Centro Francescano di Studi sul Mediterraneo
Cognitio cum dilectione
2
collana diretta da
Errico Cuozzo
ISBN 978-88-903688-1-3
© Centro Francescano di Studi sul Mediterraneo
E’ vietata la riproduzione totale o parziale da parte di terzi.
CEFRASM - Centro Francescano di Studi sul Mediterraneo
Convento San Francesco a Folloni, via san Francesco s.n.c., 83048 Montella (AV)
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Il materiale fotografico riprodotto nel testo, ove non diversamente specificato è opera dei singoli
autori. Il materiale fotografico riprodotto nelle tavole, ove non diversamente specificato, è opera
del curatore del presente volume.
In copertina: particolare tratto dal Ms. BNF, fonds ital. 973, De pratica seu arte tripudii di Guglielmo
Ebreo da Pesaro (1463), f. 21v, dal Catalogo della mostra Gardens and Ghettos, VIVIAN B. MANN (a
cura di) (1989), Berkeley, University of California Press.
Redazione editoriale
Gemma Teresa Colesanti
Marina Sarto
Impaginazione a cura di
Fulvia Sarto
Stampato nel mese di ottobre 2010 presso la Tipografia Dragonetti
l.go Piediserra, 10, 83048 Montella (AV)
[email protected]
Le usate leggiadrie
I cortei, le cerimonie, le feste
e il costume nel Mediterraneo tra
il XV e XVI secolo
Atti del convegno - Napoli, 14 /16 dicembre 2006
a cura di
Gemma Teresa Colesanti
Centro Francescano di Studi sul Mediterraneo
MONTELLA (AV)
2010
Comitato scientifico
Brian Catlos
University of California, Santa Cruz
Gemma Colesanti
Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo - CNR
Errico Cuozzo
Università Suor Orsola Benincasa, Napoli
Gugliemo de’ Giovanni Centelles
Accademico Pontificio
José Manuel Gironés
Diretto del centro UNESCO, Valencia
Bernardette Martin-Hisard
Maître de conférences à l’Université Paris I Panthéon - Sorbonne
Jean Marie Martin
École Française de Rome CNRS
Tanja Michalsky
Kunstgeschichtliches Institut - der J. W. Goethe Universität, Frankfurt
Eduardo Mira Gonzáles
Universidad de Alicante
Eleni Sakellariu
Università di Creta
Gerardo Sangermano
Università di Salerno
Tino Santangelo
Vicesindaco di Napoli
Núria Silleras Fernández
University of California, Santa Cruz
Fra Agnello Stoia
Frati Minori Conventuali di Napoli
7
Programma
Le usate leggiadrie
I cortei, le cerimonie, le feste e il costume
nel Mediterraneo tra il XV e XVI secolo
Napoli,
Complesso Monumentale di S. Lorenzo Maggiore
Giovedì 14 dicembre
Saluti
Fra Michele Alfano
Ministro Provinciale dei Frati Minori Conventuali di Napoli
Antonio Bassolino
Governatore della Regione Campania
Rosa Russo Jervolino
Sindaco di Napoli
Alberta De Simone
Presidente della Provincia di Avellino
Nicola Di Iorio
Presidente Comunità Montana “Terminio Cervialto”
José Manuel Gironés
Diretto del Centro Unesco-València
Presiede
Anna Laura Trombetti Budriesi
Università di Bologna
Maria Giuseppina Muzzarelli
Università di Bologna
“Gentigli panni”. Uomini e abiti tra desiderio e mercato, critiche e regole.
Laura Sciascia
Università di Palermo
Costumi di scena: moda e regalità alla corte di Barcellona.
8
Roberta Orsi Landini
CIETA, Centre international d’étude des textiles anciens, Lione
Influenze mediorientali sul costume occidentale
tra Umanesimo e Rinascimento.
Doretta Davanzo Poli
Università di Venezia
“...sponsa possit habere...qualem caudam voluerit”.
Costumi nuziali a Venezia nei secoli XIV e XV.
Presiede
Fra Bernardino Fiore
Frati Minori Conventuali di Napoli
Elisa Varela Rodríguez
Universitat de Girona
La moda e la circolazione dei tessuti
nei paesi della Corona d’Aragona.
Francesca Pirodda
Soprintendenza BAPPSAE delle province di Sassari e Nuoro
Il Rinascimento in armi su un velluto del XVI secolo
nella Sardegna nord-occidentale.
Venerdì 15 dicembre
Presiede
Paolo Cammarosano
Università di Trieste
Michele Bernardini
Università Orientale di Napoli
Le parate militari nel mondo ottomano e centroasiatico.
Miquel Raufast i Chico
CSIC - Institució Milà i Fontanars, Barcellona
Las ceremonias de entrada real en la Barcelona bajomedieval:
una interpretación visual.
9
Guglielmo de’ Giovanni Centelles
Università Suor Orsola Benincasa, Napoli
Trionfare a Roma.
Nadia Zeldes
The Hebrew University, Gerusalemme
Dress, Dancing and Music: Aspects of Renaissance Culture
among Sicilian Jews and Converts.
Roser Salicrú i Lluch
CSIC - Institució Milà i Fontanars, Barcellona
Usi e costumi iberici agli occhi dei viaggiatori europei del Quattrocento.
Patricia Almacergui
Universidad Internacional de Cataluña, Barcellona
La recepcion de los ambajadores castellanos en Samarcanda (1403).
El viaje de vuelta de Ruy González de Clavijo.
Aspasia Papadaki
Università Aperta Ellenica, Atene
Dagli eventi politici alle feste cretesi durante il dominio veneziano.
Presiede
Salvatore Fodale
Università di Palermo
Eduardo Mira Gonzáles
Universidad de Alicante
Alfonso il Magnanimo y Felipe el Bueno.
