n. 15 (1996), pp. 127-140. 126 Tizzoni 1984 M. Tizzoni, I materiali della Tarda Età del Ferro nelle Civiche Raccolte di Milano, in «Notizie dal chiostro del Monastero Maggiore», suppl. III, Milano. Trucco 1979 F. Trucco, Aspetti e problemi dell’età di La Tène antica e media tra Ticino e Sesia, in «Notizie dal chiostro del Monastero Maggiore», XXIII-XXXIV, Milano. Vannacci Lunazzi 1982 G. Vannacci Lunazzi, Una tomba gallica a Garlasco-Madonna delle Bozzole, in «Studi in onore di F. Rittatore Vonwiller», II, Como, pp. 747-765. Vannacci Lunazzi 1983 G. Vannacci Lunazzi, Un aspetto della romanizzazione del territorio: la necropoli di Gambolò - Belcreda (Pavia), in «Rivista archeologica dell’antica provinci e diocesi di Como», 165, pp. 119254. Vannacci Lunazzi 1986 G. Vannacci Lunazzi, La necropoli romana di Ottobiano, in «suppl. III», 168, pp. 47-91. Ward Perkins 1978 B. Ward Perkins, Scavi della Torre Civica di Pavia. Monete, iscrizioni e altri oggetti, in «Archeologia Medievale», V, pp. 122-140. L’orto medievale fra botanica, storia e archeologia: un contributo all’interpretazione dei termini botanici medievali Mauro Rottoli Laboratorio di Archeobiologia dei Musei Civici di Como PREMESSA Il mestiere del paletnobotanico - o dell’archeobotanico, per usare un termine di più immediata comprensione - è articolato su diversi livelli di ricerca. La prima fase del lavoro è costituita dall’individuazione dei resti vegetali (legni, legni carbonizzati, semi, frutti etc.1), presenti nel terreno di uno scavo archeologico, al fine di elaborare la migliore strategia di campionatura. In laboratorio si provvede a operare delle eventuali sottocampionature e a preparare adeguatamente i campioni raccolti per le analisi. Successivamente si opera la determinazione dei resti raccolti, cioè si attribuisce a ogni frammento la specie botanica di appartenenza. Le fasi successive comportano: -l’elaborazione statistica dei dati (presenze, percentuali, distribuzione, tafonomia etc.); -un’analisi «ambientale» (botanico, floristica, vegetazionale, fitogeografica etc.); -un’analisi «economica» (specie coltivate, raccolte, produzione agricola, consumo etc.) -un’analisi storico-archeologica (aspetti tecnologici, organizzativi, commerciali, sociali etc.). Come ogni scienza relativamente nuova e in rapida evoluzione, la paletnobotanica utilizza strumenti e analisi derivati da altre scienze affini (in particolare botanica sistematica e fitogeografia), che plasma e modifica secondo le proprie necessità. E trattandosi di una scienza strettamente connessa ad altri campi di ricerca (in primo luogo l’archeologia), presenta ampie fasce di interazione e sovrapposizione con altre discipline di ambito letterario e scientifico. In sostanza al paletnobotanico si richiede di avere non soltanto competenze botaniche in senso lato, ma anche competenze quanto mai varie che possano spaziare dall’agronomia 128 Rottoli alla storia dell’agricoltura, dalla tecnologia alla storia della tecnologia, dalla storia dell’alimentazione alla storia della medicina etc., insomma competenze botaniche, storiche ed etnologiche. Una indagine paletnobotanica che si fermi al puro elenco delle specie presenti, e a una generica descrizione ambientale da esse ricavata, non permette infatti all’archeologo di trarre indicazioni utili all’interpretazione di un sito archeologico, né all’archeobotanico di aggiungere conoscenze alla storia della vegetazione e dell’uso delle piante. Di fronte a un compito così vasto, che presuppone una conoscenza non proprio superficiale di materie assolutamente disparate e complesse, il paletnobotanico - oltre a vagheggiare un corso di studi finalizzato allo scopo, che almeno concentri gli sforzi sulle discipline più utili - desidera trovare degli interlocutori, esperti nei diversi campi, che parlino con lui un linguaggio comprensibile, comune perlomeno sotto l’aspetto botanico. Ma questo desiderio si scontra (sicuramente in Italia, ma forse anche all’estero) con l’enorme difficoltà di trovare strade comuni fra campi scientifici e letterari, e con una sostanziale impossibilità di progettare delle ricerche in collaborazione o di operare in équipes multidisciplinari. In pratica sono limitatissime le occasioni di incontro e scambio di idee fra settori diversi (congressi o convegni multidisciplinari) e nelle poche occasioni di questo tipo si rileva spesso la mancanza di un linguaggio comune. L’analisi di un problema specifico - l’interpretazione dei termini del Capitulare de Villis in rapporto alle conoscenze paletnobotaniche - vuole essere da stimolo per una maggiore interazione tra campo storico e archeologico/archeobotanico, richiamando l’attenzione sulla necessità di una maggiore collaborazione fra addetti alle varie discipline, nel rispetto delle specifiche competenze, e sulla necessità di stabilire un linguaggio comune ma preciso, come può esserlo la nomenclatura binomia2. INTRODUZIONE Agli storici italiani che si occupano di produzione agraria e alimentazione vegetale in età medievale un tema sembra particolarmente caro: l’orto e l’orticoltura medievale. Esistono numerosi elementi di carattere storico e archivistico che giustificano tale interesse. Come in diversi scritti è stato sottolineato, l’orticoltura rappresenta una delle principali risorse dell’altomedioevo, tanto per il ricco che per il povero, in una prospettiva economica improntata all’autoconsumo e strettamente collegata alla ruralizzazione dell’ambiente urbano (Montanari 1979). La produzione degli «orti», pur rimanendo un caposaldo dell’organizzazione produttiva, tenderà poi ad avere una sempre minore influenza in ambito bassomediovale, quando cause diverse, fra cui una maggiore urbanizzazione e una ripresa