GRANDE CJARGNE GRANDE CJARGNE dalla moda alla cucina, dal cinema al teatro... scopri quanto c’è di carnico nel mondo GRANDE CJARGNE Si ringraziano per la preziosa collaborazione Museo Carnico delle Arti Popolari, Tolmezzo Museo Paleontologico, Portogruaro Comune di Tolmezzo Comune di Ravascletto Cineteca del Friuli Snaidero SpA prof. Gilberto Ganzer Attiliana Argentieri Zanetti Giuliano Cossetti Gianfranco Intilia Anna Linussio Bruno Machin Fabio Mansutti Maurizio Puntin Servizio Sviluppo Area Montagna e supporto “Fondazione Dolomiti” Cristiana Mainardis Federica Mecchia Foto Provincia di Udine, Comune di Tolmezzo, Museo delle Arti Popolari-Tolmezzo, Museo Paleontologico-Portogruaro, Archivio Snaidero, Alessandro D’Osualdo, Comune di Ravascletto, Dante Spinotti, Cineteca del Friuli, Archivio Candotti Correzioni testo friulano a cura di Linda Picco Ideazione Alessandro D’Osualdo Editore Stampa Tipografia Menini ISBN: 9788898705023 Opera non in vendita © Provincie di Udin/Provincia di Udine L’editore si riserva di adempiere ai diritti d’autore relativi alle immagini usate e delle quali non gli è stato possibile risalire alle fonti. La Carnia riserva continue e importanti sorprese e scorrendo questo libro ne abbiamo un’ulteriore prova. Grande Cjargne raccoglie, infatti, le storie di alcuni personaggi che hanno conquistato visibilità internazionale in ambito artistico, teatrale e intellettuale. Uomini e donne legati a una terra che ha saputo emergere e far parlare di sé attraverso persone che si sono distinte per grandi capacità ma soprattutto per intuito, intraprendenza, voglia di fare e di dare concretezza a idee, progetti, iniziative che hanno avuto poi riflessi significativi anche sullo sviluppo locale. Questa è una caratteristica vincente, peculiare dei carnici di ieri - ai quali è dedicato il libro - e di quelli di oggi, a dimostrazione di quanta ricchezza sia racchiusa in questo territorio tutt’altro che marginale e periferico. Un territorio che deve la sua trasformazione anche alle esperienze vissute al di là dei suoi confini: l’emigrazione, a esempio, è stata una necessità che i personaggi raccontati in questo libro hanno saputo mettere a frutto a favore della loro terra d’origine. Terra dove in tanti hanno fatto ritorno con un bagaglio di conoscenze, saperi, culture che ha arricchito questo territorio. Nel sostenere quest’inedita iniziativa editoriale, la Provincia di Udine auspica che le vicende, proposte in chiave accattivante per i ragazzi e in maniera coinvolgente per gli adulti, siano fonte di motivazione, orgoglio e fierezza per la Carnia di oggi. Inducano i giovani, in particolare, ad avere coraggio, a non aver paura di confrontarsi con il mondo, a credere e a sviluppare idee e progetti muovendosi nel solco dell’esperienza tracciata dai loro avi che, guardando ai loro vissuti, potremmo definire veri e propri rivoluzionari. Un invito, insomma, a seguire l’esempio di questi personaggi per poter dare alla Carnia nuove speranze e prospettive per il futuro. Ne trarremmo tutti beneficio. il Presidente della Provincia di Udine Prof. Pietro Fontanini Nel 1965 il Sen.Avv. Guglielmo Pellizzo nella prefazione alla “Guida illuminata e appassionata del Museo Carnico delle Arti e Tradizioni popolari”, che allora scrisse in qualità di Presidente della Società Filologica Friulana editrice del volume, sosteneva: “Noi guardiamo alla Carnia, come alla culla della nostra razza, in cui si sposano la forza celtica con la gentilezza mediterranea. I lunghi inverni, una vita patriarcale semplice, ma non misera, un’intatta fiducia nei valori della vita fecero fiorire il ferro, il legno, la pietra, lasciando anche nel più umile oggetto l’impronta dello spirito…”. Subito dopo il Sen. Prof. Michele Gortani aggiungeva: ”Amor mi mosse che mi fa parlare… amore verso la mia terra e la sua gente, la sua vita, le sue tradizioni; tanto più forte, quanto è più povera, dimenticata, priva di appoggi e di aiuti”. Come non condividere, specialmente con le nuove generazioni, queste parole e l’orgoglio che da esse scaturisce, di essere parte viva di questo popolo Carnico il cui passato travagliato e spesso misconosciuto, ha regalato bagliori grandiosi attraverso tanti suoi illustri figli, illuminando non solo la storia delle sue genti e delle sue valli, ma travalicando spesso i confini di queste? È un’imprescindibile responsabilità di un’Istituzione dello Stato stare al fianco dei propri cittadini, dar loro in questi difficili momenti di crisi, non solo sicurezza e risposte concrete, ma anche una speranza, uno sprone affinché chi, figlio dei grandi personaggi le cui vite sono raccolte in questo volumetto, possa ritrovare la volontà e la dignità di rialzare la testa, possa capire che nulla gli è precluso e tutto è alla portata, possa ritrovare il senso di appartenenza a quella coraggiosa e forte stirpe di donne e di uomini di Carnia che in passato ha sempre avuto la tenacia di reagire pur se piombata negli abissi più bui. Grande Cjargne vuole dunque essere questo e vuole esserlo nella consapevolezza della sua parzialità. La storia della Carnia, infatti, è così affollata di persone che con il loro ingegno e la loro personalità hanno contribuito a rendere noi, oggi, quello che siamo, che la lista dei candidati a occupare un posto in questa pubblicazione era di gran lunga superiore allo spazio a disposizione. Ma i Carnici si sa, sanno essere anche molto pazienti, e chi per ora è rimasto escluso saprà sicuramente attendere con accondiscendenza il proprio turno. il Consigliere delegato alla Montagna Luigi Gonano h2 3a GRANDE CJARGNE PARTIAMO DAL NOME, PER PRESENTARCI QQQQQQQQQQ KARNICI CARNI QQQQQQQQQQ C’è ancora chi afferma che i celti in Carnia sono una favola. Bene: noi carnici sappiamo di vivere in una terra fantastica! Per buona educazione, la prima cosa da fare nel presentarsi è dire il proprio nome, ma se dici “Piacere, sono Carnico” l’interlocutore potrebbe rimanere interdetto e domandare “Che nome strano, cosa vuol dire?” Perché succede questo, che ognuno di noi ha un nome di cui ignora il significato: Carlo, Maria, Anna, Giorgio… Però, essendo un nome usuale non incuriosisce nessuno, nemmeno chi lo porta. Carnico, invece, incuriosisce. Allora approfittiamone per capire da dove proviene e così imparare qualcosa di noi. Per farlo intervistiamo Tarvos, un personaggio dei fumetti che abita a Sighiet (Sigilletto) sotto il Coglians e le cui avventure hanno avuto un certo successo anni fa. Tarvos, da dove saltano fuori i carnici? Oh, bella! Dai Celti, ben si sa! Ora capisco perché ti dicono “il celtic”… Perché noi Carnici e il nostro nome proveniamo da una tribù celta giunta da queste parti nel IV secolo a. C.. Qualcuno ancora oggi storce il naso quando parli di Celti ma gli antichi, che li frequentavano, non dubitavano affatto, tanto che i romani ci chiamarono Galleis Karneis, i Galli Carnici, già nel 115 a.C.. Qualcuno dice che siamo parte di quella grande migrazione celtica diretta in Pannonia, ossia verso Vienna e il Burgenland, parte dell’Ungheria, della Croazia e della Slovenia attuali, e che finì col dirigersi anche verso la Grecia o ad assediare Roma. I Celti non amavano stare fermi. Solo che già allora noi Carnici facemmo, al solito, di testa nostra abbandonando gli altri e spostandoci verso quella terra che oggi chiamiamo Friuli, ma che a lungo è stata la terra dei Carni e verrà, pertanto, chiamata Carnia. Guarda che non è l’unica terra ad essere stata rinominata perché anche il Carso, la Carniola, in Slovenia, e la Carinzia, in Austria, prendono nome da questo popolo. Tutti abbiamo la “car” davanti, che non è l’auto inglese. Praticamente siamo “cugini” dei triestini, dei carinziani e dei carniolani e formiamo una sorta di quella che oggi chiameremmo Euroregione e che i Romani (sempre loro!) chiamarono “Carnorum Regio”, la regione dei Carni. Ma da dove provenivano questi Celti? Più o meno dalla Baviera e dall’Austria dove avevano sviluppato una loro importante cultura chiamata “cultura di Hallstatt”, dal nome della città vicino all’odierna Salisburgo, perché scacciati dai Germani verso il 450 a.C.. A loro volta, nel 186 a.C. (stando a Tito Livio anche se, oggi, si pensa che in quell’anno fossero già presenti) scacceranno oltre il Livenza i paleo-Veneti o Venetici che abitavano queste terre e l’odierno Friuli. Arriveranno fino a Trieste che diventerà un “borgo della Carnia” come dirà il greco Strabone nel libro VII della sua “Geografia”. NORIC CARINZIE IO REGCRAGN M U NOR CJARGNE CAR Questa è bella! I triestini sarebbero anche loro dei Carni! Se pensi che lì si parlava una variante del friulano, il tergestino, ancora nell’Ottocento… Inoltre, il loro simbolo, l’alabarda, è in realtà un’arma detta “spiedo alla furlana”: hanno molto più Friuli nella loro storia di quanto immaginano. Cosa vuol dire, però, Carni? Per alcuni questo nome proviene da “carnu” che vuol dire corno o corno da battaglia. Per altri da “carno” o meglio “karn” che indica un mucchio di pietre o la roccia. Per cui noi saremmo un popolo sia battagliero che duro. Tant’è che i Romani fonderanno Aquileia, inviando qui alcune tra le loro migliori truppe, anche per difendersi dai Carni. Il storic roman Tito Livio al à iniment pe prime volte i Cjargnei co al fevele di une lôr ambassade che si presentà intal Senât a Rome (170-171 a.C.) par lamentâsi des robariis e des violencis fatis cuintri di lôr dal consul Longinus. Tarvos al è a stâ a Sighiet paîs là che si fevele inmò un furlan antîc, che al finìs in “o” tant che te Ete di Mieç! h4 5a Oltre al nome è rimasto qualcosa di celtico in Carnia? Certo! Oltre ai tanti ritrovamenti archeologici, ci sono tradizioni e personaggi mitologici che fanno riferimento a quella cultura e alla sua religione che condividiamo con molta parte d’Europa. Ad esempio, ci sono i fuochi rituali, il lancio delle “cidulis”; il Maçarot che ha le stesse caratteristiche del Puck del “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare... Credo che rimanga soprattutto lo spirito indomito e legato alla terra. I Celti non erano un popolo guerriero come i Germani, erano soprattutto contadini. Prendevano le armi solo se serviva, per difendere la loro libertà. Questo è rimasto nel nostro carattere: non amiamo la guerra e la retorica e, appena possiamo, cerchiamo di riprenderci la nostra libertà come è capitato con la Repubblica Libera di Carnia o nelle tante lotte per difendere i nostri privilegi sui boschi e sulle acque, frutto di un’attenta e antichissima tradizione fatta di rispetto della comunità e della natura. E poi, ci piace cantare a voce alta e raccontare storie da tramandare. Che è tipico dei Celti. I Celtis Cjargnei si pense che a sedin rivâts dal Pas di Mont di Crôs che za de antichitât al jere un impuartant pas di scambi economic cui popui di di là des Alps. Jenfri i dius celtis, al jere une vore impuartant Belen cui rais tor il cjâf, che al à lassadis cetantis olmis in Friûl. Si conte che al vedi adiriture salvade Aquilee dal atac des trupis dal imperadôr Massimin tal 238 dopo di Crist. Cussì nus conte il storic Erodian: “A clamin chest diu Belen e lu venerin cetant (…) Cualchidun dai soldâts di Massimin al diseve che la sô figure e jere comparide dispès tal aiar, batintsi parsore la citât.” Ce diference ise jenfri Celtis e Gjai? Nissune: i Celtis si definivin cun chest non, come che nus conte Cesar, biel che i romans ju clamavin Gjai. Il nestri sei antîc al resurìs / cuant che nus vinç il bal, il vin o amôr. Celts, Otmar Mainardis (cit. di S. Carrozzo) Galarie des Cjartis Gjeografichis, Museus Vaticans. Plante dal nord de Italie cu la scrite “CARNI” (evidenziade) “In conclusione, sembra che la celtizzazione del territorio fra Livenza e Timavo sia stata prevalente opera dei Carni. Furono essi che, realizzando un insediamento stabile e di proporzioni mai prima verificatesi, gettarono, alla fine della preistoria, lo strato etnico culturale fondamentale della futura civiltà friulana.” (G. C. Menis, Storia del Friuli, 1976) I esemplis plui antîcs di scriture che si cognossin fin cumò in Friûl, si ju cjate ancje su lis monedis celtis. Monede celte-cjargnele, Museu