Che cosa significa una visione della storia? Vogliamo comprendere la storia come tutto per comprendere noi stessi. La storia è per noi il ricordo, di cui non solo abbiamo conoscenza, ma sulla cui base viviamo. Essa costituisce le fondamenta che sono già poste e a cui rimaniamo legati se vogliamo non disperderci nel nulla, ma prender parte all'essere-umano. Una visione della storia crea lo spazio da cui si desta la nostra coscienza dell'essere-umano. […] Ogni epoca ha la propria grandezza. Il passato ha cime e valli nel suo significato. Ci sono epoche tranquille, che sembrano contenere ciò che sarà per sempre, e che si sentono definitive. Ci sono epoche di svolta in cui avvengono rivolgimenti che, nel caso estremo, sembrano toccare le radici del genere umano. Karl Jaspers Scriveva Gioacchino Volpe nel 1922, l'anno che avrebbe segnato l'inizio della crisi dello Stato liberale: “Gli Italiani aspettano sempre una storia del loro Risorgimento: una storia di ampio respiro; penetrata e animata di realtà; illuminata dal «senno del poi», vale a dire dalla comprensione di quel che è l'Italia, nata da quello sforzo; una storia che non sia elogio né requisitoria, non ricerca di eroi da incorniciare per la patria galleria o di idoli da adorare come incarnazioni di verità assolute; una storia infine che, pur circoscrivendo, nella vita d'Europa e del mondo, l'Italia e, nell'Italia, una certa determinata epoca detta il Risorgimento, ci presenti poi quell'Italia parte di un tutto e piena dello spirito del mondo, e nel Risorgimento ci faccia sentire, viva, presente e operosa, la storia di vari secoli di vita italiana, quanti sono necessari per dar ragione di quel che il Risorgimento è stato e di quel che non è stato”. Il regime che ne è seguito non ha negato il Risorgimento, ma lo ha lentamente assorbito in una dimensione celebrativa e conservatrice, funzionale al proprio modello politico. Si dovrà attendere a lungo prima di ritrovarsi negli ideali e nella storia dell’unica rivoluzione politica che avuto l’Italia moderna. La storia ci serve soprattutto come strumento per indagare il presente e per riuscire a progettare il futuro. Il problema è capire se esiste davvero un comune sentire italiano, se c'è un senso di appartenenza al di là delle ideologie spicciole recenti, per certi versi se in questi 150 anni siamo cresciuti come popolo. L'Unità della nazione non è una conquista fatta, non è un obiettivo conquistato una volta per tutte, ma è un processo in continuo divenire; certo non siamo forse uniti completamente, ma siamo molto più uniti di come eravamo prima e lo diventeremo forse ancora di più nei prossimi anni se ci saranno politiche, modalità di pensiero, strategie volte a questo continuo processo di unità, che appunto non può significare omogeneizzazione. La memoria pubblica è un "patto" in cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciar cadere degli eventi del nostro passato. Su questi eventi si costruisce l'albero genealogico di una nazione. Sono i pilastri su cui fondare i programmi di studio per le scuole, i luoghi di memoria, i criteri espositivi dei musei, i calendari delle festività civili, le priorità da proporre nella grande arena dell'uso pubblico della storia, le scelte sulla base delle quali si orientano tutti i sentimenti del passato che attraversano la nostra esistenza collettiva. I fondamenti di quel "patto” cambiano a seconda delle varie "fasi" che scandiscono il processo storico di una nazione. Vent'anni fa, la classe politica uscita dal crollo della Prima Repubblica venne chiamata a una complessiva opera di "rifondazione". Si trattava, fra l'altro, di rinnovare un intero apparato simbolico, quell'insieme di pratiche di natura rituale sul quale un sistema politico fonda la propria legittimazione. Vent'anni dopo prendiamo atto di un vero fallimento. Non è una vicenda solo italiana. La frattura tra Novecento e Post - Novecento ha terremotato l'intera configurazione delle memorie ufficiali, degli Stati europei in particolare. A est, la fine del comunismo ha lasciato affiorare tra le macerie dei monumenti memoriali dello stalinismo nuovi brandelli di memorie, improntate a un nazionalismo aggressivo e vendicativo. In Occidente, il tramonto dello Stato "potente", dello Stato forte, della legittimazione che derivava ai suoi istituti dalla potenza economica del welfare, ha provocato una deflagrante implosione, spalancando le porte a una complessiva privatizzazione della memoria, all'affermarsi di un groviglio di memorie particolaristiche che non si riconoscono più in quella proposta dallo Stato nazionale. La specificità italiana sta proprio nel sommarsi della crisi, che in generale ha investito il ruolo dello Stato novecentesco, alla lunga e difficile transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica. Il nostro universo memoriale ne è stato complessivamente sconvolto. I partiti che avevano costruito e monopolizzato il vecchio "patto di memoria" sono tutti scomparsi, sostituiti da partiti che con il passato hanno un rapporto contraddittorio, volatile, spesso inesistente. Sul piano istituzionale, è rimasta sola la presidenza della Repubblica a costruire memoria, in un cambiamento di ruolo tanto drastico, quanto significativo, cominciato già con Pertini e reso più evidente prima da Ciampi, poi da Napolitano. I loro interventi, tuttavia, sono come chiazze d'olio in un mare in tempesta: rassicurano e placano, mentre tutt'intorno la burrasca imperversa e le onde del risentimento e della rissa memoriale continuano ad accavallarsi impetuose. Nel vuoto spalancatosi grazie all'inconsistenza del rapporto con il passato, proposto dalla nuova classe politica, si sono affermati altri e più potenti costruttori di memorie. Anche su questo terreno i venti della privatizzazione spirano robusti, alimentati dal mercato e dal sistema mediatico che ne organizza i contenuti. Oggi tutte le grandi narrazioni del passato sono affidate alla capacità dei media, in particolare della televisione di proporre un racconto commisurato al senso comune. I media hanno potentemente contribuito a legittimare l'impiego dei linguaggi specifici del qualunquismo spontaneo, del razzismo, del fanatismo sportivo. A partire dagli anni ottanta le televisioni private, in particolare, hanno lasciato emergere la forza egemonica della componente maggioritaria di un'opinione pubblica soprattutto settentrionale, maschile e con forti pulsioni xenofobe, contribuendo a rendere accettabile e diffusa una serie di luoghi comuni e di stereotipi prima confinati esclusivamente nella cerchia ristretta dei bar di periferia. Il sentirsi italiani, il riconoscersi in un valore che non sia l’essere tutti figli di uno stesso benessere e che si fondi su un comune nucleo civico, è oggi un sentimento che non suscita passione, mentre altre scelte si affermano in un universo affollato da derive familistiche, da egoismi aggressivi, da pulsioni che oscillano tra il rancore e la passività. Quali i limiti temporali del Risorgimento? Il processo di trasformazione della penisola italiana da un'espressione meramente geografica in una nazione unita e potente, è oggetto di una vasta letteratura. Quali limiti temporali si debbono assegnare al Risorgimento? Per la sua fine è stata proposta la data del marzo 1861, quando si giunse alla formale costituzione di un Regno unito. Un'alternativa è l'ottobre 1870, quando il plebiscito tenuto a Roma parve porre un suggello più definitivo al processo di unificazione nazionale. I patrioti più accesi sono andati ancor più lontano e hanno considerato parte di uno stesso periodo storico anche gli anni fino al 1919, allorché la definizione dei confini, seguita alla prima guerra mondiale, completò le frontiere alpine dell'Italia. Più difficile è trovare un accordo sulla data d'inizio del Risorgimento. Si potrebbe sostenere che soltanto nel periodo rivoluzionario compreso tra il 1846 e il 1849 il sentimento nazionale si diffuse effettivamente, in una misura realmente significativa, tra la popolazione delle varie regioni italiane. Gli storici hanno a volte adottato la data di comodo del trattato del 1815 che seguì le guerre napoleoniche; o, alternativamente, l'arrivo delle truppe francesi negli anni seguenti al 1794, con il loro nuovo messaggio rivoluzionario; altri hanno fatto iniziare il Risorgimento ancor prima, con i riformatori illuministi del Settecento. Un'altra interpretazione vede in Cavour e Mazzini gli eredi diretti dei signori medievali in continua lotta fra loro, che avevano combattuto contro gli invasori stranieri al fine di creare, più o meno consciamente, un grande Stato italiano. In ogni caso l'idea di un'Italia unita, come possibile entità politica, era in precedenza presente nell'animo popolare: eccetto che per pochi, si trattava forse soltanto di un'idea vaga, priva di incidenza pratica, ma la coscienza nazionale non nacque dal nulla dopo il 1800. La parola «risorgimento» venne dapprima usata per indicare ciò che oggi siamo soliti definire come il «rinascimento» del XV secolo. L'idea di un'unità culturale italiana è facilmente rintracciabile ancor prima di questa data. Dante e Petrarca, all'inizio del '300, vagheggiarono un ideale poetico di ciò che l'Italia avrebbe potuto essere, e Machiavelli, più tardi, sperò che apparisse un liberatore che sottraesse gli italiani al dominio straniero. Machiavelli, tuttavia, come Petrarca e Dante, era cittadino di Firenze, non dell'Italia e neppure della Toscana; e sebbene il suo orizzonte andasse oltre le mura della sua città, la realtà politica del suo mondo era rappresentata da un'Italia divisa in principati, repubbliche e città indipendenti. Gli italiani delle diverse regioni si erano per secoli scontrati per rivalità meramente locali, provocando o anche sollecitando regolarmente l'invasione di un capo straniero dopo l'altro, che li aiutasse nelle loro lotte private contro gli Stati italiani vicini. A causa dei disaccordi interni, tutti i conquistatori stranieri trovarono sempre appoggio in notevoli settori della popolazione locale: non solo per i francesi nel 1494, per gli spagnoli nel 1282, per i tedeschi nell'ultimo decennio del XII secolo e per gli arabi nel IX, pure per l'invasione napoleonica del 1796 e per la conquista austriaca del 1813-14. Persino nel 1849, alcuni ben noti personaggi italiani applaudirono il ritorno dei soldati austriaci in Italia. L'autorità straniera, forse perché capace di trattare questi antagonismi locali con un certo distacco, ma anche perché poteva offrire ai virtuali rivoluzionari qualche speranza di cambiamenti radicali, oppure perché garantiva ai conservatori una valida difesa contro disordini e sconvolgimenti sociali, fu di solito ben accolta da parte di molti italiani. Questo è un punto importante per la comprensione del Risorgimento, perché, malgrado l'inevitabile e necessaria concentrazione degli sforzi più tardi diretta contro gli austriaci, la principale difficoltà per lo sviluppo del movimento patriottico non furono un governo o i governi stranieri, ma la lentezza della gran massa degli italiani ad accettare o addirittura a comprendere l'idea di unità nazionale. Persino tra gli intellettuali, lo stesso concetto di «Italia» rimaneva spesso distante e indefinito; si continuava, ad esempio, a parlare della «nazione lucchese»; la «Società patriottica», istituita sotto gli auspici di Maria Teresa a Milano nel 1776, si rivolgeva al patriottismo lombardo, non italiano; e allorché si concesse ad alcuni stranieri di farne parte, questi «stranieri» erano sia i veneziani e i piemontesi, sia gli inglesi e i tedeschi. Poteva capitare che i libri sulla storia italiana tralasciassero la storia della Lombardia, di Venezia o della Sicilia, e trattassero però quella di Trieste, dell'Istria, dei Grigioni, di Monaco e del «Tirolo italiano». Risorgimento: Brevi cenni storico –politici Il Risorgimento italiano: influenze e determinanti di Illuminismo - Romanticismo Rivoluzione industriale - Socialismo L’idea di Nazione e di Patria Concetto di Europa L’Italia è suddivisa dopo il Congresso di Vienna 1815 in sette Stati – Le guerre d’indipendenza – Presa di Roma Italia oggi Risorgimento Brevi cenni storico - politici Il Risorgimento italiano È una storia cui non manca nulla: l'eroico e il grottesco, l'aulico e il ridicolo, il tragico e il rocambolesco. C'è tutto: amore e morte, sangue e nobildonne, tradimenti e intrighi, battaglie e rivolte, re e imperatori, papi e cortigiane, l'esilio e il ritorno, rotte disastrose e clamorose sorprese. Ci sono eroi sconosciuti, martiri il cui nome è completamente dimenticato, nobili e analfabeti morti sul patibolo, in battaglia, in ospedali improvvisati, in carcere, gridando quel «Viva l'Italia!» di cui oggi ci facciamo beffe. E ci sono uomini che dopo aver tentato di uccidersi l'un l'altro finiscono per allearsi in nome della stessa causa. Come Cavour, che del suo grande nemico seppe dire: «Garibaldi ha reso all'Italia il più grande dei servizi che un uomo potesse offrirle: egli ha dato agli italiani fiducia in loro stessi, ha provato all'Europa che gli italiani sanno battersi e morire sui campi di battaglia per riconquistarsi una patria». I fratelli d’Italia continueranno ad essere uniti come per l’addietro Illustrazione satirica dal periodico "I1 Fischietto", 20 gennaio 1849 È una storia che merita di essere raccontata ancora. Abbiamo il dovere di farlo perché le vicende particolari, periferiche, diffuse in tutta l’Italia, non si disperdano. Guardiamo in faccia tutti i processi e i fatti storici, anche i più spiacevoli. Evitiamo, però, che la retorica dell’antiretorica nasconda l’intenzione di cancellare le tracce di una storia per la quale milioni di italiani si sono impegnati con disinteresse, eroismo, amore per la comunità. Leggiamo cosa sono state le Cinque giornate di Milano, le Dieci giornate di Brescia, la difesa della Repubblica romana, la resistenza di Venezia, ma vediamo anche i numeri della partecipazione alla missione garibaldina in Sicilia e prima ancora l'adesione di massa alle società segrete, luoghi di formazione della coscienza nazionale e della volontà di costruzione delle istituzioni comuni. Ricordiamoci dei dati materiali dell'Italia dei sette Stati voluta dai vincitori di Napoleone. Il Nord era poverissimo, dilagavano il colera, la malaria, le malformazioni, l'agricoltura irrazionale, poche le industrie. Unica speranza, l'emigrazione: l'America Latina negli anni trenta dell'Ottocento era invasa da liguri e piemontesi. Le città si erano spopolate. Nel Sud la dinastia dei Bourbon-Farnese aveva tentato di costruire un'amministrazione in un territorio abbandonato da qualsiasi legge per due secoli. In sessant'anni l'Italia aveva subito un catastrofico crollo della ricchezza e del reddito. Nel 1815 i salari erano pari alla metà di quelli che venivano corrisposti nel 1750. Nel 1850 il 30 per cento delle famiglie italiane era sottonutrito. L'aspettativa di vita alla nascita era di 30 anni contro i 47 anni degli Stati Uniti e i 42 dell'Inghilterra. Se si ebbero buoni risultati sul fronte amministrativo e militare, quasi non ve ne furono in termini di infrastrutture. Gli italiani del 1815 passavano la giornata raccogliendo legna per scaldarsi: 1,5 chili a famiglia al giorno. Il carbone non esisteva, fu una delle grandi innovazioni del secolo: era il segno fisico del progresso e, per la prima volta, aveva portato la possibilità di riscaldarsi davvero! Se una società segreta di oltre 500mila aderenti scelse di chiamarsi «Carboneria» fu per questo motivo. A questi Italiani il tentativo di Stato amministrativo portato dalle armate di Napoleone, soprattutto lo Stato italiano con capitale Milano (Repubblica italiana nel 1802 e poi Regno italico nel 1805), apparve nello stesso tempo un sopruso e un miglioramento. La volontà di tornare indietro imposta dal Congresso di Vienna fu una terribile violenza, che provocò la febbre della ribellione e della rivoluzione. I tre grandi protagonisti della nascita dell'Italia unita non appaiono mai soli, ma all'incrocio di reti di relazioni, spesso internazionali, che vanno di nuovo considerate con attenzione. La figura di Giuseppe Mazzini emerge con la forza dell'educatore di un intero popolo. La sfortuna di tanti suoi tentativi non può far venir meno il ruolo eccezionale di aver imposto il progetto dell'Italia unita, che per decenni le classi dirigenti dovettero in ogni caso perseguire. Il testo romantico e poetico del Giuramento degli affiliati della Giovine Italia è, con i Sepolcri del capitano napoleonico Ugo Foscolo, il manifesto degli italiani. Giuseppe Garibaldi è il comandante che ha dovuto costruirsi da solo un esercito e lo ha fatto per sette volte da Montevideo a Digione. Odiato e vinto dai generali invidiosi, gli venne impedito di comandare. Il suo esilio volontario a Caprera fu un gesto, un ammonimento, un dubbio costante che ha pesato per decenni sull'Italia in formazione. Eppure egli, come scrisse Cavour, restituì agli italiani l'orgoglio di se stessi. «Nel nome di Dio e dell'Italia, nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide, straniera o domestica ... Io ... credente nella missione commessa da Dio all'Italia, e nel dovere che ogni uomo nato Italiano ha di contribuire al suo adempimento; Convinto che dove Dio ha voluto che fosse nazione, esistono le forze necessarie a crearla - che il popolo è depositario di quelle forze, - che nel dirigerle pel popolo e col popolo sta il segreto della vittoria; Convinto che la virtù sta nell'azione e nel sacrificio - che la potenza sta nell'unione e nella costanza della volontà-; Do il mio nome alla Giovine Italia, associazione d'uomini credenti nella stessa fede, e giuro: Di consacrarmi tutto e per sempre a costruire con essi l'Italia in nazione una, indipendente, libera, repubblicana ... » Cavour è il rivoluzionario che seppe imporre la costruzione dello Stato laico alle classi dirigenti grette ed egoiste del Piemonte confessionale; e impose a forza, a un re che lo detestava, il Parlamento come centro della vita di un paese che divenne l'Italia prima di esserlo, ospitando 40mila esuli da ogni parte di una penisola precipitata nella violenza e nella repressione dopo la sconfitta della guerra federale del 1848-1849. In realtà, volle costruire le istituzioni per un paese molto più grande e forte di quello che essi avevano sotto gli occhi. Quando si aprirono delle occasioni, puntò con energia e rapidità all'unificazione nazionale, aggregò attorno a sé, finanziandoli, esuli e rivoluzionari di ogni genere. Non va neppure dimenticata la figura mutante, misteriosa, tragica di quel Carlo Alberto di Savoia Carignano che diede vita a un pazzesco investimento militare in un paese, il Piemonte, di poco più di 3,5 milioni di abitanti. Immaginiamo di entrare nelle stanze di un museo immaginario: troviamo un mondo fatto di poesie, romanzi, opere liriche, soprattutto tante immagini. La pittura si trasforma in litografia industriale, la stampa sorge con i suoi giornali in cui compare, improvvisa e incredibile, la fotografia, segno fisico della nuova era. La prima foto che conosciamo è quella di Stefano Lecchi del bombardamento francese contro il Gianicolo, nel luglio del 1849. Non