Introduzione - aspetti archeologici
Sviluppo storico delle mura
Le porte della città
Le tecniche edilizie
Gli aspetti litologici
Conclusioni
Mappa delle mura
Basta !
INTRODUZIONE - ASPETTI ARCHEOLOGICI
Volterra (Velathri, Volaterrae), sorge su di un colle alto 555 mt., allungato in
direzione NO-SE e dotato di terrazze naturali, a controllo delle fertili vallate
dell’Era, dell’Elsa e del Cecina.
Le sue mura antiche, articolate in tre cinte di diversa epoca, rivestono notevole
interesse scientifico e monumentale, e sono state oggetto di attenzione da parte
di molti studiosi. Alla fine del ‘600, lo storico volterrano Falconcini pubblicava la
sua Antiquissimae urbis Volaterranae historia, nella quale, riferendo una congerie
di elementi fantastici, descriveva due antiche cerchie di mura, di cui rilevava la
diversa cronologia, nella zona più elevata della città. Nella prima metà del ‘900 si
occuparono delle mura di Volterra numerosi autori, ma solo con E. Fiumi esse
furono oggetto di uno studio approfondito, con l’individuazione delle tre cinte
murarie di epoca antica, e della quarta di età medievale.
Più recentemente è stata elaborata un’apposita scheda di unità stratigrafica per la
classificazione e lo studio delle tecniche edilizie: le cinte antiche di Volterra
presentano infatti una notevole varietà di tessiture, riferibili a periodi diversi.
Centro della civiltà villanoviana tra il IX e il VII sec. a. C., Volterra fu
successivamente una delle città-stato etrusche. La sua ricchezza derivava anzitutto
dall’estrazione dei minerali e dal relativo commercio di rame e sale che, come
testimoniano reperti del VI sec. a. C. (v. stele di Avile Tite), la portò a stabilire
contatti economici e culturali con le civiltà antiche più progredite: Cipro, Fenicia,
Egitto, e soprattutto la Grecia.
La città-stato Velathri si espanse ad ovest fino all’Elba, ricca di miniere di ferro, a
nord fino all’Arno, mentre a sud il suo territorio confinava con quello delle
Lucumonie di Vetulonia e Roselle, e ad est con Fiesole, Arezzo e Chiusi. Dal V al IV
sec. a. C. venne portata a termine la grande cerchia muraria, lunga circa 7,3 Km., al
cui interno, su di una superficie di 116 ettari (1.160.000 mq) comprendente
agglomerati urbani, templi, campi, orti e fonti, trovavano protezione più o meno
25.000 abitanti. Di quest’opera ciclopica si possono ancora ammirare la “Porta
all’Arco” e la “Porta Diana”, più altri resti di mura sparsi lungo tutto il perimetro.
Fuori dalle mura si estendevano le necropoli, che erano delle vere e proprie "città
dei defunti", molto ben curate, visto che gli etruschi credevano che lo spirito e le
spoglie del defunto sopravvivessero alla morte; per cui i loculi venivano costruiti
spaziosi e ricchi di corredi funebri. Nelle necropoli sono stati ritrovati infatti gioielli
o ricordi cari ai defunti, come molti oggetti da loro usati nella vita quotidiana.
Le mura di Volterra: sviluppi storici
La più antica cinta muraria, di età arcaica, racchiudeva il Pian di Castello, dove si
formò l’Acropoli (il primo nucleo abitato, in cui furono costruiti i templi dedicati
alle divinità maggiori e minori), e la prima organizzazione cittadina, sviluppatasi
da una sequenza ininterrotta di insediamenti databili a partire dall’età del Bronzo.
La cinta seguiva un percorso tattico, coincidente con il ciglio del terrazzo,
particolarmente scosceso nel versante sud-orientale dell’Acropoli.