di Zui. I fumuts di Tarvos si sierin simpri cul trai des cidulis. h6 7a GRANDE CJARGNE EMIGRARE (CON SUCCESSO) PER AMORE QQQQQQQQQQ FABIO STICOTTI & CO. QQQQQQQQQQ Dove si narra di come un giovanotto carnico di buona famiglia e che non ama molto seguire le regole, si innamori di una cantante, venga diseredato, fugga a Parigi trovandovi il successo come attore e metta al mondo dei figli che influiranno sulla cultura del tempo litigando con gente del calibro di Diderot, Rousseau, Voltaire… Sticotti al è chel che al à inventât il Pierrot tal mût che ducj a cognossin. Ve cemût che al veve di jessi un Pierrot dal so timp. h8 Fabio (Amaro, 1677-Parigi,1741) non è certo uno scolaro modello. Francesco Matteo, il padre notaio, l’ha mandato a studiare a Venezia per continuare e magari accrescere il prestigio della famiglia. Gli Sticotti sono nobili e le varie famiglie possiedono un certo patrimonio fatto di attività agricole, beni commerciali e immobiliari sparsi tra Friuli, Veneto e Istria. Chiaro che il padre veda in quel figliolo un futuro radioso al pari di altri Sticotti diventati insigni dottori in giurisprudenza, medici, insegnanti, scrittori… Ha, però, fatto i conti senza l’oste. Venezia è una città che attrae e lusinga con le sue bellezze non solo artistiche. Lo fa adesso a distanza di secoli, figuriamoci nel Sei-Settecento quando, con i suoi 17 teatri, è una delle capitali mondiali della cultura e del bel mondo, un po’ come lo sono oggi New York, Londra o Berlino. È il periodo effervescente e solare di Canaletto, Tiepolo, Albinoni, Vivaldi… solo per citare qualche personalità che puoi incontrare per strada. Dunque, anziché dedicarsi agli studi, il giovanotto di belle speranze Fabio, si lascia andare nonostante la costernazione del genitore. Un po’ di soldi non gli mancano, le occasioni per spenderli nemmeno. Ciò che gli manca è la voglia di proseguire sulle orme famigliari. Ad aggravare la situazione, qualora ce ne fosse bisogno, capita che si innamori di una ragazza veneziana, figlia di un orologiaio, bella nonché brava cantante, Ursula Astori (1694–1739), molto più giovane di lui che ormai è un po’ in età (ed è ora che prenda moglie). Lei è molto graziosa, così graziosa che viene rapita e disonorata da un certo Cellini, un nobile della Serenissima. Ne esce un grande scandalo, il primo di tanti altri che segneranno la famiglia Sticotti. Il Cellini, per porvi rimedio, fornisce alla ragazza una dote matrimoniale. Voi cosa fareste se foste un po’ in età e molto innamorati di una deliziosa quindicenne? Immagino che vi comportereste da gentiluomini come Fabio, che decide di sposarla. Non solo per la dote dal momento che è di buona famiglia. Lo fa per amore, fatto che ne denota il carattere e che contribuirà al suo futuro successo. Tutto bene, allora? Non proprio. Provate solamente a pensare come potrebbe venir accolta una notizia simile ad Amaro, paese lontano dalle frivolezze veneziane, dal padre probabilmente uomo tutto casa e chiesa, che vede definitivamente sfumare ogni speranza di gloria. Questi dà in escandescenze (fatto prevedibile) minacciando di diseredare il figlio (fatto meno prevedibile) per il buon nome del casato. Però Fabio è innamorato e non vuol sentire ragioni e sposa Ursula in gran segreto convinto che nessuno l’avrebbe saputo e che la cosa sarebbe finita lì. Finita lì per niente! A casa lo vengono subito a sapere e Fabio si ritrova diseredato, buttato fuori di casa e costretto a fuggire da Venezia con la sua Ursula. 9a I due viaggiano al seguito di compagnie teatrali menando una vita grama perché è una vita da vagabondi e ai margini della società. Lui, poi, è un aristocratico, situazione che aggiunge scandalo allo scandalo: secondo me il padre non ci dormiva la notte al pensiero. Nella disgrazia, però, è fortunato perché i due innamorati incontrano l’impresario Luigi Riccoboni (1676-1753) detto Lelio, un tipo tosto che vuole rivoluzionare la commedia dell’arte e che cerca attori disposti a seguirlo in quest’avventura. Per il momento è a capo della migliore compagnia in circolazione dove recitano teatranti del calibro di Tomaso Antonio Vicentini (1682–1739), detto Thomassin uno dei più grandi Arlecchini della storia del teatro, capace di fare una piroetta all’indietro tenendo in mano un bicchiere d’acqua senza versarne neppure une goccia. La compagnia recita Molière, Racine, Coneille, Shakespeare… Girano l’Europa e parlano italiano, un buon francese, prussiano, inglese, bavarese, un po’ di polacco e di spagnolo oltre alle lingue locali di appartenenza. Nel 1716, dunque, Fabio e Ursula sono obbligati al gran passo: si aggregano alla compagnia di Riccoboni e partono per Parigi con la “Troupe Italienne du Roi” (Compagnia Italiana del Re). Una scelta felice perché, grazie all’intuito, alla spigliatezza e alle novità ideate da Riccoboni, la compagnia ha subito successo. A essere sinceri, per Fabio e Ursula il successo non è così immediato: per un bel po’ devono limitarsi a comparsate e ruoli di secondo piano. Nei dipinti di Watteau (1684-1721), grande e innovativo pittore francese, in cui si pensa sia rappresentata la compagnia, loro due sono quelli dipinti in fondo, dietro agli altri. Come si dice: “sono quelli in ombra”. Il loro ruolo è soprattutto di cantori e Ursula in questo doveva essere bravissima se viene menzionata con i nomi d’arte di “Isabella”, forse per la delicata bellezza che traspare anche dalla penombra nella quale è rappresentata nei quadri, e di “Cantarina” per la voce. Ma la famiglia Sticotti è brava e, magari non proprio in breve, riesce a farsi strada nel mondo dello spettacolo tant’è che nel 1733, a 56 anni, Fabio è accolto a pieno titolo nella “Comédie Italienne du Roi” dove debutta nel ruolo, molto importante al tempo, di Pantalone. Il re è Luigi XV detto il Beneamato (1715-1774) anche se alla sua morte il popolo si dà a pazzi festeggiamenti chiamandolo il Malamato, tante ne aveva combinate. Il mistîr dal comic al è considerât tant scandalôs che ancje par podê maridâsi, i atôrs a scuegnin fâ un at scrit di “rinunzie” al teatri. Cussì a fasin sedi Toni che Agathe Sticotti, doi dai fîs. Ancje se a van indenant, daspò, a recitâ. “ Il comic nol esisteve tant che om parcè che no si maridave, nol veve fîs, nol murive uficialmentri.” (Claudio Meldolesi, Gli Sticotti, Roma 1969, Quaderni di cultura francese, Edizioni di storia e letteratura) WATTEAU, Jean Antoine (1684-1721): La commedia Italiana, post 1716 (?). Diviers studiôs a identifichin il grup tant che la compagnie di Riccoboni e i doi in secont plan a man çampe, cui cjantants Fabio Sticotti e Ursula Astori. Berlino, Gemaeldegalerie, Staatliche Museen zu Berlin. Olio su tela, 37x48 cm. Inv. 470. Foto: Joerg P. Anders. ©2014. Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin. Nel frattempo, a Fabio e Ursula nascono tre figli: Antonio, Michel detto “Kelly” e Agathe che diventeranno pure loro importanti nel mondo dell’arte e della cultura in un modo o nell’altro. Viaggiano molto e in varie capitali europee. Ovunque sempre ben accolti dalle varie teste coronate e dagli intellettuali del luogo per le loro qualità non solo di attori ma di drammaturghi e saggisti. Un bel risultato per l’insofferente Fabio, uno che non ne voleva sapere di studiare e seguire le regole del padre. La riuscita maggiore, forse, la ottiene nel 1744 quando il figlio Antonio è “riabilitato” dalla famiglia e rientra in possesso dell’eredità grazie alla fama internazionale acquisita dalla famiglia. I parenti chiudono tutt’e due gli occhi sul passato pur di potersi vantare di tanta e gloriosa parentela. Tale riabilitazione, però, giunge tardi per Fabio morto pochi anni prima, il 5 dicembre 1741, due anni dopo l’amatissima moglie. WATTEAU, Jean Antoine (1684-1721): La commedia Francese, post 1716. Ancje in chest cuadri, cualchi critic al à intindût di viodi i doi Sticotti, stant che tancj atôrs a somein propit a chei parsore. Dut câs, lôr a son simpri daûr: no je inmò rivade la lôr ore. Berlino, Gemaeldegalerie, Staatliche Museen zu Berlin. Olio su tela, 37x48 cm. Inv. 468. Foto: Joerg P. Anders. ©2014. Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin. h 10 11 a Dai, Sticotti, facciamoci riconoscere da tutti! Alla sua morte Fabio lascia una bella fama, un personaggio mondiale, Pierrot, molti creditori e tre eredi che dimostrano ben presto di che pasta sono fatti e che lo seguono nella carriera artistica. Intanto va precisato che il successo porta non poco scompiglio in famiglia dato che Antonio viene spesso confuso con il padre tanto da essere chiamato Fabio per la notorietà di questo. A sua volta, a lui vengono attribuiti scritti del fratello Michel che, pur essendo il maggior intellettuale di famiglia, viene scambiato con Antonio ancora oggi nei suoi testi ripubblicati. Un bel caos, vero? Non per nulla tutti e tre hanno a che fare con trame teatrali. Vediamo di conoscerli, allora, questi altri dotti Sticotti. ANTONIO (Toni, Fabio) GIOVANNI STICOTTI (Parigi 1711–Meaux 1769) È il primo dei fratelli, anche nel calcare le scene a diciotto anni. Lo chiamano “Fabio” come il padre, confondendolo con quello, perché da lui ha ereditato la maschera che lo rende famoso, quella di Pierrot. Sono tempi in cui gli attori vengono definiti dalla maschera interpretata e non da chi la interpreta. Se ci aggiungete che vanno in scena, per l’appunto, mascherati, la confusione è inevitabile. C’è chi ritiene Fabio Sticotti il più grande Pierrot della storia del teatro, colui che rivoluzionò questa maschera fino al punto di farla diventare una protagonista di primo piano della commedia dell’arte e quel simbolo romantico che riscuote ancora tanta fortuna. Prima di lui Pierrot è solo un servitore furbo e sempliciotto. È grazie alla sua sensibilità e alla sua inventiva per accontentare gli spettatori francesi che diventa la maschera triste che conosciamo, con la lacrimuccia che scende su una gota, vestita di bianco e con grandi pouf bianchi o neri che fungono da bottoni. Così innamorato dell’ingrata Colombina, che gli spezza il cuore giungendo ad abbandonarlo per il birbante Arlecchino, da essere solitamente rappresentato rivolto alla luna alla quale confida, cantando, le sue pene d’amore. Una figura romanticissima giusta per le svenevolezze amorose di un pubblico sentimentale e pronto a commuoversi. Certo è che la maschera diventa così famosa da essere ripresa dal figlio Antonio nel 1737. Il successo che riscuote anche lui è tale che non esita a riproporla nelle recite successive tanto che diversi studiosi ritengono lui e non il padre il vero, grande Pierrot. Pierrot è un ipocorismo - parolaccia che indica l’attitudine ad alterare i nomi in senso affettuoso tipo Totò al posto di Salvatore - del francese Pierre al quale è aggiunta la codina (si chiama suffisso) pure francese -ot. h 12 Confusion in cjase Sticotti: no Antonio-Fabio ma il fradi Michel al è l’autôr !!! Anche per Antonio, pertanto, il successo è legato a Pierrot: la gente s’innamora della sua ingenuità, gentilezza, della sua triste sorte di innamorato. Però Antonio è anche un ottimo drammaturgo. Già a ventisei anni comincia a scrivere per la “Commédie Italienne” trame teatrali, alcune delle quali vengono ancora pubblicate e recitate. La sua fama è tale che, spesso, gli sono attribuiti testi del fratello Michel come nel caso di un celebre manuale con informazioni utili, ma essenziali a far fare bella figura in società alle persone glamour del tempo, il “Dictionnaire des gens du monde”, dizionario della gente di mondo. È assai popolare tra la gente-bene tanto che, come vi ho anticipato, nel 1744 può tornare ad Amaro circonfuso di gloria mondana, riabilitare la famiglia e riavere l’eredità sottratta al padre. Eisen, La muart idealizade di Sticotti cui fiis intor, 1783 Fabio Sticotti al è stât un grant atôr ancje te vite privade. Tal 1745 a Parîs si fevelave cetant di lui, e e zirave la vôs che al fos adiriture un dai plui siôrs zentiloms dal Friûl, e il Friûl al è stât simpri, par dute la famee, un pont di riferiment morâl e ideâl. Par chel che al rivuarde la sô nobiltât, Fabio si compuartà simpri fûr di misure, di nobil, ma plen di debits. Al rivarà a vê fin a 36 creditôrs tal stes moment e a jessi citât in judizi di un di lôr. Dome la muart lu salvarà dai assalts dai creditôrs. Il bello è che, nonostante i successi teatrali e letterari, Antonio finirà col fare il postino in Germania, allora occupazione per nulla disprezzabile, a Marburg, nell’Assia, e a Meaux. Lo diventerà non prima di aver fatto un ultimo tentativo di rientro a Parigi per ricercare nuova fortuna scrivendo ancora per il teatro. Edizion moderne dal libri. 