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L’Ucraina e la nuova guerra fredda tra
Russia e Occidente
(Materiale didattico finito di assemblare il 14 febbraio 2015)
PARTE I: DALL’EUROMAIDAN ALLA CADUTA DI
JANUKOVICH
La cosiddetta Euromaidan (in ucraino: Євромайдан, Jevromajdan; letteralmente Europiazza) è una serie
di manifestazioni e disordini civili in corso in Ucraina che hanno avuto inizio la notte del 21
novembre 2013, subito dopo la sospensione, da parte del governo ucraino, di un accordo di associazione tra
l'Ucraina e l'Unione europea.
La portata delle proteste si è evoluta, con molte richieste di dimissioni del presidente Viktor Yanukovich e
del suo governo. Molti manifestanti si sono aggiunti alla causa dopo le violenze subite dai manifestanti il 30
novembre 2013. Dal 25 gennaio 2014 le finalità delle proteste sono cambiate: da una iniziale manifestazione
pro-europeista si è passato ad una generale percezione di diffusa corruzione degli organi di governo, di abuso
di potere e di violazione dei diritti umani in Ucraina. A seguito dei gravissimi scontri del 18 febbraio
l'Euromaidan è considerata una guerra civile da parte di alcuni.
Le manifestazioni iniziarono la notte del 21 novembre 2013, quando scoppiarono proteste spontanee nella
capitale Kiev, dopo che il governo ucraino aveva sospeso i preparativi per la firma di un accordo di
associazione e di libero scambio con l'Unione europea, a favore della ripresa di relazioni economiche più
strette con la Russia. Dopo alcuni giorni di manifestazioni, un numero crescente di studenti universitari si
unì alle proteste.
Le proteste pro-europeiste sono le manifestazioni più grandi in Ucraina dopo la rivoluzione arancione del 2004, che
ha visto Yanukovich costretto a dimettersi da primo ministro per le accuse di irregolarità di voto. Anche confrontando gli eventi del 2013
rispetto a quelli del 2004, rimanendo l'Ucraina "un punto geopolitico chiave in Europa orientale" per la Russia e l'Unione Europea, il
The Moscow Times ha osservato che il governo di Yanukovich era in una posizione significativamente più forte dopo la sua elezione nel
2010. Il Financial Times ha detto che le proteste del 2013 sono state "in gran parte spontanee, innescate dai social media e hanno colto
impreparata l'opposizione politica ucraina" rispetto a quelle predecedenti ben organizzate. L'hashtag # euromaidan (in ucraino #
євромайдан , in russo # евромайдан), è stato creato subito alle prime manifestazioni ed è stato altamente utile come strumento di
comunicazione per i manifestanti. L'hashtag di protesta è rimbalzato anche sulla rete VKontakte, un social network molto diffuso nei
paesi dell'est.
Le proteste hanno portato nella seconda metà di febbraio all’allontanamento del Presidente
Yanukovich e all’insediamento di un nuovo Presidente ad interim e ad un nuovo governo. La cosa ha
innescato una crisi che ha tra i protagonisti il Presidente russo Vladimir Putin e come teatro la
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zona russofona dell’Ucraina e in particolare la Crimea dove si trova anche una parte della
flotta militare della Federazione Russa. Qua di seguito c’è la cronologia degli avvenimenti.
CRONOLOGIA DEGLI AVVENIMENTI
21 novembre 2013 - La prima protesta
Il presidente ucraino Viktor Yanukovic respinge gli accordi di associazione con l'Unione Europea e il Deep
and Comprehensive Free Trade Agreement. Scoppia la prima protesta di piazza. Nasce ufficialmente
EuroMaidan.
27 novembre 2013 - Flop del vertice di Vilnius
Fiasco del vertice Eastern Partenership di Vilnius a seguito della mancata firma ucraina sull'accordo con
l'Unione Europea.
30 novembre 2013 - Prime cariche della polizia
Prima carica della polizia a Maidan contro i manifestanti.Da movimento strettamente filo-europeo la
protesta diventa una protesta contro Yanukovic.
1 dicembre 2013 - Occupazione del palazzo municipale
Piazza Maidan diventa una tendopoli, enorme affluenza dei manifestanti. Si arriva ad occupare il palazzo
municipale, iniziativa da ricondurre soprattutto a Svoboda, il partito ultra-nazionalista. E' la protesta più
numerosa dalla Rivoluzione Arancione del 2004-2005.
2 dicembre 2013 - Yanukovic riceve aiuti dalla Cina
Visita di stato di Yanukovic in Cina: ottiene 8 miliardi di aiuti economici. E' il lato finanziario della partita
ucraina, la cui economia è in grande sofferenza.
8 dicembre 2013 - 800 mila manifestanti
Abbattuta la statua di Lenin in una giornata di altissima affluenza: oltre 800 mila persone scendono in strada
a protestare.
14 dicembre 2013 - In piazza i sostenitoridi Yanukovic
La piazza vede in prima linea, seppure numericamente inferiore, anche i filo-governativi.
17 dicembre 2013 - Yanukovic riceve aiuti economici da Mosca
Visita di stato di Yanukovic a Mosca: ottiene un prestito da 15 miliardi di dollari e un enorme tagli sui prezzi
del gas, quasi dimezzato. Putin acquista anche una quota del debito ucraino. L'opposizione insorge e
denuncia accordi sottobanco.
25 dicembre 2013 - Pestaggio della giornalista Tetiana Chornovol
La giornalista e attivista Tetiana Chornovol viene pestata. Per denunciare le violenze centinaia di
manifestanti portano in piazza la sua foto.
16 gennaio 2014 - Le leggi anti-manifestazione
La Rada approva le leggi che limitano drasticamente il diritto di manifestare. Le proteste aumentano
22 gennaio 2014 - I primi morti
E' il giorno dei primi due morti durante le manifestazioni. Il giorno dopo verrà trovato anche il cadavere
dell'attivista Yuriy Verbytsky.
24 gennaio 2014 - Assalto agli enti locali
La protesta esplode nell'ovest dell'Ucraina. Occupati e assaltati i palazzi dei governi regionali. Il gruppo
nazionalista Spilna Prava fa irruzione nella sede di alcuni ministeri a Kiev.
28 gennaio 2014 - Ritirate le leggi anti-manifestazione
Vengono itirate leggi che limitano il diritto di protestate. Si dimette il premier Mykola Azarov vicino al
presidente. In corso consultazioni tra Yanukovic e l'opposizione che chiede una riforma costituzionale ed
elezioni anticipate.
14 febbraio 2014 - Rilasciati 234 manifestanti
Vengono liberati ma le accuse nei loro confronti restano pendenti.
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18 febbraio 2014 - 28 morti, il giorno peggiore
Dopo l'annuncio dell'invio della prima tranche di aiuti da Mosca la protesta finisce nel sangue: 28 morti,
centinaia di feriti.
20 febbraio 2014 - UE decide sanzioni
Sale a 82 il bilancio dei morti, i feriti sono centinaia. L'Unione Europea approva "sanzioni mirate".
21 febbraio 2014 - Accordo tra Yanukovich e opposizioni
A Kiev la delegazione dei ministri degli Esteri di Francia, Germania e Polonia media un accordo tra
presidenza e opposizione: voto anticipato e riduzione dei poteri di Yanukovich. La delegazione russa non lo
sottoscrive.
22 febbraio 2014 - Destituzione di Yanukovich e liberazione della Tymoshenko
La Rada vota la destituzione e l'impeachment per Yanukovich che decade immediatamente. La Tymoshenko,
controversa leader dell'opposizione, viene scarcerata e annuncia che si candiderà alle presidenziali.
23 febbraio 2014 - FMI e UE promettono aiuti
All'indomani del nuovo corso politico si apre di nuovo il capitolo economico. FMI e Ue promettono aiuti ad
un'Ucraina che ha brutalmente rotto con la Russia. Gli aiuti non vengono quantificati. Il Parlamento ucraino
nomina il suo Presidente Olexander Turchynov come presidente ad interim al posto di Yanukovich in attesa
delle nuove elezioni presidenziali fissate per il 25 maggio.
Turchynov è molto legato all’ex primo ministro Yulia Tymoshenko.
24 febbraio 2014
Mandato di cattura per l’ex presidente Yanukovich.
25 febbraio 2014
Turchynov denuncia I rischi di separatism della parte orientale dell’Ucraina (la zona russofona 3 ortodossa) e
della Crimea
26 febbraio 2014
Arseniy Yatsenyuk è il nuovo primo ministro dell’Ucraina. Viene sciolta l’unità di polizia Berkut, accusata di
aver causato la morte di molti manifestanti anti-regime. In Crimea scoppiano proteste tra filorussi e
antirussi: tra questi ultimi membri della minoranza Tatara della Crimea (popolo deportato insieme ai Ceceni
in Asia Centrale nel 1944 da Stalin per timore di una loro possibile collaborazione con i nazisti).
28 febbraio 2014
Uomini armati non identificati appaiono fuori I principali aeroporti della Crimea.
L’ex presidente Yanukovic riappare a Rostov in Russia e dichiara il nuovo governo ucraino non legale.
Sale la tensione in Crimea, repubblica autonoma dell’Ucraina. Fonti ufficiali di Kiev denunciano: «Duemila
soldati russi hanno effettuato un’invasione armata della Crimea».
1° marzo 2014
La Camera Alta, il Consiglio della Federazione russa, ha approvato all’unanimità la richiesta di intervento
armato in Ucraina avanzata dal presidente Vladimir Putin. Chiedendo a Putin di richiamare in patria
l’ambasciatore russo negli Stati Uniti. L’annuncio è arrivato poche ore dopo che il neo-primo ministro del
governo autonomo filo-russo in Crimea, Sergiy Aksyonov, aveva esortato Mosca a intervenire per aiutare a
«ristabilire la calma e la pace» sulla penisola. Immediata la reazione del presidente ad interim dell’Ucraina,
Oleksander Turchinov, che ha convocato una riunione d’emergenza dei vertici della sicurezza dello Stato.
Uno dei leader della vittoriosa rivolta ucraina, Vitali Klitschko, ha chiesto al Parlamento di mobilitare
l’esercito. Su richiesta della Gran Bretagna, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu terrà una riunione straordinaria
sui drammatici sviluppi della crisi ucraina alle 14 di New York, le 20 in Italia.
HOLOMODOR
Holodomor (in lingua ucraina Голодомор), noto informalmente anche come Genocidio ucraino o
Olocausto ucraino, è il nome attribuito alla carestia, di origine dolosa, che si abbatté sul territorio
dell'Ucraina negli anni dal 1929 al 1933 e che causò milioni di morti. Il termine Holodomor deriva
dall'espressione ucraina moryty holodom (Морити голодом), che significa "infliggere la morte attraverso la
fame". In Ucraina, il giorno ufficiale di commemorazione dell'Holodomor è il quarto sabato di novembre.
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Prendendo come riferimento la definizione giuridica di genocidio e le diverse testimonianze storiche raccolte
dagli anni Trenta a questa parte, si può definire il fenomeno come un genocidio provocato dal regime
sovietico. Nel marzo 2008 il parlamento dell'Ucraina e 19 nazioni indipendenti hanno riconosciuto le azioni
del governo sovietico nell'Ucraina dei primi anni Trenta come atti di genocidio. Una dichiarazione congiunta
dell'ONU del 2003 ha definito la carestia come il risultato di politiche e azioni “crudeli” che provocarono la
morte di milioni di persone. Il 23 ottobre 2008 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione nella quale
ha riconosciuto l'Holodomor come un crimine contro l'umanità.
Per approfondire questa tematica vedi anche il filmato http://it.euronews.com/2013/11/22/cannibalismo-esterminio-per-fame-l-ucraina-rivive-il-fantasma-di-stalin/
BABIJ JAR
Babij Jar (russo Бабий Яр, Ucraino Бабин Яр, Babyn Jar) è un fossato nei pressi della città ucraina di
Kiev. Qui, durante la Seconda guerra mondiale fra il 29 e il 30 settembre del 1941, nazisti aiutati dalla polizia
collaborazionista ucraina massacrarono 33.771 civili ebrei. Nei due anni seguenti circa 90.000 ucraini,
zingari e comunisti furono massacrati nel fossato.
Deportazione dei tatari di Crimea
Sürgünlik (parola crimeana che significa esilio) fu la deportazione di tatari di Crimea nel 1944 verso la RSS
Uzbeka.
La deportazione ebbe inizio il 18 maggio 1944 in tutte le località abitate dai crimeani. Più di 32.000 truppe
della NKVD parteciparono all'azione. 193.865 tatari crimeani furono deportati, 151.136 dei quali verso la RSS
Uzbeka, 8.597 verso la RSSA dei Mari, 4.286 verso la RSS Kazaka e i rimanenti 29,846 in diversi oblast della
RSSF Russa.
Dal maggio al novembre 10.105 tartari crimeani morirono di fame in Uzbekistan (il 7% dei deportati nella
RSS Uzbeka). Circa 30.000 (il 20%) morirono in esilio nel primo anno e mezzo, secondo i dati del NKVD,
mentre questa cifra salirebbe al 46% secondo attivisti tatari crimeani.