delle colture cerealicole (con una probabile maggiore produttività delle stesse), porterà a una contrazione dello spettro delle risorse alimentari e a una sostanziale maggiore fragilità del sistema produttivo (Montanari 1979). Tale ipotesi, in questa sede molto riassunta e semplificata, ha stimolato una ricerca puntuale della documentazione altomedievale che tratti delle piante orticole, della loro L’orto medievale fra botanica, storia e archeologia 129 diffusione e delle modalità di coltura e tassazione. E fra i documenti più spesso «saccheggiati» a tal fine, uno in particolare ha attirato l’attenzione, per la specificità e ricchezza di dati. Si tratta del Capitulare de Villis (795), un’opera particolarmente importante, curata da Carlomagno, che si occupa dell’amministrazione dei suoi domini in ogni dettaglio e, fra l’altro, specificamente delle piante e della coltivazione. Nel testo del Capitulare, in un apposito capitolo3, è compreso un lungo elenco di piante «orticole» di cui viene fortemente consigliata la coltivazione4. Più volte è stato rimarcato quanto questo elenco sia solo in parte realistico, talvolta sottolineando l’aspetto «regale» (non era da tutti disporre di un orto sufficientemente ampio e organizzato da produrre più di 70 specie coltivate), talvolta invece entrando nel merito delle stesse piante elencate, che sarebbero più che altro mutuate dalla tradizione classica, senza una vera corrispondenza con la realtà. Verificare il peso di queste limitazioni non è problema da poco e davvero significativo dal punto di vista storico. Ciò che più stupisce è come molti storici, anche di indubbio valore, abbiano affrontato il problema avvalendosi di una interpretazione approssimativa, non esente da grossolani errori, dei nomi assegnati alle piante nel Capitulare. Non si tratta ovviamente di errori di tipo linguistico-glottologico, sui quali per altro non ho nessuna competenza, ma di gravi incongruenze storiche (vengono spesso incluse specie di origine americana) o di più lievi errori relativi all’ipotetico utilizzo di determinate specie vegetali. Ulteriore confusione, facilmente ingigantita dalle traduzioni, deriva dalla scelta di molti Autori di elencare le piante con termini vernacoli (italiani, francesi etc.), magari regionali o in disuso, non corredati dal corrispondente termine botanico sistematico. La presenza di questo termine latino (nomenclatura binomia), composto dal nome generico, da quello specifico e dalla sigla dell’autore che ha per primo descritto la specie, costituisce l’unico sistema per definire in maniera inequivocabile una specie. Anche se tacciati di pedanteria e presunzione ne raccomandiamo vivamente l’uso a tutti gli storici che si occupino di botanica o agronomia e ne rammentiamo l’importanza agli stessi botanici. MATERIALI E METODI I termini latini medievali elencati nel Capitulare sono stati ricavati dall’edizione del 1883 curata da Alfred Boretius5 e confrontati con quelli riportati da Montanari 1979. I nomi vernacoli utilizzati in ambiente storico sono quelli riportati dallo stesso Montanari e ripresi pressoché identici da Andreolli 1990. L’interpretazione fornita da Montanari si avvale di vari testi storici e botanici6, altra interpretazione (con nomi volgari) da me conosciuta è quella fornita da Grand e Delatouche nel loro poderoso lavoro sull’agricoltura medievale, di cui mi è stato possibile consultare la sola edizione italiana (del 1968). Per quanto riguarda l’interpretazione qui fornita, si sono confrontate le ipotesi di Montanari con vari testi sia di carattere storico-botanico che di tipo linguistico-botanico. Si è tenuto in particolar conto: la già citata edizione del 1883, eccezionalmente precisa nel riportare le piante del Capitulare con il corrispondente termine botanico in nomenclatura 130 Rottoli binomia7; Fischer 1967, assai accurato sotto l’aspetto della nomenclatura, e Penzig 1924, ampiamente utilizzato dallo stesso Fischer. Ulteriori controlli sono stati effettuati dal punto di vista strettamente botanico, alimentare, medicinale ed etnografico, utilizzando secondo l’occasione Pignatti 1982, Tutin et al. 1981 (per la sistematica), Dalla Fior 1981 (per varie notazioni botaniche ed etnologiche), Körber-Grohne 1988 (storia e botanica), Tamaro 1924 (per l’orticoltura), Negri 1979 e Maugini 1977 (per la botanica farmaceutica), Corsi e Pagni 1979 (per gli usi alimentari), Salice 1979 (per la tintura) e l’Artusi nell’edizione curata da Piero Camporesi (1970, per l’alimentazione), solo per citare i testi più importanti o più curiosi. La nomenclatura botanica adottata segue Pignatti 1982 anche per i corrispondenti termini italiani (con qualche modifica da Dalla Fior 1981). Altri controlli indiretti derivano dalla bibliografia paletnobotanica, sia italiana che straniera, e in particolare dai lavori su siti altomedievali/medievali svolti presso il Laboratorio di Archeobiologia dei Musei Civici di Como. Ricordiamo fra questi le ricerche sui siti di Monte Barro (Castelletti e Castiglioni 1991) e i lavori inediti su Ferrara-Porta Reno, Trento-Teatro Sociale, Trento-Piazza Duomo, Nago (TN) (Rottoli inediti). Tra i lavori italiani editi, fondamentale il riferimento a Bandini Mazzanti et al. 1992, sempre su Ferrara medievale. NUOVE E VECCHIE INTERPRETAZIONI Non è sempre chiara la logica della sequenza di piante elencate nel Capitulare. Il termine herbas utilizzato come indicazione iniziale sta, secondo le interpretazione storiche, per «ortaggi» in senso lato. Sarebbero quindi comprese sia piante alimentari che d’uso diverso, medicinale o tintorio. La mancanza di una logica stringente pone alcuni problemi interpretativi, di cui si farà cenno più oltre. Per semplicità di esposizione, e per tentare