Fastos y realidades de la Orden del Toisón de oro.
Antonella Putaturo Murano
Università Suor Orsola Benincasa, Napoli
Uno spaccato della Napoli Aragonese nella cronaca figurata,
ms. 801 Pierpont Morgan Library di New York.
Joan Domenge i Mesquida
Universitat de Barcelona
La gran sala di Castelnuovo: uno spazio per la memoria
dell’ “Alphonsi regis triumphus”.
10
Paolo Evangelisti
Camera dei Deputati, Archivio Storico
Costrure comunità, leggittimare la Corona.
Metafore ed icone costitutive del discorso politico francescano
tra Napoli e Valencia (XIII-XV sec.).
Presiede
Errico Cuozzo
Università Suor Orsola Benincasa, Napoli
Tavola rotonda
Sabato 16 dicembre
Presiede
Blanca Garí de Aguilera
Universitat de Barcelona
Giancarlo Lacerenza
Università Orientale di Napoli
Un maestro di danze ebreo alla corte di Ferrante d’Aragona:
Guglielmo da Pesaro.
Francesco Paolo Tocco
Università di Messina
Gioco e fede nella Palermo quattrocentesca: i festeggiamenti dell’Assunta.
Conclusioni
Duccio Balestracci
Università di Siena
11
12
Usi e costumi iberici agli occhi dei viaggiatori
europei del Quattrocento
Roser Salicrú i Lluch
Institució Milà i Fontanals - CSIC (Barcellona)1
Durante il Quattrocento, la Penisola Iberica ricevette un flusso costante
di viaggiatori, in primo luogo nobili, piccoli aristocratici, gentiluomini e
cavalieri, quindi anche patrizi e borghesi, provenienti per lo più dai distinti
territori del Sacro Romano Impero. Questi, come caballeros andantes imbevuti di quella mentalità così ben descritta da Huizinga ne L’autunno del
Medioevo2, facevano il giro dell’Europa inseguendo le emozioni dell’“arte di
cavalleria” non di rado accompagnati da grandi cortei, secondo lo status
nobiliare e l’effettivo desiderio di avventure. Alcuni dei protagonisti di
questa corrente che, in realtà, parte già della seconda metà del Trecento,
nel tardo Quattrocento lasciarono delle relazioni dei propri viaggi3.
Nella Penisola Iberica, come pure altrove, era il loro status o livello sociale
quello che gli consentiva o meno di essere ricevuti nelle corti reali e principesche europee4. Spesso questi nobili e cavalieri facevano una sorta di giro
turistico di corte in corte che gli permetteva di confrontare i propri cerimoniali con quelli delle corti che li accoglievano, senza risparmiarsi però
le visite a quei luoghi che possiamo considerare i principali “siti turistici”
del momento, ovvero i santuari e i luoghi di pellegrinaggio più famosi,
quali Santiago di Compostella e Guadalupe, in Castiglia, o Montserrat, in
Questo lavoro si iscrive nel progetto di ricerca approvato e finanziato dal Ministerio de Educación
y Ciencia spagnolo La Corona de Aragón en el Mediterráneo medieval: puente entre culturas, mediadora entre
Cristiandad e Islam (HUM2007-61131). Sono molto grata alle Dott.sse G.T. Colesanti e M.E. Soldani
per la revisione del testo in italiano.
1
Huizinga (1998), ad esempio, per quanto riguarda all’edizione italiana. Vedasi anche Riquer
(1965, 1967).
2
L’elenco più esaustivo di questi cavalieri è, al momento, quello pubblicato in Salicrú (2004), dove
si menzionano le precedenti rassegne più note, quali Vielliard (1936), Vincke (1959) o Vendrell
(1971). Per un repertorio generale, critico e bibliografico dei testi tedeschi, Paravicini (2001).
3
4
In particolare si veda Paravicini (2000) e Contamine (1982).
237
Catalogna.
Divisa tra i regni di Portogallo, Castiglia, Navarra, Corona d’Aragona e
Granada, nel tardo medioevo la Penisola Iberica acquistò per i viaggiatori,
richiamati dalle tracce del passato islamico e da un presente ancora musulmano, un fascino particolare a cui si andava ad aggiungere la sua mediterraneità5. Perché consentiva, da una parte, di fare una visita cortigiana
a Granada e di recarsi eventualmente sia nei sultanati di Fez, Tlemcen e
Tunisi sia, dal 1415 in poi, nella Ceuta portoghese; dall’altra, in quanto offriva la possibilità di mettere in pratica, alle porte dell’Europa, il binomio
del pellegrinaggio e della lotta contro gli infedeli inerente alla crociata, abbinando la visita a Santiago di Compostella con il coinvolgimento bellico
nelle ostilità della frontiera castigliano-granadina6.
I viaggiatori provenienti dal Nord dell’Europa non avevano soltanto una
mentalità diversa, ma anche abitudini e valori assai dissimili da quelli osservati nell’Europa Mediterranea; così una volta arrivati, si stupivano sovente
delle differenze di atteggiamento, abitudini, usi e costumi. D’altra parte,
come figli della loro epoca, cercavano pure di dimostrare la propria superiorità attraverso i loro testi e narrazioni, ragion per cui le testimonianze
scritte risultano intrise di pregiudizi, di disdegno della diversità e di una
non appropriata valutazione della differenza. Di solito questi personaggi
descrivevano senza cercare di capire, offendendosi facilmente di fronte ad
atteggiamenti e a modi di fare a loro ignoti, fraintendendo e disprezzando tutto ciò che gli era sconosciuto, senza lasciarsi coinvolgere affatto da
quanto li circondava7.
