Bartolomé de Las Casas, Le qualità degli Indios Bartolomé de Las Casas (1484-1566) fu un missionario domenicano che, oltre ad aver raccolto gli scritti di Cristoforo Colombo ed aver composto una Historia de las Indias (pubblicata nel 1875), si oppose ai crudeli metodi di conquista impiegati contro le popolazioni del Nuovo Mondo. Come si vede da questo brano, egli denunciò le crudeltà degli europei, che si dimostrarono spinti dal desiderio brutale di ricchezza e non esitarono a sterminare popolazioni inermi e inoffensive. Las Casas, inoltre, evidenziò che gli indiani erano miti, portatori di una propria cultura e, soprattutto, molto più morigerati ed equilibrati degli europei, avidi di denaro e dediti alla lussuria, oltre che capaci di abbandonarsi alle più feroce crudeltà. Il quadro che l’autore dipinge, seppure in buona fede, appare poco realistico: il tentativo di opporre alla immoralità degli spagnoli, la limpida mansuetudine degli indiani rischia di ottenere l’effetto opposto. Non a caso, la colonizzazione europea, nei secoli successivi, si baserà spesso sulla necessità di civilizzare i semplici e ingenui popoli stranieri (ovvero di imporre loro i valori occidentali e la religione cristiana), e addirittura sarà vissuta da molti europei come una missione. Si dimostra che le popolazioni di queste Indie sono naturalmente di ottima intelligenza, mediante la buona conformazione delle membra, la conveniente proporzione degli organi e dei sensi. Infatti gli indi di tutte queste Indie per la maggior parte sono di corpi ben fatti, e tutte le loro membra ben proporzionate e delicate, anche nei più plebei e contadini; non molto carnosi né molto sottili, ma a metà tra magrezza e grassezza. [...]. Le facce e i visi e gli atti li hanno comunemente graziosi e belli, uomini e donne, fin dalla nascita e dall’infanzia, perché bambini e bambine da quando nascono e mentre crescono sono tutti comunemente molto graziosi, allegri, svegli e vivaci e bonae indolis, il che è segno e indizio e significazione della naturale bontà delle anime loro, e della buona intelligenza, e che si perfezionerebbero se fossero aiutati, come appare da molti che stati e sono educati dai frati. [...] Su l’astinenza e temperanza circa gli affetti sensibili, viziosi, e in maggior grado quelli di Venere o sudici, crediamo poter dire con verità che in maggioranza e comunemente gli indi sono moderati e temperati più che altri popoli (e piacesse a Dio che i nostri non li superassero quasi a dismisura), come si può conoscere dalla temperanza nell’usare con le loro mogli, che non sembra le abbiano per altra cosa se non soltanto per mantenere la specie umana, che è il fine della natura, e non per uscire dai limiti della ragione […]. Un argomento esterno, e certissimo, che tutti gli spagnoli che sono stati e stanno in queste Indie potranno avere nella loro esperienza (se non volessero negarlo a bella posta) è che in nessuna parte di esse nessuno ha mai né veduto né sentito alcun indio commettere atti disonesti, né con le sue proprie donne, né con altre maritate, o sole, e neppure nelle terre dove, come in queste isole, tutti andavano nudi dai piedi alla testa [...] e se qualcuno ha veduto o sentito in un indio qualche sudiceria in opere o in parole, non sarà stato altro che uno di quelli allevati e tenuti in casa dagli spagnoli, perché lo hanno imparato da questi; mentre di questa onestà non si potranno vantare molti dei nostri perché si troveranno migliaia di indi che abbiano visto e siano stati testimoni di infinite turpitudini commesse dai nostri compatrioti a nostra grande confusione. Vi è anche un altro argomento della temperanza di questa gente circa gli atti venerei e cioè il loro andare scalzi, e anche più se vanno del tutto perché questo tempera e scaccia il desiderio e smorza l’inclinazione a quel vizio, a quanto dicono i medici; un altro è il lavarsi molte volte in acque fredde, come questi si lavano di notte e di giorno; un altro la scarsezza di cibo, il poco mangiare e il poco bere, e per lo più bere acqua, e che i loro alimenti sono di poca sostanza e nutrimento [...]