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126
Tizzoni 1984
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tra Ticino e Sesia, in «Notizie dal chiostro del Monastero Maggiore», XXIII-XXXIV, Milano.
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G. Vannacci Lunazzi, Una tomba gallica a Garlasco-Madonna
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Vannacci Lunazzi 1983
G. Vannacci Lunazzi, Un aspetto della romanizzazione del territorio: la necropoli di Gambolò - Belcreda (Pavia), in «Rivista archeologica dell’antica provinci e diocesi di Como», 165, pp. 119254.
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B. Ward Perkins, Scavi della Torre Civica di Pavia. Monete, iscrizioni e altri oggetti, in «Archeologia Medievale», V, pp. 122-140.
L’orto medievale fra botanica,
storia e archeologia:
un contributo all’interpretazione
dei termini botanici medievali
Mauro Rottoli
Laboratorio di Archeobiologia dei Musei Civici di Como
PREMESSA
Il mestiere del paletnobotanico - o dell’archeobotanico, per usare un termine di più
immediata comprensione - è articolato su diversi livelli di ricerca. La prima fase del
lavoro è costituita dall’individuazione dei resti vegetali (legni, legni carbonizzati, semi,
frutti etc.1), presenti nel terreno di uno scavo archeologico, al fine di elaborare la migliore
strategia di campionatura.
In laboratorio si provvede a operare delle eventuali sottocampionature e a preparare
adeguatamente i campioni raccolti per le analisi. Successivamente si opera la determinazione dei resti raccolti, cioè si attribuisce a ogni frammento la specie botanica di appartenenza.
Le fasi successive comportano:
-l’elaborazione statistica dei dati (presenze, percentuali, distribuzione, tafonomia etc.);
-un’analisi «ambientale» (botanico, floristica, vegetazionale, fitogeografica etc.);
-un’analisi «economica» (specie coltivate, raccolte, produzione agricola, consumo etc.)
-un’analisi storico-archeologica (aspetti tecnologici, organizzativi, commerciali, sociali
etc.).
Come ogni scienza relativamente nuova e in rapida evoluzione, la paletnobotanica utilizza strumenti e analisi derivati da altre scienze affini (in particolare botanica sistematica
e fitogeografia), che plasma e modifica secondo le proprie necessità. E trattandosi di una
scienza strettamente connessa ad altri campi di ricerca (in primo luogo l’archeologia),
presenta ampie fasce di interazione e sovrapposizione con altre discipline di ambito
letterario e scientifico.
In sostanza al paletnobotanico si richiede di avere non soltanto competenze botaniche in
senso lato, ma anche competenze quanto mai varie che possano spaziare dall’agronomia
128
Rottoli
alla storia dell’agricoltura, dalla tecnologia alla storia della tecnologia, dalla storia dell’alimentazione alla storia della medicina etc., insomma competenze botaniche, storiche
ed etnologiche.
Una indagine paletnobotanica che si fermi al puro elenco delle specie presenti, e a una
generica descrizione ambientale da esse ricavata, non permette infatti all’archeologo di
trarre indicazioni utili all’interpretazione di un sito archeologico, né all’archeobotanico
di aggiungere conoscenze alla storia della vegetazione e dell’uso delle piante.
Di fronte a un compito così vasto, che presuppone una conoscenza non proprio superficiale di materie assolutamente disparate e complesse, il paletnobotanico - oltre a vagheggiare un corso di studi finalizzato allo scopo, che almeno concentri gli sforzi sulle
discipline più utili - desidera trovare degli interlocutori, esperti nei diversi campi, che
parlino con lui un linguaggio comprensibile, comune perlomeno sotto l’aspetto botanico.
Ma questo desiderio si scontra (sicuramente in Italia, ma forse anche all’estero) con
l’enorme difficoltà di trovare strade comuni fra campi scientifici e letterari, e con una
sostanziale impossibilità di progettare delle ricerche in collaborazione o di operare in
équipes multidisciplinari. In pratica sono limitatissime le occasioni di incontro e scambio
di idee fra settori diversi (congressi o convegni multidisciplinari) e nelle poche occasioni
di questo tipo si rileva spesso la mancanza di un linguaggio comune.
L’analisi di un problema specifico - l’interpretazione dei termini del Capitulare de Villis
in rapporto alle conoscenze paletnobotaniche - vuole essere da stimolo per una maggiore
interazione tra campo storico e archeologico/archeobotanico, richiamando l’attenzione
sulla necessità di una maggiore collaborazione fra addetti alle varie discipline, nel
rispetto delle specifiche competenze, e sulla necessità di stabilire un linguaggio comune
ma preciso, come può esserlo la nomenclatura binomia2.
INTRODUZIONE
Agli storici italiani che si occupano di produzione agraria e alimentazione vegetale in età
medievale un tema sembra particolarmente caro: l’orto e l’orticoltura medievale. Esistono numerosi elementi di carattere storico e archivistico che giustificano tale interesse.
Come in diversi scritti è stato sottolineato, l’orticoltura rappresenta una delle principali
risorse dell’altomedioevo, tanto per il ricco che per il povero, in una prospettiva economica improntata all’autoconsumo e strettamente collegata alla ruralizzazione dell’ambiente urbano (Montanari 1979).
La produzione degli «orti», pur rimanendo un caposaldo dell’organizzazione produttiva,
tenderà poi ad avere una sempre minore influenza in ambito bassomediovale, quando
cause diverse, fra cui una maggiore urbanizzazione e una ripresa delle colture cerealicole
(con una probabile maggiore produttività delle stesse), porterà a una contrazione dello
spettro delle risorse alimentari e a una sostanziale maggiore fragilità del sistema produttivo (Montanari 1979).
Tale ipotesi, in questa sede molto riassunta e semplificata, ha stimolato una ricerca
puntuale della documentazione altomedievale che tratti delle piante orticole, della loro
L’orto medievale fra botanica, storia e archeologia
129
diffusione e delle modalità di coltura e tassazione. E fra i documenti più spesso «saccheggiati» a tal fine, uno in particolare ha attirato l’attenzione, per la specificità e ricchezza
di dati. Si tratta del Capitulare de Villis (795), un’opera particolarmente importante,
curata da Carlomagno, che si occupa dell’amministrazione dei suoi domini in ogni
dettaglio e, fra l’altro, specificamente delle piante e della coltivazione. Nel testo del
Capitulare, in un apposito capitolo3, è compreso un lungo elenco di piante «orticole» di
cui viene fortemente consigliata la coltivazione4.