Gli attivisti crimeani chiedono il riconoscimento del Sürgünlik come genocidio
ANTOLOGIA DI ARTICOLI SULLA CADUTA DI YANUKOVICH
1) L'Ucraina guarda all'Europa solo per allontanare Mosca
Fulvio Scaglione (Avvenire, 25 gennaio 2014)
C'era una volta l’Ucraina, il Paese dove le gente era disposta a soffrire, combattere e anche morire pur di
entrare nell’Unione Europea… A noi occidentali, europeisti stanchi e disillusi, la favola costruita intorno ai
tumulti di Kiev piace molto, è inevitabile. Ma chi può crederci? Chi può davvero pensare che la mancata
adesione al trattato di associazione alla Ue, in cambio peraltro di un trattato con la Russia che di fatto regala
12 miliardi di euro alle casse dell’Ucraina (che non sarà mai in grado di restituirli) e uno sconto del 30% sulle
proprie forniture di gas e petrolio (pari quasi al cento per cento del fabbisogno energetico ucraino) basti a
innescare un simile conflitto? Anche le leggi liberticide, oggi al centro delle polemiche anche internazionali,
sono arrivate dopo due ondate di manifestazioni e hanno, semmai, rivitalizzato la protesta. Certo non l’hanno
generata.
Se leggessimo più attentamente i colori della protesta, vedremmo che l’ansia di avvicinarsi a
Bruxelles ha come propellente decisivo l’antico desiderio di allontanarsi da Mosca. Non a caso
la punta di lancia, nell’organizzazione e nella gestione della piazza, la fanno i militanti di Svoboda, il
movimento della destra nazionalista che incarna, lei sì "europea" come oggi sono i vari Le Pen, Wilders e
Farage che tutti temono vincenti alle elezioni Ue di maggio, un nazionalismo incapace di mediazioni. Nulla di
sorprendente in un Paese dove i sovietici sterminarono milioni di persone con le carestie dei primi anni
Trenta, colonizzando poi il "granaio d’Europa" (che da solo provvedeva a un quarto della produzione agricola
dell’Urss) con la solita campagna di russificazione. Gli ucraini lo chiamano "holodomor", che alla
lettera vuol dire "morte per fame" ma suona per loro come "olocausto".
Il risultato è un Paese diviso, addirittura geograficamente diviso.
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A Est del Dnepr, la grande via d’acqua che collega il Baltico al Mar Nero, c’è l’Ucraina
russofona, russofila e di stampo russo (ovvero, sovietico riformato) anche nella struttura
economica: miniere, quel ch’è rimasto dell’industria pesante, manifatture.
A Ovest, maggioritaria nei numeri, la parte che guarda all’Europa, che ha ripreso con orgoglio
a parlare ucraino, che lavora nei servizi e in un agricoltura sempre più moderna.
Il vero elemento unificante, almeno finora, è anche il più controverso: la dipendenza economica da Mosca. Al
di là dei 1.576 chilometri di confine terrestre, c’è una Russia che per l’Ucraina vale il 20-22% sia
nell’import sia nell’export e, come si diceva, la quasi totalità delle forniture energetiche. È
chiaro che la prospettiva europea rappresenta l’alternativa tanto attesa. Soprattutto, ovvio, agli occhi degli
ucraini che sperano di collegarsi alle reti europee dei servizi o di approfittare della generosa politica agricola
dell’Unione.
Su questa realtà interna si inseriscono, con effetti finora disastrosi, le manovre esterne.
L’Unione Europea si è schierata con l’opposizione all’attuale regime prima ancora che Janukovic voltasse la
schiena a Bruxelles per tornare all’ovile russo. Porre come condizione per la firma del trattato la liberazione
di un politico come Julia Timoshenko, considerata "prigioniera politica" ma prima del carcere sconfessata
dagli ucraini in libere elezioni, poteva essere solo un clamoroso infortunio diplomatico o il modo per spingere
Kiev a rifiutare le forche caudine della sovranità limitata e della sconfessione internazionale, come in effetti è
avvenuto. Il dubbio è legittimo perché le trattative tra Ue e Ucraina sono andate avanti per
almeno dieci anni, essendo partite prima ancora della cosiddetta Rivoluzione Arancione del
2004, e hanno destato la perplessità di molti autorevoli rappresentanti della Ue, per esempio
Olli Rehn, commissario per gli Affari economici e monetari. Bisognerebbe anche capire se la Ue, cui
i problemi non mancano, sarebbe in grado di sostenere l’impegno per l’integrazione dell’Ucraina che, nel
2008 e nel 2010, ha contrattato con il Fondo monetario internazionale aiuti per oltre 30 miliardi di dollari.
Come se questo non bastasse, si muovono sulla scena altri due giganti che hanno agende opposte.
Gli Usa soffiano sulla protesta nella speranza che l’Ucraina possa in futuro diventare una
seconda Polonia, cioè un altro importante anello della catena destinata a contenere le
rinnovate ambizioni della Russia di Vladimir Putin.
Ucraina e Polonia hanno 430 chilometri di confine in comune, la barriera geografica, diplomatica e
psicologica sarebbe imponente. La Russia, ovviamente, ha l’interesse opposto: l’Ucraina ha con la già
fidelizzata Bielorussia quasi 900 chilometri di confine, l’affaccio russo sull’Europa
occidentale può diventare importante. Anche perché il Cremlino a Est deve già fare i conti con
l’intraprendenza e la potenza della Cina, che si sta infiltrando in Asia Centrale: se Mosca si lasciasse sbarrare
la strada anche verso Occidente, la morsa potrebbe diventare difficile da reggere.
I morti di Kiev, e l’organizzazione ormai para-militare della protesta, aprono ora due sole prospettive. La più
lontana, ma anche la più temibile, è l’allargamento dello scontro fino a rendere plausibile una
spaccatura vera, concreta, delle due parti del Paese.
Questa spirale può essere interrotta solo dall’altra ipotesi, e cioè accettare il fatto che il futuro dell’Ucraina
non può essere affidato solo ai risultati del braccio di ferro tra un governo ormai screditato e fallito e una
piazza dominata dalle pulsioni più radicali. Serve un tavolo a cui deve inevitabilmente sedere pure la Russia.
Per capirlo è sufficiente considerare anche solo la questione energetica: al Cremlino basterebbe chiudere i
rubinetti di gas, petrolio e combustibile nucleare per bloccare ogni forma di vita economica in Ucraina. E
nessun altro Paese, o coalizione di Paesi, è in grado di sopperire. E la questione ucraina è diventata così grave
e acuta anche perché sono tuttora irrisolti i rapporti tra la Ue e la Russia, in campo energetico (dove i singoli
Paesi, come Italia e Germania, si sono affrettati a stipulare con il Cremlino importanti e convenienti accordi
individuali), ma non solo.
Così l’Ucraina, invece di diventare un terreno d’incontro, è diventato un terreno di scontro, un campo di
battaglia. Viktor Janukovic, tipico prodotto dell’Ucraina russofila, per ora resta in sella e non v’è segno di
fratture nelle forze di polizia e di sicurezza che si battono contro i dimostranti. Sacrificherà i suoi uomini al
governo per dare qualche soddisfazione alla piazza, sperando nel frattempo che l’aiuto di Mosca, con l’argine
politico internazionale e il soccorso economico, lo aiuti a superare la tempesta. Il che ovviamente servirà solo
a rimandare il problema e a renderlo ancor più acuto. La parola deve tornare alla politica. Prima ciò avverrà,
meglio sarà per gli ucraini.
2) Nella guerra civile a Kiev c’è una terapia choc non riuscita
La lotta per il potere, il mantra degli anni 90, un compromesso che non c’è
Luigi De Biase (Il Foglio, 28 gennaio 2014)
Sabato 25 gennaio, dieci di sera. Una tv americana trasmette di nuovo dalle strade di Kiev: sono immagini
sgranate, si vedono le fiamme, il fumo di un incendio, i copertoni che bruciano e uomini in piedi con le loro
bandiere, ma l’unico particolare che non si riesce a distinguere nella notte dell’Ucraina è proprio il colore
della stoffa che sventola in cima alle barricate. Il paese non è mai stato così vicino alla guerra civile,
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migliaia di manifestanti bloccano Kiev da due mesi e un “consiglio provvisorio” si è insediato a Leopoli per
sostituire le autorità locali. Nel fine settimana i nazionalisti hanno interrotto la tregua con il governo, lo
hanno fatto nelle stesse ore in cui il presidente, Viktor Yanukovich, offriva ai leader dell’opposizione la
testa del premier, il fedele Mykola Azarov, e la guida dell’esecutivo – una trattativa che ora è dirottata
verso il fallimento, così come sono fallite le altre misure studiate da Yanukovich per riportare la normalità,
compresa la legge che cancella il diritto di manifestare. In Ucraina, maggioranza e opposizione si scambiano i
ruoli da una decina d’anni, si sfidano su ogni terreno per il controllo del potere, ma la lotta non genera alcun
vincitore. E oggi a Kiev ci sono gli scontri peggiori capitati in Europa dalla guerra nei Balcani,
due eventi distanti per intensità, che sono legati da una radice comune: la fine del socialismo.
Com’è possibile che l’Ucraina affronti oggi le conseguenze di un sistema morto da venticinque
anni? Ogni altro paese europeo è riuscito a superare il passato, lo ha fatto la Germania orientale dopo
l’unificazione, lo ha fatto la Polonia, ci è riuscita anche la piccola Lettonia, che ha rimpiazzato la sua vecchia
moneta con l’euro da poche settimane. Il processo è avvenuto sempre attraverso uno “choc”, e nella maggior
parte dei casi si è trattato di uno “choc economico” provocato dalle riforme fiscali o da quelle sul processo
produttivo – persino la Russia ha avuto il suo, è accaduto quando Boris Eltsin ha nominato Egor Gaidar
al ministero dell’Economia, nel 1991. Ma ci sono stati choc più profondi, basti pensare all’accordo che ha
diviso la Repubblica ceca dalla Slovacchia. In Ucraina non è mai avvenuto niente di simile, ogni politico
arrivato al governo ha tenuto il paese lontano dalle riforme, ha cancellato la svolta, ha trasformato i rottami
del socialismo in una forma di capitalismo illiberale. Nessuno ha avuto il coraggio di portare a termine il
lavoro sporco della democrazia – e senza lavoro sporco non si raggiunge la beatitudine, direbbe Tom Wood, il
giovane tassista descritto da Paul Auster nel romanzo “Follie di Brooklyn”. I problemi nascono lì.
“Tagliare le catene senza la choc therapy” è stato il motto di Leonid Kuchma, l’uomo che ha guidato
l’Ucraina dal 1993 al 2004.
Il crollo dell’Unione sovietica ha avuto effetti devastanti sull’economia nazionale, all’inizio degli anni
Novanta l’inflazione ha toccato punte del 2.000 per cento, ma Kuchma non voleva che il paese diventasse una
vittima sacrificale del libero mercato – anche a costo di allentare i rapporti con la Russia di Eltsin e Gaidar.
L’Ucraina è entrata nel programma di transizione del Fmi con la rinuncia al rublo (la nuova
moneta, la hryvnya, era stampata in Canada all’inizio ed è arrivata nel ’96), ma ha interrotto
più volte la collaborazione perché la classe dirigente temeva che le regole del Fondo
monetario avrebbero avuto conseguenze “disastrose” sulla stabilità nazionale – c’era anche la
tesi del “complotto americano” per annientare definitivamente i vecchi nemici sovietici.
In quegli anni l’Ucraina ha avvertito i dolori dello choc, ma non ha accettato la cura delle riforme: il vecchio
establishment ha preferito il passaggio delle industrie pubbliche verso cinquanta industriali che hanno
occupato militarmente l’85 per cento dell’economia nazionale. Lo stesso sistema ibrido ha modellato la vita
politica del paese, con i partiti di opposizione in grado di raccogliere molti consensi fra gli elettori, senza mai
riuscire a cambiare gli equilibri di governo.
Nel 2004, anche per entrare nel paese dalla Polonia serviva il visto, un documento che i consolati non
concedevano volentieri perché in quei mesi Ucraina significava “rivoluzione”.
Un ex premier, Viktor Yushenko, aveva portato migliaia di studenti a Kiev alla vigilia delle elezioni
presidenziali: Yushenko era una figura leggendaria per i giovani ucraini, era sopravvissuto a un
avvelenamento (lui stesso aveva attribuito la responsabilità ai Servizi russi) ed era riuscito a convincere
una generazione di connazionali che il paese avrebbe potuto raggiungere l’Europa, proprio come i vicini
polacchi, tagliando i legami con la Russia. Naturalmente il suo programma aveva molti sostenitori a Varsavia,
gli studenti passeggiavano con un nastro arancione al bavero del cappotto (l’arancione era il colore scelto
da Yushenko e dai suoi), organizzavano proteste ai cancelli dell’ambasciata russa e viaggi in pullman verso
Kiev.
La prova di forza durò per tutto l’inverno, una prova di forza che non sarebbe stata possibile senza “spirito
della nazione”, anche se allora pareva che l’unica spinta fosse il desiderio di entrare in Europa. Una volta
vinte le elezioni contro Yanukovich, Yushenko ha lentamente cambiato piani, lasciando
cadere il processo di adesione all’Ue: i suoi elettori aspettavano le riforme, ma le riforme non
sono venute.
Kiev è legata a doppio filo a Mosca, tutti quelli che hanno governato l’Ucraina dal ’91 a oggi hanno affrontato
il problema senza riuscire a risolverlo. La Russia è il primo partner dell’Ucraina negli scambi
commerciali, è il suo primo creditore ed è il primo fornitore di gas e di petrolio. Ma i due paesi
hanno interessi comuni anche sul piano della difesa, come dimostra la grande base della flotta russa sulle
coste della Crimea. Persino il braccio destro di Yushenko, Yulia Timoshenko, ha dovuto firmare accordi
con Vladimir Putin per la fornitura di energia – gli stessi accordi che poi le sono costati il carcere per
corruzione e tradimento.
