scritto:
“Dio, il Signore, prese l’uomo e lo mise nel giardino dell’Eden per coltivare la terra e custodirla”.
Malgrado nell’Eden per la sua costituzione paradisiaca regnasse
ininterrottamente la felicità, Adamo ed Eva dovettero operare con un
obiettivo, ossia coltivare la terra – un atteggiamento offensivo verso
la fioritura – e custodirla – un comportamento difensivo che conserva.
Un’istruzione d’uso non viene data e nemmeno viene prescritto il come.
L’uomo sembra perciò essere libero di come svolgere questi due inevitabili compiti fondamentali e perciò responsabile delle sue scelte.
In questi due capitoli della Genesi cinque sono i messaggi di fondamentale importanza per la nostra tematica:
1. Innanzitutto il fatto che l’uomo non ha potuto decidere se venire
al mondo o meno, rispettivamente che non si è creato da solo, ma
che è stato creato. I primi due esseri umani, Adamo ed Eva, sono
stati creati da Dio. In seguito qualsiasi essere umano è stato generato da chi lo ha preceduto. Anche nelle tecniche più sofisticate
della riproduzione artificiale ci sono sempre almeno due persone
che fanno una qualsiasi cosa per generare un essere umano. Il suo
essere se stesso nella propria inconfondibilità, unicità e irripetibilità si sviluppa su un originale appartenere biologicamente a
chi lo ha generato. In altre parole, come scrive Salvatore Natoli,
nessuno è un puro inizio; nessuno viene da solo al mondo, ma tutti
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2.
3.
4.
5.
noi siamo, almeno parzialmente sempre anche messi al mondo2.
Ciò corrisponde a quanto Aristotele scrive nella fisica: “Nulla viene mosso se non in presenza di un altro motore”3.
Ogni uomo viene creato o generato singolarmente. Egli è perciò
un individuo (vedi paragrafo 1.3.). Dio ha creato i primi due esseri umani singolarmente uno dopo l’altro; non ne ha fabbricati
un’infinità in un botto solo.
Il terzo messaggio è quello che alla nostra nascita entriamo in
un mondo già esistente. Terra, mare, vegetazione, giorno e notte
e animali erano sulla terra prima di noi. Del resto anche nella
teoria evoluzionistica l’uomo è arrivato come ultimo su questa
terra; la differenza fra quest’ultima e la genesi e altre convinzioni religiose o miti è che per la prima tutto è avvenuto “tirando i
dadi”, rispettivamente è conseguenza della selezione naturale che
premia il più forte, per la seconda invece tutto è il risultato di un
disegno divino. In ogni caso alla nostra nascita siamo ospiti di un
ecosistema che ci precede e ci accoglie. Uso intenzionalmente la
parola “eco”; essa proviene dal Greco oìkos, che significa dimora
nativa. Tutti entrano alla propria nascita in un discorso già avviato. So che anche nella religione egizia e nella mitologia greca
l’uomo non è la prima cosa o il primo essere. Personalmente non
conosco nessuna mitologia, religione o filosofia che ritiene consapevolmente l’uomo l’inizio di tutto.
Il quarto messaggio dice che l’uomo si ciberà delle piante con il
proprio seme e degli alberi da frutta con il proprio seme. L’uomo
ha perciò a tutti gli effetti un corpo. In più, da una parte la vegetazione è a disposizione dell’uomo, dall’altra l’uomo dipende
da essa. Senza di essa muore di fame. Il suo appartenersi nella
propria diversità è costretto a svilupparsi su un originario appartenere al mondo esterno, su una primordiale dipendenza biologica,
che perdura durante tutta la sua vita.
L’ultimo messaggio sottolinea che l’essere umano è necessariamente un homo faber. È costretto a fare e questo persino nell’Eden, dove per definizione regna la felicità, e non esclusivamente
2
Natoli S., La felicità di questa vita, Mondadori, Milano, 2011, p. 9.
Reale G., Antiseri D., Il pensiero occidentale dalle origini a oggi, vol. 1, La
Scuola, Brescia, 1995, p. 137.
3
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dopo essere stato cacciato dal paradiso. Non può scegliere di fare;
può e deve invece scegliere come fare. Detto diversamente, nessuno ha potuto liberamente scegliere di venire al mondo e tutti
sono costretti a decidere cosa fare e come stare a questo mondo.
Nessuno è responsabile di essere nato e tanti sono responsabili di
molte scelte che fanno durante la vita.
Riassumo: l’essere umano non è un puro inizio. È creato, rispettivamente è generato singolarmente con una propria inconfondibilità e unicità. Non è unico al mondo; è addirittura ospite di questo mondo. Non
gode di un’assoluta autonomia ed è costretto a decidere e a fare. Non
può decidere di non decidere: già al risveglio deve decidere se rimanere
sdraiato o se alzarsi e ogni decisione oltre a essere una scelta è sempre
anche una rinuncia. Può e deve invece responsabilmente decidere cosa
fare e in che modo agire.
1.3. L’individuo
La parola individuo significa unità indivisibile, inseparabile.
Un individuo è in senso lato un organismo vivente considerato distintamente da ogni altro della specie o del genere a cui appartiene4.
L’individuo in senso stretto è un organismo umano, considerato distintamente da qualsiasi altro essere umano.
Inizio la discussione con la descrizione da un punto di vista medicopsichiatrico di un individuo qualsiasi che sta in questo momento davanti
a noi e di cui noi non sappiamo nulla, né età, né sesso, né provenienza,
né altro. Gottlieb Guntern5 lo delinea dall’esterno nel suo essere e nel
suo operare, nel suo stato operativo attuale, ossia nel suo funzionare momentaneo in generale, in modo assai completo tramite i seguenti cinque
aspetti:
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5
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Il grande dizionario Garzanti, Garzanti, Milano, 1987, p. 933.
Guntern G., Mit den Schwingen des Adlers, Orell Füssli, Zürich, 2003, p. 68.
I cinque aspetti possono essere simboleggiati da una stella a cinque punte, il pentacolo. Le cinque punte rappresentano i cinque singoli
aspetti; il fatto che la stella possa essere disegnata con un unico ininterrotto movimento sottolinea che le punte appartengono ad un’unica inseparabile unità, appunto l’individuo all’interno della quale interagiscono.
I cinque aspetti si trovano così in un delicato equilibrio fra ciò che li accomuna e ciò che li distingue. Le punte di una singola stella non devono
avere come nel disegno l’identica grandezza. Il numero di forme possibile di questa stella è perciò infinito. Magari solo per pura coincidenza il
pentacolo è il simbolo di Venere, la dea della bellezza femminile.
Le principali correnti terapeutiche si occupano di una singola punta
della stella con l’obiettivo o la speranza di poter così modificare tutta la
stella. Con una buona dose di humor e una componente molto riduttiva
descrivo le singole correnti nel seguente modo:
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