Il libro Erano le sei e mezzo di una sera come tante a Manhattan e il sole basso allungava le ombre quando il marito di Laurie Moran fu barbaramente ucciso sotto lo sguardo innocente del figlio, al campo giochi non lontano da casa. Timmy aveva solo tre anni e fu l’unico a vedere in volto l’assassino del padre e a incrociare quegli occhi blu che ancora oggi tormentano i suoi sogni. Un efferato delitto per il quale neanche Laurie è mai riuscita a darsi pace, perseguitata dalla promessa fatta dal killer prima di uscire di scena: «Di’ a tua mamma che adesso tocca a lei. Poi sarà il tuo turno». Ora, a distanza di anni, Laurie si ritrova ancora alle prese con la morte, questa volta come produttrice di un nuovo programma televisivo dedicato a vecchi crimini rimasti irrisolti. Il primo caso ad andare in onda riguarda l’omicidio di Betsy Powell, una ricca signora trovata morta soffocata nel suo letto l’indomani mattina della festa di diploma della figlia e delle sue tre migliori amiche. All’epoca la notizia aveva fatto molto scalpore. Riaprendo il caso e invitando in studio le quattro ragazze, ormai donne, per ricostruire quelle terribili ore, Laurie è certa di avere per le mani un successo garantito. Ma non appena le telecamere si accendono, diventa chiaro che ognuna di loro sta nascondendo segreti. Piccoli e grandi. E un paio di occhi blu sta osservando da molto vicino lo svolgersi degli eventi… Alla sua pubblicazione in Inghilterra e USA, La notte ritorna ha conquistato già nella prima settimana i vertici delle classifiche dei libri più venduti ed è stato bestseller n. 1 del New York Times. Mary Higgins Clark – «la Signora dell’alta tensione», come l’ha definita il New Yorker – regala ai suoi lettori un nuovo capolavoro di suspense. L’autrice Mary Higgins Clark, acclamata autrice di numerosissimi bestseller internazionali – come La culla vuota e La notte mi appartiene – che hanno venduto oltre trecento milioni di copie nel mondo, è nota come la Regina della suspense. Vive a Saddle River, nel New Jersey, con il marito. Madre di cinque figli, si divide tra la scrittura e i molti nipoti. www.maryhigginsclark.com MARY HIGGINS CLARK LA NOTTE RITORNA Traduzione di Helma Benassi A John e ai nostri figli e nipoti del ramo Clark e Conheeney, con affetto Ringraziamenti DUNQUE, ancora una volta la storia è arrivata alla sua fine. Ieri sera ho scritto le ultime parole e poi ho dormito per dodici ore. Questa mattina mi sono svegliata felice di sapere che tutti gli appuntamenti con i miei amici, precedentemente annullati, potevano essere ripristinati. Ma è così bello raccontare un’altra storia, condividere un altro viaggio con personaggi creati da me e ai quali ho finito per affezionarmi... forse sì e forse no. Come al solito, ormai da quarant’anni il capitano della mia nave è stato il mio editor, Michael V. Korda. Io gli mando da venti a venticinque pagine alla volta. La sua telefonata che dice «le pagine vanno benissimo» è musica per le mie orecchie. Lascia che ti ripeta una volta ancora, con tutto il cuore, Michael, che lavorare con te è una benedizione. Marysue Rucci, la nuova caporedattrice alla Simon & Schuster, è stata amica e mentore meravigliosa. Lavorare con lei è una gioia. La squadra domestica comincia dalla mia mano destra, Nadine Petry, mia figlia Patty e mio figlio Dave, Agnes Newton e Irene Clark. E naturalmente John Conheeney, marito straordinario, e tutta quanta la mia famiglia. Sentiti ringraziamenti a Gypsy da Silva, la redattrice, e Jackie Seow, l’art director. Grazie anche a Elizabeth Breeden. È ora di pensare al dopo. Ma rimanderò per il momento. In fondo domani è un altro giorno. Prologo AL parco giochi della Quindicesima Strada a Manhattan, non lontano da casa, il dottor Greg Moran spingeva il suo bambino, Timmy, sull’altalena. «Ultimi due minuti», annunciò ridendo e dando un’altra spinta abbastanza forte da far contento il piccolo monello di tre anni, ma non tanto forte da rischiare di farlo cadere. Era una scena a cui in passato aveva spesso assistito e quando metteva Timmy su una di quelle altalene era sempre estremamente prudente. Come medico del pronto soccorso era un esperto di incidenti. Erano le sei e mezzo di sera e l’aria si era fatta un po’ pungente, a ricordargli che il successivo weekend si celebrava il Labor Day. «Ancora un minuto», disse con fermezza. Prima di portare Timmy al parco giochi, Greg era stato in servizio per dodici ore in un pronto soccorso più