. Quanto alla preoccupazione di ammassare ricchezze e beni temporali e ambizioni, e di usurpare l’altrui non contentandosi del proprio, queste popolazioni ne sono più libere che tutte le altre. Che cura, o che preoccupazione può dare pena o pensiero a gente che non chiede più del sostentamento, non superfluo ma necessario, e che l’ottengono con poca fatica, e non si curano di pensare a quello che mangeranno domani, poiché lo hanno assicurato con quella piccola fatica? [...] Tutte queste popolazioni sono fin da bambini lietissime, e così sono amiche del suonare e ballare e cantare con la voce quando gli mancano istrumenti. Alcuni, per ballare e suscitare sollazzo e allegria, avevano con che suonare, secondo potevano farlo a loro modo mancando di strumenti di ferro per utensili. Sono assai benevoli e dolci e benigni, e lo manifestano ricevendo gli ospiti e nell’accomiatarli. Di queste virtù e proprietà fu, come appare in altro luogo, buon testimonio l’ammiraglio che primo scoprì questo mondo [...]. Di tale complessione [costituzione] vi è una prova certa singolare ed evidente, cioè la tolleranza e pazienza che mostrano nelle fatiche intollerabili e per numero e qualità non mai immaginate né immaginabili che hanno sofferto dagli spagnoli, come questa storia attesterà con verità, davanti a Dio, che è e sarà testimone e verità di tutti. [...] Questo è assai chiaro da quello che abbiamo sperimentato tra loro ogni giorno, perché stando nei lavori delle miniere che sarebbero insopportabili non solo ad uomini fatti di carne, ma neanche se fossero di acciaio; e portando carichi di 3 o 4 arrobas (48 kg circa) di peso sulle spalle per cinquanta e cento leghe di strada, resistono e vanno cantando e ridendo, dicendo mille scherzi e barzellette che ci sono tra loro, come se per la strada andassero a far festa. Dal che appare che il dolore e la tristezza produce in loro meno effetto e turbamento di quanto non farebbero, nella stessa misura, in altre nazioni, a causa appunto la loro nobile condizione sanguigna e allegria naturale. [...] La stessa cosa si è provata e ben constata circa la facoltà del ricordare, per la buona e favorevole disposizione, dalla quale ricevono una memoria immortale, come si vede nelle molte e diverse cose che imparano a mente, così ecclesiastiche e di dottrina cristiana, come di quelle mondane e profane della loro storia. A ogni passo, ad ogni cappelletta o chiesa si uniscono molti per recitare e recitano le preghiere della Madonna, che hanno imparato a memoria in pochi giorni, e così molte altre orazioni e devozioni in latino e in volgare e nelle loro proprie lingue, recitandole o cantandole. […] Quanto ai fatti antichi accaduti tra loro, la tradizione orale, ricordata, serve loro invece di storia scritta alle arti liberali, più sotto si riferiranno cose notevoli. da B. De Las Casas, La leggenda nera: storia proibita degli spagnoli nel Nuovo mondo, Feltrinelli, Milano 1972, pp. 258-259. Juan Ginés de Sepúlveda , Non uomini ma “omuncoli” L’umanista spagnolo Sepúlveda (1490-1573) in questo brano, composto nella prima metà del XVI secolo, riassume molti degli argomenti che venivano addotti a favore della conquista degli spagnoli delle terre del Nuovo mondo. L’autore, infatti, dipinge gli indios come dei selvaggi, non molto diversi dagli animali, del tutto incivili, ignoranti in fatto di religione, dediti a culti pagani, inclini ai sacrifici umani e ai gesti più nefandi. Questo naturalmente valeva anche per le evolute civiltà mesoamericane che i conquistadores avevano cancellato; anzi, proprio queste civiltà sono le più barbare perché, a fronte della capacità di costruire città, palazzi, strade (cose che, secondo l’autore, nel loro piccolo possono fare anche animaletti come le api e le formiche), hanno delle usanze, come quella di compiere sacrifici umani, che li avvicinano a dei barbari. Per l’autore, dunque, la necessità di imporre i valori di civiltà dell’Occidente e la religione cattolica rendeva giustificabile