13 a N’allons point en courant sur de lointains rivages, Critiquer les habits, les façons, les visages, Il faut étudier le coeur, Analiser les esprits, les humeurs (…) Et sages revenir instruisant son pays No stin a lâ corint su lontanis rivis, Criticâ costums, manieris, musis, O vin di studiâ il cûr, Analizâ i spirts, l’umôr (...) E savis tornâ a istruî la proprie int Lis nestris virtûts tal pet dai nestris amîs pandint. Répandre nos vertus au de sein de nos amis. (M. Sticotti, A un voyageur) MICHEL (Kelly) STICOTTI Michel Sticotti (Parigi 1719-1770/2/7, c’è sempre l’incertezza tipica degli Sticotti) è l’intellettualone dei tre. Viene soprannominato “Kelly” a Londra dove recita al “Theatre Haymarket”, fatto che segnerà parte della sua produzione. In particolare, si appassiona al modo di recitare di un attore inglese del tempo, Garrik, che ama la naturalezza e la verità in scena e detesta la pomposità, le smancerie, i profondi inchini… delle recite usuali. Lo ammira talmente che, nel 1769 pubblica la traduzione riadattata di un testo di John Hill, “The Actor” dedicandogli il lunghissimo titolo: “Garrik, ou les Acteurs Anglois, Ouvrage contenant des Observations sur l’Art Dramatique, sur l’Art de la Répresentation, & les Jeux des Acteurs. Avec Des Notes historiques et critiques, & des Anedoctes sur les différents Théâtres de Londres & de Paris. Traduit de l’Anglais”. Per praticità ve lo traduco con “Garrik, o gli Attori Inglesi”. Testo che, forse anche per il lunghissimo titolo, viene stroncato da Diderot in persona anche se oggi viene rivalutato e ripreso da studiosi del teatro e lo stesso Diderot userà certi elementi per stilare la sua concezione del teatro. Il fatto è che i due sono in guerra tra loro dal momento che Michel Sticotti mette in discussione le idee degli illuministi ed è tenuto in grande considerazione dall’aristocrazia per l’acutezza delle sue idee. È un conservatore intelligente, colto, brillante ma ingenuo e, forse, un po’ opportunista, in un mondo che va verso la Rivoluzione. Contesta pure Voltaire e - con il nome “Thomas du Frioul”, Tommaso del Friuli per sottolineare il senso di nobiltà famigliare e di appartenenza a questa terra – se la prende anche con Rousseau. Almeno questa volta, una certa ragione ce l’ha perché riguarda un fatto capitato a una persona a lui molto vicina, la sorella Agathe, e che lui aveva vissuto in prima persona a differenza dell’illuminato Rousseau. h 14 Michel al spose a Copenaghen la signorine Amand Huguet, balarine e atore famose, specializade tal rûl di Arlechin. AGATHE STICOTTI Agathe Sticotti (Parigi 1722–Rennes, 1787) è la terzogenita di Fabio e pure lei segue le orme artistiche del padre e fa parlare di sé. Perché le succede qualcosa di analogo a quanto capitato a Fabio. Infatti, va sposa al cavaliere Marguerite Hugues “Charles” Marie Huchet de la Bedoyère, Marchese de la Bédoyère e de la Thébaudais, Barone de Bossac, Signore de Rieux. Un giovanotto che già dalla lunghezza del nome fa capire che deve appartenere alla crema della nobiltà francese. Anche lui, a causa di queste nozze, viene diseredato dal genitore – che è magistrato e gioca in casa - dopo un processo che fa scalpore tanto da diventare un libro di successo: “Les époux malhereux ou Historie de Monsieur et Madame de la Bedoyère”, gli sposi infelici o storia del signor e della signora de la Bedoyère di François Thomas Marie de Baculard d’Arnaud, altro bel nome lungo. Il processo che precede la perdita dell’eredità li obbliga a fuggire ad Avignone per non essere separati dalla condanna. La vicenda fa talmente rumore che dieci anni dopo è ancora ben presente nella memoria collettiva tanto che Rousseau ne parla due volte nei suoi saggi. A sproposito secondo Michel che lo attacca con un proprio saggio. Al di là delle battaglie legali e filosofiche, rimane il fatto che i due sposini anche in questo caso si amano talmente tanto che i suoceri saranno costretti a riconoscerlo e li faranno risposare di nuovo e con la loro benedizione. Il loro amore è così forte che Agathe sopravviverà solo quindici giorni alla morte del marito. Questi Sticotti amanti dell’amore, del teatro, delle discussioni, pieni di glamour... e poi dicono che i carnici sono gente fredda! Pûr di fâsi acetâ dai misars, Agathe si fâs passâ par une camarele par mostrâ ce frute tant brave e oneste che je. Scuvierte, e ven butade fûr di cjase. No passarà però masse timp par che lis robis si sistemin par jê in maniere positive. Il libri su la storie di amôr disgraciade di Agathe e di Charles al è deventât un best-seller cun 60 edizions e al ven ancjemò cetant stampât!!! Chest ca al è un collage di plui edizions. 15 a GRANDE CJARGNE NEL ’700 LA CARNIA È DI MODA! QQQQQQQQQQ JACOPO LINUSSIO QQQQQQQQQQ Dove si vede come imparando un’arte senza metterla da parte si diventa il maggiore produttore di fashion del Settecento Per capire l’importanza di Jacopo Linussio (Paularo, 8 aprile 1691–17 giugno 1747) provate a contare fino a 32.000. Se dite un numero al secondo ci metterete esattamente 8 ore, 53 minuti e 20 secondi, sempre che non crolliate prima. Questo non vuol dire che Jacopo era un tormentone, ma torna utile per darvi l’idea del grandissimo numero di persone che, più o meno, lavoravano per lui, 32.000: 30.000 filatrici e 2.000 operai tessili. Uno sproposito anche al giorno d’oggi... Se non basta, vi dico ancora che Jacopo aveva costruito a Tolmezzo la più grande manifattura tessile europea - praticamente mondiale - del Settecento e che la sua ‘Fabrica’ (così la chiamava, vi ricorda niente?) era più grande dell’intera città di Tolmezzo, un “fuori scala” come si direbbe. Ma come ha fatto, un ragazzo di Paularo povero ed emigrato come apprendista garzone nelle fabbriche tessili austriache a costruire un impero simile? Usando l’ingegno. Partiamo da Villa di Mezzo di Paularo che non è certamente il centro del mondo in una Carnia di fine del Seicento con poche strade, tanti emigranti e molta miseria. È qui che avviene il miracolo che la porterà all’attenzione del mondo: nel 1691, nasce Jacopo Linussio. È un ragazzino sveglio a cui la famiglia offre una istruzione di base prima di mandarlo, come tanti altri, in Austria ad apprendere il mestiere di tessitore. In breve Jacopo diventa un giovanotto esperto in questa professione. A 26 anni fa il grande passo aprendo una sua fabbrica a Moggio perché ha un’idea geniale: ridurre a circa 1/4 i fili adoperati nel tessere le tele usando fili più grossi e ottenendo tele più grossolane, certamente, ma meno costose, a buon mercato e alla portata di tutte le tasche. C’è, però, un problema: ha pochi soldi e deve farsi finanziare. Perciò va a Venezia a esporre la sua trovata. Qui avviene un secondo miracolo. Gli interlocutori intuiscono la sua capacità industriale, gli danno fiducia e lo finanziano anche perché Venezia sta passando un brutto momento dal punto di vista commerciale e sociale tant’è che ha proibito l’importazione di alcuni tessuti tedeschi per agevolare la produzione interna. Cosa fa, allora Jacopo? Edifica una fabbrica in Venezia per essere più vicino a un porto? No, lui non disloca, come si direbbe oggi, ma ritorna nella sua Carnia per più validi motivi: i carnici (maschi) sono riconosciuti come tessitori “eccellenti e rari” oltre che abili ricamatori e la manodopera costa poco. Inoltre, ha a cuore la situazione di miseria della sua terra e vuole aiutarla a risollevarsi. Pertanto, importa il materiale grezzo da ogni dove, dall’Egitto alla Moscovia, ma lo fa filare qui nonostante le difficoltà di trasporto date le pessime vie di comunicazione. C’è una sua bellissima frase del 1726, che richiama questa grande attenzione per la sua gente. Telis produsudis te “Fabrica” di Linussio Avete capito? L’asso nella manica di Jacopo è la riduzione dei costi delle sue tele per renderle più economiche e venderle meglio. Un po’ come succede ancora oggi. Ma lo fa senza trasferire la sua ‘Fabrica’ e cercando, invece, soluzioni che lo facciano risparmiare. Per questo scopo inventa espedienti che sono validi ancora oggi. Prima di tutto, come vi ho detto, riduce a circa un quarto i fili necessari e già questo è un bel risparmio. Poi sviluppa il lavoro casalingo, quello che oggi chiamiamo “home working”, ottenendo due risultati: avere minori costi di produzione perché non deve costruire una fabbrica per ogni paese ma è sufficiente che, settimanalmente, un addetto passi a ritirare il semilavorato; permettere alle donne (sono loro che filano) di avere un guadagno e rendersi un po’ indipendenti. Non solo, introduce il concetto aziendale di casa-madre, con il centro direzionale a Tolmezzo, e filiali dislocate sul territorio: a Moggio, San Vito, Pordenone, Sacile... Ciò gli permette di tenere tutto sotto controllo, comprese le spese. Per organizzare questo si dà da fare anche per migliorare le strade e i ponti, importanti per il trasporto delle merci. Taglia un costo qui, risparmia là, alla fine le sue tele risultano molto, molto economiche senza perdere di qualità – anche i nobili se ne servono – e sono esportate con successo in buona parte del mondo. Un boom incredibile ottenuto anche con le costanti migliorie tecniche che apporta ai macchinari. Migliorie alle volte “rubate” alla concorrenza tedesca grazie a spie! Il denaro comincia a fluire non solo in Carnia ma in tutto il Friuli e a Venezia che dedicherà una voce daziaria esclusiva alle tele di Linussio tante ne vendeva. Venezia cerca anche di ringraziarlo creandolo nobile ma Jacopo, che non è uno sciocco, manda a dire che per lui sarebbe meglio che gli si abbassino piuttosto le tasse, cosa che ottiene. Per finire, forse, ha anche a che fare con i moderni jeans... Interessante, no? Jacopo Linussio ritrat di Nicola Grassi. h 16 17 a Proprio bravo, Jacopo Linussio. Così bravo che si autocelebra commissionando dipinti, che lo ritraggono in gran posa, ad artisti famosi come il carnico Nicola Grassi. In uno, dipintogli da Pietro Longhi e conservato al Museo Civico d’Arte di Pordenone, pittore al top in quel momento, si fa ritrarre addirittura con la mano che indica una scritta “Videtur ex ne natus”, che equivale a dire “guardate che mi son fatto dal niente, da solo”. Incredibile Linussio: anche in questo supera tutti perché è il primo imprenditore che si autocertifica anticipando quello che fanno tutti gli imprenditori e stilisti moderni, una vera rock star del prêt-à-porter! A proposito di arte, c’è una cosa che dovete sapere. Avete presente la Carnia con le sue belle casette, palazzi, chiese con quadri di pittori famosi? Avete notato che è dissimile da tutte le altre zone dell’arco alpino? Beh, anche questo si deve, in parte, a Linussio perché l’impetuosa ricchezza che porta fa sì che la gente abbia voglia di costruirsi belle dimore seguendo i modelli più in voga e adattandoli al territorio. Questa è bella! Pur avendo contribuito a rendere grande Tolmezzo, Linussio non riuscì mai a diventare un suo cittadino. Anzi, lo guardarono sempre con diffidenza nonostante avesse fornito, tra l’altro, di maestro la scuola cittadina che navigava in brutte acque, edificato uno dei palazzi più belli della Regione, ristrutturato il Duomo, creato ricchezza e fama… Jacopo, par podê stâ sul marcjât, nol paie masse i siei lavorents che, dispès, si lamentin pe paie basse. Par vignîur incuintri, Linussio al bat monede: cun cheste, a puedin comprâ la robe tai siei magazens a metât presit e tornâ a vendile par cjapâsi un franc. MA PLUI BULOS A JERIN I OMS Tal Friûl di metât Sietcent, lis feminis a son tor lis 160.000. Un tierç di lôr, su lis 55.000, a son ocupadis, tant che filanderis, tal tessil. Lis