Questa loro attitudine costituisce, però, un chiaro vantaggio per noi, perché ci consente di avvertire molto più facilmente alcune delle differenze
che i nordeuropei percepivano nell’Europa Mediterranea e in particolare nella Penisola Iberica. Indubbiamente non abbiamo la garanzia che le
loro narrazioni si soffermassero su tutto ciò che, di strano e scioccante,
osservavano, ma viceversa è ovvio che almeno quanto di diverso e nega5
Secondo Schmugge (1997), p. 192, “le relazioni scritte consentono concordemente di riconoscere come quasi tutti i pellegrini tedeschi di qualsiasi ceto che varcavano le Alpi per la prima
volta subissero una sorta di ‘shock culturale’ provocato dalle impressioni sconvolgenti del clima
mediterraneo”.
6
Salicrú (2004), Salicrú (2007b).
Nelle parole di Arnold Esch (Esch) (1991), p. 289 riportate da Schmugge (1997), p. 192, “in mancanza di un sistema concettuale sviluppato le osservazioni dei viaggiatori tardomedievali si servono
spesso del confronto con ciò che è famigliare”.
7
238
tivo rilevavano li stupisse; pensavano poi che questo avrebbe potuto far
rimanere stupefatti anche i loro compaesani, sicuramente ritenuti possibili
destinatari e lettori di questi scritti.
I testi di viaggiatori sui quali si richiamerà l’attenzione sono quattro.
Il più antico è quello dei “Viaggi in cerca dell’ideale della nobiltà” del cavaliere svevo Georg von Ehingen8, che percorse la Penisola Iberica e visitò
la Ceuta portoghese nel 1457, accompagnato dal cavaliere di Salisburgo
Georg von Ramsyden e da un araldo. Il titolo del suo rapporto, sebbene
attribuibile a un suo nipote, offre già una prima idea dell’impostazione
dello scritto. Ehingen raffigura se stesso come animato da un ideale e da
uno spirito militare-cavalleresco allo stato puro, che si traduce nella voglia
di lottare contro gli infedeli tanto nella frontiera di Granada quanto a Ceuta. Di conseguenza, si attribuisce non di rado un protagonismo esagerato,
completamente eroico ed epico, e il suo testo finisce per assumere un’aria
smisuratamente fanfarona9.
La seconda testimonianza è quella del viaggio di Leo von Rosmithal, nobile ceco cognato del re di Boemia Giorgio di Podiebrad da parte di sua sorella, che percorse la Penisola tra 1465 e 1467. In questo caso, non soltanto
la narrazione del viaggio non è scritta in prima persona bensì in terza, ma
se ne conservano due versioni, redatte da due persone diverse del suo
seguito10. Come si confaceva all’alto lignaggio del personaggio, Rosmithal
iniziò il suo viaggio in compagnia di una ventina di cavalieri, una cinquantina di cavalli, una carrozza e i propri servitori. Sebbene nel momento di
attraversare i Pirenei si trovasse già senza la carrozza, era allo stesso modo
accompagnato da una comitiva impressionante, che non poteva far altro
che sconvolgere, al suo passaggio, gli abitanti dei luoghi che attraversava.
La ragione ufficiale del viaggio di Rosmithal era il suo pellegrinaggio a
San Giacomo di Galizia; ciò nonostante si ritiene che in realtà avesse anche obiettivi politici e religiosi: voleva probabilmente sondare il sostegno
che suo cognato avrebbe ricevuto dalle corti europee nel conflitto che lo
opponeva a papa Paolo II contro il movimento ussita. L’intenzione più
Si veda, Paravicini (2001), p. 127-133, e per le traduzioni o frammenti di traduzione per la Penisola Iberica Fabié (1879), Letts (1929), García (1999) [1952], Ehrmann (1979), Herbers –
Plötz(1998).
8
L’episodio più notevole diventa, indiscutibilmente, quello in cui racconta di aver risolto un presunto assedio di Ceuta con un suo scontro corpo a corpo con un musulmano quasi gigante; vedasi
in García (1999) [1952], p. 232-233.
9
10
Paravicini (2001), p. 153-157.
239
chiara che animava il viaggio era nondimeno quella di percorrere il mondo
partecipando a tornei e giostre e visitando le corti e i santuari che avrebbe
trovato sul suo cammino.
In questo caso le due narrazioni del viaggio pervenuteci permettono di
osservare la differenza tra i racconti e valutare il tipo d’influenza che la
condizione di ciascuno dei narratori ha avuto sul risultato. Una versione è
redatta dal giovane boemo Venceslas Schaschek, probabilmente d’origine
nobile, e l’altra da un eminente borghese di Norimberga, esperto in giostre
e tornei. I due testi lasciano trapelare temperamenti completamente diversi. Innanzitutto, esiste il contrasto tra un giovane che non ha ancora girato
il mondo e che quindi offre una sorta di racconto iniziatico e, d’altro canto, il racconto di un uomo maturo che ha già viaggiato e percorso grandi
città e corti principesche. Possiamo quindi confrontare le due narrazioni:
da una parte un testo più interessato alla descrizione impersonale, quasi
privo di valutazioni soggettive di giostre, tornei e ricevimenti ufficiali, in
cui l’autore si preoccupa di descrivere tutto ciò che scopre, meravigliandosi di fronte ad un mondo pomposo e magnificente; dall’altra un testo
più breve, meno accurato, che è tuttavia più capace di raccogliere nel dettaglio le impressioni personali e le esperienze comuni del viaggio, un testo
che potremmo definire più pittoresco, diretto e sincero. C’è però sempre,
dietro Rosmithal, l’ironia del grande cavaliere nobile che cerca di essere
ospitato e ben accolto nelle città opulente e nelle corti principesche, interessato quasi soltanto alle feste organizzate in suo onore e ai tornei che gli
possono consentire di dimostrare il suo valore cavalleresco, ma che, tanto
in Castiglia quanto nella Corona d’Aragona, si trova in realtà nel bel mezzo di terre agitate da lotte intestine e quindi incapaci di accoglierlo come
avrebbe desiderato e meritato11.