d’essere meno stucchevoli, nel testo si sono accomunate altrettanto variamente le specie, accorpandole a seconda dei problemi di interpretazione. La tabella di corrispondenza (nomi del Capitulare, termine botanico, nome volgare in uso, nome volgare consigliato) è invece in ordine alfabetico secondo il termine del Capitulare. Termini di immediata comprensione Esiste un buon numero di termini che non pone grossi problemi di interpretazione. È il caso di ameum, anesum, anetum, apium, beta, carvita, coriandrum, dragantea, eruca alba, fenicolum, lactuca, levisticum, papaver, parduna, pastenaca, petresilinum, ros marinus, ruta, salvia, satureia. Si tratta di piante perlopiù della famiglia delle Umbelliferae (=Apiaceae), caratterizzate dal presentare parti della pianta con un forte aroma e utilizzate come condimento, o di altre piante alimentari, generalmente radici e insalate da mangiarsi cotte o crude, che hanno mantenuto identiche denominazioni italiane. I termini latini medievali sono quindi di immediata comprensione. Piante di uso comune anche oggi come l’aneto (Anethum graveolens L.), il sedano comune (Apium graveolens L.), il finocchio (Foeniculum vulgare Miller), il coriandolo (Coriandrum sativum L.), il levistico8 (Levisticum officinale Koch), il prezzemolo (Petroselinum sativum Hoffm.), la carota (Daucus carota L.) sono delle Umbelliferae. Ci sono poi la bietola comune (o barbabietola o rapa rossa, Beta vulgaris L.), il dragoncello (Artemisia dracunculus L.), la rucola comune (o ruchetta, Eruca sativa Miller), la lattuga (Lactuca sativa L.), il papavero da oppio (Papaver somniferum L.), il rosmarino (Rosmarinus officinalis L.), la ruta e la salvia domestica (Ruta graveolens L inclusa R. hortensis Miller e Salvia officinalis L.). Pure d’immediata traduzione il termine fenigrecum, fieno greco (Trigonella foenum-grecum L.). La sua presenza fra le piante orticole - oggi è utilizzata solo per il fieno - trova giustificazione nell’uso, documentato ancora recentemente, per l’alimentazione (aromatizzazione del pane) e la medicina9. Meno comuni o ormai L’orto medievale fra botanica, storia e archeologia 131 abbandonate, o d’uso regionale meno generalizzato, sono invece la visnaga maggiore (Ammi majus L., oppure Ammi visnaga (L.) Lam), pianta entrata nell’alimentazione in età medievale10 ma difficilmente coltivabile, l’anice vero (Pimpinella anisum L.), pianta aromatica presente solo nella forma coltivata in Italia, la bardana o lappa (Arctium lappa L.), la pastinaca11 (Pastinaca sativa L.), la santoreggia (Satureja hortensis L.). Anche il termine rosa non ha bisogno di traduzione, sebbene sia difficile chiarire la specie e impossibile la varietà (Rosa canina L. sensu Bouleng., e Rosa spp.12). Per radix gli autori consultati sono tutti concordi nell’identificare il termine con ravanello (o rafano, Raphanus sativus L.). Adripia corrisponderebbe invece al bietolone rosso o atriplice degli orti (Atriplex hortensis L.), un tempo coltivato come spinacio. Poche difficoltà derivano dai termini cicer italicum e pisus mauriscus. Nel primo caso per una possibile, ma improbabile, confusione fra il cece (Cicer arietinum L.) e altri legumi meno diffusi (cicerchia, Lathyrus sativus L., o analoghi). Nel secondo caso per un problema più squisitamente botanico di distinzione fra specie, sottospecie e varietà coltivate del pisello13 (Pisum sativum L. subsp. sativum, subsp. elatius e varietà arvense o sativum). Piante americane e non Della famiglia delle Cucurbitaceae, originari del Vecchio Mondo sono il cetriolo (Cucumis sativus L., India), il melone (Cucumis melo L., Africa o India), l’anguria (Citrullus lanatus (Thunb.) Mansfeld, Africa) e la zucca da vino Lagenaria ( siceraria (Molina) Standley, Indie orientali). La zucca (Cucurbita maxima L.) e lo zucchino (Cucurbita pepo L.) sono invece originari dell’America centrale ed è quindi esclusa la loro presenza nel Capitulare. I termini pepo, coloquentida, cucumis, cucurbita devono quindi essere riferiti rispettivamente al melone, all’anguria14, al cetriolo e alla zucca da vino. Utilizzando i termini volgari è da evitarsi l’uso di «coloquintide» al posto di anguria (o cocomero), perché si riferisce a Citrullus colocynthis (L.) Schrader, assente dall’Italia15 e d’uso solo medicinale. Il termine fasiolus, di tradizione classica, è stato a lungo interpretato come fagiolo16. In realtà, come già il Montanari 1979 sottolinea, non si tratta del fagiolo (Phaseolus vulgaris L.), che conosciamo attualmente e di cui mangiamo i semi nelle diverse varietà, ma del fagiolino (o cornetto o fagiolo dall’occhio, Vigna unguicolata (L.) Walpers) di origine africana o asiatica, del quale generalmente si mangia il bacello. Il fagiolo è infatti specie di origine americana, mentre il fagiolino fu sicuramente introdotto in età romana, sebbene non mi sia nota nessuna attestazione archeologica. Nella traduzione di Montanari 1979 e Andreolli 1990 compare «girasole» in corrispondenza del termine solsequia. Il girasole comune Helianthus annuus L., coltivato per il seme, è specie sudamericana, il termine latino deve quindi riferirsi a una altra specie. Fischer suggerisce la ninfea comune o quella gialla (Nymphaea alba L. o Nuphar luteum (L.) S. et S.), ma sembra più probabile l’ipotesi, trattandosi queste di specie d’acqua dolce complesse da coltivare, che si tratti di un’altra specie: il fiorrancio coltivato (Calendula officinalis L.) specie pure proposta dallo stesso Autore e spesso associata per la dimensione dei capolini al girasole comune - che possiede un ampio spettro di usi medicinali (Negri 1979). Altra possibilità, proposta da Boretius, è che si tratti invece della cicoria comune o radicchio (Cichorium intybus L.). La