Nel 2010, durante la campagna per le presidenziali che ha sancito la fine della rivolta arancione e la rivincita
di Yanukovich, pochi pensavano che il futuro del paese si giocasse nella contrapposizione fra l’alleanza con la
Russia e quella con l’Unione europea. Yanukovich ha cercato un accordo con il Fmi per risollevare il paese
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dalla crisi, ha chiesto un prestito da 15 miliardi di dollari, il Fondo monetario ha aperto le trattative ma ha
vincolato il finanziamento alle riforme, in particolare nel settore dell’energia: niente soldi se non sospendete i
sussidi pubblici per il gas. Come Kuchma ai tempi dello “choc”, come Yushenko nei negoziati con l’Ue,
Yanukovich ha evitato il problema, ha scansato le riforme, ha accettato un prestito senza condizioni dalla
Russia, mantenendo l’Ucraina nella melma della stagnazione.
Ora Kiev è un campo di battaglia in mano agli ultras e alle squadre speciali del ministero
dell’Interno, una terra obliqua in cui s’insinuano gli interessi di gruppi sovversivi e dei clan mafiosi. Questo
sistema a economia (e democrazia) “controllata” rende l’Ucraina un paese diverso rispetto ai suoi vicini
europei: le voci politiche primitive come il nazionalismo hanno maggiori possibilità di emergere dalla lotta
contro il governo, ma diventa impossibile trovare un equilibrio. Negli ultimi dieci anni la città ha visto
scontri, proteste, sommosse e rivolte, ma non ha ancora assistito alla vera rivoluzione, ovvero alle riforme che
possono sbloccare l’economia e il sistema politico: è quello lo choc che serve per rinascere. “Siamo alla vigilia
di un periodo doloroso”, dice Vitali Klitschko, ex pugile e leader della nuova opposizione.
“Dobbiamo essere onesti, la nostra industria è ferma ai tempi dell’Unione sovietica e i nostri
prodotti sono sempre meno competitivi. Guardate alla Polonia – prosegue – Considerate il
prodotto interno lordo, la qualità delle infrastrutture e il salario medio dei cittadini. Stanno
molto meglio di noi, eppure quindici anni fa si poteva dire l’esatto opposto”. Ora bisogna
comprendere se Klitschko e i suoi alleati avranno davvero il coraggio di portare a termine il lavoro sporco, di
guidare l’Ucraina lungo la strada della resurrezione.
4) “Grazie Kiev, perché sogni l’Europa"
[IL TESTO DEL DISCORSO DI BERNARD-HENRI LEVY AI MANIFESTANTI DI KIEV]
Bernard-Henri Lévy (Corriere della sera, 12 febbraio 2014)
«In questa piazza sono riuniti tutti i popoli dell’Ucraina! Voi avete un sogno che vi unisce, e il
vostro sogno è l’Europa. Non l’Europa dei burocrati, l’Europa dello spirito».
Questo il messaggio rivolto dal filosofo francese ai manifestanti anti-governativi di Kiev (e anche agli
occidentali cinici e stanchi).
“Popolo della Maidan! In questa piazza sono riuniti tutti i popoli dell’Ucraina. Ucraini occidentali e ucraini
orientali. Ucraini della città e ucraini giunti dalle campagne. Tatari e polacchi. Cosacchi ed ebrei. Ci sono i
nipoti dei sopravvissuti dell’Holodomor, il massacro attraverso la fame orchestrato da Stalin; e quelli di
Babi Yar, il terrificante simbolo della Shoah.
A Parigi, noi abbiamo la piazza della Bastiglia dove si costituì il popolo francese. Voi avete la
piazza della Maidan dove si istituisce il popolo ucraino. Ed è una grande emozione, per un cittadino
della patria dei diritti dell’uomo, essere testimone, in questa piazza, di un momento eccezionale di storia,
come soltanto i grandi popoli producono.
Arseny Iatseniuk, capo del partito della Signora di Kiev imprigionata, ha appena annunciato, da questa
tribuna, la creazione di un «governo parallelo»: al governo nato dalla Maidan, che, fin da ora, ha più
legittimità di quanta ne avrà mai quello delle marionette agli ordini del Cremlino, io rendo omaggio.
Voi avete, popolo della Maidan, un sogno che vi unisce, e il vostro sogno è l’Europa. Non l’Europa dei
burocrati, l’Europa dello spirito. Non l’Europa stanca di se stessa, che dubita della propria vocazione e del
proprio significato, ma un’Europa ardente, appassionata, eroica.
Un’altra emozione, per un europeo giunto dall’Europa che dubita, che non sa più né chi essa sia né dove
vada, è ritrovare qui simile fervore. Voi ci impartite una lezione d’Europa. Voi ci ricordate quanto l’Europa
possa essere meravigliosa se la si strappa a quella che il filosofo tedesco antinazista Edmund Husserl
chiamava la «cenere della grande stanchezza». Sono un cittadino francese. Sono un federalista europeo. Ma
oggi, vedete, in questa piazza Maidan dove si invita l’Europa a tornare alla sua vocazione originaria e al suo
genio, sono anche un ucraino.
Ho torto, quando dico sogno europeo. Poiché nulla è più concreto dell’Europa che mi hanno illustrato via via
gli uomini e le donne che avete messo a capo del vostro movimento: un’Europa che per tutti significa libertà,
modo di governare giusto, lotta contro lo Stato-canaglia degli oligarchi, cittadinanza. Voi date corpo al
progetto europeo. Gli ridate un contenuto e un programma. Date un senso, non «più puro» come ha detto un
poeta francese, ma più preciso, e più ricco, al termine e all’idea d’Europa. Per questo penso che la vera
Europa sia qui. Per questo i veri europei si trovano riuniti nella piazza Maidan. Per questo l’Ucraina non è il
vassallo dell’impero russo che elemosina la propria annessione all’Europa: è, in ogni caso adesso, il cuore
pulsante del continente, e Kiev ne è la capitale.
Popolo della Maidan, fratelli in Europa! Voglio anche dirvi che siamo in tanti, da Parigi a Berlino e altrove, ad
aver inteso il vostro messaggio. So che vi sentite soli. So che avete l’impressione di essere abbandonati da
un’Europa che, volgendovi le spalle, volge le spalle alla propria essenza. È vero. Ma è vero anche che avete
amici nelle società d’Europa. Che avete qui, nelle missioni diplomatiche europee, amici dell’ombra di cui
posso dirvi che sono con voi e agiscono a vostro favore. Sono la vostra speranza; ma voi siete la loro. Se vi
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abbandonano, voi perderete; ma se voi perderete, pure loro perderanno. E lo sanno. Lo sappiamo tutti.
Siamo in milioni ad aver capito che la nostra sorte si gioca in questa piazza dell’Indipendenza che avete
ribattezzato piazza dell’Europa.
Ho la ferma intenzione, una volta tornato in Francia, di dirlo a gran voce: nessuna legittimazione ai bruti che,
come Luigi XIV che faceva incidere sui suoi cannoni «ultima ratio Regis», minacciano di dare l’assalto alla
Maidan; congelamento dei loro averi in tutte le banche dell’Unione e nei paradisi fiscali di cui sappiamo
ormai forzare le porte. Esiste tutta una gamma di sanzioni di cui le democrazie hanno la chiave. Bisogna
ricordarlo incessantemente.
Il presidente del mio paese incontra in queste ore quello degli Stati Uniti d’America: chissà se non lo
convincerà ad associarsi, ancora una volta, a un’operazione di salvataggio di questa parte d’Europa che resta
ostaggio?
Popolo della Maidan, un’ultima parola. Vi lascerò con la tristezza nel cuore poiché so che tutto, nei prossimi
giorni, può succedere, e purtroppo anche il peggio: se, nella lunga storia dei popoli che volevano affermare la
propria sovranità occupando le piazze delle loro città, ricordiamo la piazza della Bastiglia, o la piazza
Venceslao a Praga, o ancora l’agorà ateniese, come non ricordare l’altro modello, l’anti-modello, quello di
Tienanmen e dell’insurrezione soffocata nel sangue?
Ma vi lascerò anche — sappiatelo — colmo di una immensa ammirazione per il vostro coraggio, il sangue
freddo, la saggezza e la misura che sono un esempio per il mondo. La vostra arma è il sangue freddo. La
vostra forza è la determinazione tranquilla, il pathos: da Lisa, la piccola vivandiera, a Vitali Klitschko, l’ex
pugile che forse un giorno sarà presidente della nuova Ucraina, tutti mi avete detto che nulla ormai fermerà
lo spirito della Maidan.
E la vostra forza è il senso di responsabilità, stavo per dire di disciplina, con il quale tenete le barricate e,
dietro le barricate, vi occupate della parte di città che avete liberato. È infatti la stessa parola a esprimere la
considerazione per le città e l’eccellenza delle civiltà.
Civilizzato, nella mia lingua come in quella dei pittori di affreschi che nel X secolo dipinsero la Vergine in
preghiera, con le mani alzate in segno di pace, della vostra cattedrale Santa Sofia, è la parola comune di chi
ama la civitas e di chi porta civiltà.
E la vostra forza, sì, è l’alta civiltà che vi sostiene: al tempo stesso siete abitati, come tutti i popoli d’Europa,
da una parte di storia tragica e criminale. La Russia non esisteva, quando l’Ucraina e Kiev già risplendevano.
In ogni cittadino della Maidan c’è più storia e cultura che nel gradasso di Sochi: un Tarzan che è solo un
Braccio di ferro, un finto uomo forte che è un vero nemico di Santa Sofia e della sua saggezza.
È per questo che vincerete. È per questo che, prima o poi, avrete la meglio sul padrone Putin e il suo valletto
Yanukovich.
Benvenuti in Europa!
6) In Crimea comincia una provocazione militare da manuale di Mosca
Una squadra armata e addestrata cattura il Parlamento a Simferopol e issa la bandiera russa, la piazza invoca
“Putin!”
Anna Zafesova (Il Foglio, 27 febbraio 2014)
Sembra lo scenario più scontato, da manuale della storia sovietica, quello che si sta evolvendo in queste ore
in Crimea: dopo che mercoledì la folla di manifestanti pro russi che aveva cercato di fare irruzione nel
Parlamento è stata improvvisamente respinta dai militanti tartari, sono entrati in azione i professionisti. Un
centinaio di uomini armati ieri ha occupato la sede del Parlamento e del governo a Simferopol. Dopo aver
neutralizzato le guardie hanno issato sul palazzo la bandiera russa. Ai deputati sono stati sequestrati i
cellulari, i giornalisti non possono entrare negli edifici. I telefoni sono staccati, come il sito del governo che
comunica via Facebook. Il tentativo di un negoziato è fallito: il capo del commando ha detto di non avere
nessuna richiesta da avanzare e di “non avere il mandato” di trattare. Chi dovrebbe concederlo non è chiaro,
ma il presidente del Parlamento Vladimir Konstantinov, finora restìo ai tentativi di sollevare in Aula la
questione della secessione, ha messo all’ordine del giorno un referendum sulla secessione dall’Ucraina,
indetto per il 25 maggio e approvato dopo qualche difficoltà con il quorum. Licenziato anche il governo,
troppo prudente nei rapporti con Kiev, e sostituito con un gabinetto guidato da Sergei Aksyonov, capo del
partito filorusso Unità russa.
Davanti al Parlamento di Simferopol centinaia di persone scandiscono “Putin”, “Russia” e chiedono
l’intervento militare di Mosca. In mattinata sette blindati partiti da una base della flotta russa a Sebastopoli
sono stati bloccati sulla strada verso la capitale, e Kiev – dove si è insediato il nuovo governo di Arseny
Yatseniuk – ha ammonito la Russia contro qualunque movimento di truppe non autorizzato. Sono state
interrotte le linee di pullman per Simferopol, per evitare che centinaia di militanti di organizzazioni filorusse
vadano ad aggiungersi alla piazza.
Intanto il deputato Nikolay Moskal sostiene che i Berkut – la polizia anti sommossa delle stragi di Kiev
sciolta dal nuovo governo – hanno isolato la penisola dal continente.
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Sarebbero sempre i Berkut ribelli ad aver occupato il Parlamento: chi ha visto il commando in azione parla di
“professionisti”, non di milizie popolari.
Che sia un’insurrezione spontanea dei radicali filorussi appare però sempre meno probabile. Nella penisola
stanno sbarcando in massa politici russi, dal leader del partito Russia Giusta Serghei Mironov ai “falchi” di
Russia Unita: la campionessa di pattinaggio Irina Rodnina, famosa per il suo tweet razzista contro Obama, la
prima donna nello spazio Valentina Tereshkova, il pugile Nikolay Valuev. Sono le star delle cerimonie di
Sochi, i simboli dell’orgoglio nazionale, che arrivano a sostituire gli emissari di terzo rango della Duma dei
giorni scorsi. Si parla anche dell’arrivo di gruppi pop nazionalisti della playlist del Cremlino. Che forse sono
un segnale perfino più eloquente delle esercitazioni russe al confine occidentale, che il Pentagono fa sapere di
monitorare attentamente.
La diplomazia ucraina ieri ha inviato due note ai russi con richiesta di consultazioni, senza ottenere risposta,
almeno pubblicamente. La Russia insiste sulla legittimità di Viktor Yanukovich, nonostante i suoi stessi
seguaci abbiano ormai appoggiato la coalizione del Maidan. L’ex presidente è sparito una settimana fa,
abbandonando la moglie e facendosi accompagnare dalla cuoca e da sua sorella, che il gossip di Kiev
considera la sua amante storica, ma ieri si è fatto vivo con una lettera nella quale ribadisce di essere ancora in
carica.
