Projects 26 Crisi mondiale della globalizzazione e ritorno a una cultura dell’eticità si traducono in nuove tendenze inneggianti al rifiuto del non necessario non solo in economia ma in tutti i settori del vivere civile. Minimalismo economico, dunque, ma anche minimalismo architettonico dichiarato da scelte linguistiche epurate che esaltano il ruolo della struttura in quanto elemento fondante dell’archetipo. Nuovi registri espressivi orientati a una sintesi intelligente tra tecnologie all’avanguardia, valori plastici e prestazioni funzionali per una dimensione dello spazio costruito armonica e mai invasiva dell’elemento umano e naturale. The worldwide crisis in globalization and return to a culture of ethics translate into new trends encouraging the rejection of the unnecessary, not just in economics but in every realm of civil life. So this means economic minimalism and also architectural minimalism based on simplified stylistic options exalting the role of structure as a grounding element of the archetype. New stylistic keys directed toward a clever synthesis of cutting-edge technology, sculptural values and functional performance for a harmonious vision of built space which never invades either the human side of life or nature. Ritorno alla base Back to Base Maurizio Vogliazzo* “B ack to Basics”. Lo slogan non è male, ha un suo fascino. È anche così convincente che sarebbe proprio difficile, o per lo meno curioso, non essere d’accordo. Se fra qualche tempo, diciamo una decina d’anni, qualcuno volesse tentare uno zibaldone di questo periodo che stiamo attraversando, Back to Basics ne sarebbe il titolo perfetto. In inglese, perché all’epoca non si potrà fare diversamente: al massimo, per l’edizione italiana, destinata a lettori dalle note e forse invincibili refrattarietà linguistiche, potremmo avere un sottotitolo per la verità un poco infedele, ma per fortuna più ambiguo, “Ritorno ai fondamentali”. Avrebbe un successo molto vintage, a ben vedere: nostalgia su nostalgia. Come non ricordare le parole d’ordine fra il punitivo e il repressivo, più che altro dementi al di là della loro confezione accuratamente mirata a un target assai poco laico e modernizzato quale quello italico, che hanno segnato due o tre generazioni cresciute nell’ultimo quarto del ventesimo secolo? “Austerità”, per esempio, largamente proposto come minaccioso life style, che da parecchio ormai ricompare sotto le mentite spoglie di “sostenibilità”, “eco-compatibilità”, e così via, necessità ovviamente indifferibili ma purtroppo spesso spappolate in rituali vulgate da schiere di benintenzionati ma ingenuissimi operatori sociali e astuti costruttori di consenso. Questi ultimi poi hanno, ahimè, o meglio pretendono di avere, competenze onnivore, quindi anche architettoniche, contribuendo involontariamente e non poco al deprimente complessivo abbattimento della qualità del nostro habitat costruito ma non soltanto. Con tutto ciò, l’architettura non sta sulla luna, non è che passi indenne attraverso periodi critici come quelli attuali. E non soltanto per i risvolti più diretti, prettamente immobiliari. Tuttavia, lasciarsi trascinare da un generale overpressing favorisce facilmente, nei propri cantucci, il riemergere di rancori mai sopiti. Coniugando reminiscenze vitruviane (derivate probabilmente da frequentazioni liceali), nostrani fascini storicistici postbellici (quelli che avevano fatto rilevare a Reyner Banham1 la famosa ritirata italiana dall’architettura moderna), superficiali suggestioni ecologiche e ambientalistiche orecchiate dal gran battage dei temi dello sviluppo sostenibile, insofferenze e moralismi vari, non è raro negli ultimi tempi sentir classificare le architetture di Gehry come non sostenibili, o quelle di Zaha Hadid come formaliste (quando magari si tratta più propriamente di mancato controllo delle diversità di scala), tanto per fare degli esempi. Per riproporre magari, anche sotto sotto come antidoto alla crisi in nome di una supposta apodittica serietà, il vecchio tandem italiota tipologia/morfologia, che in quarant’anni e più non ha portato da nessuna parte, tanto meno a un anche marginalissimo miglioramento di qualche città o cittadina o paese, ma invece alla quasi totale paresi della nostra architettura e delle scuole nelle quali viene insegnata questo sì, col conseguente totale deterioramento e sfascio di ogni qualità dell’ambiente, fisica e della vita di ciascuno. Bel colpo, non c’è che dire: neppure a volerlo sarebbe stato possibile fare peggio e più danni. Per quanto riguarda l’architettura e il built environment (basta parlare di natura: non esiste paesaggio senza modificazione umana), la questione è qui (i discorsi planetari sono sfondi interessanti ma privi di ricadute operative), nella miseria quotidiana in cui in Italia si dibattono ricerca, professione, gestione. D’altra parte che senso può avere trasferire Back to Basics tout court in questo milieu così infelice? Si può tuttavia tentare di trovarlo. L’architettura, la qualità degli spazi e della vita, che altro hanno costituito se non quel Basics, quando Barcellona in una decina d’anni e poi in seguito con ammirevole continuità (a fronte di traversie non indifferenti) è stata rivoltata come un guanto, da conurbazione infetta da rottamare a vera metropoli contemporanea, sotto quasi tutti i profili possibili e immaginabili? E non è finita lì, perché la scala degli interventi è poi divenuta regionale e ben oltre, se si prendono in considerazione, come è d’obbligo, le infrastrutture e i flussi finanziari. Senza contare l’impressionante ammodernamento amministrativo, giunto ormai mille miglia lontano dai nostri uffici ossificati che ben si conoscono. Malgré tout con complessiva soddisfazione e consolidamento dei margini identitari di autoriconoscimento nei luoghi in cui si vive e si lavora, con procedimenti nel complesso soft di conduzione delle modificazioni e di gestione dei conflitti (non è questo il famoso e tanto qui da noi agognato consenso?). Qualcuno dirà: ma che noia, sempre Barcellona, è un esempio sdrucito. Sbagliato: non lo è per nulla, e la dimensione e la scala di ogni intervento, fisico e amministrativo, e perfino, in parte, il tessuto sociale, sono quanto di più vicino e paragonabile si possa trovare con le nostre città. Berlino, Londra e Parigi, tanto per fare degli esempi, è come se si trovassero su di un altro pianeta. Semplice dunque: basterebbe guardare, cercare di riprodurre modificando quando e se del caso. RITORNO AI FONDAMENTALI BACK TO BASICS Vista area di Barcellona. Aerial view of Barcelona. Occorre tuttavia per poterlo fare avere occhi che vedono, e non “des yeux qui ne voient pas”2: la questione rimane sempre quella. Invece qui da noi la cecità avanza, fra non molto tempo diventerà totale. Mentre sta sviluppandosi un altro genere di vista, che non sembra, al momento, farci molto onore. Né, a parte questo, essere molto utile. All’opposto dell’accezione di Basics che ha rimesso Barcellona all’onor del mondo prende invece sempre più piede, negli ambienti che si autodefiniscono più aggiornati, l’idea che l’architettura e la qualità degli spazi (quella della vita non è ben chiaro in che termini interessi e venga o non venga affrontata) devono esclusivamente derivare da ciò che a tutti gli abitanti piace. Eredità remota (diretta anche se distorta) dell’ideologia perversa della progettazione partecipata, mai vituperata a sufficienza, questa dichiarata convinzione e questo intento (già qua e là messo in pratica, ovviamente con l’unico strumento operativo possibile: dichiarazioni e parole), mentre apre squarci su scenari fisici e non soltanto squallidi e depressi, cancella in un sol colpo l’unico significato di Basics per noi adatto e possibile. Così purtroppo rischia davvero di rimanere soltanto il Back, l’indietro. Back, back, back. Reyner Banham lo aveva già allora perfettamente capito. * Maurizio Vogliazzo, architetto, è professore ordinario di Architettura del Paesaggio e delle Infrastrutture Territoriali presso il Politecnico di Milano, dove presiede il Corso di Laurea Magistrale in Architettura. È titolare di “Storia e Teoria del Design Italiano” presso lo University College di Londra (UCL) e insegna Architettura del Paesaggio presso lo IULM di Milano. Visiting professor a Barcellona, Lisbona, Matosinhos, Parigi, Brisbane, è direttore di ricerca per CNR, MPI, MIUR, UE ed enti pubblici e privati. Coordinatore ICP Erasmus dal 1987, dirige ALAD Laboratories (Architecture&LandAmbientDesign), area di ricerca del Politecnico di Milano che ha vinto come migliore scuola di architettura del paesaggio la V Biennale europea di Barcellona. Premiato in concorsi nazionali e internazionali, è autore di opere realizzate e pubblicate. Espone a New York, Berlino, Parigi, Milano, Venezia e altrove. È membro di giurie nazionali e internazionali ed è autore di articoli, saggi e libri, apparsi in Italia e all’estero. È attualmente vicedirettore de l’Arca. Note 1. Reyner Banham (1922-1988), prolifico critico e teorico dell’architettura meglio conosciuto per il suo libro Theory and Design in the First Age Machine, 1960 (Architettura della prima età della macchina) e per Los Angeles: The Architecture of Four Ecologies, 1971 (Los Angeles: l’architettura di quattro ecologie). 2. Le Corbusier, Vers une architecture, Ed. G. Crès & Cie, Paris, 1923. 