I secoli del Monte
Cenni storici sulla Banca
Monte dei Paschi di Siena
e sui Palazzi della sua Sede storica
I SECOLI DEL MONTE
Redazione Area Comunicazione di Banca Monte dei Paschi di Siena
Fotografie Andrea e Fabio Lensini
Pubblicazione curata dall’Area Comunicazione
di Banca Monte dei Paschi di Siena, Siena, 2015
Edizione fuori commercio
© 2004 1ª edizione
© 2009 2ª edizione
© 2015 3ª edizione
Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A.
Sommario
I secoli del Monte
Giuliano Catoni
7
I Palazzi della Sede storica
Banca Monte dei Paschi di Siena
della
Evoluzione delle strutture architettoniche
Maria Merlini
43
La decorazione pittorica nei locali della Sede storica
della Banca Monte dei Paschi di Siena
Un’espressione del Purismo di Alessandro Franchi,
Giorgio Bandini e Gaetano Brunacci
Francesca Ceccherini
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La via del Monte sacratissimo della pietà, in Marco dal Monte Santa Maria
in Gallo, Libro della divina lege et comandamenti de esso omnipotente Dio
da legerse per le schole, boteche, parrochie et per qualunche altro loco a li
piccoli e grandi, Siena, per Rigo de Hearlem, 1494
2
I
secoli del
M onte
G iuliano C atoni
“A poveri huomini sono mangiate l’ossa con la
grande usura et sono male tractati”. Queste parole
riassumono, nel verbale della seduta del 7 giugno
1420, il parere del Consiglio Generale del Comune
senese riguardo al problema del prestito a interesse.
L’auspicata soluzione di tale problema – suggerita
dal Consiglio – consisteva nell’istituire un apposito
organismo per il prestito su pegno da parte dello
stesso Comune: “si proveggha – prosegue infatti il
verbale – che povari uomini possano avere qualche
ricorso et rifugio ne’ loro bisogni, ma questo non
si debbi fare con animo d’utilità, la quale d’usura
possa adivenire, ma per conservare le povare
persone”.
Dopo avere regolamentato l’attività dei prestatori
cristiani – che, nonostante le riserve dei teologi, le
conseguenti condanne della Chiesa e il generale
disprezzo della comunità, avevano trovato il modo
di ottenere licenze ufficiali d’esercizio – dalla metà
del Trecento il Governo senese aveva concesso le
“condotte” per il prestito al consumo esclusivamente ad operatori ebrei. Questi, liberi da scrupoli religiosi, a poco a poco raggiunsero in tale settore
del credito un vero e proprio monopolio, riuscendo
anche ad ottenere il permesso di prestare denaro
non solo su pegno, ma anche in base a obbligazioni scritte. Tale situazione di privilegio durò fino
alla creazione del ghetto di Siena nel 1572 e nessuna misura vessatoria fu attuata contro i prestatori ebrei, anche dopo l’istituzione di quel Monte di
pietà o Monte Pio, che doveva concedere il prestito
alle “povare o miserabili o bisognose persone” con
un minimo tasso d’interesse.
3
Il Monte nacque il 27 febbraio 1472 con una delibera del Consiglio Generale, approvata con 196 voti
favorevoli e solo quattro contrari. La sua origine e
la sua natura lo qualificano come un istituto del tutto laico, abilitato fin dall’inizio a praticare un interesse del 7,50%, senza perciò aspirare a speculazioni, ma evitando anche il prestito gratuito voluto dai
frati Minori Francescani, tenaci propugnatori dei
Monti di pietà. “Monte”, in questo caso, indica una
raccolta di denaro, offerto o depositato e poi erogato a fini assistenziali. La parola aveva però anche
altri significati, sempre collegati a un’idea di unione
o accumulazione, tanto che i gruppi ereditari di governo protagonisti della vita politica senese fin dal
XIV secolo si chiamarono Monti, distinguendosi
col nome assunto dalle singole consorterie: Monte
dei Gentiluomini, Monte dei Nove, Monte dei Dodici e così via.
Proprio al Monte dei Gentiluomini appartenevano quelle famiglie dell’aristocrazia terriera senese
che già nel XIII secolo avevano intrapreso una loro
proficua attività nel commercio e in particolare nel
traffico del denaro, sviluppando l’uso della “lettera
di cambio” – pagabile nelle località più diverse – e
quello della “fede di deposito”. Dalle fiere di Lagnysur-Marne, di Bar-sur-Aube, di Provins, di Troyes e
di Saint-Germain-des-Prés, le Compagnie mercantili senesi dei Ruggeri, degli Angiolieri, dei Tolomei, dei Gallerani si spinsero sulle strade dei grandi mercati europei, prestando denaro a principi e a
prelati e divenendo esattori delle decime pontificie,
ovvero banchieri della Curia romana come i Buonsignori, o accollatari delle gabelle dell’Impero come
i Salimbeni. In seguito, la concorrenza dei banchieri fiorentini – forti del fiorino d’oro coniato dalla
zecca del loro Comune – e il mancato sviluppo di
manifatture locali, anche a causa della scarsità di
risorse idriche, limitarono i successi dei senesi, che
4
tuttavia mantennero viva la loro fama con i banchi
degli Spannocchi a Roma, a Venezia e a Napoli, dei
Chigi ancora a Roma, o dei Colombini e dei Pini ad
Arles e ad Anversa.
Oltre l’attività di questi banchi privati, recentissimi
studi hanno messo in evidenza anche un forte ruolo nell’ambito del risparmio e del credito da parte
dell’Ospedale senese di Santa Maria della Scala,
capace – almeno dalla metà del XIV secolo – di
accettare depositi, pagare interessi, prestare denaro ed investirlo sotto il controllo del Comune. Non
stupisce, perciò, che proprio questo ospedale-banca sia stato chiamato a concorrere alla nascita del
Monte Pio con 2.000 fiorini a fondo perduto su un
totale di 7.600 di capitale, ricavati anche da un’altra
pubblica istituzione come la Casa della Sapienza e
da alcuni cespiti di gabelle comunali.
Tale base finanziaria consentì al neonato Monte Pio
di effettuare prestiti su pegno col pagamento di un
onesto interesse; una volta accettato come moralmente ammissibile tale sistema, il deposito assunse ben presto, nell’impianto contabile del Monte,
lo specifico carattere del negozio bancario, dando
slancio al credito e, in particolare, al credito d’esercizio.
La questione era stata a lungo dibattuta nel Consiglio del Popolo, come testimonia il grande giurista
Giovan Battista Caccialupi, allora docente a Siena e
deciso sostenitore dei Monti di pietà in una sua argomentata Repetitio, diffusa poi anche fuori d’Italia.
Lo Statuto promulgato il 4 marzo 1472 stabilì gli organi, le procedure e la sede del Monte. Questa fu il
Castellare appartenuto ai Salimbeni, il ricco casato
aristocratico, che già nella prima metà del Duecento aveva creato una sua Signoria fondiaria in Val
d’Orcia e da allora aveva tentato ripetutamente, generazione dopo generazione, di conquistare il potere su Siena. L’alleanza con Firenze e con la casa
5
Ordinazioni e Statuti del Monte della Pietà, 4 marzo 1471 [1472 secondo lo
stile comune] (Archivio di Stato di Siena, Consiglio generale 234, c. 1)
d’Angiò non servì tuttavia – nonostante sporadici
successi – a raggiungere questo scopo, definitivamente abbandonato nel 1419, quando l’ultimo battagliero rappresentante della consorteria – Cocco
Salimbeni – dovette abbandonare lo Stato senese,
cedendo ad esso i castelli del contado e i palazzi in
città. Già adibita a sede delle Dogane del Sale e dei
Paschi – cioè degli uffici che amministravano i proventi della vendita del sale, che era monopolio comunale, e dello sfruttamento dei pascoli, soprattutto maremmani – la Rocca dei Salimbeni ospitò i tre
6
Conservatori, il Depositario e i garzoni del Monte
Pio. I primi quattro avevano rispettivamente il compito di accettare, valutare e custodire i pegni, di
pagare i prestiti e di riceverne la restituzione, mentre i garzoni svolgevano solo mansioni esecutive.
I prestiti non potevano eccedere la somma di otto
fiorini in valore e il periodo di un anno in durata; il
valore del pegno non doveva superare di un terzo
quello della somma prestata. Secondo lo Statuto, la
vendita dei pegni doveva essere organizzata come
quella dei “pegni de’ judei”, che stipularono nuovi
accordi col Comune nel 1477 sulla base di quelli
definiti vent’anni prima con Jacob di Consiglio e
soci, autorizzati ad aprire a Siena uno o più banchi
per esercitarvi il prestito pubblico su pegno con un
capitale di ben 15.000 fiorini, la metà dei quali da
versare entro il primo anno e l’altra metà nei due
anni successivi.
Questi “banchieri” erano liberi di praticare anche
forme di prestito diverse da quelle su pegno –
come quelle dei prestiti chirografari e fiduciari, ovvero garantiti di fronte alla legge da un documento
sottoscritto dal debitore – e ad accettare in garanzia
proprietà immobiliari, purché non costituenti bene
dotale. Raramente lo spirito antisemita – seppur
latente – prese il sopravvento sulla regolare applicazione della normativa giuridica elaborata nei
confronti degli ebrei prestatori. Ecco, per esempio,
ciò che avvenne nel maggio 1466 contro Angelo,
un ebreo che aveva ottenuto la licenza di prestare,
con i relativi privilegi, a Lucignano Val di Chiana.
Per aver organizzato una parodia della Passione di
Cristo con una donna cristiana messa in croce e
fustigata, egli fu imprigionato. L’“abominevole et
execrabile excesso” spinse il podestà di Lucignano
a proporre al Concistoro senese di torturare l’ebreo
con la fune. Un gruppo di Lucignanesi, però, senza
aspettare la risposta, prelevò Angelo dal carcere e –
7
Benvenuto di Giovanni del Guasta, Madonna della Misericordia, 1481.
Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena. Affresco commissionato per
commemorare l’istituzione del Monte Pio nel 1472. Palazzo Salimbeni, studio
del Presidente
forse col tacito consenso del podestà – lo uccise. La
dura reazione del Concistoro non si fece attendere
e mentre quel podestà veniva scomunicato, tredici
cittadini di Lucignano, ritenuti colpevoli dell’assassinio dell’ebreo, furono multati ed esiliati.
Per celebrare il decennale della fondazione del
Monte Pio, i Conservatori dell’istituto fecero dipingere da Benvenuto di Giovanni del Guasta un affresco con la Madonna della Misericordia, che copre
col suo mantello una folla di uomini e di donne
adoranti, a significare la concezione umanitaria e
sociale che animò i fondatori dell’istituto.
8
Dopo aver ridotto nel 1488 l’interesse al 5% annuo
ed elevato il limite del prestito da 32 a 50 lire, anche
il Monte Pio subì le conseguenze delle turbinose lotte interne ed esterne che, tra la fine del XV e la metà
del XVI secolo, condussero Siena ad una “povertà
e debilità incredibile”, come lamentò Lelio Tolomei
in un’adunanza del Consiglio Generale nell’ottobre
1551. Una coraggiosa ma disperata resistenza non
bastò a salvare la libertà dell’antica Repubblica contro gli eserciti coalizzati dell’Imperatore Carlo V e
del Duca di Firenze Cosimo de’ Medici, che nel 1557
ebbe in feudo l’antico Stato senese.
Dal Duca i senesi ottennero di mantenere alcune
antiche magistrature, come il Capitano del Popolo, la Balìa e il Concistoro, che per secoli avevano
retto la Repubblica e le cui cariche venivano attribuite con un’equa divisione fra i gruppi ereditari di
governo della città. Fu inoltre accettata la loro richiesta della ripresa d’attività del Monte Pio, cui un
rescritto ducale del 14 ottobre 1568 assegnò nuovi
Capitoli, conformi a quelli del Monte di pietà di
Firenze. Questa sorta di pedaggio pagato ai nuovi
padroni non interruppe il legame fra il “primo” e il
“secondo” Monte, la cui sede continuò ad essere la
“casa de’ Salimbeni”, posta sulla strada principale
che a Siena collega il borgo di Camollia con la Piazza del Campo.
Dal primo agosto 1569, giorno della solenne inaugurazione del “secondo” Monte Pio – al quale Federico di Montauto, governatore della città, offrì
per primo in pegno una collana, ricavandone 25
lire, poi distribuite ai musici e ai trombetti intervenuti alla cerimonia – i libri delle deliberazioni e i
documenti contabili prodotti dagli organi dell’istituto testimoniano non solo la ripresa della specifica funzione del credito pignoratizio, ma anche il
progressivo sviluppo del credito agricolo e fondiario, del prestito fruttifero e perfino l’assunzione di
9
Copertina del primo Mastro o “Libro I del bilancio segnato A” (1570-1578),
così chiamato perché vi si scriveva “per bilancio” o “a modo di bilancio”,
termine introdotto in Toscana nel tardo Cinquecento per segnalare l’applicazione del metodo della partita doppia, già vecchio di tre secoli nella
regione (Archivio storico del Monte dei Paschi, Monte Pio 300)
un servizio di tesoreria d’un pubblico ufficio.
Questa accentuazione del carattere bancario del
Monte si rivelò soprattutto in settori che manifestavano esigenze di pronto intervento: in particolare
l’allevamento del bestiame e le colture cerealicole.
Molti sono, infatti, i prestiti fatti per l’incremento
della razza e dell’industria suina, chiamati “mutui
su troie”, oppure quelli – gratuiti – da rimborsarsi
sui raccolti granari.
Con l’assunzione nel 1580 del servizio di esattoria
dell’Ufficio dell’Abbondanza per la riscossione del
5% del valore del grano accertato presso i fornai
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La Pace di Cateau-Cambresis e l’abbraccio di Enrico II di Francia a Filippo
II di Spagna nel 1559 (Archivio di Stato di Siena, Tavola di Biccherna 63)
senesi, il Monte Pio ribadì il suo primato di banca
pubblica, capace anche di fornire prestiti per dotazioni aziendali o prestiti trasformati poi in finanziamenti senza interessi.
