Le Fonti
Platone il mito della caverna

Repubblica, 514 a-517 a
[514 a] – In séguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza
di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con
l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli
uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sí da dover restare fermi e
da [b] poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo.
Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata
una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i
burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. – Vedo,
rispose. – Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti [c] di ogni sorta
sporgenti dal margine, e statue e altre [515 a] figure di pietra e di legno, in qualunque modo
lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono. – Strana immagine è la tua,
disse, e strani sono quei prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere,
anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che
sta loro di fronte? – E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il [b] capo per tutta la
vita? – E per gli oggetti trasportati non è lo stesso? – Sicuramente. – Se quei prigionieri potessero
conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni? – Per forza. – E
se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire
la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa? – Io no, per Zeus!, [c]
rispose. – Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti
artificiali. – Per forza, ammise. – Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire
dall’incoscienza. Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto,
costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce;
e che così facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di [d] scorgere quegli oggetti di
cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva
vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti
aventi più essere, può vedere meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli
si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e
giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso? – Certo,
rispose.
PLATONE e SCHOPENHAUER

Nel settimo libro della Repubblica Platone narra il mito della caverna. In
esso è esposta la teoria platonica della separazione tra il mondo delle
ombre e le idee,della conoscenza e del rapporto tra filosofia e impegno di
vita: conoscere il Bene significa anche praticarlo.

Il filosofo che ha contemplato la Verità del Mondo delle Idee ha una
missione: tornare fra gli uomini, anche se questo può comportare la morte,
per liberarli dalle catene della conoscenza illusoria del mondo sensibile.

L’influenza di Platone su Schopenhauer qui è chiara, non solo per il
riferimento all’illusorietà della conoscenza umana, ma anche per le vie di
liberazione dalla volontà. Tuttavia bisogna ricordare la svalutazione
Platonica del corpo sede solo di istinti e morte, opposta a Schopenhauer
che, seppur lo considera natura destinata al dolore e schiava della volontà,
ne fa lo stesso l’inizio possibile della conoscenza non illusoria e posto nel
quale riconosciamo la forza della Volontà.

Inoltre Platone individua un dualismo fra l’essenza noumenica (cosa in sé)
l’idea e il fenomeno, la copia del mondo sensibile, per Schopenhauer,
invece, l’essenza della realtà - la Volontà - è immanente a tutte le sue
manifestazioni, ovvero non è separata dal mondo e dalle cose.
Cartesio Il genio maligno

Cartesio cercando di stabilire quali idee siano chiare e distinte, ovvero certe
e indubitabili, intraprende la strada del dubbio. Cartesio introduce il dubbio
iperbolico, un dubbio che si spinge all‘infinito.

Potrebbe esserci un genio maligno che si diverte ad ingannarmi, che mi fa
apparire vero ciò che è falso e viceversa. Il genio maligno però può
ingannarmi su tutto meno sul fatto che io dubito, e poiché l'azione del
dubitare rientra in quella del pensare, questo vuol dire che se io dubito, p e
n s o e il pensare appartiene a un c o r p o che sono io stesso: cogito ergo
sum.

La verità del cogito ergo sum è e v i d e n t e : e l'evidenza era la prima
regola del metodo da cui derivavano le altre regole: quindi tutte le regole del
metodo sono valide di una validità assoluta perché sono uscite indenni dal
dubbio assoluto. La sconfitta del dubbio porta alla sconfitta dello scetticismo
e alla affermazione dell’universalità del metodo.
Cartesio e Schopenhauer
Dobbiamo rilevare grandi differenza tra Cartesio e Schopenhauer.

Ad esempio Cartesio elabora una prova
dell’esistenza di Dio basata proprio sul
principio di causalità. Cartesio, infatti, afferma
che se c’è in me l’Idea di Dio, con la quale
intendo una certa sostanza infinita, eterna,
immutabile, indipendente, onnisciente e
onnipotente e la realtà oggettiva di quest’Idea
(= essere infinito) non è contenuta in me in
quanto riconosco chiaramente che non sono
un essere infinito. Dunque esiste fuori di me
una sostanza che è infinita.

Quindi Dio esiste, ha causato la mia
esistenza all’inizio e continua a conservarmi
nell’essere in ogni istante di tempo.