27 28 “B ack to Basics” is not a bad slogan, it has a certain charm. It is also so convincing that it would be truly difficult, or at least strange, not to agree with it. If some time from now, say in about 10 years time, somebody wanted to give an account of this period we are going through, then Back to Basics would be a perfect title. In English of course, because there will be no choice by then: at most, for the Italian edition, written for those readers unable to overcome their familiar and perhaps insuperable linguistic limits, we might use a subtitle which, to tell the truth, is not very faithful to the original but, at least, has the benefit of being more ambiguous, “Ritorno ai fondamentali”. Its vintage flavor would be quite successful: nostalgia heaped upon nostalgia. How could we ever forget those sound-bites, lying somewhere between the punitive and repressive (demented than anything else), carefully concocted for an anything but secular and modernized target group like Italy, which have now left their mark on the two or three generations growing up during the last quarter of the 20th century? “Austerity”, for example, mainly put forward as a threatening kind of lifestyle, which cropped up again over recent times thinly disguised as “sustainability”, “eco-compatibility” and so forth. Obviously pressing needs but, alas, often mangled into ritual vulgates by hoards of well-intentioned but naive social workers and clever opinion-makers. Unfortunately, the latter have (or rather claim to have) all-encompassing expertise even covering architecture, involuntarily contributing considerably to the depressing overall decline in the quality of our built habitat and much more. Bearing all this in mind, architecture certainly is not a world apart and most definitely has not been unaffected by critical periods like the one we are going through at the moment. And not just in terms of direct and largely property-related implications. Nevertheless, allowing ourselves to be overwhelmed will certainly allow certain unresolved grudges and resentments to resurface. Lumping together Vitruvian reminiscences (probably deriving from what was learnt at high school), a distinctly Italian brand of post-war fascination with historicism (what eventually caused Reyner Banham 1 to sound the famous Italian retreat from modern architecture), superficial ecological and environmentalist ideas taken from the great barrage of issues related to sustainable growth, and all kinds of intolerance and moralizing, it is not rare these days to hear Gehry’s architecture described as unsustainable and Zaha Hadid’s as formalist (when, in actual fact, it is probably more a matter of lack of control over various differences in scale), just to quote a few examples. Only to re-propose perhaps (deep down as an antidote to the crisis in the name of some sort of alleged apodictic seriousness) the old-fashioned Italian combination of typology/morphology, which has got us nowhere over a period of 40 years and more. Certainly not even bringing about even the tiniest improvement in some city, town or village, but which, in contrast, has certainly totally paralyzed architecture and the institution where it is taught, consequently bringing about the complete deterioration and destruction of the physical environment and everybody’s life. Congratulations, it must be said: we could not have done worse or caused more damage even if we had tried. As regards architecture and the built environment (enough talk of nature: there is no such thing as landscape untouched by human hand), the issue is right here (planetary debate forms an interesting backdrop, but with no practical implications) in the day-to-day misery in which research, the profession and management are debated in Italy. After all, what would be the point of simply transferring Back to Basics into such an unhappy milieu? But we could at least try to find the point. Architecture, the quality of spaces and life, what else are they constructed out of if not those Basics, look at the way Barcelona has been turned inside out like a glove in the space of about 10 years and then, even after that, with admirable continuity (despite facing considerable problems)? What was once an infected conurbation ready to be thrown on the rubbish heap was transformed into a real modern-day metropolis from almost every possible and imaginable point of view. And it does not end there, because the scale of operations was then upgraded to a regional and then even wider scale, if we take into consideration, as we must, infrastructures and financial flows. Without counting the striking modernization of administration, now light years away from the ossified offices we are so familiar with over here. Achieving all this with the overall approval of almost everybody and without jeopardizing the identity of the places where people live and work, operating along gentle lines of alteration and conflict management (is not this the famous notion of consensus Italy is so desperately searching for?). Somebody might say that it is boring to keep on talking about Barcelona and that the example is overstretched. Wrong: it is not overstretched at all, and the scope and scale of all the physical and administration operations (and even part of the social fabric) is as close and comparable to our cities as you can find. Berlin, London and Paris, just to name a couple of examples, might indeed be Prefigurazione del futuro quartiere d’affari a La Défense, Parigi (©EPAD). Prefiguration of the future business district at La Défense, Paris (©EPAD). described as being from another planet. So it is all too easy: you just need to look at what has been done and then try and reproduce it, with all the due modifications as and when required. But in order to do this, you need to have eyes which can see and not “des yeux qui ne voient pas”2: it is always the same problem. But here in Italy blindness seems to be contagious and soon nobody will be able to see. Meanwhile, a different kind of sight is being developed, which, at least for the time being, is not very admirable. Neither is it very useful. In complete contrast with the meaning of Basics, which has taken Barcelona to the very center of the world’s attention, in our allegedly most up-to-date milieus, the idea is emerging that architecture and space quality (it is not clear in what terms the quality of life is being considered or even whether it is being considered at all) must exclusively derive from what everybody actually likes and is most popular. This openly avowed belief and intention (actually implemented here and there, obviously using the only operating tool available: statements and words) is a distant (and direct, although distorted) legacy from an ideology shot through with the idea of participated planning, never sufficiently reviled. Meanwhile, in one fell swoop the only meaning of Basics possible and adaptable to us has been canceled out amidst a maze of squalid and dilapidated physical scenarios and settings. In this way there really is a danger that all that will be left of Back to Basics is the Back. Back, back, and even further back. Something Reyner Banham realized a long time ago. * The architect Maurizio Vogliazzo is a Full Professor of Landscape Architecture and Territorial Infrastructures at Milan Polytechnic, where he is also Head of the Postgraduate Course in Architecture. He teaches “History and Theory of Italian Design” at University College in London (UCL) and Landscape Architecture at the IULM in Milan. He is a Visiting Professor in Barcelona, Lisbon, Matosinhos, Paris and Brisbane, and Head of Research for the CNR, MPI, MIUR, EU and other public and private associations. He has been the ICP Erasmus Coordinator since 1987 and runs the ALAD Laboratories (Architecture&LandAmbientDesign), a research department at Milan Polytechnic, which won the 5th European Biennial in Barcelona as the best school of Landscape Architecture. He has won both national and international competitions and has built and written numerous works. His work has been exhibited in New York, Berlin, Paris, Milan, Venice and elsewhere. He is a member of national and international panels of judges and the author of articles, essays and books published in Italy and abroad. He is currently the Assistant Editor of l’Arca. Notes 1. Reyner Banham (1922-1988), prolific architecture critic and theorist best-known for his book Theory and Design in the First Age Machine, 1960, and for Los Angeles: The Architecture of Four Ecologies, 1971. 2. Le Corbusier, Vers une architecture, Ed. G. Crès & Cie, Paris, 1923. 29 Perla di luce Pearl of Light Pechino, Gran Teatro Nazionale Beijing, Grand National Theater Progetto di Paul Andreu Project by Paul Andreu T ra sublimazione poetica e tecnologie all’avanguardia, il Gran Teatro Nazionale di Pechino, opera maggiore dell’architetto francese Paul Andreu, è uno dei simboli della Nuova Cina. La sua inaugurazione, nel dicembre del 2007, segna la riuscita conclusione di un percorso durato circa 10 anni e più volte contrastato da non poche critiche e posizioni divergenti. Giudicato troppo poco cinese e troppo poco coerente col contesto urbano di Pechino, nonché esageratamente costoso (oltre 300 milioni di euro), il Grand National Theater è invece uscito da questo travagliato cammino con un’opera maestosa e unica, guadagnandosi il riconoscimento della testata americana Business Week come una delle prime dieci meraviglie architettoniche della Nuova Cina. Un raffinato lavoro sulla forma, sulle superfici, sulle trasparenze e sui giochi di luce e di riflessi, che ha permesso ad Andreu di trasformare la semplicità di una forma morbida e bombata come quella dell’uovo in un oggetto vivente, uno scrigno cangiante che rivela sensazioni, suggestioni e dimensioni sempre nuove e coinvolgenti. Nel cuore di Pechino, vicino a Piazza Tiananmen e alla Città Proibita l’edificio è adagiato al centro di un lago artificiale, “come una perla barocca” racchiusa in un guscio ovoidale in lastre di titanio e vetro. La struttura è un mega ellissoide – 213 metri sull’asse maggiore e 144 su quello minore – definito da una sovrapposizione di involucri successivi da cui si generano giochi di trasparenze e di luce che si riflettono sullo specchio del lago e si trasformano con le condizioni del cielo e del clima. L’involucro in titanio e vetro concepito da Andreu non doveva “urtare con il cielo” ma sposarne le 30 La “bolla” in titanio del Gran Teatro Nazionale di Pechino. Pagina a fianco, particolare della grande vetrata curva che delimita gli ambienti interni comuni. The titanium “bubble” of the Beijing Grand National Theater. Opposite page, detail of the large curved glass window bordering around the communal interiors. variazioni: la pelle metallica gli risponde così con i riflessi, mentre l’onda vetrata che la taglia centralmente lascia penetrare la luce naturale. Il senso di galleggiamento, di sospensione, è esaltato dal piano dell’acqua che circonda sull’intero piano di appoggio il volume dell’edificio, nascondendo il percorso d’ingresso. Sommersa a una profondità di 80 metri, una galleria trasparente lunga 60 metri accompagna il pubblico alla scoperta di un universo inatteso e sorprendente dove si svolge la scena dello spettacolo. Nello spazio di 3.500 