In terzo luogo, abbiamo a disposizione la testimonianza di Nikolas von
Popplau, un nobile della Slesia che attraversò la Penisola Iberica negli anni
Herbers – Plötz (1998), p. 102-103, Wolfzettel (2000), p. 442. Mentre il testo di Tetzel si conserva nella sua forma originale in tedesco, quello di Schaschek, scritto originalmente in boemo, ci
è pervenuto attraverso una traduzione in latino stampata nel 1577 insieme ad un’edizione sempre
in latino di Tetzel. Per le edizioni, traduzioni o frammenti di traduzione per la Penisola Iberica, si
veda Bonnaffé (1970) [1895], Fabié (1879), Letts (1957), García (1999) [1952], Herbers – Plötz
(1998). Rimando anche a Michaud-Fréjaville (1996, 1997), Colette (1991), Van Crugten (1976),
Briesemeister (2005), Pardo De Guevara (2002), De Matos (1964), Zaragoza (1965), Hrubes
(1971) e Rafaust (2007).
11
240
1484-1485, e che tra gli studiosi iberici è chiamato anche Popielovo12. Il
suo racconto è molto più vicino a quello di Rosmithal che a quello di
Ehingen, e diventa il più fecondo per quanto riguarda la descrizione dei
cerimoniali di corte, soprattutto della corte portoghese.
Infine, faremo riferimento al medico di Norimberga Hieronymus Münzer,
molto più noto rispetto ai precedenti, che percorse la Penisola Iberica negli anni 1494-1495.13 La sua testimonianza ha un carattere assai diverso rispetto alle altre. Il profilo di Münzer non è più quello del nobile o del cavaliere tardomedievale ma dell’umanista curioso che osserva e non giudica,
capace di accettare le differenze senza bisogno di criticarle, di ammirarle e
di guardarle con gli occhi e la mente aperti pur non condividendole14.
Insieme alla luce e al clima mediterraneo, all’occasione di visitare terre
musulmane e alla possibilità di lottare contro gli infedeli, il viaggio attraverso la Penisola offriva ai viaggiatori del Nord Europa l’opportunità di
osservare e di entrare in contatto diretto non soltanto con quanto rimaneva della più antica presenza musulmana, ma anche di far esperienza diretta
della stessa con i mudéjares15. In particolare il vedere che, sia in Castiglia sia
in Catalogna, Aragona e Regno di Valenza, cristiani e musulmani convivevano –o piuttosto coabitavano– gli uni accanto agli altri senza apparenti
problemi, diventava per loro incomprensibile e scioccante.
Sebbene spesso fosse trasmessa in modo confuso e completamente sbagliato, vi era certamente anche una componente di fascino per le tracce
del passato e per l’esistente presenza islamica che i viaggiatori non sempre
riuscivano a nascondere –e che, nel caso di Münzer, non si cerca nemmeno di mascherare–16. Quest’atteggiamento si verificava da una parte per la
Paravicini (2001), p. 220-223. Per le traduzioni o frammenti di traduzione per la Penisola Iberica,
si veda García (1999) [1952], Herbers – Plötz (1998). Rimando anche a Radzikowski (1998),
Paravicini (2000) e Ladero (2000).
12
Paravicini (2001), p. 261-265. Per le traduzioni o frammenti di traduzione per la Penisola Iberica,
si veda Pfandal (1920), García (1999) [1952] e Münzer (1991).
13
La contrapposizione tra i due distinti approcci nell’osservare le differenze, di Münzer e di Rozmithal, è perfettamente rifletta in Wolfzettel (2000).
14
Ovvero i musulmani che nei distinti regni iberici conservarono la loro libertà e la loro religione
sotto il dominio cristiano.
15
Infatti in Münzer diventa difficile trovare qualche critica o rimprovero ai musulmani e alla loro
religione. Münzer condanna soltanto una volta, e in modo lieve, il “falso” profeta Maometto, la cui
legge è osservata dai musulmani “con tutta scrupolosità e devozione” (fatto che pare degno di ammirazione, cosicché sembra che Münzer voglia dare a intendere che i cristiani non abbiano la stessa
encomiabile attitudine verso la propria religione), mentre tutta la cattiveria dei musulmani iberici
16
241
mancanza di comprensione e d’altra, perché i viaggiatori descrivevano le
diverse realtà secondo i propri codici culturali, alterandone quindi il risultato.
Se ci atteniamo alla testimonianza di Tetzel, la curiosità di Rosmithal –che
non visitò Granada ma che senza dubbio ne sentì parlare e che conobbe le
comunità di mudéjares– è evidente, giacché afferma che i “mori” gli consentirono di informarsi sulle loro abitudini e lo condussero a un loro “tempio”, e lì gli mostrarono l’acqua che usavano per lavarsi il viso, le ascelle
e i piedi. Dentro il tempio non c’era nemmeno una pittura, ma soltanto
tantissimi lampadari che dovevano rimanere accesi quando i mori pregavano o “gridavano”. C’era poi un’unica apertura con una volta nel muro al di
sotto della quale si collocava il principale “sacerdote” quando officiava. Vi
si situava lanciandosi poi sul pavimento, aprendo le mani e gridando allo
stile “moro”, con gesti che tutti imitavano17.
La descrizione della moschea e del modo di pregare è indubbiamente elaborata con disprezzo: l’interno del “tempio” è insensatamente vuoto, i
musulmani gridano e si buttano in terra in modo insensato. Fin qui, però,
troviamo un semplice adattamento descrittivo al linguaggio e ai codici culturali del narratore e dei possibili lettori: la moschea diventa chiesa, la preghiera ufficio divino e l’imam sacerdote.