Inoltre per Cartesio afferma che tutte le idee
che provengono dal corpo, avventizie,non sono
ancora sicuro che siano reali, sono sicuro che
l’Idea di Dio non è fattizia (= non l’ho prodotta
da me stesso) e d’altronde sento che l’Idea di
Dio non è provenuta, in un certo momento
della mia vita, dall’esterno perché è in me da
sempre, è connaturata al mio pensiero. L’Idea
di Dio è quindi un’Idea innata, impressa in me
come un marchio dell’artefice che mi ha
causato.
•
Schopenhauer è ateo, nel suo sistema
filosofico non c’è posto per Dio, un ente unico,
incausato, eterno: questi caratteri,
tradizionalmente attribuiti a Dio, qui, invece,
definiscono la Volontà di Vivere, unico e vero
Assoluto.
•
Per Schopenhauer la vita e l’uomo non hanno
finalità, ma solo il comando della volontà da
seguire. Il genio maligno di Cartesio ribadisce
l’esistenza di un Dio superiore e garante della
conoscenza e del bene opposto all’essere
umano limitato che possiede, però un’ anima
immortale fatta di pensiero.
•
Per Schopenhauer La Volontà che è superiore
all’uomo produce invece dolore e finzione,
manipolandolo. Quindi in Schopenhauer non
c’è il superamento della sfera materiale per
una metafisica, ovvero non c’è fuga dal dolore
in un’altra vita o in una divinità benevola, ma
solo nella vita materiale presente.
Il Velo di Maya
Nei Veda “è Maya il velo dell’illusione, che ottenebra le pupille dei
mortali e fa loro vedere un mondo di cui non si può dire né che esista né
che non esista; il mondo, infatti, è simile al sogno, allo scintillio della
luce solare sulla sabbia che il viaggiatore scambia da lontano per acqua,
oppure ad una corda buttata per terra ch’egli prende per un serpente.”
La spiritualità orientale

“Quanto profondamente infatti essa respira il sacro spirito dei Veda!
Quanto profondamente colui che con l’attenta lettura si è reso
familiare il persiano-latino di questo libro incomparabile, si sente
penetrato dallo stesso spirito! Ogni riga vi ha il suo senso preciso,
sicuro e generalmente ben concatenato: da ogni pagina parlano a
noi pensieri profondi, originali ed elevati, mentre sul tutto si libra una
gravità sacra e solenne. Tutto respira qui l’aria dell’India e ci
trasporta in una vita piú vicina alle origini e alla natura. E come qui
lo spirito vien purificato da tutte le superstizioni giudaiche impresse
in esso dall’infanzia e da tutte le filosofie che ne sono schiave! Esso
è la lettura piú feconda e piú nobilitante che (eccetto il testo
originale) sia possibile al mondo; essa è stata il conforto della mia
vita e sarà la consolazione della mia morte.”

Morale e religione

Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860), entusiasta del
pensiero indiano – tanto da definire la lettura delle Upanishad
“conforto della mia vita” e “consolazione della mia morte” –, mette in
evidenza come questo abbia un carattere universale e possa
rivolgersi a ogni uomo, compreso l’uomo europeo, che potrà sentirsi
più vicino “alle origini e alla natura”. Nello stesso tempo, però,
Schopenhauer sottolinea quanto distante sia il mondo occidentale
da quello indiano: ma le difficoltà linguistiche che egli descrive – che
sono il segno dell’abisso fra questi due mondi – devono essere
superate, rinunciando alla grammatica e alla sintassi del pensiero
occidentale, se vogliamo avvicinarci in maniera proficua alla
sapienza indiana.
Nella opera più importante di Schopenhauer , Il mondo come
Volontà e rappresentazione, troviamo due chiavi di lettura
della realtà che corrispondono alla distinzione kantiana fra
fenomeno e noumeno.
LA RAPPRESENTAZIONE
LA VOLONTA’
È la dimensione esteriore
che l’individuo conosce
applicando le categorie di
spazio, tempo e causalità.
È l’orizzonte che si schiude
all’individuo quando rivolge
lo sguardo alla sua interiorità.
È illusione, dimensione
onirica, il Velo di Maya.
È essenza della realtà,
accessibile al filosofo che
squarcia il Velo di Maya.
Le categorie
Schopenhauer ammette tre forme a priori: SPAZIO, TEMPO e CAUSALITA’.
Esse sono paragonate a dei vetri sfaccettati attraverso cui la visione delle cose
si deforma. La rappresentazione è diversamente da Kant un inganno e la vita
simile ad un sogno. Tra la vita ed il sogno un confine sottile tra dimensioni.
"Vita e sogni sono fogli di uno stesso libro:
leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare"
Arthur Schopenhauer
Sogno e vita