monedis di Linussio Ma a tiessi e son i oms, come che si viôt te ricostruzion dal Deutsches Museum di München. Chei tignûts plui in stime a son i cjargnei, considerâts - bielzà tal Cinccent - “eccellenti e rari” pe lôr bravure. ...E PLUI BULOS DI DUCJ I CJARGNEI Tal 1756, a Tumieç a son ben trê fabrichis di tessil: chê di Linussio, chê di Tommaso del Fabro che cui siei 10.000 lavorents no scherçave nancje chê e la plui piçule, di Pier’Antonio Zinelli. Fustagn cun tele diagonâl de manifature Linussio, Enemonç/Enemonzo, fin dal Sietcent: ce us vegnial iniment? Fûs dal Museu des Arts Popolârs di Tumieç/Tolmezzo h18 Di cheste mape si viôt ben cetant grande che e je la ‘Fabrica’ Linussio di Tumieç. Se po si pense che al veve fabrichis ancje in altris bandis dal Friûl e che la plui part dai lavorents e lavorave a cjase, si pues ben rindisi cont dal Imperi che al veve metût adun. 19 a JACOPO LINUSSIO HA ‘INVENTATO’ I JEANS MODERNI? Qui bisogna essere un po’ chiari. Con il termine jeans noi intendiamo un certo tipo di pantaloni fatti con un certo tipo di tela detta “diagonale” nota già nella preistoria. Questi, chiaramente, non li ha inventati lui ma sono il risultato della capacità imprenditoriale di Levi Strauss che aveva brevettato, nel 1873, i caratteristici rivetti che impediscono alle tasche di rompersi. Questi calzoni sono in denim, tela che prende il nome da “de Nîmes” una delle città che la produceva. Il color indaco è quello che li contraddistingue e dà loro il nome di jeans derivandolo da una storpiatura di “bleu de Gênes”, blu di Genova importante porto di smercio internazionale delle stoffe. Ricostruzion moderne di tiessût “operât piçul” de manifature di Linussio tor la fin dal Sietcent Ora, esistono dei campionari della manifattura Linussio del 1764 e del 1896 che presentano fustagni e tele analoghi alla tela jeans. Inoltre, il colore blu indaco è uno dei colori che contraddistingue la produzione carnica e friulana tanto che Linussio aveva dedicato un lavatoio esclusivamente a questa tintura. È un colore così usato che il nipote di Linussio pensa bene di prendere in moglie la figlia del proprietario di una delle maggiori piantagioni di indaco, a Corfù, la quale portava in dote pure uno zio chimico interessato alle tinture per stoffe e in grado di scoprire e fornire in anticipo la famiglia delle migliorie da farsi per tinteggiare la stoffa. Ricostruzion moderne di un ‘tiesût operât’ prodot de ‘Fabrica’ di Linussio tal 1764 Ma, allora, Linussio ha inventato o no la tela di jeans moderna? Diciamo che deve averla aiutata non poco nella diffusione e nella portabilità. Prima era talmente rigida che la usavano essenzialmente per fare vele, coprire le stoffe e fare vesti per marinai. Grazie alla riduzione dei fili, questa tela diventa più portabile ed economica. Inoltre, la grande rete commerciale della manifattura Linussio, che andava dall’Asia all’America, ne permette la rapida diffusione. I campionari presenti in Carnia, tra i più vecchi che si conoscano, sono lì a dimostrarlo. Campionari des manifaturis Linussio, Cjavaç/ Cavazzo Carnico, dal “Libro di tacamenti “ di Antonio Michieli, 1869 h 20 Tjesût diagonâl (“jeans”) prodot de manifature Linussio tal 1869 21 a GRANDE CJARGNE Cosa conoscete degli austriaci che stanno proprio oltre le nostre montagne? Mi sa che ne sapete ben poco anche se abitano a pochi passi (alpini) da noi. Vi sembrerà strano ma ne sapevano molto di più i nostri antenati che in quelle terre ci andavano a piedi e con quelle persone scambiavano opinioni, ricette, commerciavano, costruivano ricchezze. Conoscevano anche la loro lingua tant’è che molti carnici furono usati dall’Esercito Italiano come interpreti durante la Prima Guerra Mondiale. Possiamo addirittura dire che questa sia iniziata da noi già nel 1914 quando tutti i carnici che lavoravano o commerciavano oltreconfine furono rimandati a casa, disoccupati, e la Carnia piombò nella miseria più nera. La storia dei fratelli Moro è un esempio di come fossero molto stretti i rapporti tra i popoli alpini a tutto vantaggio delle varie comunità. IMPRENDITORI Dovevano conoscere molto bene gli austriaci i fratelli Cristoforo (1760-1823) e Giovanni Moro (1762-1816) di Ligosullo che avevano fatto una certa fortuna commerciando con loro. Così che quando decidono di investire i loro risparmi in un’attività tessile prendendo, come esempio, il successo avuto dai carnici Jacopo Linussio o da del Fabro, si traferiscono direttamente in Austria. Cominciano in piccolo, aprendo un negozio di tessuti nel 1785, ma il loro sogno è possedere una fabbrica. Ora, nell’estate del 1786 viene chiuso il monastero di Vitkring, vicino a Klagenfurt, un edificio ampio circondato da vasti possedimenti. Loro si fanno avanti ma la destinazione d’uso è quella di “Ergötzungszentrum”, una specie di complesso residenziale con tanto di taverna, bagno, sala da ballo, poligono… per la nobiltà. E LODEN Dove si narra di due fratelli carnici che si comprano un’intera Abbazia per farne una grande fabbrica, di come diventino nobili e finiscano per ritrovarsi degli Imperatori per casa. h 22 Façade de badie di Vitkring Solo che non succede nulla e il novembre del 1788, a un’asta, i due fratelli cominciano ad acquistare un pezzo dell’Abbazia per 10.000 fiorini, che era una bella sommetta, per trasformarlo nella loro fabbrica. Lo attrezzano e cominciano a produrre un panno che risulterà tra i migliori in commercio. L’impresa dei due fratelli, la ‘Morosche Tuchfabrikation’, diventa così importante per la Carinzia che, nel 1816, essi vengono creati nobili con diritto a un proprio stemma, e fatti cavalieri nel 1819. Il panno prodotto dai fratelli e dal figlio Franz Ritter von Moro (1782-1866), in particolare quello bianco e quello rosso ‘ponceau’ delle divise degli ufficiali austriaci, è così bello che nel 1855, un cronista presente al Salone delle esposizioni di Parigi scrive, entusiasta: “Il loro ‘ponceau’ era di una bellezza e di un incendio quale non producono né Francia né Prussia. Il loro panno bianco è rimasto ineguagliato in fiera, e ogni esperto ha espresso la più alta ammirazione per la rara purezza del colore.” Fatto ancora più importante, grazie alla qualità dei tessuti prodotti entrano in ottimi rapporti con la Casa d’Austria tanto che la loro industria è visitata più volte dagli imperatori: nel 1816 da Francesco I d’Asburgo (1768-1835) e dalla moglie Carolina Carlotta Augusta di Baviera (1792-1873), nel 1850 e nel 1852 da Francesco Giuseppe. Oltre alle visite ricevono anche molte commesse militari: gli affari sono affari! La ‘Morosche Tuchfabrikation’ occupa centinaia di lavoratori tanto che il figlio Franz, che prende in mano la direzione della fabbrica e dei suoi grandi possedimenti alla loro morte, diviene uno dei fondatori della Camera di Commercio carinziana ed è accolto nell’esclusivo Ordine della Corona ferrea. Ancje lis feminis di famee a dan un grant contribût ae cressite de industrie tessil. La gnece e conte che la femine di Cristoforo, Giuseppa, e sedi vivude - e in fin ancje muarte in fabriche de matine adore fin tal colm de gnot, supervisionant e dant coragjo a ducj i lavorents “cun inzen e abilitât”. Vistude simpri compagn, sedi di Istât che di Invier, co la nene i puartave i fruts, je ur dave di tete là che al capitave, ancje suntun scjalin. 23 a Alc al pee Linussio ai Moro, deventâts von Moro, val a dî l’amôr pe art che al è te nature dai Cjargnei che a àn vût sucès te vite. Po ben, se Linussio al puarte a Tumieç autôrs di fame, i dissendents dai fradis Moro a son pitôrs, biel che altris a adatin stanziis dal ex convent di Vitkring par fâ un centri estîf par artiscj e amants des arts. Chest amôr pe art però al va fûr di scuare cuant che, a un ciert pont une erede - no savint ce fâ - e lasse che al sedi un pitôr a direzi la aziende di famee: une sielte no masse di sest che e judarà il lâ al mancul di cheste industrie impuartante. LE DATE DELL’AVVENTURA TESSILE DEI MORO 19 maggio 1786, un decreto di corte scioglie il monastero di Viktring. 10 novembre1788, i fratelli Giovanni e Cristoforo Moro acquistano parte dell’edificio e alcuni terreni per installarvi una fabbrica di panno. 1789, i fratelli Moro acquistano altri edifici e terreni del monastero. 1816, l’imperatore Francesco I e l’imperatrice Carolina visitano la fabbrica di tessuti. 1824, viene fondata la società “Gebrüder Moro”. 1850 e 1852, visita dell’imperatore Francesco Giuseppe I. 1869, s’inizia la fabbricazione di tessuti Loden. 1873, visita del principe ereditario Rodolfo. 1897, l’intero edificio dell’ex convento è di proprietà della famiglia Moro. 1925, l’ultimo erede della famiglia Moro, Adeline von Botka, cede la fabbrica al barone Josef Aichelburg-Zoseneg. Steme dai Moro deventâts von Moro a Vitkring. La glesie dal complès de badie e frescs che si cjatin li dentri. IL LODEN È un capo d’abbigliamento invernale caratteristico dei paesi tedeschi. Formato di panno di lana infeltrito per renderlo impermeabile, inizialmente era prodotto come abbigliamento da lavoro usato soprattutto dai minatori o dai soldati. Solo alla fine dell’Ottocento diventa un capo invernale d’uso comune e di tendenza. Di solito, si fa iniziare la sua avventura nel mondo della moda nel 1894. Ma crediamo che la famiglia Moro abbia qualcosa da ridire… Il nome Loden deriva dal tedesco arcaico ‘lodo’ che indicava una balla di lana o un tessuto grezzo; o dal medio tedesco “Lodi” che vuol dire cappotto. Il colore verde, il più diffuso ai nostri giorni, è solo l’ultimo di una serie di colori usati per il loden. Inizialmente, infatti, era grigio come la lana delle pecore, poi divenne bianco, rosso, nero fino al verde che conosciamo. La tradizione del loden non è solo alpina ma anche delle popolazioni Sami della Lapponia. È diventato un capo alla moda grazie all’imperatore Francesco Giuseppe che lo introdusse a corte. h 24 I von Moro a jerin cussì famôs che i imperadôrs a lavin a cjatâju te lôr imprese. Dal alt: Franz I dai Ausburg Lorene, la femine, imperadore Karoline, e Franz Joseph, plui o mancul te etât che al à visitade la fabriche di Vitkring. 25 a GRANDE CJARGNE JACOPO NICOLÒ CRAIGHERO JAKOB NIKOLAUS, Reichsfreiherr (barone imperiale) VON CRAIGHER DE JACHELUTTA un romantico degno di note Qui si ha la conferma di come un carnico del passato sia soprattutto un abile commerciante che conosce più lingue. Quindi, sia una persona di cultura che ama l’arte e l’amicizia magari di santi, filosofi e musicisti. Spartît di “Die junge Nonne” di Schubert su tescj di Craigher Lo so che non vi piace la musica classica ed è un vero peccato anche perché la differenza tra musica classica e musica rock spesso può essere invisibile tanto che, alle volte, la musica classica è usata per cover dalle pop star, tant’è affascinante; mentre opere rock come “Jesus Christ Superstar” sono diventate dei classici. La vita di Mozart, tanto per citare un autore classico, a ben guardare non fu molto dissimile da quella di un’odierna star musicale di successo con le sue stravaganze e i suoi eccessi. Ora, nell’Ottocento va alla grande un musicista romanticone che si chiama Franz Schubert (17971828). Scrive della musica che è una via di mezzo (non me ne vogliano i musicisti) tra i Radiohead, gli Oasis…, con un filo di gotico all’Evanescence. Solo che i brani sono fatti con un bel po’ di strumenti, musica e armonizzazioni in più e un bel po’ di amplificatori in meno (non c’erano allora…). Inoltre, la sua fama la ottiene scrivendo Lieder, che in tedesco sta per “canzoni”, per voce e pianoforte. La sua musica è così accattivante che viene accusato di essere solo un fortunato inventore di melodie piacevoli. Ora mi chiederete cosa c’entra Schubert e la musica classica con il Jacopo Nicolò della nostra storia. Semplice: Jacopo Nicolò gli fa nientepopodimeno che da paroliere tanto che, se andate su Google e cercate Jakob Nikolaus, Reichsfreiherr (ossia barone imperiale) von Craigher de Jachelutta vi salta fuori una sfilza di link che vi portano a case discografiche e, magari, vi fanno credere di avere a che fare con un musicista mentre non è del tutto vero. Jenfri lis onorificencis