metri quadrati racchiuso sotto la bolla luminescente sono organizzate una sala principale dell’Opera di 2.416 posti e due sale minori, di 2.017 e di 1.040 posti, rispettivamente per concerti e teatro. I tre ambienti si affacciano su un ampio atrio pubblico avvolto in un involucro in legno rosso; concepito come un quartiere urbano con strade, piazze, negozi, ristoranti e zone di riposo e di attesa, offre un luogo protetto e denso di stimoli e suggestioni aperto a tutti. Il gioco degli involucri viene ripreso nell’individuazione dei volumi delle sale, una maglia dorata definisce quello principale dell’Opera che nasconde un’anima rivestita di rosso acceso, mentre una pelle argentea riveste i volumi delle due sale minori, disposte lateralmente. Lo spazio interno interagisce con la superficie dell’involucro esterno per esaltare la scenografia urbana: di giorno, la vela vetrata tagliata nel titanio si apre alla luce naturale che inonda gli spazi in un infinito gioco di riflessi, la notte, la vita del teatro si proietta sulla città, arricchita dai sorprendenti effetti di luce creati dai lighting designer Kaoru Mende e Yosuke Hiraiwa. RITORNO AI FONDAMENTALI BACK TO BASICS 31 P oised between poetic sublimation and cuttingedge technology, the Grand National Theater in Beijing, a major work by the French architect Paul Andreu, is one of the symbols of New China. Its opening in December 2007 marked the successful completion of a process which lasted about 10 years and was often strongly criticized from opposing fronts. Judged as being far too un-Chinese and far too inconsistent with the Beijing cityscape, as well as much too expensive (over € 300 million), the Beijing Grand National Theater has actually emerged from all these skirmishes as a majestic work unique of its kind, actually being acknowledged by the US-based journal Business Week as one of the top ten architectural wonders of New China. By working elegantly on its form, surfaces, transparencies and interplay of light and reflections, Andreu has managed to turn a simple, soft and rounded form, rather like an egg, into a living object, a shimmering case revealing constantly new and engaging sensations, suggestions and dimensions. The building, which is situated right in the heart of Beijing, near Tiananmen Square and the Forbidden City, rests gently in the middle of a man-made lake, “like a baroque pearl” enclosed in an egg-shaped shell made of sheets of titanium and glass. The structure is a mega-ellipsoid—213 m along the main axis and 144 along the minor axis—defined by overlapping shells generating interplays of transparency and light, which are reflected in the water of the lake and change with the weather and sky conditions. The titanium and glass shell designed by Andreu was not 32 Viste notturne del teatro che si specchia in un lago artificiale, come un’isola nel cuore della capitale. Il gioco di riflessi e di luce che emanano dalla superficie vetrata, ritagliata al centro del volume in titanio, crea suggestivi effetti scenografici. Night-time views of the theater which is mirrored in an artificial lake, like an island in the heart of the capital. The interplay of reflections and lights emanating from the glass surface, cut into the center of the titanium structure, creates striking visual effects. supposed to “clash with the sky,” just blend in with its variations: hence the metal skin responds with its own reflections, while the glass wave cutting through it centrally lets natural light flow in. The floating and suspended feeling is enhanced by the surface of the water surrounding the building’s entire base level, concealing the entrance path. Submerged at a depth of 80 m, a 60-meter-long transparent tunnel allows the general public to discover an unexpected and startling world, where shows are staged. A space covering 3,500 square meters enclosed beneath a luminescent bubble holds a main hall for operas with 2,416 seats, and two smaller halls with seating for 2,017 and 1,040, used respectively for concerts and theatrical productions. The three halls surround a spacious public lobby enveloped in a red wooden shell; designed like an urban neighborhood with streets, squares, shops, restaurants and relaxation/waiting areas, it is a very carefully sheltered place full of stimulating and suggestive features open to everybody. The interplay of shells is reiterated in the structural design of the halls, a golden web marks the main Opera hall, which hides away a core made of bright red, while a silvery skin covers the structures of the two smaller halls, set out laterally. The interior space interacts with the surface of the outside shell to focus on the urban setting: during the daytime the glass veil cut into the titanium opens up to natural light which floods the spaces with endless reflections, at night-time life in the theater is projected onto the city, enhanced by startling light effects created by the lighting designers Kaoru Mende and Yosuke Hiraiwa. Planimetria dell’area dove sorge il Teatro Nazionale, situato a circa 500 metri da piazza Tiananmen e dalla Città Proibita, e sezione del volume sulla sala dell’Opera. In basso, a sinistra, pianta del livello a quota -7 e, a destra, pianta del piano terreno. Site plan of the area where the National Theater stands, located approximately 500 m from Tiananmen Square and the Forbidden City, and section of the Opera hall. Bottom, left, plan of level -7 and, right, ground floor plan. 33 34 Pagina a fianco, particolari costruttivi e sviluppo assonometrico della struttura vetrata. In questa pagina, in senso orario, assonometria della galleria vetrata di ingresso, sviluppo concettuale del volume ellissoidale e schizzi di progetto. Pagine seguenti, particolari degli spazi comuni e delle sale del teatro e dell’Opera. Opposite page, construction details and axonometric development of the glass structure. This page, clockwise, axonometry of the glazed entrance gallery, conceptual development of the ellipsoidal structure, and project sketches. Following pages, details of the public areas, the theater and the Opera hall. 35 36 37 Dove comincia l’architettura Where Architecture Begins Vienna, Complesso per residenze e uffici Schlachthausgasse Vienna, Residential and Office Complex Schlachthausgasse Progetto di Coop Himmelb(l)au Project by Coop Himmelb(l)au L’ architettura dello studio austriaco Coop Himmelb(l)au, attivo da circa trent’anni in campo internazionale, è emblematica di una ricerca mirata al superamento dei confini della statica strutturale. I due fondatori, Wolf D. Prix e Helmut Swiczinsky, si fanno portatori di un’architettura che “sanguini, svuoti, si contorca e, perché no, si spezzi”. Lo stesso nome scelto per lo studio, Cielo (Himmel) blu (blau), designa un’architettura fluida, contrastata, in movimento, cangiante, aerea e libera “come le nuvole”. Non solo, la (l) si rifà all’edificio, Bau in tedesco, quindi il nome può essere anche letto come “Edificio Cielo”, quindi manufatto libero da vincoli tipologici e immaginato in modo fluido e dinamico come il ritmo delle nuvole. Una visione che solo grazie alle moderne tecnologie può tradursi in realtà, come ben dimostrato da questo edificio per appartamenti e uffici realizzato a Vienna. Alle spalle un concorso bandito dalla municipalità per la risistemazione di un’area di circa 22.000 metri quadrati precedentemente occupata da un ospedale per bambini, chiuso nel 1998. Il progetto di Coop Himmelb(l)au, vincitore del concorso, ridisegna l’allineamento su via Schlachthausgasse salvaguardando il verde e gli alberi ad alto fusto del lotto interno, lungo la via Kleingasse. I progettisti lavorano su un impianto tradizionale a stecca, spezzando l’orizzontalità del blocco lungo 130 metri con alcuni episodi dirompenti che esasperano gli ordini strutturali segnando la testa dell’edificio e il volume dell’audito- 38 Il volume scultoreo in corrispondenza dell’auditorium che segna il prospetto del complesso. Pagina a fianco, il volume di testa dell’edificio, individuato dalla struttura trapezoidale a triliti. The sculptural structure near the auditorium, which marks the elevation of the complex. Opposite page, the head block of the building featuring trapezoidal structure with triliths. rium proteso nella parte retrostante. Scultoreo e incombente, il telaio a triliti del pignone, doppiamente trapezio e inclinato, si stringe dal livello strada verso il centro della facciata interna per poi riaprirsi con un maggiore aggetto e una dinamica ancora più dichiarata. Inquadrati dalla maestosa struttura gli affacci degli 82 appartamenti, ritmati dalle aperture sfalsate delle finestre e dai volumi delle terrazze. A questa dirompente architettura si affianca il ritmo costante del prospetto sulla Schlachthausgasse, fortificato dai sei corpi scala che esasperano con un ordine gigante l’enfilade prospettica. Tra questo affaccio e la testa del blocco, si innesta il corpo dei servizi leggermente arretrato quasi a indicare il passaggio al lotto retrostante. Qui si rivela un altro paesaggio scultoreo, animato dalla protuberanza sospesa che segna la corrispondenza dell’auditorium e libera un ampio spazio per la hall, assicurandone il collegamento con l’ingresso principale sulla Schlachthausgasse. Anche qui è la forma trapezoidale a dettare le regole della composizione, due prismi opposti e convergenti che permettono a quello proiettato in aggetto di aprirsi con una ampia vetrata per dare luce e punti prospettici molteplici agli spazi comuni e di collegamento. Il rosso acceso che individua questo volume e quello, questa volta più discreto, del corpo scala principale, si stagliano sulla facciata regolare degli spazi destinati agli uffici, circa 12.000 metri quadrati su sette piani. RITORNO AI FONDAMENTALI BACK TO BASICS 39 40 Particolari del blocco di testa. Pagina a fianco, in alto, sezione trasversale e vista della facciata retrostante dove si affacciano gli uffici, in basso, il volume in corrispondenza dell’auditorium. Pagine seguenti, planimetria generale e piante dei sette livelli fuori terra e del piano interrato che ospita un parcheggio per 260 automobili. Details of the head block. Opposite page, top, cross section and view of the rear facade overlooked by the offices; bottom, the structure near the auditorium. Following pages, site plan and plans of the