A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 5

Noi abbiamo sogni; non è forse tutta la vita un sogno? – o più precisamente: esiste un
criterio sicuro per distinguere sogno e realtà, fantasmi ed oggetti reali? – L’addurre la
minor vivacità e chiarezza dell’immagine sognata rispetto a quella reale non merita alcuna
considerazione; dato che nessuno ancora ha avuto presenti contemporaneamente l’uno e
l’altro per confrontarli, ma si poteva confrontare soltanto il ricordo del sogno con la realtà
presente. Kant risolve così il problema: “Il rapporto delle rappresentazioni fra di loro
secondo la legge della causalità distingue la vita dal sogno”. Ma anche nel sogno ciascun
particolare dipende parimenti in tutte le sue forme dal principio di ragione, e questo si
rompe soltanto fra la vita e il sogno e fra i singoli sogni. La risposta di Kant potrebbe
quindi essere formulata così: il lungo sogno (la vita) ha in sé connessioni costanti secondo
il principio di ragione, ma non le ha coi sogni brevi; sebbene ciascuno di questi abbia in sé
la stessa connessione: fra questi e quello è dunque rotto il ponte, e in base a ciò si
distinguono tra loro.

[...] L’unico criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà è in effetti quello affatto
empirico del risveglio, col quale in verità il nesso causale fra le circostanze sognate e
quelle della vita cosciente viene espressamente e sensibilmente rotto.

[...] Calderon infine era preso così profondamente da questo pensiero, che cercò di
esprimerlo in un dramma, che in un certo modo è metafisico: La vita è sogno.
Kant e Schopenhauer differenze
KANT
Fenomeno
Unica realtà accessibile alla
mente umana
SCHOPENHAUER
Illusione,sogno, Velo di
Maya
KANT
Noumeno
Concetto limite puramente
intellettuale.
SCHOPENHAUER
Realtà nascosta dietro il Velo di
Maya.
I caratteri della Volontà di Vivere
INCONSCIA perché
è oltre la dimensione
fenomenica e si sottrae
alle forme a priori che la
caratterizzano.
UNICA perché esiste
al di fuori di spazio e
tempo che moltiplicano
e dividono gli enti.
VOLONTA’ DI
VIVERE
ETERNA perché è
oltre la forma del tempo
quindi non ha né inizio
né fine.
SENZA SCOPO
INCAUSATA perché
è oltre la categoria di
causa e si configura
come forza libera.
perché non ha una meta,
vuole se stessa.
La Volontà di vivere
Ponendo la Volontà come essenza del reale, Schopenhauer individua
una irrazionalità di fondo nella realtà, che lo pone agli antipodi della
tradizione idealistica. Hegel, infatti, aveva affermato che: “Tutto ciò
che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale.”
Dolore, piacere, noia
“La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra il dolore e la
noia, passando attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere.”
DOLORE
Posta la Volontà quale essenza della realtà e poiché
volere significa desiderare qualcosa che non si ha, lo
stato di tensione continua che ne deriva genera
sofferenza.
Schopenhauer
teorizza tre stati
esistenziali
PIACERE
Il godimento (fisico) e la gioia (psichica) è
cessazione del dolore, scarico da uno stato
preesistente di tensione, che ne è condizione
indispensabile.
NOIA
Subentra quando viene meno l’aculeo
del desiderio o il pungolo delle
preoccupazioni.
Il piacere
La concezione del piacere come cessazione del dolore era stata già sostenuta
da Pietro Verri e da Giacomo Leopardi. Schopenhauer, in uno scritto, cita
esplicitamente il poeta Leopardi manifestando grande apprezzamento per
“l’italiano che ha saputo rappresentare in maniera profonda il dolore”
Il dolore
Poiché la Volontà di vivere si manifesta in tutte le cose, il dolore non riguarda
solo l’uomo ma investe ogni creatura. Tutto soffre: dal fiore che appassisce
all’animale ferito, dal bimbo che nasce al vecchio che muore. L’uomo, tuttavia,
soffre più d’ogni altra creatura perché è dotato di maggiore consapevolezza ed
è destinato a sentire in maniera più vivace e distinta il pungolo della Volontà.
Fra tutti gli uomini, poi, il genio sperimenta la più acuta sofferenza: “chi
aumenta il sapere moltiplica la sofferenza” (Ecclesiaste I, 18).
Anche a questo proposito è evidente l’analogia con il pensiero leopardiano. Il
poeta italiano, infatti, scriveva nel suo Zibaldone di pensieri: “Non gli uomini
solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il
genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti
gli esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi,
i sistemi, i mondi”.
Pensieri, LXVIII
La noia
Se finora si è rintracciata una sostanziale analogia fra la filosofia
leopardiana e quella schopenhaueriana, le due linee di pensiero divergono a
proposito della concezione della noia. Per Leopardi, infatti, la noia è prova
della grandezza e della nobiltà dell’uomo, in quanto segno di sproporzione
tra la nullità e l’insufficienza delle cose terrene e la grandezza del nostro
desiderio.
“La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani:
considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole
meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità
dell’animo proprio…”
Le vie di liberazione dalla volontà
L’influenza delle sentenze pessimistiche del pensiero orientale
(“esistere è soffrire”), di Platone (“è meglio non essere nati
piuttosto che vivere”) e della tradizione biblico-cristiana (“la vita è
valle di lacrime”) inducono Schopenhauer alla teorizzazione della
forma più radicale di pessimismo mai formulata nella storia del
pensiero occidentale. Egli stesso però, rifiutato il suicidio come
fuga da questo universo doloroso, individua un percorso salvifico
che conduca l’uomo alla liberazione dal dolore.
L’arte
Le vie di
liberazione
dal dolore
L’etica della pietà
L’ascesi
L’ascesi
L’ascesi è l’esperienza attraverso cui l’uomo si propone di
espiare il proprio desiderio di esistere, godere, volere. Essa è
preparatoria allo stato di Nirvana, in cui i legami con il mondo
sono completamente azzerati. A questo punto la Volontà, vinta in
un solo individuo, poiché unica, perisce tutta.
Castità perfetta
Le tre tappe
del processo
di ascesi
Digiuno
Povertà
Il rifiuto del suicidio
non è negazione della Volontà ma, al
contrario, la sua stessa forte
affermazione: “il suicida vuole la vita
ed è solo malcontento delle
condizioni che gli sono toccate”
Schopenhauer
rifiuta il
suicidio
perché
il suicidio è negazione di una sola
manifestazione della Volontà, la
quale, pur morendo in un
individuo, rinasce in mille altri.
Il suicidio non sconfigge la “Volontà
di vivere”, ma ne è un’affermazione