La riforma del 1568 aveva concesso agli Ufficiali del Monte anche la giurisdizione penale contro
chi – cliente o dipendente – commettesse frodi in
danno dell’istituto. Fra gli atti dei processi conservati nell’Archivio storico del Monte, alcuni di quelli
intentati contro Custodi dei pegni, Stimatori e Camerlenghi infedeli rivestono una particolare importanza per conoscere il sistema inquisitorio e la
prassi giudiziaria; questa comportava la tortura per
ottenere la confessione del presunto reo e l’emissione di sentenze anche capitali. Valga per tutte la
causa contro Armenio Melari, Camerlengo del Monte dal 1602 al 1622 e poi fuggito da Siena dopo avere rubato dalla cassa dell’istituto oltre 40.000 scudi.
Dopo un processo in contumacia durato quattordici
11
Lorenzo Rustici detto ‘il Rustico’, Cristo in Pietà e due Angeli, 1571-1572.
Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena. Affresco commissionato per
decorare la nuova sede del Monte di Pietà. Salone della Rocca Salimbeni
mesi – i cui atti sono raccolti in un volume di 1200
pagine – il Melari fu condannato “venendo nelle
mani della giustizia”, ad essere “appiccato per la
gola, tanto che morisse sulle forche”, oltre alla refusione dei danni e alla confisca dei beni, “con taglia
a chi lo ammazzasse e che ne desse contrassegno,
di scudi dugento et a chi lo desse vivo nelle mani
della giustizia nelli Stati di Sua Altezza Serenissima
di scudi quattrocento”. Anche due dei quattro figli
maschi del Melari (che aveva anche sette femmine,
di cui sei monacate) furono condannati per aver
aiutato il padre a fuggire: il primo “alla galea a vita”
e il secondo “alla galea per cinque anni”, mentre altri complici, come il cognato dell’imputato e cinque
impiegati del Monte Pio, furono sottoposti a tortura
nella Sala della Marcolina del Palazzo comunale di
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Sala dell’Archivio storico della Banca al piano terreno della Rocca Salimbeni
Siena. Da questa “prova dei tormenti”, consistente
in tratti di corda o nell’uso della morsa, il vecchio
“massaro” dell’istituto Ubaldino Malavolti rimase –
come riporta il verbale del processo – “stroppiato”,
ma i giudici riuscirono ad avere tutte le informazioni utili alla formulazione della sentenza finale,
che tuttavia non fu mai eseguita contro il Melari,
rimasto contumace.
I libri delle deliberazioni e i registri dei mastri conservati nell’Archivio storico del Monte permettono
di ricostruire tutte le operazioni di provvista dei
fondi e di impiego. Il primo mastro è denominato
Libro I del bilancio, dove cioè si scriveva “a modo
di bilancio”, termine introdotto in Toscana nel tardo Cinquecento per segnalare l’applicazione del
metodo della “partita doppia”. Sotto la voce relativa
alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, il Libro riporta quella per l’affresco del Cristo in
pietà e due Angeli – commissionato dai magistrati
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Verbale dell’insediamento del Magistrato del Monte del 29 luglio 1569 nel
primo registro delle Deliberazioni della Deputazione (Archivio storico del
Monte dei Paschi, Monte Pio 29, c.1)
del Monte al pittore Lorenzo Rustici nel 1569 per
decorare la Sala dell’ “impegnagione” – ed anche
quella per lo stemma mediceo posto sopra l’ingresso principale e oggi collocato nel Cortile della Dogana, realizzato dallo scultore Domenico Cafaggi
detto “Capo”.
A conferma della continua volontà di decorare la
sede del Monte con opere che esprimessero chiaramente lo scopo per cui l’ente era nato, un altro dipinto ispirato al concetto della pietà, con un Cristo
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morto compianto dalla Madonna e dagli Angeli,
fu commissionato ad Arcangelo Salimbeni nel 1576
per la Stanza delle udienze. Tuttavia la convinzione
di dover dilatare le azioni di beneficenza del Monte
Pio e di superare le limitazioni operative del credito
pignoratizio spinsero nel 1612 un illustre cittadino
senese, Bellisario Bulgarini – noto come difensore
di Torquato Tasso contro le critiche dell’Accademia
della Crusca alla Gerusalemme liberata – a scrivere
alla Balìa perché chiedesse al Granduca un nuovo istituto bancario, che moderasse “la strettezza
grandissima e quasi estrema del denaro, il quale
non correva et esciva senza dubbio anco dal Dominio”. Sette anni più tardi la Balìa senese, che era il
principale organo del Governo locale, avanzò una
formale istanza al sovrano per l’istituzione di un
altro Monte, che permettesse al Monte Pio di assolvere unicamente al proprio compito originario e
da questo ereditasse ed ampliasse l’attività extrapignoratizia, con l’obbiettivo principale di agevolare
i “faccendieri della Maremma”, cioè gli agricoltori e
gli allevatori di bestiame, nonché alcune istituzioni
cittadine, permettendo anche forme di deposito di
capitali privati. Finalmente un rescritto granducale
del 30 dicembre 1622 accolse l’istanza della Balìa,
ma con tali cautele e richieste di garanzie da suscitare più d’una perplessità da parte dei governanti
senesi. Il rescritto, infatti, concedeva l’istituzione
della nuova banca con un capitale fino a 200.000
scudi, vincolando a tal fine le rendite dei pascoli
demaniali della Maremma e liberando il Granduca e i suoi successori da ogni danno eventuale e
consequenziale. Se tali danni si fossero verificati,
l’intera cittadinanza senese sarebbe stata obbligata a rifonderli. Solo dopo circa due anni si giunse
alla fondazione del nuovo istituto, il cui “Maestrato” doveva essere composto da otto cittadini “del
numero de’ Riseduti”, appartenenti cioè ad una di
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Sopra e nella pagina a fianco: Rescritto del 3 novembre 1624 con il quale
vennero approvati i Capitoli del Monte dei Paschi (Archivio storico del Monte dei Paschi, Ordini e provvisioni 1, cc.29v-30r)
quelle consorterie, cui si accedeva per diritto ereditario e che costituivano fin dal Medioevo lo stabile
referente della locale classe di governo. I prescelti
dovevano avere almeno trentacinque anni ed essere “non solamente d’integrità ed intelligenza principali, ma eziandio di ricchezze e d’esperienza ne’
negozi et affari della città”.
Le rendite della pubblica gabella gestita dalla Dogana dei Paschi (da cui deriva il nome del Monte
dei Paschi) furono divise in porzioni, o “Luoghi”,
16
del valore di cento scudi, da collocarsi con una rendita annuale del 5%. In tal modo la provvista dei
fondi veniva assicurata dall’offerta ai risparmiatori
di quote ideali delle rendite dei “paschi”, non rimborsabili a richiesta dei portatori, ma cedibili solo
col permesso dell’istituto, che si riservava il diritto
di prelazione.
I Capitoli del 1624 regolarono anche l’elargizione
degli utili netti, da distribuire ogni cinque anni:
“tutto quello che per causa di detti avanzi rimanesse, non vi essendo altra ragione in contrario, s’applichi a opere pie per l’amor di Dio, la metà dentro
alla città a’ monasteri di monache e poveri vergo-
17
Il più antico esemplare di “Luogo di Monte”, 6 marzo 1624 [1625 secondo lo stile
comune] (Archivio storico del Monte dei Paschi, Documenti della gestione 628)
gnosi, e l’altra metà fuori di essa, a’ poveri contadini che staranno a mezzaria, a effetto di maritare loro fanciulle e supplire a altre loro necessità”.
Purtroppo nell’ultimo periodo del corrotto governo
di Gian Gastone de’ Medici, l’amministrazione del
Monte dei Paschi e quella del Monte Pio subirono
alcuni disagi per le indebite ingerenze fiorentine
nelle nomine dei funzionari dei due enti, normalmente riservate alla Balìa senese. Nella sua aridità
contabile il bilancio allegato alla relazione, che nel
1738 il Provveditore del Monte (che oggi si chiama Direttore generale) Alessandro Pieri presentò
al nuovo Granduca Francesco Stefano d’Asburgo
Lorena, dimostrava l’aumento dei debitori “decotti”, ovvero non più esigibili. A questo preoccupante
segnale di declino economico dello Stato senese si
aggiunse la cattiva amministrazione di alcuni pubblici funzionari, accusati di peculato e processati
nel 1747. Dopo questo incidente il Consiglio di Reggenza modificò il sistema dei rendiconti e sospese
lo stipendio a “tutti i ministri principali e subalter-
18
Lettera di cambio su modulo prestampato, 1650 (Archivio storico del Monte
dei Paschi, Graduatorie e incorpori, 167, n. 7 bis)
ni” della Biccherna senese, cioè dell’antica magistratura finanziaria statale, obbligando poi il Monte
a fare un grosso prestito all’Ufficio dell’Abbondanza per ovviare alla crisi alimentare seguita alla carestia che, nello stesso 1747, colpì tutta la Toscana.
Dopo sette anni il Governo si preoccupò del fatto
che il Monte non aveva ricevuto né il capitale versato, né l’interesse a suo tempo pattuito. Da Firenze si ritenne allora opportuno censurare “la troppo
indulgente rilassatezza” dimostrata verso i debitori
dai Magistrati della Banca, obbligandoli ad applicare senza indugi le regole che lo Statuto del 1624
dettava sui frutti non riscossi dai debitori morosi.
Da allora, furono penalizzati non solo i debitori
privati, ma anche le comunità, come successe nel
1758 a quella di Grosseto, che si vide sequestrare
tutte le rendite necessarie per pagare gli stipendi
ai suoi giudici, medici e cerusici perché debitrice
morosa del Monte. I grossetani ricorsero allora al
Governo, che ordinò ai senesi di pretendere i pagamenti prima dai debitori privati e poi, se proprio
non se ne poteva fare a meno, dalle comunità.
L’anno seguente il Governo concesse al Monte di
continuare a valersi della facoltà di aumentare la
vendita dei “Luoghi” (che erano una sorta di obbligazioni) e nello stesso tempo impose al Provveditore dell’istituto senese di rimettere ogni anno alla
Segreteria di Finanze la dimostrazione dello stato
attivo e passivo dell’azienda. Con questo rescritto
19
del 1759, mentre si incrementava la potenzialità del
Monte, si assoggettava ufficialmente la sua amministrazione al sindacato governativo e si rinunciava, da parte del sovrano, alla garanzia sussidiaria
che l’intera cittadinanza senese era impegnata a
prestare qualora tutte le altre garanzie fossero risultate incapienti.
Mentre esercitava una vasta azione in favore di Siena e dello Stato, il Monte si trovò spesso alle prese
– nonostante la grande offerta di denaro che riceveva – col problema di rispondere adeguatamente
alle domande di prestito, dato che la vendita dei
suoi “Luoghi” non poteva oltrepassare il limite del
fondo di garanzia. L’aumento di tale fondo fu qualche volta concesso dal Governo su richiesta del
Magistrato del Monte, che si preoccupava altresì di
mantenere un’adeguata riserva patrimoniale per la
banca, tanto che, quando Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena divenne Granduca di Toscana nel 1765,
il Monte – secondo il consigliere del Principe, Francesco Maria Gianni – era “così ben regolato che faceva meraviglia a chiunque ne esaminasse li statuti
e provvedimenti”.
Durante i venticinque anni di regno di Pietro
Leopoldo, l’ingerenza governativa sul Monte –
nonostante la resistenza della classe dirigente
senese – era destinata a crescere, soprattutto dopo
l’abolizione della Dogana dei Paschi, ordinata dal
Granduca nell’aprile 1778. Da allora cessò ogni
servitù di pascolo nei terreni della Maremma
e l’affrancazione e le vendite di tutti quei beni
demaniali fecero automaticamente scomparire il
fondamento della garanzia originaria accordata
per legge alla “non vacabile” sussistenza del
Monte dei Paschi, perché assegnava una rendita
fissa ai compratori dei “Luoghi di Monte”. Questi
compratori, però, non potevano ritirare i capitali
a loro piacimento e quindi la Banca non rischiava
20
Copertina di un registro di deliberazioni dei Monti Riuniti del 1788
(Archivio storico del Monte dei Paschi, Documenti amministrativi 490, Sala
esposizione)
di “vacare”, cioè di cessare o interrompere la sua
attività. Nello Statuto del 1624, infatti, era il Principe
mallevadore – ossia garante – ai creditori della
Banca senese, vincolando a loro favore la proprietà
e la rendita della gabella. La scomparsa di quel tipo
di garanzia portò ad un concorso di responsabilità
a tutto vantaggio dei creditori del Monte, ma anche
a un’ingerenza maggiore del governo nella gestione
dell’istituto senese. La richiesta di quest’ultimo,
tesa ad aumentare di altri 25.000 scudi il suo limite
21
Buono agrario emesso dalla Cassa di risparmio del Monte dei Paschi con
il ritratto di Sallustio Bandini, 1870 (Archivio storico del Monte dei Paschi,
Sala esposizione)
di negoziazione dei “Luoghi di Monte”, presentata
nel 1779, fu respinta dal Governo, dato che ormai
l’impiego dei depositi si faceva aspettare anche due
o tre anni e tali ritardi avrebbero potuto indebolire
quella che oggi si chiamerebbe la “credibilità” della
Banca senese.
Nell’ultimo decennio del governo di Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena questa subì tuttavia decisivi
mutamenti strutturali, il primo dei quali fu l’unificazione – nel 1784 – del Monte dei Paschi e del Monte
Pio sotto il nome di Monti Riuniti. Tale riforma fu
attuata giusto dieci anni dopo che il Granduca, in
una delle sue periodiche visite alla città, aveva dato
della Banca questo sintetico, ma positivo, giudizio:
“è introdotta per ricevere depositi ed imprestar denari a tutti quelli che ne vogliono, che possiedono e danno mallevadori, con un ragionevole frutto
[…]; forma una azienda molto vasta e complicata,
ma molto utile al pubblico, che è sicuro in un bisogno di avere i denari subito e li può restituire anche
in piccole partite di uno o due scudi per volta”.