Più volte è stato rimarcato quanto questo elenco sia solo in parte realistico, talvolta
sottolineando l’aspetto «regale» (non era da tutti disporre di un orto sufficientemente
ampio e organizzato da produrre più di 70 specie coltivate), talvolta invece entrando nel
merito delle stesse piante elencate, che sarebbero più che altro mutuate dalla tradizione
classica, senza una vera corrispondenza con la realtà.
Verificare il peso di queste limitazioni non è problema da poco e davvero significativo
dal punto di vista storico. Ciò che più stupisce è come molti storici, anche di indubbio
valore, abbiano affrontato il problema avvalendosi di una interpretazione approssimativa,
non esente da grossolani errori, dei nomi assegnati alle piante nel Capitulare. Non si
tratta ovviamente di errori di tipo linguistico-glottologico, sui quali per altro non ho
nessuna competenza, ma di gravi incongruenze storiche (vengono spesso incluse specie
di origine americana) o di più lievi errori relativi all’ipotetico utilizzo di determinate
specie vegetali.
Ulteriore confusione, facilmente ingigantita dalle traduzioni, deriva dalla scelta di molti
Autori di elencare le piante con termini vernacoli (italiani, francesi etc.), magari regionali
o in disuso, non corredati dal corrispondente termine botanico sistematico. La presenza
di questo termine latino (nomenclatura binomia), composto dal nome generico, da quello
specifico e dalla sigla dell’autore che ha per primo descritto la specie, costituisce l’unico
sistema per definire in maniera inequivocabile una specie. Anche se tacciati di pedanteria
e presunzione ne raccomandiamo vivamente l’uso a tutti gli storici che si occupino di
botanica o agronomia e ne rammentiamo l’importanza agli stessi botanici.
MATERIALI E METODI
I termini latini medievali elencati nel Capitulare sono stati ricavati dall’edizione del 1883
curata da Alfred Boretius5 e confrontati con quelli riportati da Montanari 1979. I nomi
vernacoli utilizzati in ambiente storico sono quelli riportati dallo stesso Montanari e
ripresi pressoché identici da Andreolli 1990. L’interpretazione fornita da Montanari si
avvale di vari testi storici e botanici6, altra interpretazione (con nomi volgari) da me
conosciuta è quella fornita da Grand e Delatouche nel loro poderoso lavoro sull’agricoltura medievale, di cui mi è stato possibile consultare la sola edizione italiana (del 1968).
Per quanto riguarda l’interpretazione qui fornita, si sono confrontate le ipotesi di Montanari con vari testi sia di carattere storico-botanico che di tipo linguistico-botanico. Si è
tenuto in particolar conto: la già citata edizione del 1883, eccezionalmente precisa nel
riportare le piante del Capitulare con il corrispondente termine botanico in nomenclatura
130
Rottoli
binomia7; Fischer 1967, assai accurato sotto l’aspetto della nomenclatura, e Penzig 1924,
ampiamente utilizzato dallo stesso Fischer. Ulteriori controlli sono stati effettuati dal
punto di vista strettamente botanico, alimentare, medicinale ed etnografico, utilizzando
secondo l’occasione Pignatti 1982, Tutin et al. 1981 (per la sistematica), Dalla Fior 1981
(per varie notazioni botaniche ed etnologiche), Körber-Grohne 1988 (storia e botanica),
Tamaro 1924 (per l’orticoltura), Negri 1979 e Maugini 1977 (per la botanica farmaceutica), Corsi e Pagni 1979 (per gli usi alimentari), Salice 1979 (per la tintura) e l’Artusi
nell’edizione curata da Piero Camporesi (1970, per l’alimentazione), solo per citare i testi
più importanti o più curiosi. La nomenclatura botanica adottata segue Pignatti 1982
anche per i corrispondenti termini italiani (con qualche modifica da Dalla Fior 1981).
Altri controlli indiretti derivano dalla bibliografia paletnobotanica, sia italiana che straniera, e in particolare dai lavori su siti altomedievali/medievali svolti presso il Laboratorio di Archeobiologia dei Musei Civici di Como. Ricordiamo fra questi le ricerche sui siti
di Monte Barro (Castelletti e Castiglioni 1991) e i lavori inediti su Ferrara-Porta Reno,
Trento-Teatro Sociale, Trento-Piazza Duomo, Nago (TN) (Rottoli inediti). Tra i lavori
italiani editi, fondamentale il riferimento a Bandini Mazzanti et al. 1992, sempre su
Ferrara medievale.
NUOVE E VECCHIE INTERPRETAZIONI
Non è sempre chiara la logica della sequenza di piante elencate nel Capitulare. Il termine herbas utilizzato
come indicazione iniziale sta, secondo le interpretazione storiche, per «ortaggi» in senso lato. Sarebbero quindi
comprese sia piante alimentari che d’uso diverso, medicinale o tintorio. La mancanza di una logica stringente
pone alcuni problemi interpretativi, di cui si farà cenno più oltre.
Per semplicità di esposizione, e per tentare d’essere meno stucchevoli, nel testo si sono accomunate altrettanto
variamente le specie, accorpandole a seconda dei problemi di interpretazione. La tabella di corrispondenza
(nomi del Capitulare, termine botanico, nome volgare in uso, nome volgare consigliato) è invece in ordine
alfabetico secondo il termine del Capitulare.
Termini di immediata comprensione
Esiste un buon numero di termini che non pone grossi problemi di interpretazione. È il caso di ameum, anesum,
anetum, apium, beta, carvita, coriandrum, dragantea, eruca alba, fenicolum, lactuca, levisticum, papaver,
parduna, pastenaca, petresilinum, ros marinus, ruta, salvia, satureia.
Si tratta di piante perlopiù della famiglia delle Umbelliferae (=Apiaceae), caratterizzate dal presentare parti
della pianta con un forte aroma e utilizzate come condimento, o di altre piante alimentari, generalmente radici
e insalate da mangiarsi cotte o crude, che hanno mantenuto identiche denominazioni italiane. I termini latini
medievali sono quindi di immediata comprensione. Piante di uso comune anche oggi come l’aneto (Anethum
graveolens L.), il sedano comune (Apium graveolens L.), il finocchio (Foeniculum vulgare Miller), il coriandolo (Coriandrum sativum L.), il levistico8 (Levisticum officinale Koch), il prezzemolo (Petroselinum sativum
Hoffm.), la carota (Daucus carota L.) sono delle Umbelliferae. Ci sono poi la bietola comune (o barbabietola
o rapa rossa, Beta vulgaris L.), il dragoncello (Artemisia dracunculus L.), la rucola comune (o ruchetta, Eruca
sativa Miller), la lattuga (Lactuca sativa L.), il papavero da oppio (Papaver somniferum L.), il rosmarino
(Rosmarinus officinalis L.), la ruta e la salvia domestica (Ruta graveolens L inclusa R. hortensis Miller e Salvia
officinalis L.).