posizione nell’elenco (dopo coloquentida, prima di ameum) lontana dalle altre insalate e dallo stesso termine intuba, interpretabile allo stesso modo o come endivia (Cichorium endivia L.), non può essere utilizzata come elemento a sfavore ma nemmeno a favore di questa ipotesi17. Specie e varietà Sebbene il Capitulare utilizzi il termine faba major, i dati archeologici, abbondanti e concordi, inducono a pensare che l’espressione contraddistingua il favino (Vicia faba var. minor) anziché l’attuale fava (var. hortense) di maggiori dimensioni, che sembra sostituirla in tempi più recenti. Forse il termine major indica questa specie in rapporto ad altre di ancor minori dimensioni e meno frequentemente coltivate, come la veccia dolce (Vicia sativa L.) o l’ervo (Vicia ervilia (L.) Willd.); specie spesso rinvenute negli scavi archeologici, generalmente più comuni del cece, ma non comprese fra le piante «orticole»18 del Capitulare. L’orto medievale sembra essere particolarmente completo per la varietà di cipolle e agli, nominati con i termini alium, ascalonica, britla, cepa, porrus, unio. Tali ortaggi dovevano essere particolarmente diffusi e fondamentali nella dieta, anche per la possibilità di conservarli per un certo periodo. Sono specie tutte appartenenti al genere Allium, interpretabili rispettivamente come aglio comune (Allium sativum L.), scalogno (Allium ascalonicum Hort., cultivar derivato da Allium cepa L.), erba cipollina (Allium schoenoprasum L.), cipolla Artemisia absinthium L. (A. abrotanum/pontica) Atriplex hortensis L. Allium sativum L. Ammi majus L. (Ammi visnaga (L.) Lam.) Pimpinella anisum L. Anethum graveolens L. Apium graveolens L. Allium cepa L. cultivar ascalonicum Hort. Beta vulgaris L. Amaranthus lividus L. (Chenopodium spp.) Allium schoenoprasum L. Dipsacus sativus (L.) Honckeny Carum carvi L. Daucus carota L. Brassica oleracea L. Allium cepa L. Anthriscus cerefolium, Chaerophyllum bulbosum Cicer arietinum L. (Lathyrus sativus L.) Cuminum cyminum L. Citrullus lanatus (Thunb.) Mansfeld Coriandrum sativum L. Balsamita major Desf. Cucumis sativus L. Lagenaria siceraria (Molina) Standley Dictamus, Origanum, Polygonatum Artemisia dracunculus L. Eruca sativa Miller Vicia faba var. minor (var. hortense) Vigna unguicolata (L.) Walpers Centaurium, Adenostyles, Tanacetum Foeniculum vulgare Miller Trigonella foenum-grecum L. Nigella sativa L. Iris florentina L. (Iris spp.) Cichorium intybus L, Cichorium endivia L. Euphorbia lathyris L. Lactuca sativa L. Levisticum officinale Koch Lilium candidum L. Malva verticillata L. (Malva sylvestris L.,Althaea) Mentha X piperita L. (Mentha spp.) Mentha suaveolens Ehrh. (Mentha spp.) Althaea officinalis L. Lepidium sativum L., Nasturtium officinale R.Br. Nepeta, Calamintha, Melissa Smyrnium olusatrum L (Ranunculus spp.) Papaver somniferum L. Arctium lappa L. Pastinaca sativa L. Cucumis melo L. Petroselinum sativum Hoffm. Pisum sativum L. (subsp. sativum, elatius) Allium ampeloprasum L. var. porrum Mentha pulegium L. (Mentha spp.) Raphanus sativus L. Brassica oleracea gongyloides (Brassica spp.) Rosmarinus officinalis L. Rosa canina L. (Rosa spp.) Ruta graveolens L. incl. R.hortensis Miller Salvia officinalis L. Satureja hortensis L. Juniperus communis L., Juniperus savina L. Salvia sclareia L. (Salvia spp.) Sium sisarum L., Ocimum basilicum L. Sinapis alba L., Brassica nigra (L.) Koch Sisymbrium officinale (L.) Scop. (Mentha spp.) Calendula officinalis L. (Cichorium intybus L.) Urginea maritima (L.) Baker Tanacetum parthenium (L.) Sch.-Bip. Allium fistulosum L.? Asarum europaeum L. (Cyclamen) Rubia tinctorum L. abrotanum adripia alium ameum anesum anetum apium ascalonica beta blida britla cardo careium carvita caulus cepa cerfolium cicer italicum ciminum coloquentida coriandrum costum cucumis cucurbita diptamnum dragantea eruca alba faba major fasiolus febrefugia fenicolum fenigrecum git gladiolum intuba lacterida lactuca levisticum lilium malva menta mentastrum mismalva nasturtium nepta olisatum papaver parduna pastenaca pepo petresilinum pisus mauriscus porrus puledium radix ravacaulus ros marinus rosa ruta salvia satureia savina sclareia silum sinape sisimbrium solsequia squilla tanazita unio vulgigina warentia lattuga levistico giglio malva menta mentastro altea nasturzio nepeta o erba gatta macerone papavero bardana pastinaca melone prezzemolo pisello porro mentuccia o puleggio ravanello o rapanello cavolo-rapa rosmarino rosa ruta salvia santoreggia sabina sclarea seseli senape menta acquatica girasole scilla tanaceto cipolletta asaro robbia abrotano bietolone aglio bisnaga o visnaga anice aneto sedano scalogno bietola blito capitato cipollina cardone o cardo dei lanaiuoli carvi carota cavolo cipolla cerfoglio cece cumino coloquintide coriandolo costo cocomero o cetriolo zucca o lagenaria dittamo dragoncello ruchetta fava fagiolo/fagiolo dell’occhio centaurea minore finocchio fieno greco/ trigonella nigella giaggiolo indivia catapuzia Nome volgare in uso (Montanari 1979, Andreolli 1990) lattuga levistico giglio di S. Antonio malva crespa (o malva selvatica etc.) menta mentastro, menta a foglie tonde altea comune, bismalva lepidio ortense o crescione d’acqua gattaia, mentuccia, melissa corinoli comune, macerone (ranuncoli) papavero da oppio bardana, lappa pastinaca melone prezzemolo pisello (coltivato, selvatico etc.) porro menta poleggio ravanello, rafano cavolo-rapa o rapa, colza o navone rosmarino rosa ruta salvia domestica santoreggia ginepro comune o ginepro sabino salvia moscatella sedanina coltivata, sisaro o basilico senape bianca o senape nera erba cornacchia comune (mente) fiorrancio coltivato (endivia) scilla marittima, squilla erba-amara vera, matricale cipolla