Le visite periodiche servivano al sovrano di To-
22
scana per rendersi conto direttamente dei problemi da risolvere nei vari luoghi dello Stato e per
conoscere i suoi sudditi. La popolazione senese,
per esempio, è definita dal Principe “d’indole
buona e sincera”, ma “divisa in molte contrade,
ognuna delle quali ha il suo capitano, le sue insegne e la sua cappella”. Riguardo poi alla nobiltà
cittadina, Pietro Leopoldo nota che è “vivace e di
buon cuore”, ma che “si applica poco e s’impiega difficilmente, non uscendo volentieri da Siena
ed occupandosi piuttosto dei propri interessi di
campagna; sono molto attaccati alla patria e magistrature loro; sono generalmente minuti, piccoli ed insistenti”. Aggiunge, infine, che a Siena “vi
sono rarissimi i delitti, fuori che quelli commessi
dai forestieri”.
Dopo la soppressione del “Magistrato degli Otto
sopra gli ordini del Monte”, che era l’organo di vigilanza della Balìa – cioè del governo locale –, fu
definitivamente abolita anche la competenza giudiziaria, sia penale che civile, per i magistrati del
Monte. Nel 1786 poi, con la costituzione della nuova Comunità civica senese, fu deciso che questa
eleggesse ogni tre anni otto Deputati dei Monti Riuniti “fra tutti i soggetti descritti al grado di nobiltà
della città di Siena”. Di questa Deputazione faceva
parte anche il Sovrintendente o Provveditore, già
prima nominato dal sovrano su una terna proposta
dalla Balìa e poi, dal 1788, scelto direttamente dal
Granduca insieme con Bilanciere, Sotto-Bilanciere,
Cancelliere, Sotto-Cancelliere e “tavolaccino”, che
era il servitore-segretario dei dirigenti. Al Comune
spettava ormai di eleggere solo il Camerlengo, che
però non poteva essere confermato dopo un triennio.
La Deputazione era stata creata per corroborare
l’accresciuta ingerenza governativa sul Monte, ma
all’atto pratico i rappresentanti di essa si dimostra-
23
rono sufficientemente equidistanti sia dal Comune
che li aveva nominati, sia dal governo centrale, di
cui avrebbero dovuto costituire la longa manus
nella Banca. Quasi tutti membri dell’aristocrazia
terriera locale, questi nobili senesi cercarono certo
di difendere i propri privilegi, ma non dimenticarono i vincoli che legavano la Banca al territorio e alle
istituzioni senesi. Frequenti furono, infatti, le elargizioni caritative fatte dal Monte, che si trovò a dover
provvedere a problemi di carattere straordinario,
come – ad esempio – la miseria di alcuni nobili decaduti, l’aumento dei “cattivi debitori”, il disordine
amministrativo del Monte Pio e, infine, il disastroso
terremoto che colpì Siena il 26 maggio 1798.
Per riparare i gravi danni del sisma, il Governo creò
una Cassa delle restaurazioni che il Monte dei Paschi,
con grande sacrificio, dovette alimentare; come dovette sborsare altre grosse somme alla Cassa municipale per ordine dei nuovi governanti francesi, che dal
1808 al 1814 amministrarono Siena, divenuta capitale
di un Dipartimento dell’Impero napoleonico.
Dopo la caduta di Napoleone e la conseguente
restaurazione del Granduca Ferdinando III, vari
furono i problemi che il Monte dovette affrontare: per esempio quello del censimento dei crediti
inesigibili o di difficilissima esazione e l’altro delle richieste di aumento di stipendio da parte degli
impiegati, che erano undici in tutto. Essi dovevano
lavorare dalle ore 9 alle 16 senza interruzione, poiché – come prescrive un Regolamento del 1824 – “il
governo non può permettere né tollerare che, con
ammirazione del pubblico, i regi impiegati si veggano vagare per la città nelle ore destinate al servizio”. Pur rivendicando sempre una sua specifica
autonomia, il Monte fu obbligato, nel 1831, a cambiare i suoi metodi contabili e la tenuta delle sue
scritture, sottoponendosi al controllo di un “Ufficio
delle revisioni” prima di ottenere il placet sovrano
24
Copertina del “Repertorio degli accreditati” del Credito agricolo della Cassa
di risparmio (Archivio storico del Monte dei Paschi, Cassa di risparmio 1874)
al bilancio. L’anno seguente un altro Regolamento
abolì il vincolo che impediva a chi non abitava a
Siena o in qualcuna delle Comunità del suo antico
territorio di ottenere prestiti dal Monte; da allora
in poi ogni Comunità potè “capitolarsi”, cioè essere
ammessa a garantire l’indennità concessa al Monte
medesimo dal sovrano e, in conseguenza di ciò, a
fare operazioni con la Banca senese.
Alcune pesanti critiche rivolte al Monte, accusato di
non far circolare sufficientemente il denaro dei suoi
depositi, stimolarono il Provveditore Antonio Tommasi a creare nel 1833 una Cassa di risparmio. Oltre
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a finanziare il Monte Pio, la Cassa avrebbe dovuto diventare – secondo lo stesso Provveditore – “il
salvadanaio del povero”. L’esuberante contante affluito subito nella Cassa preoccupò tuttavia i Deputati del Monte, i quali non agevolarono lo sviluppo
delle sue attività creditizie per timore che la nuova
istituzione potesse danneggiare l’antica Banca.
Alla fine di settembre del 1862, il decimo Congresso
degli Scienziati italiani, riunito a Siena, intervenne
sui progetti di riforma dello Statuto del Monte e
il Comune di Siena approvò, l’anno seguente, l’abolizione del privilegio riservato alla nobiltà per
accedere alle cariche nella Deputazione. Il lungo
dibattito che precedette l’approvazione del nuovo
Statuto aveva toccato essenzialmente quattro temi:
la proprietà della Banca; l’impiego dei suoi capitali; la sua amministrazione e l’erogazione dei suoi
“avanzi”. Lo Statuto, promulgato col Regio Decreto
dell’8 dicembre 1872, ribadì che il Monte era “una
istituzione della città di Siena” e perciò il Comune
ne aveva “la sovrintendenza, direzione e tutela”,
amministrandolo “per mezzo di un consiglio elettivo”, chiamato Deputazione e di un Provveditore,
che era “il capo dell’ufficio”. Gli otto membri della Deputazione (più due supplenti) e il Provveditore erano eletti per un quadriennio dal Consiglio
comunale, “sulla proposta fatta dalla Giunta di un
numero triplo degli erigendi”. Abbandonata la denominazione di Monti Riuniti, ognuno dei quattro
organismi legati al Monte dei Paschi – e cioè Monte
Pio, Cassa di risparmio, Credito fondiario e Credito agricolo – ebbe un’amministrazione separata.
Fu stabilito, infine, che almeno la metà degli utili netti fosse destinata ad aumentare il patrimonio
del Monte, mentre il resto poteva essere “erogato
in opere di beneficenza e di pubblica utilità per la
città di Siena”.
Un’importante occasione per l’applicazione di
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Azione della “Società della Strada Ferrata Centrale Toscana” emessa nel
1845 (Archivio storico del Monte dei Paschi, Sala esposizione)
quest’ultima norma si presentò nel 1875, quando, per scongiurare il pericolo della soppressione
dell’Università di Siena, il cui patrimonio era stato
incorporato dal Demanio subito dopo l’Unità d’Italia, fu creato un consorzio di alcuni enti, fra cui il
Monte dei Paschi, per ricostituire detto patrimonio.
Il nuovo Statuto favorì anche lo sviluppo dell’esercizio del Credito agricolo, assunto nel 1870 dalla
Cassa di risparmio. Con determinate cautele, infatti,
furono emessi speciali titoli di credito, denominati
“Buoni agrari”, che incontrarono il largo favore del
pubblico e che circolarono nel territorio nazionale
come vera carta moneta, avendo il Monte stipulato
una convenzione con la Banca d’Italia, in base alla
quale questa si era impegnata a riceverli in pagamento e a cambiarli in tutte le sue sedi; tanto che i
Buoni cessarono di avere corso legale solo nel 1911.
Dopo la definitiva sistemazione della Sede dell’istituto nei palazzi Tantucci, Salimbeni e Spannocchi
– i primi due acquistati dal Demanio e il terzo dalla
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famiglia – con i cospicui utili dei servizi di Esattoria
e Ricevitoria delle imposte, assunti nel 1873, fu creata la Piazza Salimbeni ad opera dell’architetto purista Giuseppe Partini; furono poi sovvenzionate la
compilazione degli inventari dei monumenti e degli
oggetti d’arte del Senese, la decorazione dei locali
dell’Archivio di Stato di Siena, la ricostruzione della
Fonte Gaia e fu provveduto alla conservazione e
all’incremento di molte benefiche istituzioni cittadine.
Il rinnovamento istituzionale della Banca senese
e le trasformazioni di alcuni suoi moduli operativi
permisero di soddisfare le esigenze di nuove categorie di risparmiatori e di imprenditori, che si erano formate dopo l’unificazione nazionale. Con lo
sviluppo dell’industria, stavano mutando le condizioni del mercato finanziario e soprattutto di quello
immobiliare, dove gli avventati tentativi di speculazione di alcuni banchieri e la corruzione di molti
politici causarono il fallimento – fra il 1889 e il 1893
– di vari istituti di credito ordinario. Il Monte riuscì
a passare indenne attraverso gli scandali bancari
di fine secolo, nonostante le numerose sollecitazioni, anche governative, alle quali da Siena si rispose
sempre – come ricordò nel 1899 il Segretario generale della Banca, Cesare Bartalini – “vade retro
Satana”.
Le ricorrenti critiche sulla distribuzione degli utili del Monte animarono, all’inizio del Novecento,
il dibattito nel Consiglio comunale di Siena, che
avrebbe voluto gestire direttamente l’erogazione.
La relativa delibera comunale fu però dichiarata
illegale dal Governo a seguito di un ricorso presentato da alcuni cittadini senesi e il sistema proseguì
secondo la normativa dello Statuto del 1872, funzionando, secondo l’espressione del Provveditore,
come “perenne Fonte Gaia della beneficenza cittadina”. Gli utili, infatti, crescevano insieme con lo
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sviluppo del Monte, che, con i suoi 96 milioni di
depositi, nel 1910 era al secondo posto in Italia fra
gli istituti aventi fondamentale carattere di Cassa di
risparmio.
Ormai la Banca senese aveva succursali a Firenze,
a Livorno, a Lucca e in altre diciassette città; aveva “affiliate” in altre undici città e agenzie in altre
quattro.
Significativi finanziamenti e prestigiose partecipazioni caratterizzarono l’azione del Monte fra il primo e il secondo conflitto mondiale. Nel 1933, per
esempio, la Banca senese contribuì alla costituzione del capitale dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, fondata da Giovanni Treccani; partecipò alla
creazione della Banca di Trento; assunse rilevanti
quote dell’Istituto Federale di Credito Agrario, della
“Montecatini” e della Società Italiana per le Strade
Ferrate Meridionali. Finanziò poi i Consorzi agrari
e i Consorzi per le bonifiche nel Grossetano, in Val
d’Orcia e in Val di Chiana.
Questa progressiva espansione ebbe per il Monte
un consistente riconoscimento col decreto-legge
del 12 marzo 1936, che confermò ufficialmente la
sua natura di Istituto di Credito di Diritto Pubblico;
come tale, esso si dette un nuovo Statuto, approvato nell’ottobre dello stesso anno. Questo Statuto
privò in parte la città di Siena della prerogativa di
provvedere alla nomina di tutti gli amministratori
della Banca. Fu modificata anche la norma relativa
alla ripartizione degli utili da assegnare a Siena e
alle sue istituzioni: nella misura dei tre quarti della
somma disponibile dopo l’accantonamento dei sette decimi per la riserva ordinaria e per altri fondi
speciali.
La tradizionale fisionomia del Monte non mutò per
questo, anche se il nuovo Statuto soppresse la Cassa di risparmio e il Monte Pio, che furono assorbiti
dall’azienda bancaria, mentre alla Sezione di Cre-
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dito fondiario fu attribuita una propria personalità
giuridica.
Nel secondo dopoguerra il Monte fu oggetto di vivaci battaglie politiche, mentre la struttura socioeconomica di Siena e del suo territorio si andava
trasformando da prevalentemente agricola a sovraterziarizzata, data la fine del sistema mezzadrile e
un conseguente, cospicuo inurbamento. Tuttavia
le differenze e le incomprensioni legate alle radici
cittadine della Banca non impedirono il suo continuo e sicuro sviluppo, confermando anzi la sua
preferenza, nell’erogazione del credito, allo sconto
del portafoglio commerciale, alla concessione di
adeguati contributi all’agricoltura e alla selezione
qualitativa degli investimenti e della clientela.
Nel 1950, per agevolare l’assistenza creditizia alle
medie e piccole industrie della Toscana, dell’Umbria e dell’alto Lazio, fu stanziato un fondo per costituire una Sezione di Credito industriale (che, poi,
si risolse nella partecipazione ad un apposito Istituto regionale), si aprirono nuove filiali e agenzie a
Milano, a Roma e a Firenze, mentre si curò particolarmente l’inserimento nelle transazioni bancarie
conseguenti al movimento degli scambi con paesi
esteri.
A Siena, il Monte erogò finanziamenti per un nuovo
Acquedotto, per un nuovo Policlinico e per la nuova
Facoltà di Scienze economiche e bancarie. Nel 1958
il conte Guido Chigi Saracini per assicurare un futuro alla sua Accademia Musicale, fondata nel 1932,
la trasformò in una Fondazione della quale entrò a
far parte anche il Monte dei Paschi. L’Accademia era
nata dal nucleo della “Micat in vertice”, un ente che
il conte Guido Chigi Saracini aveva creato, nel 1922,
per l’organizzazione di stagioni concertistiche nella
grande sala appositamente costruita ed affrescata
nel suo palazzo senese.
