Prefazione L’esperienza dell’Islanda è oggi più che mai attuale. A metà 2013 Eurolandia ha cambiato mantra ed ha ammesso, anche se non esplicitamente, che la politica di austerità imposta alla periferia non ha funzionato. Siamo lontani ancora dall’analisi critica del debito sovrano, da come questo si è accumulato e dalla schiavitù che tutto ciò rappresenta per noi cittadini, ma almeno un piccolo passo in avanti verso una politica di risanamento e di recupero dell’economia nazionale è stato fatto. Basterà? sicuramente no se continuiamo a farci governare dagli euroburocrati. Si chiede ora ai governi dei paesi membri di perseguire politiche del lavoro in grado di assorbire la disoccupazione. Fin qui tutto bene, peccato che queste richieste non facciano parte di una strategia d’azione concreta. Come per la vecchia ingiunzione a ridurre l’eccessivo debito, la nuova esortazione a creare posti lavoro è imperiosa ma non costruttiva. Manca persino il dibattito sulle politiche industriali, del lavoro ed economiche che queste nazioni dovranno perseguire. Le liberalizzazioni ordinate oggi assomigliano tanto ai tagli drastici alla spesa pubblica ed alle pensioni imposti nel 2010 e 2011, sono formulate con un linguaggio incomprensibile per chi non mastica quotidianamente euro-documenti e non rientrano in una strategia di crescita dell’eurozona. Soprattutto I sono prive di qualsiasi riflessione sui pericoli sociali ed economici relativi al loro fallimento. È infatti probabile che il mantra: lavoro, lavoro, lavoro fallisca clamorosamente come quello che lo ha preceduto. Bruxelles non ha la minima idea di quali siano i settori trainanti, ad esempio, dell’economia spagnola, italiana e francese per l’occupazione, economie grandi con percentuali altissime di disoccupazione; né da dove arriveranno i fondi per investire in queste nazioni e se il permesso di sforare di un punto percentuale il deficit di bilancio sarà sufficiente a far ripartire il volano del lavoro. L’unica cosa certa è che tra un anno queste nazioni saranno più indebitate di quanto lo siano oggi e che i sacrifici fino ad ora imposti agli europei non sono serviti a nulla. Ma a differenza di oggi tra uno o due anni, se non si riesce ad abbattere i tassi di disoccupazione, non basterà cambiare il mantra politico per sedare la rabbia degli europei. Per ora tagli ed austerità hanno fomentato una sorta di guerra tra poveri territoriale, dove i cittadini di Eurolandia si scagliano contro gli emigrati. Ma se la politica dell’occupazione fallisce, i poveri potrebbero allearsi e rivoltarsi contro i loro governi. È questo un rischio che pochissimi a Bruxelles hanno valutato, gli euroburocrati ed i loro capi politici sono infatti presi dalla stesura di documenti incomprensibili per noi comuni mortali e dalla divulgazione del nuovo mantra. La lezione dell’Islanda è dunque importante perché ci indica una strada diversa, quella dove gli stati sovrani formulano le loro politiche tenendo conto dei bisogni contingenti. Illuminanti gli esempi dello SCEC, la solidarietà che cammina, II per farci capire che esistono nuovi paradigmi, nuove strategia da seguire. Possiamo rischiare l’implosione sociale a causa di politiche sbagliate, formulate da organismi poco professionali guidati da euro-burocrati? La risposta è No. A monte di questa crisi c’è una costruzione politica, economica ed anche sociale che non funziona, per rilanciare l’economia del vecchio continente e quella delle nazioni che ne fanno parte bisogna riformare l’Unione Europea. Come dicono molti analisti o si fa marcia indietro o si preme l’acceleratore, rimanere stazionari non si può proprio. Ed è questa la conclusione alla quale si arriva leggendo questo libro illuminante, che ci offre un parallelo scomodo tra Eurolandia ed un paese sul tetto del mondo dove la gente si chiama solo per nome. Loretta Napoleoni III