d’inverno? baccaro comune (ciclamino) robbia assenzio vero (abrotano o ass.pontico) bietolone rosso, atriplice degli orti aglio visnaga maggiore (visnaga comune) anice vero aneto sedano scalogno bietola, barbabietola, rapa rossa amaranto livido (o farinello capitato etc.) erba cipollina cardo dei lanaiuoli kümmel, cumino tedesco carota cavolo cipolla cerfoglio comune o cerfoglio bulboso cece (cicerchia etc.) cumino anguria coriandolo erba-amara balsamica cetriolo zucca da vino dittamo o origano di candia etc. dragoncello rucola comune , ruchetta favino (fava) fagiolino, cornetto, fagiolo dall’occhio centauro o cavolaccio o erba-amara finocchio fieno greco damigella aromatica giglio fiorentino (gigli) cicoria comune, radicchio o endivia catapuzia Nome volgare consigliato (Pignatti 1982, Dalla Fior 1981) Rottoli Tabella 1. Le piante del Capitulare de Villis (795) (per le interpretazioni dubbie cfr. il testo). Termine botanico corrispondente (in parentesi le ipotesi meno verosimili) Nome nel Capitulare (Montanari 1979) 132 L’orto medievale fra botanica, storia e archeologia 133 134 Rottoli (Allium cepa L.), porro (Allium porrum L. varietà coltivata di Allium ampeloprasum L.) e (forse) cipolla d’inverno (Allium fistulosum L.). Qualche perplessità suscita il termine abrotanum riconducibile presumibilmente o all’abrotano (Artemisia abrotanum L.) o all’assenzio pontico (Artemisia pontica L.), anticamente coltivati per usi medicinali e oggi quasi ovunque scomparsi, ma più probabilmente riferito all’assenzio vero (Artemisia absinthium L.) ancora ampiamente utilizzato per la preparazione di liquori. Allo stesso genere appartiene il dragoncello (A. dracunculus L.) di cui si è gà detto. Altri gruppi di nomi costituiscono problemi di interpretazione diversi. È il caso di menta, mentastrum e puledium, che in linea teorica potrebbero rifersi alla menta piperita (o piperina, Mentha X piperita L.), alla menta a foglie rotonde o mentastro (Mentha suaveolens Ehrh.) e alla menta poleggio (Mentha pulegium L.); ma rimangono dubbi sia sull’attribuzione del termine puledium - per il limitato e difficile uso medicinale essendo specie di una certa tossicità - sia per l’affinità d’uso delle varie specie di Mentha, genere dalla complessa sistematica, ulteriormente complicata dalla selezione antropica. Difficoltà aggiuntiva sembra emergere nell’interpretazione di sisimbrium, per il quale vi è sia l’attestazione più immediata, come erba cornacchia comune (Sisymbrium officinale (L.) Scop.), che la frequente confusione con altre specie o ibridi di Mentha. In maniera analoga è piuttosto difficile, come già accennato, dimostrare che il termine intuba sia riferito solo alla cicoria comune (o radicchio, o cicoria trevisana, Cichorium intybus L.) e non all’endivia o indivia19 (C. endivia L.). La lunga selezione antropica, e lo stesso polimorfismo delle specie implicate, costituisce pure una certa difficoltà nella comprensione dei termini caulus, ravacaulus e sinape. Verosimilmente caulus sarebbe riferito a cavolo (Brassica oleracea L.), anche se non è possibile specificare in quali varietà fosse coltivato in età altomedievale20; il termine sinape può invece essere riferito tanto alla senape bianca che a quella nera (Sinapis alba L., Brassica nigra (L.) Koch), entrambe attualmente coltivate per la preparazione della senape21; mentre ravacaulus può essere ricollegato alla rapa (o colza, Brassica rapa L., incl. B. campestris L.), al navone (Brassica napus L.) o al cavolo-rapa, varietà di cavolo a foglie lisce (Brassica oleracea cultivar. gongyloides L.). Piante alimentari e non Nel Capitulare vengono elencate piante sicuramente non commestibili, ma utili ad altri scopi o semplicemente decorative. È il caso di lilium, il giglio di S. Antonio (Lilium candidum L.), gladiolum, il giglio fiorentino (Iris florentina L. o, meno probabilmente, Iris pallida Lam., Iris germanica L. e Iris pseudacorus L.), e la squilla, scilla marittima o squilla (Urginea maritima (L.) Baker). Sono specie utilizzate per scopi medicinali, ma che potevano essere coltivate unicamente a fini ornamentali (in particolare i gigli), considerando anche il forte significato simbolico di cui erano investiti22. Con il termine warentia si intende invece designare la robbia (Rubia tinctorum L.), specie fondamentale nella tintoria antica per produrre varie colorazioni dal rosso all’aranciato. Nell’elenco del Capitulare precede il termine cardum e ciò induce a pensare che anche questo equivalga a una pianta d’uso «industriale», come il cardo dei lanaiuoli (Dipsacus sativus (L.) Honckeny), scartando i cardi d’uso alimentare (Cynara cardunculus L., cardo e carciofo) diffusi soprattutto in area mediterranea. Difficile pensare che al termine git corrispondano, anche se ben attestate nei testi antichi, due specie infestanti come la zizzania (Lolium temulentum L.) e il gittaione (Agrostemma githago L.), che crescendo spontaneamente nei campi sarebbe stato assurdo coltivare nell’orto, preferibile quindi l’ipotesi che si tratti della damigella aromatica (Nigella sativa L.), coltivata per i semi aromatici e d’uso medicinale23. Il termine tanazita corrisponderebbe all’erba-amara vera (o matricale o amareggiola Tanacetum parthenium (L.) Sch.