L’efficienza operativa del Monte, unita ad una rag-
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guardevole espansione territoriale e al potenziamento della sua azione sui mercati finanziari internazionali, ha avviato ormai una nuova stagione
della storia plurisecolare della Banca, attualmente
a capo di uno dei Gruppi finanziari più importanti
in Italia.
In osservanza alla legge 218 del 30 luglio 1990, che
fece nascere le Fondazioni bancarie, l’originale Istituto di credito di Diritto Pubblico, nel 1995, ha conferito l’attività bancaria a una Società per Azioni: la
Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A., che oggi
opera, anche tramite le proprie controllate, nei diversi segmenti dell’attività bancaria e finanziaria,
da quella tradizionale al credito speciale, dall’asset
management alla bancassurance e all’investment
banking, con una capillare diffusione in tutto il Paese e una presenza all’estero, nelle principali piazze economico-finanziarie.
Nel periodo 2007/2008, attraverso una serie di operazioni di acquisizioni ed incorporazioni, la Banca
ha creato i presupposti per giungere all’attuale assetto, prima con l’acquisizione di Banca Antonveneta e della quota di maggioranza di Biverbanca,
(successivamente ceduta), poi con l’incorporazione
di Banca Agricola Mantovana (settembre 2008),
Banca Antonveneta (dicembre 2008) e Banca Toscana (marzo 2009). La rete distributiva del Gruppo Montepaschi è stata quindi ridisegnata secondo
il principio di “esclusività territoriale” con grande
attenzione alle comunità locali in ogni regione
d’Italia.
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Valerio Adami, Allegoria del
Monte dei Paschi di Siena,
1999. Collezione Banca
Monte dei Paschi di Siena
Palazzo Tantucci
Dipinto commissionato dalla
Banca e riprodotto anche
in grandi dimensioni per
arredare l’Auditorium del
Centro Direzionale.
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Veduta del Centro Direzionale della Banca
Veduta di Palazzo Spannocchi dalla Torre Salimbeni
I P alazzi della S ede storica
della B anca M onte dei P aschi
di S iena
E voluzione
delle strutture architettoniche
M aria M erlini
Gli uffici amministrativi e gli spazi destinati alle
attività di rappresentanza del Monte dei Paschi di
Siena si articolano intorno al perimetro di Piazza
Salimbeni, creazione ottocentesca dell’architetto senese Giuseppe Partini che, in questo spazio,
volle allestire una sorta di palcoscenico ideale sul
quale far dialogare le facciate dei palazzi che fin dal
XV secolo avevano ospitato gli uffici del Monte Pio
e della Dogana dei Paschi: al prospetto del Palazzo
cinquecentesco di Mariano Tantucci, che costeggia il lato settentrionale della Piazza, fa riscontro,
lungo il perimetro opposto, la facciata di Palazzo
Spannocchi cui si affianca, ad oriente, la fronte neogotica del Palazzo Salimbeni.
L’odierno edificio, al pari della Piazza e della facciata di Palazzo Spannocchi ad essa prospiciente,
è il risultato di un generale intervento di riassetto
edilizio ed urbano che, alla fine del XIX secolo, interessò tutti gli immobili di proprietà del Monte dei
Paschi situati nell’area già sede dei possessi della
famiglia Salimbeni: il nucleo più antico dell’intero
complesso, infatti, è rintracciabile nelle strutture
del duecentesco Palazzo Salimbeni, parte di un
grandioso organismo di edifici fortificati – il “Castellare” – che, a partire dall’inizio del XIII secolo,
fu la dimora della omonima famiglia senese.
La consistenza e l’estensione del possesso dei Salimbeni può essere rintracciata nell’insieme di
strutture sedimentatesi nel corso dei secoli all’interno dell’area compresa tra Piazza dell’Abbadia,
Nella pagina precedente: il portale d’ingresso del Palazzo Salimbeni.
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Veduta di Piazza Salimbeni all’imbrunire.
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l’antica chiesa di San Donato, via dei Montanini e
via dei Rossi, sopra il colle che dominava l’antica
“valle Rozi” (oggi borgo di Vallerozzi, che da via dei
Montanini scende verso Porta d’Ovile); la costruzione, avvenuta in tempi diversi, inglobò una parte
dell’antica cerchia muraria di epoca altomedievale
che correva lungo il tratto percorso dalla via Francigena nei pressi della confinante chiesa di San Donato; mura i cui resti sono forse da rintracciare nelle
massicce bozze di pietra disposte a file regolari che
rivestono il paramento esterno in corrispondenza
degli spazi espositivi di San Donato e della soprastante Sala studio dell’Archivio storico. Sigismondo
Tizio, erudito senese vissuto nel XV secolo, descrive il Castellare dei Salimbeni come un imponente
complesso di edifici fortificati, chiuso da due torri
gemelle e circondato da poderose mura dotate di
porte: delle due torri descritte dal Tizio solo una,
quella principale, rende oggi testimonianza dell’inespugnabilità del complesso medievale (la seconda venne infatti demolita nel corso dei lavori
di ristrutturazione che interessarono la facciata del
Palazzo alla fine del XIX secolo): percorrendo gli
spazi adiacenti il complesso di Palazzo Tantucci se
ne possono ammirare con agio il profilo poderoso e la struttura possente delle mura, realizzate a
blocchi di calcare cavernoso come le torri di più
antica fattura (XII-XIII secolo) che caratterizzano
ancora oggi il tessuto urbano della città di Siena.
Gli studi compiuti in occasione degli ultimi lavori
di restauro (1963-1972) e del conseguente ripristino
della struttura medievale originaria, hanno rivelato
l’importanza e la centralità della Torre nel contesto
abitativo del Castellare, vero e proprio caposaldo
attorno cui, nel corso del tempo, erano venuti organizzandosi gli edifici di necessario supporto alle
attività della famiglia Salimbeni: dalla Torre, centro
dinamico della struttura del Castellare, si originava,
Nella pagina seguente: la Torre medievale, la scala disegnata da Pierluigi
Spadolini e, sullo sfondo, la Rocca
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infatti, una serie di percorsi che, come attestano le
strette aperture presenti nello spessore del parato
murario, collegavano fra loro la Rocca e il Fondaco dei Salimbeni attraverso l’uso di ponti levatoi e
passerelle in legno.
Cuore della dimora, la Rocca era il luogo deputato
ad esprimere – all’interno come all’esterno del Castellare – il potere e l’importanza della famiglia che
fra le sue mura risiedeva, imponendosi con la sua
robusta volumetria all’attenzione dell’intera comunità; nelle strutture del Fondaco trovavano invece
alloggio i magazzini e gli uffici relativi alle attività
commerciali praticate dalla famiglia: tratti delle antiche mura perimetrali sono oggi visibili negli spazi
adiacenti l’ingresso principale alla Sede della Banca, cornice suggestiva ai pregevoli manufatti lignei
di arte senese e toscana appartenenti alla collezione del Monte dei Paschi. Lungo il lato settentrionale
dei possedimenti dei Salimbeni era l’antica chiesa
di San Donato, fondata oltre un secolo avanti il costituirsi dell’insediamento fortificato della famiglia.
La chiesa doveva in origine presentarsi come un
edificio a navata unica dotato di terminazione absidale; la recente trasformazione in spazio espositivo
e sala per conferenze ha portato alla luce, rendendolo perfettamente leggibile nella propria integrità, ciò che ancora rimane dell’antica costruzione: i
filaretti regolari di pietra con cui sono realizzate le
mura perimetrali e le dimensioni assai contenute
(metri 20x9) dell’edificio, sono infatti una chiara attestazione dell’origine romanica della chiesa – che
i documenti ci dicono ricostruita già nel 1236. La
chiesa rimase in uso fino agli inizi del XIX secolo
quando, a seguito delle soppressioni napoleoniche, fu utilizzata come deposito di carrozze: solo
nel 1925, dopo essere stato incamerato tra i beni
Nella pagina precedente: veduta dall’alto del Salone della Rocca Salimbeni
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Lo studio del Presidente
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immobili del Monte dei Paschi, si effettuarono i
primi tentativi mirati ad un recupero funzionale
dell’edificio che venne destinato ad ospitare l’Archivio storico dell’Istituto bancario.
Nel 1419 il Comune di Siena decreta la confisca dei
beni e dei possedimenti della famiglia Salimbeni,
che in più occasioni e con varie alleanze aveva cercato di rovesciare il Governo cittadino; divenutone
proprietario, il Comune stabilisce in questa area gli
uffici della Dogana del Sale e, dal 1425, gli uffici
della Gabella: d’ora in avanti il Castellare diverrà la
sede dei più importanti uffici del Comune di Siena
fino alla costituzione, avvenuta nel 1472, del Monte
di Pietà (altrimenti detto Monte Pio). Nel corso del
XVI secolo si procedette alla costruzione di un ampio loggiato che sembra poter essere identificato
con il loggiato detto “del Peruzzi”, ubicato al primo
piano del Palazzo Salimbeni, prospiciente il cortile
interno dell’antico edificio.
Nel 1471 il mercante senese Ambrogio di Nanni Spannocchi manifestava al Governo di Siena
l’intenzione di costruire “una bella casa […] nella
strada di Camollia di sopra all’Arco de’ Rossi”, confinante con i possedimenti già dei Salimbeni. La
scelta dello Spannocchi di erigere in questo luogo
il proprio palazzo non fu dettata dal caso ma dal
desiderio di legittimare la potenza politica ed economica raggiunta dal clan familiare che egli stesso
rappresentava: di origine modesta, la famiglia degli
Spannocchi raggiunse la propria affermazione grazie alle attività mercantili e bancarie di Ambrogio di
Nanni, nominato tesoriere della Camera Apostolica
dal Papa senese Pio II Piccolomini. Nel 1473 Ambrogio di Nanni Spannocchi presenta al Comune di
Siena l’istanza per l’edificazione del Palazzo: i lavori, iniziati nel corso dell’anno, dovettero proseguire almeno fino al 1475, affidati alla direzione dello
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scultore e architetto fiorentino Giuliano da Maiano.
Insieme al Palazzo Piccolomini – oggi sede dell’Archivio di Stato senese – realizzato da Bernardo
Rossellino poco dopo la metà del Quattrocento, la
struttura concepita da Giuliano da Maiano rappresentava per Siena un elemento di grande novità e
di profonda rottura con gli schemi e con le tipologie architettoniche di un tessuto urbano tipicamente gotico: rispetto ai palazzetti fortificati del
Duecento e del Trecento, spesso privi di una chiara
differenziazione strutturale, Palazzo Spannocchi
si imponeva nello spazio cittadino in virtù di un
proprio linguaggio architettonico, che sottolineava
l’unicità delle forme dell’edificio ed evidenziava nel
contesto sociale la presenza del clan familiare ad
esso direttamente collegato.
Il prospetto del Palazzo, visibile percorrendo via
Banchi di Sopra, è organizzato in tre piani sovrapposti, lavorati a bozze di pietra e sottolineati dalla
presenza di due cornici marcapiano a dentelli; la
superficie del piano terreno è scandita da cinque
arcate a tutto sesto cui fanno riscontro, nei due piani superiori, altrettante finestre a bifora spartite da
eleganti colonnine: l’adozione del decoro “a bugnato”, il disegno elegante delle finestre e il criterio
proporzionale con il quale vengono distribuiti gli
elementi di facciata fanno di Palazzo Spannocchi
una chiara citazione del linguaggio architettonico
elaborato da Michelozzo per il Palazzo Medici di
Firenze (1444-1453); anche il grande cornicione che
conclude la facciata, originale reinterpretazione
delle cornici architettoniche di epoca tardo imperiale, si ispira al coronamento presente nel Palazzo
fiorentino di Cosimo il Vecchio. Nel Palazzo progettato per Ambrogio di Nanni Spannocchi, Giuliano sembra tuttavia andare oltre la rilettura della
“classicità” proposta dagli esempi di Michelozzo,
procedendo alla introduzione di un inedito partito
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La ex chiesa di San Donato, oggi spazio espositivo e sala per conferenze
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decorativo: alternate alle volute del coronamento
troviamo infatti le teste scolpite di antichi imperatori romani. L’adozione di elementi scultorei come
ornamento e parte qualificante dell’architettura derivava al nostro architetto dalle teorie espresse negli scritti di Leon Battista Alberti, teorie secondo le
quali un edificio poteva definirsi solenne e magnifico soprattutto quando abbellito da motivi a rilievo
e da statue. Nonostante la profonda novità del linguaggio adottato, Giuliano da Maiano seppe creare
una struttura che ben rispondeva alla sensibilità e
al gusto propri dello spirito senese, offrendo – forse spinto dalle osservazioni e dalle richieste dello
stesso committente – una interpretazione più armonica e raffinata delle compatte ed austere volumetrie dei coevi esempi fiorentini: rispetto a questi
ultimi il rapporto tra i piani dell’edificio è infatti
caratterizzato da una maggiore regolarità, mentre
la pietra forte del rivestimento esterno viene lavorata fino ad ottenere una superficie pressoché liscia,
sottolineata dal bugnato piatto e ingentilita dalla
presenza di elementi lineari, quali le cornici marcapiano e l’elegante profilo delle finestre a bifora.
Per quanto concerne la disposizione degli spazi
interni, è probabile che Palazzo Spannocchi dovesse presentare una struttura assai simile a quella
ideata da Michelozzo per gli ambienti del Palazzo
fiorentino della famiglia Medici: secondo quanto riporta Giorgio Vasari – che vede l’edificio alla metà
del Cinquecento – il Palazzo di Cosimo il Vecchio
venne condotto con “tante utili e belle comodità e
graziosi ornamenti […]. Questo [il Palazzo dei Medici] fu il primo che avesse in sé uno spartimento di stanze utili e bellissime […]. Nel primo piano terreno sono due cortili con logge magnifiche,
nelle quali rispondono salotti, camere, anticamere,
scrittoi, destri, stufe, cucine, pozzi, scale segrete
e pubbliche, agiatissime; e sopra ciascuno piano
Nella pagina precedente: particolare del cornicione quattrocentesco di Palazzo Spannocchi
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sono abitazioni et appartamenti per una famiglia
con tutte quelle comodità che possono bastare […]
a qualsivoglia splendidissimo ed onoratissimo re”.