caotico che mai. In una gara di macchine sulla Prima Avenue i giovani che si trovavano a bordo di due auto erano rimasti coinvolti in un terribile schianto. Miracolosamente nessuno aveva perso la vita, ma tre dei ragazzi avevano riportato ferite molto gravi. Greg staccò le mani dall’altalena in modo che rallentasse fino a fermarsi. Se Timmy non aveva tentato inutilmente di protestare significava che era pronto a tornare a casa anche lui. In ogni caso in tutto il parco giochi c’erano solo loro due. «Dottore!» Quando si girò, Greg si trovò faccia a faccia con un uomo di statura media, muscoloso, il viso nascosto sotto una sciarpa. Gli puntava una pistola alla testa. Con una mossa istintiva, Greg si spostò di lato per allontanarsi il più possibile da Timmy. «Senti, il portafogli è in questa tasca», disse in un tono pacato. «Prendilo pure.» «Papà.» Timmy era spaventato. Ancora sul seggiolino dell’altalena, si era girato e aveva guardato lo sconosciuto negli occhi. Nei suoi ultimi istanti di vita, Greg Moran, trentaquattro anni, medico apprezzato, marito e padre affettuoso, cercò di lanciarsi sul suo aggressore, ma non poté in alcun modo sottrarsi al colpo fatale che lo raggiunse con micidiale precisione al centro della fronte. «PAPÀÀÀÀÀÀÀ!» strillò Timmy. L’assassino corse verso la strada, poi si fermò e si voltò. «Timmy», gridò, «di’ a tua madre che adesso tocca a lei. Poi sarà il tuo turno.» Margy Bless, un’anziana signora che stava tornando a casa dalla panetteria del quartiere dove lavorava part-time, udì il colpo di pistola e le minacce. Restò immobile per alcuni lunghi secondi come per capacitarsi della scena spaventosa di cui era stata testimone: l’uomo che scompariva correndo dietro l’angolo con la pistola ancora in pugno, il bambino che urlava sull’altalena, l’altro uomo accasciato al suolo. Le tremavano così forte le mani che le ci vollero tre tentativi prima di riuscire a digitare il 911. All’operatrice che rispose, Margy riuscì solo a balbettare: «Presto! Presto! Potrebbe tornare! Ha ucciso un uomo e poi ha minacciato il bambino!» La voce le morì in gola mentre Timmy si metteva a gridare: «Occhi Blu ha ucciso il mio papà... Occhi Blu ha ucciso il mio papà!» 1 DALLA finestra del suo ufficio al venticinquesimo piano del Rockefeller Center, Laurie Moran osservava la pista di pattinaggio al centro del famoso complesso di Manhattan. Era una giornata di marzo, serena ma fredda, e da lassù guardava le goffe e pericolanti manovre dei principianti in netto contrasto con i pattinatori più esperti le cui lame solcavano il ghiaccio con la grazia di ballerini classici. Suo figlio Timmy, di otto anni, era un patito di hockey ed era seriamente intenzionato a entrare nella squadra dei New York Rangers. Laurie sorrise pensando al volto di Timmy, i suoi espressivi occhi marroni brillanti di gioia nell’immaginare se stesso da grande a difendere la porta dei Rangers. A quell’età sarebbe emersa del tutto la somiglianza con Greg, pensò Laurie, ma si distolse in fretta da quella considerazione e tornò a occuparsi del progetto che stava esaminando. A trentasei anni, con i capelli color del miele lunghi sulle spalle, occhi nocciola tendenti più al verde che al marrone, fisico snello e lineamenti classici che non avevano bisogno di trucco, Laurie era quel tipo di donna che le persone si voltano a guardare. «Bella e di classe», veniva descritta il più delle volte. Famosa produttrice di programmi alla Fisher Blake Studios, si accingeva a lanciare una nuova serie televisiva su omicidi irrisolti che aveva già messo in cantiere prima della morte di Greg. Aveva in seguito accantonato il progetto nel timore si pensasse che avesse preso spunto dal tragico caso del marito. L’idea era di inscenare delitti dei quali non era stato trovato il colpevole, ricorrendo ad amici e parenti delle vittime anziché veri attori, per ascoltare dalle loro voci la loro versione di quello che era successo all’epoca del crimine. In tutti i casi in cui fosse stato possibile, l’ambientazione sarebbe stata quella reale. Era un’impresa rischiosa, con tutti gli elementi per ottenere un grande successo, ma anche per scatenare un grande dibattito. Si era appena vista con Brett Young, il suo capo, che le aveva rammentato il giuramento di non occuparsi mai più un altro reality show. «I tuoi ultimi due flop ci sono costati un occhio della testa, Laurie», le aveva fatto notare. «Non possiamo permettercene un terzo. E», con un’aggiunta