Pure d’immediata traduzione il termine fenigrecum, fieno greco (Trigonella foenum-grecum L.). La sua
presenza fra le piante orticole - oggi è utilizzata solo per il fieno - trova giustificazione nell’uso, documentato
ancora recentemente, per l’alimentazione (aromatizzazione del pane) e la medicina9. Meno comuni o ormai
L’orto medievale fra botanica, storia e archeologia
131
abbandonate, o d’uso regionale meno generalizzato, sono invece la visnaga maggiore (Ammi majus L., oppure
Ammi visnaga (L.) Lam), pianta entrata nell’alimentazione in età medievale10 ma difficilmente coltivabile,
l’anice vero (Pimpinella anisum L.), pianta aromatica presente solo nella forma coltivata in Italia, la bardana
o lappa (Arctium lappa L.), la pastinaca11 (Pastinaca sativa L.), la santoreggia (Satureja hortensis L.).
Anche il termine rosa non ha bisogno di traduzione, sebbene sia difficile chiarire la specie e impossibile la
varietà (Rosa canina L. sensu Bouleng., e Rosa spp.12). Per radix gli autori consultati sono tutti concordi
nell’identificare il termine con ravanello (o rafano, Raphanus sativus L.). Adripia corrisponderebbe invece al
bietolone rosso o atriplice degli orti (Atriplex hortensis L.), un tempo coltivato come spinacio.
Poche difficoltà derivano dai termini cicer italicum e pisus mauriscus. Nel primo caso per una possibile, ma
improbabile, confusione fra il cece (Cicer arietinum L.) e altri legumi meno diffusi (cicerchia, Lathyrus sativus
L., o analoghi). Nel secondo caso per un problema più squisitamente botanico di distinzione fra specie,
sottospecie e varietà coltivate del pisello13 (Pisum sativum L. subsp. sativum, subsp. elatius e varietà arvense
o sativum).
Piante americane e non
Della famiglia delle Cucurbitaceae, originari del Vecchio Mondo sono il cetriolo (Cucumis sativus L., India),
il melone (Cucumis melo L., Africa o India), l’anguria (Citrullus lanatus (Thunb.) Mansfeld, Africa) e la zucca
da vino Lagenaria
(
siceraria (Molina) Standley, Indie orientali). La zucca (Cucurbita maxima L.) e lo
zucchino (Cucurbita pepo L.) sono invece originari dell’America centrale ed è quindi esclusa la loro presenza
nel Capitulare. I termini pepo, coloquentida, cucumis, cucurbita devono quindi essere riferiti rispettivamente
al melone, all’anguria14, al cetriolo e alla zucca da vino.
Utilizzando i termini volgari è da evitarsi l’uso di «coloquintide» al posto di anguria (o cocomero), perché si
riferisce a Citrullus colocynthis (L.) Schrader, assente dall’Italia15 e d’uso solo medicinale.
Il termine fasiolus, di tradizione classica, è stato a lungo interpretato come fagiolo16. In realtà, come già il
Montanari 1979 sottolinea, non si tratta del fagiolo (Phaseolus vulgaris L.), che conosciamo attualmente e di
cui mangiamo i semi nelle diverse varietà, ma del fagiolino (o cornetto o fagiolo dall’occhio, Vigna unguicolata
(L.) Walpers) di origine africana o asiatica, del quale generalmente si mangia il bacello. Il fagiolo è infatti
specie di origine americana, mentre il fagiolino fu sicuramente introdotto in età romana, sebbene non mi sia
nota nessuna attestazione archeologica.
Nella traduzione di Montanari 1979 e Andreolli 1990 compare «girasole» in corrispondenza del termine
solsequia. Il girasole comune Helianthus annuus L., coltivato per il seme, è specie sudamericana, il termine
latino deve quindi riferirsi a una altra specie. Fischer suggerisce la ninfea comune o quella gialla (Nymphaea
alba L. o Nuphar luteum (L.) S. et S.), ma sembra più probabile l’ipotesi, trattandosi queste di specie d’acqua
dolce complesse da coltivare, che si tratti di un’altra specie: il fiorrancio coltivato (Calendula officinalis L.) specie pure proposta dallo stesso Autore e spesso associata per la dimensione dei capolini al girasole comune
- che possiede un ampio spettro di usi medicinali (Negri 1979). Altra possibilità, proposta da Boretius, è che
si tratti invece della cicoria comune o radicchio (Cichorium intybus L.). La posizione nell’elenco (dopo
coloquentida, prima di ameum) lontana dalle altre insalate e dallo stesso termine intuba, interpretabile allo
stesso modo o come endivia (Cichorium endivia L.), non può essere utilizzata come elemento a sfavore ma
nemmeno a favore di questa ipotesi17.
Specie e varietà
Sebbene il Capitulare utilizzi il termine faba major, i dati archeologici, abbondanti e concordi, inducono a
pensare che l’espressione contraddistingua il favino (Vicia faba var. minor) anziché l’attuale fava (var.
hortense) di maggiori dimensioni, che sembra sostituirla in tempi più recenti. Forse il termine major indica
questa specie in rapporto ad altre di ancor minori dimensioni e meno frequentemente coltivate, come la veccia
dolce (Vicia sativa L.) o l’ervo (Vicia ervilia (L.) Willd.); specie spesso rinvenute negli scavi archeologici,
generalmente più comuni del cece, ma non comprese fra le piante «orticole»18 del Capitulare.
L’orto medievale sembra essere particolarmente completo per la varietà di cipolle e agli, nominati con i termini
alium, ascalonica, britla, cepa, porrus, unio. Tali ortaggi dovevano essere particolarmente diffusi e fondamentali nella dieta, anche per la possibilità di conservarli per un certo periodo. Sono specie tutte appartenenti al
genere Allium, interpretabili rispettivamente come aglio comune (Allium sativum L.), scalogno (Allium
ascalonicum Hort., cultivar derivato da Allium cepa L.), erba cipollina (Allium schoenoprasum L.), cipolla
Artemisia absinthium L. (A. abrotanum/pontica)
Atriplex hortensis L.