è una storia fatta solo di schioppi, sciabole e baionette. È la nascita degli strumenti del mondo moderno, con la stampa e la comunicazione al centro di tutto. Siamo vittime necessarie dell'anacronismo. Tuttavia, perché dobbiamo far retroagire problemi di un paese ricco, invecchiato, a bassa crescita, con una ricchezza netta delle famiglie pari a 8,5 volte il reddito annuo, come è l'Italia di oggi, con il processo di come si costruì lo Stato nazionale italiano? Certo, ci furono errori gravissimi, e molti. Dieci anni di brutale occupazione militare del Mezzogiorno e deportazioni. Un liberismo eccessivo, ed troppo rapido, trasformatosi in altrettanto esagerate politiche protezionistiche, e tanta, troppa corruzione. Ma se facciamo confronti anche solo in Europa si deve ammettere che l'Italia è un caso di eccezionale, irresistibile successo nel processo di nation building. I problemi di oggi non possono essere affrontati se siamo inconsapevoli della storia, ma di una storia di dettaglio, studiata con impegno da tutti noi. La storia è necessaria per parlare del futuro con uno sguardo disincantato, uno sguardo laico, che non sia già incastonato in posizioni pregiudiziali. Il Risorgimento non è di moda. Lo si considera una «cosa da liberali». Si dimentica che nel 1848 insorse l'Italia intera. Invece, l'Italia è una cosa seria. È molto più antica di 150 anni; è nata nei versi di Dante e Petrarca e ancor prima. È diventata nazione anche grazie a eroi spesso dimenticati. La nostra storia italiana è piena di figure che nella parabola di una breve stagione consumano la loro vita e nello stesso tempo rimangono come icone senza storia e senza fisionomia, perché nella vicenda che improvvisamente le proietta alla ribalta, nella scena che le inonda di luce, si perdono molti particolari e anche il dopo rimane in ombra, azzerato e annichilito dalla forza dell’evento. È un'Italia in armi, quella che fa il Risorgimento. Nel 1848 i volontari si contano a decine di migliaia (mentre oltre la metà dei ventimila lombardi e veneti richiamati dall'impero austriaco disertano). Lo stesso accade nel 1859, quando i volontari si uniscono ai piemontesi e poi a Garibaldi che risale la penisola da Sud. In tanti partivano cantando una canzone che alle elementari ci facevano imparare a memoria. Già all' epoca suonava un po' retorica. Ora che il Risorgimento è poco studiato, c’è da dubitare che i nostri figli l'abbiano mai sentita: Addio, mia bella, addio Il sacco è preparato 1'armata se ne va (alla morte incontro si va) sull' omero mi sta e se non partissi anch'io sono uomo sarebbe una viltà! e son soldato Tra quanti moriranno viva la libertà! forse ancor io morrò non ti pigliare affanno da vile non cadrò Chissà cosa direbbe dell'Italia di oggi Garibaldi, che conquistò un regno, ma con sé a Caprera non portò i quadri di Caravaggio e l'oro dei Borboni, bensì un sacco di fave e uno scatolone di merluzzo secco. Cosa direbbero i volontari della Grande Guerra, che scrivevano alle madri: «Forse tu non potrai capire come non essendo io costretto, sia andato a morire sui campi di battaglia, ma credilo, mi riesce le mille volte più dolce il morire in faccia al mio paese natale, per la mia Patria. Addio mia mamma amata, addio mia sorella cara, addio padre mio. Se muoio, muoio coi vostri nomi amatissimi sulle labbra, davanti al nostro Carso selvaggio». Oltre al ricordo è forse dimenticato il dolore per i morti per l’Italia? Ecco come il poeta Ungaretti ricorderà nelle sue poesie gli immensi sacrifici e i nostri caduti nella Grande Guerra: Questo è l'Isonzo Isonzo Da i fiumi - Cotici Stamani mi sono disteso in un’urna d’acqua e come una reliquia ho riposato L’Isonzo scorrendo mi levigava come un suo sasso (scritta a matita in un angolo di una scatola, di cartucce - San Michele 16.8.1916) (San Michele - 19.000 morti in 8 km. di fronte) e qui meglio mi sono riconosciuto una docile fibra dell'universo Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia Ma quelle occulte mani che m’intridono mi regalano la rara felicità E ancora Ungaretti esprimerà il dolore per la morte dei compagni caduti per unificare il paese e nella consapevolezza di compiere il proprio dovere. Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato (San Martino del Carso 27 agosto 1916) Di che reggimento siete, fratelli? Parola tremante nella notte Foglia appena nata Nell’aria spasimante involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità Fratelli (Mariano 15 luglio 1916) (Le sue poesie raccontano una sensazione di fragilità, lo stare «come d'autunno / sugli alberi / le foglie», forte legame con i compatrioti, anche sconosciuti) Courton luglio ’18 Ungaretti Le sue poesie raccontano la consapevolezza di fare il proprio dovere, in una guerra condotta male, che costava un prezzo altissimo, ma contribuiva a unificare definitivamente il paese, a forgiare gli italiani, a riavvicinare settentrionali e meridionali, contadini e borghesi, laureati e analfabeti, accomunati dalla stessa uniforme. Una consapevolezza espressa in versi che si intitolano, appunto, Italia. ITALIA Loćvizza l’1 ottobre 1916 Sono un poeta un grido unanime sono un grumo di sogni Sono un frutto d'innumerevoli contrasti d'innesti maturato in una serra Ma il tuo popolo è portato dalla stessa terra che mi porta Italia E in questa uniforme di tuo soldato mi riposo come fosse la culla di mio padre Gli eroi e l’oblio Cosa direbbe il generale Perotti, capo del Cln piemontese, condannato a morte dal tribunale di Salò, che, ai suoi uomini, capitano Balbis e tenente Gennua, ansiosi di discolparlo e di addossarsi ogni responsabilità, grida: «Signori ufficiali, in piedi: viva l'Italia!»? «Viva l'Italia!» oggi è un grido scherzoso. Ma per molti italiani del Risorgimento e della Resistenza furono le ultime parole. NE PLEUREZ PAS CEUX QUI SONT MORTS, NE PLAIGNEZ PAS CEUX QUI VONT ENCORE MOURIR. ILS PAYENT LEUR DETTE. ILS VALENT MIEUX QUE CEUX QUI LES ÉGORGENT. DONC ILS SONT PLUS HEUREUX. (…) AH!, CE N'EST PAS SUR LES MARTYRS QU'IL FAUDRAIT PLEURER; C'EST SUR LES BOURREAUX. George Sand a Giuseppe Mazzini - 26 luglio 1849 Ai popoli dell’Italia Meridionale Manifesto […] «Popoli dell’Italia meridionale Le mie truppe si avanzano tra voi per raffermare l’ordine, Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a fare rispettare la vostra. Voi potrete liberamente manifestarla: qualunque sia la gravità degli eventi, Io attendo tranquillo il giudizio dell’Europa civile e quello della storia, perché ho la coscienza di compiere i miei doveri di Re, e di Italiano! In Europa la mia politica non sarà forse inutile a riconciliare il progresso dei popoli colla stabilità delle monarchie. In Italia so’ che io chiudo l’era delle rivoluzioni.» Vittorio Emanuele Dato da Ancona, addì 9 ottobre 1860 Il Risorgimento italiano va collocato in quel contesto storico tormentato che travolse tutto il XIX secolo in Italia e in Europa, ma con radici nel XVIII. È necessario per comprenderlo compiere un excursus storico e sociale dell’Italia, sia pur breve, a partire dalla fine del ‘700 e dagli inizi e di tutto il 1800. Un grande sconvolgimento aveva percorso la Francia con la Rivoluzione e Napoleone Bonaparte; la Germania ebbe il suo Risorgimento che la portò alla riunificazione dei numerosi stati che la costituivano; in altre nazioni europee si manifestarono moltissime insurrezioni tese a chiedere revisioni costituzionali e maggiore libertà. La rivoluzione francese fu preparata da una lenta evoluzione di una formidabile corrente di pensiero e grande movimento spirituale che fu l’Illuminismo, nato nella seconda metà del seicento come processo consapevole, allorché le forme razionalistiche e più intensamente secolarizzatrici della vita culturale e religiosa diedero vita ad una concezione unitaria su basi filosofiche. Si affermarono il valore dell’intelletto come criterio di base, il distacco dal trascendente e l’insofferenza per ogni tradizione, compresa quella religiosa. La Rivoluzione industriale fu una trasformazione di strutture che, prendendo l’avvio dall’Inghilterra del Settecento, sconvolse le basi dell’antico regime, col passaggio dalle tradizionali manifatture alla produzione meccanizzata e accentrata nella fabbrica, con la nascita della borghesia industriale, del capitalismo e della moderna classe operaria. Impulso dell’industria tessile, aumento dell’estrazione del carbone, aumento dei consumi, apertura di nuovi mercati. Introduzione della macchina a vapore, creazione di un’efficiente rete stradale e ferroviaria con miglioramento dei mezzi trasporto. Sviluppo degli ausiliari del commercio: banche assicurazioni. Si crearono due classi nuove; il capitalismo con ricchi industriali e la nuova classe operaia, diversa dagli artigiani dei villaggi e dai contadini, pronta a rivendicare diritti e migliori condizioni di vita. Nel contempo un altro movimento spirituale si manifestava in Germania nella seconda metà del XVIII sec.: il Romanticismo, che raggiunse il massimo delle sue espressioni nel 1800 in campo letterario, (Sturm und Drang), musicale, storico, filosofico e politico. Il romanticismo investì la complessità degli aspetti della vita, la diversità delle tradizioni nazionali con molteplicità di atteggiamenti. Il romanticismo apparve talora come movimento di restaurazione, ora come fede nella “bonté naturelle” dell’uomo, ora come esaltazione dei valori culturali, ora come individualismo e come soggettivismo, ora come affermazione delle forze irrazionali della vita e ora come trionfo della libertà dello spirito, ora come poesia della malinconia del dolore e della morte e ora come una nuova e più intima scoperta dell’esistenza, ora come coscienza di popolo e potenziamento dei sentimenti nazionali, ora come fatto speculativo che sboccò verso una nuova filosofia, una nuova mistica. La concezione della storia evolse verso una comprensione intellettualistica del “mito” inteso come espressione diretta dello spirito di un popolo e corrispondente alla rivendicazione del proprio “carattere nazionale ”, una prevalente tendenza antilluministica della storia. L’Ottocento sarà scosso inoltre da un altro grande movimento, conseguenza in parte della rivoluzione industriale, che trova un suo primo enunciato nel Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels nel 1848, cui seguiranno fermenti profondi per tutta l’Europa, ma che avrà sviluppo nella seconda parte del secolo e nel Novecento. La nuova ideologia sarà basata sull’uguaglianza sociale e una nuova forma di organizzazione economico – politica. C’erano stati precursori con basi e apporti filosofici importanti, ci fu lotta a sistemi oppressivi politici e religiosi, grosso travaglio intellettuale, conflitti sociali di portata gigantesca, movimenti rivoluzionari talora sconvolgenti la società e non più contenuti nei confini dei singoli stati, ma addirittura universali. Il popolo nelle campagne e nella città La vita delle masse popolari fu caratterizzata dalla persistenza di condizioni dure e spesso intollerabili con differenze regionali fortissime dovute a situazioni geografiche, economiche e politiche. Elemento comune: una notevole crescita demografica sia per l’aumento della natalità, sia per il decremento della mortalità conseguente alla diminuzione delle malattie infettive. L’alimentazione nelle campagne era squilibrata e insufficiente: pane di granoturco o segale o miglio, polenta, fagioli, formaggi, quasi assente la carne per l’alto costo. In città l’alimentazione era analoga, talvolta il mais era sostituito dal frumento. Le condizioni abitative erano disastrose quasi per tutti. Numerosissime persone per vano abitativo, rete fognaria inesistente, strade strette non aerate, umidità e sporcizia, conseguenti condizioni igieniche pessime. Vita promiscua e disagiata. Orari di lavoro sino a 14 ore con sfruttamento della manodopera infantile e femminile. Nel 1840 nella sola Lombardia 54.000 bambini tra i 6 e i 14 anni addetti negli opifici, elevata la presenza femminile con una metà sotto i 14 anni. I Nobili La nobiltà italiana prese le distanze dalla vecchia generazione nostalgica dell'Ancien Régime, e guardando alla Francia o all'Inghilterra liberale, molti esponenti della nuova generazione nobiliare preferirono un regime costituzionale rappresentativo che limitasse il potere dello Stato garantendo la partecipazione delle élite al governo (ma escludendone i ceti medi e gli strati più bassi della società). Anche nei decenni successivi una consistente parte del patriziato partecipò agli eventi risorgimentali. In Italia centro - settentrionale i nobili furono tra i maggiori esponenti del liberalismo moderato con indirizzo nazionale. Cosa significava essere nobile nell'Italia risorgimentale? La nobiltà era associata al godimento di titoli e privilegi sanzionati giuridicamente, al possesso di grandi proprietà fondiarie e al monopolio degli alti gradi militari e fino all'età napoleonica all'esercizio di un largo potere politico, che garantiva il ruolo di ceto dominante. Grande la diversificazione regionale e tipologica, per cui si deve parlare delle nobiltà italiane piuttosto che della nobiltà italiana, con una nobiltà alta e una minore, antica o recente, e un patriziato urbano dalle grandi famiglie terriere. La perdita dei privilegi, la fine del ruolo di «ceto dominante» patrizio, e in contrapposizione l'espandersi del moderno Stato burocratico e l'affermarsi della borghesia e della società capitalistica di mercato, segnarono un declino della nobiltà nel corso dell'Ottocento. Tuttavia le nobiltà europee e le italiane, rimasero politicamente e socialmente rilevanti fino agli inizi del XX secolo. Nel caso italiano il panorama nobiliare è molto variegato, e le élite di sangue reagirono in maniera diversa di fronte alla modernità. Durante la Restaurazione la nobiltà subalpina, che aveva conservato gran parte della ricchezza immobiliare, si distinse per un atteggiamento di chiuso immobilismo e di accentuazione della propria separatezza. Ciò non impedì che si sviluppasse una corrente favorevole alla modernizzazione del ruolo socio - politico dell'aristocrazia, rappresentata dal conte Cavour. In Lombardia parte dei gruppi nobiliari cercò invece di compensare i privilegi perduti investendo nella modernizzazione dell'agricoltura e in imprese capitalistiche. In Toscana, nello Stato pontificio e nel Regno delle due Sicilie la nobiltà mantenne una grande fortuna fondiaria e un indubbio prestigio, limitando l'apertura sociale verso i ceti bassi. La borghesia Il biennio 1848 – 49 segnò un mutamento nella società europea con l’affermazione della borghesia, quale ceto sociale depositario di quegli elementi di trasformazione che diverranno fondamentali per la modernizzazione dei vari stati in Italia dopo il 1861. Tale termine indicò, e per lungo tempo, un gruppo eterogeneo e composto da molte e differenti figure sociali, comprendenti tutte le attività professionali: gli imprenditori, i commercianti, i banchieri, la burocrazia statale, ecc. Si crearono per lunghissimo tempo strutture e meccanismi, alcuni dei quali verranno sradicati solo alla metà del XX sec. dopo l’esperienza fascista. In particolare va citato il modello borghese della famiglia, pilastro dell’etica sia privata sia pubblica. La famiglia Le donne In particolare va citato il modello borghese della famiglia, pilastro dell’etica sia privata sia pubblica. Netta separazione dei ruoli: alla donna l’educazione dei figli e della casa; la famiglia è la proiezione privata della società. Esaltazione della funzione di «angelo del focolare» e rafforzamento e identificazione del ruolo di moglie e di madre come unica soluzione di vita cui una donna poteva aspirare. I tratti dell'identità femminile all'interno della famiglia borghese dovevano essere la virtù, la sensibilità, la castità, la fedeltà, la predisposizione al sacrificio. Queste qualità erano accentuate anche dalla Chiesa cattolica, che promuoveva un'immagine di donna passiva e ubbidiente, che incarnava i valori morali e accettava supinamente le trasgressioni sessuali dei mariti; la Chiesa affidava alla donna anche il compito di difendere la civiltà cristiana dalle minacce della modernità. Il clero e le autorità ecclesiastiche Nel periodo napoleonico il clero e le autorità ecclesiastiche in genere, gelose delle loro antiche prerogative e del loro tradizionale potere, furono sempre in opposizione al regime e subirono a malincuore, il compromesso del Concordato, vedendo in esso un cedimento dell'autorità papale. L'offensiva clericale non disarmò mai, nemmeno nel momento di maggior fortuna dei rapporti di Napoleone con la Santa Sede. Mentre i vescovi e le più alte gerarchie ecclesiastiche conservavano verso le autorità governative, e il regime napoleonico in genere, un'apparente prudente neutralità e collaboravano col governo nel richiamare i disertori e i renitenti al rispetto delle leggi, le gerarchie inferiori non si curavano di nascondere la loro avversione e la loro diretta partecipazione alle operazioni dell'insorgenza. Nel Trentino e nel Tirolo, terre notoriamente ligie alla Chiesa, parroci e cappellani facevano aperta opera di ribellione dall'alto del pulpito, nonostante i ripetuti richiami del vescovo all'ubbidienza e alla sottomissione alle leggi. Sotto la spinta della radicalizzazione della politica religiosa di Napoleone e dell'acuirsi del conflitto con la Chiesa, culminato nell'occupazione di Roma e nella deportazione del pontefice a Fontainebleau, il compromesso con l'aristocrazia nera nei dipartimenti ex-pontifici e in quelli tradizionalmente cattolici cade e i rapporti tra le autorità ecclesiastiche e la società napoleonica arrivano al limite della rottura, mentre i gruppi sanfedisti si rafforzano, stringono i collegamenti con le varie centrali e affilano le armi in attesa del momento opportuno per riprendere l'offensiva. Nel novembre 1808 un manifesto affisso ad Osimo inveiva contro l'imperatore e il viceré, rappresentati entrambi come «crudeli sovrani, uomini prepotenti, ladri sovvertitori, distruggitori delle divine leggi, oppressori della cattolica religion». La Chiesa continuerà ad acuire e legittimare i sensi di estraneità allo Stato poiché si sente spodestata, non solo territorialmente, ma nelle sue prerogative di garanzia e ispiratrice del Potere. «Né eletti né elettori», non expedit (non è opportuno, sottinteso non collaborare), così il Sillabo del 1864, con l’elenco di quelli che agli occhi della gerarchia sarebbero i “principali errori del secolo”: libertà, democrazia, alfabetizzazione, la politica in tutti gli aspetti della moderna cittadinanza. La Roma pontificia inalbera una guerra di idee che condurrà ad una guerra di posizione di lunga durata contro lo Stato liberale uscito dalla rivoluzione risorgimentale. Lo Stato liberale, già quando era Regno di Sardegna, troverà la forza con la legge Siccardi di abolire le immunità ecclesiastiche, e di quei diritti tradizionali che ne facevano uno Stato nello Stato, legibus soluta. «Libera Chiesa in libero Stato» Certamente vi è lotta fra i due partiti, ma io non considero questa lotta come un male. Noi non possiamo immaginare uno stato di cose fondato sulla libertà, dove non siano partiti e