impuartantis che i derin, si à di ve iniment chê dal Ordin Ecuestri dal Sant Sepulcri, dal Ordin svedês dai Serafins (il plui impuartant in Svezie). Golâr dal Ordin dai Serafins (Creative Commons, Lokal_Profil) Ricominciamo, allora, con ordine anche per capire il perché del nome tedesco. Jacopo Nicolò (Ligosullo, 1797–Cormòns, 1855) ha solo dodici anni e solo un cognome, Craighero, quando viene mandato prima a Pest e quindi a Vienna per imparare l’arte del commercio. È qui che esplode il vecchio spirito carnico fatto di buoni affari e amore per l’arte tanto che, nel 1825, esce una sua poesia sul Wiener Zeitung. Tre anni dopo viene pubblicata la sua prima raccolta (anonima) di poesie “Poetische Betrachtungen in freyen Stunden“ (Meditazioni poetiche nelle ore libere) che ha un’importante introduzione scrittagli nientemeno che da Karl Willhelm Friedrich von Schlegel (1772-1829), filosofo, scrittore e critico, nonché uno dei fondatori del Romanticismo. Un’ottima partenza per Jacopo Nicolò che si ritrova recensito anche da Carlo Cattaneo il grande federalista che voleva gli Stati Uniti d’Italia! h 26 Jacopo Nicolò al ve cetantis cjariis impuartantis: al fo ambassadôr de Belgjiche, membri de ‘Societât Africane’ di Parîs, vicepresident de “Societât universâl pe cressite des arts e de industrie” di Londre, conseîr dal municipi di Triest e un dai fondadôrs dal asîl di caritât pai frutins bandonâts de citât... Dome par nomenânt cualchidune... Ordin dai Cavalîrs dal Sant Sepulcri disen: MATHIEU CHAINE (Creative Commons) 27 a Fervente cattolico, a Vienna si fa molti amici tra i quali Clemens Maria Hofbauer (1750-1820) che diventerà addirittura santo e patrono di Vienna. Diventa amico anche di Franz Schubert, suo coetaneo, che di mestiere fa il musicista romantico. Ora capite cosa c’entra Craigher con Schubert: sono amici! Ma così amici che Schubert gli chiede di tradurgli dei testi dai classici greci, inglesi, spagnoli, francesi e italiani (si! da tutte queste lingue perché Jacopo ne conosce un bel po’) per ricavarne dei Lieder, delle canzoni. A un certo punto, musicherà addirittura due Lieder su testi dello stesso Jacopo: “Totengräbers Heimweh” (La nostalgia del becchino) e “ Die junge Nonne” (La giovane suora). Già dal titolo capite che trattano argomenti non molto allegri e decisamente gothic alla Tim Burton. Tutte e due queste canzoni sono considerate molto importanti nell’opera di Schubert. “La giovane suora” raggiunge tale notorietà che gli vengono addirittura dedicate delle copertine di periodici. Ora mi direte che due Lieder sono pochi rispetto a quanti ne ha musicati Franz e, in parte, potreste avere ragione. Solo che non è sempre la quantità che conta, ma anche la qualità e molti critici sono d’accordo nell’affermare il rilevante peso dell’amicizia con Jacopo nella formazione artistica di Schubert. Che non è poco, tanto più se a dirlo è il musicologo Alfred Einstein cugino del più famoso Albert. Nel 1835 va ad abitare a Trieste dove svolge il compito di rappresentanza per una grossa banca viennese, la “Arnsein & Eskeles” e, dal 1840, anche quello di console del Belgio. A Trieste, tanto per non smentirsi, continua a dedicarsi alla sua grande passione, l’arte, tanto che è tra i finanziatori e il principale promotore della Società di Belle Arti di Trieste, chiamata “Società filotecnica”, che ha intenti promozionali e commerciali nel mondo dell’arte per stimolare una vivacità artistica che le istituzioni non seguono con la dovuta attenzione. A Vienna, Jacopo Nicolò è diventato ricco, famoso e nobile tanto che gli si allunga il cognome e il nome diventa tedesco dal momento che appartiene, con tutti gli onori, alla nobiltà austriaca. Ora, da buon nobile ha bisogno di un castello altrimenti che nobile è? Lo trova in Carnia, in una sua proprietà dove giace in rovina un vecchio castellaccio, Castel Valdajer. Dal 1939 comincia a ricostruirlo adattandolo alla moda del momento. Ne esce un delizioso castello di stile neogotico tedesco, molto romantico e da favola con le sue belle torri a cuspide e merlate, i pinnacoli, le cornici geometriche abbellite di fregi vegetali, circondato da prati, boschi e montagne. Qui ospita personaggi della finanza e dell’arte mitteleuropea. Forse è qui che pensa di ritirarsi da vecchio, di ritornare al punto di partenza della sua vita ma il destino gli riserva una brutta malattia e una morte beffarda a Cormòns dove si trova in convalescenza, immaginiamo convinto di essere sulla via della guarigione, pronto nuovamente a combattere per i suoi sogni romantici di bellezza come un antico cavaliere. h 28 DIE JUNGE NONNE Wie braust durch die Wipfel der heulende Sturm! Es klirren die Balken - es zittert das Haus! Es rollet der Donner - es leuchtet der Blitz! Und finster die Nacht, wie das Grab! Immerhin, immerhin! So tobt’ es auch jüngst noch in mir! Es brauste das Leben wie jetzo der Sturm! Es bebten die Glieder, wie jetzo das Haus! Es flammte die Liebe, wie jetzo der Blitz! Und finster die Brust, wie das Grab! - San Clemens Maria Hofbauer, patron di Viene Nun tobe, du wilder gewaltiger Sturm! Im Herzen ist Friede, im Herzen ist Ruh! -Des Bräutigams harret die liebende Braut, Gereinigt in prüfender Glut Der ewigen Liebe getraut. (Jakob Nikolaus Graigher) LA ZOVINE MUINIE Il romanticisim di Jacopo Nicolò al è une vore peât ae religjon e a une cierte mode gotiche che, in part, e à influence te art dal timp. Nol è di maraveâsi, alore, se i doi Lieder scrits par jessi musicâts di Schubert a sintin de sô personalitât. Cetant che al renç jenfri lis pichis il burlaç che al berle! Lis trâfs a cricin - treme la cjase! Il ton al bruntule - art la saete! E la gnot e je scure tant che une tombe! Par simpri, par simpri! Cussì mi scjassavi un timp dentri di me! E la vite e renzeve tant che vuê il burlaç! Tremavin i membris, tant che cumò la cjase! Sflamiave l’amôr tant che cumò la saete! E scûr al jere il cûr, tant che la tombe! Rabiiti pûr cumò, burlaç salvadi e possent! Tal cûr e je pâs, tal cûr al è il seren! Il nuviç al spiete la nuvice amade, purificade de prove dal fûc, al eterni amôr avodade. Come Jacopo, ancje Cjistiel Valdaier al patirà un brut destin. Il piçul bebei romantic incalmât tes bielecis des monts cjargnelis nol rivarà a tignî bot aes violencis de Prime Vuere Mondiâl e al sarà sdrumât des trupis talianis in ritirade, tal 1917. Tornât a meti adun, nol rivarà plui a vê che dolcece che il baron imperiâl, tal so grant amôr pe culture, pal so paîs e pe Cjargne, i veve dade. De ilustrazion, o podês dome imagjinâ cetant biel che al jere. 29 a GRANDE CJARGNE MICHELE GORTANI L’importanza di conservare bene la propria storia Politico, geografo, geologo e volontario della Grande Guerra, si fa volontario anche per soccorrere i carnici stritolati dalle guerre e per conservare la migliore memoria manuale della Carnia. Michele Gortani (Lugo, Spagna, 1883-Tolmezzo, 1966) è un carnico che studia, si appassiona alla composizione delle pietre, del suolo e, di conseguenza, si laurea in scienze naturali. Anche se sarà il suo interesse per le persone, quelle carniche in particolare, a caratterizzare la sua vita. L’attenzione verso la sua gente lo porta a essere eletto deputato già nel 1913 e a interessarsi da subito della situazione dei carnici anche perché, il 28 luglio 1914, l’imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe se ne esce con il celebre proclama “Ai miei popoli” con il quale dichiara guerra alla Serbia. Bisogna capirlo, un serbo gli aveva ammazzato un mese prima il nipote nonché erede al trono Francesco Ferdinando e la cosa l’aveva fatto uscire dai gangheri. Solo che la situazione sfugge di mano un po’ a tutti e finirà con il dare l’avvio alla Prima Guerra Mondiale bollata come “inutile strage” e “suicidio dell’Europa civile” da papa Benedetto XV. Cosa c’entrano i carnici in tutto questo visto che da noi la guerra inizierà l’anno dopo? C’entrano, eccome. Perché allo scoppio della guerra gli emigrati carnici e friulani che lavorano soprattutto nei territori della Monarchia e in Germania, sono costretti a ritornarsene a casa. Si parla di quindici/diciassettemila persone senza stipendio e con famiglie a carico. Una bella batosta per una terra che non se la passa affatto bene economicamente. Michele si dà subito da fare e interviene cercando di occuparli nelle costruzioni militari che si stanno allestendo per prepararsi al conflitto. I carnici, però, hanno una brutta nomea, quella di essere poco patriottici, antimilitaristi e individualisti anche perché parlano quella strana lingua… In realtà hanno la testa ben piantata sulle spalle e sanno che da una guerra non si ricava mai nulla di buono. Ciò, però, non dissuade Michele dall’arruolarsi volontario, nel 1915, come sottotenente alpino per riscattare l’onore della sua gente ed è in prima linea sul Pal Grande, sul Freikofel, sul Passo Pramosio... h 30 Subito, però, si scontra con l’inadeguatezza dell’esercito italiano nell’affrontare le ben più preparate truppe austroungariche. Situazione che critica in un rapporto del 1916 che gli vale subito la corte marziale e tre mesi di prigionia nella fortezza di Osoppo e, nel 1917, un deciso intervento davanti alla Commissione d’inchiesta istituita dopo la disfatta di Caporetto. In quell’occasione si prodiga, insieme alla moglie, nel portare soccorso ai carnici affamati, profughi e dispersi nelle varie parti d’Italia. È talmente arrabbiato contro i palleggiamenti di responsabilità tra i vari Ministeri che, il 12 aprile 1918, presenta una dura e diretta maxi-interpellanza al Presidente del Consiglio con ben 50 domande e richieste relative al pessimo trattamento riservato ai profughi carnici. Alla fine del conflitto inciterà, addirittura, i sindaci alle dimissioni per accelerare la liquidazione dei danni di guerra che andavano a rilento. Considerato che era una persona molto tranquilla ed equilibrata, dovete ben immaginare la gravissima situazione in cui vivevano i vostri antenati! Co al jentrà in vuere, l’esercit talian al jere cussì scuintiât che il so amì, il gjenerâl Clemente Lequio, si jere metût a fâ bombis a man cui cops pe mignestre. Te foto, une bombe a man “Carnia”, come chês inventadis dal gjenerâl Lequio. Quest’attenzione verso la sua gente la usa pure durante il secondo conflitto mondiale forse ormai ben cosciente, da buon carnico, che la guerra porta solo disgrazie. Non se ne sta al sicuro a Bologna, dove insegna, ma torna tra i suoi monti a difendere i carnici contro le angherie dei fascisti, dei nazisti e dei cosacchi, come Presidente del Comitato di Assistenza. Alla fine del conflitto si prodiga per attuare azioni utili alla crescita della sua Carnia. Con questo spirito, viene eletto all’Assemblea Costituente (1946-1948) e collabora in maniera decisiva alla realizzazione degli articoli 44 e 45 della Costituzione, quelli che dedicano grande attenzione all’artigianato e alla montagna. Tanta attenzione alla sua gente la riserverà anche da senatore aletto nella I legislatura della Repubblica Italiana (1948-1953), quella che tenta di ricostruire il tessuto sociale di uno Stato uscito a pezzi dalla guerra. Chescj i doi articui de Costituzion taliane là che al è intervignût il senatôr Gortani a pro de mont e dal artesanât. Costituzione Italiana Art. 44. Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà. La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane. Articolo 45 La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato. foto: A. Foscheri A Michele Gortani a son dedicâts doi museus, chel des arts popolârs di Tumieç e il ‘Museu Paleontologjic’ di Puart/Portogruaro. I è stât dedicât ancje un abìs impuartant, l’‘Abìs Gortani’, te mont Cjanine, lunc passe 30 km e cetant cognossût dai speleosubs, e un landri, la ‘Grote Michele Gortani’, a Zola Predosa (BO). 