Allium sativum L.
Ammi majus L. (Ammi visnaga (L.) Lam.)
Pimpinella anisum L.
Anethum graveolens L.
Apium graveolens L.
Allium cepa L. cultivar ascalonicum Hort.
Beta vulgaris L.
Amaranthus lividus L. (Chenopodium spp.)
Allium schoenoprasum L.
Dipsacus sativus (L.) Honckeny
Carum carvi L.
Daucus carota L.
Brassica oleracea L.
Allium cepa L.
Anthriscus cerefolium, Chaerophyllum bulbosum
Cicer arietinum L. (Lathyrus sativus L.)
Cuminum cyminum L.
Citrullus lanatus (Thunb.) Mansfeld
Coriandrum sativum L.
Balsamita major Desf.
Cucumis sativus L.
Lagenaria siceraria (Molina) Standley
Dictamus, Origanum, Polygonatum
Artemisia dracunculus L.
Eruca sativa Miller
Vicia faba var. minor (var. hortense)
Vigna unguicolata (L.) Walpers
Centaurium, Adenostyles, Tanacetum
Foeniculum vulgare Miller
Trigonella foenum-grecum L.
Nigella sativa L.
Iris florentina L. (Iris spp.)
Cichorium intybus L, Cichorium endivia L.
Euphorbia lathyris L.
Lactuca sativa L.
Levisticum officinale Koch
Lilium candidum L.
Malva verticillata L. (Malva sylvestris L.,Althaea)
Mentha X piperita L. (Mentha spp.)
Mentha suaveolens Ehrh. (Mentha spp.)
Althaea officinalis L.
Lepidium sativum L., Nasturtium officinale R.Br.
Nepeta, Calamintha, Melissa
Smyrnium olusatrum L (Ranunculus spp.)
Papaver somniferum L.
Arctium lappa L.
Pastinaca sativa L.
Cucumis melo L.
Petroselinum sativum Hoffm.
Pisum sativum L. (subsp. sativum, elatius)
Allium ampeloprasum L. var. porrum
Mentha pulegium L. (Mentha spp.)
Raphanus sativus L.
Brassica oleracea gongyloides (Brassica spp.)
Rosmarinus officinalis L.
Rosa canina L. (Rosa spp.)
Ruta graveolens L. incl. R.hortensis Miller
Salvia officinalis L.
Satureja hortensis L.
Juniperus communis L., Juniperus savina L.
Salvia sclareia L. (Salvia spp.)
Sium sisarum L., Ocimum basilicum L.
Sinapis alba L., Brassica nigra (L.) Koch
Sisymbrium officinale (L.) Scop. (Mentha spp.)
Calendula officinalis L. (Cichorium intybus L.)
Urginea maritima (L.) Baker
Tanacetum parthenium (L.) Sch.-Bip.
Allium fistulosum L.?
Asarum europaeum L. (Cyclamen)
Rubia tinctorum L.
abrotanum
adripia
alium
ameum
anesum
anetum
apium
ascalonica
beta
blida
britla
cardo
careium
carvita
caulus
cepa
cerfolium
cicer italicum
ciminum
coloquentida
coriandrum
costum
cucumis
cucurbita
diptamnum
dragantea
eruca alba
faba major
fasiolus
febrefugia
fenicolum
fenigrecum
git
gladiolum
intuba
lacterida
lactuca
levisticum
lilium
malva
menta
mentastrum
mismalva
nasturtium
nepta
olisatum
papaver
parduna
pastenaca
pepo
petresilinum
pisus mauriscus
porrus
puledium
radix
ravacaulus
ros marinus
rosa
ruta
salvia
satureia
savina
sclareia
silum
sinape
sisimbrium
solsequia
squilla
tanazita
unio
vulgigina
warentia
lattuga
levistico
giglio
malva
menta
mentastro
altea
nasturzio
nepeta o erba gatta
macerone
papavero
bardana
pastinaca
melone
prezzemolo
pisello
porro
mentuccia o puleggio
ravanello o rapanello
cavolo-rapa
rosmarino
rosa
ruta
salvia
santoreggia
sabina
sclarea
seseli
senape
menta acquatica
girasole
scilla
tanaceto
cipolletta
asaro
robbia
abrotano
bietolone
aglio
bisnaga o visnaga
anice
aneto
sedano
scalogno
bietola
blito capitato
cipollina
cardone o cardo dei lanaiuoli
carvi
carota
cavolo
cipolla
cerfoglio
cece
cumino
coloquintide
coriandolo
costo
cocomero o cetriolo
zucca o lagenaria
dittamo
dragoncello
ruchetta
fava
fagiolo/fagiolo dell’occhio
centaurea minore
finocchio
fieno greco/ trigonella
nigella
giaggiolo
indivia
catapuzia
Nome volgare in uso
(Montanari 1979, Andreolli 1990)
lattuga
levistico
giglio di S. Antonio
malva crespa (o malva selvatica etc.)
menta
mentastro, menta a foglie tonde
altea comune, bismalva
lepidio ortense o crescione d’acqua
gattaia, mentuccia, melissa
corinoli comune, macerone (ranuncoli)
papavero da oppio
bardana, lappa
pastinaca
melone
prezzemolo
pisello (coltivato, selvatico etc.)
porro
menta poleggio
ravanello, rafano
cavolo-rapa o rapa, colza o navone
rosmarino
rosa
ruta
salvia domestica
santoreggia
ginepro comune o ginepro sabino
salvia moscatella
sedanina coltivata, sisaro o basilico
senape bianca o senape nera
erba cornacchia comune (mente)
fiorrancio coltivato (endivia)
scilla marittima, squilla
erba-amara vera, matricale
cipolla d’inverno?
baccaro comune (ciclamino)
robbia
assenzio vero (abrotano o ass.pontico)
bietolone rosso, atriplice degli orti
aglio
visnaga maggiore (visnaga comune)
anice vero
aneto
sedano
scalogno
bietola, barbabietola, rapa rossa
amaranto livido (o farinello capitato etc.)
erba cipollina
cardo dei lanaiuoli
kümmel, cumino tedesco
carota
cavolo
cipolla
cerfoglio comune o cerfoglio bulboso
cece (cicerchia etc.)
cumino
anguria
coriandolo
erba-amara balsamica
cetriolo
zucca da vino
dittamo o origano di candia etc.
dragoncello
rucola comune , ruchetta
favino (fava)
fagiolino, cornetto, fagiolo dall’occhio
centauro o cavolaccio o erba-amara
finocchio
fieno greco
damigella aromatica
giglio fiorentino (gigli)
cicoria comune, radicchio o endivia
catapuzia
Nome volgare consigliato
(Pignatti 1982, Dalla Fior 1981)
Rottoli
Tabella 1. Le piante del Capitulare de Villis (795) (per le interpretazioni dubbie cfr. il testo).