Il blitz in Crimea sembra il classico – dagli stati Baltici nel 1939 alle “democrazie popolari” dell’est Europa
nel 1948 – scenario sovietico dell’intervento militare “in difesa” della popolazione ansiosa di passare sotto la
protezione di Mosca, magari con l’aiuto di un governo messo in piedi per l’occasione. Poco praticabile nel
2014, a meno che si voglia tornare alla cortina di ferro (che lascerebbe dall’altra parte anche i conti e le ville
dell’élite russa in Europa). Sempre che la Russia si voglia limitare ad accendere il focolaio in Crimea (inclusa
l’inevitabile rivolta dei tartari che, memori della deportazione di Stalin, tifano il Maidan contro
Putin) per regalare all’Ucraina la sua Cecenia, una spina secessionista che sarebbe tragico tentare di
rimuovere chirurgicamente. Ammesso che Kiev ne abbia la forza. Il Settore di Destra, l’avanguardia della
rivoluzione del Maidan, ha già annunciato che non andrà nella penisola, forse rendendosi conto che è proprio
quello che vorrebbero i “falchi” russi.
8) Crimea, dizionario della (non) guerra
Dall’ipotesi secessione al referendum, dai tartari alla flotta russa nel Mar Nero
Le parole chiave per comprendere la crisi tra Ucraina e Russia sulla penisola
Anna Zafesova (La Stampa, 1° marzo 2014)
Crimea
E’ una penisola di 26 mila km quadrati sul Mar Nero, collegata alla terra ferma da un sottile lembo di terra di
appena 5 km a Perekop. Nota fin dall’antichità – i greci l’avevano colonizzata come Tauride – è stata abitata
da sciti, khazari, unni, controllata dalla Rus di Kiev e da Bisanzio. I genovesi l’hanno strappata ai veneziani
controllandone i commerci per due secoli. Conquistata dai mongoli, diventa il Khanato di Crimea abitato dai
tartari che per secoli insidia i russi, arrivando fino alle porte di Mosca e fornisce schiavi slavi alla Sublime
Porta. Conquistata da Caterina II nella seconda metà del ’700, diventa territorio russo, luogo di villeggiatura
degli zar.
Il passaggio all’Ucraina
Nel 1954 Nikita Krusciov “regala” la penisola all’Ucraina per celebrare i 300 anni dell’unione con la Russia.
Nell’ambito dell’Unione Sovietica si trattava di un passaggio di giurisdizione amministrativa che al massimo
poteva significare il cambio delle insegne, ma comunque non viene visto di buon occhio. Nel 1991 l’Ucraina
diventa uno Stato indipendente e la penisola la segue nonostante un diffuso malumore. Oggi la Crimea ha
uno status di repubblica autonoma all’interno dell’Ucraina, con un parlamento e un governo che hanno sede
a Simferopol.
La secessione
Ipotesi ventilata a più riprese sia dai politici filo-russi della penisola che da Mosca, ma rimasta finora a livello
di propaganda. Dopo la vittoria del Maidan a Kiev il parlamento di Simferopol sotto la pressione della piazza
e dei militari che l’hanno occupato ha indetto per il 30 marzo un referendum sulla “estensione
dell’autonomia della Crimea” che di fatto dovrebbe essere una consultazione sulla secessione dall’Ucraina.
I russi e gli ucraini
La Crimea è abitata da due milioni di persone, il 57% della popolazione sono russi e il 27% ucraini. La lingua
prevalente è il russo.
I tartari
Gli abitanti musulmani del Khanato dal 1400, vengono deportati in Asia Centrale da Stalin durante la
seconda guerra mondiale, con il pretesto che erano inclini al collaborazionismo con i tedeschi. Riescono a
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tornare con la morte del dittatore, ma non possono riavere le terre e le case che gli sono state tolte.
Ottengono diritti di cittadinanza politica e religiosa solo con la perestroika e da allora rivendicano un
maggiore ruolo nella vita della repubblica. Attualmente sono il 12% della popolazione e in maggioranza
sostengono il governo di Kiev e sono contrari a un avvicinamento con Mosca, nemica storica. In piazza negli
ultimi giorni hanno difeso la causa dei Maidan al grido di “Allah akbar” scontrandosi con i manifestanti filorussi.
La flotta del Mar Nero
Una delle quattro flotte della marina militare russa, è di stanza a Sebastopoli, città storica per la gloria
militare di Mosca e base militare. Conta circa 11 mila effettivi più altrettanti di personale e ha circa 60 navi
(parte delle quali dislocati a Novorossiysk, in territorio russo). La sua permanenza in territorio ucraino è
stata oggetto di un contenzioso lungo 20 anni, mentre il presidente ucraino Yushenko voleva sfrattare le navi
russe nel 2017, con Yanukovich nel 2010 l’affitto della base è stato prorogato al 2042. Sebastopoli è sede
anche del comando della marina militare ucraina, ma di fatto è controllata dai russi che continuano a
considerarla più russa che ucraina.
I Berkut
Sono le truppe speciali della polizia che si sono distinte negli scontri a Kiev e alle quali vengono attribuiti i
rapimenti e le torture dei militanti del Maidan, oltre che la strage nelle strade. Disciolti mercoledì dal nuovo
governo ucraino, i Berkut di stanza in Crimea si sono ribellati e hanno partecipato al blitz contro il
parlamento. Il ministero degli Esteri russa ha promesso di fornire ai Berkut in tempi brevissimi la
cittadinanza russa offrendogli così una protezione contro eventuali persecuzioni ucraine per il massacro di
Kiev.
Il governo
Dopo il blitz al parlamento di Simferopol il governo che aveva dichiarato lealtà a Kiev è stato rimosso dai
deputati e al suo posto si è insediato l’esecutivo guidato da Serghei Aksionov, leader della comunità russa. Il
nuovo premier ha subordinato a se stesso tutte le strutture militari, di polizia e di pubblica sicurezza della
penisola, minacciando di licenziamento gli agenti che avrebbero risposto agli ordini del governo centrale di
Kiev.
La piazza
Manifestazioni di qualche migliaio di persone nei giorni scorsi hanno chiesto la secessione dall’Ucraina e
l’adesione alla Russia, eleggendo anche in piazza un “sindaco” di Sebastopoli, l’imprenditore Andrey Chaly,
cittadino russo. Militanti di organizzazioni filo-russe hanno aperto le iscrizioni a “milizie di autodifesa” e
hanno provato a espugnare il parlamento appendendo sull’edificio la bandiera russa. Dopo che sono stati
respinti dai tartari, l’occupazione del parlamento è stata attuata dai militari e dai Berkut, e i manifestanti
sono passati a ruolo di sostegno in piazza.
Gli emissari
Da giorni in Crimea si alternano grossi calibri della politica russa, dai deputati di punta della maggioranza
putiniana della Duma ai leader nazionalisti come Vladimir Zhirinovsky, ad attori e cantanti della play-list del
Cremlino. Tutti promettono agli abitanti della Crimea protezione, sostegno, passaporti russi e aiuti
economici.
La diplomazia
Il governo di Arseny Yatseniuk ha denunciato un’aggressione militare di Mosca contro la Crimea e si è rivolto
al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Kiev ha anche chiesto per mezzo di note diplomatiche alla Russia
“consultazioni urgenti” nell’ambito del Trattato sull’amicizia tra i due Paesi, nonostante il Cremlino non
abbia ancora riconosciuto il nuovo potere ucraino continuando a ritenere legittimo il presidente in fuga
Viktor Yanukovich. Mosca si è rifiutata di aprire un dialogo sostenendo che le vicende in Crimea erano un
“affare interno” dell’Ucraina. In ambito Onu la Russia si è opposta all’invio di una missione di mediatori
considerandola una “ingerenza” nella volontà del popolo della Crimea.
La bomba atomica
Nel 1994 l’Ucraina ha reso alla Russia le testate nucleari ereditate dall’ex Urss. In cambio
Washington e Mosca si sono impegnate a fare da garanti all’incolumità e all’integrità
territoriale del neonato Paese. Il leader nazionalista ucraino Oleg Tyahnybok ha ipotizzato che, dopo
che la Russia ha palesemente violato questo impegno, l’Ucraina abbia diritto a dotarsi di nuovo di un
arsenale nucleare, cosa fattibile in “3-6 mesi” grazie alle tecnologie e alle industrie rimaste dai tempi
dell’Urss.
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PARTE II:
DALLA CADUTA DI JANUKOVICH A OGGI
16 marzo 2014
LA SECESSIONE DELLA CRIMEA
Plebiscito dei filo-russi in Crimea
Il 95% vota per la secessione da Kiev
Usa e Ue: referendum illegale
(www.ilmessaggero.it, 16 marzo 2014)
Il sì all'annessione della Crimea alla Russia ha vinto con il 95%, secondo i primi dati che arrivano.
Il referendum proponeva il ritorno alla costituzione della repubblica di Crimea del 1992 e lo status della
Crimea come parte dell'Ucraina. Le prime reazioni di Usa e Europa sono molto dure:
«Le azioni della Russia sono pericolose e destabilizzanti. Il voto in Crimea, svoltosi sotto la minaccia di
violenze e l'intimidazione di un intervento da parte dei soldati russi, viola le leggi internazionali» è il
commento dell'Amministrazione Obama. La Casa Bianca invita tutta la comunità internazionale «a
condannare le azioni» della Russia, «a intraprendere passi concreti per imporre dei costi» e a «sostenere la
sovranità e l'integrità territoriale dell'Ucraina».
Più tardi c'è stata una telefonata tra i presidenti americani e russo, Barack Obama e Vladimir Putin, che
hanno convenuto di cercare insieme di stabilizzare la situazione in Ucraina. Lo ha reso noto il Cremlino con
un comunicato. Putin, aggiunge la nota, ha detto a Obama che una missione dell'Osce dovrebbe coprire
l'intera Ucraina.
Forte preoccupazione del ministro degli Esteri, Federica Mogherini, sul referendum in Crimea. L'Italia con i
partner Ue, lo «ritiene illegittimo» e «ha sostenuto la risoluzione di ieri dal Cds dell'Onu». C'e «ancora spazio
per fermare la crisi. Tutti i canali diplomatici restano aperti», a patto che Mosca «non annetta la Crimea».
Alta l'affluenza alle urne: alle 17 ora locale aveva votato il 76 per cento degli aventi diritto. Il dato è stato
pubblicato sul sito ufficiale allestito per la consultazione.
I quesiti Due i quesiti del referendum in corso in Crimea, in tre lingue (russo, ucraino e tataro): «Siete a
favore della riunificazione della Crimea con la Russia come entità costituente?» e «Siete a favore
dell'applicazione della costituzione della repubblica di Crimea del 1992 e dello status della Crimea come parte
dell'Ucraina?».
Al voto oltre 1,5 milioni di aventi diritto, in 1205 distretti elettorali, con 27 commissioni elettorali cittadine e
distrettuali. Nel distinto referendum di Sebastopoli sono chiamati al voto 306.000 elettori in 192 seggi. In
tutto, secondo Itar-Tass, una settantina di osservatori da 23 Paesi, compresa l'Italia: si tratta di deputati,
eurodeputati ed esperti europei di diritto internazionale e attivisti per i diritti umani, invitati dalle autorità
locali. Non sono presenti osservatori dell'Osce né della Csi.
A Mosca «Tregua» in Crimea tra Kiev e Mosca sino al 21/3, giorno del primo esame della Duma russa della
legge per l'annessione di terre straniere e della firma della parte politica dell'accordo di associazione Kiev-Ue:
lo ha detto il ministro della difesa ucraino, Igor Teniukh. Fino ad allora non saranno bloccate le unità militari
ucraine in Crimea. «È stato raggiunto un accordo con la Flotta russa del Mar Nero e con il ministero della
difesa russo per una tregua in Crimea sino al 21 marzo», ha dichiarato. «Nessuna misura sarà presa contro le
nostre infrastrutture in Crimea durante questo periodo. I nostri siti militari stanno quindi procedendo con la
fornitura di provviste», ha spiegato.
I soldati russi presenti in Crimea in questo momento sono 22.000, quasi il doppio del limite di 12.500
consentito dagli accordi per la flotta sul Mar Nero, sostiene ancora Teniukh citato dall'agenzia Interfax.
«Questo è il nostro paese e noi non lo lasceremo», ha sottolineato il ministro, che ha poi dato notizia del
ridispiegamento di truppe nelle regioni orientale e meridionale e annunciato che 40mila persone si sono
presentate volontarie per entrare nella Guardia Nazionale istituita per rispondere alla crisi in Crimea.
Ieri la risoluzione presentata al Consiglio di Sicurezza dell'Onu contro il referendum non è
passata per il veto di Mosca. La Cina si è astenuta, mentre gli altri 13 Paesi hanno votato a favore.
Gli Usa hanno commentato indicando "l'isolamento russo". Londra si sarebbe già candidata ad ospitare la
riunione del G7, se la Russia dovesse essere espulsa dal G8 con conseguente cancellazione dell'appuntamento
di Sochi, dove ieri per protesta gli atleti ucraini alle paralimpiadi hanno coperto le medaglie durante le
premiazioni.
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Mosca «rispetterà la scelta degli abitanti della Crimea», la cui volontà viene espressa «nel pieno rispetto delle
norme del diritto internazionale»: lo ha detto Putin in una telefonata alla cancelliera tedesca Angela Merkel
citando lo statuto dell'Onu. Lo riferisce l'ufficio stampa del Cremlino.