Invece, è infondato il riferimento fatto da Shaschek alla poligamia, assai
poco diffusa tra i musulmani iberici18. A suo dire, ognuno dei saraceni
avrebbe avuto sette mogli19: qualora una di queste non fosse stata più di
suo gradimento, l’avrebbe potuta ripudiare per sposarne un’altra20. In questo caso, dunque, la realtà viene chiaramente manipolata, dal momento
si riduce al modo in cui tengono in schiavitù e maltrattano i prigionieri cristiani nella Granada islamica: Era Granada cárcel horrible de cristianos, en la cual, por lo general, quince o veinte mil de ellos cada año se
veían forzados a durísima esclavitud y arrastrando cadenas, a labrar la tierra como bestias, y a desempeñar los más
inmundos trabajos; los cristianos con las cadenas, que hacía muchos años estaban aherrojados en aquellas durísimas
mazmorras (Münzer) (1991), p. 125 e p. 117-119. L’assai ricca visione che Münzer offre della realtà
islamica della Penisola Iberica meriterebbe, da sola, un approccio che qua, per ragioni di spazio,
siamo soltanto in grado di abbozzare.
17
García (1999) [1952], p. 283-284.
Si veda Marín (2000), p. 445-452. Come segnala l’autrice citando Daniel (1960), p. 135-161, la
poligamia fece parte, tradizionalmente, degli argomenti usati nella polemica antimusulmana per
abbassare l’altezza morale dell’avversario. Rimando anche a Ávila (1995).
18
19
In realtà, e come giustamente segnala Münzer (1991), p. 129, l’Islam consente solo quattro spose
e non sette come indica Shaschek.
20
García (1999) [1952], p. 270.
242
che, pur accettando la possibilità della poligamia, la generalizzazione non
può che essere ascritta a uno screditamento consapevole. Al contrario invece è veritiera la testimonianza per cui, quando i musulmani erano scontenti del loro re, lo detronizzavano o lo uccidevano mettendone un altro al
suo posto, e che questo avveniva con frequenza21 – essendo riscontrabile in
modo rilevante e quasi come luogo comune sia nelle cronache sia nelle fonti
archivistiche coeve22 –: ha un motivato fondamento visto che le lotte intestine
e gli omicidi in seno alla corte della Granada dei nazarì furono costanti per
tutto il Trecento e il Quattrocento23.
Seguendo questa visione spregevole dei musulmani, non stupisce affatto
che l’argomento più comune per disprezzare le genti iberiche fosse la loro
somiglianza e convivenza con i musulmani, una convivenza assai più riprovevole per i monarchi che per il popolo umile.
Quando Rosmithal visitò la Castiglia, il paese si trovava in guerra civile.
Senza dubbio lui si lasciò influenzare dai detrattori di Enrico IV che, per
detronizzarlo, lo screditavano accusandolo di morofilia. Di conseguenza
Rosmithal insistette quasi ossessivamente su quest’argomento: Enrico
mangiava, beveva, si vestiva e pregava alla moresca; riceveva in udienza
seduto per terra su tappeti alla moresca; dalla sua corte, piena d’infedeli,
aveva invece espulso tantissimi cristiani cedendo ai mori le loro terre; era
nemico dei cristiani; infrangeva i precetti della legge e conduceva una vita
da infedele24. Pur essendo questi argomenti frutto di una sostanziale detrazione, vi era nel suo discorso un fondamento reale, conseguenza dell’importanza acquisita alla corte di Enrico dalla così detta guardia morisca, la
guardia del corpo del monarca formata da rinnegati, cavalieri e mercenari
musulmani, per lo più granadini25. Fu questa una delle critiche più diffuse
21
Ivi.
Mentre nel 1447 la regina Maria, moglie di Alfonso il Magnanimo, dichiara che no és indubitat rey
ne senyor de Granada, com los del dit regne sien en gran divisió, e los uns lo hagen per rey, los altres no (Salicrú)
(1999), p. 422, a detta di Álvar García de Santa María intorno alla metà del Quattrocento, i granadini
son gente movible, que de buen talante é amenudo mudan sus Reyes cuando han lugar para ello, e los moros más de
lijero mudan los Reyes que las ropas (García) (1891), I, p. 332 e 364.
22
Per una ricostruzione generale degli agitati secoli XIV e XV nazarì, rimando a Ladero (1989) e
Arié (1990) (sebbene non completamente aggiornati), o Salicrú (1998) e Vidal (2000) per il Quattrocento. Per il Trecento, Vidal (2004).
23
García (1999) [1952], p. 278. Si dovrebbe forse sottolineare una sfumatura importante, cioè che
l’inclinazione di Enrico, così come descritta, è verso i musulmani e non verso la loro religione,
l’Islam.
24
25
Relativamente alla guardia moresca di Enrico IV, si veda Echevarría (1995, 2001, 2006), López
243
e forti mosse contro di lui dai suoi nemici. D’altro canto l’influenza moresca che si faceva sentire in Castiglia sui vestiti e sul cerimoniale,26 dovuta
alla prossimità della frontiera con l’Islam, ai costanti contatti e a forme di
acculturazione, diede seguito a una lettura forse non positiva, ma almeno
incuriosita, dei viaggiatori, soprattutto quando si traduceva in modo suntuario o visuale, in altre parole quando era percepita esclusivamente nelle
forme esterne e non più nelle attitudini o nelle possibili convinzioni.