31 a Anche la Legge sulla montagna del 1952 è farina del suo sacco. Nel frattempo continua a fare il geologo ricoprendo le cattedre di Cagliari, Pavia e Bologna dove il suo attivismo si esprime attraverso quella che è l’altra sua vocazione: arricchire biblioteche e musei per conservare la memoria delle cose. Realizza fondamentali studi geologici sulla Carnia, sulla Sardegna e sull’Africa orientale. Il suo più grande successo sarà la realizzazione del “Museo Carnico delle Arti Popolari” nel 1963, che gli è dedicato insieme al padre Luigi. Detta così sembra una cosa facile, ma entratevi e cominciate a guardare le tantissime cose che vi sono racchiuse: ricordate che, per quantità dei materiali, il Museo Carnico è uno dei maggiori musei europei del settore! Tanto più che lo fa in un periodo nel quale le persone sono tese verso il benessere e la modernità e buttano via tutto quello che a loro sembra vecchio. È il trionfo della plastica, della fòrmica, del compensato e del linoleum sul legno fatto in modo artigianale. Per molti anni lo si vede peregrinare su strade di ghiaia a convincere la gente a non buttare le cose vecchie, a non bruciare armadi, telai, cassepanche antichi…, ma a portarli in deposito sperando che finiscano in un museo che dev’essere ancora costituito. Ad acquistare questi splendidi pezzi d’artigianato e antiquariato oggi si fanno dei begli affari ma, ai tempi, era un’impresa non da poco convincere le persone a non disfarsene, anche se sei un senatore. Michele lo fa ed è grazie a lui se oggi possediamo una collezione stupefacente come quella del Museo Carnico che molti musei ci invidiano. Gortani si bat une vore ancje cuintri lis centrâls idroeletrichis di Dimpeç e di Samblâc parcè che, di bon gjeolic, al à capît subit i disastris ambientâi che ur saressin vignûts daûr. Michele Gortani al è stât ancje soci de “Accademia dei Lincei”, de “Accademia delle Scienze di Torino” e dal “Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti” in plui che president de “Società Geologica Italiana”, de “Società alpina friulana” e de “Socjetât Filologjiche Furlane”. Al à publicât 325 lavôrs sientifics e rifondât, a Bologne (tor i agns Cincuante) l’”Istituto italiano di speleologia” che veve presiedût a Postumie a la sô prime fondazion (1929). Al à istituide, tal 1946, la “Libera Comunità Carnica” doventade “Comunità Carnica”. In graciis a la sô ativitât cheste a rive a fâ front ai disastris de vuere: fan, paîs brusâts, besteam copât… Gortani al à vude tante stime ancje te cualitât des oparis de sô int e no si limità nome a salvâlis e a fâlis preseâ cuntun Museu, ma al studià ancje par fâ capî lis diferencis jenfri lis tantis produzions cjargnelis. Cjapait lis cassis: al è lui che al à intivât lis tipologjiis dai intais che a caraterizin ogni valade. Al è par interessament diret di Michele Gortani che pape Pio XII al proclame, ai 26 di Lui dal 1956, sant Benedet Abât tant che patron dai speleolics talians. La Cjargne antighe e jere plene di cûrs: lait tal Museu a scuvierziju ducj!! Cjalait ce maraveis che al à salvadis Michele Gortani cul sô amôr pe Cjargne! h 32 33 a GRANDE CJARGNE JACOPO LINUSSIO e la LAMBORGHINI SKI Sciare è facile e la Carnia vanta molti campioni dello sci. Produrre e inventare sci innovativi lo è decisamente meno. Eppure anche in questa specialità un carnico è diventato un campione mondiale! Ma Jacopo non è uno zuccone e dimostra precocemente di che pasta è fatto: ama tenere i conti in ordine tant’è che anche quelli dei debiti li tiene puntigliosamente in nota. Oltre a questo è un gran sportivo e appassionato della montagna. D’inverno si reca a sciare a Sella Nevea e ci va in bicicletta sulle strade disagevoli di allora. Inoltre frequenta le più rinomate stazioni sciistiche quali Cervinia, Courmayeur… Tra l’altro, proprio negli anni della sua giovinezza, le truppe alpine cominciano a usare gli sci e serve chi li produce. A farli è una piccola fabbrica artigiana di Udine, la “G. Lamborghini Fabbrica Ski” che produce e vende sci agli alpini, anche a quelli di Tolmezzo. Ora ditemi: cosa fareste voi se, rimasti orfani di padre a (quasi) ventun anni, ricevuta in eredità una fabbrica tessile che non funziona più come un tempo, amate lo sci e venite a sapere che a Udine stanno liquidando una fabbrica di sci per la morte del proprietario? Bravi! Fareste proprio quello che fa Jacopo: molla la manifattura di famiglia e acquista la “Lamborghini ski” portando macchinari e artigiani a Tolmezzo, nei locali della vecchia manifattura tessile. Jacopo ha ora 28 anni e, oltre a intraprendere una nuova avventura imprenditoriale, ha trascorso gli ultimi anni alle prese con la cessione dei vecchi macchinari, della villa e dei conti di famiglia, una gavetta non da poco. Fortuna che ci sono le auto, l’altra sua grande passione (con tanto di multe). Cambia il nome della ditta che diventa “Lamborghini Ski”. Il marchio sarà realizzato da uno dei maggiori incisori del Novecento italiano, Tranquillo Marangoni (1912-1992), uno degli artigiani portati da Udine a Tolmezzo. La “Lamborghini Ski” giunge a contare oltre un centinaio di operai e il marchio è ricercato dagli sportivi più famosi del dopoguerra. Sono sci fatti molto bene anche perché Jacopo non si accontenta e porta loro continue migliorie tecniche inventando gli sci multistrato e i cosiddetti “sci di vetro”. I primi multistrato sono composti da due cartelle di frassino con in mezzo un’anima lamellare. Gli altri, gli sci ‘ZIG-ZAG’, sono prodotti anche con la fibra di vetro, un’innovazione che porterà la Lamborghini a diventare l’azienda leader del settore e che è usata ancora oggi nella fabbricazione degli sci. 100 DOME INT DI CJARGNE A son cent lis operazions che a coventin par meti adun un schi Lamborghini, tantis di chês fatis a man! I dipendents di Jacopo a son cussì brâfs che a son nomenâts tant che “i mobilieri dello sci”. Jacopo al vûl che ducj i siei lavorants a sedin cjargnei. Te foto: Ravasclêt, 1947 Porta bene chiamarsi Jacopo in Carnia dove sembra che questo nome sia di successo. Se poi ci aggiungete il cognome Linussio potete andare sul sicuro. Per cui ecco un altro Jacopo Linussio (Tolmezzo, 1904 - 2003) destinato al traguardo. Nato un bel po’ dopo lo Jacopo Linussio delle stoffe, pur avendo iniziato la sua avventura imprenditoriale con l’azienda tessile dell’avo, non è con questa che si fa conoscere nel mondo. Un’altra costante di alcuni carnici di successo, inoltre, sembra essere la scarsa propensione alla scuola se non è quella della vita. Non che non vogliano applicarsi agli studi, no! È proprio la scuola in sé che non funziona con loro. Fatto da non riferire agli insegnanti perché potrebbero restarci male. Anche in questo Jacopo Linussio non è da meno tant’è che, dopo una serie di brutte note scolastiche e di debiti contratti, il padre lo va a ripescare a Torino, in calesse, all’Istituto Tecnico al quale lo aveva inutilmente iscritto. h 34 35 a Costruisce anche i primi bastoncini da sci in fibra di vetro che risultano, però, troppo pesanti per l’uso! Non tutte le ciambelle riescono con il buco… Neanche gli sci di vetro che, per un errore di scelta del collante, si scollano. Jacopo non si arrende e tra il 1955 e il 1956 lancia uno sci composto di fibre di vetro e resine sintetiche, il “Kristal”. Un successo? Sì, se non fosse che glielo copiano ed è la concorrenza che ne trae vantaggio. Jacopo non molla e produce nel 1966 lo sci “Fuego 190”, uno sci talmente ganzo che viene ricordato ancora. L’avventura della “Lamborghini Ski” comincia a rallentare negli anni ’70. La concorrenza è molta, Jacopo non investe in pubblicità, vuole fare tutto da solo e, inoltre, ha 70 anni e nessuno cui affidare il timone dell’azienda. Gli sci sono sempre tra i migliori a livello mondiale, ma gli sciatori acquistano quelli che usano i campioni anche se di minore qualità e Jacopo confida troppo solo sulla qualità di ciò che produce. L’azienda comincia a entrare in crisi e finisce con l’essere ceduta alla Snaidero che ne tenta il rilancio internazionale, offrendole un’appendice di celebrità fino alla chiusura definitiva. Resta la memoria di sci mitici. Sono tantissimi gli sciatori che ricordano con piacere gli sci Lamborghini e li conservano, gelosamente, in casa. h 36 Par provâ i siei schîs, Linussio no si ferme denant di nuie, nancje denant de biele stagjon. Ve, alore, che al ordene ai siei colaudadôrs di butâsi jù pai glereons o di peâsi daûr de sô machine. Pensait aes musis di chei che ju viodevin a passâ! Par realizâ i schîs di veri, Jacopo al à une intuizion vinicule. Al va li dai missêrs che a àn la cantine di Buri e al scuvierç lis bots in vitroresine, un materiâl che al apliche dal moment sui siei schîs. Tal 1972 la Lamborghini Sci e prodûs un schi speciâl pal dissesist Franco Tach di For di Avoltri che lu sperimente sul ‘chilometri lançât’ a Cervinie. A son schîs cetant luncs in fibre di veri e metal e, midiant di chei, l’atlete al rive a fâ i 170,132 km/h. Te foto grande: schîs Lamborghini produsûts di Snaidero; a drete: i mitics Fuego e Fuego Competition. 37 a GRANDE CJARGNE APOLLO PROMETEO CANDONI Perdere la vista ma saper guardare più lontano degli altri Prometeo fu un dio dell’antichità che si ribellò a Giove e portò il fuoco agli uomini. Apollo Prometeo, invece, è un capitano d’industria che, ribellandosi al suo destino, porta anche in Carnia il fuoco della sua genialità imprenditoriale. In Francia comincia a lavorare gestendo un ristorante con la moglie e facendo il pianista di un certo successo. Ma ciò non gli basta e nel 1948, a 36 anni, decide di dare una decisa svolta alla sua vita. In tasca ha 140 franchi dell’epoca, che non sono certo una gran cifra. Con cento franchi compra giusto un bilanciere di seconda mano che piazza in un garage a Morsang-sur-Orge, non lontano da Parigi. Inizia proprio come Steve Jobs se non peggio di lui visto che il garage non ha neppure il pavimento! Ora non so se sapete cos’è un bilanciere. È la macchina che vedete nella foto a sinistra con due bracci che si muovono: ci credete che Apollo non se li è mai beccati in testa come accade spesso a quelli che gli occhi li hanno buoni al pari della distrazione? I restanti quaranta franchi li spende per acquistare materiale ferroso. Altro materiale se lo fa prestare sulla fiducia e con un amico, Constant, comincia a produrre morsetti metallici perché intuisce la futura fortuna e diffusione che avrebbe avuto l’auto. Il suo straordinario intuito, che non l’abbandonerà mai, vede giusto. L’avventura ha inizio. Con l’aiuto dell’amico e della moglie inizia a produrre fanali per auto, inizialmente per la Citroën. Lavorano sodo, 24 ore su 24, dandosi il cambio a turno per riposare pur di non fermare la produzione. Nasce così la SEIMA, Societé Exploitation Industrielle Mecanique Automobile. Apollo, detto “il Capo” da chi lavora con lui, non si accontenta della qualità di ciò che produce. Sembra quasi che la cecità gli imponga una continua sfida per dimostrare di “vederci” meglio di chi la vista ce l’ha buona. Infatti, è il primo a intuire che la plastica sostituirà il metallo e il vetro nella costruzione dei fanali, una vera rivoluzione! Controlla, prova i materiali che vengono prodotti, indica come fare per migliorarli e come razionalizzare l’organizzazione aziendale con la conseguenza che, in vent’anni, crea un’impresa così grande e su tante sedi da essere insignito, nel 1972, della Legion d’Onore, il massimo riconoscimento francese creato da Napoleone Bonaparte. Candoni al refudarà simpri di sei considerât un vuarp, anzit al odeave di fâsi cognossi tant che tâl e di jessi compatît di chei che lu incuintravin. Par la cuâl, al diseve “Voyons, voyons” (“Viodìn, viodìn”), al compagnave dirigjents impuartants de FIAT di Turin a Tumieç o par Vignesie, spiegantjur ce che a viodevin pe strade, basantsi sui suns, su lis curvis, sui odôrs e su la sô memorie straordenarie. Cussì che chescj ca a scuvierzevin la sô minorazion/invaliditât dome ae fin… Par Udin, po, al lave di bessôl e divuardi a volê compagnâlu sot il braç! Può un cieco costruire un colosso internazionale capace di dare lavoro fino a 5.500 persone occupandosi di fanali per auto, ossia di qualcosa che lui, forse, non ha mai visto e che aiutano quelli che già vedono bene a vedere meglio ciò che combina l’auto che li precede? Non ditemi di no perché è successo. A un carnico, ovviamente. Apollo Prometeo (Amaro,1911-Antibes, Francia 1985) è figlio di Umberto Candoni che di mestiere fa il fotografo e che, forse, gli dà quei nomi sperando possa esprimere i suoi sentimenti di bellezza e di anarchia. Bellezza con Apollo, ribellione con Prometeo. La vista della bellezza, però, Apollo Prometeo la perde quasi subito: a otto anni trova un residuato bellico sul greto del fiume e questo gli esplode in faccia: è facile in quegli anni trovare quanto resta dell’orrore della Grande Guerra e i giochi fatti da ragazzi sono spesso incoscienti. A poco a poco comincia a perdere la vista e, in breve, rimane cieco. In più si sente umiliato dal padre che lo porta in giro come testimonianza delle atrocità della guerra. Lui, invece, non vuole sentirsi diverso anche se la cecità non gli offre molte speranze. Storia finita, dunque? Per niente. Il suo carattere determinato e combattivo, tipico di molti carnici, emerge quasi a voler sfidare un destino poco generoso. S’iscrive al Conservatorio di Trieste riuscendo a diplomarsi in pianoforte - Chopin è il suo idolo - ma sono gli anni del fascismo e un’altra brutta guerra si avvicina minacciosa. Temendo misure restrittive per le sue idee antimilitariste, il padre fugge in Francia a cercare fortuna con tutta la famiglia e Apollo inizia la vita di emigrante come era già successo, per secoli, a molti carnici. h 38 Candoni al piert la Legjon di onôr tal 1982 parcè che e salte fûr une furbetât tai confronts dal fisc di bande di une des sôs fabrichis là che lui al jere president. In realtât, la sô e jere une cjarie onorifiche, ancje parcè che al jere aromai malât e nol jere plui in grât di direzi. Ma tant al è, e lui salacor si cjate a paiâ pes colpis di altris. 