Le autorità della Crimea prevedono un'affluenza alle urne molto alta. Secondo alcuni sondaggi, oltre l'80%
vuole la riunificazione con la Russia.
A Odessa, importante città portuale e russofona dell'Ucraina orientale, si svolgono sia
manifestazioni a favore della Russia che a sostegno del nuovo governo di Kiev. La protesta
filorussa è organizzata dal movimento 'Kulikovo Field', che ha montato delle tende nel centro della città sul
Mar Nero e sta raccogliendo firme per la decentralizzazione del potere in Ucraina e per fare del russo la
seconda lingua ufficiale del Paese. Ieri, invece, si è svolta una dimostrazione in favore dell'unità dell'Ucraina
vicino al monumento al Duca di Richelieu.
«È un momento storico, tutti vivranno felici. Stasera festeggeremo». A dichiararlo è stato il premier di
Crimea Sergiy Aksyonov parlando con i giornalisti all'uscita dal seggio dove ha votato per il referendum sul
futuro della penisola.
La Ue: «Referendum illegale» «Il referendum» in Crimea «è illegale e illegittimo e il suo risultato non
verrà riconosciuto». Così il presidente della Ue Herman Van Rompuy e il presidente della Commissione Ue
Josè Barroso in una dichiarazione congiunta.
Il confronto Merkel-Putin La cancelliera tedesca Angela Merkel ha condannato oggi - durante una
telefonata con il presidente russo Vladimir Putin - l'intervento di ieri delle truppe di Mosca nella regione di
Kherson, nel sud dell'Ucraina, ovvero al di fuori dei confini della Crimea. Lo ha reso noto l'ufficio stampa
della cancelleria in un comunicato.
Putin ha insistito con la Merkel sul fatto che il referendum in Crimea rispetta il diritto internazionale. «La
consultazione è in linea con le norme delle Nazioni Unite sul diritto di autodeterminazione dei popoli», ha
dichiarato Putin, «Mosca rispetterà la decisione della popolazione della Crimea». Il persidente russo ha poi
criticato le autorità di Kiev per aver permesso che si formassero «raggruppamenti di elementi radicali»
nell'est dell'Ucraina. «Questo è inquietante», ha detto.
Truppe di Kiev verso i confini Intanto soldati e mezzi blindati ucraini si stanno muovendo verso i confini
con la Russia. Lo sostiene l'agenzia di stampa ufficiale russa Itar-Tass citando la tv ucraina '24' che ha
mostrato immagini di carri armati ucraini trasportati su un treno.
Secondo l'agenzia filo-Cremlino, il treno in questione sarebbe arrivato ieri a Kondrashevskaia Novaia, a 10
chilometri da Lugansk (nell'Est dell'Ucraina) e ci sarebbero stati tafferugli con degli abitanti del posto
contrari al nuovo governo di Kiev.
16 aprile 2014
SCOPPIO DELLA GUERRA NEL DONBASS
(UCRAINA ORIENTALE)
(www.wikipedia.it)
Il Bacino del Donec, noto anche come Donbass (Донецкий бассейн, abbr. Донбасс; it. bacino Doneckij) o
Donbas (ucr. Донецький басейн, abbr. Донбас; it. bacino Donec'kij), è il bacino dell'omonimo fiume della
Russia e dell'Ucraina, il Donec, affluente del Don. È una regione storica, economica e culturale facente parte
dell'odierna Ucraina.
La guerra dell'Ucraina orientale anche indicata come la rivolta o la crisi dell'Ucraina orientale, è
un conflitto ancora in corso che ha avuto inizio il 6 aprile 2014, quando alcuni manifestanti armati, secondo
le testimonianze, si sono impadroniti di alcuni palazzi governativi dell'Ucraina orientale, ossia nelle regioni
di Donetsk, Luhansk e Kharkiv.
I separatisti chiesero un referendum riguardo allo status delle loro regioni all'interno dell'Ucraina i quali si
tennero l'11 maggio 2014.
Intanto, dal 6 aprile, sono state tre le repubbliche che si sono proclamate indipendenti: la Repubblica
Popolare di Donetsk, la Repubblica Popolare di Kharkiv e la Repubblica Popolare di Lugansk.
Tra il 22 e il 25 agosto, l'artiglieria russa, il suo personale e un convoglio umanitario sono stati segnalati da
ufficiali della NATO per aver attraversato il confine in territorio ucraino, senza il permesso del governo
locale. Sconfinamenti si sono verificati sia in zone sotto il controllo delle forze filo-russe sia nelle aree che
non erano sotto il loro controllo, come ad esempio la parte sud-orientale dell'Oblast di Donetsk, nei pressi di
Novoazovsk. Questi eventi hanno seguito il bombardamento sulle posizioni ucraine dal lato russo del confine
riportato nel corso del mese precedente. Il Capo del servizio di sicurezza dell'Ucraina Valentyn Nalyvajčenko
ha detto che gli eventi del 22 agosto sono stati una "invasione diretta da parte della Russia in Ucraina" e
funzionari occidentali ed ucraini hanno descritto questi eventi come una "invasione furtiva" dell'Ucraina da
parte della Russia.
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25 maggio 2014
ELEZIONI PRESIDENZIALI IN UCRAINA
Le elezioni presidenziali in Ucraina del 2014 si sono tenute il 25 maggio (primo turno) e il 15 giugno
(secondo turno). Non hanno partecipato al voto le autoproclamate autorità filorusse della Repubblica
Popolare di Donetsk che occupa gran parte dell'Oblast' di Donec'k e della Repubblica Popolare di Lugansk
che occupa gran parte dell'Oblast' di Luhans'k. Ha vinto con il 54,69% Petro Poroshenko.
Ucraina, il nuovo presidente è Petro Poroshenko. L’oligarca “re del
cioccolato”
(ilfattoquotidiano.it, 26 maggio 2014)
“Gli ucraini hanno sostenuto la scelta dell’integrazione con l’Europa”. Questa è la prima considerazione
dell’oligarca trasformista Petro Poroshenko, ha vinto le elezioni presidenziali in Ucraina al primo turno.
Due rilevazioni lo danno sopra al 50 per cento: la prima al 55,9 per cento, la seconda al 57,3 per cento.
Staccata di molto l’ex premier Yulia Tymoshenko, che avrebbe ottenuto il 12,9 per cento, seguita da Oleg
Liashko, radicale e indipendente, all’otto per cento. Sono state confermate le previsioni dei sondaggi, che
davano il magnate come grande favorito delle presidenziali.
Poroshenko, 48 anni, ha fatto fortuna nell’industria dolciaria con la sua Roshen. Ha una lunga esperienza
politica ed è stato deputato e ministro sia con governi filo-occidentali che con quelli filorussi. Ed è stato
l’unico tra gli oligarchi ucraini ad appoggiare sin da subito la rivolta di Maidan.
Il “re del cioccolato” è a favore dell’integrazione europea dell’Ucraina: “Il mio programma presidenziale
è l’accordo di associazione” con la Ue, ha sintetizzato in un comizio elettorale. Ma è anche consapevole che
l’economia ucraina ha bisogno di buone relazioni con la vicina e potente Russia. D’altro canto, Poroshenko è
conciliante con Mosca: mentre la sua ex alleata Yulia Tymoshenko era a favore di una adesione alla Nato
previo referendum, lui ha già messo le cose in chiaro un mese e mezzo fa, affermando che l’ingresso
nell’Alleanza è “sostenuto da meno del 50%” dei cittadini e non può quindi essere preso in considerazione”.
Laureato in Relazioni economiche internazionali a Kiev, secondo la rivista Forbes Poroshenko è uno dei dieci
uomini più ricchi d’Ucraina e la sua fortuna ammonta a circa 1,3 miliardi di dollari. Il “re del cioccolato” ha
iniziato a fare soldi vendendo semi di cacao, fino a mettere in piedi un vero e proprio impero che spazia dalle
fabbriche di merendine a quelle di auto e bus, dai cantieri navali a una tv, Canale 5, che ha raccontato la
rivoluzione arancione del 2004 dal punto di vista dei manifestanti.
Poroshenko è un moderato capace di raccogliere voti in tutte le regioni: sia nell’ovest nazionalista che nel
sud-est russofono. E le sue possibilità di vittoria sono aumentate in modo esponenziale dopo che l’ex pugile
Vitali Klitschko (ora sindaco di Kiev) ha ritirato la sua candidatura per appoggiarlo.
L’oligarca è entrato in parlamento nel 1998 appoggiando il governo pro-Mosca e nel 2000 è stato tra i
fondatori del partito delle Regioni del deposto presidente filorusso Viktor Yanukovich. Pochi anni dopo è
passato alla corte del filo-occidentale Viktor Yushenko. È stato ministro degli Esteri nel governo Timoshenko
(2009-2010), e poi ministro del Commercio sotto l’acerrimo rivale di “Iulia”, Ianukovich. Ora salirà sulla
poltrona più importante del Paese.
Fra i ribelli di Donetsk “I ceceni? Sì, sono con noi”
Lucia Sgueglia (La Stampa, 29 maggio 2014)
Il terzo giorno dopo la battaglia per l’aeroporto che ha fatto almeno 50 morti tra i miliziani, ultime cifre
ufficiali, gli abitanti di Donetsk si risvegliano al rombo dei motori dei caccia che volano sul centro città. E
cominciano a innervosirsi.
Pieni di rabbia per Petro Poroshenko, il «Willie Wonka che lancia razzi dai Mig». «Reagiremo» per mettere
fine al «terrore», dice da Kiev il presidente in pectore che il 6 giugno in Normandia, ai 70 anni dello sbarco
degli Alleati, si troverà fianco a fianco con Vladimir Putin e Barack Obama.
Strappando, forse, quel «colloquio» che Mosca finora gli ha rifiutato.
«Siamo indignati dal suo comportamento» dice la Signora Irina, 50, contabile nel capoluogo del Donbass
assediato da lunedì dalle truppe di Kiev: «Appena eletto ha già le mani sporche di sangue, è un assassino.
Non capisco come mezza Ucraina abbia potuto votare per lui, è uno strano Paese». «Forse lo avremmo anche
accettato come presidente, se non ci fosse stato un colpo di Stato militare a Maidan» aggiunge Dmitri che fa
volantinaggio per i ribelli in piazza Lenin, appena conclusa una manifestazione di 300 minatori a favore dei
separatisti, novità dopo la fuga del «padrone» Akhmetov.
A sera il rumore dal cielo cambia: ronzio di aerei da ricognizione, per le strade deserte sfrecciano auto nere a
tutta velocità. Gli insorti si preparano alla battaglia finale, nel timore che Kiev, riconquistato lo scalo, sferri
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l’attacco al loro fortino nel mezzo della città. Erette barricate verso i quartieri nord, si insediano in diversi
edifici cittadini dalla sede dei servizi segreti all’ex caserma dell’esercito ucraino, aumentando il rischio di una
battaglia a macchia d’olio a spese dei civili.
Resta il giallo sui 4 osservatori dell’Osce con cui si sono persi i contatti da lunedì nella regione orientale:
sarebbero stati fermati a un posto di blocco dai separatisti filo russi, ma questi ultimi negano.
Nel frattempo, sembrano trovare sempre più conferme le voci sulla presenza di combattenti di cittadinanza
russa, in particolare ceceni, tra i ribelli in città, gettando nuove ombre sul ruolo di Mosca nella crisi. Da
Grozny il discusso leader Kadyrov nega, ricordando che la Repubblica «non ha forze armate in quanto è
un’entità della Russia», ma alcuni suoi concittadini, ammette, potrebbero trovarsi nelle zone di conflitto in
Est Ucraina «per conto proprio». Al Policlinico n. 4 «Studencheskaya» dove si trovano i feriti nell’attacco
all’aeroporto, i miliziani all’esterno di guardia ci respingono bruschi: «Vietato parlare coi feriti, è un ordine
dall’alto». Uno indossa una maglia bianca con la scritta «Daghestan - regione 94», un altro con stazza da
body builder ostenta al braccio la fascia del «Battaglione Vostok» (Oriente), come il gruppo del celebre
comandante ceceno Yamadaev.
E ad ammettere la presenza di combattenti stranieri tra le fila dei ribelli è lo stesso Alexander
Borodai, «premier» separatista, lui stesso con passaporto di Mosca, in una conferenza
stampa nell’hotel Ramada, base dei giornalisti, in polo turchese a maniche corte: «Qui vengono
volontari russi, dalla Russia» dice spiegando di fidarsi ciecamente dei ceceni: «Da quando al
potere c’è Kadyrov, leader indiscutibilmente fedele alla Russia e a Putin, in Cecenia sono
quasi più russi dei russi, veri patrioti». Hanno già sconfitto i propri nemici interni - i ribelli islamisti spiega, e ora «sono pronti a lottare per proteggere la terra russa».
17 LUGLIO 2014
L’ESPLOSIONE DEL VOLO MALAYSIA AIRLINES 17
Aereo abbattuto: 298 morti, 80 bimbi
Kiev: prove contro Mosca. Ira di Putin
Ilaria Morani (www.corriere.it, 17 luglio 2014)
Un Boeing 777-200ER di linea della compagnia Malaysia Airlines è precipitato vicino al confine tra Ucraina e
Russia. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa russa Interfax «è stato abbattuto da un missile terra
aria». Su Twitter la compagnia aerea ha scritto di «aver perso» i contatti con il volo MH17 che viaggiava da
Amsterdam a Kuala Lumpur, precisando che l’ultima posizione registrata era nello spazio aereo ucraino. E il
giorno dopo la tragedia, le storie di chi è scampato alla tragedia e di chi invece è morto sull’aereo, iniziano a
fare il giro del web.