Palazzo Spannocchi si presenta ancora oggi con
una corte interna aperta, circondata da un ampio
loggiato che poggia su colonne dai capitelli classicamente ornati da fiori e foglie di acanto: evidente
è il richiamo all’atrium della casa patrizia romana,
intorno al quale si sviluppavano i servizi e le varie stanze dell’edificio. Da questa zona, riservata ai
fondi e ai magazzini degli Spannocchi, si dipartiva
una elegante scalinata in pietra, tutt’ora presente,
che al pari di quanto accadeva nel prototipo di Michelozzo, conduceva al piano superiore destinato
ad abitazione.
Un secolo dopo la realizzazione del Palazzo Spannocchi l’area del Castellare dei Salimbeni sarà oggetto di una nuova e cospicua serie di interventi
edilizi: nel 1570 il Provveditore di Biccherna Mariano Tantucci sceglierà, infatti, quale sede della
propria dimora, lo spazio ancora libero che veniva
ad insistere tra il Castellare dei Salimbeni e l’antica
chiesa di San Donato: il progetto e la realizzazione
del Palazzo venne affidata all’architetto senese Bartolomeo di Bastiano Neroni detto il “Riccio”, artista
tra i più intraprendenti e poliedrici fra quelli attivi a
Siena intorno alla metà del Cinquecento.
Nella progettazione del Palazzo di Mariano Tantucci il Riccio dovette tenere conto dello spazio
assai ristretto in cui avrebbe dovuto svilupparsi il
nuovo edificio, delimitato dalla Rocca dei Salimbeni, da un lato, dalla chiesa di San Donato e dalla
Costa dei Salimbeni dall’altro: queste particolari
condizioni fisiche furono all’origine dello svolgimento essenzialmente longitudinale assunto dalla
struttura priva, fin dall’origine, di una corte interna. La spartizione della facciata a piatte lesene e
sottili cornici marcapiano rimanda ad analoghi
Nella pagina seguente: la Rocca Salimbeni vista da Piazza dell’Abbadia
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motivi elaborati dall’architetto Baldassarre Peruzzi
nella villa romana per il banchiere senese Agostino Chigi (1511); nel prospetto di Palazzo Tantucci
il Riccio sembra tuttavia andare oltre la ricerca di
armonia ed equilibrio propria dell’architettura rinascimentale del Peruzzi introducendo, quale elemento di novità, l’utilizzo di grosse bozze di pietra tufacea per il rivestimento del portale e delle
cornici delle finestre: la pietra, lavorata con sottili
incisioni, enfatizzava il profilo delle aperture di
facciata, conferendo alle superfici e ai materiali da
costruzione quella decisa ed insistita animazione
chiaroscurale propria delle coeve realizzazioni
dell’architettura manierista fiorentina. Per la facciata di Palazzo Tantucci, infatti, il Riccio sembra
soprattutto ispirarsi ai motivi e alle soluzioni adottate da Bartolomeo Ammannati nel cortile interno
di Palazzo Pitti, realizzato per il Granduca Cosimo
I dei Medici fra il 1558 e il 1570.
Il Palazzo verrà acquistato dalla Deputazione Amministratrice del Monte dei Paschi nel 1868 e sottoposto, di lì a pochi anni, ad un generale intervento
di ripristino che interesserà l’intero complesso architettonico facente capo alla Rocca dei Salimbeni.
Alla metà del XIX secolo il Monte dei Paschi di
Siena era ormai una banca che poteva vantare un
intenso sviluppo delle proprie attività: la necessità
di dare all’Istituto una sede più decorosa e consona
alla propria grandezza fu all’origine della profonda
trasformazione destinata a cambiare il volto dello
spazio insediativo occupato un tempo dal Castellare dei Salimbeni.
Nel 1872 veniva approvato il nuovo Statuto del
Monte che prevedeva la suddivisione dell’Istituto
in quattro sezioni (il Monte Pio, la Cassa di Risparmio, il Credito Fondiario e il Credito Agricolo) riunite in un unico ente, il Monte dei Paschi: in seno
Nella pagina seguente: Palazzo Tantucci visto dall’ingresso di Palazzo
Salimbeni
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Il Salone Strozzi all’nterno del Palazzo Spannocchi
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alle alte sfere dirigenti si manifestò chiaramente la
volontà di rinnovare l’immagine della Banca partendo, innanzitutto, da una riqualificazione del
contesto urbano attorno cui ruotavano le attività
della nuova Istituzione. Il 31 luglio 1877 la Deputazione Amministratrice del Monte dei Paschi approvava pertanto il progetto presentato dall’architetto Giuseppe Partini, professore di Architettura
all’Accademia di Belle Arti di Siena, relativo alla
costruzione di una “nuova piazza Salimbeni, chiusa da tre lati da altrettanti palazzi di stile caratteristico e di epoche interessanti e distinte, quali
sono i secoli XIV, XV e XVI […]”. Prima dell’intervento del Partini l’area della Piazza e dello spazio
ad essa circostante presentava una configurazione
assai articolata dovuta alla secolare stratificazione di organismi architettonici e sociali: la “piazza”
vera e propria si riduceva di fatto alla sola “Costa
Salimbeni”, una salita stretta e ripida che, partendo da via dei Montanini, costeggiava, da un lato,
Palazzo Tantucci e, dall’altro, i fondi degli Spannocchi alla quale faceva seguito, prima di raggiungere il portale del Palazzo, un corpo di fabbrica
attinente il complesso dei Salimbeni. Si accedeva
al piazzale interno della Regia Dogana, su cui prospettava la mole della Rocca, attraverso il portale
gotico e la campata a crociera dell’ingresso.
Gli interventi del Partini furono preceduti da una
serie di accordi e trattative mirati all’acquisizione
da parte del Monte degli spazi adiacenti i propri
possedimenti: a partire dal 1873 la Banca acquisterà i locali di Palazzo Tantucci, ancora proprietà del
Demanio, il piano terreno della Rocca dei Salimbeni, compresi gli spazi prospicienti Piazza dell’Abbadia (già appartenenti alla Regia Dogana) e, nel
1880, l’intero Palazzo Spannocchi.
Il restauro ottocentesco della sede del Monte prese
avvio dal Palazzo Salimbeni con i lavori condotti
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dal Partini sulla Rocca e sulla facciata del Palazzo
(1871). Seguendo le indicazioni fornite dall’architetto Giulio Rossi, deceduto poco tempo prima, il
Partini si occuperà in primo luogo della trasformazione dei locali situati al primo piano della Rocca
Salimbeni procedendo all’apertura, in luogo delle
piccole finestre sul lato rivolto verso piazza dell’Abbadia, di altrettante trifore ispirate all’architettura gotica senese. L’architetto interpretò il portale
come il fulcro della nuova facciata, sottolineandone il profilo con l’inserimento di una seconda fascia
di conci di pietra; il marcato accento delle cornici
verrà riproposto nelle due finestre gotiche soprastanti, trasformate in eleganti trifore nel rispetto dei
criteri tipologici adottati nell’intervento al primo
piano della Rocca. Le aperture soprastanti furono
invece ridotte a semplici monofore e poste in asse
con le trifore dell’ordine inferiore. La facciata venne conclusa da un coronamento merlato sostenuto da archetti su beccatelli che reinterpretavano in
funzione decorativa gli apparati “a sporgere” posti
a difesa delle mura e delle porte nelle città della Toscana medievale. Nel 1875 Giuseppe Partini è chiamato ad elaborare una soluzione urbanistica finalizzata alla demolizione della terrazza contigua al
Palazzo Spannocchi e alla sistemazione dello spazio in tal modo acquisito: il compimento del fronte
gotico della Rocca Salimbeni rendeva evidente la
necessità di creare un nuovo scenario architettonico, capace di soddisfare il crescente bisogno di
decoro edilizio della città. Nel 1877 hanno inizio i
lavori per la realizzazione della nuova Piazza cui si
affiancheranno, nel 1878, quelli per la demolizione
dei volumi della terrazza e dei fondi degli Spannocchi. Ancora nel 1878 verrà approvato il progetto
del Partini per la realizzazione della nuova facciata
del Palazzo Spannocchi che prevedeva, nel nuovo
prospetto, l’adozione dello stile e degli ordini già
61
Ingresso al Castellare dei Salimbeni prima del 1871, anno di inizio dell’intervento condotto da Giuseppe Partini
62
L’ingresso “rinnovato” da Giuseppe Partini
63
Veduta dei locali del Fondaco di Palazzo Salimbeni
presenti nella facciata quattrocentesca di Giuliano
da Maiano.
Il completamento della Piazza si concluse nel 1879
con l’erezione del monumento all’economista senese Sallustio Bandini, realizzato dallo scultore Tito
Sarrocchi su progetto dello stesso Partini.
Dopo l’acquisto dell’edificio, Palazzo Spannocchi
venne ceduto in affitto al Ministero dei Lavori Pubblici che qui avrebbe trasferito l’Ufficio Postale. Il
Partini, sempre su incarico del Monte dei Paschi,
elaborò un progetto mirato all’adattamento del piano terreno e del loggiato interno agli usi previsti
dalla nuova destinazione, chiudendo con cristalli
di vetro gli spazi tra le arcate del cortile. “[…] Abbattuto il ballatoio, restaurate le arcate e le relative
colonne, coperto l’ambiente da un grandioso lucernario, decorate le pareti da stupendi graffiti per
mano dei professori Franchi e Bandini, lo sconcio
cortile è divenuto la più bella, la più elegante aula
postale che abbiasi in Italia […]”: con queste parole, a distanza di pochi giorni dalla inaugurazione
del nuovo Ufficio Postale, il pittore Luigi Mussini
commentava l’impresa del Partini a Palazzo Spannocchi.
L’8 luglio 1892 la Deputazione Amministratrice del
Monte incaricava il Partini di elaborare un disegno
per “l’ammobiliamento completo della Sala delle
Adunanze [in Palazzo Salimbeni], e per la decorazione della medesima in perfetto accordo con la
mobilia e con lo stile architettonico dell’edificio nel
quale è situata […]”: il progetto, approvato nel 1895,
fu portato a termine dai collaboratori del Partini
dopo la morte dell’architetto sopraggiunta in quello
stesso anno. Smontato e ricomposto con cura altrove in seguito alle ristrutturazioni degli anni Ottanta
del Novecento, l’arredo si componeva di un rivestimento parietale in legno preziosamente intagliato, cui si abbinavano un robusto banco, anch’esso
66
intagliato, e una serie di sedie con schienale damascato. Il rivestimento delle pareti si completava
con un inserto di stoffa damascata, la quale, come
attesta una foto della prima metà del Novecento,
giungeva fino allo stacco della volta, decorata con
motivi ispirati all’arte del Rinascimento; una grande lumiera in ferro battuto dava infine luce alla
Sala. Le pitture delle volte e i disegni per i decori
delle stoffe dei rivestimenti furono eseguiti dal pittore cortonese Gaetano Brunacci: nella Biblioteca
comunale di Cortona si conservano, infatti, alcuni
studi di mano dell’artista, relativi ad elementi decorativi e ad alcuni pezzi di mobilio, che servirono da
modello per la realizzazione dei vari componenti
d’arredo destinati alla Sala delle Adunanze.
La natura e il senso profondo degli interventi del
Partini nella Piazza Salimbeni devono essere letti
in riferimento ad un clima culturale – quello sviluppatosi a Siena verso la metà dell’Ottocento –
che aspirava al generale ritorno delle arti verso la
purezza dei Trecentisti e verso la grandezza delle
espressioni artistiche del Rinascimento: Giuseppe
Partini rappresentava, infatti, uno degli esponenti
di quell’estetica Purista che a Siena aveva nell’Istituto di Belle Arti il suo asse portante, capace di
determinare gli orientamenti di cultura e di stile
in architettura, in pittura e nelle arti decorative. Il
“restauro” cui aspirava il Partini era pertanto qualcosa di molto diverso dal concetto che possiamo
avere noi oggi, mirato al recupero e alla conservazione delle strutture originarie di un edificio: con
il termine “restauro” Giuseppe Partini intendeva
la restituzione di una particolare immagine che,
nella Siena di fine Ottocento, si aveva di una certa
epoca storica, intesa nella complessità delle sue
più diverse manifestazioni artistiche. Attraverso i
suoi edifici il Partini “mirava a restituire l’aspetto del monumento originario, colto nel momento
67
in cui i suoi antichi costruttori avessero deposto
solo il giorno prima gli strumenti del cantiere
appena terminato” (G. Morolli, in Giuseppe Partini…, 1981): in pieno accordo con lo spirito di
integrazione fra le arti proprio dell’estetica purista, Partini non limita la ricostruzione dell’edificio
alla sola struttura architettonica ma estende l’intervento progettuale ad ogni aspetto che ne caratterizzi l’essenza e le peculiarità. L’architettura
nelle sue intenzioni diviene un fenomeno totale
che attiene alla completa strutturazione dello spazio dell’uomo: i suoi progetti, infatti, offriranno
uno studio minuzioso dei singoli elementi dell’arredo architettonico, dai pavimenti alle volte affrescate, dall’arredo ligneo ai candelabri in ferro
battuto per l’illuminazione, alle vetrate istoriate,
successivamente realizzati e posti in opera – sotto
l’attenta supervisione dell’architetto – dai più abili
artisti e artigiani della città di Siena. Sintetizzando
i tratti caratteristici della cultura dell’Umanesimo
toscano, il Partini reinventa gli stili dei secoli XIV
e XV, restituiti in forme altrettanto plausibili dalla sapiente orchestrazione delle strutture e degli
oggetti di arte applicata che costituivano l’arredo
architettonico.