seven levels above ground and basement holding a car park for 260 vehicles. T he architecture designed by the Austrian firm, Coop Himmelb(l)au, which has been working internationally for about 30 years, is emblematic of research aimed at breaking the bounds of structural statics. The two founders, Wolf D. Prix and Helmut Swiczinsky, promote a kind of architecture “that bleeds, that exhausts, that whirls and even breaks.” The name of the firm itself, Sky (Himmel) blue (blau), designates architecture which is fluid, contrasted, in motion, shimmering, airy and as free “as the clouds.” Moreover, the (l) is connected with the word building, Bau, in German, so the name can also be interpreted as “Heavenly Building”, meaning it is free from stylistic constraints and envisaged fluidly and dynamically like the flow of the clouds. A vision which, only thanks to modern technology, can actually be turned into reality, as is clearly demonstrated by this apartment and office building in Vienna. Behind it lies a competition organized by the city council to redevelop an area of approximately 22,000 square meters previously taken up by a children’s hospital, which closed down in 1998. Coop Himmelb(l)au’s project, which won the competition, realigns Schlachthausgasse street while protecting the greenery and tall-trunked trees across the entire lot along Kleingasse street. The architectural designers worked on a conventional block-style layout, breaking down the 130-meter block’s horizontality by means of some striking features, which exaggerated the structural arrangements at the end of the building and the auditorium structure at the rear. Sculptural and cumbersome, the gable’s trilith frame, a double trapezoid and inclined, narrows from road level toward the center of the internal facade before opening up again with a bigger overhang and even more dynamism. Framed by the majestic structure of fronts of the 82 apartments, the rhythm is set by the staggered apertures of the windows and terrace structures. This striking architecture is reinforced by the constant rhythm of the elevation along Schlachthausgasse, further enhanced by six stairwells, whose massive presence exalts the perspective enfilade. The services structure, gently setback as if to indicate the transition through to the lot at the rear, lies between this front and the end of the block. Here another sculptural form emerges, enlivened by a suspended protuberance which marks the auditorium and frees up plenty of space for the hall, guaranteeing its link with the main entrance along Schlachthausgasse. Here again it is the trapezoidal form which dictates the rules of the composition, two opposing and converging prisms allowing the one overhanging to open up through a wide glass window to cast light and multiple perspective points into the communal and connection spaces. The bright red marking the structure, and the more discrete red of the main stairway, stand out on the regular facade of the office spaces, approximately 12,000 square meters set over seven floors. 41 42 Level +/- 0.00 Level +3.80 Level +7.00 Level +10.20 43 Level +13.40 Level +16.60 Level +19.80 Level +23.00 Tra acqua e struttura Between Water and Structure Oslo, Teatro dell’Opera Oslo, Opera House Progetto di Snøhetta Project by Snøhetta A ffacciato sul fiordo della penisola Bjørvika, il nuovo Teatro dell’Opera di Oslo inaugurato nell’aprile 2008, è un’opera monumentale che nasce da una logica di progetto profondamente ancorata alla natura e alla dimensione del paesaggio. La proposta dello studio norvegese Snøhetta, vincitrice nel 2002 di un concorso internazionale promosso dal Ministero degli Affari Culturali ed Ecclesiastici, traduce l’esigenza di un edificio rappresentativo ed emblematico di una zona in divenire. Linea guida di sviluppo è l’estensione in orizzontale da cui si genera il disegno di superfici ascendenti che dal mare si proiettano verso la terra ferma. Una scelta profondamente ancorata alle dinamiche del sito naturale che divengono parte dell’organismo architettonico, ne plasmano lo sviluppo e danno origine a un nuovo paesaggio fatto di piani inclinati, quinte trasparenti, percorsi panoramici, spazi pubblici fruibili liberamente e informalmente, a contatto con la natura e proiettati sulla baia e sulla città. L’edificio, sede della Compagnia d’Opera e Balletto norvegese, è individuato da una grande piastra pubblica in marmo bianco che partendo dalle rive del fiordo si solleva da terra con un’inclinazione controllata per trasformarsi in copertura. Il sollevamento della piastra, del “tappeto” come lo definiscono i progettisti, è tagliato da una quinta verticale vetrata che si inserisce 44 Vista aerea e, pagina a fianco, particolare della quinta vetrata. Aerial view and, opposite page, detail of the glazed curtain front. perfettamente nella dinamica di piani inclinati aprendo ampie panoramiche e amplificando la continuità tra lo spazio pubblico del foyer e quello della spianata in marmo. La marcata mineralità della dimensione esterna viene ribaltata negli ambienti interni dove si respira un’atmosfera calda e accogliente. Si ritrovano qui altri due elementi fondamentali dell’insieme, il “muro onda” e la “fabbrica”, che con il “tappeto” formano la base concettuale da cui si è generato l’edificio. Come all’esterno, anche per gli interni è il linguaggio dei materiali che declina ed enfatizza la forza espressiva e la monumentalità dell’insieme. Il “muro onda” è una sorta di facciata interna del foyer che rappresenta la materializzazione della soglia, dove il mare si congiunge con la terra e l’arte con la vita quotidiana. Realizzata con un legno di quercia bianca americana, questa parete ritmata da un movimento ondivago, ammorbidisce lo spazio pubblico del foyer dove sono organizzati i due grandi auditori, di 1.400 e 400 posti, rivestiti internamente in rovere scuro e dall’acustica perfetta. Gi spazi dell’amministrazione e i laboratori sono infine riuniti nel terzo elemento forte del progetto, la “fabbrica”, un corpo metallico di quattro piani collocato sul lato orientale e concepito secondo criteri di massima funzionalità e flessibilità degli spazi. RITORNO AI FONDAMENTALI BACK TO BASICS 45 A sinistra, particolare della parete vetrata e, in basso, i volumi in metallo della “fabbrica”. Pagina a fianco, il suggestivo paesaggio generato dal succedersi dei piani inclinati che sembra si sviluppino naturalmente dalle acque del fiordo. 46 O verlooking the fjord on Bjørvika peninsula, the new Oslo Opera House, which opened in April 2008, is a monumental work designed in very close relation to nature and the landscape. The project designed by the Norwegian firm Snøhetta, which won an international competition organized by the Ministry of Culture and Church Affairs in 2002, renders the need for an emblematic and representative building in a developing area. The guideline behind the design was horizontal extension, resulting in the creation of ascending surfaces projecting up from the sea toward the mainland. An approach closely tied to the dynamics of the natural site, which becomes an integral part of the architectural organism, shaping its development and creating a new landscape made of sloping planes, transparent curtains, panoramic pathways and public spaces open for free and easy usage in contact with nature and projected toward the bay and city. The building, which houses the Norwegian National Opera and Ballet, features a large public platform made of white marble, which starts from the banks of the fjord and rises up from the ground at a carefully controled angle until it turns into a roof. The raising of the platform, the “carpet” as the designers call it, is cut Left, detail of the glass wall and, bottom, the metal structures of the “factory”. Opposite page, the striking builtscape created by the sequence of sloping planes, which seem to naturally develop out of the fjord’s waters. through by a vertical glass curtain, which fits in perfectly with the dynamics of sloping planes, opening up wide panoramic views and extending the continuity between the foyer’s public space and the marbled zone. The distinctive mineral feel of the exteriors turns to a feeling of warmth and comfort in the interiors. Here we find two key features of the overall construction, the “wave wall” and the “factory”, which with the “carpet” form the conceptual basis underpinning the building. As on the outside, it is again the vocabulary of materials used in the interiors, which dictates and emphasizes the stylistic force and monumentality of the overall design. The “wave wall” is a sort of internal facade in the foyer, which is a sort of materialization of the threshold, where the sea meets the land and art meets everyday life. Made of white American oak, this wave-patterned wall softens down the foyer space where the two large auditoriums are located with seating room for 1400 and 400, clad on the inside in dark oak and with perfect acoustics. Finally, the administration spaces and workshops are combined into the project’s third powerful feature, the “factory”, a four-story metal section set over on the east side and designed along the lines of maximum spatial functionality and flexibility. 