A bordo c’erano 298 passeggeri: tutti sono rimasti uccisi. Si teme che 80 tra le vittime 80 possano essere
bambini, secondo quanto riportano alcuni media ma ancora non ci sono conferme. Sul volo anche un
passeggero italo-olandese e suo figlio, come conferma la Farnesina. Ma le verifiche continuano per escludere
la presenza di altri italiani. Sull’aereo viaggiavano 154 passeggeri olandesi (tra cui l’ italo-olandese e il figlio),
27 australiani, 23 malesi, 11 indonesiani, 6 britannici, 4 tedeschi, 4 belgi, 3 filippini e un canadese. Ci
sarebbero anche 23 statunitensi, 9 inglesi, almeno 4 francesi e nessun russo. Ancora non sono state rese note
le nazionalità delle rimanenti vittime. Un centinaio di passeggeri, secondo i media, erano diretti in
Australia, a Melbourne, per il convegno internazionale dell’Onu sull’Aids in programma dal
20 al 25 luglio.
E per consentire di fare luce su quanto accaduto gli Stati Uniti hanno fatto un appello per un «cessate il fuoco
immediato» in Ucraina. «Chiediamo a tutte le parti interessate - la Russia, i separatisti filorussi e l’Ucraina di appoggiare un cessate il fuoco immediato per consentire un accesso sicuro e senza ostacoli al luogo
dell’incidente da parte degli investigatori internazionali, e al fine di facilitare il recupero dei resti dei corpi»
scrive la Casa Bianca in un comunicato. E il presidente Usa, Barack Obama ha telefonato al premier olandese
Mark Rutte spiegando che gli Stati Uniti sono pronti a fornire «assistenza immediata per supportare una
piena, tempestiva e credibile indagine internazionale senza impedimenti» su quanto accaduto.
Il volo Mh17 è scomparso dai radar a 80 chilometri da Donetsk nei pressi del villaggio di Grabovo nel
distretto di Shakhtarsk, in piena zona di combattimenti. Un consigliere del ministero dell’Interno ucraino,
citato dall’Interfax, ha detto che l’aereo della Malaysia Airlines è stato abbattuto da un missile Buk di
fabbricazione russa. L’aereo sembra essersi spezzato in volo prima dell’impatto. Il Buk ha una gittata
massima di 30 km e una quota massima di tangenza di 14.000 metri: il volo è scomparso dai radar quando si
trovava a quota 10.000 metri.
Eurocontrol, l’organizzazione che gestisce il traffico aereo in Europa, ha diramato istruzioni ai piloti di tutto
il mondo perché evitino l’area al confine fra Ucraina e Russia, lo stesso è stato suggerito dall’Enac per le
compagnie italiane. Vi hanno aderito la Francia, Lufthansa e Alitalia. Lo spazio aereo è stato quindi chiuso.
Dopo la tragedia le borse europee hanno subito un’inversione negativa. Le due scatole nere sarebbero state
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ritrovate dai soldati filorussi che le vorrebbero inviare in Russia: gli stessi miliziani vogliono proclamare tre
giorni di tregua per permettere le operazioni di recupero.
Immediatamente dopo la notizia dell’aereo abbattuto è iniziato un serrato scambio di accuse
tra Kiev e i separatisti-filorussi. «Non siamo stati noi», ha detto ai giornalisti a New York l’inviato russo
all’Onu, Vitaly Churkin. La stessa affermazione arriva anche da Kiev: «Le forze armate dell’Ucraina non
hanno intrapreso azioni contro nessun obbiettivo aereo», ha spiegato il presidente dell’Ucraina, Petro
Poroshenko, «sicuramente si tratta di un atto terrorista». Ma la palla torna indietro con forza, con le parole
del presidente russo Putin: «Non sarebbe successo se Kiev non avesse ripreso l’operazione militare» contro i
ribelli.
Secondo una fonte del ministero della difesa ucraina, i separatisti avrebbero colpito per errore l’aereo della
Malaysia Airlines nel tentativo di centrare un aereo da trasporto ucraino che gli era stato segnalato dalle forze
di difesa anti aerea russe. Non lontano era in volo un Iliushin 76, con viveri per soldati di Kiev. Ma i
separatisti filorussi negano il loro coinvolgimento affermando di non essere in possesso di strumenti di difesa
anti-aerea in grado di colpire obiettivi a un’altezza di 10mila metri. «Testimoni riferiscono di aver visto il
Boeing 777 colpito dalle mitragliatrici», di un caccia Su-25 ucraino, «e poco dopo il jet spaccarsi in due in aria
e precipitare sul territorio della Repubblica di Donetsk». Così la Repubblica Popolare di Lugansk che
controlla militarmente l’area dell’impatto ha fornito la sua versione dei fatti.
Il servizio di sicurezza ucraino (Sbu) ha pubblicato sul suo account YouTube quelle che sostiene siano
conversazioni intercettate tra separatisti filorussi in cui ammetterebbero di avere abbattuto un aereo civile.
In una telefonata effettuata circa 20 minuti dopo lo schianto il filorusso Igor Bezler avrebbe detto a un
funzionario della sicurezza russa dell’abbattimento dell’aereo.
Sia Putin che Obama sono stati informati dell’accaduto, e secondo le loro segreterie, si
sarebbero sentiti al telefono. Dalla Malesia il presidente Najib Razak promette l’apertura di un’inchiesta
per fare luce sull’accaduto: «I responsabili dovranno pagare», ha detto durante una conferenza stampa. E
non è il solo. Molti dei passeggeri del volo erano cittadini di Stati membri Ue, e ora le capitali dei 28, per voce
dei vertici dell’Unione, l’Alto rappresentante Catherine Ashton, ed i presidenti della Commissione José
Manuel Barroso, e del Consiglio Herman Van Rompuy, vogliono «pieno accesso all’area del crash», «piena
cooperazione», e «piena condivisione di tutte le informazioni di rilievo». A pretendere «il lancio senza
ritardo di un’indagine internazionale» è anche il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen,
affinché «i responsabili possano essere portati di fronte alla giustizia». Il segretario generale delle Nazioni
unite, Ban Ki-moon ha aggiunto: «C’è chiaramente bisogno di una piena e trasparente indagine
internazionale».
Sia le forze ucraine che quelle russe sono dotate del sistema missilistico anti-aereo «Buk»,
una classe di missili terra-aria sviluppati dall’Unione Sovietica e dalla Federazione Russa per
abbattere qualsiasi oggetto volante da un aereo ad un drone che voli entro una quota di 14 km
ed ad una distanza massima di 30 chilometri. Il sistema denominato in codice Nato SA-11 «Gadfly»
(Tafano) è trasportato su lanciatori quadrupli montati su sistemi semoventi cingolati. È entrato in servizio
nell’attuale versione nel 1980. Kiev ha accusato i separatisti di aver usato il Gadfly, fornito dai russi, per
abbattere il Jet mentre i filo-russi negano di avere in dotazioni armi di tali potenza. Non è chiaro se uno di
questi sistemi delle forze armate di Kiev fosse schierato anche in Crimea (o nelle due repubbliche separatiste
di Donetsk e Lugansk) e potrebbe essere finito in mano ai filo-russi. Le dimensioni del sistema, basato oltre
che sul lanciatore semovente su un secondo cingolato di comando ed un radar, lo rendono difficilmente
occultabile ai satelliti.
5 SETTEMBRE 2014
IL PROTOCOLLO DI MINSK
Rappresentanti di Ucraina, Russia, Repubblica Popolare di Doneck (DNR), e Repubblica Popolare di
Lugansk (LNR) hanno firmato il Protocollo di Minsk, un accordo per porre fine alla guerra dell'Ucraina
orientale, il 5 settembre 2014. È stato firmato dopo estesi colloqui a Minsk, la capitale della Bielorussia, sotto
gli auspici della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). L'accordo, che ha
seguito diversi tentativi precedenti di cessare i combattimenti nella regione di Donbass in Ucraina orientale,
ha implementato un cessate il fuoco immediato. Tuttavia, l'accordo non ha riuscito nel suo obiettivo di
cessare ogni combattimenti in Ucraina orientale (www.wikipedia.it)
2 NOVEMBRE 2014
ELEZIONI PRESIDENZIALI NEL DONBASS
Il 2 novembre sis ono tenute elezioni presidenziali nelle autoproclamate Repubbliche popolari di Donetsk e
Lugansk. Nella prima è stato eletto capo dell’esecutivo Alexander Zakharchenko e il suo partito ha preso la
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maggioranza in Parlamento. A Lugansk ha vinto Igor Plotnitsky e il suo Partito della pace per la Regione di
Lugansk ha conquistato la maggioranza nel parlamento della repubblica non riconosciuta nel mondo.
AUTUNNO 2014: IL CROLLO DEL PREZZO DEL PETROLIO E LA CRISI
ECONOMICA IN RUSSIA
Pericolo: la Russia è davvero nei guai
Giorgio Dell'Arti (www.gazzetta.it, 22 dicembre 2014)
• Una potenza economica basata su energia ed esportazioni sta crollando a causa della caduta
del prezzo del petrolio e delle sanzioni internazionali. È la Russia [1].
• All’inizio della scorsa settimana il cambio del rublo-dollaro è arrivato a livelli mai visti dal default del 1998,
80 rubli per un dollaro – un calo del 20 per cento in appena una giornata. Martedì l’indice di borsa, l’RTS, ha
chiuso con una perdita del 12,3 per cento, il più forte ribasso dal novembre del 2008 [2].
• Eppure solo un anno fa l’economia russa stava crescendo di circa l’1,5 per cento rispetto al precedente. Il
cambio rublo/dollaro viaggiava poco sopra i 30. Putin preparava la passerella delle olimpiadi invernali di
Sochi. Sì, in Ucraina le cose si stavano agitando ma il presidente era ancora il filo-russo Viktor Yanukovych e
una guerra nell’Europa dell’Est era un’ipotesi che nessuno davvero considerava [3].
• Nel giro di 12 mesi tutto è cambiato. L’economia è entrata in crisi: le sanzioni imposte
dall’Occidente per le interferenze russe nella crisi in Ucraina hanno cominciato a farsi
sentire. E ancora di più si sta facendo sentire il crollo del prezzo del petrolio (anche a causa
della scelta saudita, concordata con gli americani, di mantenere alta la produzione di greggio
e quindi basso il prezzo) che insieme al gas fa il 67 per cento delle esportazioni russe, il 16 per
cento dell’intera economia del paese e il 50 per cento dei ricavi del governo [2].
• Gli idrocarburi sono così fondamentali per i conti di Mosca che il ministro dell’Economia ha annunciato
una manovra correttiva, visto che il bilancio 2015-17 era basato su un prezzo del petrolio intorno ai 100
dollari al barile. E il crollo del greggio è speculare a quelli di rublo e mercato azionario anche nei numeri. Da
giugno il prezzo del petrolio è sceso di quasi il 50 per cento: da inizio anno il rublo è crollato fino al 60 per
cento e l’RTS ha bruciato oltre la metà della sua capitalizzazione [3].
• Politicamente la Russia non è mai stata così isolata negli ultimi 25 anni, cioè da quando è crollato il Muro di
Berlino e si è dissolta l’Unione Sovietica. E oggi la sua economia rischia una recessione profondissima:
stando alle stime della stessa Banca centrale di Mosca, se il Brent si mantenesse a 60 dollari al barile anche
nel 2015 provocherebbe un calo del Pil di quasi il 5 per cento (dell’8 secondo gli analisti Danske Bank) [1].
• Il Pil russo nel 2014 si aggira intorno al +0,5 per cento. Per la prima volta dal 2000 la crescita media
dell’Eurozona, pur debole (0,8 per cento), lascia Mosca dietro le spalle. Peggio ancora: la svalutazione del
rublo sta generando un conseguente effetto inflattivo, allarmando gli strati meno abbienti. Secondo le
previsioni del ministero dell’Economia, l’inflazione alla fine del 2014 raggiungerà il 9 per cento e proseguirà a
crescere nella prima metà dell’anno a venire [4].
• Felix Stanevskiy: «Non sono gli introiti dello Stato a essere particolarmente minacciati. Il ricavato della
massiccia esportazione di petrolio, venduto in caro-dollaro, riempie il budget nazionale. Per giunta il debito
pubblico russo è minimo, le riserve monetarie ammontano a 416 miliardi di dollari (80 dei quali usati
quest’anno per cercare di frenare il crollo del rublo, ndr) e anche le imprese statali e private, attesta il
presidente dell’Unione degli imprenditori Aleksandr Shokhin, hanno mezzi per coprire i loro debiti esteri».
Più che altro è l’imprenditoria privata ad apparire preoccupata per l’estrema insicurezza del cambio con il
dollaro e con l’euro. Nelle aziende russe ci si domanda ogni giorno se il rublo ha raggiunto il fondo e
ricomincerà a risalire o se ci si deve aspettare un altro tonfo [4].