11 a Come l’altro grande suo conterraneo, Jacopo Linussio, non gli basta il successo ottenuto, ma fa della vita una continua sfida: suona il pianoforte, pratica sport come lo sci d’acqua e lo sci sulla neve alle volte senza chi lo guidi, andando a memoria… Per capire come la testardaggine e la forza di volontà di Apollo determinino il suo successo basta verificare il numero degli addetti che assume nel tempo: se nel 1948 sono solo in tre, lui, Costant e sua moglie, nel 1950 i dipendenti sono già 16. Negli anni ‘60 i dipendenti crescono a 2.300 in tre stabilimenti e nel 1975 diventano 5.500 in sei stabilimenti: cinque in Francia e uno in Carnia. Sì perché il “Capo”, come tutti i carnici, ricorda con affetto la sua terra, ne vede le difficoltà e cerca di portare un po’ di benessere ai luoghi dai quali è partito. Candoni al compensave la pierdite de viste cuntune memorie e une sensibilitât tatile prodigjose: al ricognosseve il gjenar di mobii tocjantju, al capive a colp la posizion di chei che a jerin in taule cun lui une volte che je vevin dite… E al jere il terôr dai operaris co al passave in fabriche, parcè che cul tocjâ al rivave a intivâ ogni plui piçul fal dai prodots, miôr di lôr. Nel 1969 nasce, pertanto, la “SEIMA Italiana” che giungerà a occupare 1.700 persone e che, inizialmente, ha i suoi uffici, pensate un po’, al Museo Carnico delle Arti popolari! La “SEIMA” è un’azienda importante, che fornisce tutte le maggiori case automobilistiche europee e, grazie all’imprenditorialità di Candoni, non ha rivali in Europa. A fermare il “Capo” è solo la malattia che, nel 1981, lo costringe ad abbandonare l’attività mentre la sua avventura viene portata avanti dal figlio Walter e continua a crescere incorporando varie altre aziende europee. La “SEIMA Italiana” fa altrettanto finché, nel 2.000 viene, a sua volta, inglobata nella Magneti Marelli del gruppo FIAT per la sua importanza. Cosa ci insegna l’avventura di Apollo Prometeo, il “Capo”, la stessa di Linussio, di Craighero e di tantissimi carnici? Che noi siamo un popolo fiero e combattivo e che nulla ci può fermare. Si pues dî che Candoni nol costruì dome la SEIMA ma, par podê tignî sot control i timps di produzion, al à svilupadis tantis altris industriis, tant che la stamparie CSAT, la VITRERIA CARNICA... dant inmò plui ocupazion ae Cjargne. Par capí l’impuartance sociâl de SEIMA di Tumieç baste impensâ che, partide cun 140 dipendents, e rivâ a ocupâ fin a 1.700 di lôr! Ancje se vuarp, il “Capo” si diplome in piano al Conservatori e al pratiche sports tant che il schi e il schi di aghe, come che si viôt in cheste foto. h 40 Tal 1969, chei che a produsevin automobii a jerin ducj a Turin o a Milan. Par convenience e par dâi di vore ae sô tiere, Candoni nol ve pôre di meti sù une industrie ancje in Cjargne. Tai ricuadris: fanâi produsûts a so timp de SEIMA. A son presintis dutis lis plui grandis cjasis che a produsin automobii. (publicitât de SEIMA pai Paîs todescs). Vuê la SEIMA taliane e je te “Automotive Lighting” e e furnìs cjasis di automobii tant che Fiat, Alfa, Lancia, Audi, Bmw, Mercedes, Opel, Volvo, Saab, Ferrari, Maserati. 41 a GRANDE CJARGNE FERMO e REMIGIO SOLARI Saper disegnare il tempo Che i nomi spesso non ci azzecchino è un fatto visto che uno di nome Fermo ha creato il suo successo rincorrendo il tempo e finendo con il dominarlo grazie all’ingegno del fratello. Ve ne sarete accorti che in questo libro non si parla di donne. Questo non vuol dire che in Carnia non ci siano donne e nemmeno che queste contino meno degli uomini. Il fatto è che a esse toccava il duro lavoro di amministrare la casa durante l’assenza del marito, impegno particolarmente gravoso vista la difficoltà del vivere in montagna, e di supportare e consigliare il consorte con coraggio com’è capitato a Bianca, sicura spalla di sostegno per il marito, Fermo Solari (1900-1988). Come tutti i carnici che fanno fortuna, Fermo nasce povero. È uno dei dodici figli di un orologiaio di Pesariis che muore quando lui ha 12 anni. Fortuna vuole che Fermo abbia un fratello, dieci anni più vecchio di lui, che vive a Bologna. Questi lo ospita e l’aiuta negli studi così che riesce a ottenere il diploma di tecnico agrimensore, che sarebbe un po’ il geometra attuale. Potrebbe fermarsi lì, ma Fermo ha forza di volontà e cervello e non tarda a dimostrarlo. Va a Roma a lavorare senza smettere di studiare e nel 1926 ottiene, a Friburgo in Svizzera, il diploma di ingegnere edile. L’edilizia sarà la sua prima avventura tanto che nel 1932 fonda una sua impresa edile con la quale lavora soprattutto nell’Africa coloniale. È così svelto e capace che nel 1936 è nominato cavaliere del Regno. Neanche questo fatto, però, lo trattiene dal continuare gli studi e nel 1943 ottiene la Laurea in Scienze Economiche presso l’Università di Roma. L’edilizia lo rende ricco ma, nel 1941, scioglie l’impresa di lavori pubblici affermatasi con lui e ritorna in Friuli. Sono tempi brutti, c’è il fascismo, la guerra... Inizialmente Fermo è un sostenitore del regime, ma nel 1940 - qualcuno dice grazie alla moglie Bianca - comincia a rivedere drasticamente le sue posizioni tanto da diventare uno dei fondatori del Partito d’Azione, movimento politico che anticipa il concetto di Regione e l’ideale europeista, svolgendo un’azione clandestina contro la dittatura. Non è facile, in quei primi anni di guerra, essere contro un’ideologia condivisa dalla stragrande maggioranza degli italiani, euforici per quella che si prospetta come una grande vittoria a fianco dell’alleato tedesco. Comincia, pertanto, a interessarsi di politica abbracciando, pur essendo un benestante e un “padrone”, gli ideali socialisti che lo porteranno dalla clandestinità al vice comando del Corpo volontari della libertà (1944-45) e a ricoprire ruoli decisivi nella politica nazionale. Prima come membro del Comitato Centrale del Partito Socialista Italiano (1947-57), poi come Senatore della Repubblica (1958-63). Il non di bataie di partigjan di Fermo al è “Somma”. Te sô ativitât clandestine al reste ferît a Milan e al ven arestât dai republichins. Puartât al Niguarda al è liberât di une azion partigjane a la vilie de insurezion de citât. Solari al scrîf ancje libris. La esperience partigjane le conte soredut intun libri une vore let e atuâl: “L’armonia discutibile della Resistenza”. Cheste e je biele. Par no lâ in vuere a pro dal fassisim, prime de visite militâr, al conte che - par jessi esonerât - la sere prime al mangje cuarantedoi ûfs dûrs par fâsi vignî disturps al fiât. Che no i vegnin. Dut câs, al pense un so amì miedi a no fâlu partî. Teleindicadôr de Solari tal aeropuart TWA di New York: grant design e grande eficience. h 42 43 a Ma Fermo è noto soprattutto per aver contribuito a fondare la “Solari R. e C.”, innovativa industria di orologi. Che c’entra, direte, con l’edilizia e la politica? Se ricordate, la storia di Fermo è partita da Pesariis dove ha sede la “Premiata fabbrica fratelli Solari fondata nel 1725” in cui lavorava il padre. Inoltre appartiene a una famiglia di persone intraprendenti. In particolare, tra i fratelli ce n’è uno geniale nell’inventare automatismi, Remigio (1890-1957), che Fermo indicherà sempre come il vero autore del successo della “Solari” e che è quello che lo ha spinto a laurearsi a Friburgo. Remigio è un autodidatta che ha in sé la genialità di famiglia. Dopo l’apprendistato a Pesariis si dedica a inventare cose: con uno zio prete inventa un dispositivo a moto perpetuo; da tecnico specialista al Pirotecnico di Bologna (1915-18) realizza automatismi per lanciare granate... È lui che inventa l’orologio a schede che fa la fortuna dell’azienda. Ha una voglia tale di progettare che morirà, di notte, proprio mentre sta realizzando un nuovo progetto. Par coerence cu lis sôs ideis, tal 1966 Fermo al cree la fondazion “Bianca e Fermo Solari” cu la intenzion di jessi di aiût ai operaris. Cuant che Fermo al vendarà la fabriche, i fonts de fondazion a saran distribuîts ai operaris. Pesariis è giustamente definito “il paese degli orologi”. Quest’attività, infatti, è qui documentata fin dalla fine del Seicento quando viene menzionato Cristoforo Capellari (1646-1718) come “primo orologiaio”. Ma è nel 1725, con la fondazione della Fària, lo stabilimento Solari, che quest’attività diventa veramente importante per la comunità. Questa lunga storia oggi è raccontata in un piccolo museo che conserva preziosi orologi d’epoca al quale corrisponde un museo all’aperta dove si alternano orologi a carillon, dal moto perpetuo, ad acqua... Nel 1936, dunque, Remigio lascia Pesariis per Udine e coinvolge Fermo nella sua volontà di aprire un’industria di orologi. Remigio ci mette la sua abilità, Fermo il capitale e la sua grandissima abilità organizzativa. È così che con altri due fratelli, Ettore e Remo, e il cugino Ugo fondano a Udine l’azienda che sarà a lungo all’avanguardia nell’orologeria internazionale e fiore all’occhiello dell’industria friulana. Le capacità progettuali di Remigio e quelle imprenditoriali di Fermo fanno sì che la “Solari” diventi una delle aziende più importanti nella produzione di orologi con reti commerciali in tutto il mondo e 350 tecnici che vi lavorano. A 64 anni, Fermo decide di ritirarsi dall’attività e cede la “Solari” alla Pirelli rimanendone presidente emerito per vari anni. Une des storiis che si contin su la nassite di cheste vocazion propit a Pesariis e je peade ae liende di un pirate di Gjenue che al sedi scjampât chenti, dedicantsi a cheste ativitât tant di fondâ une fabriche. Plui facil che, invezit, ancje cheste ativitât e sedi peade aes peregrinazions dai cramârs sù pes Gjermaniis: si pense che cualchidun di lôr le vedi imparade te Foreste Nere e le vedi puartade chenti. Ancje par deventâ orloiârs al covente lâ a scuele e praticâ a lunc, come che si capìs di un scrit dal 1753 di Giacomo Capellari là che si impegne a istruî so nevôt in cheste art tal timp di sîs agns. Il “Cifra 5” de Solari, un dai mitics “Cifra” , al vinç il “Compasso d’oro” tal 1956, ven a stâi il plui grant premi pal design talian. Il “Cifra 3” il plui famôs dai orlois “Solari” presint ancje al MoMa di New York. La grande invenzion de Solari al è stât l’ûs di paletis che si movin par fâ viodi lis oris. Chest al permet di podê viodilis di lontan e, duncje, a deventin essenziâls cuant che si à di leilis in puescj tant che lis stazions o i aeropuarts. 3. Orlois cun calendari: une novitât assolude tal setôr. Chestis, in curt, lis fasis de aventure “Solari”. 