47 48 A sinistra, dal basso, piano interrato, piano terra e primo piano. A destra dall’alto, particolari della sala prova per l’orchestra, del laboratorio di pittura e della sala 2. Left, from bottom, underground floor, ground floor and first floor. Right from top, details of the orchestra rehearsal room, the painting workshop, and stage 2. A sinistra, dal basso, piante del secondo e terzo piano e sezione longitudinale del complesso. A destra, dall’alto, vista dell’auditorium principale e alcuni momenti del galà di inaugurazione. Left, from bottom, plans of the second and third floors and longitudinal section of the complex. Right, from top, view of the main auditorium, and excerpts from the official opening gala. 49 Particolare dell’auditorium principale e, in basso, la parete fonoassorbente della sala 2. Pagina a fianco, particolare del muro onda. 50 Detail of the main auditorium and, bottom, the stage 2’s soundproof wall. Opposite page, detail of the wave wall. 51 Diamante di cemento A Concrete Diamond Wageningen, Dipartimento universitario di scienze ambientali Wageningen, University Department of Environmental Sciences Progetto di Rafael Viñoly Architects Project by Rafael Viñoly Architects 52 C ome avviene spesso nei grandi progettisti, le costrizioni e i vincoli imposti dalla committenza si trasformano in stimoli e divengono materia per affrontare nuove sfide, sperimentare nuovi linguaggi, creare soluzioni di straordinaria innovazione e maestria tecnica. Rafael Viñoly (1944), architetto uruguaiano da trent’anni naturalizzato statunitense e a capo dello studio Rafael Viñoly Architects, ci offre un esempio emblematico con l’Atlas Building, realizzato nel giugno del 2007 presso l’Università di Wageningen in Olanda. L’edificio sorge all’interno del Centrum de Born, il nuovo campus dove sono state accorpate tutte le attività della Wageningen University, uno dei principali centri al mondo per la formazione e la ricerca scientifica nei settori dell’ambiente, delle scienze alimentari, animali e vegetali. La struttura progettata da Viñoly, una tra le più avanzate piattaforme tecnologiche per la ricerca e lo sviluppo, sintetizza nella mineralità e plasticità di un volume monolitico le ambizioni del programma funzionale e i condizionamenti di un piano urbanistico che richiedeva un edificio compatto. Il rigore della geometria cubica che definisce il corpo dell’edificio si anima di una dimensione scultoria grazie alla ingabbiatura di una struttura reticolare esterna in cemento. Sensibile e attento alle più moderne tecnologie, Viñoly parte da una forma elementare per ribaltare il concetto stesso di scheletro costruttivo e portare all’esterno la struttura dell’edificio. Il tessuto alveolare che dà grazia e carisma al nuovo centro, non è infatti una semplice pelle che maschera e RITORNO AI FONDAMENTALI BACK TO BASICS impreziosisce una scatola in cemento, ma è esso stesso struttura portante che sostiene l’edificio e garantisce la flessibilità degli spazi interni. La plasticità del disegno della griglia regolare diviene icona del campus sdoppiandosi in un gioco di riflessi nell’acqua del lago e dando luce e aria agli ambienti di studio e ricerca. Esteso su una superficie di circa 10.000 metri quadrati distribuiti su sei piani, l’Atlas Building è occupato per circa un terzo da laboratori di ricerca, e per la restante parte da uffici secondo un impianto planimetrico che, grazie alla struttura portante spostata all’esterno, risulta libero da pilastri interni e suddivisibile, su un modulo base di 1,8 metri, in funzione delle diverse esigenze. L’atrio e l’ingresso principale, organizzati al primo piano e accessibili attraverso una lunga rampa leggera, lasciano il piano terreno a disposizione dei laboratori che esi- gono un’entrata diretta dal livello strada. L’ingresso, sul lato nord, viene evidenziato da un’interruzione del disegno reticolare che si apre in corrispondenza dell’entrata immettendo nell’atrio centrale, cuore formale e funzionale dell’intero organismo. In questo ampio spazio illuminato naturalmente confluiscono in modo informale ricercatori e utilizzatori del centro. Attorno a esso si organizzano i laboratori, mentre il sistema di passerelle aeree che lo attraversa offre percorsi verticali alternativi tra i diversi livelli e al tempo stesso luoghi di scambio e di incontro. Al piano superiore sono riuniti gli uffici con vetrate a tutt’altezza proiettate sul campus e sugli edifici circostanti, e protette da un sistema esterno di schermatura dal sole controllato da ogni utente in modo manuale. 53 A 54 s is often the case with great architects, the restrictions and constraints imposed by clients turn into positive input and stimuli for taking on new challenges, experimenting with new languages and creating extraordinarily innovative solutions of great technical mastery. Rafael Viñoly (1944), a Uruguayan architect and naturalized US citizen for the last thirty years who is the head of Rafael Viñoly Architects, provides a fine example with his Atlas Building constructed in June 2007 on the campus of Wageningen University in the Netherlands. The building is located inside the Centrum de Born, the new campus where all the various activities of Wageningen University have been grouped together, one of the world’s leading centers for scientific training and research in the fields of the environment and food/animal/vegetable sciences. The structure designed by Viñoly, one of the most advanced technological platforms for research and development, embodies the functional program and constraints imposed by an urban blueprint calling for a compact building in the mineral and sculptural features of its monolithic structure. The rigor of cubic geometry characterizing the main body of the building is injected with sculptural life through the cage-style effect of an external reticular structure made of concrete. With a keen eye for the latest technology, Viñoly works from a simple form to turn the concept of a construction skeleton on its head and take the building structure outside. The honeycomb-shaped weave, which instills the new center with grace and charisma, is not just a simple skin masking and embellishing a concrete box, it is actually the bearing structure itself, which holds up the building and ensures the interiors are flexible. The sculptural nature of the design of the regular grid becomes the icon of the campus, dividing itself up in an interplay of reflections in the water of the lake and bringing light and air into the study and research premises. About one third of the Atlas Building, which covers an area of approximately 10,000 square meters over six levels, is taken up by research laboratories and the rest by offices based on a layout, which, thanks to the bearing structure shifted to the outside, is free from internal columns and can be divided up according to a base module of 1.8 m, in order to cater for various requirements. The lobby and main entrance, located on the first floor and accessible along a lengthy light ramp, leave the ground floor free for laboratories, which require a direct entrance at road level. The entrance on the north side is emphasized by an interruption in the reticular design, which opens up by the entrance to provide access to the central lobby, the formal and functional heart of the entire organism. Researchers and other people using the center flow informally into this naturally lit and spacious area. The laboratories are set around it, while the system of overhead walkways running across it provides alternative vertical pathways between the various levels and, at the same time, introduces meeting and socializing places. The offices are grouped together on the top floor with full-height glass windows overlooking the campus and surrounding buildings, sheltered by an outside system of sunscreens controled manually by each individual user. Pagine precedenti, particolare della griglia in cemento che individua il volume dell’Atlas Building. In queste pagine, planimetria generale, la passerella che collega il nuovo centro di ricerca con gli edifici universitari esistenti e particolare ravvicinato della griglia in cemento portante e della scatola vetrata. Lo spazio tra i due involucri è utilizzato come semplice vano tecnico per la manutenzione della facciata. Previous pages, detail of the concrete latticework marking the structure of the Atlas Building. These pages, site plan, the walkway connecting the new research center to the old university buildings, and close-up detail of the grille in load-bearing concrete and the glass box. The space between the two shells is used as a simple technical shaft for carrying out maintenance work on the facade. 55 56 Sezione del volume cubico e, in basso, pianta di un piano tipo. Il layout interno, basato su moduli di 1,8 metri, consente un’ampia flessibilità nella distribuzione funzionale degli spazi. Pagina a fianco, particolare dello sviluppo in alzato della griglia e del gioco d’ombre creato sulla superficie del volume vetrato e, in basso, particolare costruttivo del sistema di rivestimento di facciata. Section of the cube-shaped structure and, bottom, plan of a standard floor. The interior layout, based on 1.8-meter modules, allows plenty of flexibility in the functional layout of spaces. Opposite page, detail of the development of the grille in the elevation and interplay of shadows on the surface of the glass structure and, bottom, construction detail of the facade’s cladding system. 57 58 In questa pagina, dall’alto, particolare dell’ingresso, la sala riunioni e l’area laboratori. A destra e nella pagina a fianco, le passerelle che attraversano l’edificio. This page, from top, detail of the main entrance, the meeting room and laboratory spaces. Right and opposite page, the crisscrossing ramps. 59 Semplice complessità Simple Complexity Hofdastrond, residenza Hof Hofdastrond, Hof Residence Progetto di Studio Granda Project by Studio Granda 60 P er apprezzare a fondo il senso e la natura del complesso residenziale Hof, a 100 km dal Circolo Polare Artico nella lontana terra d’Islanda, è necessario leggerlo nella complessità della sua storia in cui confluiscono culture e sensibilità diverse. Due committenti provenienti dal milieu creativo, l’artista Lilja Pálmadóttir e l’attore regista Baltasar Kormákur Baltasarsson, e una équipe di giovani e coraggiosi progettisti, gli islandesi dello Studio Granda, che si sono calati nel luogo cogliendone il potenziale di suggestioni e assolutezza in completa sintonia con lo spirito e le esigenze dei clienti per realizzare la loro casa di campagna. Siamo nel verde fiordo Skakafjördur, rive coperte da un ampio manto erboso e profili montagnosi percorsi da lunghe valli protese verso l’isola rocciosa di Drangey. Lungo il fiume, un gruppo di edifici esistenti, una casa, una chiesa, un fienile e una stalla; in posizione più arretrata verso l’interno due stalle di più recente costruzione. Il progetto coinvolge la risistemazione dell’esistente e una nuova residenza leggermente spostata rispetto all’insediamento originario e situata in un terreno rialzato che domina il mare. L’elemento naturale, il rapporto con il sito, la dimensione panoramica e la tensione poetica che da essi sprigiona sono gli elementi da cui si è generato l’intero intervento, a livello sia di articolazione dei volumi, sia di scelte di materiali e tecnologie costruttive. Il linguaggio, semplice, lineare, quasi