l’impiego di qualsiasi mezzo per assoggettare quei popoli. Anche la violenza, se necessaria, è accettabile. Sepúlveda impiega molte delle tesi che andranno a costituire il mito del “cattivo” selvaggio. Le parole, come quelle di Las Casas, di chi riteneva gli indios gente semplice e pacifica, incapace di far del male, di peccare, erano delle esagerazioni, dato che non descrivevano la realtà; allo stesso modo, gli argomenti denigratori di Sepúlveda sono delle esagerazioni nel senso opposto: dipingere gli indios come essere malvagi, incivili, del tutto privi di cultura e nemici della fede significava mistificare la realtà e rendere pienamente giustificabili le stragi compiute dagli spagnoli. Confronta ora le doti di prudenza, ingegno, magnanimità, temperanza, umanità, religione di questi uomini [gli spagnoli] con quelle di quegli omuncoli, nei quali a stento potrai riscontrare qualche traccia di umanità, e che non solo sono totalmente privi di cultura, ma non conoscono l’uso delle lettere, non conservano alcun documento sulla loro storia […] E se, a proposito delle loro virtù, vuoi sapere della loro temperanza e mansuetudine, che cosa potresti aspettarti da uomini abbandonati ad ogni genere di intemperanza e nefanda libidine, molti dei quali si nutrivano di carne umana? Non credere che prima della venuta dei cristiani vivessero in ozio, nello stato di pace dell’età di Saturno cantata dai poeti, ché al contrario si facevano guerra quasi in continuazione, con tanta rabbia da non considerarsi vittoriosi se non riuscivano a saziare con le carni dei loro nemici la loro fame portentosa; crudeltà che in loro è tanto più straordinaria quanto più distano dalla invincibile fierezza degli Sciiti anch’essi mangiatori di corpi umani: infatti sono così ignavi e timidi che a mala pena possono sopportare la presenza ostile dei nostri, e spesso sono dispersi a migliaia e fuggono come donnette, sbaragliati da un numero così esiguo di spagnoli che non arriva neppure al centinaio. [...] Così Cortés, all’inizio, per molti giorni tenne oppressa e terrorizzata, con l’aiuto di un piccolo numero di spagnoli e di pochi indigeni, una immensa moltitudine, che dava l’impressione di mancare non soltanto di abilità e prudenza, ma anche di senso comune. Non sarebbe stato possibile esibire una prova più decisiva o convincente per dimostrare che alcuni uomini sono superiori ad altri per ingegno, abilità, fortezza d’animo e virtù, e che i secondi sono servi per natura. Il fatto poi che alcuni di loro sembrino avere dell’ingegno, per via di certe opere di costruzione, non è prova di una più umana perizia, dal momento che vediamo certi animaletti, come le api e i ragni, costruire opere che nessuna attività umana saprebbe imitare. Per quanto concerne la vita sociale degli abitanti della Nuova Spagna e della provincia di Messico, già si è detto che sono considerati i più civili di tutti, e loro stessi vantano delle loro istituzioni pubbliche, quasi fosse non piccola prova della loro industria e civiltà il fatto di avere città edificate razionalmente e re nominati non secondo un diritto ereditario e basato sull’età, ma per suffragio [voto] popolare, e di esercitare il commercio come i popoli civilizzati. Pensa quanto si sbagliano costoro, e quanto la mia opinione dista dalla loro: giacché secondo me la maggior prova della loro rozzezza, barbarie e innata servitù è costituita proprio dalle loro istituzioni pubbliche, che sono per la maggior parte servili e barbare. Infatti che abbiano case e alcuni modi razionali vita in comune e i commerci ai quali induce la necessità naturale, che cosa altro prova, se non che costoro non sono orsi o scimmie del tutto prive di ragione? Ho parlato del carattere e dei costumi di questi barbari; che dire ora dell’empia religione e nefandi sacrifici di tale gente, che venerando il demonio come Dio, non trova di meglio per placarlo che offrirgli in sacrificio cuori umani? Questa sarebbe una cosa buona, se per “cuori” si intendessero le anime immacolate e pie degli uomini; ma loro