lotte. La pace completa, assoluta, non è compatibile colla libertà. Bisogna saper accettare la libertà co' suoi benefizi, e forse anche co' suoi inconvenienti. [...] Vi sarà lotta, imperocché io non credo ad un accordo perfetto; vi sarà lotta, anzi è desiderabile che vi sia. Ove questa conciliazione si compiesse, io mi accingerei a sostenere non pochi assalti; anzi, dovendo parlar francamente, dirò, che se la Corte di Roma accetta le nostre proposte, se si riconcilia coll'Italia, se accoglie il sistema di libertà, fra pochi anni, nel paese legale, i fautori della Chiesa, o meglio, quelli che chiamerò il partito cattolico, avranno il sopravvento; ed io mi rassegno fin d'ora a finire la mia carriera nei banchi dell'Opposizione. (Ilarità prolungata). Camillo Benso di Cavour Discorso al Senato del 9 aprile 1861 «Instrumentum regni» [...] e si persuadano che le ragioni della religione e dell'impero sono sì strettamente congiunte, che quanto vien quella a scadere, tanto dell'ossequio dei sudditi e della maestà del comando si scema. Come anzi conoscendo che la Chiesa di Cristo possiede tanta virtù per combattere la peste del Socialismo, quanto non ne possono avere le leggi umane, né le costrizioni dei magistrati, né le armi dei soldati; ridonino alla Chiesa quella condizione di libertà, nella quale possa efficacemente dispiegare i suoi benefici influssi a favore dell'umano consorzio. Leone XIII Enciclica Quod Apostolici Muneris, 1878 Il movimento risorgimentale fu un movimento di massa. Il termine si presta a un equivoco, che va subito dissipato. Non tutti sono d'accordo, c'è una certa tradizione interpretativa che ritiene che il Risorgimento sia un movimento di élite: la figura più importante è Cavour e le scarse élite politiche e intellettuali che si riuniscono attorno a lui. Riteniamo sia una prospettiva sbagliata. Quando si dice «di massa» non si intende un'immagine apologetica e stereotipata di tutto un popolo che si risveglia da un lungo e disonorevole sonno dormito sotto straniere tirannie; venticinque milioni di persone che - come un sol uomo - scattano in lotta contro gli stranieri e gli oppressori. Così era la visione mazziniana, in quanto tale interessante: ma non è la realtà storica. Parlando di un movimento «di massa» vogliamo dire che, nell’arco 1796-1861, e in tempo più ristretto, 1846-1849, hanno partecipato al Risorgimento - inteso come un movimento politico che ha avuto come fine la costituzione nella penisola italiana di uno stato - nazione - attivamente molte decine di migliaia di persone, che altre centinaia di migliaia di persone, vicine ai militanti, al Risorgimento hanno guardato con partecipazione, con simpatia sincera o con cauta trepidazione. Nel contesto di una società largamente analfabeta, che appena comincia a comunicare con i giornali e con il telegrafo, che - salvo poche eccezioni sparpagliate per la penisola - ancora non viaggia in treno ma a piedi o in carrozza su strade sterrate e che per mare si muove con navi a vela e solo tardivamente con approssimativi piroscafi a vapore, il numero degli affiliati alle sette, dei rivoltosi del '820-’821, degli iscritti alla Giovine Italia, di coloro che scendono in piazza o partono volontari o guerreggiano nell'esercito regolare del Regno di Sardegna o organizzano ospedali o servizi di collegamento nel 1848-49, che tessono trame insurrezionali nei primi anni cinquanta, che si arruolano volontari nel 1859, nel 1860 e nel 1866, che vanno a votare ai plebisciti, che si affollano ai funerali di Mazzini, di Vittorio Emanuele, di Garibaldi e di altri ancora, è assolutamente imponente. È una dimensione che va presa sul serio: con ciò si vuol dire che tale dimensione «di massa» non va né guardata con infastidita sufficienza, né salutata come se fosse un valore automaticamente positivo; e che invece va decifrata, studiata, esaminata, sia nella sfera intima e familiare che in quella pubblica e patriottica. Sostenere che il Risorgimento è un movimento politico «di massa» significa invitare a osservarlo come George Mosse, che ha studiato il movimento nazional-patriottico tedesco: entrambi sono declinazioni di una «nuova politica»; una politica che nasce con la Rivoluzione francese, e che concettualmente e poi fattualmente, pone al centro dell’arena pubblica il popolo / nazione, depositario principale della sovranità. Al tempo stesso, con il movimento risorgimentale (e in generale con il nazionalismo ottocentesco), lo stile politico che si impone - non in tutti i casi ma certamente come cultura diffusa e incentivo all' azione - è quello dell'emozione, più che della razionalità, è quello della suggestione mitografica, più che della lucida e disincantata riflessione; è quello dei simboli, delle narrazioni, in una parola il mondo di una nuova «estetica della politica»: una via obbligata, se oltre a evocare il popolo / nazione, lo si vuole anche veder agire in carne e ossa. L'Italia pre-unitaria è un'Italia che non ha istituti rappresentativi, il progetto risorgimentale prevede il cambiamento completo della carta geopolitica della penisola e incontra le resistenze degli establishment, degli Stati che esistono, della polizia e dell'esercito di una delle grandi potenze dell'epoca: l'Austria. È movimento che diventa poi grande, che sfida l'equilibrio internazionale e alla fine cambia gli assetti geopolitici della penisola. Il Risorgimento è stato infatti il primo tentativo di modernizzazione politica dell'Italia, ed è stata la prima esperienza del machiavelliano «vivere civile» degli Italiani, finalmente sottratti a governi e a istituzioni fondati sulle separazioni giuridiche e sociali e sulla negazione dei diritti dei cittadini. Si stava affermando, come dice Gaetano Salvemini, un’«Italia moderna». E veramente la modernità dell'Italia del Risorgimento risiede nelle sue ascendenze culturali più che nel patriottismo armato, nella controversa idea di nazione e nei programmi politici e costituzionali dei suoi sostenitori. È la modernità dell'Illuminismo europeo, del razionalismo filosofico e della scoperta della libertà come strumento di opposizione e come «mezzo» del cambiamento, delle innovazioni, delle rivoluzioni, di conquista di un valore essenziale, la giustizia. In assoluto l'ansia di giustizia è stata la forza morale e il tormento intellettuale del Risorgimento (si pensi al senso profondo dell’opera letteraria, poetica e alla drammaturgia di Manzoni). Tradotta nello scontro ideologico l’idea di giustizia è stata la componente «religiosa» del liberalismo, e la maggior fonte di energia politica nell'azione democratica e nei primi percorsi del socialismo. Ciò durò fino a quando la borghesia liberale difese questa idea dai condizionamenti classici dovuti agli interessi economici che essa rappresenta. Se si rivendicano queste ascendenze è possibile dare un giudizio equilibrato delle vicende italiane dal 1796 al 1870. «Un popol diviso per sette destini / In sette spezzato da sette confini, si fonde in un solo, più servo non è...», G. BERCHET, All’armi! All’armi ! (1831). L'Italia era politicamente malata e la sua cura, l'unificazione, non è stata, come taluno ripete una nuova malattia. L'unità nazionale fu realizzata dopo la guerra del 1859 e dopo un atto rivoluzionario decisivo, la spedizione dei Mille del 1860. La nascita dello Stato è avvenuta pochi mesi in Parlamento. Singolare questa ellissi di rivoluzione e di votazione parlamentare con all'ordine del giorno uno Stato. Caso unico nella storia dell'Europa liberale, comparabile forse alla contemporanea unificazione tedesca del 1871, la cui origine però fu nella vittoria militare sulla Francia e, comunque gli stati della Confederazione tedesca non erano in conflitto tra loro come lo erano gli stati italiani. Inoltre, nella cultura tedesca, il concetto unificante e antico di Volkstümlich, di pathos delle radici, confluiva naturalmente nel concetto di Nazione e di Stato. L'idea di nazione fu invece un’idea armata, tra tante altre armi che servirono al Risorgimento dell'Italia. «L'idea di nazione - scrisse Massimo d'Azeglio - è destinata ora, se le apparenze non ingannano, a mutar faccia al mondo civile, o per lo meno a modificarla d'assai...». E "Siamo Nazione! Nazione! Nazione” ribadirà in altro scritto (1848). L'unificazione dell'Italia ebbe, nell'opinione pubblica di allora, una configurazione politica. Ciò ha reso più ricco di significati e più plurale il valore dell'identità originaria della nostra nazione e inevitabile, e necessaria, l'affermazione della laicità dello Stato appena formato. L'Italia unita e liberale è infatti inseparabile dalla sua tendenziale laicizzazione, sognata da secoli e completata nel 1870 con la fine del potere temporale della Chiesa. I tempi di questa fine erano maturi, ma il clima variabile dei regimi politici italiani, dal 1922 ad oggi, non sempre ha confermato la svolta storica del 1870. Tuttavia il rifiuto della Chiesa ufficiale di riconoscere il nuovo Stato e la negazione dell'Italia unita, per ragioni socio-economiche, da parte del brigantaggio meridionale, pur eventi gravi e potenzialmente distruttivi della nazione appena costituita, non stroncarono le ragioni che l'avevano fatta nascere. Dunque, il Risorgimento può essere restituito alle sue proporzioni reali, - che non ne nascondono certo i limiti e le insufficienze – semplicemente accettandone i fondamenti politici e ideali. Non si tratta di razionalizzare la successione dei fatti e i traguardi raggiunti, ma di comprendere che quei fatti avevano delle ragioni che alla fine sono risultate giusti e vincenti. E non avevano alternative. «Ci sono popoli, come ci sono individui, che hanno tratto forza di rinnovamento dalla nausea di se stessi, cioè del loro passato» affermò Croce nel 1924. Certamente fu anche il disgusto a indurre molti italiani a insorgere contro la reazione politica succeduta nel 1815 al ventennio napoleonico, cioè contro la Restaurazione. Infatti Massimo d'Azeglio nei “Ricordi” scrive : «Io ho assaggiata la reazione, so di che sappia; e se neppure essa è stata capace di farmi mai rimpiangere Napoleone e il dominio francese, non è però men vero che, con la fine dell'influenza napoleonica in Italia, si perdeva un governo che in fondo in fondo doveva, prima o poi, condurre al trionfo di quei principii che sono la vita delle società umane, per tornare ad un governo di balordi, ignoranti, pieni di fumi e di pregiudizi». Per d'Azeglio la Restaurazione aveva bruscamente interrotto proprio la modernizzazione e civilizzazione dell'Italia creando ostacoli alla formazione di una borghesia consapevole degli obblighi e dei doveri che stava sperimentando come classe sociale. La nausea è stata dunque, tra tanti altri, quel prezioso stato interno che ha segnato anche emotivamente la differenziazione ideale da sistemi di governo anacronistici e grotteschi. E, oltre ogni retorica, il patriottismo risorgimentale è stato alimentato, non solo per via letteraria, da emozioni come questa. Una somatizzazione politica, individuale e collettiva, sempre utile, comunque, in eventuali, analoghe repliche della storia. Ricordo qui un aforisma di Nietzsche intitolato “Risorgimento dello spirito” nella sua opera “Uomo troppo umano” che recita: «Quando un popolo è politicamente malato di solito ringiovanisce se stesso e ritrova alla fine lo spirito che aveva lentamente perduto per riscoprire e conservare la sua potenza. La civiltà deve le sue più alte conquiste proprio alle epoche di debolezza politica». Durante la Restaurazione si formarono e si rivelarono compiutamente i migliori intellettuali, artisti, scrittori, uomini politici italiani. L'educazione sentimentale e ideologica di questi uomini, la loro resistenza, è all'origine dell'intuizione, del desiderio di un risorgimento nazionale che nel corso di alcuni decenni, se non conquistò masse, entrò nell'anima di cittadini e di sudditi di ogni parte d'Italia e di ogni ceto sociale. Foscolo, Leopardi, Manzoni, Hayez, Verdi, Cavour, Mazzini, Garibaldi, De Sanctis, d'Azeglio, Nievo, Pisacane erano maturati all'interno di un sistema conservatore e di interdizioni religiose e culturali. Con un'angoscia di fondo: che l'Italia rischiasse di perdersi per sempre. Non fu così. Non accadde neppure nel 1943, quando l’Italia fu divisa in due e percorsa da eserciti stranieri, quella patria che il Risorgimento aveva salvato non fu perduta, contrariamente a quanto crede una certa storiografia che poggia su un appiattimento culturale e su un conformismo ideologico, sostenuta da una classe politica che evoca talvolta i governi della restaurazione ricordati dal d’Azeglio. Quali modifiche sono avvenute? Si è costituito uno stato di tipo nuovo, si è affermato il concetto di nazione, uno Stato – nazione. Uno stato fondato sul principio che la sovranità appartiene non a un singolo (il Re) o a gruppi ristretti (i nobili), ma all’intera popolazione del territorio, una collettività che dalla fine del Settecento viene identificata con il termine di «nazione». L’imporsi del senso della nazione sorge e trionfa assieme all’altro grandioso movimento europeo: il Romanticismo che, affondando pure le sue radici nel XVIII sec., raggiunse il massimo nel XIX: quando il senso dell’individuale domina il pensiero europeo. Questo senso della «nazione» è un particolare aspetto di quel movimento generale, il quale, contro «la ragione » cara agli illuministi rivendica il diritto della fantasia e del sentimento, contro il buon senso equilibrato proclama i diritti della passione, contro la tendenza a livellare tutto sotto l’insegna della filosofia e contro la tendenza anti - eroe, esalta l’eroe, il genio, l’uomo che spezza le catene del vivere comune e si lancia nell’avventura. Sul terreno politico fantasia, sentimento non potevano avere che un nome: Nazione. Ciò non fu facile: tuttavia il concetto di nazione si impose, si materializzò contro le tendenze universalizzanti, tese a dettare leggi astratte e valide per tutti i popoli; e così si espresse: La «nazione» significa senso della singolarità di ogni popolo, rispetto per le sue tradizioni, custodia gelosa delle particolarità del suo carattere nazionale, una comunità di destino, cementata dal sangue, dotata di una terra, di una cultura, di una tradizione storica e religiosa, e pronta a combattere per riscattarsi da secoli di oppressione e, infine, il diritto a costituirsi in un’unità politica. Manifesto Giovine Italia «Pochi intendono o paiono intendere la necessità prepotente, che contende il progresso vero all’Italia, se i tentativi non si avviino sulle tre basi inseparabili dell’indipendenza, dell’unità, della libertà». ancora «Una nazionalità comprende un pensiero comune, un fine comune. Questi ne sono gli elementi essenziali… Dove gli uomini non riconoscono un principio comune, accettandolo in tutte le sue conseguenze, dove non è identità d’intento per tutti, non esiste Nazione, ma folla ed aggregazione fortuita, che una prima crisi basta a risolvere». Giuseppe Mazzini In “Nazionalità. Qualche idea sopra una costituzione nazionale” Scritti editi ed inediti, Edizione nazionale, VI°, pp. 125 – 26. Se il Settecento ignorava le passioni nazionali e la politica del Settecento era arte, calcolo, equilibrio, sapienza, razionalità, nell’Ottocento diventa tumultuosa, torbida, passionale. La politica acquista pathos religioso e sempre di più con il procedere del secolo e con l’inizio del XX: ciò spiega il furore delle grandi conflagrazioni moderne. La nazione cessa di essere unicamente sentimento per diventare volontà, cessa di rimanere proiettata nel passato per proiettarsi nel futuro, cessa di essere puro ricordo storico per trasformarsi in una norma di vita per il futuro. L’idea di nazione sarà cara ai popoli non politicamente uniti e il «principio di nazionalità» troverà il massimo favore presso coloro che possono sperare in una unificazione: il Volksgeist. In Italia e in Germania le spinte culturali e linguistiche spingeranno le aspirazioni a trasformare un fatto puramente linguistico – culturale a in fatto politico, divenendo «Stato». Si ha la trasformazione da nazione culturale in nazione territoriale. La nazione diventa patria e la patria la nuova divinità del mondo moderno e come tale essa è sacra. Già il concetto era presente nella rivoluzione francese e nell’Impero. Nella penultima strofa della Marsigliese: Amour, sacré de la Patrie conduis, soutiens nos bras vengeurs Amore sacro della patria conduci, sostieni le nostre braccia vendicatrici E Foscolo, nei Sepolcri Ove fia santo e lacrimato il sangue per la patria versato Da questo momento avremo la «religione della patria», cioè della nazione: i due termini diventano equivalenti. Tale dinamica investe altri stati europei: diventa un fenomeno europeo con alla base una stessa ideologia che si fonda sugli stessi elementi. È un’ideologia che invoca la libertà nazionale, anche se deve essere ben chiaro che la libertà riguarda solo una ben specifica parte della comunità nazionale: - per i nazionalisti liberali gli individui con diritto di voto devono essere maschi, adulti, ricchi, colti e membri della comunità nazionale per legami di sangue: non donne, non poveri, non stranieri - per i nazionalisti democratici, invece, questi individui devono essere maschi, adulti, e membri della comunità nazionale per legami di sangue: non donne, non poveri, non stranieri. Il concetto di Nazione si accompagnava già da allora a quello di Europa. Anche se l’idea non era nuova, presente nel Medioevo, ma unita al concetto di impero universale, è a metà XIX sec. che l’idea di nazione è indissolubilmente legata a quella di Europa. Purtroppo con linguaggi diversi: Mazzini, Mancini vedono come fine supremo : «l’umanità delle nazioni » pur nel rispetto e indipendenza di ogni nazionalità, «coesistenza ed accordo delle Nazionalità libere di tutti i popoli». Per Mazzini si tratta di fare l’Italia, ricongiungerla all’Europa e di rivoluzionare l’Europa, per i liberali moderati, tra cui lo stesso Cavour sarà ben diverso, si tratta di innalzare l’Italia a livello dei grandi popoli occidentali. Mazzini intendeva «rivoluzionare l’Italia e l’Europa», i moderati ritenevano di modificare solo l’Italia, mentre l’Europa era il «juste milieu» da conservare. Il principio di nazionalità è per i moderati, nello stesso tempo «un grande principio di conservazione»; secondo Cavour: «conservazione interna contro i fermenti rivoluzionari», ma anche conservazione esterna, di ordine europeo, di «una comunità europea.» Dopo l’unificazione Massimo Taparelli d’Azeglio scriverà: «... i più pericolosi nemici d'Italia non sono i Tedeschi, sono gl'Italiani». E perché? «Per la ragione che gl'Italiani hanno voluto far un'Italia nuova, e loro rimanere gl'Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; perché vogliono riformare l'Italia, e nessuno s'accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perché l'Italia, come tutt'i popoli, non potrà diventar nazione, non potrà essere ordinata, ben amministrata ... finché grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere, e non lo faccia bene, od almeno il meglio che può...». Affermazione profonda, non banale, attuale! Occorre riconoscere, tuttavia che il Risorgimento è