Così, si parlava con ammirazione di un conte di Burgos che riceveva i visitanti con bellissime ragazze e signore raffinatamente abbigliate alla moresca che, seguendo in tutto e per tutto quell’usanza, ballavano danze molto
graziose in stile moresco. A Medinaceli, dove un nobile ricevette Rosmithal e altri quaranta commensali a pranzo, i piatti furono serviti con una
sorta di sfilata preceduta da trombette e clarini e da due mori con grandi
tamburi secondo l’usanza moresca27.
Rosmithal rimase inoltre sorpreso dal modo di cavalcare dei castigliani,
chiamato alla jineta, che consisteva nel montare a cavallo a mo’ dei musulmani con le staffe molto corte e le ginocchia quasi sulla sella28. Come lui,
altri viaggiatori europei che visitarono la Penisola Iberica, tra cui Popplau,
misero in evidenza questa particolare forma di montare29 diffusa soprattutto in Castiglia e in Portogallo, indubbiamente risultato dell’acculturazione islamica, di secoli di contatto. Costoro rilevavano inoltre – in modo
veritiero – che cristiani e musulmani fabbricavano allo stesso modo gli accessori per montare a cavallo, ovvero selle, freni, staffe e speroni, lavorati
su oro e argento; che i nobili e i cavalieri competevano tra loro per avere i
freni più lussuosi; che anche i loro migliori cavalli provenivano dalle terre
degli infedeli30.
De Coca (1996); su Enrico IV si vedano le sue biografie più recenti, quali Pérez-Bustamante,
Calderón (1998), Sánchez (1999), Suárez (2001) e Martín (2003).
26
Arié (1997), Salicrú (2007a).
27
García (1999) [1952], p. 277, 283.
Montan con los estribos muy cortos, y llevan las rodillas casi sobre la silla, como hacen los moros. L’agilità dei
cavalli jinetes viene anche segnalata (no habiendo visto en mi vida caballos ni gente más ágil; caballos que llaman
jinetes, que quizá no se críen de igual ligereza y gallardía en ninguna provincia de la cristiandad). Ivi, p. 256, 279.
28
29
montan los caballos en silla con muy cortos estribos. Ivi, p. 295.
Sostiene Popplau che las sillas, frenos, estribos y espuelas las fabrican de la misma manera los cristianos que
los paganos. Unos tienen sus monturas plateadas, y algunas doradas. Sus mejores caballos proceden de las comarcas
cercanas paganas, y se llaman potros. El empeño entre ellos consiste en más lujosos frenos, que pagan a precios elevados (Ivi, p. 295), mentre Ehingen fa riferimento a lance e armi muy ricas y al estilo morisco, y hechas con
30
244
Certamente interessanti sono le differenze riscontrate nel cerimoniale liturgico segnalate da Shaschek, sebbene la loro attendibilità debba essere
almeno messa in dubbio. Molte volte queste erano infatti vincolate a critiche assai negative rivolte a quei cristiani iberici che convivevano con gli
infedeli e che, di conseguenza, si pensava ne fossero stati contaminati o
che si presumeva, perlomeno, avessero stemperato il corretto modo di
esprimere la propria fede e religione a causa di quell’influenza.
Ad esempio gli abitanti della città di Olmedo, dove si trovava quel re Enrico così ben disposto verso i musulmani, “sono peggio degli stessi pagani
perché, quando innalzano durante la messa il corpo di Cristo, nessuno
s’inginocchia, ma rimangono tutti in piedi come animali sporchi”31. In realtà, concludeva Popplau, l’unica differenza tra saraceni e cristiani iberici
si poteva percepire nella religione e non nell’educazione, nelle abitudini e
nel comportamento. I cristiani praticavano molto male la loro fede; erano
pochissimi quelli che confessavano i loro peccati, e ancora meno quelli
che digiunavano. Ammettevano poi soltanto due peccati, rubare e uccidere, mentre tutto il resto (frodi, inganni, impudicizie, delitti e mancanze di
ritegno) era accettato e rimaneva, dunque, impunito32.
D’altronde, lo stesso giorno in cui i sacerdoti venivano ordinati e cantavano la prima messa e nei giorni successivi, laici e chierici passeggiavano in città al suono di trombette, ballando, cantando e facendo un gran
chiasso, portando in processione il nuovo sacerdote. Un’abitudine simile
era osservata durante i funerali. Quando qualcuno moriva si portavano in
chiesa vino, carne e pane insieme ad altre pietanze, e i parenti del defunto
seguivano le esequie indossando abiti bianchi e cappucci simili a quelli dei
monaci, che si avvolgevano in un modo particolare. Invece, quelli che asgran maestría, muy fuertes y adornadas (Ivi, p. 233). Per dati realistici sullo scambio e circolazione di bardature,
Salicrú (2007a), p. 96 e ss.
31
García (1999) [1952], p. 251.
Ivi, p. 301. Popplau segnala anche che, con poche eccezioni, il clero di Siviglia (e qui si riferisce
sicuramente al clero della Castiglia o della Penisola Iberica) non sa nemmeno parlare latino; che
non ha incontrato da nessuna parte gente così sciocca e impertinente e che, se uno di loro era stato
almeno una volta a Roma, credeva di possedere tutta la sapienza del mondo o d’averlo visto per
intero. Al contrario Münzer, umanista e buon conoscitore del latino che in latino scrive persino il
suo racconto di viaggio, non soltanto osserva che i Re Cattolici lo capiscono perfettamente –sebbene lo parlino raramente– e che pure gli spagnoli –essendo la loro lingua più vicina al latino che
l’italiano– lo capiscono facilmente, ma che a causa di questo non si preoccupano di perfezionarlo.
Münzer (1991), p. 271 e 277.
32
245
sistevano ai funerali “pagati per piangere” vestivano di nero e piangevano
innalzando alte grida, come fossero stati allegri o ubriachi33.