Nella seconda metà del VI sec. a. C. l’area urbana si estese notevolmente verso
Nord-Ovest, dove il colle degrada in una serie di ripiani. Essa venne protetta da
una cinta muraria, il cui percorso si sviluppava per circa 1,8 Km da Pian di Castello
lungo via di Sotto, via dei Sarti, via Buonparenti, fino alla Fabbrica dell’Ospedale,
per poi risalire per Piazza S. Giovanni e piegare di nuovo verso Pian di Castello.
Quest’area era assai inferiore a quella di altre città etrusche, in particolare di Veio,
Cere e Tarquinia: probabilmente al di fuori della città, come a Chiusi e ad Arezzo,
si estendevano vasti sobborghi, in corrispondenza delle principali direttrici stradali.
Il percorso della cinta lungo il tratto occidentale è stato di recente precisato
dall’individuazione di un settore di oltre 20 m: tale settore di muro è stato
portato in luce entro l’ex Ospedale Civile nel corso di lavori di restauro per
l’allestimento del Centro Studi della Cassa di Risparmio di Volterra.
Come altri centri dell’Etruria settentrionale, minacciati da pressioni celtiche e
romane, nel tardo IV sec. a. C. Volterra si munì di una più estesa cinta muraria
(recenti scavi sembrano confermare questa cronologia).
Questa fortificazione, sviluppata per un perimetro di 7,28 Km, racchiudeva un’area
di oltre 116 ha, seguendo un percorso finalizzato a comprendere il maggior
numero possibile di sorgenti. Essa includeva anche gli attuali borghi di Santo
Stefano e San Giusto, spingendosi fino alla Guardiola, e più ad Est il piano della
Guerruccia; costeggiava quindi le vallate di Vallebuona, del Portone e di Pinzano, e
risaliva per il Golfuccio e Sant’Andrea, fino al settore sud-orientale dell’abitato.
A Sud, le fortificazioni seguivano un percorso tattico poi ricalcato dalle mura
medievali datate al XIII sec.: il loro sviluppo si snoda lungo le alture e in profonde
vallate, superando sbalzi di quota assai rilevanti (da m. 520 a m. 420). L’inclusione
entro la cinta muraria delle aree necropolari di età arcaica/classica, come quelle
ubicate nei Borghi di Santo Stefano e di San Giusto e sul piano della Guerruccia, è
chiaro indizio dell'accresciuta necessità di spazi urbani; non solo per esigenze di
ordine difensivo, ma anche in conseguenza del notevole sviluppo demografico
registratosi nel corso del IV sec. a. C.
La grande cinta di Volterra racchiudeva dunque un'area comprendente sorgenti,
terreni coltivabili e pascoli, e poteva accogliere le popolazioni delle campagne
messe in fuga dagli avvenimenti bellici dei primi decenni del III sec. a. C.
Come sopra detto, il percorso delle mura era condizionato dall’ubicazione delle
sorgenti: queste, localizzate lungo le pendici del colle, dovevano essere comprese
entro la cinta poiché l’acrocoro, privo di significative falde acquifere, presentava
un’accentuata aridità superficiale.
La conquista romana, avvenuta entro la prima metà del III secolo, non implicò
necessariamente la presa militare della città.
Le mura urbiche ebbero verosimilmente un’importanza strategica decisiva anche
nel corso dell’assedio portato dall’esercito sillano, cui la fazione filomariana
dovette arrendersi nell’80 o agli inizi del 79 a. C., dopo circa due anni di resistenza.
Con tutta probabilità furono proprio le mura a salvare la città da una conquista
distruttiva.
Queste fortificazioni dovettero riacquisire la loro funzione difensiva anche durante
le invasioni del V sec. e nel corso della guerra goto-bizantina.
Le porte della città
Nelle cinte murarie si aprivano le porte, evidenziate anche da santuari e
necropoli. Due delle porte principali erano il Portone (detto anche Porta Diana),
a nord, e Porta all’Arco a sud. Dalla prima si dipartiva la viabilità in direzione della
val d'Era e della media valle dell’Arno, mentre da Porta all’Arco, poi inglobata
nella cinta muraria medievale, prendevano avvio gli assi stradali che, attraverso la
valle del Cecina, collegavano la città con le saline, le colline metallifere e il
sistema di porti che faceva capo a Vada Volaterrana.