stato il miracolo di una trasformazione morale di tanti individui, all’improvviso riuniti dalla volontà comune di diventare italiani. Oggi quando si evoca il «fare gli italiani» si vuole alludere al tema come «invenzione» dei popoli, partendo dalle affermazioni di Eric Hobsbawm e Robert Ranger nello studio “The Invention of Tradition” e nel descrivere gli Stati nazionali come artificialmente costruiti attraverso un vasto apparato manipolatorio di ritualità civili, simboli, strumenti pubblicitari e propagandistici. Sarebbe dunque lo Stato che ha creato la Nazione, nel corso di un'azione sistematica e duratura; non la Nazione che ha portato alla nascita degli Stati. Ma d'Azeglio sapeva bene che per l'Italia Stato e Nazione erano una necessità storica per modernizzare un paese povero, con problemi drammatici, senza infrastrutture, senza scuola, con malattie endemiche, epidemie ogni tre o quattro anni anche nelle città più importanti. I popoli della penisola, gli Italiani, avevano vissuto un moderato progresso nel Settecento con la costruzione di Stati regionali e un pauroso regresso con il Congresso di Vienna, che di fatto li aveva trasformati in Stati fantoccio dell'Austria, con le fragili eccezioni di Piemonte e Napoli. Il tema posto da d'Azeglio è quello della riforma morale, della nascita dello Stato e delle istituzioni liberali come una missione che impone un miglioramento spirituale agli individui. Il dovere, l'impegno sociale sono al centro della costruzione della Nazione e dello Stato. È il tema della creazione di una comunità, dotata di fratellanza, di senso di solidarietà, già segnalato dal De Sanctis (1869), che contrapponeva l'Italia egoistica e pessimista di Guicciardini all'Italia della virtù repubblicana di Machiavelli, di Dante, di Galilei. Gli Italiani vivono da sempre in questo dualismo, non riescono ad uscirne. Per migliorare occorreva anche potenziare l’istruzione, avevano bisogno di scuole. Dovevano leggere di più. Imparare le lingue. Viaggiare. Spostarsi di città in città. Ricordiamo ancora Mazzini: «La patria è una comunione di liberi e d'eguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine ... la patria non è un aggregato, è una associazione. Non v'è veramente patria senza un diritto uniforme. Non v'è patria dove l'uniformità di quel diritto è violata dall'esistenza di caste, di privilegi, d'ineguaglianze». Fare gli italiani, per Mazzini, voleva dire costruire la patria con i vincoli dell'associazione, del diritto comune, cancellare le caste, le ingiustizie sociali, i privilegi. Il mezzo principale era l'educazione. Mazzini ritenne la scuola il primo compito della Nazione: «La patria non è un territorio: il territorio non ne è che la base. La patria è l'idea che sorge su quello; è il pensiero d'amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale — finché uno solo vegeta ineducato fra gli educati ... voi non avete la patria come dovreste averla, la patria di tutti, la patria per tutti...». L'Italia doveva ricevere dall'unificazione una sorta di risveglio di energia, doveva rivitalizzarsi. Ed è incredibile come Mazzini l'unitario, l'antifederale, immaginasse per i Comuni, compiti autonomi più importanti di quelli che vengono loro attribuiti oggi da tanta propaganda federalistica: alle amministrazioni locali assegnava il compito di controllare il governo centrale; istruzione, tributi locali, lavori pubblici, politica agricola, taluni aspetti del potere giudiziario e della polizia dovevano essere gestiti, secondo Mazzini, dai Comuni con persone elette sul posto. Mazzini si poneva il problema di ridurre così i costi della politica con la costituzione di una dozzina di regioni con poteri amministrativi delegati, con assemblee regionali elette. Il Risorgimento è stato, piaccia o no a politologi e a certi storici, una conquista civile, ottenuta con sacrifici immensi, con il sangue di tutti, umili personaggi, borghesi, aristocratici, intellettuali, con lotte sociali anche laceranti, che non può essere negata o dissolta nelle incertezze e nei trasformismi politici dei governi dell’Italia liberale. E non può identificarsi nel disincanto che serpeggiò tra gli italiani quando l’Italia fu fatta, e dopo che l’urgenza di enormi problemi sociali ed economici e la crisi sociale del mezzogiorno non furono sempre gestiti al meglio. Il Risorgimento rimase e rimane l’orizzonte storico cui gli italiani hanno sempre fatto riferimento. È una conquista che non può essere infangata «in un certo negazionismo attuale». Rileggiamolo con convinzione come il necessario orizzonte, le radici forti di cui parlava Nietzsche, la memoria delle quali è indispensabile alla salute degli individui e anche di un popolo. Riaccostiamoci al nostro Risorgimento: scorrendo quelle pagine di storia, ci renderemo conto che quelli furono anni terribili e gloriosi. Saremo certamente pervasi da un afflato di entusiasmo; i nostri confusi ricordi si affolleranno di vita, quasi che la rievocazione abbia il potere di riportarci, come i viaggiatori in una macchina del tempo, a rivivere quegli anni appassionati e a prendere sotto braccio tutti quei protagonisti, patrioti e statisti, eroi semplici ed eroi dei due mondi: sarà veramente una sequenza di visi spontanei, di quadri densi di avvenimenti belli, ma talora amari e dolorosi, che ci hanno portato con sofferenze, contraddizioni, contestazioni, sconvolgimenti sociali al raggiungimento di un’unità nazionale e di una nuova individualità storica. Francesco Hayez Milano, Pinacoteca di Brera (1859) Il Bacio Collezione privata (1859-67) Risorgimento Italia: occupazione francese e triennio rivoluzionario 1796-1799. Il Risorgimento comincia nel 1796. Quello che si concluderà nel 1860-70 è l'esito di un processo che ha origine nell'intervento francese in Italia. Sia stata o no «passiva» la rivoluzione italiana di fine Settecento, è pur vero che da quegli anni cominciarono a modificarsi irreversibilmente forme politiche, istituzioni, tessuti sociali ed economici, rapporti di proprietà in agricoltura. Fu un processo che si prolungò per tutti i successivi venti anni di storia italiana, dalla formazione del Regno Italico fino al crollo della egemonia imperiale napoleonica sull'Europa e sull'Italia. Cosa è stato il «triennio rivoluzionario» C'erano già i rivoluzionari italiani, in prima linea vi erano gli uomini di cultura ed è attraverso di loro che iniziò, già nel 1789 il confronto con la Francia rivoluzionaria. Il giudizio degli intellettuali e dell'opinione pubblica italiana sulla rivoluzione francese si svolse almeno due fasi. Nel triennio 1789-92, durante il periodo delle grandi trasformazioni garantite dal precario equilibrio tra Luigi XVI e i rivoluzionari, l'eco degli avvenimenti francesi giunse in Italia alquanto attutito. Molti pensavano a un evento limitato alla sola Francia. La «Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino» o l‘abolizione del feudalesimo erano considerati affari interni francesi. La preoccupazione sorse nel 1793 con la repubblica e la morte del re. Dall’ammirazione e giubilo, poco dopo si passò al timore e alla deplorazione. La campagna d’Italia di Napoleone fu folgorante, in due mesi era entrato in Milano. Emanò un proclama: « sarete liberi, e ancor più di esserlo dei francesi. Se l’Austria tornerà alla carica non vi abbandonerò mai ». I patrioti milanesi gli tributarono gli onori del trionfo. Nonostante il sistematico saccheggio di opere d’arte fu organizzatore di nuovi istituti politici e di un nuovo Stato. Nel maggio 1797 cadrà pure Venezia. Furono proclamate La Repubblica cispadana e successivamente la Repubblica cisalpina. Nel 1798 fu proclamata la Repubblica romana. Il Papa lasciò Roma e si trasferì a Siena. Nel gennaio 1799 i francesi occuparono Napoli e ivi fu proclamata la Repubblica napoletana, di breve durata, ma fra tutte le repubbliche sorelle fu la più avanzata per progettualità democratica e riformatrice. IDEE DI POPOLO Inno dell'albero della libertà Or che innalzato è l'albero, s'abbassi ognor la spada, nell'italica contrada, pavesate, regni sovrana la libertà. Un dolce amor di Patria La Legione Romana nel 1948 [...] la nostra marcia fu, fin dal principio, trionfale. Trovavamo archi di trionfo nei paesi che attraversavamo, finestre pioggie di fiori. I contadini venivan fuori delle loro case S'accenda in questi lidi, tutti innalziamo il grido, viva, viva la libertà. Già reso uguale e libero, ma suddito alla legge, è il popolo che regge, sovrano a tutto ei sol sarà. con bigonci di vino per dissetarci. Eravamo i primi che marciavamo contro il nemico oppressore, duro, odiato, e benedetti dal Vicario di Cristo, Padre Santo. Anonimo Nino Costa “Quel che vidi e quel che intesi” Genova 1796-1798 Albero della Libertà, acquerello, 1798 La Repubblica cispadana, fondata il 27 dicembre 1796 Era costituita dalle città di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia, successivamente sono annesse la Romagna, la Garfagnana, Massa e Carrara. La sua Costituzione, modellata su quella francese del 1795, fu pubblicata il 27 marzo 1797. Nel luglio 1797, per volontà del generale Bonaparte, si fuse con la Repubblica cisalpina. La Repubblica cisalpina, imposta da Napoleone, fu fondata il 29 giugno 1797 Costituita dalle città di Milano, Bergamo, Brescia, Mantova e dagli ex territori della Cispadana, fino alla Valtellina, complessivamente tre milioni e mezzo di abitanti, nel luglio 1797 si fuse con la Cispadana. Non ebbe vita facile per l’opposizione delle popolazioni rurali e per le gravose imposizioni francesi. La costituzione della Repubblica cisalpina pur modellata sulla costituzione francese del 1795 significava rottura radicale con il passato, alcuni elementi qualificanti: abolizione dei privilegi feudali, delle primogeniture, la legge sul matrimonio civile. Nell’aprile 1797 sanguinosa rivolta dei veronesi contro soprusi francesi, “le Pasque veronesi” (400 morti fra i soldati francesi). Il 17 ottobre 1797 Bonaparte con il trattato di Campoformio cedette il Veneto conquistato all’Austria; ciò contribuì a fare cadere la fiducia dei rivoluzionari italiani in Bonaparte “liberatore”. Nel gennaio 1802 la Repubblica cisalpina, stante i numerosi dissidi interni, verrà trasformata nella Repubblica italiana con Bonaparte presidente e Francesco Melzi d’Eril vice. Entrerà in vigore un sistema amministrativo pure articolato su quello francese con l’istituzione delle prefetture. Il 15 luglio 1801 Bonaprte firmò un concordato con il papa sanzionando la fine della Repubblica romana. Il 2 dicembre 1804 Bonaparte si fece incoronare imperatore a Parigi nella chiesa di Nôtre –Dame. Il 19 marzo 1805 la Repubblica italiana divenne Regno d’Italia. Il 23 gennaio 1799 Napoli fu occupata dai Francesi. Fu costituita la Repubblica Napoletana, che fra le “repubbliche sorelle” fu la più avanzata per progettualità democratica e riformatrice. Ma i ceti più poveri rimasero sempre fedeli a Ferdinando IV. Ebbero pure peso le esose riparazioni pretese dai francesi. Fu promulgata una nuova costituzione modellata su quella francese, il cui principale autore fu Mario Pagano. Abolite le primogeniture ed eliminati completamente i privilegi feudali; purtroppo i provvedimenti promulgati non poterono essere applicati in seguito all’insurrezione delle popolazione del sud organizzata dal cardinale Ruffo, che consentì la riconquista del regno di Napoli da parte dei Borboni. L’armata del Ruffo detta “della Santa fede” donde l’aggettivo sanfedista, con l’aiuto di reparti russi, il finanziamento del re di Napoli e di contributi delle popolazioni locali infranse la resistenza dei patrioti repubblicani abbandonandosi a eccidi e a saccheggi. Mentre nei cinque mesi di governo repubblicano non era stato torto un capello ad alcuno, a Napoli si scatenò una reazione sanguinosa: condanne a morte ca. 99, carcere a vita 222. Secondo Giustino Fortunato (1884) Nel 1806 venne ricostituito il regno di Napoli, affidato prima a Giuseppe Bonaparte, poi a Gioacchino Murat. Il riordinamento o meglio la trasformazione dell’Italia Il 19 marzo 1805 la Repubblica Italiana divenne Regno d’Italia con aggiunta di Veneto, Istria e Dalmazia e affidata a Eugenio di Beauharnais, figlio di primo letto di Giuseppina. Il Regno di Napoli fu affidato al fratello maggiore Giuseppe e in seguito al cognato Gioacchino Murat. Il Granducato di Toscana alla sorella Elisa. Il Principato di Guastalla alla sorella Paolina, sposa del principe Borghese. Lo Stato pontificio fu ricostituito senza le Marche, aggregate al Regno d’Italia. La «rivoluzione» napoleonica sul tessuto culturale e sociale della penisola Le esperienze del triennio giacobino rappresentarono una rottura con il passato e un'anticipazione di speranze e tensioni future. I radicali cambiamenti territoriali cominciarono a minare il senso della differenziazione storica e regionale che aveva offerto legittimità all'esistenza di differenti Stati italiani. In primis al frazionamento territoriale e politico dell'Italia in 15-17 stati, sostituisce la formazione di tre blocchi territoriali distinti, ma complementari, con identità di ordinamenti e d'istituti, regolati dalle stesse norme e sotto il comando d'una stessa persona. Secondo elemento essenziale dell'unità civile e politica del paese, l'introduzione del Codice Civile (completata dall'introduzione dello Stato civile). Esso è il simbolo della società nuova fondata sull'eguaglianza civile, il cemento giuridico, politico e sociale che unisce tra loro, in un blocco compatto, le sparse membra della penisola con unità di sentimenti, di propositi, e un'anima, un cuore, una fede e un respiro comune. Terzo elemento unificatore essenziale, la creazione d'un esercito nazionale, anche se diviso in tre tronconi, che trasforma un'accozzaglía di uomini disordinati, riluttanti, individualisti sfrenati e stranieri in parte tra loro in un saldo ed efficiente organismo, con quadri, ufficiali e bandiere proprie. Sul terreno dell’unità economica, con l'uniformità dei pesi e delle misure, attraverso l'adozione del metro e della libbra e d'una nuova moneta nazionale, il franco; con la creazione d'un catasto fondiario generale ed unico in tutto lo stato che eliminava un sistema confuso difforme da provincia a provincia. L'attacco al potere economico e politico della Chiesa fu intensificato: le terre della Chiesa vennero vendute e nel 1809 si sancì la fine del potere temporale del papa. Il Codice napoleonico L'introduzione del Codice Civile fu evento di straordinaria rilevanza per la sua carica modernizzatrice in un'area politicamente, istituzionalmente e giuridicamente frazionata quale era quella della penisola, una fondamentale esperienza di unificazione: tra il 1806 e il 1810. Il Codice entrò in vigore in tutti i territori italiani occupati dai francesi (ne rimasero dunque esenti solo la Sicilia, la Sardegna e la Repubblica di San Marino), fornendo, dopo secoli, un complesso coerente e comune di norme di diritto civile. La «radice rivoluzionaria - napoleonica» avrebbe permesso in seguito il riferimento a un linguaggio e a un' esperienza comuni in materia di diritti politici e di rapporti del cittadino con lo Stato. Le costituzioni emanate durante il triennio giacobino ebbero una natura spiccatamente democratica: esse si aprivano con l'esplicita affermazione del principio della sovranità popolare e facevano precedere al testo propriamente detto la “Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino”. Costituzioni del periodo consolare Carattere molto diverso ebbero le Costituzioni del periodo consolare, che si sarebbero contraddistinte per la preminenza dell'esecutivo sul legislativo, per l'impianto rigidamente verticistico e per il carattere marcatamente elitario: un suffragio assai ristretto selezionava un ceto di notabili a cui era affidata una posizione di indubbio privilegio. In ogni caso, fu attraverso tutto questo che l'Italia compì il suo apprendistato politico ed elaborò quel primo bagaglio di ideali, di aspirazioni, ma anche di esperienza e di competenze che in altri contesti, attraverso diversi percorsi, filtrato e rielaborato grazie a nuovi stimoli, avrebbe formato le basi della cultura politica delle élite liberali dell'Italia ottocentesca. Questi Stati, riconfermati in ogni caso nei loro confini, divenivano oggetto e soggetto, di riforme politiche innovative, di sperimentazioni amministrative, di modifiche di rapporti di produzione economici e finanziari. Creazione dell’esercito e coscrizione obbligatoria. Vi era in queste iniziative una specie di indirizzo comune. Sviluppare un sistema scolastico pubblico (furono introdotti, ad esempio, i Licei), applicare tariffe doganali protezionistiche per tutelare i prodotti industriali (soprattutto tessili) locali, riorganizzare gli affitti e la mezzadria in agricoltura, rendere pubblici i bilanci dello Stato. Qualunque sia il giudizio sull'Impero napoleonico, erano stati comunque introdotti formule e stili di comportamento politico che possiamo definire «liberali» e che saranno un punto di partenza acquisito quando gli avvenimenti del 1848 porranno il problema del governare nella libertà. Tuttavia nel popolo crebbe una resistenza diffusa ai “francesi”, che ebbe più il carattere di una legittima difesa e che portò, specie nel Sud ad una guerra civile, alimentata dall’aristocrazia, dai contadini poveri, dai preti e all’insorgenza di forme di “brigantaggio”. Dura la repressione francese con assedi, processi, fucilazioni. Rivolta dei valligiani bergamaschi contro i residenti giacobini di Longuelo (stampa. 