“Chi è oppresso dal peso della vita, chi vorrebbe e afferma la vita,
ma ne aborre i tormenti, e soprattutto non riesce a tollerare piú a
lungo il duro destino, che proprio a lui è capitato: questi non deve
sperare una liberazione dalla morte, e non può salvarsi col suicidio;
solo con un falso miraggio lo attrae l’oscuro, freddo Orco, come
porto di quiete. La terra si volge dal giorno verso la notte; l’individuo
muore; ma il sole arde senza interruzione in eterno meriggio. Alla
volontà di vivere è assicurata la vita: la forma della vita è un
presente senza fine; non importa che nascano e periscano nel
tempo gli individui, fenomeni dell’idea, simili a sogni fugaci. Il
suicidio ci appare già da questo come un’azione inutile e quindi
stolta: quando saremo proceduti più oltre nella nostra indagine, ci si
presenterà in una luce ancor più sfavorevole.”
L’arte
L’arte è una forma di conoscenza che si rivolge alle idee,
ossia alle forme pure, ai modelli eterni delle cose. Ciò
avviene perché in una qualsiasi produzione artistica questo
amore, questa guerra, questa sofferenza vengono sublimate
per rappresentare l’amore, la guerra, la sofferenza. La
contemplazione di un’opera d’arte permette all’uomo di
svincolarsi dalla realtà, dalla dimensione del particolare;
ma solo temporaneamente: subito dopo, infatti, l’uomo
ricade vittima della Volontà.
Arte come liberazione

Nella contemplazione estetica abbiamo ritrovato due inseparabili elementi: la conoscenza
dell’oggetto, non come cosa singola, ma come idea platonica, cioè come forma permanente di tutta
questa specie di oggetti; e la coscienza del soggetto conoscente, non come individuo, ma come
soggetto della conoscenza puro, libero dalla volontà.[...]

Finché dunque la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà, finché siamo abbandonati
all’impulso dei desideri, col suo perenne sperare e temere, finché siamo soggetti del volere, non ci è
concessa duratura felicità né riposo. Che noi andiamo in caccia o in fuga, che temiamo sventura o ci
affatichiamo per la gioia, essenzialmente è la stessa cosa: la preoccupazione della volontà con le
sue continue esigenze, sotto qualsiasi aspetto, riempie e agita senza posa la coscienza; e
senza pace nessun reale benessere è mai possibile. Il soggetto del volere è così senza tregua
legato alla volgente ruota di Issione, attinge sempre col vaglio delle Danaidi, è Tantalo che in eterno
si strugge.