Probabilmente una delle cose più sorprendenti del racconto di Popplau
è la possibilità di verificare che non vi fossero usi comuni in tutta Europa, neanche tra i ceti nobiliari e i circoli cortesi. Da una parte è chiaro
che Popplau si sentiva molto confortato dal fatto che il re del Portogallo
l’onorasse così tanto da farlo sedere a tavola sempre al suo fianco e da
concedergli, in chiesa, di stare in piedi vicino allo scanno regio. Dall’altra,
però, rilevava l’ignoranza dei cortigiani portoghesi; molti di loro, quando
vedevano l’onorificenza o l’insegna imperiale che il cavaliere sfoggiava, gli
domandavano se l’avesse attaccata da sé, “e così capii che quei signori non
avevano perlopiù visto il mondo, perché non sapevano nulla di quanto
conveniva ad un cavaliere”34.
Il mancato riconoscimento delle insegne imperiali si doveva forse davvero al fatto che i cortigiani portoghesi non avessero girato il mondo35.
Altri comportamenti sembrano però soltanto manifestazioni di codici di
condotta e di espressioni corporali diverse, alcune delle quali ancora oggi
costituiscono elementi di distinzione tra mediterranei e nordeuropei: la
forma e l’intensità dello sguardo, la maggior abitudine e predisposizione al
contatto fisico corporale...
I portoghesi “si comportavano con me”, segnala Popplau, stando a corte e
di fronte al re, “in modo veramente grossolano: mi guardavano così sfacciatamente, senza nascondersene, che il re, con i suoi occhi, parole e gesti,
li allontanava da me per liberarmene (...). Quando rispondevo alle doman33
García (1999) [1952], p. 264. Anche se non sappiamo se ha un fondamento reale, secondo Popplau in Andalusia esisteva un modo particolare di far suonare le campane, che lui riconduce alla
storia e alla vicinanza della frontiera con l’Islam, sebbene in questo caso senza nessun rimprovero:
Tanto en la ciudad [Cordova] como también en todo el territorio de Lozia (Andalucía), no se tocan las campanas
como en Alemania, Francia y otros países, en memoria de haber perdido allí los cristianos el reino de Granada; se
dan golpes de martillos sobre las campanas, como se suele tocar a fuego en Alemania, y no se tocará del modo ordinario, es decir, a vuelo, hasta la reconquista del dicho reino de los moros (Ivi, p. 300).
Ivi, p. 290. La popolazione di Siviglia non sembra più preparata. “Vedendomi con arme, scudo e
copricapo nella chiesa di Siviglia, e sul copricapo una real corona, dissero che forse ero il bastardo
di qualche re”; “non capivano assolutamente nulla di quanto conveniva a un nobile”; “mi chiesero
pure: Cos’è, un imperatore?”; “uno di loro mi domandò se ero cavaliere. Se vedete, gli dissi, le insegne di cavaliere appese nel mio collo, perché mi fate la domanda?” (Ivi, p. 298).
34
35
Questo lo sostiene Popplau che, oltre a ridicolizzare il clero che non ha viaggiato (rimando alla
nota 32), osserva pure che le persone di Siviglia gli porgevano domande tanto strane che potevano
essere formulate soltanto da gente che non aveva mai viaggiato in vita sua (Ivi).
246
de di sua maestà, tornavano correndomi incontro per ascoltare quanto
dicevo e per esaminare il mio costume e le mie insegne”36.
I vestiti e l’apparenza fisica di Popplau non stupivano, d’altronde, soltanto
i cortigiani portoghesi. Una folla di sivigliani lo seguiva quando si recava
a corte o in chiesa; lo scomodavano, come i portoghesi, perché lo stringevano e lo guardavano intensamente come si fosse trattato di uno spettro37.
Perfino la regina di Castiglia rimase così meravigliata dai capelli di Rosmithal, forse per la lunghezza o per il colore, da indurre Tetzel a farne riferimento38. In modo reciproco, Tetzel raccontava che la regina “è una signora
bruna carina” e che le ballerine abbigliate alla moresca, quelle che avevano
allietato la visita presso il conte di Burgos39, erano tutte “brune con gli
occhi neri”40; Popplau segnalava dal canto suo che i portoghesi “sono di
colore bruno e capelli neri”, le donne hanno gli occhi generalmente neri e
belli e lasciano che si guardi liberamente il loro volto41.
Al contrario rispetto a quando l’ignoranza o la percezione della differenza
era imputata agli altri, nel momento in cui erano i viaggiatori a sbagliare o
a non capire, questi si difendevano adducendo le differenze esistenti tra gli
usi nordeuropei o imperiali e quelli che disconoscevano.
L’esempio più chiaro è quello del mancato baciamano di Popplau al sovrano portoghese. La prima volta che Popplau incontrò il re del Portogallo,
ignorandone la pratica, non glielo fece e, quando si ritirò, fu fortemente
rimproverato da un dottore. Ancora a un secondo incontro, quando già
avrebbe dovuto essere, almeno teoricamente, al corrente di quel costume,
aveva atteso che il re gli tendesse la mano e il risultato fu che non gliela baciò nemmeno allora. Soltanto dopo un secondo rimprovero fu informato
che doveva essere lui a prendere la mano del re e a fargli il baciamano. Per
difendersi Popplau non poté far altro che giustificarsi dicendo:
Non sono nato in questa terra. Non conosco le abitudini e l’eti36
Popplau considera che, tra loro, il re era l’unico signore che aveva un alto giudizio (Ivi, p. 293).
Si rilevi che, nel testo corrispondente alla nota successiva, si parla anche di stringere e guardare in
modo intenso.
37
Ivi, p. 298.
38
Ivi, p. 278.
39
Si veda il testo corrispondente alla nota 27.