RITORNO AI FONDAMENTALI BACK TO BASICS scarno, privo di aggettivazioni formali dell’architettura, è un omaggio a questa terra di cui rispetta i ritmi, le luci, gli spazi e i colori. In posizione rialzata, la casa è individuata esternamente da facciate squadrate in calcestruzzo che variano di aspetto e tonalità cromatiche a seconda del tempo e del clima. Le coperture sono rivestite di un tappeto erboso realizzato reimpiantando l’erba tolta dal prato, mentre i leggeri sbalzi di quota delle terrazze e dell’ingresso dell’edificio sono stati collegati al suolo con terrapieni di torba e pietra ricavati falciando e smuovendo i campi intorno. In fase di cantiere, sono stati scavati durante la preparazione delle fondamenta dei pilastri esagonali in basalto utilizzati poi per rivestire le superfi- ci esterne. La semplicità e la discrezione dell’immagine dell’impianto volumetrico la si ritrova all’interno, dove ogni ambiente vive grazie all’orientamento pensato per catturare in ogni punto il panorama esterno. Pavimenti lastricati in basalto nella zona giorno e negli spazi di circolazione, muri in cemento grezzo o dipinto, soffitti, porte e carpenteria in legno trattato a olio con inserti in acciaio. Un tocco di raffinatezza è concesso ai soli spazi della cucina e del bagno dove compare il marmo, quasi a richiamare la tradizione di ambienti domestici a latitudini più “vivibili”. Un sistema secondario di lucernari e altre aperture sul tetto potenzia il grado di luce naturale negli interni integrando le ampie viste panoramiche e amplificando il rapporto con il paesaggio. 61 Vista del prospetto est della residenza Hof. Il complesso è realizzato con tecnologie e materiali – legno, cemento, pietra e manto erboso sulle coperture – che rispettano l’inserimento ambientale. View of the east elevation of the Hof residence. The complex is built using technology and materials—wood, concrete, stone and grass roofs—which blend in with the environment. 62 I n order to fully understand the meaning and nature of the Hof residential complex, 100 km from the Arctic Circle in the distant land of Iceland, it needs to be interpreted in the full complexity of its history, which combines different cultures and sensibilities. Two clients from a creative milieu, the artist Lilja Pálmadóttir and actor-director Baltasar Kormákur Baltasarsson, working with a team of young and courageous designers from the Icelandic team Studio Granda, really delved into the setting, grasping its full evocative potential in complete harmony with the clients’ spirit and demands to create their house in the country. We are actually in the green fjord of Skakafjördur, whose banks are covered in a grassy surface lined by mountains with long valleys running through them out toward the rocky island of Drangey. Along the river there is a group of old buildings, a house, church, barn and a stable; set further back inland there are two more recently constructed stables. The project involves redeveloping what is already there and creating a new residence slightly setback in relation to the original settlement and located on raised ground overlooking the sea. Nature, interaction with the site, panoramic views, and the poetic tension they give off, provide the inspiration for the entire project, both in terms of the structural layout and choice of building materials and technology. The simple, linear, almost terse language, with no striking architectural features, is a tribute to this land, respecting its rhythms, light, spaces and colors. Set in a raised position, the house has square concrete facades on the outside, which change in color tone and appearance depending on the weather and time of day. The roofs are covered with a grassy surface created by replanting grass from the lawn, while the slight shifts in height of the terraces and building entrance are connected to the ground by turf and stone embankments created by scything them out of the surrounding fields and moving them to the site. During building work, hexagonal columns of basalt were cut out for preparing the foundations and then used for cladding the outside surfaces. The simplicity and unobtrusiveness of the overall structural image reemerges on the inside, where each room is carefully positioned to capture outside views from every point. There are paved basalt floors in the lounge areas and circulation spaces, raw or painted concrete walls, ceilings, floors and wooden frames treated with oil and inset with steel. A touch of elegance is confined to the kitchen and bathroom spaces, where marble appears almost as an allusion to traditional home environments in more “livable” latitudes. A secondary system of skylights and other apertures in the roof enhances the amount of natural light in the interiors, integrating spacious panoramic views and extending relations with the countryside. 63 Vista del prospetto ovest. View of the west elevation. Pianta del piano terra. In basso, vista della scala elicoidale e particolare dell’angolo esterno dell’ala contenente il soggiorno. Ground floor plan. Bottom, view of the spiral staircase and detail of the external corner of the wing holding the lounge. 64 Planimetria generale e, a destra, sezioni a, b, d, e. In basso, corridoio della zona notte e zona pranzo/cucina. Site plan and, right, a, b, d and e sections. Bottom, the corridor of the sleeping quarters and the dining area/kitchen. 65 Miraggi verticali Vertical Mirages Rho Pero Milano, Hotel NH Fiera Rho Pero Milan, NH Fiera Hotel Progetto di DPA Dominique Perrault Architecture Project by DPA Dominique Perrault Architecture 66 Schizzo di progetto e, pagina a fianco, vista generale dei due monoliti dell’NH Fiera. Alte 60 metri e inclinate di 5°, le due torri sono collegate da un elemento a crociera in metallo perforato, mentre un percorso pavimentato protetto da una pensilina trasparente in vetro serigrafato collega gli hotel al centro congressi. Project sketch and, opposite page, overall view of the two monolithic blocks of the NH Fiera. 60 m tall and inclined at an angle of 5 degrees, the two towers are connected by a perforated metal cross-base, while a paved pathway, protected by a transparent canopy made of serigraphed glass, connects the hotels to the conference center. “D ominique Perrault non impone un oggetto, ma crea degli spazi; un’architettura che si attraversa, che si può sperimentare”, è questo uno dei tratti più originali e distintivi dell’opera dell’architetto della Bibliothèque nationale de France di Parigi, che Frédéric Migayrou, commissario della grande esposizione organizzata nel 2008 dal Centre Pompidou, ha sottolineato molto acutamente descrivendo la sua opera. Quella di Perrault è infatti un’architettura che parte da elementi semplici, volumi e forme geometriche primarie, e quindi li lavora, gioca con i limiti imposti dalla scatola strutturale e la trasforma per metterla in relazione con il paesaggio, con il contesto che la accoglie. Un percorso che lo ha portato ad approfondire la ricerca sui materiali, sull’involucro, sulle possibilità aperte dalle moderne tecnologie e sui sistemi di produzione e utilizzo della materia. “È possibile fare molto con poco, dell’architettura senza ornamento, e scomparire costruendo un edificio” afferma il progettista, e le sue architetture lo dimostrano, alcune in modo particolarmente emblematico come le due torri della catena NH Hoteles, costruite a Milano, nell’area della nuova Fiera Rho Pero. Due parallelepipedi gemelli a pianta quadrata si innalzano solenni a sud del nuovo quartiere espositivo imprimendo al territorio della periferia milanese una nuova dinamica. Una leggera inclinazione e lo sfalsamento sul piano orizzontale “creano due edifici in movimento” che si liberano con un gesto raffinato dal rigore ortogonale dell’impianto di base. Perrault ricorre a una forma geometrica consolidata per proiettarla in un gioco di nuovi equilibri e declinare un nuovo paesaggio architettonico. La scenografia viene esaltata da un rivestimento nero lucente sui lati meno esposti al sole, che riflette la luce, lo scorrere delle nubi, le mutazioni del cielo, rafforzando le suggestioni dei due monoliti che si rivelano all’orizzonte con l’illusione di un “miraggio”. Raffinatezze strutturali ed effetti materici inediti, spinti dalla sperimentazione di nuovi materiali, coronano l’iter tecnico-costruttivo dell’intervento. Una struttura in cemento armato con un’anima centrale destinata ai collegamenti verticali, i locali tecnici e gli office di piano, sostiene le due torri, alte rispettivamente 19 e 18 piani. Le facciate ventilate, dalle elevate prestazioni termiche e acustiche, sono declinate con materiali diversi a seconda dell’orientamento. Quelle orientali e settentrionali sono rivestite con 20 mila lastre in vetro gres di colore nero, quelle più soleggiate, a mezzogiorno e occidente, in marmo bianco. Le aperture, di dimensioni variabili, sono intagliate nelle superfici con infissi in alluminio verniciato a taglio termico e frangisole in alluminio lucido motorizzati. Altro registro espressivo per l’atrio con pianta a crociera che distribuisce sia gli accessi ai piani delle camere, sia i percorsi verso gli spazi di ristorazione e i servizi. La marcata mineralità delle torri trova nella leggerezza e trasparenza di questo nodo di collegamento un prezioso polmone di energia dove si concentra la carica emotiva di una nuova dimensione dell’accoglienza. Tutto è calibrato sulle variazioni e i riflessi della luce naturale che penetra attraverso un involucro in vetro e metallo perforato, color oro, giocando con le trasparenze. Una luce sempre unidirezionale, garantita da un’avanzata soluzione tecnologica che adotta una parete a doppia pelle costituita da un sandwich di due lastre di vetro, stratificato all’esterno e temperato all’interno, dove è inserita una lastra piegata in alluminio di colore dorato. Alle prestazioni di efficienza termica e acustica si coniugano le particolari proprietà ottiche che, come nella lucentezza del rivestimento delle torri, confermano la straordinaria sensibilità dell’architetto parigino nel trattare le sinergie tra superfici diverse, qualità riflettenti e componenti luminose dei materiali, per disegnare nuove poetiche del territorio. RITORNO AI FONDAMENTALI BACK TO BASICS 67 “D ominique Perrault does not impose an object, he