riferivano questa cessione non allo spirito che vivifica (per usare le parole di san Paolo) ma alla lettera che uccide, e ne davano una interpretazione stolta e barbara, pensando che si dovessero sacrificare vittime umane: e aprendo i petti degli uomini ne strappavano i cuori e li offrivano sulle are nefande, credendo così di aver fatto un sacrificio secondo il modo stabilito e di aver placato gli dei. Essi stessi poi si cibavano delle carni degli uomini immolati. Questi crimini, che superano ogni umana perversità, sono considerati dai filosofi tra le più feroci e abominevoli scelleratezze. E quanto al fatto che alcune di quelle popolazioni, secondo quanto si dice, manchino completamente di ogni religione e di ogni conoscenza di che altro è questo se non negare l’esistenza di Dio e vivere come le bestie? Non vedo cosa si potrebbe escogitare di più grave, di più turpe, di più alieno alla natura umana. Il genere di idolatria più vergognoso è quello di quanti venerano come dio il ventre e le parti più turpi del corpo, considerano religione e virtù i piaceri carnali, e come porci tengono sempre lo sguardo fisso a terra, quali non avessero mai visto il cielo. A costoro soprattutto si applica quel detto di san Paolo: la loro fine è la perdizione, il loro dio il ventre, giacché attribuiscono valore alle cose terrene. Stando così le cose, come potremmo porre in dubbio l’affermazione che questa gente così incolta, così barbara, contaminata da così nefandi sacrifici ed empie credenze, è stata conquistata da un re eccellente, pio e giusto quale fu Ferdinando [Ferdinando II “Il Cattolico” (1452 – 1516) re di Aragona, Sicilia, Sardegna e Napoli] ed è attualmente imperatore Carlo [Carlo V (1500-1558) re di Spagna (1516-1556) e imperatore del Sacro Romano Impero (1519 – 1556)], e da una nazione eccellente in ogni genere di virtù, con il maggior diritto e il miglior beneficio per gli stessi barbari? Prima della venuta dei cristiani avevano il carattere, i costumi, la religione e i nefandi sacrifici che abbiamo descritto; ora, dopo aver ricevuto col nostro dominio le nostre lettere, le nostre leggi e la nostra morale ed essersi impregnati della religione cristiana, coloro – e sono molti – che si sono mostrati docili ai maestri e ai sacerdoti che abbiamo loro procurato, si discostano tanto dalla loro prima condizione quanto i civilizzati dai barbari, i dotati di vista dai ciechi, i mansueti dagli aggressivi, i pii dagli empi e, per dirla con una sola espressione, quasi quanto gli uomini dalle bestie. da J. G. de Sepúlveda, Democrates alter, sive de justis belli causis apud indos, in La scoperta dei selvaggi, Principato, Milano 1971, pp. 259-260. Tzvetan Todorov , Colombo e gli “indiani” In questo brano, tratto da un volume pubblicato in Francia nel 1982, lo studioso Tzvetan Todorov dimostra come la conquista dell’America sia un episodio fondamentale per chi vuole studiare il rapporto che si stabilisce con chi è “altro da sé”. Al di là dei suoi aspetti economici, storici e geografici, il viaggio di Colombo mise in contatto due popoli completamente diversi l’uno dall’altro che per secoli erano vissuti ignorando l’uno l’esistenza dell’altro. Todorov evidenzia come Colombo, fin dalle prime impressioni sugli indigeni che consegnò al suo diario, dimostri di possedere tutte le convinzioni che sosterranno il razzismo e la colonizzazione degli anni successivi. L’indio è ben giudicato perché pacifico e mansueto, oltre che ospitale: ma per Colombo questo significa che sarà più agevole renderlo suddito della Spagna e convertirlo al Cristianesimo; d’altra parte, osservando le bellezze dei posti appena scoperti, il navigatore sembra accomunare nelle lodi la flora, la fauna e gli abitanti stessi di quei luoghi. Nelle parole di Colombo ci sono, dunque, sia gli elementi che costituiranno il mito del “buon selvaggio”, sia quelle che condurranno al disprezzo e al senso di superiorità verso queste popolazioni. Al di là delle qualità che gli indigeni possiedono, infatti, non è in discussione il fatto che gli spagnoli