Quando però una causa esteriore, o una disposizione interna ci trae all’improvviso fuori
dall’infinita corrente del volere e sottrae la conoscenza alla schiavitù della volontà, e quando
l’attenzione non è più rivolta ai motivi del volere, ma percepisce le cose sciolte dal loro
rapporto col volere, ossia le considera senza interesse, senza soggettività, in modo
puramente oggettivo, immergendosi tutta in esse, in quanto esse sono mere rappresentazioni
e non motivi: allora sopraggiunge, improvvisa e spontanea, quella pace che, sempre dapprima
cercata sulla via del volere, ognora sfuggiva, e noi siamo allora perfettamente felici. È quello
stato senza dolore, che Epicuro lodò come il massimo bene e come condizione degli dèi: perché noi
siamo, in quell’istante, liberati dal vile impulso della volontà, e celebriamo, noi forzati lavoratori
della volontà, il nostro giorno di festa: la ruota di Issione si arresta.

Questo è appunto lo stato, da me più sopra descritto come necessario per la conoscenza dell’idea in
quanto pura contemplazione, assorbimento nell’intuizione, smarrimento di sé nell’oggetto, oblio di
ogni individualità, abolizione della conoscenza legata al principio di ragione, che afferra
soltanto relazioni; è lo stato, in cui immediatamente e inseparabilmente il singolo oggetto intuito si
eleva all’idea della sua specie, l’individuo conoscente si eleva a puro soggetto del conoscere libero
dalla volontà, ed entrambi, in quanto tali, non si trovano più nella corrente del tempo e di tutte le altre
relazioni. È indifferente, allora, se il sole che tramonta si veda da un carcere o da un palazzo.
L’etica della pietà
Questo secondo momento dell’iter salvifico implica, a differenza del
primo, un impegno concreto nel mondo a favore del prossimo. La morale
schopenhaueriana non nasce da un imperativo categorico, come per
Kant, ma da un sentimento di pietà attraverso cui l’individuo avverte come
proprie le sofferenze degli altri (compassione). Ai suoi massimi livelli la
pietà consiste nel far proprio il dolore di tutti gli esseri passati e presenti e
nell’assumere su di sé la sofferenza cosmica. Ma anche l’etica della pietà
permette una liberazione solo parziale dalla Volontà: sarà con l’ascesi che
l’uomo si riscatterà definitivamente dalla condizione di vittima della
Volontà di vivere.
Lo Stato e la pace

Per Schopenhauer lo stato esiste per combattere gli effetti dannosi della volontà di vivere, ma la
sua battaglia non può mai considerarsi definitivamente conclusa e vinta differentemente da Hegel
che lo vede come la realizzazione dello Spirito nel mondo, l’Eticità concreta e realizzata nella quale
gli individui si fondono. Dobbiamo rilevare una differenza tanto con Kant che con Hegel: la pace è
dannosa all’umanità che ai singoli individui se realizzata.

Abbiamo dunque conosciuto nello Stato il mezzo mediante cui l’egoismo armato di ragione cerca di
sfuggire ai suoi propri perniciosi effetti rivolgentisi contro se medesimo; ciascuno favorisce il bene di
tutti, perché vi vede compreso il bene suo proprio. Ove lo Stato raggiungesse appieno il suo fine,
potrebbe aversi da ultimo, poiché esso mediante le forze umane in sé congiunte sa ognor piú trarre
a suo servigio anche la rimanente natura, con la rimozione d’ogni maniera di mali alcunché
d’analogo al paese di Cuccagna. Ma per un verso esso è tuttora sempre lontano da questo termine;
per l’altro innumerevoli mali, alla vita necessariamente inerenti, manterrebbero come prima la vita in
dolore; tra i quali, fossero pur tutti gli altri elementi, da ultimo la noia occuperebbe ogni posto da
quelli lasciato, per un altro verso ancora la discordia degli individui non può mai dallo Stato
esser tolta in tutto di mezzo, ché essa stuzzica nel piccolo, dov’è interdetta nel grande, ed
infine Eris, felicemente cacciata dall’interno, si volge ancora al di fuori: bandita per mezzo
dell’ordinamento civile dalle contese degli individui, ritorna dall’esterno in forma di guerra da popoli,
e pretende allora in grosso e tutto in una volta, come debito accumulato, le sanguinose vittime, che
mediante saggia provvidenza le si erano sottratte singolarmente. E ammesso finalmente, che
tutto ciò si potesse superare e toglier di mezzo, con una saggezza fondata sull’esperienza di
millenni, il risultato ultimo sarebbe l’eccesso di popolazione sull’intero pianeta: terribile
male, che oggi solo un’audace fantasia riesce a rappresentarsi.

A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione
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Schopenhauer - Appunti del prof. Armando