Entrambe le porte si aprivano in parete obliqua rispetto alle mura adiacenti,
disposizione che rispondeva a precise prescrizioni dell’architettura militare, per
cui le porte urbiche dovevano essere disposte in modo da costringere gli
assedianti a camminare lungo le mura, sì da esporre ai colpi dei difensori la parte
destra del corpo non protetta dallo scudo. Esse erano a camera interna, con uno
sviluppo in larghezza di oltre 8 m., in origine coperte in legno.
La Porta all’Arco venne in seguito dotata di due fornici, in calcare di scogliera
locale, racchiudenti uno spazio rettangolare senza volta, così da costituire una
specie di torrione: le due aperture venivano chiuse da battenti. Inoltre, dietro
l’apertura posteriore, doveva esservi una saracinesca, come indica un incavo
verticale nella parete.
Il fornice esterno presenta i conci di imposta e di chiave scolpiti con tre grandi
teste in selagite, pietra dura di tipo magmatico i cui affioramenti più vicini si
localizzano nell’area di Montecatini val di Cecina. Le protomi assolvevano
funzioni di tipo magico-religioso, raffigurando le divinità protettrici della città
(con tutta probabilità Giove e i Dioscuri).
Il successivo rifacimento della Porta all’Arco si deve datare al III sec. a. C., nella
fase dell’avvenuta romanizzazione di Volterra e delle altre città dell’Etruria
Settentrionale.
L’apertura di un’altra porta etrusca è stata messa in luce nel corso di recenti scavi
per la realizzazione di infrastrutture all’interno della Fortezza Medicea: questa
porta, larga circa 3,2 m., risulta allineata con l’attuale porta a Selci, ed è inglobata
nella struttura muraria fra le Torre Quadrata del Cassero, datata 1292, e la torre
circolare del Duca di Atene, del 1343. Essa segnava le direttrici stradali in direzione
della Val d’Elsa.
Un'altra porta urbica si ritiene fosse in corrispondenza della porta medievale di San
Felice, dove, nel settore della cinta muraria ellenistica, è stato individuato parte
del piedritto sinistro interno. Essa si trovava in prossimità di una fonte, cui era
connesso un piccolo santuario di età arcaica, che probabilmente controllava la
viabilità in direzione delle miniere di Montecatini.
Le tecniche edilizie
L’architettura etrusca è ricca di tipi di edifici in armonia con le esigenze di un
certo ambiente naturale e di tutto un sistema di vita, dominato da una nuova
mentalità pratica. Oggi rimangono solo le fondamenta in pietra o le schematiche
tracce della pianta dei vari edifici, eretti nelle parti superiori con i materiali più
leggeri e deperibili, dal legno alla terra. La struttura adottata fin dai tempi antichi
per le mura di cinta della città è quella tradizionale della semplice sovrapposizione
dei grandi massi, più o meno regolarmente squadrati. E qui appare per la prima
volta in Italia, nel IV secolo a. C., il principio dell’arco e del pilastro.
Nella Porta all'Arco di Volterra vediamo l’apertura dell’arco ancora incastrato
nella poderosa massa muraria. Una serie di pietre, sbozzate a piramidi tronche
con la parte stretta in basso, sono disposte a raggiera aderendo perfettamente le
une alle altre nella traiettoria del semicerchio. Ne salda e ne assicura la stretta, la
chiave di volta, ossia una grossa pietra incuneata alla sommità dell’arco, a
sostenere lo sforzo maggiore della pressione. Qui la chiave, ripetuta ugualmente
ai lati, presenta la forma sporgente di una strana testa: le tre teste sporgenti, in
selagite o "pietra di Montecatini", sono rese evidenti dalla stacco di colore
dovuto alla differenza di materiale. Dall’estremità dell’arco a terra sono abbozzati
dei rudimentali pilastri. Gli etruschi hanno usato l’arco come componente
essenziale di un’apertura in alcuni altri casi.