• Intanto nella notte tra lunedì 15 e martedì 16 la Banca centrale ha approvato un clamoroso innalzamento (il
sesto quest’anno) dei tassi di interesse di 650 punti base, dal 10,5 al 17 per cento, per frenare la liquidità e far
riguadagnare terreno al rublo. Mercoledì ha annunciato una serie di misure a sostegno del sistema bancario
(prestiti, allentamento dei requisiti sui capitali, la prospettiva di una ricapitalizzazione). Parallelamente, il
governo ha chiesto ai grandi esportatori di ridurre entro marzo le loro disponibilità in dollari e in euro,
riportandole ai livelli di inizio ottobre. Convertendole dunque in valuta locale. Il risultato è che nella serata di
venerdì 19 il rublo è tornato sotto quota 60, a 59,14 per dollaro, a un passo dai 58,63 della chiusura del
venerdì precedente. Salvi, per adesso. Ma un po’ presto per parlare di missione compiuta [5].
• La Banca centrale russa potrebbe cercare di rallentare il crollo della moneta continuando a usare le riserve
di valuta estera per acquistare rubli sul mercato: ma come ha scritto anche Jennifer Rankin sul Guardian non
si tratta di una soluzione valida sul lungo periodo e non sembra nemmeno in grado di tamponare la crisi
nell’immediato [3]. Come ha detto l’economista di Bank of America, Vladimir Osakovskiy, «se i prezzi del
greggio continueranno a scendere, il rublo farà lo stesso, nonostante la stretta» [5].
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• Dunque quello che è avvenuto all’inizio della scorsa settimana potrebbe essere la prova generale di una
catastrofe. E gli effetti non sono mancati. Zafesova: «I giorni neri del rublo hanno trasformato la
Russia nel posto più conveniente del mondo, con code di chilometri ai confini con la
Finlandia e il Kazakistan, i bielorussi che spazzano via i Suv nei concessionari russi e i cinesi
che quadruplicano le vendite di gioielli e orologi online. All’aeroporto pietroburghese Pulkovo sono
stati avvistati americani cambiare tutti i dollari che avevano in tasca per fare incetta di iPhone 6, che
costavano quasi la metà rispetto all’Europa. A Mosca i negozi di elettrodomestici mostravano scaffali vuoti,
all’Ikea c’erano code lunghissime, la domanda di appartamenti è triplicata in una settimana, i saloni di auto
sono ormai chiusi per esaurimento scorte» [6].
• È stato il Carnevale prima della Quaresima: gli ordinativi dei commercianti per il 2015 si sono fermati,
oppure contengono prezzi aumentati del 15-20 per cento. In molte banche la valuta si è esaurita, mentre gli
uffici crediti sono rimasti chiusi per rivedere al rialzo i tassi dei mutui. Chi non ha avuto pazienza è corso a
comprare un’auto, un frigorifero, almeno a fare la spesa, con i prezzi del «vecchio» cambio. Anche perché
l’esperienza del default del 1998 ha insegnato che, esaurite le scorte, i negozi restano vuoti per non rischiare,
e quando le merci riappaiono sono meno abbondanti e più costose, visto che la Russia importa quasi tutto
quello che consuma [6].
• Dunque l’effetto parallelo del crollo del valore del rublo sotto il peso delle sanzioni occidentali e della caduta
del prezzo del greggio mette in crisi la stabilità della Federazione Russa. Caracciolo: «Obama vuole
far pagare a Putin l’annessione della Crimea e il sostegno ai ribelli dell’Ucraina orientale. Le
sanzioni contro la Russia sono votate a questo. E la Casa Bianca ha appena annunciato che le
inasprirà. Corollario implicito: se le sanzioni dovessero portare alla caduta del regime
putiniano tanto meglio. Come minimo, la guerra economica avrà ottenuto lo scopo primario: ridurre la
Russia alla taglia di fragile potenza regionale, dopo che Putin si era illuso di elevarla al rango di
coprotagonista della scena globale» [7].
• Ma la crisi economica che si aggrava non sembra spingere Vladimir Putin a più miti consigli. Dopo essere
rimasto a lungo in silenzio nei giorni in cui il rublo crollava, giovedì è apparso alla Camera del commercio di
Mosca per rassicurare mercati e concittadini nella rituale conferenza stampa fiume di fine anno: «Una svolta
positiva è inevitabile», ha ripetuto. Non ha chiarito bene come intende uscirne, non ha fatto marcia indietro
sull’Ucraina, non si è mostrato più morbido per ottenere qualche sconto sulle sanzioni occidentali. Ai russi
deve bastare la sua parola e vederlo al comando della situazione, sono stati abituati così [8].
• Putin ha rilanciato l’immagine dell’orso russo che i nemici vorrebbero imbalsamare dopo avergli strappato
unghie e denti. Dragosei: «Non è apparso brillante come al solito, ma ha detto tutto quello che milioni di
spettatori incollati davanti alle tv di Stato si aspettavano da lui. Gli scivoloni del rublo, il calo del petrolio,
l’aumento dei prezzi sono tutte cose create in buona parte dai nemici esterni; “Ma noi ce la faremo”» [9].
• Se le cose dovessero andare avanti così, ha concesso Putin mettendo le mani avanti, all’economia russa
occorreranno due anni per adattarsi a prezzi simili del greggio, per diversificare e ridurre la dipendenza [10].
• L’orso russo, la vodka, la quinta colonna, il poeta Lermontov («oppositore sì, ma patriota»), l’amore, la
Coca-Cola che fa male, la Cecenia e il contratto sul gas con la Cina: in più di tre ore di conferenza stampa
Putin ha offerto ai 1.200 giornalisti presenti, e a tutta la Russia in diretta tv, la sua visione del mondo. E i
russi hanno appena eletto il loro presidente «uomo dell’anno» per la 15esima volta
consecutiva [11].
• Difendere rendita energetica e rublo equivale per Putin a salvare il suo trono. La recente storia
russa rivela una correlazione diretta fra caduta dei prezzi petroliferi, catastrofe finanziaria e crisi del regime
politico. Caracciolo: «Fu così nel 1988, sotto Gorbaciov, quando il crollo del barile contribuì ad accelerare il
suicidio dell’Unione Sovietica. Nel 1998, default e svalutazione della moneta segnarono la fine ingloriosa
dell’esperimento eltsiniano e aprirono la strada, l’anno successivo, alla scalata di Putin al potere. Il 2015 sarà
l’ultimo anno del presidente/zar? Obama sembra scommetterci» [7].
• Putin pensava che il disporre di una potenza nucleare fosse sufficiente per giocare muscolarmente in
termini politici. Ma ha ampiamente sottovalutato il ruolo giocato dalla finanza nella partita. I derivati e le
posizioni lunghe o corte sono oggi importanti quanto le testate o i sommergibili nucleari [12].
• Narduzzi: «Il Cremlino ha pensato di poter agire in un mercato globalizzato tenendo bloccati i meccanismi
di governo dell’economia russa. Putin ha rinviato le privatizzazioni, continuato a concentrare il controllo
sugli asset energetici, creato le condizioni per avere solo soggetti russi nel mercato delle telecomunicazioni e
così via. Produttività e competitività dell’economia russa sono rimaste al palo e con esse la capacità di
produrre i giusti anticorpi per resistere a una tempesta finanziaria. Rimossa la coperta del prezzo del barile,
la Russia ha scoperto di essere, in termini economici, molto più nuda e fragile di quanto non pensasse. Ha
capito che, senza la garanzia collaterale rappresentata dal prezzo del greggio e da quello implicito delle
riserve petrolifere e di gas, gli investitori scappano a gambe levate dagli asset denominati in rubli» [12].
• C’è poi l’interpretazione in chiave geopolitica, che vede nel crollo dei prezzi del petrolio il modo di
provocare una profonda crisi economica in Russia in grado di scatenare una rivolta (più di palazzo che di
piazza) contro Putin in grado di spodestarlo. Qualcuno, poi, sostiene che l’obiettivo finale sia addirittura
quello di smembrare la Russia per potersi appropriare delle sue risorse naturali. A futura memoria, vale la
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pena ricordare quanto ha dichiarato Jason Pidcock, economista di Newton, secondo il quale una Russia
sull’orlo del collasso potrebbe vendere alla Cina parte dei territori della Siberia orientale. Ma qui si sta
andando troppo avanti [5].
• La partita comunque riguarda molto da vicino anche noi europei. Il collasso della Russia avrebbe
conseguenze devastanti sulla nostra sicurezza, non solo economica. Se Putin cadesse, poi, difficilmente
verrebbe sostituito da un fervido cultore delle libertà occidentali. Né si può escludere che con la fine di quel
regime si sveli anche la fine della Russia, scavando un gigantesco buco nero geopolitico, con relative guerre di
successione. Caracciolo: «Scenario del tutto evitabile, se russi e americani – e per quel che contano anche gli
europei – scegliessero la via del compromesso. Molti restano convinti che sull’Ucraina un’intesa si troverà.
Ma il tempo non lavora per la pace. E attenzione a non sottovalutare l’orgoglio di leader disabituati a perdere.
A volte, per salvare la faccia, perdono il trono. Però solo dopo essersi giocato il Paese» [7].
(a cura di Francesco Billi)
Note: [1] Marcello Bussi, MilanoFinanza 20/12; [2] Il Foglio 17/12; [3] Il Post 17/12; [4] Felix Stanevskiy, Il
Foglio 19/12; [5] Marcello Bussi, MilanoFinanza 19/12; [6] Anna Zafesova, Il Foglio 18/12; [7] Lucio
Caracciolo, la Repubblica 18/12; [8] Vito Lops, Il Sole 24 Ore 18/12; [9] Fabrizio Dragosei, Corriere della Sera
19/12; [10] Antonella Scott, Il Sole 24 Ore 19/12; [11] Anna Zafesova, La Stampa 19/12; [12] Edoardo
Narduzzi, ItaliaOggi 19/12.
13 GENNAIO 2015
L’ATTACCO AL BUS A VOLNOVAKHA
Ucraina, colpo d'artiglieria su un autobus: 10 morti e almeno 13 feriti
(www.rainews.it, 13 gennaio 2015)
Dieci persone sono morte e 13 sono rimaste ferite in un bus colpito da un colpo di artiglieria vicino al
checkpoint di Volnovakha, nella regione di donetsk, lanciato dai ribelli filorussi: lo riferisce l'interfax citando
la portavoce dell'amministrazione regionale, ielena maliutina. l'attacco a buhas, nell'ucraina orientale, a circa
35 chilometri a sud ovest della roccaforte ribelle di donetsk. secondo le prime ricostruzioni, il bus trasportava
civili provenienti dalla città costiera di mariupol. e mentre è ancora provvisiorio il bilancio delle vittime, con
altre fonti che parlano di almeno 6 vittime, i ribelli filorussi negano la propria responsabilità: "nella zona c'è
un posto di controllo ucraino ma è situato fuori del raggio d'azione della nostra artiglieria e non siamo in
grado di sottoporlo a bombardamento", ha detto sempre all'interfax un rappresentante del ministero della
difesa dell'autoproclamata repubblica di donetsk. - See more at:
17 GENNAIO 2015
INIZIO DELLA BATTAGLIA DI DEBALSEVE
Da metà gennaio le forze separatiste della Repubblica Popolare di Donetsk cercano di ricatturare la città di
Debaltseve che è sotto il controllo dell’Ucraina dalla controffensiva delle forze di Kiev dal luglio 2014. La città
si trova in una sorta di cuneo incastrato tra le due repubbliche autoproclamate di Donetsk e Lugansk. E’ uno
snodo cruciale per le comunicazioni stradali e ferroviarie.
La battaglia di Debaltseve
(ilpost.it, 10 febbraio 2015)
In Ucraina dell'est i separatisti filo-russi dicono di avere accerchiato una città in cui passa un importante
snodo ferroviario, domani ci saranno nuovi colloqui di pace a Minsk
I separatisti filo-russi hanno annunciato di avere accerchiato e in parte isolato Debaltseve, una piccola città
che si trova a poca distanza da Donetsk, nell’Ucraina dell’est, dove da mesi gruppi di miliziani combattono
per ottenere l’indipendenza da Kiev con il sostegno della Russia. Debaltseve si trova in prossimità di un
importante snodo ferroviario ed è quindi strategica per i ribelli, che stanno provando a estendere il loro
controllo nella regione. La notizia dell’accerchiamento non è stata però confermata dall’esercito dell’Ucraina,
secondo cui è ancora in corso la battaglia per il controllo di una strada principale verso la città. A
Debaltseve e dintorni ci sono migliaia di soldati ucraini che continuano a combattere contro i
ribelli filo-russi. Da lunedì si stima che nella zona siano morti almeno 9 soldati e 7 civili, e che ci siano
state decine di persone ferite.
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La guerra in Ucraina dell’est ha causato fino a ora la morte di almeno 5.300 persone e si parla di almeno un
milione e mezzo di sfollati, che hanno dovuto abbandonare la regione al confine tra Russia e Ucraina
cercando riparo in aree dove non si combatte. Negli ultimi mesi i separatisti filo-russi hanno occupato nuove
porzioni di territorio a sud-ovest di Donetsk, ma al tempo stesso ne hanno perse a nord-est, proprio in
direzione di Debaltseve, una tappa intermedia tra Donetsk e la città di Luhansk ancora più a nord. Le notizie
sulle effettive conquiste da parte dei filo-russi e sulle attività di contenimento da parte dell’esercito ucraino
sono spesso difficili da confermare.
Il conflitto sarà al centro di una nuova serie di colloqui in programma domani, mercoledì 11
febbraio, a Minsk in Bielorussia. All’incontro ci saranno i delegati della Russia e dell’Ucraina con la
partecipazione della Germania e della Francia, che negli ultimi giorni hanno provato a ottenere qualche
apertura da parte del presidente russo Vladimir Putin.