L’operazione di Piazza Salimbeni rappresentò per
Siena l’evento architettonico e urbanistico più
rilevante del XIX secolo: l’intervento del Partini
mutava radicalmente un’area nevralgica della città
per inventare un nuovo spazio, visto dai contemporanei, e dal Partini stesso, come una allusione
alle epoche principali della storia senese riassunte nei tre palazzi che si affacciavano su di esso:
la facciata neogotica del Castellare dei Salimbeni
e il fianco/facciata neoquattrocentesco di Palazzo
Spannocchi si fiancheggiavano sulla piazza con
estrema disinvoltura, evocando gli stili dei secoli
più gloriosi dell’architettura cittadina. In questo
Nella pagina seguente: Palazzo Salimbeni, particolare della scala disegnata
da Pierluigi Spadolini
68
69
Gli spazi espositivi realizzati con l’intervento di Pierluigi Spadolini
72
scenario architettonico non vi è contrapposizione
di stili ma continuità di linguaggio, espressione
dei ritmi, delle forme salde, degli organismi lucidi
e spaziosi che da sempre caratterizzano, nel loro
insieme, le manifestazioni artistiche della civiltà
toscana. Soffermiamoci a osservare gli edifici dal
centro della Piazza: da questa posizione privilegiata vedremo svolgersi la trama, fatta di armonici
rimandi, di quel dialogo che il Partini intese istituire tra la facciata del Palazzo Salimbeni e quella
del Palazzo Spannocchi: l’arco acuto del portale
del Castellare si riflette nella raggiera di conci semicircolari del portone del Palazzo Spannocchi,
mentre l’alto piano di trifore archiacute si specchia
nei due corrispondenti piani di bifore classicheggianti; spostando l’attenzione alla sommità degli
edifici noteremo infine il ribaltarsi della merlatura
medievale del Palazzo Salimbeni sul cornicione
neorinascimentale di Palazzo Spannocchi – sostenuta, la prima, da appuntiti beccatelli, là dove
il secondo viene sorretto da eleganti mensole a
voluta –.
Nonostante la drasticità di alcuni interventi abbia
portato alla perdita di interi volumi (quali, ad esempio, gli spazi adiacenti i Palazzi Salimbeni e Spannocchi), il Partini cercò di conservare i tratti fondamentali della struttura originaria che divennero,
nelle sue intenzioni, le linee guida da cui prese vita
il nuovo assetto dell’edificio.
Nel 1911, a distanza di alcuni decenni dagli interventi di Giuseppe Partini, le mutate esigenze
dell’Istituto portarono ad una sostanziale riorganizzazione della funzionalità degli spazi, dotati di
quelle comodità che la tecnologia più avanzata del
momento poteva mettere a disposizione: gli uffici
del Monte vennero infatti provvisti di un impianto
di riscaldamento centralizzato, di un impianto di
aerazione e di un impianto telefonico; si provvide,
Nella pagina precedente: la Galleria Peruzziana.
73
La Sala dell’Archivio storico della Banca al piano terreno della Rocca Salimbeni
inoltre, alla realizzazione di tre ampi saloni che occuparono lo spazio relativo all’antico cortile della
Dogana, insistendo tra i due volumi della Rocca e il
Palazzetto di Ranieri Salimbeni.
La strutturazione degli spazi così come era stata
concepita dal Partini rimarrà sostanzialmente inalterata fino alla metà degli anni Cinquanta del Novecento quando, su richiesta del Monte, l’architetto
Pierluigi Spadolini organizzerà il nuovo assetto –
quello attuale – dell’intero complesso. Le sale, gli
spazi aperti e i corridoi che il visitatore si trova oggi
a percorrere sono infatti il risultato di un progetto
generale di restauro e di riordino della Sede storica che ha riportato alla luce gli edifici di maggiore
rilevanza architettonica, nascosti e talvolta gravati
dalle aggiunte dei secoli passati.
Varcato l’ingresso che prospetta sulla Piazza Salimbeni, accolgono il visitatore gli ambienti che furono già quelli del Fondaco della famiglia Salimbeni,
riservati oggi alla esposizione di alcuni fra i pezzi
più pregevoli della collezione artistica del Monte
dei Paschi di Siena: nel suo intervento di restauro
l’architetto Spadolini ha mirato, innanzitutto, al ripristino di interi brani dell’antico parato murario
in pietra e cotto recuperando, quando possibile, la
volumetria integrale dei singoli ambienti. La “riesumazione” degli antichi spazi si accompagna sempre,
nelle intenzioni dell’architetto, alla comprensione
delle funzionalità proprie delle antiche strutture,
necessaria premessa alla progettazione di quelle
forme nuove di raccordo con l’antico che permettono di conservare, nella sua integrità, la valenza storica dell’edificio preesistente: è proprio nella lettura
dell’edificio come documento storico che Spadolini
vive “il momento più interessante, spesso affascinante, dell’intero lavoro”, lettura che si concretizza
nella ricerca sui documenti d’Archivio e nella attuazione di saggi sulle antiche strutture. “Ricono-
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scere se un edificio era di tipo fortificatorio oppure
adibito alla vita pubblica o al commercio – afferma
l’architetto – permette di ricreare, attraverso i documenti, le forme ed i valori di una esperienza umana
ormai trascorsa, che non può e non deve essere dimenticata o cancellata, anzi, per mantenere ancora
viva la sua testimonianza deve essere rispettata e
integrata con la vita odierna. La stessa lettura storica, se eseguita con cura, può stimolare l’idea di
forme nuove e condurre con ciò ad una più rapida
sintesi formale” (Pierluigi Spadolini, 1987). è questo
l’assunto che sta alla base del recupero dell’antico
spazio gravitante intorno alla mole della Torre dei
Salimbeni, possente struttura a blocchi regolari di
pietra che costituiva il fulcro da cui si irradiavano i
collegamenti fra le diverse zone del Castellare. Ne
possiamo ammirare il profilo spostandoci verso
l’area in cui è situata la Rocca: l’ampio vano spaziale entro cui si disegnano i volumi delle due architetture – quello della Rocca e quello della Torre – è
stato recuperato demolendo una vecchia scala dei
primi del Novecento che lo occupava interamente;
consapevole dell’originaria organizzazione delle
strutture, Spadolini ha ideato una serie di ballatoi circolari convergenti sulla Torre e collegati fra
loro da una scala parzialmente nascosta dietro uno
schermo portante di cemento, soluzione, questa,
che permetteva una libera circolazione dello spazio rendendo al contempo possibile la connessione
fra i diversi fabbricati attraverso l’introduzione di
percorsi funzionali alle attività dell’Istituto bancario. Questa meditata azione di recupero ha dato
luogo alla creazione di un ampio volume completamente vuoto che, grazie all’inserimento di una
leggera copertura di vetro bronzato, sembra idealmente proseguire nell’infinito del cielo sul quale
si staglia il profilo della Torre; lo spazio circolare
lasciato libero dai ballatoi consente infine una vi-
77
78
suale unica dell’intero complesso che parte dallo
spigolo dell’antica Torre e prosegue verso l’angolo
della Rocca e della galleria del Fondaco. Così come
per la realizzazione dei nuovi inserti architettonici, anche la ricerca dei materiali è stata preceduta
da una lettura attenta delle forme preesistenti e da
una puntuale indagine storica: nel cemento gettato dei pianerottoli sono lasciate a vista le impronte
dell’armatura in legno che del legno restituiscono il
disegno di nodi e venature; il cemento martellinato
della scala replica a sua volta la ruvida consistenza
della pietra calcarea con cui è realizzata la Torre,
effetto ottenuto con la messa in opera di elementi
scanalati prefabbricati, lavorati sul posto. Una cura
particolare è stata poi rivolta alla realizzazione delle parti in legno della scala, della balaustra e del
pavimento: Spadolini ha infatti proposto l’utilizzo
di un legno di quercia che, opportunamente sabbiato e patinato, restituisce il colore caldo del legno
antico senza togliere al materiale tutto il pregio e la
finitezza di una lavorazione moderna.
Anche la Rocca è stata oggetto di un attento restauro preceduto, come già per il Fondaco e la Torre dei
Salimbeni, da una capillare ricerca d’archivio e da
innumerevoli saggi sulle strutture architettoniche.
Le indicazioni contenute nei documenti, unitamente a quelle ricavate dai saggi stratigrafici e all’utilizzo di tecniche operative proprie delle discipline
archeologiche, hanno consentito il ritrovamento
del volume originario della grande Sala delle Armi
del piano terreno – sede dell’Archivio storico della
Banca Monte dei Paschi di Siena – con il recupero delle mura trecentesche, delle finestre gotiche e
delle volte a crociera in cotto. Al centro del Salone
ubicato al primo piano della Rocca – oggi adibito a
salone di rappresentanza – sono stati riportati alla
luce i resti di un enorme pilastro ottagonale da cui
dovevano partire quattro volte a crociera, forse diNella pagina precedente: dettaglio dei locali del Fondaco Salimbeni
79
strutte da uno dei tanti terremoti che nel corso dei
secoli hanno colpito la città di Siena: la mancanza
di qualsiasi documento o testimonianza riguardo
l’originaria fattura di questi elementi ha fatto sì che
Spadolini desse vita ad una soluzione ispirata ai
motivi del Rinascimento, definendo per la sala un
soffitto a cassettoni isolato dalle pareti. L’attento lavoro di pulitura delle superfici ha consentito, inoltre, di recuperare la tessitura in cotto dell’originario
parato murario che, come rivelano alcuni brani di
affreschi affiorati durante le operazioni di restauro,
doveva presentare una decorazione a finto ermellino.
Dalle grandi trifore del Salone si possono apprezzare con agio gli esiti degli interventi di ripristino
condotti nella zona prospiciente Piazza dell’Abbadia: demoliti gli uffici ottocenteschi della vecchia
Succursale, Spadolini ha riportato alla luce lo spazio del cortile dell’antico Castellare; viceversa, si
è preferito mantenere intatto il volume della Rocchetta: seppur interessata dai rifacimenti ottocenteschi del Partini, la Rocchetta rappresenta infatti
l’edificio in cui sino alla fine del XVIII secolo aveva
sede l’antica Dogana; la demolizione della vecchia
Succursale ha consentito inoltre il recupero della
facciata gotica, con gli archi decorati da elementi in
cotto, del Fondaco dei Salimbeni e il ristabilimento
di quella successione di epoche diverse che nasce
dalla sovrapposizione delle arcate della Galleria
Peruzziana e delle finestre della sopraelevezione di
fine Settecento. Le mutate condizioni fisiche hanno
tuttavia reso necessario un intervento tecnico mirato a potenziare le strutture del Fondaco e della soprastante Galleria “Peruzziana”: tolti i vecchi mattoni – successivamente rimessi in opera – le murature
sono state svuotate e dotate di apposite strutture
metalliche imbullonate che consentono una più
uniforme ripartizione dei carichi. Il perimetro me-
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ridionale del cortile si chiude con la facciata del Palazzetto di Ranieri Salimbeni (sede di alcuni uffici
della Direzione Generale) dove chiara è la denuncia della novità dell’intervento: come nella scala e
nei ballatoi gravitanti intorno alla Torre, il rispetto
per i materiali tradizionali (in questo caso il cotto) si affianca ad una concezione totalmente nuova
delle forme che nell’alzato ripropongono, tuttavia,
la partizione in tre ordini distinti del più antico organismo costituito dal Fondaco, dalla Loggia “Peruzziana” e dalla sopraelevazione settecentesca.
Nel passaggio che dalla Rocca conduce all’antica
chiesa di San Donato è stata ricavata la Sala studio
e consultazione dell’Archivio storico. Si tratta, in
questo caso, di uno spazio totalmente nuovo dominato dalla presenza delle due ali convesse della
copertura in cemento: la pesantezza e la grevità
del materiale vengono come annullate dal moto
ascendente dei due elementi che, nel loro svolgersi
e gonfiarsi potente, rimandano a certe visioni sottomarine delle onde degli oceani: la trasparenza
dell’acqua sembra addirittura evocata dagli inserti
in vetro che, interrompendone il ritmo, danno luce
all’ambiente. L’effetto marino e subacqueo dell’insieme viene ribadito e come amplificato dalla struttura a liste di legno sagomato che rivestono il soffitto della chiesa di San Donato, dove l’impressione è
addirittura quella di uno spazio mobile e fluttuante.
Lo spazio circolare fra i ballatoi, la serie dei cerchi
che salgono e che modellano l’antica Torre dei Salimbeni, il richiamo ai flussi delle correnti marine
nelle coperture della Sala studio e della chiesa di
San Donato inseriscono l’intervento di Spadolini
per il Monte dei Paschi di Siena fra i contributi più
rappresentativi dell’architettura “Organica” in Italia; ad essa e ai suoi princìpi si ispira pure il motivo della compenetrazione fra spazi interni e spazi
esterni proposto dall’architetto nei vani che fungo-
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Veduta della Sala studio e consultazione dell’Archivio storico della Banca
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no da snodo fra i diversi fabbricati: qui, i volumi
sono interrotti con lastre di vetro scurito che, sviluppandosi con linea continua dal basso verso l’alto, creano degli inediti tagli verticali sul circostante
spazio aperto. La struttura architettonica dell’intero
complesso risulta dunque concepita al pari di un
grandioso organismo che cresce in armonia con le
proprie funzioni e con ciò che lo circonda: nelle
intenzioni di Spadolini l’armonia funzionale dell’edificio deve infatti esplicarsi nella sapiente individuazione di percorsi verticali e orizzontali e nella
introduzione di una impiantistica avanzata che siano in grado di assicurare il perfetto funzionamento
delle attività di relazione interna della Banca.