creates spaces; architecture you can pass through and experiment with” sums up one of the most original and distinctive traits of the architect who designed the French National Library in Paris. The aforementioned quote is how Frédéric Migayrou, the commissioner of the major exhibition held in 2008 at the Pompidou Center, most acutely described his work. Perrault’s architecture actually starts from simple elements, structures and primary geometric forms and then works with them, playing with the limits imposed by the structural box and transforming it so that it relates with the landscape and setting in which it is accommodated. A process, which has led him to deepen his research into materials, shells, the possibilities opened up by modern technology, and systems for manufacturing and using materials. “A lot can be done with very little, creating architecture free from ornamentation and then vanishing as the building is constructed,” the architectural designer himself states and his works prove so, some in a particularly emblematic way such as the two towers belonging to the NH Hoteles chain in Milan on the site of the new Rho Pero Trade Fair. Two twin square-based parallelepipeds rise up solemnly to the south of the new exhibition site, instilling fresh dynamism into this area of the Milanese suburbs. A slight inclination and a staggering of the horizontal plane “create two buildings in motion,” which, with extreme elegance, break free from the orthogonal rigor of the base plan. Perrault resorts to a trusted geometric form, which is projected into an interplay of new balances to shape a new architectural landscape. The scenario is exalted by the shiny black coating on the sides least exposed to the sun, which reflects light, passing clouds and any changes in the sky, enhancing the striking force of the two monoliths creating the illusion of a “mirage” on the horizon. Elegant structural features cre- 68 Planimetria generale dell’area a sud del polo fieristico milanese di Rho Pero. Site plan of the area south of the Milan Trade Fair in Rho Pero. ating surprising physical effects, driven along by experimentation with new materials, crown the project’s technical-construction process. A reinforced concrete structure, with a central core holding the vertical links, utility rooms and offices, supports the two towers, which are respectively 19 and 18 stories high. The ventilated facades with notable heat and sound insulation properties are made of various different materials according to their position. Those to the east and north are clad with 20,000 black sheets of glass ceramic, those to the south and west (absorbing most sunshine) are made of white marble. The apertures, which vary in size, have heat-cut painted aluminum inserts in their surfaces and motorized shiny aluminum shutters. The lobby is designed differently, with a cross-shaped layout for setting out the entrances to the floors holding the hotel rooms and the corridors running through to the catering facilities and services. The distinctly mineral nature of the towers draws a lungful of energy from the lightness and transparency of the connection hub, adding a fresh dimension of emotional force in the name of hospitality and accommodation. Everything is geared to variations in and reflections of natural light, which flows in through the golden-colored perforated metal and glass shell playing on transparencies. Light always flows in one direction thanks to a cutting-edge technological solution using a doubleskinned wall formed by a sandwich of two sheets of glass, stratified on the outside and reinforced on the inside, with a golden-colored folded sheet of aluminum between them. Heat and sound insulation efficiency combines with peculiar optical properties, which, as in the case of the shiny cladding on the towers, confirm the Parisian architect’s extraordinary awareness of how to handle the synergies between the different surfaces, reflective qualities and luminous aspects of materials to enhance stylishly the territory. Prospetti est e sud e sezione longitudinale sulla crociera. In basso, sezione della torre di 19 piani inclinata verso la Fiera. East and south elevations and longitudinal section of the cross-base. Bottom, section of the 19-story tower inclined toward the Trade Fair. 69 Viste delle due torri dal bacino artificiale che le riflette amplificandone la proiezione in verticale. Pagina a fianco, particolari del rivestimento in gres porcellanato con 70 superficie nera in vetroceramica che coniuga le qualità specchianti con elevate prestazioni termo-acustiche, totale impermeabilità, e resistenza agli sbalzi termici, agli agenti esterni e alla flessione. Views of the two towers from the man-made basin mirroring and extending their vertical projection. Opposite page, details of the porcelain gres cladding with black glass ceramic surfaces, which combines reflective qualities with high heat-sound insulation properties, total impermeableness and resistance to sudden jumps in temperature, external agents and bending. 71 72 Particolari del gioco di riflessi generati dai due monoliti lucenti. Pagina a fianco, particolari costruttivi e sezione sulla crociera che collega le due torri. Pagine seguenti, vista della crociera, gli spazi comuni (reception, sala bar e ristorante, zona relax) e particolari di una camera tipo. Details of the interplay of reflections generated by the two shiny monoliths. Opposite page, construction details and section of the cross-base connecting the two towers. Following pages, view of the cross-base, the communal spaces—reception, bar, restaurant and relaxation area—and details of a standard room. 73 74 75 Solo pelle e ossa Nothing but Skin and Bone Aix-en-Provence, Centro Nazionale di Coreografia Aix-en-Provence, National Choreography Center Progetto di Rudy Ricciotti Project by Rudy Ricciotti 76 RITORNO AI FONDAMENTALI BACK TO BASICS Particolari della struttura in cemento a geometria variabile che ingabbia il cubo vetrato. Details of the geometrically variable concrete structure, which frames the glass cube. 77 I 78 l Pavillon Noir di Aix-en-Provence è un edificio che riflette in modo particolarmente rappresentativo ed efficace la personalità e la forza progettuale del suo autore. Figura di spicco nel panorama dell’architettura francese ed europea, Grand Prix National d’Architecture 2006, Rudy Ricciotti è un personaggio che non lascia indifferenti, sia per la carica emotiva e turbolenta del suo temperamento, spesso in polemica con la banalizzazione di stili e tendenze comunemente diffuse, sia per lo straordinario potenziale poetico che emana da ogni sua opera. Di formazione ingegnere e poi architetto, Ricciotti rivendica l’amore per la forma, per la struttura, per i materiali “portatori di un’evidenza architettonica”. Il Pavillon Noir, pensato e progettato per ospitare il Centro Nazionale di Coreografia (CCN) della regione ProvenceAlpes-Côte d’Azur (PACA), concilia in un intervento carismatico e provocatorio i valori di contemporaneità, sperimentazione e sfida alle tradizioni consolidate. Il registro linguistico privilegia una grammatica cruda, senza sentimentalismi; l’edificio si afferma per l’esasperazione della struttura e l’essenzialità della materia ridotta ai soli cemento e vetro. Costruito in prossimità del centro di Aixen-Provence, in una zona di nuova pianificazione disegnata dallo studio catalano MBM Arquitectes, il CCN prende le distanze dal contesto, “tenta di esistere in un principio di solitudine esasperata” spiega Ricciotti che, in posizione critica rispetto al progetto urbanistico, interviene in un’area costretta tra spazi urbani “enormi e sovradimensionati”. Sul principio di questo “autismo” – sono ancora le sue parole – nasce l’idea di un edificio “nervoso come lo sono i ballerini”. La stretta collaborazione e le sinergie di pensiero con il coreografo Angelin Preljocaj, direttore artistico del CCN, hanno alimentato un’architettura ridotta alle sue componenti fondamentali, una struttura “pelle e ossa” animata solo dall’attività dei ballerini e dalla rappresentazione del corpo e dello spettacolo quotidiano durante le prove. Coraggioso e provocatorio il concetto strutturale, che dichiara il sistema portante all’esterno elevandolo a icona del progetto. Un volume cubico di 18x36 metri di base viene fasciato da un intreccio di nastri in cemento lasciato grezzo, che ingabbiano un’anima vetrata dove sono contenute le quattro sale per le prove e quella per gli spettacoli, oltre agli ambienti comuni e i locali di servizio. L’ingegneria della maglia strutturale è dettata dai condizionamenti dovuti ai forti vincoli urbanistici e alla natura del sito – dalla sua origine sismica alla presenza di una falda freatica che può interferire con la sala degli spettacoli nel sottosuolo, fino allo sferragliare della vicina ferrovia – a cui si aggiunge l’esigenza di ambienti privi di vibrazioni necessari all’attività dei ballerini. Il senso di questa ricercata soluzione strutturale è ancor più evidente una volta penetrati nell’edificio dove si aprono ampi spazi completamente liberi da partizioni e pilastri di sostegno. La proiezione sull’esterno è amplificata dalle ampie superfici vetrate che accompagnano il succedersi dei piani dove sono organizzate le sale di prova. Lo spettacolo dei corpi in esercizio si offre alla vista dei passanti facendo vivere di una nuova dinamica il rigore e la radicalità dell’espressione architettonica. Un elogio alla materia, allo sforzo insito nella struttura, ma anche all’energia, all’impegno, alla fatica che qualificano l’attività umana e di cui questa architettura si fa portatrice, sfidando il rischio di un’espressione cruda e brutale per elevarsi oltre l’inconsistenza di effimere estetizzazioni dell’immagine. T he Pavillon Noir in Aix-en-Provence is a particularly emblematic and effective embodiment of the personality and design expertise of its creator. A leading figure on both the French and European architecture scene and winner of the 2006 Grand Prix National d’Architecture, Rudy Ricciotti is a character who never goes unnoticed either for his turbulent, emotive personality, often criticizing the blandness of widespread styles and tendencies, or for the incredible poetic potential emanating from all of his work. With a background in engineering and