Termine botanico corrispondente
(in parentesi le ipotesi meno verosimili)
Nome nel Capitulare
(Montanari 1979)
132
L’orto medievale fra botanica, storia e archeologia
133
134
Rottoli
(Allium cepa L.), porro (Allium porrum L. varietà coltivata di Allium ampeloprasum L.) e (forse) cipolla
d’inverno (Allium fistulosum L.).
Qualche perplessità suscita il termine abrotanum riconducibile presumibilmente o all’abrotano (Artemisia
abrotanum L.) o all’assenzio pontico (Artemisia pontica L.), anticamente coltivati per usi medicinali e oggi
quasi ovunque scomparsi, ma più probabilmente riferito all’assenzio vero (Artemisia absinthium L.) ancora
ampiamente utilizzato per la preparazione di liquori. Allo stesso genere appartiene il dragoncello (A. dracunculus
L.) di cui si è gà detto.
Altri gruppi di nomi costituiscono problemi di interpretazione diversi. È il caso di menta, mentastrum e
puledium, che in linea teorica potrebbero rifersi alla menta piperita (o piperina, Mentha X piperita L.), alla
menta a foglie rotonde o mentastro (Mentha suaveolens Ehrh.) e alla menta poleggio (Mentha pulegium L.); ma
rimangono dubbi sia sull’attribuzione del termine puledium - per il limitato e difficile uso medicinale essendo
specie di una certa tossicità - sia per l’affinità d’uso delle varie specie di Mentha, genere dalla complessa
sistematica, ulteriormente complicata dalla selezione antropica. Difficoltà aggiuntiva sembra emergere nell’interpretazione di sisimbrium, per il quale vi è sia l’attestazione più immediata, come erba cornacchia comune
(Sisymbrium officinale (L.) Scop.), che la frequente confusione con altre specie o ibridi di Mentha.
In maniera analoga è piuttosto difficile, come già accennato, dimostrare che il termine intuba sia riferito solo
alla cicoria comune (o radicchio, o cicoria trevisana, Cichorium intybus L.) e non all’endivia o indivia19 (C.
endivia L.).
La lunga selezione antropica, e lo stesso polimorfismo delle specie implicate, costituisce pure una certa
difficoltà nella comprensione dei termini caulus, ravacaulus e sinape. Verosimilmente caulus sarebbe riferito
a cavolo (Brassica oleracea L.), anche se non è possibile specificare in quali varietà fosse coltivato in età altomedievale20; il termine sinape può invece essere riferito tanto alla senape bianca che a quella nera (Sinapis alba
L., Brassica nigra (L.) Koch), entrambe attualmente coltivate per la preparazione della senape21; mentre
ravacaulus può essere ricollegato alla rapa (o colza, Brassica rapa L., incl. B. campestris L.), al navone (Brassica napus L.) o al cavolo-rapa, varietà di cavolo a foglie lisce (Brassica oleracea cultivar. gongyloides L.).
Piante alimentari e non
Nel Capitulare vengono elencate piante sicuramente non commestibili, ma utili ad altri scopi o semplicemente
decorative. È il caso di lilium, il giglio di S. Antonio (Lilium candidum L.), gladiolum, il giglio fiorentino (Iris
florentina L. o, meno probabilmente, Iris pallida Lam., Iris germanica L. e Iris pseudacorus L.), e la squilla,
scilla marittima o squilla (Urginea maritima (L.) Baker). Sono specie utilizzate per scopi medicinali, ma che
potevano essere coltivate unicamente a fini ornamentali (in particolare i gigli), considerando anche il forte
significato simbolico di cui erano investiti22.
Con il termine warentia si intende invece designare la robbia (Rubia tinctorum L.), specie fondamentale nella
tintoria antica per produrre varie colorazioni dal rosso all’aranciato. Nell’elenco del Capitulare precede il
termine cardum e ciò induce a pensare che anche questo equivalga a una pianta d’uso «industriale», come il
cardo dei lanaiuoli (Dipsacus sativus (L.) Honckeny), scartando i cardi d’uso alimentare (Cynara cardunculus
L., cardo e carciofo) diffusi soprattutto in area mediterranea.
Difficile pensare che al termine git corrispondano, anche se ben attestate nei testi antichi, due specie infestanti
come la zizzania (Lolium temulentum L.) e il gittaione (Agrostemma githago L.), che crescendo spontaneamente nei campi sarebbe stato assurdo coltivare nell’orto, preferibile quindi l’ipotesi che si tratti della damigella
aromatica (Nigella sativa L.), coltivata per i semi aromatici e d’uso medicinale23.
Il termine tanazita corrisponderebbe all’erba-amara vera (o matricale o amareggiola Tanacetum parthenium
(L.) Sch.-Bip.), mentre costum equivarrebbe all’affine erba-amara balsamica (detta anche erba di S. Pietro,
Balsamita major Desf.). La prima utilizzata solo a scopo medicinale, la seconda per condimento.
Altre incertezze
Mancano all’appello ancora una serie di termini non sempre risolvibili con un’interpretazione univoca. Sono
blida, careium, cerfolium, ciminum, febrefugia, lacterida, malva e mismalva (o misvalva), nasturtium, nepta,
olisatum, savina, sclareia, silum, e vulgigina.
L’interpretazione più sicura è per careium e ciminum, rispettivamente kümmel o cumino tedesco (Carum carvi
L.) e cumino (Cuminum cyminum L.), usati a scopo medicinale, come condimento e per i liquori. Misvalva
sembra corrispondere unicamente ad altea comune o bismalva (Althaea officinalis L.), malva è utilizzato nei
L’orto medievale fra botanica, storia e archeologia
135
testi medievali oltreché per la malva crespa (Malva verticillata L.), per la malva selvatica (Malva sylvestris L.)
e per la stessa bismalva, ma la prima identificazione appare la più probabile. Per blidas si può ritenere quasi
certa l’identificazione con l’amaranto livido (Amaranthus lividus L.), una sorta di spinacio, anche se è possibile
la confusione con il farinello foglioso (Chenopodium foliosum Asch.) e il farinello capitato (Chenopodium
capitatum (L.) Asch.), tutte specie anticamente coltivate per le foglie eduli.