siano i messaggeri dei valori veri e che gli indios, nella loro condizione di inferiorità, dovranno assolutamente accettare tali valori. Colombo parla degli uomini che vede solo perché, dopotutto, fanno parte anch’essi del paesaggio. I suoi accenni agli abitanti delle isole sono sempre inframmezzati alle sue notazioni sulla natura: fra gli uccelli e gli alberi vi sono anche gli uomini. […] «Quattro o cinque di queste radici [...] sono molto gustose ed hanno lo stesso sapore delle castagne. Ma qui sono molto più grandi e migliori di quelle che aveva trovato nelle altre isole, e l’Ammiraglio dice di averne trovate anche in Guinea, ma qui erano grandi come una coscia. Afferma anche, di questa gente, che erano tutti robusti e valenti» (16 dicembre 1492). È chiaro in che modo vengono introdotti gli esseri umani: per mezzo di una comparazione, che serve a descrivere le radici. «I marinai videro che le donne maritate portavano mutandoni di cotone, ma non le ragazze, eccettuate alcune che avevano già diciott’anni. C’erano dei mastini e altri piccoli cani, e videro un uomo che aveva nel naso un pezzo d’oro, che poteva avere la grandezza di mezzo castellano» (17 ottobre 1492 ): questa menzione dei cani in mezzo alle osservazioni sulle donne e sugli uomini indica bene il registro nel quale questi saranno integrati. Significativa è la prima menzione degli indiani: «Subito videro gente nuda» (11 ottobre 1492). È vero, ma è rivelatore che la prima caratteristica di quel popolo che colpisce Colombo sia la mancanza di abiti, i quali a loro volta sono un simbolo di cultura (di qui l’interesse di Colombo per le persone vestite, che avrebbero potuto essere un po’ meglio assimilate a ciò che si sapeva del Gran Khan; è un po’ deluso di aver trovato solo dei selvaggi). […] Fisicamente nudi, gli indiani -‐ agli occhi di Colombo -‐ sono anche privi di ogni proprietà culturale: sono caratterizzati, in qualche modo, dalla mancanza di costumi, di riti, di religione (e in ciò vi è una certa logica, perché per un uomo come Colombo gli esseri umani si vestono in conseguenza della loro espulsione dal paradiso terrestre, che è poi all’origine della loro identità culturale) […]. Già privi di lingua, gli indiani si rivelano anche sprovvisti di leggi e di religione; e se hanno una cultura materiale, essa non attira l’attenzione di Colombo più di quanto lo interessi la loro cultura spirituale: «Essi portavano delle balle di cotone filato, pappagalli, lance e altre cosette, che sarebbe noioso mettere per iscritto» (11 ottobre 1492): l’importante, naturalmente, era la presenza dei pappagalli […]. Misconoscimento, dunque, della cultura degli indiani e loro assimilazione alla natura; con queste premesse, non possiamo certo attenderci di trovare negli scritti di Colombo un ritratto particolareggiato della popolazione. L’immagine ch’egli ce ne offre obbedisce, in parte, alle stesse regole che presiedono alla descrizione della natura: Colombo ha deciso di ammirare tutto, e quindi in primo luogo la bellezza fisica […]. Questa ammirazione, aprioristicamente decisa, si estende anche al campo morale. Sono brava gente, dichiara di primo acchito Colombo, senza preoccuparsi di giustificare la sua affermazione. «Sono il miglior popolo del mondo e soprattutto il più dolce» (16 dicembre 1492); […] il facile nesso istituito fra uomini e terre indica assai bene in quale spirito scrive Colombo, e quanta poca fiducia si debba attribuire al carattere descrittivo delle sue affermazioni. Del resto, quando conoscerà un pò meglio gli indiani, egli cadrà nell’estremo opposto, senza per questo fornire informazioni più degne di fede; naufrago in Giamaica, si vede «circondato da un milione di selvaggi crudelissimi e a noi ostili» (Lettera rarissima, 7 luglio 1503). Certo, si resta colpiti dal fatto che Colombo non trova -‐ per caratterizzare gli indiani, aggettivi diversi dalla coppia buono/cattivo, che in realtà non dice niente; non solo perché queste qualità dipendono da un determinato punto di vista, ma anche perchè corrispondono a stati momentanei e non a caratteristiche permanenti; non sono il frutto del desiderio di conoscere, ma dell’apprezzamento pragmatico di una situazione.