1797) Arlecchino bergamasco, sullo sfondo della piazza di Bergamo con l'Albero della Libertà, esibisce come «Ordini e Strasordini da vendere a buon prezzo» un ampio repertorio di ammennicoli del vecchio regime, dal Leone di San Marco al Toson d'oro, dal Libro d'oro della nobiltà veneziana alla tiara e alle chiavi di San Pietro, dall'aquila bicipite a blasoni, croci, scettri, stemmi, diplomi; Pantalone veneziano, seduto accanto al sipario, osserva incredulo pulendosi gli occhiali. (Milano, Raccolta Bertarelli). L'Albero della Libertà viene innalzato dai giacobini nella piazza di Bergamo, mentre il Leone marciano viene scalpellato dalla facciata del Palazzo della Ragione. Arlecchino dà voce all'insofferenza municipale verso il secolare dominio veneziano: («L'è pur vegnuda l'ora: va via» prendendo a calci Pantalone «La xe finia, aimei, aimei, aimei») Il Congresso di Vienna 9 giugno 1815 Napoleone battuto a Walterloo è esiliato a Sant’Elena. Il clima politico europeo è mutato. Diverse pure le espressioni e le reazioni emotive: Beethoven, che aveva composto la terza sinfonia, Eroica, dedicata a Napoleone, in meno di un mese scriverà l’opera “Der glorreiche Augenblick”( il momento glorioso) in onore dei delegati del Consiglio e il coro canterà alla presenza dei tre imperatori: «alto nei cieli si è levata l’aquila dell’Europa». Manzoni invece alla morte di Napoleone nel suo “Cinque maggio”, in una sublime dilatazione poetica, ne farà un’evocazione mitologica nei primi versi tra l’identificazione dell’immobilità del morto e la paralisi della terra folgorata dall’annuncio della sua morte. Con quel parole restituisce a noi l’emozione della storia creatrice di forza e di potenza. De Sanctis commentando quella poesia scriverà che gli uomini avvertono la «forza come la forza che produce l’effetto del meraviglioso». Il principe Klemens Wenzel Lothar von Metternich dominò il Congresso. Viene restaurato l’antico ordine politico e dinastico. Rimessi sui troni i sovrani spodestati con una ricomposizione politico geografica delle «Nazioni». I delegati delle potenze vincitrici non vollero capire che la tempesta napoleonica aveva non solo abbattuto tradizioni e dinastie antiche, ma aveva portato in tutta l’Europa una nuova realtà politica, culturale, economico-sociale e la formazione di una nuova classe dirigente: la borghesia. Per rafforzare la stabilizzazione conservatrice viene costituita, il 26 settembre 1815, la «Santa Alleanza» tra gli imperatori d’Austria, Prussia e Russia, che sarà organismo di repressione, garantendo obbligo di reciproca assistenza e soccorso contro ogni tentativo di sovversione del potere. Nascono come conseguenza reazioni violente, nuovi fermenti, richiesta di innovazioni, di riforme costituzionali, di libertà e di giustizia. L’Italia è suddivisa in sette stati dopo il Congresso di Vienna 1815 Il 7 gennaio il comandante delle truppe britanniche che occupano la costa ligure annuncia che Genova e la Liguria passano sotto il governo del luogotenente generale Ignazio Tahon di Revel, amministratore in nome di Vittorio Emanuele I, re di Sardegna. Il 7 aprile viene costituito il Regno Lombardo-Veneto, composto da territori dell’ex-Ducato di Milano e dall’ex-Repubblica di Venezia, in regno autonomo, unito all’Austria nella persona dell’imperatore. Il 7 marzo l’imperatore Francesco I d’Asburgo lascia il ducato di Parma e Piacenza alla figlia Maria Luisa, già moglie di Napoleone I. Il 6 luglio papa Pio VII, rientrato a Roma, riorganizza lo Stato pontificio, diviso in 17 province. Abolisce i codici napoleonici, rimette in vigore la vecchia legislazione papalina. Il 6 settembre vengono costituiti il Granducato di Toscana, e il ducato di Modena e Reggio, retti da appartenenti a rami collaterali degli Asburgo. L’8 dicembre nasce il Regno delle due Sicilie, con l’unificazione dei Regni di Napoli e di Sicilia sotto la sovranità dei Borboni con il re Ferdinando I. È abolita la costituzione siciliana del 1812, estese alla Sicilia la legislazione e l’amministrazione napoletana. 1848 I milanesi attuano uno sciopero del lotto e del tabacco per ridurre gli introiti fiscali austriaci. Il 27 gennaio si svolge a Napoli un'imponente manifestazione, in cui si chiede al sovrano di concedere la Costituzione. Ferdinando Il acconsente e emana la Costituzione e vi giura fedeltà. I rivoluzionari di Palermo, invece, la rifiutano. Tra il 22 e il 24 febbraio a Parigi scoppia un’insurrezione. Il re Luigi Filippo per salvare il trono, licenzia il primo ministro, ma è costretto ugualmente a fuggire. Viene proclamata la Repubblica. Le notizie della rivoluzione in atto in Francia si diffondono in tutta la penisola, provocando allerta negli Stati italiani. Carlo Alberto di Savoia emana lo Statuto albertino, che sarà in vigore fino al 1947. Nello Stato pontificio, anche Pio IX concede la Costituzione. Alla notizia della rivoluzione a Vienna, insorgono prima Venezia (17 marzo) e poi Milano (18-22 marzo). Prima guerra d’indipendenza Gli austriaci sono costretti a lasciare le due città. Durante le cinque giornate milanesi, Carlo Alberto ammassa truppe al confine con la Lombardia e il 23 marzo dichiara guerra all'Austria. Il granduca di Toscana Leopoldo Il invia un contingente misto di truppe regolari e volontarie nel Lombardo - Veneto a sostegno degli insorti e dell'esercito piemontese. A questi contingenti si aggiungono battaglioni di volontari provenienti da diverse regioni italiane. Sollevazioni popolari a Modena e Parma costringono i rispettivi sovrani (Francesco V d'Este e Carlo Il di Borbone) a fuggire e a nominare dei reggenti. A Modena viene nominato un governo provvisorio. A Parma sono pubblicati i principali articoli della Costituzione e il sovrano autorizza l'invio di un contingente militare a sostegno dei lombardi. Il 13 marzo scoppia un'insurrezione a Vienna, gli insorti chiedono una costituzione liberale e l'imperatore Ferdinando I licenzia il cancelliere Metternich. In Lombardia affluiscono volontari. I bersaglieri piemontesi battono a Goito, vicino a Mantova, l'esercito austriaco. Il 7 aprile giunge a Milano Giuseppe Mazzini. Carlo Il pone il ducato di Parma e Piacenza sotto la protezione di Carlo Alberto. A Palermo, il Parlamento dichiara l'indipendenza della Sicilia. Il 29 aprile, Pio IX dichiara di non volere la guerra contro l'Austria e nemmeno di porsi a capo di un'eventuale confederazione di Stati italiani. Egli, inoltre, intima al generale Durando di ritirarsi dai confini settentrionali del Regno. Durando rifiuta di obbedire agli ordini e si reca in Veneto a difendere gli insorti. I piemontesi battono gli austriaci a Pastrengo (Verona) il 30 aprile. Le città di Modena, Piacenza e il ducato di Parma, per mezzo di un plebiscito, si annettono al Regno di Sardegna. Battaglioni di volontari toscani e napoletani, in gran parte studenti, sono battuti dagli austriaci a Curtatone e Montanara (Mantova). È vero che molti degli studenti partiti da Pisa non arrivarono sul campo di battaglia, preferendo ascoltare le suppliche dei genitori e tornare indietro. Ma è vero pure che quel giorno caddero più di 165 italiani, e centinaia rimasero feriti, consentendo all' esercito piemontese di evitare l'aggiramento e vincere il giorno successivo a Goito. L'assemblea nazionale di Venezia vota l'annessione al Piemonte. Il 24 luglio, a Custoza (Verona), gli austriaci battono i piemontesi e li costringono alla ritirata. A Torino si dimette l'intero governo guidato da Cesare Balbo. Il nuovo primo ministro è Gabrio Casati. Giuseppe Garibaldi è inviato a Bergamo. Intorno a Milano infuriano violenti combattimenti fra austriaci e piemontesi, i quali il 4 agosto si ritirano in città. I piemontesi arretrano fino al fiume Ticino. Il 6 agosto gli austriaci sono a Milano. Nei giorni successivi arriveranno nelle principali città dell'Italia settentrionale. Il 9 agosto il generale Carlo Canera di Salasco, per conto di Carlo Alberto, firma un armistizio con il generale Hess, per conto di Radetzky. Garibaldi continua la sua guerra (ormai solitaria) a Varese. Ferdinando II, re delle Due Sicilie, e l'Assemblea francese offrono la loro ospitalità al pontefice. A dicembre, Garibaldi e i suoi volontari entrano a Roma. Il 2 dicembre, a soli diciotto anni, Francesco Giuseppe d'Asburgo viene proclamato imperatore d'Austria. Le Cinque Giornate di Milano Esistono alcune riproduzioni in bianco e nero degli acquerelli di Felice Donghi in un vecchio libro illustrato del 1936, di Cesare Pellanzon. Immagini dense, di una Milano quasi secentesca, stipata di oggetti nelle strette viuzze costeggiate da palazzi patrizi, con figure piccole, piene di energia. Il quasi sconosciuto Felice Donghi, pittore che nel marzo del 1848 aveva vent'anni, poi scenografo alla Scala, si aggirò per Milano durante le Cinque giornate, raccolse gli schizzi e poi realizzò, in quegli stessi giorni, mentre sparavano i cannoni austriaci dal Castello e le campane di Milano suonavano senza interruzione 26 piccoli dipinti: il quaderno di un cronista. Un documento eccezionale che ci offre alcune informazioni decisive. In primo luogo, l'ordine e la tranquillità degli insorti, anche accanto ai morti. È la forza di una volontà collettiva che con la tranquillità esprime il senso di giustizia che motivava gli insorti. In secondo luogo, la rottura delle barriere sociali. La fratellanza immediata e spontanea tra preti, operai, artigiani, distinti borghesi o aristocratici in marsina, donne del popolo e nobildonne. In quei giorni Milano fu un popolo, una città intera si ritrovava affratellata, senza organizzazione preventiva, su un obiettivo chiaro e condiviso: cacciare l'esercito austriaco. Giovanni Visconti Venosta ricorda distintamente lo stupore del darsi del tu, la condivisione di un bicchiere di vino, la solidarietà. Questi elementi sono tutti caratteristici non di una rivolta, di una ribellione, ma di una rivoluzione che coinvolse tutti, e che dunque fu un'azione di massa. La mattina del 18 marzo il conte Casati venne a sapere da Kolb, vicesegretario austriaco, che il governo stava per passare tutti i poteri a Radetzky, mentre una gran folla reclamava la guardia civica e un governo autonomo con funzionari italiani. Non poteva sapere che la sera prima, in casa del mazziniano Attilio de Luigi, un gruppo di patrioti tra i quali Cesare Correnti aveva preparato un manifesto per la popolazione con ben altro programma: «Il destino d'Italia è nelle nostre mani, un giorno può decidere la sorte di un secolo, proclamiamo unanimi e pacifici, ma con irresistibile volere, che il nostro Paese vuole essere italiano, e che si sente maturo a libere istituzioni, chiediamo, offrendo pace e fratellanza, ma non temendo la guerra», e aveva organizzato una manifestazione armata. Le due manifestazioni si fusero. Casati arrivò al palazzo di Borgo Monforte guidando migliaia di persone, molti armati, tra cui Enrico Cernuschi, un giovane avvocato in frac e cravatta bianca che era uscito da una notte galante. All'ingresso i granatieri ungheresi di guardia vennero uccisi, la garitta polverizzata. Il primo soldato venne pugnalato dal seminarista Giambattista Zaffaroni. Alle 19 del 18 marzo Radetzki diede l’ordine di attacco. Disponeva di 14mila uomini, 900 cavalli e 30 cannoni, i milanesi avevano 50 fucili, ma salirono sui tetti lanciando sugli assalitori tutte le tegole. Si cominciò a costruire le barricate. Venne inviato a Torino un messo per informare Carlo Alberto e chiedere il suo aiuto. Tra il 18 e il 19 marzo sorsero 1650 barricate, costruite con i materiali più incredibili: pietre, mobili, ceste, balle di paglia, attrezzi vari, ecc. Divelte le strade, aperti i bocchettoni dell’acqua. Tutte le strade furono così ostruite. Nelle varie armerie gli insorti trovarono solo 600 fucili! I milanesi usarono anche cannoncini di legno; la lotta infuriò per cinque giorni con alterne vicende. Gli austriaci, i granatieri ungheresi e i tirolesi commisero eccidi, cadaveri furono tagliati a pezzi. Il giorno 20 e il 21 compaiono le famose barricate mobili progettate dal vecchio ufficiale del Genio Antonio Carnevali, professore alla Scuola militare di Pavia. Progettò dei grandi cilindri di fascine legate con corde, del diametro di circa tre metri e lunghe due metri che venivano spinte avanti dagli assalitori che si muovevano così nascosti e protetti. Furono uno strumento di attacco eccezionale. L'attacco contro Porta Tosa fu deciso dopo un tentativo sfortunato di forzare dall'esterno Porta Comasina e studiato attentamente da Manara con Carnevali. La porta fu circondata. I tiratori scelti posti sulle case vicine. Le barricate rinforzate al meglio. L'artiglieria rivoluzionaria era composta da due cannoncini di legno e tre spingarde del Seicento. Funzionarono a perfezione, bloccando un attacco della cavalleria dal Corso di Porta Tosa. Vennero impiegate cinque barricate mobili. Quattro erano state bagnate, per indicazione di Carnevali. La quinta era asciutta perché avrebbe dovuto incendiare la porta. I palazzi attorno bruciavano, colpiti dall'artiglieria austriaca. L'attacco durò tutto il giorno. Alla fine gli insorti riuscirono ad appiccare il fuoco alla porta. Gli imperiali si ritirarono. Alle 20 del 22 marzo, caduta Porta Comasina, Milano era libera. Radetzky nel frattempo decise di abbandonare Milano e ritirarsi nel Quadrilatero. Per coprire l'azione, preparò il bombardamento della città, che iniziò alle 20 e terminò a notte fonda. Alle 22 uscì da Milano con tutte le forze ordinate in cinque colonne. Anche i 2300 soldati italiani marciarono in ordine e non disertarono. I milanesi videro che gli austriaci stavano uscendo dalla città. Ma attesero molte ore. I cannoni cessarono di sparare alle 3 del mattino del 23 marzo. Alle 5, prima dell'alba, tutte le campane di Milano suonarono all'impazzata. Si aprirono le finestre della città. Erano morti circa 600 cittadini, tra i quali 100 donne. La rivolta dei milanesi fu la più vasta e pervasiva in tutta Europa, anche rispetto alle insurrezioni di Vienna, Berlino, Budapest, perfino di Parigi, nel febbraio di quello stesso 1848. Un paragone si può fare solo con le giornate gloriose del luglio 1830 a Parigi. Ma noi, lo sappiamo ancora? Lo raccontiamo ai nostri giovani? Ma è possibile che si sia scritto e fatto così poco su una vicenda così grandiosa, su personaggi come Cernuschi, Correnti, Torelli, Manara, una storia che coinvolse tutti, tutti i milanesi, e che rappresenta l'inizio dell'Italia? Perché questo silenzio? Il dramma del 6 agosto e la catastrofe... Non è senza profonda commozione leggere la minuta di un Appello scritto il 29 luglio, cinque giorni dopo la sconfitta di Custoza, da Carmelita Manara, appello da lei fatto circolare in città per supplicare alla resistenza. «Milanesi! Le notizie poco consolanti venute dal Campo, invece di eccitarvi sempre più ad accorrere alla difesa della Patria, hanno sparso negli animi un allarme troppo spinto che può riuscir dannoso alla nostra causa. Il pericolo esiste, ma non dobbiamo esagerarlo. Operiamo in modo che non si abbia mai a smentire il valore già mostrato nelle Cinque gloriose giornate, ed il nemico vedendoci sorgere unanimi sarà certo sgominato al solo pensiero che avrà ancora a combattere gli eroi delle barricate. Alcuni allarmisti che a buon diritto si possono chiamare indegni del nome italiano già pensano a disertar la città. Infamia a chi fugge nel dì del pericolo! Mostriamo all'Austriaco che una sconfitta non ci atterra e che anzi l‘animo nostro è più che mai pronto a una vigorosa difesa! Milanesi! In faccia al nemico ritroviamo l'unione che fu la nostra forza nel18 marzo!Alzatevi e muovete tutti al Campo! Noi donne ed i vecchi basteremo per la difesa delle nostre mura e siate certi che non ci mostreremo indegne di appartenervi. Le Donne Milanesi». Milano, li 29 luglio 1848 Carlo Canella – Barricate di Porta Tosa * 22 marzo 1848 Olio su tela, Museo del Risorgimento Milano * Oggi Porta Vittoria Barricate mobili di Porta Tosa a Milano 22 marzo 1848 Litografia colorata, XIX secolo, collezione privata, Milano Barricate al ponte di Porta Romana Olio su cartone, XIX secolo - Civiche Raccolte Storiche, Milano Il 19 marzo 1848 Milano era una città tricerata. Le barricate avevano raggiunto il numero di 1700. Felice Donghi Le cinque giornate di Milano, barricate in Borgo della Fontana Olio su tela, XIX secolo, Museo Storico Topografico “Firenze com’era”, Firenze Barricata e combattimenti al Palazzo del Genio Litografia XIX secolo Collezione privata, Milano 1849 A gennaio si verificano manifestazioni popolari a Roma in favore della Repubblica. Si forma un’Assemblea costituente che proclama, il 9 febbraio, la Repubblica romana, che riuscì a compiere la sua opera di fondazione dei diritti e dei doveri dei cittadini sulla base di una costituzione democratica. Il papa, da Gaeta ove era fuggito, invita le potenze europee ad intervenire per abbattere la Repubblica romana. Il 20 marzo, in Piemonte, Carlo Alberto rompe l'armistizio con l'Austria. Il 21 gli eserciti si scontrarono a Borgo San Siro e alla Sforzesca, dove i piemontesi riuscirono a fermare l'avanzata dell'ala destra austriaca, ma a Mortara gli austriaci presero il sopravvento impadronendosi della cittadina e facendo circa 2.000 prigionieri. La mattina del 22 Chrzanowski ordinò la ritirata in direzione di Novara, pensando di poter lì condurre un'azione difensiva e fermare l'avanzata austriaca. La battaglia di Novara si protrasse dalle 11 del mattino alle 7 della sera del giorno 23 opponendo 45.000 piemontesi a 65.000 austriaci. Alle 8 di sera le truppe piemontesi si erano ritirate nella città e nella notte ripiegarono verso nord. Gli austriaci si accamparono fuori dalle mura ed entrarono a Novara la mattina del 24. La battaglia costò ai piemontesi 578 morti, 1.405 feriti e 409 prigionieri; agli austriaci 410 morti, 1850 feriti e 877 dispersi. La sera stessa della battaglia, Carlo Alberto abdica in favore del figlio Vittorio Emanuele Il e si reca in esilio in Portogallo. Il 24 marzo il maresciallo austriaco Radetzky e il nuovo re firmano un armistizio, noto come armistizio di Vignale. Il 23 marzo Brescia insorge e scaccia gli austriaci. Resisterà al durissimo assedio nemico per 10 giorni con perdite grandissime, oltre 1000 morti e centinaia di feriti. Venezia rimaneva l'ultima minaccia repubblicana in Italia. Gli austriaci la cinsero d'assedio dalla terra e dal mare e la città resistette tra mille privazioni per cinque mesi, da marzo ad agosto 1849. Fu sottoposta a bombardamento mentre la carestia e il degrado igienico-sanitario provocavano una improvvisa epidemia di colera. Molti italiani erano accorsi in difesa di Venezia e del capo della resistenza Manin. Fra i tanti, Guglielmo Pepe, Alessandro Poerio, Giuseppe Sirtori, Pier Fortunato Calvi. L'ultima difesa fu al forte di Marghera, sottoposto per giorni a un furioso bombardamento. Il 24 agosto la città issò la bandiera bianca. La commovente poesia di Arnaldo Fusinato (L'ultima ora di Venezia) dice tutto. Arnaldo Fusinato E‘ fosco l’aere, il cielo è muto, ed io sul tacito veron seduto, in solitaria malinconia ti guardo e lagrimo, Venezia mia Fra i rotti nugoli dell’occidente il raggio perdesi del sol morente, e mesto sibila per l’aria bruna l’ultimo gemito della laguna. A Venezia Passa una gondola della città. -Ehi, dalla gondola, qual novità? -Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca!- Andrea Appiani jr. Milano Museo del Risorgimento Venezia , deposte le antiche insegne del potere: l’ermellino, il leone e il corno dogale appare un simbolo ambiguo, non trionfalistico, a metà strada tra la desolata amarezza per le speranze infrante significate dall’abbigliamento e l’acconciatura scomposti e la fiducia nell’avvenire, visualizzata nell’intensità dello sguardo. Venezia che spera, 1861 a metà strada tra la desolata amarezza per le speranze infrante significate dall’abbigliamento e l’acconciatura scomposti e la fiducia nell’avvenire, visualizzata nell’intensità dello sguardo. Luigi Querena Esterno del piazzale del ponte Tempera su tela, Museo Correr. L’improvvisato fortilizio è visto da Venezia in una fosca luce notturna, nell’attimo in cui il bagliore di un’esplosione, teso con sapiente uso pirotecnico del colore, illumina il tricolore, simbolo di una presenza spettrale ed eroica che caparbiamente e ancora con fede non vuole arrendersi alla violenza e alla superiorità di una realtà ostile. Luigi Querena Bombardamento di Venezia visto da Santa Chiara olio su tela Venezia, Galleria moderna di Ca’ Pesaro Atmosfera sbigottita , rotta dalle traiettorie dei tiri di artiglieria. Sullo sfondo il ponte ferroviario interrotto a metà e, sulla linea dell’orizzonte i fumi delle batterie nemiche che si confondono con le vampate di caldo del torrido agosto del 1849. In primo piano civili e militari che impietriti e rassegnati alla capitolazione, aspettano solo la fine. Si distingue solo il tricolore segno della volontà di appartenenza a un popolo sconfitto, ma non domato. Ippolito Caffi Bombardamento notturno a Marghera del maggio 1849 (Tempera su carta 1849) Assedio di Venezia Bombardamento della città agosto 1849– incisione XIX secolo, Museo centrale del Risorgimento italiano, Roma Daniele Manin Acqua alta a Venezia , 2010 La Repubblica romana Nel gennaio 1949 dopo gravi disordini, culminati con l’uccisione del primo ministro Pellegrino Rossi, fu eletta un'Assemblea di 120 deputati che proclamò la propria sovranità e legittimità esautorando il pontefice come capo di Stato. Il 9 febbraio fu approvato il «Decreto Fondamentale», cioè un atto di fondazione costituzionale di soli quattro articoli che dichiarava la decadenza, «in fatto e in diritto», del potere temporale e proclamava il nuovo Stato, la Repubblica romana. Con un gesto di correttezza liberale la Repubblica assicurava al pontefice tutte le «guarentigie» per l'esercizio del potere spirituale. Era la realizzazione del sogno antico della separazione dei due poteri. Nel territorio di uno dei paesi europei più conservatori nasceva così uno Stato repubblicano, democratico e laico, aperto alla collaborazione di tutti i cittadini, indipendentemente dal loro censo e dalla religione professata. Già questo, prima ancora dell'adozione della Costituzione, determinava una profonda rottura con il recente passato, in cui i diritti politici e civili erano condizionati dalla adesione al cattolicesimo. In risposta a questo atto, Pio IX indirizzò una solenne protesta al corpo diplomatico riunito a Gaeta. Definì il decreto ingiusto, ingrato, stolto ed empio, «contro il quale [...] noi protestiamo nei modi più solenni, e ne dichiariamo la nullità. Domandiamo che sia mantenuto il sacro diritto del temporale dominio alla Santa Sede [...]. Si costituirà un triunvirato con Armellini, Mazzini e Saffi. La Repubblica romana Il 5 aprile un corpo di spedizione francese sbarca a Civitavecchia per combattere la Repubblica romana e a maggio un contingente di soldati francesi e napoletani marcia su Roma, mentre le truppe austriache invadono da nord lo Stato pontificio. Le truppe francesi del generale Oudinot assediano Roma per tutto il mese di giugno. I difensori della Repubblica romana (comandati da Garibaldi) e gli eserciti invasori si scontrano violentemente: eroica la difesa del Gianicolo, di Porta San Pancrazio, di Villa Orsini, di Villa Spada. Nei pochi metri tra Porta San Pancrazio e il Casino dei Quattro Venti muoiono duemila uomini tra il 3 e il 30 giugno, giorno della capitolazione. Garibaldi e i suoi uomini cercano di raggiungere Venezia via mare, ma sono braccati dalla flotta austriaca. I garibaldini riescono a sbarcare a Comacchio (Ferrara). Durante la fuga, il 4 agosto muore Anita Garibaldi. Gerolamo Induno Porta San Pancrazio a Roma (olio su tela, 1849) Francesco Hayez La meditazione (L’Italia nel 1848) olio su tela 1851, Civica Galleria di Arte Moderna, Verona L’Italia nel 1848 dopo le disfatte militari, icona della nazione sconfitta ma non umiliata, la donna ha un mano un libro, probabilmente la Bibbia e una croce con inciso 18-22 marzo; è semispogliata, non vinta, bocca serrata, sguardo fisso, esprime determinazione a continuare la battaglia. Seconda guerra d’indipendenza Nel mese di aprile, in Piemonte proseguono i preparativi militari. Il 23 aprile l'Austria lancia un ultimatum al Regno di Sardegna: entro tre giorni dovrà interrompere i preparativi militari in corso. Il Parlamento piemontese concede pieni poteri a Vittorio Emanuele II. Al rifiuto piemontese dell'ultimatum, gli austriaci passano il Ticino ed entrano in Piemonte. Firenze insorge e viene nominato un governo provvisorio. Truppe piemontesi occupano Massa e Carrara. Napoleone III assume il comando supremo delle operazioni. Il 20 maggio i francesi sconfiggono gli austriaci a Montebello. I Cacciatori delle Alpi di Garibaldi occupano Varese e Como, rispettivamente il 23 e 27 maggio. L'esercito piemontese occupa Palestro. Il 4 giugno l'esercito franco-piemontese sconfigge quello austriaco a Magenta. Napoleone III e Vittorio Emanuele Il entrano a Milano 1'8 giugno. Il 24 giugno i franco – piemontesi sconfiggono gli Austriaci a San Martino e a Solferino. L’11 luglio Napoleone III e Francesco Giuseppe firmano l’armistizio a Villafranca, le cui condizioni si rivelano sfavorevoli all’Italia. La Toscana, Modena, Bologna e Parma votano per l’annessione al Piemonte. Carlo Ademollo (olio su tela, 1860) L’ultimo assalto a San Martino Gerolamo Induno La battaglia di Magenta Olio su tela 1860 1860 Il 5 maggio Garibaldi con circa mille volontari, salpa da Quarto, vicino Genova, alla volta della Sicilia. L'11 maggio i Mille sbarcano a Marsala e il 14 Garibaldi assume la dittatura dell'isola a nome di Vittorio Emanuele II. Il giorno dopo sconfigge le truppe borboniche a Calatafimi (Trapani). Garibaldi entra a Palermo dopo accanito assedio (27-30 maggio). Ai Mille si aggiungono elementi locali e volontari provenienti da ogni parte d'Italia. Il 20 luglio nuova sconfitta dei borbonici a Milazzo. Il 4 agosto, a Bronte, i contadini, delusi per le mancate riforme agrarie, occupano i latifondi e le terre demaniali, la rivolta sarà stroncata. Il 18 agosto Garibaldi sbarca in Calabria: il suo arrivo è accompagnato da rivolte spontanee in Calabria e in Basilicata. “Sino a Napoli non sarà più tirato un colpo”. Il 7 settembre Garibaldi entra a Napoli. Tra l’I e il 2 ottobre l'esercito borbonico è sconfitto presso il fiume Volturno. Il 21 ottobre plebiscito di annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna. Il 26 ottobre, a Teano (Caserta), Garibaldi incontra Vittorio Emanuele Il e lo saluta come re d'Italia. A novembre nelle Marche e nell'Umbria altri plebisciti per l'annessione al Regno di Sardegna. Il 7 novembre Vittorio Emanuele Il entra a Napoli. Carlo Bossoli La guerra sul Volturno combattimento a Porta Romana litografia acquarellata, collezione privata, Bari Giovanni Fattori Il Quadrato di Villafranca Olio su tela 1876-80 Donne di Palermo Nel maggio 1860, il poeta patriota veneto Dall'Ongaro immaginava di far parlare vari testimoni dell'epopea del generale : le donne di Palermo E l'ho veduto io stessa a Monreale, e vidi i lampi che gli uscìan dagli occhi. Ei non è fatto di tempra mortale, e non c'è piombo che nel cor lo tocchi. E me l'ha detto una monaca pia, ch'egli è fratello a santa Rosalia! La santa gli ha mandato un talismano tessuto in cielo colla propria mano. L'angiol Michele lo venne a trovare, ed una stella gli posò sul fronte, - Questa ti guiderà per l’alto mare: Questa la via ti mostrerà del monte Quando si muove e ti fiammeggia avanti, sprona il cavallo e fa marciare i fanti Quando si ferma in mezzo all’aria aperta, Suona l’attacco e la vittoria è certa. Nino Bixio (Bergamo Museo del Risorgimento) Francesco Nullo Bergamo 01.03.1826 Krzykawwka 05.05.1863 (Bergamo – da un dipinto del Maironi) Francesco Cucchi (Bergamo 17.12.1834 - Roma 01.10.1913) Adolfo Biffi Il più giovane caduto della spedizione Caprino Bergamasco 24.05.1846 Calatafimi 15.05.1860 (Da una stampa del tempo – Bergamo Museo del Risorgimento) Bergamaschi dei Mille caduti a Calatafimi e a Palermo (Bergamo – Museo del Risorgimento) 1861 Il 18 febbraio 1861 nel palazzo Carignano di Torino re Vittorio Emanuele II inaugurò il primo Parlamento italiano e il 17 marzo fu acclamato Re d’Italia. Si costituisce il primo governo unitario presieduto da Cavour. Le emergenze sono costituite dall'unificazione amministrativa, dalla «questione romana», dalla questione meridionale e dal brigantaggio nell'Italia meridionale. Nel corso dell'anno si arrendono le piazzeforti borboniche di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, presso Ascoli Piceno. Camillo Benso di Cavour muore il 6 giugno. Nuovo capo del governo è Bettino Ricasoli. Il 15 giugno il generale Enrico Cialdini è nominato luogotenente del Regno in Italia meridionale e responsabile della lotta al brigantaggio. Eserciterà un’azione repressiva pesante. Francesco Redenti Finirà così ? Incisione da “Il Fischietto”, 2 ottobre 1860 Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea, Roma L’incisione mostra l’Italia che, con aria torva e con un calcio, mette in fuga degli uomini con il cappello frigio, mentre benedice finalmente l’abbraccio tra Cavour e Garibaldi. I mazziniani avevano sperato che la spedizione dei Mille favorisse un programma repubblicano. Nel 1861 ebbe inizio una guerra interna che impegnò lo Stato per quattro anni. Era esplosa nei territori dell’ex Regno delle Due Sicilie una protesta sociale e politica difficile da definire immediatamente nelle sue componenti e che fu riassunta nella parola «brigantaggio». L’economista Francesco Ferrara aveva evocato in una lettera del luglio 1860 a Cavour il fantasma del brigantaggio meridionale attribuendone la pericolosità anche politica al sistema borbonico: «Forse la causa predisponente al brigantaggio che risulta dalla infelice condizione sociale, dalla miseria, dalla povertà, non possederebbe la terribile efficacia che in realtà possiede e manifesta, se non fosse potentemente coadiuvata da un'altra causa dello stesso genere, vale a dire dal sistema borbonico. La sola miseria non sortirebbe forse effetti cotanto perniciosi se non fosse congiunta ad altri mali che l'infausta signoria dei Borbone creò ed ha lasciato nelle province napoletane. Questi mali sono l'ignoranza, gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata, e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia». La questione meridionale Raggiunta l'unità d'Italia, il brigantaggio, già presente da decenni, cominciò a diffondersi dal Molise alla Calabria, alla Puglia, divenne la rivelazione del danno fatto ai meridionali dal crollo troppo repentino del regime borbonico. A questo si aggiungeva l'errore di aver attivato l'estensione al Mezzogiorno di leggi e regolamenti e codici avvertiti genericamente dai meridionali come estranei e nemici. Era l'esordio di una «questione meridionale» di cui il brigantaggio forniva l'immagine più elementare: i contadini, i poveri si ribellano; abitanti di villaggi e paesi si sentono alla mercè di autorità straniere e lontane, i benpensanti e le classi conservatrici si sentono altrettanto estranei al ruolo che lo Stato liberale italiano richiedeva loro di interpretare, quello di essere parte di una borghesia intesa come classe dominate e storicamente vincente. Su questo complesso di elementi sia i liberali del Nord sia quelli del Sud avrebbero dovuto immediatamente concentrare i loro sforzi di analisi dei problemi che ne scaturivano. La questione meridionale Lo storico liberale Ruggero Moscati nel 1961 interpreta le ragioni e le responsabilità che hanno fatto del Mezzogiorno un problema centrale dello Stato unitario. Fu un grave limite della classe dirigente non aver compreso in tempo la gravità delle condizioni economico - sociali del Mezzogiorno. L'essersi opposta all'erogazione dei fondi necessari ad un piano dettagliato di opere pubbliche, l'aver disciolto sia l'esercito garibaldino sia quello borbonico, favorendo la reazione ed incrementando il brigantaggio, l'aver imposto al Mezzogiorno sistemi doganali, tariffe daziarie e leggi estranee alla tradizione giuridico - amministrativa dell'ex Regno, alimentò quella insoddisfazione determinata da esigenze confuse e contraddittorie fatte di insofferenza, delusioni, disagio, aspettativa, che poi sfoceranno nella grandissima partecipazione del Mezzogiorno all'opposizione di sinistra. Il Mezzogiorno, che era stato pronto a sacrificarsi per l'unità in uno slancio di entusiasmo generoso, rifiutava di divenire una provincia e constatava come i suoi miraggi di una floridezza economica si risolvessero, almeno per il momento, in un impoverimento. La repressione del brigantaggio Fin dall'inizio della campagna in Sicilia, Garibaldi si era trovato nella necessità di accompagnare le riforme istituzionali a riforme di carattere sociale, che ampliassero il consenso alla sua impresa, attirassero volontari nell'esercito e dessero un contenuto reale ad un movimento che si presentava come movimento di liberazione dall'oppressione politica ed economica. In particolare il 2 giugno aveva emanato un decreto che sanciva l'assegnazione di una quota del demanio comunale ad ogni combattente per la patria, o al suo erede in caso di morte. Fu soprattutto la mancata applicazione di questo decreto da parte delle autorità competenti a spingere le masse contadine alle sommosse dell'estate del 1860. Quella di Bronte è la più nota a causa della brutale repressione compiuta dal generale Bixio su ordine di Garibaldi, dopo che i contadini avevano appiccato incendi e compiuto saccheggi, omicidi, uccisione di soldati italiani. Altre repressioni a Pontelandolfo, Casalduni, Venosa, Basile, Monteverde, S. Marco, Rignano, Spinelli, Carbonara, Montefalcone, Auletta e altri villaggi. Nell'ultima fase della spedizione dei Mille, i comandanti borbonici organizzarono bande di irregolari per disturbare le comunicazioni dell‘esercito garibaldino e per rallentare la discesa dei piemontesi. Dopo il plebiscito e l'istituzione delle luogotenenze (ottobre 1860) tali bande crearono seri problemi all'esercito regolare, favorendo la sollevazione di interi paesi e la costituzione di comitati borbonici. Dopo la battaglia del Volturno e la resa della fortezza di Gaeta (13 febbraio 1861) si organizzarono gruppi composti da ufficiali e soldati del disciolto esercito borbonico, che intendevano continuare la guerriglia. Poco aiutate dai Borboni esuli a Roma e male coordinate dal cosiddetto «partito legittimista», le masse si ingrossarono però fino a contare alcune migliaia di uomini, e non solo ex militari ma anche giovani che rifiutavano la coscrizione e contadini. Nella prima metà del 1861 la stagione del «grande brigantaggio» si affermò come emergenza nazionale. Bande di centinaia di uomini assaltarono i centri abitati sopraffacendo le guarnigioni minori, massacrando i soldati italiani presi prigionieri e compiendo sanguinose rappresaglie sui borghesi sospettati di essere liberali, cioè «filoitaliani». Con violenze orribili da parte dei «briganti», eccidi, repressioni militari sproporzionate, odi personali e vendette collettive travestiti da primitiva lotta di classe fra ricchi e poveri, fra contadini e proprietari . «Il 1860 fu rivoluzione politica della borghesia - dirà Giustino Fortunato a Pasquale Villari -, il brigantaggio fu reazione sociale della plebe», questa indistinta rivolta contadina, attraversata dal revanscismo borbonico e dal rifiuto di fanatici ed estremisti clericali del nuovo corso liberale dell'Italia, fu domata nel 1864 da un esercito di circa 120 mila uomini; grazie anche alla legge Pica del 1863, che diede pieni poteri ai militari impegnati in un conflitto anomalo. Non si dispongono dati sul costo in vite umane. I briganti morti furono tra i 5 e i 10.000 e oltre 5.000 arrestati, in una gigantesca operazione di polizia. Molte centinaia i soldati e carabinieri italiani caduti. In luglio il generale Enrico Cialdini fu inviato con poteri eccezionali a Napoli al fine di stroncare la ribellione nelle province meridionali. La repressione fu molto dura, non solo nei confronti delle bande ma anche delle classi dirigenti e del clero sospettati di favorirle. In dicembre, cinquantamila uomini operavano nel Meridione continentale conducendo una campagna senza esclusioni di colpi: i paesi che davano aiuto ai ribelli vennero cannoneggiati, i sospetti briganti fucilati sommariamente. Alla fine dell'anno, la cattura e la fucilazione dello spagnolo José Borjes, «generale» inviato dal governo borbonico in esilio, pose termine alla fase più dura della ribellione. Nell'agosto 1863 venne emanata la cosiddetta legge Pica, in forza della quale, nelle province dichiarate «infette», la responsabilità di giudicare i briganti fu demandata ai tribunali militari. Sotto il comando di Lamarmora, succeduto a Cialdini, furono conseguiti alcuni grossi risultati e debellate le grandi bande a cavallo come quella brigante Crocco (che nel l861 aveva occupato Melfi proclamando il ritorno del dominio borbonico). Alessandro Romano, discendente di Pasquale Domenico omonimo (passato alla storia come il "Sergente Romano"), è uno dei tanti studiosi, appassionati impegnati nell'impresa di ristabilire la verità sul traumatico e sanguinoso processo risorgimentale di acquisizione al territorio della nazione delle regioni del Mezzogiorno. Interpellato ultimamente sull'argomento, riandando col pensiero alle sue frequentazioni di biblioteche e archivi più arretrate nel tempo, ha ricordato un episodio scioccante e al contempo struggente. Frutto del reperimento del verbale di uno dei tanti casi di giustizia sommaria, mascherati da procedimenti penali, documentati all'indomani della "conquista" del Sud, è la storia di un balordo ufficiale pedemontano e degli effetti mortali dell'assenza di dialogo (per l'impermeabilità dei rispettivi sistemi linguistici) su un diciassettenne "pastorello lucano": L’ufficiale piemontese [gli] chiedeva [...] come mai avesse quelle scarpe. Il ragazzo non capiva, quello parlava un'altra lingua. L'ufficiale gli comunicò che lo condannava per brigantaggio, perché erano scarpe in dotazione all'esercito "italiano". E il poveraccio ancora non capiva di dover spiegare che ne era entrato in possesso senza ammazzare nessuno. Immaginai il suo sperdimento, la paura, la rabbia di non rendersi nemmeno conto di cosa volesse da lui quella gente e perché lo trattassero male. Poi comprese: gli fecero cenno di girarsi dinanzi al plotone d'esecuzione schierato. Udì che caricavano le armi. Fucilato alle spalle. Mi misi a piangere (Aprile, 2010, p. 38). Uomini, sangue e dolore ridotti in cifre 25.000 elettori, secondo le cifre ufficiali, hanno votato l'annessione del regno delle Due Sicilie al regno di Sardegna. Dopo quattro anni, diecimila napoletani sono stati fucilati o son caduti nelle file del brigantaggio; più di ottantamila persone gemono nelle segrete dei liberatori; diciassettemila napoletani sono emigrati a Roma, trentamila nel resto d'Europa; secondo lo stesso Ministro della guerra di Torino la quasi totalità dei soldati dell'antica armata del regno delle due Sicilie hanno rifiutato d'arruolarsi sotto le bandiere dell'annessione. È la voce del popolo, cioè della maggioranza che si vuole ascoltare? Ebbene, ecco 250.000 voci circa che protestano, dalla prigione, dall'esilio o dalla tomba contro la confisca dell'indipendenza o della monarchia nazionale. Cosa rispondono a queste cifre gli organi del piemontesismo? Essi non rispondono affatto. (da « De Naples à Palerme » di Oscar de Poli) Gli esiliati che mendicano pane in terra straniera sono per lo meno 30.000; nelle province meridionali vi sono 8.639 impiegati destituiti e ridotti in miseria; sono state fucilate o scannate 18.000 persone; circa 7.000 ufficiali dell'antica armata sono stati congedati in ispregio della capitolazione di Gaeta; 14.000 napoletani sono stati incarcerati in un solo anno. Queste cifre ufficiali sono state comunicate dal Ministero di Torino e sono state riportate da