Nella pagina precedente: dettaglio dei locali del Fondaco Salimbeni
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Veduta del Palazzo Tantucci
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Qui e nelle pagine seguenti:
particolare
della Torre Salimbeni e della scala progettata da Pierluigi Spadolini
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La decorazione pittorica nei locali
della S ede storica della B anca
M onte dei P aschi di S iena
U n ’ espressione del P urismo di A lessandro F ranchi ,
G iorgio B andini e G aetano B runacci
F rancesca C eccherini
I graffiti che ornano il cortile interno di Palazzo
Spannocchi e gli affreschi della Galleria Peruzziana,
prospiciente la piazza del Fondaco dei Salimbeni,
fanno parte del lungo elenco di decorazioni pittoriche che a Siena, nella seconda metà dell’Ottocento, abbellirono e caratterizzarono edifici pubblici,
privati e di culto. In tale periodo, la decorazione
parietale divenne un mestiere altamente qualificato, al punto da determinare la nascita di un vero e
proprio mercato, e non soltanto cittadino. L’ottima
reputazione dei pittori di interni senesi, difatti, si
diffuse in tutta Europa; la fama di quegli ambienti,
decorati secondo il più squisito gusto medievale o
rinascimentale, fece partire gli instancabili artefici
persino alla volta dell’Inghilterra e della Francia.
L’Istituto di Belle Arti con la sua Scuola di Ornato fu
la fucina che forgiò i più valenti “pittori di stanze”,
così come all’epoca venivano chiamati, e permise a
tale attività di evolversi al punto da risultare fondamentale per la ricostruzione in stile di un edificio e
da diventare sinonimo di completezza nel restauro.
Affrontare lo studio di questa “pratica” che riunisce
e qualifica in sé arte e artigianato, nella Siena della
seconda metà del XIX secolo, comporta l’ingresso
entro una dimensione storico culturale particolare,
quella che vide per circa trent’anni un unico stile,
il Purismo, diventare codice quasi assoluto di
pensiero e di espressione artistica. Rivisitato dalla
sensibilità e dall’acuto ingegno di un uomo, Luigi
Mussini, Direttore dal 1851 dell’Istituto di Belle Arti,
Nelle due pagine precedenti: particolare della decorazione del soffitto della
Galleria Peruzziana
A fianco: Giorgio Bandini, Alessandro Franchi, dettaglio della decorazione
del cortile interno di Palazzo Spannocchi
97
98
maestro e precettore di tanti scolari, il Purismo fece
il suo ingresso a Siena – e con decisione – nel sesto
decennio dell’Ottocento. Venne professato con
tale dedizione e con così tanta grinta dall’illustre
pittore da essere considerato l’unica dottrina che,
meditando sulle opere dei maestri del Trecento e
del Quattrocento italiano fino a quelle del sommo
Raffaello, era in grado di garantire la rinascita di
un’arte veramente nazionale che, dopo secoli di
silenzio, tornava finalmente a splendere come
linguaggio elegante e attuale. Un’arte il cui scopo
non era quello di emulare i grandi esempi del
passato, ma di estrapolare da essi concetti e regole
per continuare a percorrere in epoca moderna lo
stesso cammino, fortificandolo e arricchendolo
grazie all’esperienza contingente.
Luigi Mussini era convinto, difatti, che l’artista moderno, sordo di fronte alle critiche di coloro che
acclamavano quel genere che faceva degli artisti
“macchine passive come un apparecchio fotografico”, doveva semplicemente accostarsi ai principi e alle regole di quell’arte “maestra” che aveva
prodotto, interrogando insaziabilmente la natura,
le espressioni del sentimento umano e i moti spirituali supremi. Forte della sua convinzione egli creò
le condizioni affinché l’arte, come la specializzazione tecnica che ne garantiva la completezza in
specifiche applicazioni, divenisse il denominatore
comune per tutte le attività esplicate secondo un
certo gusto estetico. Con l’utilizzo delle “buone tecniche”, desunte dai secoli illustri, e con il loro perfezionamento, la decorazione, l’intaglio, la ceramica, in una parola l’“artigianato purista” rivaleggiava
con il prodotto industriale, sempre più commerciale e dalle mille facce, acquistato da un pubblico
non educato e dal gusto discutibile. Così Siena, con
i suoi acquirenti scelti e raffinati, finalmente si riappropriava del ruolo di “fucina” d’arte e cultura. Il
Nella pagina precedente: particolare della decorazione del soffitto della
Galleria Peruzziana
99
pittore con le sue tele, con i suoi affreschi o le sue
tempere, lo scultore con i suoi marmi, l’architetto
con i suoi “spazi” nuovi o ricreati, l’intagliatore, il
falegname, il fabbro con la qualità dei suoi manufatti, tutti, insomma, erano chiamati a raccolta per
realizzare l’opera moderna dentro o fra le opere del
passato, in un dialogo mai interrotto con l’arte di
quel periodo, anzi ora più vivo che mai, quasi che
il tempo avesse ricominciato a scorrere ripartendo
da quei mirabili secoli.
La decorazione parietale si espresse sicuramente
con forme più “variegate” che superarono, qualche
volta, anche i limiti cronologici, e di conseguenza
artistici, a cui quel “credo” auspicava di attenersi;
ma questo fu determinato dal contesto, spesso privato, in cui la decorazione era inserita e dal gusto
dei committenti che, col passare degli anni, diventava sempre più esigente.
Giorgio Bandini può essere considerato il vero protagonista della decorazione pittorica a Siena nella
seconda metà dell’Ottocento. La sua fu un’attività
intensa, esplicata autonomamente a partire dagli
anni Cinquanta, che si congiunse successivamente a quella del rinomato artista pratese Alessandro
Franchi, “pittore di figura”, con il quale lavorò in
perfetto affiatamento fino allo scadere della sua
esistenza. Mentre questi era l’ideatore e l’esecutore
delle figure e delle composizioni principali, Giorgio
Bandini ne stabiliva il contorno e, prelevando dal
suo multiforme repertorio i motivi più congeniali,
creava la cornice adatta a magnificare tali scene,
determinando, altresì, il carattere speciale di ogni
ambiente. Entrambi i pittori frequentarono l’Istituto
di Belle Arti di Siena e proprio nelle aule di quella
scuola strinsero fraterna amicizia.
Titolare della cattedra di Ornato presso l’Istituto di
Belle Arti di Siena dal 1867, Bandini avviò al mestiere della decorazione pittorica moltissimi giovaNella pagina seguente: particolare della decorazione del soffitto della
Galleria Peruzziana
100
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102
ni, i cui nomi, purtroppo, si sono persi nella storia
o sono rimasti solo nominativi di un lungo elenco,
destinati a sbiadire nell’anonimato dei tantissimi
ornati “ottocenteschi”. Tra questi, altresì, emerge in
tutto il suo spessore, la figura di Gaetano Brunacci, prima giovane aiutante di Giorgio Bandini, poi
allievo, collaboratore, infine depositario di tutto il
suo sapere, il quale proseguì quell’arte, con potenza d’ingegno, fino agli albori del XX secolo.
Giorgio Bandini, Alessandro Franchi e Gaetano
Brunacci lasciarono testimonianza del loro alto
magistero anche nella Sede storica del Monte dei
Paschi di Siena.
I primi due si cimentarono nell’ornamentazione
delle pareti del nuovo ufficio postale, ubicato nel
cortile interno di Palazzo Spannocchi che oggi,
purtroppo, si presenta definitivamente compromesso nella sua integrità e, quindi, nel suo intrinseco valore. Di esso è possibile ammirare quei graffiti
fortunatamente risparmiati nel corso degli ultimi
restauri.
Il Palazzo, proprietà della Baronessa Giulia Spannocchi, ultima erede della rinomata famiglia senese, venne acquistato dal Monte dei Paschi di Siena
nell’anno 1877. Immediatamente dopo l’acquisto,
l’Istituto stanziò i capitali necessari per ultimare le modifiche all’esterno del Palazzo – il fianco
dell’edificio prospiciente Piazza Salimbeni – e per
trasformare adeguatamente alcuni locali interni,
che furono destinati ad accogliere pubblici uffici.
Il piano terreno dell’immobile venne affittato al Ministero dei Lavori Pubblici che trasferì, proprio nel
cortile interno – preventivamente restaurato – la
sede della Posta, che fino a quel momento si trovava nei disagevoli locali di Via Ricasoli.
L’architetto Giuseppe Partini si occupò dei lavori di
sistemazione; l’opera, tuttavia, poté dirsi compiuta solo dopo il mirabile intervento dei pittori che,
Nella pagina precedente: particolare della decorazione del soffitto della
Galleria Peruzziana
103
nell’occasione, si misurarono con la tecnica del
“graffito”, assai diffusa durante il Rinascimento, periodo storico a cui rendevano, con la loro arte, un
ennesimo omaggio.
La decorazione copriva l’intera superficie delle
quattro pareti: candelabre popolate da baldanzosi putti – raffigurati da Giorgio Bandini in piedi e
sostenenti festoni gravidi di frutta o seduti sopra
delfini con in mano ramoscelli – coronate dai medaglioni ideati da Alessandro Franchi e recanti
all’interno le immagini allegoriche della posta, del
telegrafo e dei quattro continenti.
Utilizzata particolarmente per decorare le facciate
degli edifici, la tecnica del graffito consisteva nello stendere sull’arriccio un intonaco ruvido e scuro, colorazione, quest’ultima, ottenuta aggiungendo
del pigmento nero all’impasto. Su questa superficie
– ben asciutta – veniva steso un sottile strato di calcina bianca su cui il pittore, per mezzo dello spolvero,
riportava la traccia del disegno stabilito. Utilizzando
appositi punteruoli proseguiva “graffiando” i contorni delle figure; tramite questa azione meccanica
veniva riportato in luce l’intonaco nero posto sotto
lo strato di grassello. Per dare volumetria alle forme
l’artista proseguiva incidendo ancora la superficie
con punteruoli di varia grandezza al fine di ottenere
un chiaroscuro a tratteggio più o meno insistito.
Nella collezione Pacenti, di proprietà del Monte dei
Paschi di Siena, sono conservati quattro spolveri e
due disegni relativi a questo intervento di decorazione.
La collezione Pacenti comprende numerosi spolveri e disegni eseguiti dai più valenti decoratori del
Purismo senese. La raccolta di queste opere è avvenuta nel tempo, grazie alla dedizione per l’arte del
restauro e della decorazione di tre uomini, artisti,
amici e collaboratori in tanti cantieri, Bruno Marzi,
Oreste e Mario Pacenti, il cui sodalizio artistico ini-
104
Alessandro Franchi, L’Asia, cartone preparatorio per la decorazione del cortile
interno di Palazzo Spannocchi. Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena
ziò dopo l’ultimo conflitto mondiale e li vide uniti
per tutta la vita.
L’ornatista dopo aver ideato il ciclo decorativo tramite schizzi e bozzetti, era solito passare all’esecuzione dello “spolvero”, indispensabile per iniziare
il lavoro vero e proprio sulla parete. Lo spolvero è
uno “strumento” necessario per trasferire su muro la
sagoma della figura o della composizione che l’artista intende dipingere. Esso consiste in un disegno
realizzato su carta e successivamente bucherellato
nei suoi contorni tramite un ago o un altro strumento appuntito. Il pittore, dopo averlo appoggiato al
muro, procede strofinando e battendo sulla foratura
un tampone di stoffa sottile riempito con polvere di
nero fumo, che lascerà sulla parete tanti piccoli pun-
105
ti, necessario riferimento per la stesura del colore.
Venivano eseguiti gli spolveri per ogni particolare
che componeva l’insieme, nelle dimensioni desiderate: tramite l’espediente tecnico della “quadrettatura” era, infatti, possibile ingrandire anche il più
minuto dettaglio. Frequentemente, nello spolvero
si tracciavano solo i contorni di una determinata
forma; in alcuni casi erano disegni di straordinaria
qualità, di cui ancora oggi è possibile ammirare la
perfezione tecnica del chiaroscuro, caratterizzato
da passaggi dalla luce all’ombra perfettamente modulati, alla ricerca di una tangibile plasticità.
La nuova “posta delle lettere” di Palazzo Spannocchi, la più elegante d’Italia, così come la definì entusiasticamente Luigi Mussini rivolgendosi a Cesare
Guasti, fu inaugurata nell’agosto del 1881, riscuotendo plauso e ammirazione generale.
Tra il 1869 e il 1870, il giovanissimo Gaetano Brunacci entrava a far parte della “bottega” di Giorgio
Bandini.
Nato a Cortona nel 1853, apprese le prime nozioni
di disegno dal padre Crispino, di professione decoratore, e da Giovanni Bartoloni, “pittore di stanze”.
Ma la vera scuola di Gaetano Brunacci fu, tuttavia,
la “bottega-cantiere” del Bandini, alle cui dipendenze iniziò a lavorare appena giunto in città.
Nel 1870 si iscrisse all’Istituto di Belle Arti frequentando il Corso di Ornato e perfezionandosi, negli
anni successivi, nella Scuola di Figura, di Architettura, delle Statue e di Anatomia, costellando la propria
carriera di studente con tantissimi premi e attestati.
Nel 1883 Gaetano Brunacci, come calorosamente
scrisse Luigi Mussini, era già “entrato nella bella
falange di quei reputati valentissimi artisti” usciti
dall’Istituto di Belle Arti di Siena e alle sue spalle
già vantava opere di particolare importanza svolte
per incarico dello stesso Bandini.
Dal 1895 subentrò al suo maestro, ormai gravemen-
106
Alessandro Franchi, La Posta, cartone preparatorio per la decorazione del cortile
interno di Palazzo Spannocchi. Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena
te ammalato, nella direzione della Scuola di Ornato
presso l’Istituto di Belle Arti e, sotto “le sue direttive i corsi e l’insegnamento di quella scuola furono
come ringiovaniti, e la Scuola di Ornato [...] divenne
fondamentale, e acquistò una vitalità completamente nuova. Su tutti i vecchi sistemi [...] tornò a prevalere lo studio dal vero, e il nome stesso del corso,
per il più ampio respiro acquistato [...] si cambiò da
Scuola di Ornato in Scuola di Arti Decorative”.
Le sue opere più note furono quelle eseguite per
incarico del Monte dei Paschi di Siena: la decorazione della volta della Sala per le Adunanze della
Deputazione e quella del loggiato – la Galleria Peruzziana – che ne dava l’accesso.