Incertezze per cerfolium, cerfoglio comune o cerfoglio bulboso (Anthriscus cerefolium (L.) Hoffm. o
Chaerophyllum bulbosum L.), usati come insalata o in sostituzione del prezzemolo, oppure d’uso medicinale;
diptamnum, dittamo o origano di candia o sigillo di Salomone (Dictamus albus L., Origanum dictamus L.o
Polygonatum odoratum (Miller) Druce), piante aromatiche e medicinali; febrefugia, centauro maggiore, cavolaccio
(Centaurium erythraea Rafn, Adenostyles alliariae (Gouan) Kerner, o ancora Tanacetum parthenium (L.) Sch.Bip.); nasturtium, lepidio ortense o crescione d’acqua24 (Lepidium sativum L. o Nasturtium officinale R. Br.);
nepta, gattaia comune o mentuccia comune25 o addirittura melissa vera26 (Nepeta cataria L., o Calamintha
nepeta (L). Savi, o Melissa officinalis L.); olisatum, corinoli comune-macerone (Smyrnium olusatrum L., o una
specie di ranuncolo, Ranunculus sp.); savina, ginepro comune o ginepro sabino (Juniperus communis L. o
Juniperus savina L.); silum, sedanina coltivata-sisaro o basilico (Sium sisarum L. o Ocimum basilicum L.). Di
volta in volta piante aromatiche, insalate, radici commestibili o usate per vari scopi medicinali.
Più certa invece la traduzione di lacterida per catapuzia (Euphorbia lathyris L.), emetico; sclareia per salvia
moscatella27 (Salvia sclareia L., o altri tipi di Salvia), vulgigina per baccaro comune o (più difficilmente)
ciclamino (Asarum europaeum L. o Cyclamen purpurascens Miller).
LA DOCUMENTAZIONE ARCHEOLOGICA
Le analisi archeobotaniche su resti vegetali di età medievale in Italia sono particolarmente limitate. Il problema non sta soltanto nel numero ridotto di analisi disponibili, ma della
parzialità di esse, trattandosi generalmente di piccole campionature di contesti particolari
o affatto casuali. Mancano in sostanza progetti ad ampio respiro con analisi su contesti
diversificati nell’ambito di uno stesso insediamento, salvo pochissime eccezioni (valgano
per esse le indagini a Monte Barro e a Brescia Santa Giulia) ancora in corso di studio. La
situazione fuori d’Italia è da questo punto di vista migliore: per la presenza di un maggior
numero di progetti pluriennali e per una tradizione paletnobotanica più radicata. Per
trovare riscontri archeologici ai dati del Capitulare è quindi necessario tener conto dei
dati centroeuropei, in qualche modo anche più pertinenti per motivi storici e ambientali.
Ma un altro parametro va considerato: l’effettiva possibilità di rinvenire (e riconoscere)
in contesti archeologici le specie elencate. Senza entrare nel dettaglio, i principali aspetti
che devono essere valutati sono:
- la presenza di fusti legnosi che possano conservarsi perché immersi nell’acqua o perché
mineralizzati o perché non completamente combusti;
- la produzione di semi/frutti/nòccioli che per qualche motivo si vengano ad accumulare
e possano conservarsi con le stesse modalità dei legni.
Trattandosi di specie per lo più erbacee il primo caso potrà verificarsi per ben poche di
esse (in sostanza rosa e ginepro), quindi saranno i reperti carpologici quelli da ricercare
e di essi sarà più facile rinvenire quelli più grandi (perché più facili da osservare sullo
scavo), quelli facilmente determinabili (per motivi d’ordine tassonomico e di conservazione), quelli con tessuti lignificati (perché maggiormente conservabili), quelli che venivano conservati/accumulati perché utilizzati come condimento o per scopi medicinali,
quelli che potevano essere combusti accidentalmente (perché cucinati) etc. In sostanza
136
Rottoli
alcune specie avranno buone possibilità di essere rinvenute (ad es. i legumi combusti e
i semi/frutti utilizzati come condimenti più diffusi), altre molto meno (semi prodotti in
scarso numero e/o utilizzati solo come semente senza un uso specifico).
Da un esame superficiale della bibliografia europea è possibile stimare che la documentazione delle specie del Capitulare sia pressoché completa, ma si osserva contemporaneamente che ben difficilmente si supera l’attestazione di 20-30 specie del Capitulare nello
stesso sito28. Assai incompleta è invece la documentazione italiana, ma ciò solo in
conseguenza dell’incompletezza delle analisi. Nella Ferrara bassomedievale sono ad
esempio attestati la salvia, la carota, il finocchio e il prezzemolo (Bandini Mazzanti et Al.
1992). Nella Ferrara più antica, il papavero, probabilmente la santoreggia, forse la
robbia29. Il pisello è spesso presente anche se in numero esiguo, il cece più eccezionalmente (Castiglioni e Rottoli, dati inediti). A Nago (in Trentino, Rottoli, inedito) sono
presenti Beta vulgaris L., Rosa sp., Coriandrum sativum L., Dipsacus cfr. sativus (L.)
Honckeny, Melissa officinalis L. e forse la Nepeta cataria L.
Un cenno merita la pastinaca, specie alimentare di grande importanza nel nord-europa,
segnalata solo di recente in scavi dell’Emila (Marchesini com. personale). Melone e
zucca da vino sono spesso attestati negli scavi medievali (ad es. a Ferrara, Rottoli,
inedito; e a Nago, Trento e a Trento-città, Rottoli, inedito), oltre a essere frequenti nei siti
d’età romana in Italia e all’estero. Non mi sono note per l’Italia attestazione del cetriolo,
l’anguria è invece segnalata a Modena, ma solo in età romana (Bandini Mazzanti e
Taroni 1988). Problemi strettamente tafonomici rendono molto limitata la documentazione di cipolle e specie simili, l’unica attestazione da me conosciuta per l’Italia è relativa
a Luni (VII d.C.) per Allium sativum L. (Castelletti 1977).
Impossibile, anche solo per cenni, citare i ritrovamenti d’oltralpe, per una rassegna
complessiva si rimanda a Van Zeist et al. 1991.
LIMITI E CONSEGUENZE
L’analisi, anche se dettagliata, di un unico testo medievale non può ovviamente risolvere
né l’aspetto puramente interpretativo della terminologia, né portare a considerazioni
troppo generali, ma può suggerire alcuni elementi utili all’interpretazione paletnobotanica,
oltre a fornire criteri più circostanziati alla critica testuale.