numerosi giornali italiani... Ed ecco che il governo si vanta di essere popolare! Ma dove vede mai il popolo, se esso è imprigionato, fucilato, deportato o esiliato? (da « La campana di San Martino» del 4 novembre 1863) ... Dei duemila uomini già un dì miei dipendenti, nell'anno 1864 eravamo ridotti a cento e sedici tutti feriti da una fino a cinque volte. Dei rimanenti per compiere la cifra, ottantasei caduti vivi nelle mani della forza, sedici fucilati, cento e venti presentati spontanei, gli altri tutti morti con le armi alla mano. (dalla autobiografia del capobrigante Crocco Donatelli) Aspromonte (1862) e Mentana (1867) La risoluzione della «questione romana» dopo la proclamazione del Regno d'Italia fu una delle grandi questioni nazionali. Il governo tentava soluzioni diplomatiche che tenessero conto delle difficoltà internazionali e delle spaccature all'interno dell'opinione pubblica, gli ambienti democratici premevano per una soluzione diretta, possibilmente attraverso la formula dell'insurrezione. All’attuazione pratica dell'idea pensò lo stesso Garibaldi, convinto di poter ripercorrere le tappe della spedizione dei Mille, un anno dopo la proclamazione del regno. Al grido di «Roma o morte!», il generale, inizialmente lasciato agire indisturbato dal governo Rattazzi, tenne un discorso infuocato a Palermo (il 15 luglio 1862), radunò una schiera di volontari e marciò in direzione di Messina per imbarcarsi. Nell'arco di pochi giorni, tuttavia, l'atteggiamento di Vittorio Emanuele II e del governo mutò radicalmente. Le difficoltà internazionali, per le pressioni di Napoleone III, e la difficile situazione al Sud per la campagna contro il brigantaggio, sconsigliarono di ripetere l'azzardo del 1860. L'esercito e la marina vennero messi in allerta, mentre il generale Cialdini veniva inviato in Sicilia. Nonostante l'allarme, Garibaldi riuscì comunque a sbarcare la notte del 25 agosto in Calabria alla testa di 3.000 uomini. Attaccato dal mare e inseguito dall‘esercito regolare, dovette rifugiarsi in Aspromonte, nei dintorni di Sant'Eufemia, dove fu raggiunto il 29 da una colonna di 3.500 uomini guidata dal colonnello Emilio Pallavicini. Lo scontro si risolse in pochi minuti: Garibaldi, che aveva dato ordine di non rispondere al fuoco, fu ferito e preso prigioniero. Cinque anni dopo, alla testa di un piccolo esercito di 8.000 uomini, il generale avrebbe tentato un'altra marcia su Roma, convinto di poter sollevare la città e di provocare così la caduta del regime papale. Vanamente ostacolato dal governo italiano, Garibaldi riuscì a penetrare effettivamente nel territorio laziale. Tuttavia, mentre pochi rivoltosi a Roma e nei dintorni venivano arrestati o uccisi dalla polizia, la truppa garibaldina, male armata e priva di addestramento, si trovò a fronteggiare la forza congiunta, inferiore di numero ma assai meglio preparata, dei reggimenti esteri papalini e di un corpo di spedizione francese di 2.500 uomini inviato da Napoleone III. A Mentana, il 3 novembre 1867, i garibaldini, furono sconfitti. Fu l’ultimo tentativo di lotta insurrezionale in Italia. 1866 Si profila uno scontro fra Austria e Prussia. L'Italia firma un trattato segreto di alleanza con la Prussia, che il 17 giugno dichiara guerra all'Austria. Il 20 giugno anche l'Italia dichiara guerra all'Austria. Il 24 giugno l'esercito italiano è battuto da quello austriaco a Custoza. Garibaldi sconfigge gli austriaci a Bezzecca e penetra in Trentino. La flotta austriaca sconfigge quella italiana a Lissa (20 luglio). I prussiani a loro volta sconfiggono gli austriaci nella battaglia di Sadowa. Austria e Prussia stipulano la pace i1 12 agosto con l'armistizio di Cormons. Fra le clausole, la cessione del Veneto alla Francia che, a sua volta, lo cederà all'Italia. Nel mese di ottobre, un plebiscito sancisce di fatto l'annessione del Veneto all'Italia. Durante la guerra, il Parlamento approva la legge sulla soppressione degli ordini religiosi. A Palermo scoppia un'insurrezione duramente repressa dal generale La Marmora. Giovanni Fattori Il Quadrato di Villafranca Olio su tela 1876-80 Battaglia di Goito 8 aprile 1848 (Museo Correr, Venezia) Vittorio Emanuele alla battaglia di San Martino 24 giugno 1859 (Museo Correr, Venezia) Incontro di Vittorio Emanuele con Garibaldi a Teano (Museo Correr, Venezia) Il principe Umberto col quadrato di Villafranca 24 giugno 1966 (Museo Correr, Venezia) All'indomani della proclamazione del Regno d'Italia uno dei grandi problemi del paese era rappresentato dalla piaga dell'analfabetismo, di drammatica consistenza proprio nel Meridione. Il secondo numero dell’Annuario scientifico ed industriale" del 1866, nel dar conto delle statistiche di una recente pubblicazione sullo «stato d'istruzione primaria nel 1863», non esita a definire "desolante" il loro esito: dei 21.777.334 cittadini italiani censiti nel 1861 sono 3.884.245 quelli che sanno leggere e scrivere, 893.388 quelli che sanno leggere, 16.999.701 quelli che non sanno né leggere né scrivere. Relativamente al sesso, per un'età superiore ai 5 anni, si contano: •1.260.640 donne contro 2.623.605 uomini sanno leggere e scrivere, •508.995 donne contro 384.393 uomini sanno leggere. Analfabetismo con riferimento ai 14 "compartimenti" regionali: 57,23% in Piemonte 90,34% nelle Marche 90,82% in Campania 65,04% in Lombardia 92,02% in Sardegna 94,14% in Sicilia 71,91% in Liguria 92,13% in Umbria 94,71% nelle Calabrie 85,19% in Emilia 93,01% in Puglia 94,87% in Basilicata 86,05% in Toscana 93,56 in Abruzzi e Molise Tra il primo e il 2 settembre 1870 Napoleone III, da meno di due mesi in guerra con la Prussia, fu sconfitto nella battaglia di Sedan e preso prigioniero. Era la vittoria del cancelliere Bismarck contro l'imperatore che da tempo si era dichiarato contrario all'unificazione della Germania. Il 4 settembre in Francia veniva proclamata la repubblica. Crollava l'«impero liberale», e crollava anche, con Napoleone III, l'ultimo difensore militare e diplomatico della Roma papalina. Era il segnale atteso da tempo; era giunto il momento per lo Stato italiano di agire. Il governo, presieduto da un liberale più aperto, Giovanni Lanza, decise di rompere gli indugi anche perché l'esecutivo provvisorio di Parigi non dimostrò più alcun interesse per il problema di Roma. A una proposta di occupazione pacifica di Roma, Pio IX rispose «non possumus». Il 20 settembre 1870 i soldati del generale Raffaele Cadorna dopo aver vinto la debole resistenza delle truppe pontificie, (Pio IX aveva dato ordine al generale Kanzler di non spargere sangue e di opporre soltanto una resistenza passiva) sfondavano a cannonate le mura presso Porta Pia irrompendo nella città. Fra i testimoni Edmondo De Amicis, che con un gruppo di giornalisti si trovava da qualche giorno a Monterotondo al seguito delle truppe di Cadorna in attesa di eventi. Fu quindi tra i primi civili a entrare a Roma passando proprio per Porta Pia. Racconterà che bandiere tricolori apparvero su finestre e balconi e che i romani si riversarono per le strade. Le sue impressioni di Roma e i successivi Ricordi del 1870-71 sono la prima cronaca letteraria della liberazione della città. In quelle ore Francesco De Sanctis annotava in calce alla pagina di un suo scritto: «Suonano a stormo le campane. Roma è stata liberata. Sia gloria a Machiavelli!». Dopo secoli il potere temporale della Chiesa era finito. Almeno in questo il sogno anche di Machiavelli e di Guicciardini si era avverato. La nazione italiana poteva ora diventare la patria libera e laica di tutti i cittadini. Phoebe silvarumque potens Diana, lucidum caeli decus, o colendi semper et culti, date quae precamur tempore sacro, quo Sibyllini monuere versus virgines lectas puerosque castos dis, quibus septem placuere colles, dicere carmen. alme Sol, curru nitido diem qui promis et celas aliusque et idem nasceris, possis nihil urbe Roma visere maius. Rite maturos aperire partus lenis, Ilithyia, tuere matres, sive tu Lucina probas vocari seu Genitalis CARMEN SAECULARE DI ORAZIO Febo e Diana dea delle foreste, splendido decoro del cielo, da venerare e sempre onorati, esaudite le cose che desideriamo in questi giorni solenni in cui i versi sibillini prescrissero che vergini e fanciulli scelti e puri cantino un inno per gli Dei che hanno cari i sette colli! Sole divino, che sul cocchio luminoso dischiudi e nascondi il giorno sempre nuovo e uguale sorgi, e nulla maggior di Roma Possa tu vedere! Tu, che sai propizia fai schiudere i maturi parti come conviene, Ilizia, e che proteggi le madri, o che voglia essere chiamata Lucina o Genitale. CARMEN SAECULARE DI ORAZIO Te redimito di fior purpurei april te vide su ’l colle emergere da ’l solco di Romolo torva riguardante su i selvaggi piani: te dopo tanta forza di secoli aprile irraggia, sublime, massima, e il sole e l’Italia saluta te, Flora di nostra gente, o Roma. Se al Campidoglio non piú la vergine tacita sale dietro il pontefice né piú per Via Sacra il trionfo 1piega i quattro candidi cavalli, questa del Fòro tua solitudine ogni rumore vince, ogni gloria; e tutto che al mondo è civile, grande, augusto, egli è romano ancora. Salve, dea Roma! Chi disconósceti cerchiato ha il senno di fredda tenebra, e a lui nel reo cuore germoglia torpida la selva di barbarie. Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi del Fòro, io seguo con dolci lacrime e adoro i tuoi sparsi vestigi, patria, diva, santa genitrice. Son cittadino per te d’Italia, per te poeta, madre de i popoli, che desti il tuo spirito al mondo, che Italia improntasti di tua gloria. Ecco, a te questa, che tu di libere genti facesti nome uno, Italia, ritorna, e s’abbraccia al tuo petto, affisa ne’ tuoi d’aquila occhi. E tu dal colle fatal pe ’l tacito Fòro le braccia porgi marmoree, a la figlia liberatrice additando le colonne e gli archi: gli archi che nuovi trionfi aspettano non piú di regi, non piú di cesari, e non di catene attorcenti braccia umane su gli eburnei carri; ma il tuo trionfo, popol d’Italia, su l’età nera, su l’età barbara, su i mostri onde tu con serena giustizia farai franche le genti. O Italia, o Roma! quel giorno, placido tornerà il cielo su ’l Fòro, e cantici di gloria, di gloria, di gloria correran per l’infinito azzurro. G. Carducci NELL’ANNUALE DELLA FONDAZIONE DI ROMA Odi Barbare 1877 Michele Cammarano Carica dei bersaglieri a porta Pia olio su tela 1871 Antonio Muzzi Allegoria dell’Italia unita Olio su tela, 1888 Pinacoteca nazionale, Bologna Risorgimento negato o fallito (fallimento come cosa scontata?) Nonostante i continui attacchi, i valori dell’unità nazionale restano irrinunciabili. Si incolpa il passato per difficoltà che riguardano il presente Risorgimento negato o fallito (fallimento come cosa scontata?) Da parte di alcuni si vuole disconoscerne la legittimità storica, un Risorgimento come imposto con la forza, da esigue minoranze intellettuali e ideologiche, a popolazioni ignare e riluttanti. Secondo costoro l’unità nazionale sarebbe stata una forzatura, l’estensione del principio nazionale all’intera Italia sarebbe stata un’invenzione risorgimentale, rispondente non a un vero spirito nazionale, bensì alla «ideologia italiana» a beneficio del solo Piemonte, che sovvertì e sottomise gli altri stati pre - unitari. Allo Stato nato dal Risorgimento si addebitano colpe e vizi: dall’esaltazione generica dei «valori del Risorgimento» si passa a una discussione critica e negativa della storia italiana compresa in un rozzo opportunismo (Franza o Spagna), a uno storico deteriore condizionamento basato su inefficienza, corruzione, doppia morale, formalismo, inquisizione…: un’enorme dilatazione del giudizio di Francesco De Sanctis nella sua Storia della Letteratura italiana sull’Italia dal Rinascimento in poi. In De Sanctis tuttavia alla «decadenza» seguiva il «rinnovamento», mentre altri, alla caduta del fascismo, vollero vedervi tutto «negativo». In seguito avemmo anche il «gramscismo», (da distinguere da Antonio Gramsci), con il suo giudizio, molto legato alle vicende e alle lotte post1943 e limitativo, se non negativo, sui frutti del Risorgimento. Tuttavia se il gramscismo si dissolve con le polemiche liberali degli anni cinquanta e sessanta e con gli studi di Rosario Romeo sullo sviluppo industriale in Italia, se la sua eredità va ora considerata marginale, purtroppo il giudizio negativo che era emerso o comunque interpretato sull’Italia unita è rimasto. Se con le celebrazioni del 1961 vi fu un generale consenso con poche dissonanze, anche per lo slancio e il progresso dell’Italia di allora, con la crisi della prima repubblica, anni 1992-93 si è giunti a una revisione del Risorgimento e, ancor più, a un vero processo all’unità (non dovuti solo alla Lega Nord). Più che di un problema storico si tratta di una crisi dell’identità e della coscienza nazionale in tutti i loro aspetti, che coinvolge e travolge molto più del Risorgimento e dell’unità. Si è cosi passati da un Risorgimento fatto più contro i contadini e le classi popolari che contro l’Austria, conservatori, Chiesa al Risorgimento contro gli italiani, specie del Sud, con larghe nostalgie per la vecchia Italia (tranne che per lo stato pontificio!), per l’amministrazione di Maria Luisa, perfino per lo stato borbonico. Tuttavia vanno riprendendosi quei valori, prima enunciati, ma non molto esplicitati: indipendenza e unità, libertà (la libertà liberatrice), modernità (economica e sociale, della cultura e dell’istruzione), senso dello Stato e Stato laico. 150 anni hanno collaudato e legittimato la nuova Italia. Il problema non sono… il Risorgimento e l’unità: siamo noi. Il «Risorgimento negato» è un più fedele specchio non del passato, bensì di un problematico e negativo presente. Noi vogliamo scaricare e scarichiamo su quel passato i problemi di oggi e le relative responsabilità. Vi sono altri valori oltre quelli risorgimentali: l’ingresso in Europa ci coinvolge in problematiche molto complesse, come la globalizzazione, ma è lecito ritenere che i valori risorgimentali formino una base irrinunciabile e insostituibile, anche se ora nulla indica che la stagione della denigrazione del “Risorgimento negato” stia per finire. ITALIA IDEA DI “ITALIA” Una lingua italiana, affrancata dal latino, ci induce in un viaggio nello spazio e nel tempo storico. Dall’esame di documenti antichi civili e religiosi e in varie iscrizioni scorgiamo i segni di una lingua già comprensibile. Troviamo esempi nei secoli VIII e IX, una lingua diversa, un latino sgrammaticato, ma vivo e funzionale. Da una pergamena lucchese del 746: «Da uno latere curre via pubblica» e in un documento longobardo del 747 una indicazione per un viandante: «…et in ipsam viam ascendente in suso». In altro documento del 816 s’intravede il dialetto: «Avent in logo pertica quatordice in traverso…de uno capo duos pedes». Ricordiamo che Francesco d’Assisi compose intorno a 1225, in volgare umbro, il “Cantico delle creature”. La carta di Capua, custodita a Montecassino, dirime una lite tra il monastero e un vicino: « Sao chelle terre per chelli fini que qui contene, trenta anni le possedette Sancti Benedicti ». Si conferma così che il lessico italiano moderno è originato dal latino volgare e che tra il secolo VIII e IX è la lingua che segna il nascere dal Nord al Sud di una nuova nazione: l’Italia. È l’inizio di un grande dramma storico che, da questi frammenti di lingua parlata, porterà il lento passaggio di un popolo dalla divisione all’unità, dalla multiformità di istituzioni, di entità giuridiche, di municipalismi conflittuali alla identificazione, otto secoli dopo, nel tempo del Romanticismo e del Risorgimento, tra popolo, nazione, lingua, Stato. L’inizio del secondo millennio vedrà in campo grandi attori: l’Impero, il Papato, il sistema feudale con i Comuni, le Repubbliche marinare. Nuove istituzioni politiche e religiose, nuove gerarchie sociali, nuovi rapporti di produzione nelle campagne, nuovi rapporti tra città e campagna, difficile equilibri tra Impero e Chiesa. Nel contempo fervono idee, le proiezioni culturali di poeti, artisti, scrittori, filosofi. Sorge l’idea degli imperatori germanici di fare dell’Italia e soprattutto di Roma il luogo della “Renovatio”. Ciò si scontrerà con il Papato che intende rafforzare il suo potere temporale. La casa Sassone a partire dal 962 perseguì il processo di unificare la penisola partendo dal Sud, si ebbe l’opposizione del Papato e dei nobili romani che preferivano un pontefice da loro controllato che essere controllati da un sovrano tedesco. Più tardi Cola di Rienzo tenterà di fare di Roma il luogo della rinascita della cultura romana. Il suo sogno sarà distrutto dalla parte più violenta dell’aristocrazia romana che da quel tempo si allineò al potere temporale della Chiesa fino al 1870. I primi due secoli del millenio sono il tempo della feudalità. Dal punto di vista politico e religioso Chiesa e Impero sono i soggetti dominanti e il sistema feudale diffuso in Francia, in Germania, in Inghilterra e in Italia diventerà un solido modello di vita sociale. In questo periodo nacquero i primi Comuni a cominciare da Milano. Il Comune va considerato il centro della ricostruzione storica del formarsi dell’idea di Italia. Dal 1154 al 1183 Federico I, il Barbarossa scenderà in Italia per imporre ai Comuni lombardi il disegno politico di autocrazia imperiale della casata degli Hohenstaufen (dal castello di Waiblingen, per questo chiamati dagli italiani “Ghibellini” in contrapposizione alla casa di Baviera, favorevole alla Chiesa e al Papato, e chiamati “Guelfi” dal capostipite Welf. Nei Comuni iniziò una secolare guerra tra Guelfi e Ghibellini. Di questo periodo la partecipazione di Dante e Petrarca, che espressero la loro bruciante passione politica nella Commedia, nel De Monarchia, nelle Epistole rivendicando all’Italia un’identità nazionale e statuale. A queste anticipazioni culturali, che nel Quattrocento e nel Cinquecento faranno del pensiero e dell'arte italiana modelli ineguagliabili di modernità e di crescita intellettuale, non fece però riscontro un processo altrettanto vitale di crescita dei sistemi politici dell'Italia. Anzi, il superamento degli istituti comunali e il formarsi di nuovi modelli politici (ad esempio le signorie) resero ancor più difficile e irraggiungibile il miraggio di un'Italia unita. Il progressivo esaurirsi, nel corso del Trecento, del desiderio di «Italia» è sincronico al tramonto delle strutture politico-sociali e istituzionali dei Comuni. Fu questa una crisi che operò in senso contrario a quello che da essa razionalmente ci si sarebbe aspettato. L'evoluzione, in negativo, di questa realtà produsse effetti diversi e anche opposti: non finiranno i particolarismi, ma si creeranno le condizioni per organismi politici più complessi e più grandi. Accrescere il potere dei più forti (e dei più ricchi) era forse l'unica condizione per evitare le lotte e i conflitti tra i clan e soprattutto tra «magnati» e popolo. Così si spiega l'impotenza e la scarsa capacità di reazione alla situazione che si era creata e nello stesso tempo l'evoluzione dei sistemi politici avvenuta tra Tre e Quattrocento. E certamente, il superamento degli ordinamenti comunali (cioè di un potere