La Sala per le Adunanze della Deputazione Ammi-
107
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Veduta d’insieme della Sala delle adunanze della Deputazione Amministratrice
progettata da Giuseppe Partini e inaugurata nel 1897
109
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nistratrice, il cui progetto fu curato dall’architetto
Giuseppe Partini, venne inaugurata nel 1897: purtroppo, oggi, solo vecchie fotografie possono dare
un’idea della bellezza di quel locale curato “in stile” in ogni minimo dettaglio e sacrificato nel corso dell’ultimo restauro. Nel Museo dell’Accademia
Etrusca di Cortona è, altresì, conservato il Bozzetto
dimostrativo per la decorazione di tale ambiente,
che reca, in calce, la firma dell’artista.
Il disegno, di alta qualità, fu realizzato in un foglio
di piccole dimensioni: il pittore con mano veloce
fissò in maniera estremamente efficace, i molteplici particolari ornamentali che avrebbero abbellito
la volta, suggerendone la magnificenza con piccoli
tocchi di luce dorata. Oltre a dipingerne il soffitto,
Gaetano Brunacci eseguì, secondo quanto afferma
il nipote nella sua biografia, persino i disegni dei
mobili e della stoffa che doveva rivestire le pareti.
La decorazione della Galleria Peruzziana può essere considerata l’opera conclusiva della sua carriera. L’intervento, affidatogli nel 1902 dalla Deputazione del Monte dei Paschi, secondo gli accordi
preliminari, avrebbe dovuto essere completato in
tre anni. I tempi di esecuzione, invece, si prolungarono, perché si resero necessari alcuni lavori di
carattere strutturale al fine di rendere più agevole
il collegamento tra la Galleria e gli uffici dell’Istituto; a questi se ne aggiunse un altro per riportare il pavimento al suo originario livello, intervento
ritenuto opportuno dallo stesso Brunacci, proprio
per valorizzare i lavori di decorazione già eseguiti.
Pertanto, nel 1907, l’opera di ornamentazione non
era stata ancora del tutto ultimata e la Deputazione, insoddisfatta del risultato fino a quel momento ottenuto, propose di estendere la decorazione
dalle volte ai vani delle pareti, con alcune figure
allegoriche che raccontassero la storia del potente
Istituto bancario; era necessario, di conseguenza,
Nella pagina precedente: particolare della decorazione del soffitto della
Galleria Peruzziana
111
l’intervento di pittori propriamente “di figura”. Gaetano Brunacci presentò un progetto che fu scartato
dalla Deputazione Amministratrice, perché ritenuto
eccessivamente dispendioso. L’artista, amareggiato,
si rifiutò di completare il lavoro, consegnandolo a
fidati collaboratori, Carlo Bovini e Vittorio Zani, suo
giovanissimo allievo. Questi portarono a termine il
lavoro nel 1908, come risulta dalla data apposta su
una lesena.
L’intera decorazione venne eseguita ad affresco,
come testimoniano i segni delle “incisioni indirette” ancora oggi visibili, ottenute dal pittore ripassando i contorni del disegno preparatorio con un
punteruolo.
La Galleria è suddivisa in otto scompartimenti che,
per tipologia decorativa, richiamano immediatamente alla memoria quelli della Loggia del Palazzo Bichi-Ruspoli, egregiamente dipinti a fresco da
Giorgio Bandini e Alessandro Franchi. Anche nella
Galleria Peruzziana le decorazioni delle volte seguono l’inclinazione di “invisibili” nervature poste
in diagonale, che suddividono lo spazio in vele e
individuano perfettamente il punto mediano di tutte le volte. Era un sistema utilizzato per ordinare gli
ornamenti in quattro spazi ben definiti e per condurre l’occhio dell’osservatore verso il dipinto posto al centro. Lo scompartimento dedicato all’Acqua
colpisce per i suoi elementi decorativi. La cornice,
sebbene semplificata rispetto a quella ornata da
Giorgio Bandini, sorprende per i personaggi che la
animano: come in un corteo si inseguono, su tutti
e quattro i lati, mostri marini cavalcati da fanciulli
e figure muliebri. I mostri fuoriescono dall’acqua
mostrando il loro corpo che per metà è quello di
un fantasioso animale acquatico, con lunga coda
e pinna, per l’altra metà è cavallo o figura umana.
Incuriosiscono l’occhio dello spettatore, inoltre,
molli collane su cui sono appesi i “frutti” e gli “abiNella pagina seguente: particolare della decorazione del soffitto della
Galleria Peruzziana
112
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tanti” dell’acqua: conchiglie, rane, granchi e pesci
di vario genere. Completano la decorazione della
volta coppie di fauni poste ai quattro angoli, direttamente tratte da quelle affrescate nello scompartimento dedicato alla Terra della Loggia del Palazzo
Bichi-Ruspoli. Al centro della volta campeggia un
medaglione in cui sono raffigurati un tritone con
tridente e una nereide. Tali soggetti furono molto
cari al pittore cortonese: nel 1883 si recò a Nizza,
incaricato da Bandini, per ornare la Villa del colonnello W.E. Evanz, dove affrescò una camera con la
Danza delle Ore, incorniciata proprio da personaggi marini simili a quelli sopra descritti. All’Istituto
Statale d’Arte “Duccio di Buoninsegna” di Siena è
possibile ammirare il bozzetto di tale opera che
venne inviato a Nizza e approvato dal committente
con firma apposta, in data 26 aprile 1882. Decorazioni molto vicine a quelle dello scompartimento
dell’Acqua della Galleria Peruzziana, inoltre, erano
state dipinte dall’ornatista cortonese, presumibilmente qualche anno prima, nel Palazzo Brancadori
in Siena, come testimonia una fotografia dei disegni preparatori, da lui firmata e conservata nella
sua cartella privata.
Colpisce per la sua fresca bellezza anche lo scompartimento dedicato all’Agricoltura: dagli angoli si
spingono verso il centro della volta mazzi di girasole alternati a fasci di giaggiolo, dai quali fuoriescono piante di granturco e saggina; sulla cornice
sono dipinte spighe di grano, rami di castagno, di
quercia e di altre piante caratteristiche della campagna Toscana. Su questi “si muovono o riposano”
volatili selvatici e da cortile. Posizionati al centro
delle quattro cornici si trovano quadri raffiguranti
possenti buoi maremmani dalle larghe corna.
La sezione dedicata al Monte dei Paschi di Siena
si presenta riccamente decorata: dagli angoli quattro candelabre si allungano diagonalmente verso il
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Gaetano Brunacci, Autoritratto, particolare della decorazione parietale
della Galleria Peruzziana
centro, animate da putti, draghi alati e intervallate
da graziosi quadretti raffiguranti ciascuno una pecora o una capra; altrove, fanciulli si arrampicano
per bere ad una fonte, mentre monete effigiate e
ghirlande ricolmano gli spazi. Lungo le cornici, incurvati per seguirne le volute interne su cui posano,
sono dipinti dei delfini. Su di essi siedono giovani
nudi armati di tridenti alle prese con draghi alati.
Al centro della volta campeggia lo stemma dell’Istituto bancario circondato da quattro targhe recanti
rispettivamente le scritte: “DEPOSITI”, “CREDITI”,
“PRESTITI”, “FIDVCIA”.
115
Elementi floreali predominano in altre volte. Rami
lussureggianti di foglie si arrampicano lungo minuti tralicci di bambù che, dipartendosi dagli angoli,
convergono al centro, formando eleganti pergolati.
Uccelli dalle piume variopinte sono posati sui rami
o svolazzano negli spazi liberi; conigli, scoiattoli,
capre, stambecchi popolano, infine, un altro scompartimento nel quale si possono anche ammirare
scene campestri, cariche di poesia e piene di luce.
Era un’opera straordinaria quella che, in pratica,
chiudeva la carriera del pittore: una decorazione
che rendeva omaggio all’arte del maestro
Bandini – “sacerdote devoto e prediletto” dell’arte
“poeticamente simpatica di Giovanni da Udine”,
così come la definì Giovanni Montomoli –
spingendosi, però, ben oltre i suoi insegnamenti.
Brunacci corredò questo ambiente non solo di
figure mitologiche e ornati neorinascimentali,
ma di tante “speciali bellezze”: il suo autoritratto,
i volti di amici come quello di Carlo Bovini e
della sua consorte, di Vittorio Zani, di parenti, di
personaggi caratteristici di Siena come il “brutto
della Contrada della Tartuca” o le prostitute del
rione di Castelvecchio. E, poi, le numerose teste
di alienati, modelli prediletti dal pittore, per i loro
sguardi quando ammiccanti, quando sfuggenti,
per le loro espressioni stanche o vuote che egli
andava a ritrarre direttamente presso l’Ospedale
Psichiatrico della città, cercando poesia nella
deformità e restituendo loro, per mezzo dell’arte,
dignità e forza. Naturalismo, quindi, col quale, in
ultima istanza, onorava la pittura di Angelo Visconti
dando vita e colore al suo personaggio rimasto
incompiuto: il viso del Cattivo Levita, incorniciato
da una bianca capigliatura, guarda incurante verso
lo spettatore, pronto da un momento all’altro a
voltarsi e a continuare il proprio cammino.
Ai margini della parentesi purista si pone la deco-
116
razione della piccola volta che è possibile ammirare appena varcato il portone d’ingresso di Palazzo
Spannocchi, prospiciente via Banchi di Sopra.
A partire dal 1912, infatti, il Monte dei Paschi di
Siena promosse numerosi lavori di sistemazione,
concernenti la riorganizzazione funzionale dell’intero complesso. A tali lavori venne associato un
consistente intervento di decorazione – e non solo
pittorica – coordinato dall’architetto Vittorio Mariani. Dalla ricerca svolta presso l’Archivio storico
del Monte dei Paschi di Siena, non sono emersi
documenti probanti per una più precisa datazione riguardo a questo specifico intervento. L’esame
attento delle decorazioni, tuttavia, fa pensare ad
un’esecuzione piuttosto tarda, databile al secondo
decennio del XX secolo.
Il modo convenzionale di comporre i motivi, l’insistente presenza dell’elemento floreale – le ghirlande, ad esempio, sottolineano la suddivisione della
volta e i rami fioriti accompagnano la lunghezza
delle sezioni triangolari – e degli ornamenti filiformi, pur essendo chiaramente desunti dal repertorio figurativo ottocentesco, risultano illanguiditi e
svuotati, privi di quella “efficacia decorativa” che fu
propria dei soffitti o degli ambienti dipinti nel corso
della seconda metà del XIX secolo. Tra gli ornati,
cui sopra abbiamo accennato, si possono scorgere
quattro coppie di putti seduti di spalle sopra “cartelle” decorate con mostri marini e altri personaggi
tratti dalla mitologia. Nella collezione Pacenti sono
conservati due spolveri – Putto alato e Putto con
ali di farfalla – che vennero utilizzati proprio nella
piccola volta di Palazzo Spannocchi. I disegni furono probabilmente eseguiti dal pittore cortonese
Gaetano Brunacci: il robusto segno a inchiostro –
frequentemente utilizzato dall’artista per disegnare
nello spolvero – la fisionomia e la placida espressione dei piccoli personaggi, spingono verso questa at-
117
Gaetano Brunacci, particolare della decorazione della Galleria Peruzziana
tribuzione, sostenuta dal confronto con altre prove
grafiche dell’ornatista. La qualità tecnica dell’intera
decorazione, tuttavia, autorizza ad avanzare l’ipotesi che essa non sia stata eseguita da Brunacci in
persona, ma dai cosiddetti pittori “subalterni”, ossia
118
dai suoi collaboratori, alla cui mano, certamente
meno esperta, sono riconducibili certi passaggi pittorici un po’ stentati. La decorazione della volta non
esibisce la pennellata fluida o la chiarezza di tinte
– specie negli incarnati dei putti – così come la si-
119
curezza d’esecuzione che fu propria del pittore cortonese. Era prassi comune, difatti, che lo spolvero,
“oggetto”, “utensile” da lavoro al pari del pennello
o del pigmento, venisse riutilizzato in occasioni e
contesti diversi e, quindi, come nel caso sopra citato, da mani diverse.
«Sono dolentissimo di non potere soddisfare a quanto
Ella mi chiede nella gradita sua in data 14 corrente.
Io per mancanza di commissioni, ho quasi abbandonata la professione e quindi non ho con me nessun
giovane che possa corrispondere al di lei scopo; quei
decoratori che conosco si sono dati allo stile moderno
e secondo il mio giudizio non sarebbero adatti per il
suo lavoro».
Con queste parole, Gaetano Brunacci rispondeva,
in data 16 marzo 1913, a una lettera inviatagli dal
Prof. Arturo Gassi, esprimendo in pochissime righe
amarezza e rimpianto per la fine di un’epoca, che,
secondo un naturale processo di evoluzione, era già
pronta ad accogliere nuove forme di espressione.
Eppure, quella del Purismo, oggi, a distanza di oltre un secolo, si definisce sempre meglio nei suoi
contorni e si afferma come parentesi felice e sicuramente riuscita dell’impegno di un gruppo “illuminato”. Artisti-artigiani che seppero concretizzare il
loro “credo” in scuola, pensiero e azione; un’azione
mirata a non perdere quella “organicità” che fu il
sigillo dell’arte medioevale e che tornava a regnare,
sfatando lo spettro della macchina, in epoca moderna, per legare l’individuo alla società, l’artista al
suo lavoro, gli artisti nella realizzazione comune, e
in stato di gioia, dell’opera totale.
Se per mezzo della macchina l’uomo era in
grado, senza difficoltà, di recuperare il passato,
combinandolo a suo piacimento, quale la strada
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Alessandro Franchi (?), Giorgio Bandini (?), Putto alato su delfino, spolvero.
Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena
per riaffermare lo stile italiano? Questo era il
quesito che si andavano ponendo artisti e studiosi
illustri dell’epoca. E Siena, spontaneamente,
rispose: l’artista-artigiano si sentì libero di creare lo
stile moderno dentro la storia, si sentì libero nella
“regola”, libero nella “memoria” del passato, perché
solo attraverso la “memoria” l’arte consacrata di ieri
tornava nel presente per dare un senso allo stile
moderno.
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Cortile detto “della Dogana” all’interno del Castellare dei Salimbeni
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