1. Invenzion di un model di orloi a schede, bon di stampâ ore e date suntun cartonut, cetant util pes aziendis. Al ven fat in cinc modei numerâts 2. Orloi a scat là che ogni cifre cui agns dai socis: 46, 48, 49, e je scrite su dôs miezis paletis. 55 e 58. Par fânt un a coventin fin a 700 tocs! h 44 4. Teleindicadôrs pes stazions e pai aeropuarts che si puedin lei di 10 a 100 metris di distance. 45 a GRANDE CJARGNE QUANDO LA CARNIA È KOLOSSAL Dante Spinotti (Tumieç 1943) al è un diretôr di fotografie cetant preseât e che al à vudis dôs Nominations ai Oscar pai films “L. A. Confidential” dal 1998 e “Insider” dal 1999 e trê Nominations al ASC Award, impuartant premi de American Society of Cinematographers. DANTE SPINOTTI I carnici li trovi dove meno te l’aspetti! Ad esempio, dietro una macchina da presa a inquadrare tipini dello star system come Sharon Stone, Johnny Deep, Roberto Benigni, Russel Crowe, Al Pacino, Leonardo Di Caprio... Con il rischio di prendersi pure l’Oscar. A guardare le vite dei personaggi presenti nel libro, la domanda che ci si pone è sempre la stessa: “Come hanno fatto ad avere successo partendo dalla Carnia?” So già che rispondi “Per l’appunto, partendo!” Ma non basta perché ci vuole ben più dell’acquisto di un biglietto: quanti ne hai acquistati tu? Forse è qualcosa che è nello spirito delle nostre montagne e che queste ci hanno trasmesso. Qualcosa che ha a che fare con la forza delle rocce e la solenne tranquillità degli alti orizzonti. Qualcosa che ci fa sempre ritornare da loro... Per prudenza, comunque, lo abbiamo chiesto a Dante che ha fatto questo percorso. Come si diventata candidati all’Oscar? Diventare candidati all’”Oscar” provoca una forte emozione vista la selezione mondiale che viene fatta. La candidatura viene attribuita da tutti i membri dell’Accademia del Cinema di Hollywood, che comprende molti cineasti provenienti da tutto il mondo, circa 500 colleghi, che fanno di mestiere i direttori della fotografia. Il loro compito è di valutare tutti i film dell’anno e votarne i cinque che considerano i migliori. Poi tutto il corpo dell’Academy, composto da cinque/seimila membri, a sua volta vota per decidere chi tra i candidati vincerà l’”Oscar” nelle varie sezioni: miglior attore, miglior regista, miglior direttore della fotografia, miglior scenografo, miglior truccatore... e così via. La cerimonia della consegna degli “Oscar” avviene solitamente in marzo. Devi sapere che un film per avere una candidatura può essere realizzato ovunque nel mondo, ma deve essere proiettato per almeno una settimana in un cinema negli Stati Uniti prima della fine dell’anno. Giungere a essere candidati all’”Oscar” è il risultato di quello che fai per anni con passione e perseveranza, che ti porta alla possibilità di partecipare a film di qualità. È necessaria anche una buona dose di fortuna che ti permette di partecipare alla realizzazione di un film che sarà un bel film, visto e apprezzato da moltissima gente. La candidatura è una scelta anche di onestà perché non sono ammessi favoritismi, raccomandazioni, pressioni economiche... h 46 La sô aventure cinematografiche e je scomençade tant che operadôr, assistent dal barbe Renzo Spinotti in Kenya. Po dopo, al lavore pe RAI fin che, tal 1981, al tache a interessâsi di cine, mostrant di subite la potence espressive de sô fotografie. Dopo dai prins films talians, al à lavorât soredut in Americhe là che al à colaborât a kolossal une vore famôs e cun atôrs cetant brâfs. Dal 2003 al è citadin dai Stâts Unîts. Dante Spinotti cun Sharon Stone sul set di “The Quick and the Dead” (1995) Chescj i premis, in plui des Nominations, che al à vûts te sô cariere sflandorose: - doi “David di Donatello”; - doi “Nastri d’argento”; - un ‘BAFTA Award’ (British Academy Film Awards). Quand’è partita la tua grande avventura e che percorsi e difficoltà ha incontrato? La mia avventura è iniziata a dodici anni. Già allora la fotografia mi appassionava molto, ma il mio scarso amore per la scuola ha fatto il resto. Latino, greco e matematica non colpivano la mia attenzione con il risultato che sono finito in Kenya ospite di uno zio, Renato Spinotti, che faceva il mestiere che faccio io adesso. Questo mi permise di imparare l’inglese e di maturare, imparando cosa vuol dire lavorare e assumere delle responsabilità. Tornato in Italia dopo un anno, una serie di eventi, frutto di buone coincidenze e di fortuna, mi hanno portato, con il tempo, ad acquisire la doppia cittadinanza: ora sono sia cittadino americano che italiano. È stato difficile abbandonare la Carnia? A essere sincero io non ho mai abbandonato la Carnia. Me ne sono dovuto allontanare molto presto, questo sì. Ma dai sei anni in su vengo in Carnia appena possibile e questa terra è diventata una realtà costante nella mia vita. Ancora oggi io e la mia famiglia siamo legatissimi a Muina di Ovaro dove ci dedichiamo alla vecchia - e proprio per questo preziosa casa di famiglia e ai suoi terreni circostanti. Chi “abbandona” la Carnia, dove si vive molto bene, o è disinformato o non sa quello che fa. 11 a Con quali attori e registi hai lavorato e qual’è stato il più simpatico? Ho lavorato con moltissime persone, spesso assai differenti tra loro. L’aspetto bello di questo mestiere (ci sono anche aspetti meno belli) è proprio questa immersione di due, sei o più mesi in un lavoro che ti fa incontrare gente nuova, ogni volta diversa e a volte straordinaria, su temi umani, storici o altro. A volte si stringono amicizie anche se poi, magari, non ci si rivede per molto tempo. C’è sempre qualcosa di importante da imparare in queste esperienze. Un grande attore, o una grande attrice, è una persona fortunata, dotata dalla nascita di quelle particolari caratteristiche. Un po’ come i campioni di calcio o del ciclismo. Ma le qualità di partenza non bastano. Poi è necessario lavoraci sopra e con fatica per affinarle. Dovessi citare un attore simpatico o regista dovrei mettere al primo posto Roberto Benigni. Ho lavorato con lui per un anno sul suo “Pinocchio”. Che differenza c’è tra lo scattare una bella foto e dirigere il set fotografico di un film? Il cinema si basa su immagini fotografiche anche se in movimento. Un film che comprende, mettiamo, 2/3.000 immagini ha bisogno di uno studio, una preparazione su un proprio “linguaggio” narrativo perché ogni film parla una lingua diversa, con le sue regole, la sua grammatica, i suoi punti e virgola... Alcuni film, ad esempio, hanno uno stile basato sul documentarismo con la cinepresa portata a mano. Altri usano un linguaggio più classico e tradizionale. Ogni linguaggio si occupa di determinare molti degli elementi che compongono un film: il tipo di costume, le capigliature, la luce, i colori... Cosa consiglieresti a un ragazzo o a una ragazza che vogliano intraprendere la tua avventura? A un ragazzo che vuole lavorare nel mondo del cinema (che è anche realizzare documentari, programmi televisivi e altro) consiglierei di imparare non tanto la tecnica, che è la parte più facile. Soprattutto oggi grazie alle nuove tecnologie che ti permettono di vedere cosa stai facendo, un po’ come quando si fa un disegno; ma di imparare soprattutto l’arte, la letteratura, la storia. Il cervello ha bisogno di immagazzinare conoscenze che ti permettano poi di fare delle scelte. È bene anche essere certi che ci sia una vera passione perché ci sono momenti che richiedono pazienza e costanza, momenti nei quali non tutto va come dovrebbe ed è facile lo scoramento... Quanto sogno o immaginazione ci vogliono perché la fotografia diventi sogno e realtà immaginaria come in un film? Il sogno e l’immaginazione creativa sono legati a una sana preparazione. Si deve sognare o immaginare prima l’intero film o video o attualità, e poi scegliere e fare quello che serve perché diventi un film capace di far sognare o emozionare chi lo vede. Proprio come il sogno che, prima, ha emozionato voi. h 48 Tal principi, tai agns Setante e Otante, Dante al lavore par regjiscj come Salvatore Samperi, Lina Wertmüller e Gabriele Salvatores. Tes fotografiis: cun Michael Mann, regjist di “The Last of the Mohicans”; cun Jodie Foster sul set di “Nell” e cun Max von Sydow intune sene de “Vita di Benvenuto Cellini” Tal 1986 al tache a colaborâ cun Hollywood, curant la fotografie di “Manhunter” (Frammenti di un omicidio). Dopo di chest, al dirêç la fotografie par cetancj films, come “The Last of the Mohicans” (L’ultimo dei Mohicani), “L.A. Confidential”, “Pinocchio”, “Red Dragon” e “X-Men: The Last Stand “ (X-Men: Conflitto finale), “Public Enemies” (Nemico pubblico ), “The Chronicles of Narnia: The Voyage of the Dawn Treader” (Le cronache di Narnia - Il viaggio del veliero)... La sô filmografie e cjape dentri almancul 41 titui, la plui part di films di grant sucès di public! Spinotti al è stât candidât a doi premis “Oscar” pe sô direzion in “L.A. Confidential” e in “Insider” (Dietro la verità). Une part dai siei materiâi le à donade a un font intitulât a so non te “Cineteca del Friuli” di Glemone. 49 a GRANDE CJARGNE LA CUCINA CARNICA Si dice che la cucina sia la vera ambasciatrice di una terra nel mondo perché ne trasmette i sapori, i profumi, le tradizioni... Che dire, allora, della cucina carnica che ha almeno due prodotti notissimi a livello mondiale: il frico e il tiramisù? Che non sono gli unici, grandi protagonisti della nostra cucina perché lo sono anche quelli che hanno saputo elaborarli e il ristorante al centro di tante bontà: il “Roma” di Tolmezzo. “A Tolmezzo un ristorante di sicura classe mondiale il Rome di Tumiez, nella cucina del quale reinventa cose medievali il patron-chef Gianni Cosetti... l’eno-magnata è di quelle che ti confermano, per una volta, che a tavola non si invecchia...” Gianni Brera in “L’Europeo” La vuide Michelin e je la plui preseade e cognossude vuide a nivel internazionâl par chei che vuelin lâ sul sigûr te enogastronomie. I miôr ristorants, une vore selezionâts, a son marcâts cun stelis che van di une a trê. Vê chestis stelis al è un ricognossiment une vore cirût e cualificant pai ristoradôrs, une sorte di Nobel dal ben mangjâ. Te ilustrazion: lis modernis stelis Michelin. GIANNI COSETTI Ben prima del bravissimo Luca Manfé, vincitore del MasterChef USA 2013 con il frico, quest’incredibile delizia carnica ha avuto il suo “profeta”: Gianni Cosetti (Villa Santina, 1939–Tolmezzo, 2001), che gli amici hanno soprannominato “Orso della Carnia”. Un ristoratore così bravo da rendere una cucina, ritenuta povera come quella carnica, meritevole di una Stella Michelin (1991), il riconoscimento più prestigioso dato a un ristorante da chi ama mangiare bene. La sua fortuna culinaria va di pari passo con quella del locale che gestisce, il “Roma” di Tolmezzo, definito “mitico” dai tanti estimatori internazionali della buona cucina e affollato, negli anni del suo massimo splendore, da enogastronomi, grandi giornalisti, attori… Per il grande critico Luigi Veronelli, i piatti del “Roma” erano “immensi, inarrivabili, superiori” e Gianni Cosetti “il cuoco più moderno che l’Italia abbia mai avuto, perché ha intuito primo fra tutti il valore assoluto delle sue erbe, dei suoi funghi, dei prodotti delle sue malghe”. Le sue sperimentazioni di 45 anni di grande cucina sono raccolte in un volume del 1995 edito dalle Arti Grafiche Friulane, che è una specie di Bibbia del buon mangiare, “Vecchia e nuova cucina di Carnia”, dove manifestò tutto il suo grande amore per questa terra e i suoi inarrivabili sapori. h 50 Frico fat te maniere vecje. TIRAMISÙ Tra i maggiori e capaci promotori delle delizie della Carnia vanno ricordati i Del Fabbro più volte premiati dall’Accademia della Gastronomia Italiana. In particolare la moglie di Giuseppe (Beppino) Del Fabbro, Norma Pielli che asserisce di aver avuto, nel 1951 o nel 1952, una fortunata intuizione: sostituire il burro previsto nell’antico “Dolce Torino” con il mascarpone. Racconta che il marito chiamò questa novità “Tiramisù” e che tenne a lungo segreta la ricetta. Una magia, questa, diventata una dei più gustosi dolci internazionalmente conosciuti e che non poteva accadere che in Carnia, nel mitico “Roma” di Tolmezzo... 51 a