suddiviso tra interessi privati e leggi e regolamenti pubblici, con il prevalere di volta in volta degli uni o degli altri) e della «divisione dei poteri» tipica dei Comuni provocava inevitabilmente un potere più centralizzato, più unificato e alla fine più efficiente. Da questa evoluzione provengono gli istituti che fanno capo a una famiglia, a un signore, a un principe. È il processo inverso rispetto a Francia, Spagna e Inghilterra: in questi regni il progressivo affievolirsi dei poteri feudali e «baronali» si traduce nella costruzione di una monarchia statuale che si identifica nella figura di un sovrano nazionale. In Italia, le signorie e i principati diventano invece quel che lo stesso nome indica: luoghi e figure di una sovranità che si dissemina in quasi tutta l'Italia. Le città da Comuni diventano Corti, e da Corti, che rappresentano territori urbani e campagne sempre più estesi, Stati. Tanti Stati che non fanno però uno Stato; una Italia comunque in piena evoluzione ma una Italia divisa e quindi «inesistente» come nazione. Questo problema sarà senza soluzione proprio nei secoli più affascinanti, quelli che segnano le pagine più ricche di eventi della storia italiana: i secoli dell'Umanesimo, del Rinascimento, dei grandi scismi religiosi, dell'«età barocca», delle grandi scoperte teoriche, geografiche e scientifiche che faranno dell'Italia un punto di riferimento essenziale nella storia dell'Europa. ITALIA La prima volta che l’Italia è esistita davvero è stato nel momento in cui, all’incirca nell’estate del 1831, alcune migliaia di ragazzi pronunziarono a memoria, il testo seguente, al momento di giurare fedeltà alla Giovine Italia. «Nel nome di Dio e dell'Italia, nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide, straniera o domestica ... Io ... credente nella missione commessa da Dio all'Italia, e nel dovere che ogni uomo nato Italiano ha di contribuire al suo adempimento; Convinto che dove Dio ha voluto che fosse nazione, esistono le forze necessarie a crearla - che il popolo è depositario di quelle forze, - che nel dirigerle pel popolo e col popolo sta il segreto della vittoria; Convinto che la virtù sta nell'azione e nel sacrificio - che la potenza sta nell'unione e nella costanza della volontà-; Do il mio nome alla Giovine Italia, associazione d'uomini credenti nella stessa fede, e giuro: Di consacrarmi tutto e per sempre a costruire con essi l'Italia in nazione una, indipendente, libera, repubblicana ... » Cosa ci suggerisce quel testo? È chiaro che l'Italia esiste se noi lo vogliamo. Non solo. Quel testo magnifico ci dice che il gesto di intima adesione a una comunità da parte di ciascuno di noi, anche nel nostro intimo, non è indifferente rispetto all'esistenza della patria. È la tesi del ricostruito patriottismo francese umiliato dopo la sconfitta di Sedan, con i famosi discorsi di Ernest Renan, nel 1881: “La patria è un plebiscito di tutti i giorni”. È la tesi volontaristica, contrapposta a quella tradizionalistica di origine tedesca. La natura di volontaria adesione a valori civili di libertà, ma anche a comuni doveri, rende il patriottismo mazziniano radicalmente differente da ogni nazionalismo. Per i Francesi, il conflitto tra la Francia millenaria e la Francia rivoluzionaria si materializzò nel dibattito parlamentare all'Assemblea nazionale del 1880 su quale dovesse essere il giorno della festa nazionale. Giovanna D'Arco, il 9 maggio, era la scelta dei tifosi della Francia millenaria. I1 14 luglio fu la scelta repubblicana, che prevalse. Ma fu scelta di rottura, non accettata, contrastata dalla Chiesa, dai socialisti, da opposizioni lealiste e bonapartiste, che impiegò mezzo secolo per affermarsi compiutamente. Anche in Italia esiste un fondo di scetticismo sull'idea che l'età dell'Italia sia quella del suo Stato, ovvero 150 anni. Non appare plausibile. Eppure l'Italia è una delle comunità umane più antiche al mondo, nonostante le trasformazioni, le invasioni, le catastrofi. La società italiana è antichissima, si comporta come tale, sente di esserlo. Lo Stato italiano è giovane, fu pensato come macchina di modernizzazione della società e così funzionò. L'antichità millenaria di un popolo è talvolta anche un peso, non solo un segno di nobiltà. La presenza ossessiva, schiacciante del mito di Roma, della Roma repubblicana e imperiale, ha sempre spinto in basso le possibili velleità delle generazioni successive. Un modello troppo alto, inarrivabile. Come poteva rinascere la terra dei morti? Un punto di partenza venne offerto dalla monumentale “Histoire des républiques italiennes du moyen age”, (pubblicata tra il 1807 e il 1818). Secondo Sismondi il maggior fulgore nella storia del mondo l'Italia lo raggiunse nel Medioevo con le sue città, i comuni, che hanno ricostruito i concetti di libertà e di civiltà nella notte barbarica dei regni feudali. Le cento città con le loro libere istituzioni sono il contributo italiano all'evoluzione della civilizzazione europea. Il Sismondi vede nascere i comuni quali «associazioni» di privati per difendersi, darsi comune assistenza. È dubbioso sulla conservazione di tracce di istituzioni romane. Certamente, le vede in contrapposizione con l'istituzione del potere feudale, generalmente germanico. Da Sismondi origina la tesi che l'Italia abbia prodotto il concetto stesso di repubblica dei tempi moderni. Mazzini la trae da Sismondi. Così si ispirano a lui d'Azeglio per Ettore Fieramosca e il siciliano Michele Amari, che viene spinto dalla lettura di Sismondi a intraprendere la grande ricerca sui Vespri siciliani. Tutta l'epopea di Pontida e Legnano, romanzi, poemi, opere liriche, pitture nascono da Sismondi. È sempre Sismondi che motiva Manzoni ad approfondire nel dettaglio la questione longobarda che porta al “Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia” del 1822: ma dove è finito il popolo dei Romani? Chi ha assorbito chi? Concludendo che la fusione in una nazione non vi fu per colpa dei germanici, che non vollero una comune titolarità di diritti politici con quel «volgo disperso che nome non ha». E Carlo Cattaneo ne trae la tesi centrale del suo fondamentale “La città considerata come principio ideale delle istorie italiane”, del 1858. Di recente è stato Giorgio Ruffolo in “Quando l'Italia era una superpotenza” (2003) a ricordarci che nel Trecento l'Italia, con lo sviluppo delle città, aveva il prodotto interno lordo pro capite più alto d'Europa. Non aver creato istituzioni, cittadinanza, sistemi politici comuni ha prodotto per via militare e politica la catastrofe economica che ha condotto a una miseria spaventosa, il cui punto più basso di mille anni di storia si ebbe proprio dopo il Congresso di Vienna. In ogni caso, se Mazzini recuperava in chiave mistica il ricordo della Roma repubblicana, anche lui partiva fondando l'idea repubblicana sulle associazioni medievali e sui comuni. In fondo si tratta sempre di un'Italia che nasce nel Medioevo, come sosterrà molti anni dopo Gioacchino Volpe nella celebre disputa con Benedetto Croce sul punto di partenza di una possibile storia d'Italia. Roma rimane sullo sfondo come un mondo perduto al quale guardare con la nostalgia struggente che si trasformerà in atto di accusa nell’ode “Alle fonti del Clitumno” del mazziniano Giosuè Carducci: «... quando una strana compagnia tra i bianchi / templi spogliati e i colonnati infranti / procedé lenta in neri sacchi avvolta, / litaniando, /e sovra i campi del lavoro umano / sonanti e i clivi memori d'impero / fece deserto, et il deserto disse / regno di Dio». È la Roma dell’inglese Edward Gibbon, in “History of the Decline and Fall of the Roman Empire”, un'opera amata dai patrioti e che li spinse a considerare il cristianesimo come origine della grande catastrofe del mondo romano. La fine del mondo romano è un evento che ha pesato sempre nel formarsi della coscienza italiana, nella sua cultura, nella sua rappresentazione del mondo almeno fin dal Rinascimento. Ma certamente rappresenta una sorta di trauma originario, volutamente irrisolto, per i patrioti dell'Ottocento appassionati di storia, e sulla storia infervorati nell'affermare la propria virtù civile. Occorre toglierci di dosso la continua affermazione di una nazione irrimediabilmente divisa, mai stata davvero tale o non degna di questo nome, di un’Italia impietosamente ritratta da taluni storici, intellettuali, giornalisti illustri o anonimi disfattisti, che elaborando fonti, documenti o analisi altrui favoriscono un inveterato luogo comune italico: un autolesionismo e radicato senso di inferiorità. Il complesso d'inferiorità è tipico di molti italiani, e non tanto degl'italiani del popolo quanto di quelli [...] delle cosiddette classi dirigenti. Esso consiste nello stare, desiderare con tutta l'anima di stare e di restare in basso, e godere della propria individuale e nazionale bassezza; nello sporcare con sorriso scettico e ironico ogni volontà individuale e nazionale che tenda ad alcunché di nobile, di elevato; nel valutare con animo vile le proprie e le patrie capacità, affinché, se appena si osi di compiere alcunché di forte e di ardito, subito si possa in sé e attorno a sé suscitare la pavida diffidenza e predire l'esito catastrofico. Consiste nel gioire di ogni schiaffo e frustata che si busca, per toglierne argomento e confermare la propria inettitudine. Che se alcuno si arrischia a proporre un gesto, un esempio magnanimo, si è accusati di megalomania, o di retorica. Il complesso d'inferiorità consiste inoltre nel bearsi delle qualità e dei successi dello straniero, per potere poi additare con sadica voluttà i difetti e gli insuccessi propri e nazionali, ma più nazionali che propri. Consiste, infine, in una passione dominante che è la passione dell'oro, la quale però, non si tramuta tanto in volontà di possedere l'oro in proprio, quanto in ammirazione di colui che lo possiede, e cioè del ricco. Onde l'ideale è essere il servitore o, al più, l'alleato del ricco, con la speranza di avere da lui di tanto in tanto, in premio dei servigi resigli, una ricca mercede, una lauta mancia. Sono le pesantissime parole di un articolo del 15 gennaio 1944 (Del complesso d'inferiorità) per il settimanale fiorentino "Italia e civiltà“), L'impietoso giudizio è del letterato, giornalista, storico dell'arte Barna Occhini (Occhini, 1971, pp. 25-6). Gli si potrebbe appaiare questo, altrettanto dirompente e velenoso, formulato da Giuseppe Prezzolini a inizio secolo: “C'è un'Italia dei fatti e una delle parole; l'una d'azione, l'altra di dormiveglia e di chiacchiera; l'una dell'officina, l'altra del salotto; una che crea, l'altra che assorbe; una che cammina, l'altra che ingombra. [...] Fra queste due Italie — una che ripete nella sua sonnolente vita gli intrighi quotidiani e le formulette sterili della vecchia generazione, l'altra che agisce, cresce, moltiplica la patria, ma è ignara di sé, senza fini grandi, meschina in politica, meschina in arte, meschina in pensiero — fra le due Italie: una dell'abitudine retorica, curialesca, affarista, l'altra dell'incoscienza feconda di energie ma senza direzione, noi dobbiamo essere e la forza che distrugge la prima e la luce che rischiari la seconda, dobbiamo essere una fiaccola che bruci ed illumini” (Prezzolini, 1904, pp. 3 s.). Una «fiaccola che bruci ed illumini» il cammino verso la meta, benché ancora molto lontana, dell'Italia una e indivisibile. Un solo paese da contrapporre alle "due Italie" di Occhini, dei nazionalisti Prezzolini e Corradini (l'una appassita e indolente, l'altra attiva e rigogliosa), dell'antinazionalista Eduardo Cimbali — la prima "europea" («tutta ricca, tutta sana, tutta colta, tutta progredita, tutta civile») e la seconda "africana" («tutta povera, tutta segregata, tutta malarica, tutta analfabeta, tutta arretrata, tutta barbara», Cimbali, 1912, p. 22,) —, e poi ancora di Giuseppe Fortunato (Fortunato, 1911), Palmiro Togliatti (Togliatti, 1917) e tanti altri fra storici, politici, intellettuali di ieri e di oggi; chiamate soprattutto in causa nel dibattito storiografico e giornalistico sulla questione meridionale (Brigantaggio [1863]), anche nelle celebrazioni «Nord e Sud fanno due nazioni; e l'una, la più misera, fugge oltre gli Oceani. Due nazioni fanno la città e la campagna: attorno ai ridotti dell'industria fermentano tuttora le torbide e tristi Vandee. Il privilegio dell'urna fomenta le camorre, le fraudolenze, le corruttele, le stragi. Nell'assenza politica di tanta parte di popolo, il Cinquantenario appare anticipazione temeraria. Patria una non esiste ancora»: maggio 1911, in "Critica sociale", 16 aprile 1911, p. 113), e nella mole sterminata di studi che essa ha prodotto (cfr., fra i più recenti, Petraccone, 2000 e 2005). Un motivo in più per provare a contrapporre a un'Italia disunita — anche linguisticamente: dal recentissimo Trifone (2011) — o, nella meno sfavorevole delle ipotesi, "debole" (Porciani, 1993), un'idea e un progetto in parte un po' diversi. Non solo per evitare di intonare il solito ritornello sulle anomalie del Bel Paese, o rinunciare ad agitare i fantasmi del passato (e del presente) per proiettarli sugli scenari futuri, ma anche per accarezzare una tenera speranza. L'ottimismo dell'illusione contro il pessimismo della ragione. MASSIMO ARCANGELI FEDERALISMO O UNITA’ D’ITALIA FEDERALISMO “II federalismo è utile economicamente alle masse del Sud, politicamente ai democratici del Nord, moralmente a tutta l'Italia. La propaganda federalista è la sola che possa isterilire nel Sud la propaganda regionalista fatta in malafede dai reazionari unitari. Mentre i regionalisti unitari gridano, per i loro fini occulti, che fra il Nord e il Sud vi è lotta d'interessi, i federalisti devono gridare che non è vero: non vi è lotta fra Nord e Sud: vi è lotta fra le masse del Sud e i reazionari del Sud; vi è lotta fra le masse del Nord e i reazionari del Nord; e come i reazionari del Nord e del Sud si uniscono insieme per opprimere le masse del Nord e del Sud, così le masse delle due sezioni del Paese devono unirsi per sconfiggere a fuochi incrociati la reazione, sia essa delinquente con la camorra e con la mafia, sia ipocritamente onesta con Colombo e Negri”. (Gaetano Salvemini) Non c'è solamente un Risorgimento, né c'è soltanto un'idea di Italia, Unità, Nazione, Popolo. Se l'Italia di Garibaldi e Mazzini risponde all'idea di uno Stato coeso, che non disconosce, ma nemmeno legittima, le autonomie territoriali, l'Italia dei Gioberti, Balbo, Cattaneo e Ferrari guarda al federalismo con ambizione. Le radicate divisioni sociali e culturali, ben rappresentate nell'abisso che separa il Settentrione e il Meridione della Penisola, la frammentazione politica e, prima ancora, ideologica, l'idea ancora acerba di Popolo e Nazione fanno nascere l'ipotesi di unire preservando peculiarità che il dibattito di certi intellettuali percepisce, e dipinge, come incolmabili. «Il supporre che l'Italia, divisa com'è da tanti secoli, possa pacificamente ridursi sotto il potere d'un solo, è demenza» scrisse Gioberti in uno scambio epistolare con Mariani nel 1840. L'unità cui ambire è piuttosto un'unità la quale - aggiunge Gioberti «non che esser nuova agli Italiani, è antichissima nel loro paese, e connaturata al loro genio, ai costumi, alle istituzioni, alle stesse condizioni geografiche della penisola». È l'unità d'Italia concepita nell'ideale - che si rivelerà utopia - di un accordo federale. Nella visione dei moderati Gioberti e Balbo, l'Italia federale si sarebbe dovuta tradurre nella somma «algebrica» degli Stati esistenti, sotto la guida di un capo carismatico: il pontefice, oppure il monarca piemontese. Cattaneo e Ferrari sono propensi invece ad un'ipotesi federalista di matrice repubblicana, articolata cioè attraverso autonomie forti e, per larga parte, indipendenti le une dalle altre. Altrove si suggerì la divisione della Penisola in tre grandi aree: una al Nord, con Torino e Milano sedi rispettivamente del sovrano e del Congresso nazionale; una al Centro, in cui Firenze viene eletta sede del principe e Bologna del Congresso; infine, una al Sud, dove Napoli e Palermo avrebbero ospitato l'una il sovrano e l'altra il Congresso. A Roma si concedeva lo statuto di città libera, capitale morale della federazione e sede del potere pontificio. Prevalse la corrente mazziniana infine su quella federalista. Diverse le motivazioni che animavano gli interlocutori. Il popolo italiano nel pensiero di Gioberti «è un desiderio non un fatto, un germe non una pianta; ma i prìncipi italiani sono una cosa reale». Ma l'unione non può essere lo strumento adatto per dare ai prìncipi italiani un contesto operativo e funzionale. È il riconoscimento storico dell'esperienza medievale. Fondarsi Nazione, riconoscere e riconoscersi in un Popolo - gli italiani, non i romani, i milanesi, i piemontesi o i siciliani – e conquistare infine la libertà richiede analisi lucida e contestualizzazione del passato. Una linea di pensiero che stride profondamente con i contenuti del pensiero mazziniano, tanto nelle premesse quanto nelle conseguenze. L'Italia è, e deve essere, unitaria «perché – sostiene Mazzini - senza Unità non v'è veramente Nazione, perché, senza Unità non v'è forza, e l'Italia, circondata da nazioni unitarie, potenti e gelose, ha bisogno di essere forte, perché il Federalismo ridando vita alle rivalità locali mai spente, spingerebbe l’Italia a retrocedere verso il Medioevo. Prevarrà infine Mazzini. Sarà una vittoria forte e, al tempo. stesso, caduca. Forte perché raggiunta con la convinzione di incontrare la modernità che occasione rarissima nella storia italiana ed europea - si coniugò alla libertà di un popolo intero. Forte perché ottenuta con lo spirito e il coraggio dei giovani, prima ancora che con la lungimiranza dei leader. Forte, perché capace di sconfiggere opposizioni altrettanto solide: soprattutto quelle delle sfere ecclesiastiche e dei governi d'oltralpe. Forte, infine, perché capace di ragionare su se stessa e mettersi in discussione, superando più tardi l'impostazione dello Stato fascista e arrivando così a discutere dell'opportunità dell'impianto costituzionale. Ma fu anche una vittoria caduca. Non seppe - né ha saputo nei 150 anni seguiti al 17 marzo 1861 - imporsi sul pluralismo territoriale con un'amministrazione centrale di matrice francese. Non ha saputo trovare la giusta capacità persuasiva e trasformare la retorica del patriottismo in una retorica condivisa dalle Alpi alla Sicilia. Non ha saputo proporre a tutti gli italiani un valore unitario da tramandare di generazione in generazione, che sopravvivesse al Risorgimento. Se oggi, un secolo e mezzo dopo la sua nascita, l'Italia si interroga ancora sul proprio futuro unitario e muove faticosamente verso non uno, ma tanti e diversi federalismi fiscali, politici, sociali, culturali - è perché il dibattito sul suo ruolo e la consapevolezza di se stessa non sono mai giunti a compimento. Quest'ultimo aspetto, tuttavia, non necessariamente appare come uno svantaggio. Se oggi l'Italia discute del proprio futuro è perché ha compiuto un cammino e oggi non solo è ancora in movimento, ma è avida di novità. Viva L’Italia Grazie per l’attenzione Mario Girola