[…] L’atteggiamento di Colombo verso gli indiani si fonda sulla percezione che egli ne ha. Si potrebbero distinguere due componenti, che si ritroveranno nel secolo seguente e, praticamente, fino ai giorni nostri in ogni colonizzatore rispetto al colonizzato […]. O egli pensa agli indiani (senza peraltro usare questo termine) come a degli esseri umani completi, con gli stessi diritti che spettano a lui; ma in tal caso non li vede come eguali, bensì come identici, e questo tipo di comportamento sbocca nell’assimilazionismo, nella proiezione dei propri valori sugli altri. Oppure parte dalla differenza; ma questa viene immediatamente tradotta in termini di superiorità (nel suo caso, come è ovvio, sono gli indiani ad essere considerati inferiori): si nega l’esistenza di una sostanza umana realmente altra, che possa non consistere semplicemente in un grado inferiore, e imperfetto, di ciò che noi siamo. Queste due elementari figure dell’alterità si fondano entrambe sull’egocentrismo, sull’identificazione dei propri valori con i valori in generale, del proprio io con l’universo: sulla convinzione che il mondo è uno. Da un lato, dunque, Colombo vuole che gli indiani siano come lui e come gli spagnoli. È assimilazionista in modo inconsapevole ed ingenuo; la sua simpatia per gli indiani si traduce «naturalmente» nel desiderio di vederli adottare le sue stesse usanze. Decide di prendere alcuni indiani e di portarli con sé in Spagna, affinché al ritorno possano «fare da interpreti ai cristiani e adottare i nostri costumi e i simboli della nostra fede» (12 novembre 1492). […] Questo desiderio di far adottare dagli indiani i costumi degli spagnoli non viene mai giustificato: è una cosa che va da sé. Questo progetto di assimilazione si confonde, di solito, col desiderio di cristianizzare gli indiani, di diffondere il vangelo. È noto che questa intenzione fu alla base del progetto iniziale di Colombo, anche se all’inizio l’idea è po’ astratta (nessun prete prese parte alla spedizione). Ma non appena Colombo vede gli indiani, l’intenzione comincia a concretizzarsi. Subito dopo aver preso possesso delle nuove terre con un atto notarile debitamente rogato, egli dichiara che si trattava di un popolo che «si sarebbe salvato e convertito alla nostra santa religione più con l’amore che con la forza» (11 ottobre 1492). […] Come può Colombo essere associato a questi due miti apparentemente contraddittori, quello nel quale l’Altro è un «buon selvaggio» (quando è visto di lontano) e quello nel quale esso è uno «sporco cane», uno schiavo in potenza? Il fatto che entrambi i miti si fondano su una base comune, il disconoscimento degli indiani e il rifiuto di considerarli un soggetto che ha gli stessi nostri diritti, ma è diverso da noi. Colombo ha scoperto l’America, non gli americani. da T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’ “altro”, Einaudi, Torino 1992, pp. 41-‐60. DOMANDE AL TESTO DI SEPULVEDA 1. QUAL E' LA TESI SOSTENUTA DALL'AUTORE? 2. CON QUALI ARGOMENTI? DOMANDE AL TESTO DI DE LAS CASAS 1. QUAL E' LA TESI DELL'AUTORE? 2. COME VENGONO DESCRITTI GLI INDIOS? 3. SECONDO TE, IL MITO DEL "BUON SELVAGGIO" E QUELLO DEL "CATTIVO SELVAGGIO" GIUNGONO ALLA STESSA CONCLUSIONE? E QUAL E' ? DOMANDE AL TESTO DI TUDOROV 1. QUAL E' LA TESI SOSTENUTA DALL'AUTORE? -‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐-‐ 1. RIFLETTI SULLA GENESI DEL MITO DEL "BUON SELVAGGIO", EVIDENZIANDONE I TRATTI NEGATIVI E A TUO GIUDIZIO INACCETTABILI PER LA MENTALITA' MODERNA. 2. FACENDO RIFERIMANTO AL SAGGIO DI TODOROV, DESCRIVI QUALE FU L'ATTEGGIAMENTO CULTURALE DI COLOMBO NEI CONFRONTI DEGLI ABITANTI DELLE TERRE SCOPERTE. 3. A TUO PARERE, L'ATTEGGIAMENTO DEGLI EUROPEI VERSO LE POPOLAZIONI CARAIBICHE E' DEFINIBILE COME "RAZZISTA" IN SENSO MODERNO, OPPURE E' FRUTTO DI UNA CONCEZIONE CULTURALE, SBAGLIATA E INACCETTABILE, EPPURE A QUEL TEMPO LARGAMENTE CONDIVISA?