-Bip.), mentre costum equivarrebbe all’affine erba-amara balsamica (detta anche erba di S. Pietro, Balsamita major Desf.). La prima utilizzata solo a scopo medicinale, la seconda per condimento. Altre incertezze Mancano all’appello ancora una serie di termini non sempre risolvibili con un’interpretazione univoca. Sono blida, careium, cerfolium, ciminum, febrefugia, lacterida, malva e mismalva (o misvalva), nasturtium, nepta, olisatum, savina, sclareia, silum, e vulgigina. L’interpretazione più sicura è per careium e ciminum, rispettivamente kümmel o cumino tedesco (Carum carvi L.) e cumino (Cuminum cyminum L.), usati a scopo medicinale, come condimento e per i liquori. Misvalva sembra corrispondere unicamente ad altea comune o bismalva (Althaea officinalis L.), malva è utilizzato nei L’orto medievale fra botanica, storia e archeologia 135 testi medievali oltreché per la malva crespa (Malva verticillata L.), per la malva selvatica (Malva sylvestris L.) e per la stessa bismalva, ma la prima identificazione appare la più probabile. Per blidas si può ritenere quasi certa l’identificazione con l’amaranto livido (Amaranthus lividus L.), una sorta di spinacio, anche se è possibile la confusione con il farinello foglioso (Chenopodium foliosum Asch.) e il farinello capitato (Chenopodium capitatum (L.) Asch.), tutte specie anticamente coltivate per le foglie eduli. Incertezze per cerfolium, cerfoglio comune o cerfoglio bulboso (Anthriscus cerefolium (L.) Hoffm. o Chaerophyllum bulbosum L.), usati come insalata o in sostituzione del prezzemolo, oppure d’uso medicinale; diptamnum, dittamo o origano di candia o sigillo di Salomone (Dictamus albus L., Origanum dictamus L.o Polygonatum odoratum (Miller) Druce), piante aromatiche e medicinali; febrefugia, centauro maggiore, cavolaccio (Centaurium erythraea Rafn, Adenostyles alliariae (Gouan) Kerner, o ancora Tanacetum parthenium (L.) Sch.Bip.); nasturtium, lepidio ortense o crescione d’acqua24 (Lepidium sativum L. o Nasturtium officinale R. Br.); nepta, gattaia comune o mentuccia comune25 o addirittura melissa vera26 (Nepeta cataria L., o Calamintha nepeta (L). Savi, o Melissa officinalis L.); olisatum, corinoli comune-macerone (Smyrnium olusatrum L., o una specie di ranuncolo, Ranunculus sp.); savina, ginepro comune o ginepro sabino (Juniperus communis L. o Juniperus savina L.); silum, sedanina coltivata-sisaro o basilico (Sium sisarum L. o Ocimum basilicum L.). Di volta in volta piante aromatiche, insalate, radici commestibili o usate per vari scopi medicinali. Più certa invece la traduzione di lacterida per catapuzia (Euphorbia lathyris L.), emetico; sclareia per salvia moscatella27 (Salvia sclareia L., o altri tipi di Salvia), vulgigina per baccaro comune o (più difficilmente) ciclamino (Asarum europaeum L. o Cyclamen purpurascens Miller). LA DOCUMENTAZIONE ARCHEOLOGICA Le analisi archeobotaniche su resti vegetali di età medievale in Italia sono particolarmente limitate. Il problema non sta soltanto nel numero ridotto di analisi disponibili, ma della parzialità di esse, trattandosi generalmente di piccole campionature di contesti particolari o affatto casuali. Mancano in sostanza progetti ad ampio respiro con analisi su contesti diversificati nell’ambito di uno stesso insediamento, salvo pochissime eccezioni (valgano per esse le indagini a Monte Barro e a Brescia Santa Giulia) ancora in corso di studio. La situazione fuori d’Italia è da questo punto di vista migliore: per la presenza di un maggior numero di progetti pluriennali e per una tradizione paletnobotanica più radicata. Per trovare riscontri archeologici ai dati del Capitulare è quindi necessario tener conto dei dati centroeuropei, in qualche modo anche più pertinenti per motivi storici e ambientali. Ma un altro parametro va considerato: l’effettiva possibilità di rinvenire (e riconoscere) in contesti archeologici le specie elencate. Senza entrare nel dettaglio, i principali aspetti che devono essere valutati sono: - la presenza di fusti legnosi che possano conservarsi perché immersi nell’acqua o perché mineralizzati o perché non completamente combusti; - la produzione di semi/frutti/nòccioli che per qualche motivo si vengano ad accumulare e possano conservarsi con le stesse modalità dei legni. Trattandosi di specie per lo più erbacee il primo caso potrà verificarsi per ben poche di esse (in sostanza rosa e ginepro), quindi saranno i reperti carpologici quelli da ricercare e di essi sarà più facile rinvenire quelli più grandi (perché più facili da osservare sullo scavo), quelli facilmente determinabili (per motivi d’ordine tassonomico e di conservazione), quelli con tessuti lignificati (perché maggiormente conservabili), quelli che venivano conservati/accumulati perché utilizzati come condimento o per scopi medicinali, quelli che potevano essere combusti accidentalmente (perché cucinati) etc. In sostanza 136 Rottoli alcune specie avranno buone possibilità di essere rinvenute (ad es. i legumi combusti e i semi/frutti utilizzati come condimenti più diffusi), altre molto meno (semi prodotti in scarso numero e/o utilizzati solo come semente senza un uso specifico). Da un esame superficiale della bibliografia europea è possibile stimare che la documentazione delle specie del Capitulare sia pressoché completa, ma si osserva contemporaneamente che ben difficilmente si supera l’attestazione di 20-30 specie del Capitulare nello stesso sito28. Assai incompleta è invece la documentazione italiana, ma ciò solo in conseguenza dell’incompletezza delle analisi. Nella Ferrara bassomedievale sono ad esempio attestati la salvia, la carota, il finocchio e il prezzemolo (Bandini Mazzanti et Al. 1992). Nella Ferrara più antica, il papavero, probabilmente la santoreggia, forse la robbia29. Il pisello è spesso presente anche se in numero esiguo, il cece più eccezionalmente (Castiglioni e Rottoli, dati inediti). A Nago (in Trentino, Rottoli, inedito) sono presenti Beta vulgaris L., Rosa sp., Coriandrum sativum L., Dipsacus cfr. sativus (L.) Honckeny, Melissa officinalis L. e forse la Nepeta cataria L. Un cenno merita la pastinaca, specie alimentare di grande importanza nel nord-europa, segnalata solo di recente in scavi dell’Emila (Marchesini com. personale). Melone e zucca da vino sono spesso attestati negli scavi medievali (ad es. a Ferrara, Rottoli, inedito; e a Nago, Trento e a Trento-città, Rottoli, inedito), oltre a essere frequenti nei siti d’età romana in Italia e all’estero. Non mi sono note per l’Italia attestazione del cetriolo, l’anguria è invece segnalata a Modena, ma solo in età romana (Bandini Mazzanti e Taroni 1988). Problemi strettamente tafonomici rendono molto limitata la documentazione di cipolle e specie simili, l’unica attestazione da me conosciuta per l’Italia è relativa a Luni (VII d.C.) per Allium sativum L. (Castelletti 1977). Impossibile, anche solo per cenni, citare i ritrovamenti d’oltralpe, per una rassegna complessiva si rimanda a Van Zeist et al. 1991. LIMITI E CONSEGUENZE L’analisi, anche se dettagliata, di un unico testo medievale non può ovviamente risolvere né l’aspetto puramente interpretativo della terminologia, né portare a considerazioni troppo generali, ma può suggerire alcuni elementi utili all’interpretazione paletnobotanica, oltre a fornire criteri più circostanziati alla critica testuale. Dal punto di vista paletnobotanico, il Capitulare de Villis sembra costituire un testo attendibile. Non esistono in sostanza discrepanze con la documentazione archeobotanica30, anche se questa è, particolarmente in Italia, ancora incompleta. Molte specie sono effettivamente documentate, altre lo sono in età precedente e non vi sono motivi per dubitare che la loro coltura non fosse continuata in età medievale, altre ancora non sono state rinvenute presumibilmente in rapporto a motivi di ordine tafonomico o di difficoltà diagnostica. Ciò ovviamente non comporta che l’elenco sia concreto, anche le stesse proprietà di Carlo Magno potevano non avere una scelta così articolata. È più probabile che si tratti di un elenco programmatico, da adeguarsi a seconda dei contesti ambientali e degli spazi L’orto medievale fra botanica, storia e archeologia 137 disponibili31. Va inoltre ricordato che altre entità tassonomiche potevano essere coltivate negli orti delle varie regioni dell’Impero: l’elenco non comprende tutte le specie documentate paletnobotanicamente passibili d’uso alimentare o medicinale. Come già in altre occasioni si è rilevato32, non è pensabile un confronto immediato fra documentazione archivistica e paletnobotanica. Sono metodologie troppo diverse, i dati sono pochi, puntiformi e particolarmente disomogenei. Si pensi, solo per fare qualche esempio, che il sorgo (detto anche melega o saggina, Sorghum bicolor (L.) Moench) è documentato archeologicamente solo in 4 siti (Ferrara altomedievale, Cherasco XII-XIII sec., Zignago XIII-XIV sec., Sarzana XI sec.33) che ovviamente non coincidono con le località della documentazione archivistica (Montanari 1979). Oppure che, nei siti altomedievali trentini finora indagati, compare sempre accanto al lino, e generalmente in maggior quantità, la canapa, che viene ritenuta, sulla base dei dati archivistici, coltura poco diffusa nel nord Italia. Ma a parte queste normali incongruenze rimane il problema di capire se l’elenco del Capitulare, e gli altri elenchi rimastici, comprendano o meno le piante più comunemente coltivate e utilizzate. Una risposta allo stato attuale delle ricerche non è possibile, sia dal punto di vista storico che da quello archeobotanico, anche se francamente sembra improbabile la coltivazione di un numero così ampio di specie aromatiche e medicinali negli orti comuni, in gran parte sostituibili da analoghe specie selvatiche. La prova deve comunque scaturire dall’analisi di materiale archeologico e da una valutazione delle problematiche tafonomiche. Solo un aumento del numero di siti indagati porterà a ottenere una rete di dati più fitta, utilizzabile anche per una migliore taratura dei dati storico-archivistici. NOTE 1 Il termine paletnobotanico è in ambito europeo spesso utilizzato solo per gli studiosi di resti di frutti, semi e cariossidi (cioè i chicchi di cereali); in Italia il significato è esteso a chiunque analizzi materiali macroscopici vegetali (quindi anche legni e carboni) di origine (almeno parzialmente) archeologica, generalmente con l’esclusione dei soli studiosi di pollini (palinologi). 2 Per nomenclatura binomia si intende la nomenclatura introdotta da C. Linneo (1753) con la quale ogni specie viene designata con due nomi latini (o latinizzati). Il primo (un sostantivo con l’iniziale maiuscola) è il nome del genere al quale la specie appartiene; il secondo (un sostantivo o più spesso un aggettivo, da scriversi con l’iniziale minuscola) è l’appellativo specifico. Per non ingenerare confusione il binomio è seguito dal nome dell’autore (generalmente abbreviato, ad es. L. sta per Linneo) che per primo ha pubblicato la descrizione della specie (principio di priorità) oppure che ne abbia operata una descrizione più scientificamente corretta. 3 Il capitolo 70. 4 Il testo recita «vogliamo che nell’orto ci siano tutte le erbe» (Volumus quod in horto omnes herbas habeant: id est ...). 5 Ringrazio il Dr. Paolo Galimberti che mi ha fornito il testo di tale edizione. 6 Si confronti la nota 145, p. 352 in Montanari 1979. 7 Le interpretazioni suggerite in questo testo vengono ascritte a tali Kindlinger, Anton e Meyer non altrimenti noti. I binomi risultano qua e là obsoleti ma sempre traducibili in binomi d’uso attuale. 138 Rottoli L’orto medievale fra botanica, storia e archeologia 139 8 Secondo Pignatti 1982, una volta utilizzato come medicinale, è attualmente (foglie e fiori) un aromatizzante che entra nella preparazione dei dadi per brodo. BIBLIOGRAFIA 9 Andreolli 1990 B. Andreolli, Il ruolo dell’orticoltura e della frutticoltura nelle campagne dell’alto Medioevo, in L’ambiente vegetale nell’Alto Medioevo, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, pp. 175-211. Artusi 1970 P. Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, a cura di P. Camporesi, Torino, Einaudi editore. Bandini Mazzanti et al. 1992 M. Bandini Mazzanti, C.A. Accorsi, L. Forlani, M. Marchesini, P. Torri, Semi e frutti dalla Ferrara basso medioevale, in a cura di S. Gelichi, Ferrara prima e dopo il Castello, Spazio Libri Editori, pp. 118-137. Bandini Mazzanti, Taroni 1988 M. Bandini Mazzanti, I. 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Negri, Nuovo erbario figurato, Milano, Hoepli. Penzig 1924 O. Penzig, Flora popolare italiana, Genova Pignatti 1982 S. Pignatti, Flora d’Italia, Edagricole. Dalla Fior 1981, per allontanare gli insetti. 10 Fischer 1967 prende in considerazione solo Ammi majus L. 11 Affine alla carota e spesso confusa con essa. 12 Spp. sta per specie plurime; Boretius suggerisce Rosa centifolia L. forma a fiori pieni penduli derivata da R. gallica L., la rosa serpeggiante con fiori rosei o rosei-porporini. 13 Nel testo di Boretius viene proposta anche Vicia narbonensis L., veccia selvatica, specie affine alla veccia dolce Vicia sativa L.), ma tale interpretazione è a mio parere da rigettare. 14 Boretius propone dubitativamente per coloquentida la specie Ecballium (=Momordica) elaterium (L.) A. Rich., il cocomero asino, ma anche questa interpretazione sembra poco probabile. 15 Una segnalazione dubbia a Pantelleria (Pignatti 1982). 16 Così ad esempio Boretius. 17 Boretius propone anche Heliotropium sp., verosimilmente Heliotropium europaeum L., eliotropio selvatico o erba porraia. 18 Sulla presenza anche nell’orto di piante spesso coltivate in campo (in particolar modo la fava) si veda lo stesso Montanari 1979 p. 153 e ss. 19 altri nomi volgari sono scarola, ascarola, serriola; per l’interpretazione di solsequia con Cichorium intybus L. si confronti il paragrafo precedente. 20 Questa specie comprende le varietà come la verza, il cavolo cappuccio, il cavolo-rapa, il cavolo di Bruxelles, il cavolfiore e il broccolo. Di alcune di queste è più o meno conosciuta l’epoca in cui è stata fissato il tipo: i cavoli-cappuccio sarebbero conosciuti da Santa Hildegarda (XII sec.), mentre il cavolfiore è nominato da Tabernemontanus (1588). 21 Nella preparazione della senape viene utilizzato anche il dragoncello. 22 Il giglio di S. Antonio come simbolo di purezza e il giglio fiorentino come simbolo araldico in Italia e Francia. 23 Secondo il Negri 1979 avrebbe proprietà carminative, diuretiche e aumenterebbe la portata lattea. 24 Il primo è detto anche nasturzio ortense o crescione inglese e sembra più probabile, perché Nasturtium officinale R. Br. vive lungo i corsi d’acqua. 25 Detta anche nepetella o poleggio (!) selvatico. 26 Detta anche citronella, cedronella ed erba limona. 27 Detta anche sclarea, scanderona, chiarella. 28 Ciò accade anche in lavori approfonditi e con analisi ampie come Knörzer 1984, su vari contesti (latrine) da Neuss e località prossime. 29 30 31 32 Purtroppo si tratta di relazioni ancora inedite sui siti altomedievali studiati (cfr. sopra). 33 Per una disamina del problema si veda Castelletti 1975 e Rottoli inedito. Salice 1979 M.E. Salice, La tintura naturale, Milano, Sonzogno. Tamaro 1924 D. Tamaro, Orticultura, Milano, Hoepli. n. 15 (1996), pp. 141-152. 140 Tutin et al. 1981 Tutin et al., Flora Europaea, Cambridge, University Press (Reprinted). Van Zeist et al. 1991 W. Van Zeist, K. Wasylikowa e K.-E. Behre, Progress in Old World Palaeoethnobotany. Rotterdam, Balkema. Ricerca di superficie e tutela: per un censimento degli scavi clandestini nel Lazio settentrionale* Andrea Zifferero Gruppo Archeologico Romano Il fenomeno degli scavi clandestini, manifestatosi in Italia in forme di qualche rilievo a partire dall’ultimo dopoguerra, ha acquisito contorni sempre più definiti e dimensioni tali, da suscitare legittime preoccupazioni negli organi dello Stato preposti all’amministrazione e alla tutela del patrimonio archeologico. Nell’ambito del Lazio settentrionale, la presenza e l’attività degli scavatori di frodo è capillare, risultando effettivamente specializzata nelle antichità etrusche: recentissimi episodi di acquisti di reperti, promossi da alcuni musei stranieri, hanno determinato una ferma presa di posizione da parte di studiosi italiani (cfr., ad esempio, Cristofani 1989). Non si intende dedicare queste pagine alla ricerca delle cause del fenomeno, lavoro che comporterebbe indagini di natura sociologica sulla figura dello scavatore clandestino e psicologica su quella del collezionista: ci si limiterà a documentare l’evidenza registrata sul terreno, lasciando implicazioni ed eventuali riflessioni alla sensibilità del lettore. I dati sono stati raccolti in concomitanza con le ricognizioni, condotte in un clima di aperta collaborazione tra la Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale (da qui in poi SAEM) e il GAR, in un’area campione compresa tra le province di Roma e Viterbo (Per le caratteristiche del progetto e l’esposizione dei risultati salienti si rimanda a Coccia et al. 1985; Gazzetti et al. 1990; Gazzetti, Zifferero 1990; in particolare per il periodo etrusco, si faccia riferimento a Zifferero 1988; Naso et al. 1989; Zifferero 1990). La ricerca sul campo si è svolta sotto la guida di archeologi, aderenti al GAR: a essa hanno preso parte, a più riprese, volontari dei Gruppi Archeologici d’Italia1. * Questo lavoro è dedicato all’amico Luigi Gobbi, assistente di zona della SAEM fino al 1977: la sua attività intelligente e entusiasta ha procurato una solida base per il recupero e la tutela delle antichità allumierasche, tolfetane e canalesi.