40
Ivi, p. 277.
41
Ivi, p. 292.
247
chetta della corte. Nessuno me l’aveva detto prima, nessuno di voi
me l’aveva segnalato. Se qualcuno prendesse la mano di sua maestà
imperiale per baciargliela, o di qualsiasi altro re delle mie regioni, per
sua volontà o piacere, senza che prima il re gliel’avesse tesa e offerta,
lo prenderebbero per un animale. Io ho concesso tutto il rispetto
meritato a sua maestà, secondo l’abitudine del mio paese, nello stesso modo in cui lo faccio con sua maestà imperiale. Non si baciano
le mani all’imperatore. Di conseguenza, aspettando che sua maestà
mi tendesse volontariamente la mano invece di impadronirmene io
come un grossolano rustico, non gli ho mancato di rispetto se sua
maestà non me la tese. Quello che nel mio paese è rispettoso in un
altro, molto spesso, è indecoroso, e viceversa. Quindi mi sembra che
mi rimproverate ingiustamente. Se sua maestà vuole, non soltanto le
mani, ma bacerò anche i suoi piedi42.
Purtroppo, questa visione lucida che i viaggiatori avevano di loro stessi
non era adottata nel giudicare le attitudini altrui. Uno degli esempi più
chiari ci viene di nuovo offerto da Popplau per quanto riguarda le abitudini
e i comportamenti a tavola del re del Portogallo, del principe suo figlio e
dei suoi servitori.
Il re, come signore di alta intelligenza, a tavola si accontenta di quattro
o cinque piatti; beve soltanto acqua del pozzo, senza che sia aromatizzata né con zucchero né con spezie, e questo gli basta. Il principe
suo figlio beve vino mescolato ad acqua e, pur con un servizio a parte,
mangia gli stessi piatti di suo padre. A tavola, la loro servitù è solitamente composta da dieci persone che stanno in piedi, in ordine, di
fronte al tavolo. Queste appoggiano in modo volgarissimo le loro mani
e i loro ventri sul tavolo e il re, come un umile signore, è costretto a
soffrire tali scortesie. Sotto il tavolo, ai piedi del re, stanno seduti sei o
otto ragazzi, su ogni lato, per allontanar da lui le mosche con ventagli
di seta. Il re distribuisce loro il suo primo piatto di frutta, quando non
può mangiarlo da solo. Se non ci sono altri invitati a tavola, non fa uso
di coltelli: morde con i denti o spezza con le mani il pane, pur avendo
a disposizione il coltello. Il figlio del re, invece, usa il coltello a tavola.
A tutti e due le pietanze sono servite in piatti e bicchieri ordinari, come
42
Ivi, p. 294.
248
fossero stati principi di una corte di poca importanza43.
La descrizione delle differenze può apparire, d’altra parte, completamente
neutra. Rosmithal raccontava, ad esempio, che in Spagna quando i personaggi importanti realizzavano viaggi via terra, cavalcavano sul dorso di
una mula, e tutti i loro servitori, generalmente trenta o quaranta, dovevano
camminare a piedi al ritmo del signore, procedendo così anche per dodici
o quattordici miglia al giorno. Si direbbe quindi che Rosmithal si rifiutasse di valutare le comitive o i seguiti. Probabilmente anche in questo caso
operava una comparazione, pur velata, con il proprio corteo, composto
inizialmente da una ventina di cavalieri, una cinquantina di cavalli, diversi
servitori e una carrozza, non soltanto, dunque, da una mula e un mucchio
di semplici pedoni.
La comparazione con gli elementi e i parametri conosciuti, fossero stati
questi mentali oppure fisici e reali, fu una delle risorse più utilizzate dai
viaggiatori per descrivere e valutare quello che vedevano, sentivano e che
cercavano poi di esprimere. Era anche un modo di far capire al loro pubblico le proprie esperienze. Mentre un tedesco come Münzer confrontava
le misure di una grande città, la dimensione delle sue mura e la disposizione delle sue chiese a quelle da lui conosciute nei territori imperiali44, un
castigliano come Pero Tafur non poteva far altro, visitando la Germania,
che paragonarla alla Castiglia45, così come un lombardo avrebbe adottato
come metro di paragone la Lombardia46 e un toscano la Toscana47.
Per questa ragione oltre ad insistere sugli occhi, sui capelli e sulla pelle
scuri, e sui vestiti scollati delle donne, il miglior modo di far capire l’aspetto degli iberici ai lettori e a un possibile pubblico tedesco era paragonare
il loro aspetto a quello degli zingari che si aggiravano intorno alle terre
imperiali48.
In questo modo gli iberici, prima perlopiù identificati con quei mori la cui
presenza nella Penisola Iberica era praticamente il leit-motiv dei testi dei
viaggiatori di cui abbiamo parlato, finirono per trasformarsi in zingari im43
Ivi, p. 293-4.
44
Münzer (1991).
45
Tafur (1982) [1874].
46
Monga (1985).
47
Frescobaldi, Gucci & Sigoli (1948).
Su aspecto es del de los gitanos que merodean por nuestras tierras. Por lo demás, llevan la vida de aquéllos, robando
y haciendo fechorías. García (1999) [1952], p. 284.
48
249
periali. I viaggiatori, potremmo dire, finivano per non viaggiare, facendo
piuttosto viaggiare in direzione delle loro terre quelli che osservavano –gli
iberici, come zingari, verso l’Impero–, e gli abitanti delle loro terre, gli
zingari, verso le terre dei “mori” iberici che visitavano. Non si adattavano
affatto alle terre che visitavano e nemmeno adattavano a queste le loro
esposizioni; al contrario, quello che facevano era adeguare le terre visitate,
con i loro usi, costumi, abitudini, feste e cerimonie, a se stessi.
250
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