Non sono comunque gli etruschi ad usare per primi la tecnica dell’arco, così
importante da diventare fondamentale per tutti i secoli successivi, fino
all’invenzione del cemento armato: ad Elea , in Magna Grecia, è stata scoperta una
porta, databile poco oltre la metà del IV secolo, che per la chiara misura, per
l’organicità, per l’equilibrio, mostra di appartenere alla cultura greca. Forse già nel
secolo precedente, quest'ultima doveva conoscere la tecnica dell’arco reale., del
resto già utilizzata molti secoli prima dagli egizi, dagli assiri e dai babilonesi.
L’origine dell’arco è infatti orientale.
Connesso alla realizzazione della cinta muraria era il sistema di drenaggio urbano,
destinato a raccogliere e a convogliare all’esterno le acque di scarico, i botri e le
acque meteoriche in eccesso: esso era costituito da cunicoli con andamento NordSud, a seguire le pendenze naturali della collina, costruiti al di sotto dei principali
assi viari. Lungo il percorso delle mura sono spesso evidenti le aperture di tali
canalizzazioni, le cui dimensioni ovviamente variavano a seconda della portata del
drenaggio.
Assieme alle funzioni difensive, le mura volterrane potevano assolvere poi anche
funzioni di terrazzamento, come ad esempio nell’area di Pescaia, nel settore nordest della cinta.
Le più frequenti tecniche edilizie riscontrabili nella cinta muraria
di Volterra sono le seguenti:
• Opera poligonale costituita da blocchi informi e da parallelepipedi sbozzati
irregolarmente: i piani di posa presentano altezze variabili (da 70 a 35 cm); i
giunti sono ad andamento irregolare, con zeppe di piccole dimensioni (vedi
Porta Diana).
• Opera poligonale costituita da blocchi ben sbozzati, a faccia trapezoidale o
rettangolare. I piani di posa sono orizzontali, ad altezze variabili (da 25 a 55 cm);
i giunti verticali sono di solito obliqui, le zeppe assenti (Docciola).
• Opera poligonale in grossi blocchi a faccia rettangolare (sino a 160 cm di
lunghezza). Piani di posa inclinati per adattarsi all’andamento del terreno, con
altezza variabile da 30 a 60 cm. Giunti quasi rettilinei; zeppe assenti (Docciola).
• Opera quadrata in conci disposti di testa (lunghezza max. cm. 59). I filari sono
orizzontali, con piani di posa ad altezza costante (intorno ai 20 cm); i giunti
sono rettilinei, non simmetrici (S. Giusto).
• Opera quadrata di maniera etrusca: conci disposti nel senso della lunghezza.
Sono frequenti gli scheggioni di pareggiamento e le zeppe. In alcuni settori
murari in opera quadrata è visibile lo spazio intermedio fra le due cortine, il cui
riempimento risulta costituito da terra e pietrame (S. Chiara).
In numerosi tratti del circuito murario è in luce la fondazione, costituita da un
conglomerato in pietre di varia pezzatura, non lavorate ma spaccate, disposte a
strati, probabilmente con sabbia interposta. Questa tecnica edilizia si rendeva
necessaria nei settori ove la roccia naturale aveva scarsa portanza, o nei tratti in
forte pendenza, per colmare i dislivelli del suolo su cui poggiavano le mura.
Gli aspetti litologici
Tutti e tre i circuiti murari risultano costituiti da calcari arenacei, detti
“panchina”, che si rinvengono con grande frequenza su tutta la sommità del colle
volterrano. In numerosi settori sono infatti visibili gli affioramenti della panchina
su cui si impostano le mura. Talora, soprattutto nei tratti coperti da fitta
vegetazione, non è agevole distinguere la roccia naturale dai blocchi lavorati. Tale
pietra, che venne massicciamente utilizzata anche in età romana e medioevale, è
ben lavorabile e resiste per secoli, o anche millenni, agli agenti atmosferici.