Dal punto di vista paletnobotanico, il Capitulare de Villis sembra costituire un testo
attendibile. Non esistono in sostanza discrepanze con la documentazione archeobotanica30,
anche se questa è, particolarmente in Italia, ancora incompleta. Molte specie sono effettivamente documentate, altre lo sono in età precedente e non vi sono motivi per dubitare
che la loro coltura non fosse continuata in età medievale, altre ancora non sono state
rinvenute presumibilmente in rapporto a motivi di ordine tafonomico o di difficoltà
diagnostica.
Ciò ovviamente non comporta che l’elenco sia concreto, anche le stesse proprietà di
Carlo Magno potevano non avere una scelta così articolata. È più probabile che si tratti
di un elenco programmatico, da adeguarsi a seconda dei contesti ambientali e degli spazi
L’orto medievale fra botanica, storia e archeologia
137
disponibili31. Va inoltre ricordato che altre entità tassonomiche potevano essere coltivate
negli orti delle varie regioni dell’Impero: l’elenco non comprende tutte le specie documentate paletnobotanicamente passibili d’uso alimentare o medicinale.
Come già in altre occasioni si è rilevato32, non è pensabile un confronto immediato fra
documentazione archivistica e paletnobotanica. Sono metodologie troppo diverse, i dati
sono pochi, puntiformi e particolarmente disomogenei. Si pensi, solo per fare qualche
esempio, che il sorgo (detto anche melega o saggina, Sorghum bicolor (L.) Moench) è
documentato archeologicamente solo in 4 siti (Ferrara altomedievale, Cherasco XII-XIII
sec., Zignago XIII-XIV sec., Sarzana XI sec.33) che ovviamente non coincidono con le
località della documentazione archivistica (Montanari 1979). Oppure che, nei siti
altomedievali trentini finora indagati, compare sempre accanto al lino, e generalmente in
maggior quantità, la canapa, che viene ritenuta, sulla base dei dati archivistici, coltura
poco diffusa nel nord Italia.
Ma a parte queste normali incongruenze rimane il problema di capire se l’elenco del
Capitulare, e gli altri elenchi rimastici, comprendano o meno le piante più comunemente
coltivate e utilizzate. Una risposta allo stato attuale delle ricerche non è possibile, sia dal
punto di vista storico che da quello archeobotanico, anche se francamente sembra improbabile la coltivazione di un numero così ampio di specie aromatiche e medicinali negli
orti comuni, in gran parte sostituibili da analoghe specie selvatiche.
La prova deve comunque scaturire dall’analisi di materiale archeologico e da una valutazione delle problematiche tafonomiche. Solo un aumento del numero di siti indagati
porterà a ottenere una rete di dati più fitta, utilizzabile anche per una migliore taratura dei
dati storico-archivistici.
NOTE
1
Il termine paletnobotanico è in ambito europeo spesso utilizzato solo per gli studiosi di resti di frutti, semi e
cariossidi (cioè i chicchi di cereali); in Italia il significato è esteso a chiunque analizzi materiali macroscopici
vegetali (quindi anche legni e carboni) di origine (almeno parzialmente) archeologica, generalmente con
l’esclusione dei soli studiosi di pollini (palinologi).
2
Per nomenclatura binomia si intende la nomenclatura introdotta da C. Linneo (1753) con la quale ogni specie
viene designata con due nomi latini (o latinizzati). Il primo (un sostantivo con l’iniziale maiuscola) è il nome
del genere al quale la specie appartiene; il secondo (un sostantivo o più spesso un aggettivo, da scriversi con
l’iniziale minuscola) è l’appellativo specifico. Per non ingenerare confusione il binomio è seguito dal nome
dell’autore (generalmente abbreviato, ad es. L. sta per Linneo) che per primo ha pubblicato la descrizione della
specie (principio di priorità) oppure che ne abbia operata una descrizione più scientificamente corretta.
3
Il capitolo 70.
4
Il testo recita «vogliamo che nell’orto ci siano tutte le erbe» (Volumus quod in horto omnes herbas habeant:
id est ...).
5
Ringrazio il Dr. Paolo Galimberti che mi ha fornito il testo di tale edizione.
6
Si confronti la nota 145, p. 352 in Montanari 1979.
7
Le interpretazioni suggerite in questo testo vengono ascritte a tali Kindlinger, Anton e Meyer non altrimenti
noti. I binomi risultano qua e là obsoleti ma sempre traducibili in binomi d’uso attuale.
138
Rottoli
L’orto medievale fra botanica, storia e archeologia
139
8
Secondo Pignatti 1982, una volta utilizzato come medicinale, è attualmente (foglie e fiori) un aromatizzante
che entra nella preparazione dei dadi per brodo.
BIBLIOGRAFIA
9
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B. Andreolli, Il ruolo dell’orticoltura e della frutticoltura nelle
campagne dell’alto Medioevo, in L’ambiente vegetale nell’Alto
Medioevo, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo,
pp. 175-211.
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P. Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, a cura di
P. Camporesi, Torino, Einaudi editore.
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M. Bandini Mazzanti, C.A. Accorsi, L. Forlani, M. Marchesini, P.
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Gelichi, Ferrara prima e dopo il Castello, Spazio Libri Editori, pp.
118-137.
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M. Bandini Mazzanti, I. Taroni, Macroreperti vegetali (frutti, semi,
squame di pigne) di età romana (15-40 d.C.), in Modena dalle
origini all’anno mille. Studi di archeologia e storia, vol. I, pp.
455-462, Modena.
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A. Boretius, Monumenta Germaniae Historica Capitularia regum
Francorum, Hannoverae, Haniani, Tomus I, pp. 82-91.
Castelletti 1975
L. Castelletti, Materiali botanici della fornace di campane (sec.
XII) e resti di sarcofago ligneo (sec. XIV) da Sarzana, in
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L. Castelletti, Legni carbonizzati e altri resti vegetali macroscopici,
in a cura di A. Frova, Scavi di Luni II, pp. 736-41.
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Brogiolo, L. Castelletti, Archeologia a Monte Barro I, Il grande
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G. Corsi, A.M. Pagni, Piante selvatiche di uso alimentare in Toscana, Pisa, Pacini Editore.
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G. Dalla Fior, La nostra flora, Trento, Monauni.
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Olms, (ed. originale 1929).