then architecture, Ricciotti has a genuine love for form, structure and materials “carrying with them architectural force.” The Pavillon Noir, devised and designed to accommodate the National Choreography Center (CCN) for the ProvenceAlpes-Côte d’Azur region (PACA), brings together the values of the contemporary scene, experimentation and a challenge to well-established traditions in one charismatic and provocative work. The stylistic design works around a rather crude vocabulary with no signs of sentimentalism; the building stands out for its exasperated structure and the simplicity of the material, which is confined to just two types, concrete and glass. Built close to the center of Aix-en-Provence in a recently developed area whose master plan was designed by the Catalonian firm MBM Arquitectes, the CCN distances itself from its setting “attempting to be in a state of exasperated solitude,” according to Ricciotti, who, adopting a critical stance to urban design, has worked in a confined area amidst “huge and oversized” urban spaces. Drawing on this “autism,” to quote him again, we have the idea of a building “as nervous as the dancers.” A close working relationship and converging lines of thinking with the choreographer Angelin Preljocaj, the artistic director of CCN, have inspired a work of architecture reduced to its barest components, a structure which is nothing but “skin and bone” enlivened only by the dancers and the representation of the body during the daily spectacle of rehearsals. The structural concept is brave and thought-provoking, placing the bearing system on the outside and raising it to the status of a design icon. A cubic volume with a base measuring 18x36 meters is enveloped in a web of concrete strips left rough, which encompass a glass core holding the four rehearsal rooms and the stage area, as well as the communal facilities and utility rooms. The engineering of the structural web is dictated by constraints due to town-planning restrictions and the nature of the site—ranging from its seismic origin to the presence of a water table which could interfere with the stage area in the underground, and also the clatter from the nearby railway—plus the need for premises with no vibrations to allow the dancers to perform properly. The sense of this elaborate structural design is even more obvious once inside the building, where wide spaces open up completely free from partitions and support columns. The projection toward the outside is amplified by the wide glass surfaces throughout the various floors holding the rehearsal rooms. The spectacular sight of exercising bodies can be seen by passers-by, allowing the rigor and radicalness of the architectural design to experience a new kind of dynamics. A tribute to matter, the intrinsic force of the structure and also the energy, commitment and hard work characterizing human activity, this work of architecture manages to defy the danger of being a crude and brutal design, raising itself above the inconsistency of the transient aesthetics of image. A sinistra, dal basso, piante del primo, secondo e terzo piano e sezione longitudinale. Sotto, a destra, sezioni trasversali. Left, from bottom, plans of the first, second and third floors and longitudinal section. Bottom, right, cross sections. 79 80 Viste del Pavillon Noir, particolari dell’ingabbiatura in cemento e una sala prove. Views of the Pavillon Noir, details of the concrete cage, and a rehearsal room. 81 Scolpiti nella materia Sculpted in Matter Città del Messico, Complesso residenziale Haus Santa Fe Mexico City, Haus Santa Fe Residential Complex Progetto di De Yturbe Arquitectos Project by De Yturbe Arquitectos 82 Particolari del rivestimento di facciata della Haus Santa Fe. Details of the facade coating of Haus Santa Fe. C ostruito in una zona particolarmente densa e abitata di Città del Messico, la torre per residenze e uffici progettata da De Yturbe Arquitectos rivisita il tema dell’edificio alto con lo spirito e le declinazioni stilistiche proprie della tradizione messicana moderna. José De Yturbe Bernal, capostipite del gruppo di progettazione con sede a Mexico City, ripropone in modo originale una linea di percorso di stampo minimalista supportata dalla maestria nel disporre le superfici, articolare rapporti di forze equilibrati e sperimentare usi insoliti dei materiali. L’essenzialità e l’immediatezza di geometrie e volumi evolve però in una dimensione amplificata dalla passione per la luce e i colori dove si leggono, in una proiezione contemporanea, riferimenti filtrati dalla scuola di Luis Barragán. In questo edificio di trenta piani, per un’altezza di 105 metri, vengono riunite diverse funzioni: appartamenti e suite di lusso, una palestra, aree commerciali, servizi, oltre a 400 metri quadrati di uffici e un parcheggio sotterraneo. La soluzione architettonica parte da un volume prismatico a pianta quadrata e lo lavora nella massa e nella materia, frazionandolo in due corpi principali separati da una “falda” centrale che libera un angolo della base per ricavare un patio alberato. La Haus Santa Fe completa una cortina di costruzioni alte, imprimendo una nuova immagine a un contesto urbanizzato senza particolari attrattive e piuttosto ano- nimo e banale. Lo studio De Yturbe reinterpreta in chiave contemporanea la cultura architettonica messicana giocando sulla texture dell’involucro e sui cromatismi dei materiali per sottolineare l’articolazione dei volumi, esaltare i giochi di luce e di ombre e dare maggior enfasi ai tagli prospettici. I due blocchi laterali, allineati su strada, sono rivestiti con pannelli in cristallo temperato di colore bianco, combinati con pannelli trasparenti protetti da una pellicola riflettente che mitiga gli effetti di un eccessivo irraggiamento. In contrappunto alla solarità di questa pelle scolpita nel profilo della città l’arretramento della faglia centrale, tagliata all’interno del lotto. Con un gesto coraggioso e deciso, i progettisti ricorrono a un rosso vivace per annunciare il cambiamento di registro formale. La monoliticità dell’edificio si anima della dinamica dell’apertura centrale che trova un’altra dimensione espressiva rivelando nuovi tagli prospettici e nuove verticalità. All’interno si incontra il patio luminoso che distribuisce l’ingresso ai due corpi laterali e ne distingue la separazione funzionale. Appartamenti e suite possono godere di un affaccio protetto dal traffico della città, beneficiando del riparo delle fronde degli alberi e degli effetti rinfrescanti di un bacino artificiale. Un’attenzione al recupero energetico ha guidato la scelta della pavimentazione del patio, realizzato in un materiale completamente impermeabile alla pioggia, che può essere così convogliata in cisterne e totalmente riciclata. RITORNO AI FONDAMENTALI BACK TO BASICS 83 In basso, la cortina di alti edifici in cui si iscrive la Haus Santa Fe imprimendo un vivace tocco cromatico al denso contesto urbano. Pagina a fianco, particolare della “falda” che divide i due blocchi. 84 Bottom, the curtain of tall buildings in which Haus Santa Fe is set, adding a brightly colored touch to the dense cityscape. Opposite page, detail of the “fault” separating the two blocks. B uilt in a particularly densely populated area of Mexico City, the housing and office block designed by De Yturbe Arquitectos is a reworking of the theme of tall buildings in the stylistic spirit and traditions of modern Mexico. José De Yturbe Bernal, head of the design team based in Mexico City, has come up with a very original minimalism style approach, backed up by a masterful arrangement of surfaces, carefully balancing of forces and experimental use of materials. The simplicity and immediacy of the geometric relations and structures is enhanced by a passion for light and colors, whose inspiration lies in a modern-day reading of the Luis Barragán school of thought. This 30-story building rising up to a height of 105 m combines various functions, luxury suites and apartments, a gym, retail areas, utilities, 400 square meters of office space, and an underground car park. The architectural design derives from a square-based prismatic structure whose mass and material has been carefully worked, dividing it into two main structures separated by a central “fault”, which frees up a corner of the base for accommodating a tree-lined patio. Haus Santa Fe completes a curtain of tall buildings, instilling a fresh image on a rather bland and faceless urbanized setting with no really attractive features. De Yturbe architects have come up with a modern-day ren- dition of Mexican architecture playing on the texture of the shell and colors of the materials to underline the structural layout, exalt the interplay of light and shadow and place greater emphasis on perspective cuts. The two side blocks, aligned with the road, are clad with white-colored reinforced glass panels combined with transparent panels protected by a reflective film, which mitigates the effects of excessive sunlight. As a counterpoint to the solar nature of this skin sculpted into the skyline, the central fault cut inside the lot has been carefully set back. With a brave and decisive gesture, the designers have used bright red to announce the change in stylistic key. The monolithic nature of the building is enlivened by the dynamics of the central aperture, which finds fresh expressivity by revealing new perspectives and new vertical forms. Inside, the brightly lit patio sets out the entrance to the two side constructions and marks the functional separation. The apartments and suites have a front which is protected from city traffic, enjoying the sheltering effect of the foliage of the trees and refreshing effects of a man-made pool. Attention to energy recycling guided the choice of patio flooring, made of a material totally impermeable to rain, which is conveyed into tanks and completely recycled. 85 Dall’alto, sezione della torre, e piante del piano terreno e di un piano tipo. From top, section of the tower and plan of the ground floor and a standard floor. 86 In questa pagina, prospetto dell’edificio. Pagine seguenti, particolari degli appartamenti e il patio alberato interno al lotto. This page, elevation of the building. Following pages, detail of the apartments and the tree-lined patio inside the lot. 87 88 89