Dopo la fase tettonica distensiva, culminata nell’ultima grande trasgressione
marina del Pliocene inferiore (ca. 4 milioni di anni fa) e nel conseguente
deposito di notevoli spessori di sedimenti argillosi, la zona di Volterra fu
interessata da un fenomeno di lento sollevamento che determinò il progressivo
ritiro delle acque marine, con graduale sedimentazione di depositi sabbiosi.
Questi ultimi non sono infatti che sedimenti di ambiente litoraneo (come
attestano d’altra parte le numerosissime testimonianze fossili di Lamellibranchi,
Ostreidi, ecc.) progressivamente sovrappostisi, con passaggio estremamente lento
e sfumato, ai precedenti depositi argillosi.
Che si tratti di depositi litoranei è comprovato, del resto, dal fenomeno generale
per cui i granuli sabbiosi, a causa della loro forma e delle loro dimensioni, non
possono, al pari delle minutissime particelle argillose, resistere per molto tempo
in sospensione, finendo così per depositarsi su tutta una fascia prospiciente la
linea di costa. La mutata granulometria dei depositi è testimone pertanto del
modificato ambiente di sedimentazione. A causa del progressivo sollevamento e
della conseguente regressione delle acque marine (regressione astiana - ca. 2
milioni di anni fa), là dove prima si andavano accumulando le argille (mare
aperto) andarono gradualmente sostituendosi le sabbie.
Per quanto riguarda la presenza dei calcari arenacei (panchina) all’interno e al
tetto del deposito sabbioso che ricopre il colle di Volterra, essa è da ricondurre,
come appare confermato dai numerosi resti fossili che vi si possono osservare,
alla loro origine di comuni sabbie: a differenza però del restante deposito
sabbioso, la sabbia che costituisce il calcare arenaceo ha subito un processo di
cementazione dovuto alla precipitazione del carbonato di calcio presente
nell’acqua marina, e verificatosi ove le condizioni complessive di salinità e di
ambiente ne consentivano l’accumulo.
Conclusioni
La cinta ellenistica di Volterra, pur nella varietà delle tecniche edilizie, risulta nel
complesso costruita con precisa pianificazione ed unità progettuale. Le differenti
tipologie edilizie sono determinate dal variare delle condizioni
geomorfologiche, dato che, come più volte detto, il percorso delle mura correva
sia in cresta, sia lungo profondi pendii. Nei pianori e nei settori pianeggianti
solitamente veniva utilizzata l’opera quadrata, mentre l’opera poligonale
garantiva maggiore stabilità lungo i pendii: settori di mura in diversa tessitura si
legano, a conferma dell’unità strutturale.
Il criterio stilistico-strutturale comparativo si è dunque rivelato insufficiente per
definire una corretta cronotipologia dei sistemi murari. La tecnica edilizia
presente nelle mura è del resto attestata in altre strutture ed edifici volterrani di
diversa cronologia: ad esempio nell’area del teatro sono stati portati in luce due
muri di terrazzamento che, nonostante le caratteristiche tecniche, per i contesti
stratigrafici devono essere datati al secondo-primo sec. a. C.; tecnica costruttiva
non dissimile doveva presentare il basamento del Tempio A dell'Acropoli,
datato alla metà del secondo secolo a. C.
End
Le due principali cerchie di mura
Fonte di Docciola
Fonti di San Felice
e di Mandringa
Porta all'Arco
Porta Diana (il Portone)
Panorama dalla Guardiola
Le mura della Guerruccia
Le mura presso S. Chiara
Resti di mura alla Pescaia
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Le mura etrusche - Istituto di Istruzione Superiore G. Carducci Volterra