Il cancelliere tedesco Angela Merkel lunedì ha incontrato a Washington DC il presidente degli Stati Uniti
Barack Obama, proprio per parlare di Ucraina dell’est e delle proposte che saranno avanzate per provare a
fermare la guerra. Non ci sono notizie ufficiali sui contenuti della nuova proposta di tregua, ma secondo gli
analisti il piano comprenderà la realizzazione di un’area demilitarizzata intorno al fronte. L’area cuscinetto
dovrebbe avere una larghezza tra i 50 e i 70 chilometri. La nuova soluzione dovrebbe sostituire il piano di
pace di Minsk, basato su un cessate il fuoco sottoscritto da ribelli filo-russi ed esercito ucraino a inizio
settembre 2014. L’accordo non è mai stato rispettato pienamente e i combattimenti sono proseguiti nei mesi
successivi.
Dopo l’incontro con Merkel, Obama ha accusato la Russia di non avere rispettato praticamente
nessuno degli impegni che si era assunta per fermare la guerra. Ha ricordato che per gli Stati Uniti
resta la possibilità di fornire all’esercito ucraino armi e altre risorse per affrontare meglio i ribelli filo-russi,
che secondo la NATO e molti altri paesi occidentali ricevono costantemente armi e risorse dal governo russo,
che però nega questa circostanza. Obama ha detto di avere chiesto ai suoi consulenti militari di “tenere in
considerazione ogni opzione” nel caso in cui falliscano i nuovi sforzi diplomatici. L’annuncio serve più che
altro per fare pressioni nei confronti della Russia prima dei nuovi incontri a Minsk.
Il governo tedesco e quelli di buona parte dell’Unione Europea continuano a ritenere che la soluzione
migliore per la guerra in Ucraina dell’est siano la diplomazia e le sanzioni economiche, che continuano a
essere aggiornate e applicate alla Russia. Lunedì ne è stata decisa una nuova serie, che entrerà però in vigore
solo la prossima settimana e solo nel caso in cui falliscano i nuovi colloqui.
24 GENNAIO 2015
OFFENSIVA DI MARIUPOL
Strage in Ucraina, decine di morti a Mariupol. Kiev: “Mosca è responsabile”
(www.ilfattoquotidiano.it, 24 gennaio 2015)
Lancio di missili Grad sul mercato. E in Ucraina è strage. Decine di morti e quasi cento feriti nell’ultimo
attacco sferrato su Mariupol, dove almeno 30 persone – di cui due bambini – hanno perso la vita.
I separatisti filorussi hanno confermato ufficialmente di aver lanciato un’offensiva su larga scala sulla città
portuale, come ha dichiarato all’agenzia Interfax il leader dei ribelli, Alexander Zakharchenko, ma non
hanno chiarito se sia o meno loro la responsabilità della strage.
Kiev, però, si scaglia contro Mosca “che continua a sostenere le azioni terroristiche nel Donbass”. La
Russia, secondo quanto si legge in una nota del ministero degli Esteri ucraino -,ӏ pienamente responsabile
per le vittime innocenti di Volnovakha, Debaltseve, Donetsk, Mariupol e di molte altre città e villaggi”.
E il presidente ucraino Petro Poroshenko ha anticipato il ritorno dall’Arabia Saudita (dove si trovava
per i funerali di re Abdullah) per poter partecipare il 25 gennaio a una riunione straordinaria del
Consiglio di sicurezza.
Quella di Mariupol è una strage che ha “terrorizzato la popolazione innocente” e che “potrebbe
inevitabilmente portare ad un ulteriore deterioramento delle relazioni Ue-Russia” secondo l’alto
rappresentante della politica estera Ue Federica Mogherini. L’ex ministro degli Esteri italiano
quindi chiede “apertamente alla Russia di usare la sua influenza considerevole sui leader separatisti per
fermare ogni forma di sostegno militare, politico e finanziario. Questo – ha detto in una nota – eviterebbe
conseguenze disastrose per tutti, i responsabili dell’escalation devono fermare la loro azione ostile e dare
seguito ai loro impegni”.
Tregua ancora lontana – Secondo alcuni analisti, i ribelli – che hanno da poco conquistato l’aeroporto di
Donetsk – avrebbero scatenato i nuovi attacchi per poter contrattare un nuovo cessate il fuoco da una
posizione di vantaggio, controllando un territorio più vasto in vista della demarcazione dei “confini”. Mentre
il Cremlino avrebbe interesse a continuare a destabilizzare politicamente ed economicamente un’Ucraina in
cui l’anno scorso è salito al potere un governo filo-occidentale che punta addirittura all’ingresso nella Nato.
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Per ora Zakharcenko dichiara di non voler cercare un compromesso con Kiev per una tregua. Ma in realtà la
porta della diplomazia resta solo socchiusa. Lo stesso Zakharcenko ha sottolineato il 23 gennaio di essere
pronto a parlare con il presidente ucraino Petro Poroshenko. Ma “solo con lui”.
Un accordo di pace appare comunque al momento drammaticamente lontano: saltato il vertice in “formato
Normandia” tra Putin, Hollande, Poroshenko e Merkel previsto il 15 gennaio ad Astana, mercoledì i
ministri degli Esteri dei quattro Paesi si sono incontrati a Berlino e hanno lanciato un appello per il ritiro
delle armi pesanti dalla linea di fuoco.
Ma le ultime stragi di Mariupol e Donetsk rendono chiaro che l’”accordo” è rimasto lettera morta. Mosca
da parte sua potrebbe avere interesse a far proseguire i combattimenti, non per annettersi il Donbass come
ha già fatto con la Crimea, ma per destabilizzare l’Ucraina, la cui economia – da tempo in recessione – è
messa in ginocchio dal conflitto nel sud-est ed è sempre più dipendente dai miliardi degli alleati occidentali e
del Fmi. La Russia – pur in crisi economica – punta inoltre a un’Ucraina federale, dove il sud-est russofono
e in buona parte avverso al governo di Kiev, le permetterebbe di condizionare la politica interna
dell’Ucraina. E scongiurare il suo ingresso nella Nato.
IL NUOVO ACCORDO DI MINSK E IL CESSATE IL FUOCO DEL 15 FEBBRAIO
Cosa prevede il nuovo accordo sul cessate il fuoco in Ucraina
(www.internazionale.it, 12 febbraio 2015)
I leader di Ucraina, Russia, Germania e Francia al termine del vertice di Minsk, in Bielorussia, hanno trovato
un accordo per rilanciare il processo di pace in Ucraina. Il patto è stato firmato anche dai separatisti filorussi.
L’intesa ricalca quella firmata a settembre a Minsk e prevede tredici punti:
1. Cessate il fuoco tra esercito ucraino e separatisti filorussi a partire dalle 00.00 del 15 febbraio.
2. Ritiro dell’artiglieria pesante dal fronte per creare una zona di sicurezza di almeno 50 chilometri. Il
ritiro dovrà partire il 17 febbraio ed essere concluso entro 14 giorni e sarà supervisionato dall’Osce e
dal gruppo di contatto, formato da diplomatici russi e ucraini, rappresentanti dell’Osce e dei
separatisti filorussi.
3. Verifica efficace sul cessate il fuoco e sul ritiro delle armi subito dopo il ritiro dell’Osce, usando tutti i
mezzi necessari, compresi satelliti, droni e sistemi radar.
4. Apertura di un dialogo sulle elezioni nell’est dell’Ucraina e sull’assetto del governo locale nelle
province di Donetsk e Luhansk.
5. Approvazione di indulti e amnistie nei confronti delle persone coinvolte nei combattimenti a Donetsk
e Luhansk.
6. Liberazione di tutti i prigionieri nelle mani dell’esercito ucraino e dei separatisti filorussi.
7. Distribuzione degli aiuti umanitari sulla base delle leggi internazionali.
8. Ripristino delle relazioni economiche e fiscali tra Kiev e l’est del paese (pagamento delle pensioni,
tasse, pagamento delle bollette).
9. La ripresa da parte del governo di Kiev del pieno controllo del confine tra Ucraina e Russia entro la
fine del 2015.
10. Ritiro di tutti i gruppi armati, mercenari e armi straniere sul territorio ucraino.
Disarmo di tutti i gruppi armati illegali.
11. Riforma costituzionale in Ucraina, con l’entrata in vigore di una nuova costituzione entro la fine del
2015. Autonomie speciali alle regioni di Donetsk e Luhansk.
12. Le leggi temporanee sull’autonomia delle regioni dell’est e la modalità delle elezioni dovranno essere
discusse con i rappresentanti delle regioni di Donetsk e Luhansk. Le elezioni si terranno nel rispetto
delle indicazioni dell’Osce.
13. Intensificazione delle attività del gruppo di contatto, per far rispettare gli aspetti rilevanti
dell’accordo di Minsk.
Non tutti i leader hanno accolto positivamente il nuovo accordo. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha
dichiarato che “ora c’è una piccola speranza”, ma ha aggiunto che “non si fa illusioni” e che “c’è molto lavoro
da fare”.
Tra le questioni in sospeso resta lo status della cittadina di Debaltseve, un piccolo centro sotto il controllo
dell’esercito di Kiev e circondato dai ribelli, dove nei giorni scorsi si sono intensificati i combattimenti.
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Ucraina, ancora sangue alla vigilia della tregua
I bombardamenti continuano: almeno 20 morti in poche ore. Cessate il fuoco
fragile. Washington accusa Mosca: «Ha già violato lo spirito degli accordi di
Minsk»
(lastampa.it, 13 febbraio 2015)
Si intensificano i combattimenti nel martoriato sud-est ucraino alla vigilia della tregua prevista dai nuovi
accordi di Minsk. E con essi continua ad allungarsi la scia di sangue. Alla luce della mancata de-escalation
delle violenze, gli Usa hanno accusato Mosca di aver già violato «lo spirito dell’accordo» siglato appena ieri e
di continuare a trasportare equipaggiamenti militari verso il confine con l’Ucraina.
Stando a quanto riportano le autorità ucraine e quelle dei separatisti, sono decine le persone che hanno perso
la vita nelle ultime 24 ore nel Donbass in guerra: un segnale di certo non positivo in vista del cessate il fuoco
che dovrebbe scattare alla mezzanotte tra sabato e domenica. E tra le vittime ci sono molti civili, falciati dai
proiettili di artiglieria e dai razzi che continuano a piovere micidiali sui centri abitati.
Le forze governative fanno sapere di aver perduto 11 uomini tra ieri e oggi, mentre altri 40 sono rimasti feriti.
Gli scontri più aspri si registrano nella “sacca” di Debaltseve: uno snodo ferroviario di grande importanza
attorno al quale i ribelli sostengono di aver circondato migliaia di soldati ucraini e ne chiedono la resa. Il
governo di Kiev, che non vuole cedere quel territorio strategico, nega però che i propri militari siano
completamente accerchiati e la questione rischia di mettere in serio pericolo l’imminente tregua. La pensano
in questo modo numerosi esperti. E anche il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, secondo cui «i reparti
ucraini che si troveranno nella “sacca” anche dopo l’inizio della tregua naturalmente cercheranno di uscirne,
violando il regime del cessate il fuoco».
Lo stesso presidente ucraino Petro Poroshenko è apparso pessimista quando stamattina ha sottolineato che
la pace è ancora «lontana» e che «nessuno ha la certezza che le condizioni firmate a Minsk saranno rispettate
rigorosamente».
Se la tregua non dovesse reggere, Mosca - accusata di sostenere militarmente i separatisti - rischia però
nuove sanzioni da Ue e Usa. Anche se il Cremlino ha ribadito oggi che la Russia è «un Paese garante» dei
nuovi accordi di Minsk, ma «non partecipa al conflitto» nel sud-est ucraino e quindi «non è una parte che
deve adempiere» alle misure concordate nella capitale bielorussa.
A pagare il prezzo più alto in questo conflitto sembrano essere sempre i civili. A Donetsk,
roccaforte dei ribelli, stando ai separatisti locali, nelle ultime 24 ore i bombardamenti dell’artiglieria di Kiev
hanno ucciso almeno tre civili. E a Gorlivka - a nord-est di Donetsk - i filorussi denunciano l’uccisione di
almeno altre quattro persone, tra cui tre bambini. Almeno altri tre civili avrebbero inoltre perso la vita a
Lugansk - l’altro baluardo ribelle - in un bombardamento notturno. E non lontano, nella cittadina di Shastie,
almeno quattro donne sono state uccise dai colpi d’artiglieria - stavolta sparati dai separatisti, sostiene il
governatore locale pro-Kiev - che hanno completamente distrutto il bar in cui lavoravano.
Ma in quelle che si spera siano le ultime ore di sangue prima della tregua, i poco precisi quanto micidiali razzi
Grad hanno portato la morte anche a 40 chilometri dalla linea del fronte uccidendo due persone, tra cui un
bimbo di sette anni, ad Artiomivsk: una cittadina controllata dalle truppe governative.
Proprio per creare una zona cuscinetto ed evitare i bombardamenti sui centri abitati, uno dei 13 punti dei
nuovi accordi siglati ieri a Minsk prevede l’arretramento degli armamenti pesanti a distanza di sicurezza (50140 chilometri a seconda della gittata) a partire da martedì. L’intesa è stata letta come un segnale di
speranza, ma è allo stesso tempo accolta con profondo scetticismo da molti esperti. Sono infatti molte le
ombre che restano sullo sfondo del negoziato: dallo status delle regioni ribelli al controllo dei confini russoucraini. Inoltre non è chiaro come sarà risolta la questione di Debaltseve.
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Ucraina e la nuova guerra fredda (febbraio 2015)