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italiana), Milano, Il saggiatore.
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and ancient man, Rotterdam, Balkema, pp. 331-338.
Le determinazioni presentano un margine di incertezza per l’incompleta conservazione dei reperti.
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U. Körber-Grohne, Nutzpflanzen in Deutschland, Stuttgart, Theiss.
Non sono cioè comprese piante favolose o mitiche (silfio o analoghe).
Maugini 1977
E. Maugini, Botanica farmaceutica, Firenze, Edizioni CLUSF.
Si vedano altri esempi di elenchi più o meno reali in Andreolli 1990.
Montanari 1979
M. Montanari, L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo,
Napoli, Liguori Editore.
Negri 1979
G. Negri, Nuovo erbario figurato, Milano, Hoepli.
Penzig 1924
O. Penzig, Flora popolare italiana, Genova
Pignatti 1982
S. Pignatti, Flora d’Italia, Edagricole.
Dalla Fior 1981, per allontanare gli insetti.
10
Fischer 1967 prende in considerazione solo Ammi majus L.
11
Affine alla carota e spesso confusa con essa.
12
Spp. sta per specie plurime; Boretius suggerisce Rosa centifolia L. forma a fiori pieni penduli derivata da R.
gallica L., la rosa serpeggiante con fiori rosei o rosei-porporini.
13
Nel testo di Boretius viene proposta anche Vicia narbonensis L., veccia selvatica, specie affine alla veccia
dolce Vicia sativa L.), ma tale interpretazione è a mio parere da rigettare.
14
Boretius propone dubitativamente per coloquentida la specie Ecballium (=Momordica) elaterium (L.) A.
Rich., il cocomero asino, ma anche questa interpretazione sembra poco probabile.
15
Una segnalazione dubbia a Pantelleria (Pignatti 1982).
16
Così ad esempio Boretius.
17
Boretius propone anche Heliotropium sp., verosimilmente Heliotropium europaeum L., eliotropio selvatico
o erba porraia.
18
Sulla presenza anche nell’orto di piante spesso coltivate in campo (in particolar modo la fava) si veda lo
stesso Montanari 1979 p. 153 e ss.
19
altri nomi volgari sono scarola, ascarola, serriola; per l’interpretazione di solsequia con Cichorium intybus
L. si confronti il paragrafo precedente.
20
Questa specie comprende le varietà come la verza, il cavolo cappuccio, il cavolo-rapa, il cavolo di Bruxelles,
il cavolfiore e il broccolo. Di alcune di queste è più o meno conosciuta l’epoca in cui è stata fissato il tipo: i
cavoli-cappuccio sarebbero conosciuti da Santa Hildegarda (XII sec.), mentre il cavolfiore è nominato da
Tabernemontanus (1588).
21
Nella preparazione della senape viene utilizzato anche il dragoncello.
22
Il giglio di S. Antonio come simbolo di purezza e il giglio fiorentino come simbolo araldico in Italia e
Francia.
23
Secondo il Negri 1979 avrebbe proprietà carminative, diuretiche e aumenterebbe la portata lattea.
24
Il primo è detto anche nasturzio ortense o crescione inglese e sembra più probabile, perché Nasturtium
officinale R. Br. vive lungo i corsi d’acqua.
25
Detta anche nepetella o poleggio (!) selvatico.
26
Detta anche citronella, cedronella ed erba limona.
27
Detta anche sclarea, scanderona, chiarella.
28
Ciò accade anche in lavori approfonditi e con analisi ampie come Knörzer 1984, su vari contesti (latrine) da
Neuss e località prossime.
29
30
31
32
Purtroppo si tratta di relazioni ancora inedite sui siti altomedievali studiati (cfr. sopra).
33
Per una disamina del problema si veda Castelletti 1975 e Rottoli inedito.
Salice 1979
M.E. Salice, La tintura naturale, Milano, Sonzogno.
Tamaro 1924
D. Tamaro, Orticultura, Milano, Hoepli.
n. 15 (1996), pp. 141-152.
140
Tutin et al. 1981
Tutin et al., Flora Europaea, Cambridge, University Press
(Reprinted).
Van Zeist et al. 1991
W. Van Zeist, K. Wasylikowa e K.-E. Behre, Progress in Old
World Palaeoethnobotany. Rotterdam, Balkema.
Ricerca di superficie e tutela:
per un censimento
degli scavi clandestini
nel Lazio settentrionale*
Andrea Zifferero
Gruppo Archeologico Romano
Il fenomeno degli scavi clandestini, manifestatosi in Italia in forme di qualche rilievo a
partire dall’ultimo dopoguerra, ha acquisito contorni sempre più definiti e dimensioni
tali, da suscitare legittime preoccupazioni negli organi dello Stato preposti all’amministrazione e alla tutela del patrimonio archeologico. Nell’ambito del Lazio settentrionale,
la presenza e l’attività degli scavatori di frodo è capillare, risultando effettivamente
specializzata nelle antichità etrusche: recentissimi episodi di acquisti di reperti, promossi
da alcuni musei stranieri, hanno determinato una ferma presa di posizione da parte di
studiosi italiani (cfr., ad esempio, Cristofani 1989).
Non si intende dedicare queste pagine alla ricerca delle cause del fenomeno, lavoro che
comporterebbe indagini di natura sociologica sulla figura dello scavatore clandestino e
psicologica su quella del collezionista: ci si limiterà a documentare l’evidenza registrata
sul terreno, lasciando implicazioni ed eventuali riflessioni alla sensibilità del lettore. I
dati sono stati raccolti in concomitanza con le ricognizioni, condotte in un clima di aperta
collaborazione tra la Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale (da qui in
poi SAEM) e il GAR, in un’area campione compresa tra le province di Roma e Viterbo
(Per le caratteristiche del progetto e l’esposizione dei risultati salienti si rimanda a Coccia
et al. 1985; Gazzetti et al. 1990; Gazzetti, Zifferero 1990; in particolare per il periodo
etrusco, si faccia riferimento a Zifferero 1988; Naso et al. 1989; Zifferero 1990).
La ricerca sul campo si è svolta sotto la guida di archeologi, aderenti al GAR: a essa
hanno preso parte, a più riprese, volontari dei Gruppi Archeologici d’Italia1.
* Questo lavoro è dedicato all’amico Luigi Gobbi, assistente di zona della SAEM fino al 1977: la sua attività
intelligente e entusiasta ha procurato una solida base per il recupero e la tutela delle antichità allumierasche,
tolfetane e canalesi.
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