allusiva, «non puoi permettertelo neanche tu.» Ora, in compagnia del caffè che si era portata in ufficio tornando dall’incontro delle due del pomeriggio, Laurie riandò all’appassionata perorazione con cui era riuscita a convincerlo. «Brett, prima che tu mi ripeta per l’ennesima volta quanto sei stufo dei reality, ti prometto che questo sarà diverso. Lo chiameremo Under Suspicion. Nella presentazione che ti ho preparato, a pagina due, troverai una lunga lista di casi rimasti irrisolti e di altri che si presume siano stati risolti, ma dove emerge con evidenza la possibilità che in prigione sia finita la persona sbagliata.» Si guardò intorno. Ciò che vide confermò la sua risolutezza ad andare fino in fondo. Il suo ufficio era abbastanza grande da contenere un divano sotto le vetrate e una grande libreria nei cui scaffali erano in bella mostra tutti i premi ricevuti e alcune foto di famiglia, per lo più di suo padre e di Timmy. Molto tempo prima aveva deciso che le immagini di Greg dovessero essere riservate alla sua casa e alla sua camera da letto, non esposte lì, dove inevitabilmente avrebbero ricordato a tutti che lei era vedova e che l’assassino di suo marito non era mai stato scoperto. «Il rapimento del figlio di Lindbergh è al primo posto nella tua lista», aveva ribattuto Brett. «È una storia di ottant’anni fa. Non avrai in mente di rivangare quella, spero.» Laurie gli aveva spiegato che era un buon esempio di uno di quei fatti criminosi di cui si parlava per generazioni non solo per il tragico esito, ma anche per i molti interrogativi rimasti senza risposta. Bruno Hauptmann, l’immigrato tedesco che era stato giustiziato per il rapimento del piccolo Lindbergh, era quasi certamente colui che aveva costruito la scala con cui il rapitore aveva avuto accesso alla camera del neonato. Ma come faceva a sapere che tutte le sere la tata lasciava il bambino solo proprio in quei quarantacinque minuti per andare a cenare? Chi glielo aveva detto? Aveva quindi raccontato a Brett dell’omicidio irrisolto di una delle figlie gemelle del senatore Charles H. Percy. Era successo all’inizio della sua prima campagna per il Senato nel 1966. Lui era stato eletto, ma il delitto non era mai stato risolto ed era rimasto il dubbio che fosse stata uccisa la gemella sbagliata. E se uno sconosciuto si era introdotto nell’abitazione, come mai il cane non aveva abbaiato? Il fatto è, aveva spiegato a Brett, che quando cominci a parlare di casi come quello, non c’è nessuno che non abbia una propria teoria. «Produrremo un reality su delitti avvenuti tra i venti e i trent’anni fa, raccogliendo i punti di vista delle persone più vicine alla vittima», aveva annunciato. «E ho già il caso perfetto per la prima puntata: il Graduation Gala.» Era a quel punto che Brett aveva manifestato vero interesse, notò Laurie. Siccome abitava nella contea di Westchester, era una storia che conosceva bene: vent’anni prima, quattro giovani donne che erano cresciute assieme a Salem Ridge si erano laureate in quattro college diversi. Il patrigno di una di loro, Robert Nicholas Powell, aveva organizzato una festa in onore di tutte e quattro, battezzandola «Graduation Gala»: trecento invitati, abiti eleganti, champagne e caviale, fuochi d’artificio, di tutto e di più. Dopo la festa, la figlia adottiva e le sue tre amiche avevano dormito a casa sua. L’indomani mattina la moglie quarantaduenne di Powell, Betsy Bonner Powell, una nota ed esuberante protagonista della mondanità locale, era stata trovata morta soffocata nel suo letto. Il caso non era mai stato risolto. Rob, come tutti chiamavano Powell, aveva ormai settantotto anni, ma era in eccellenti condizioni fisiche e mentali e viveva ancora nella vecchia casa. Non si era mai risposato, ricordò Laurie. Non molto tempo prima aveva rilasciato un’intervista a The O’Reilly Factor in cui aveva ribadito di essere disposto a tutto pur di far luce sul mistero della morte della moglie e di sentirsi sicuro che il suo stato d’animo fosse condiviso dalla figlia e dalle sue amiche. Erano tutti convinti che, finché non si fosse conosciuta la verità, il dubbio che a uccidere Betsy fosse stato uno di loro avrebbe serpeggiato tra la gente. È lì che Brett mi ha autorizzato a contattare Powell e le quattro donne per sapere se fossero disposte a partecipare, pensò Laurie esultante. Era ora di dare la buona notizia a Grace e Jerry. Chiamò i due assistenti e passarono solo pochi secondi prima che la porta del suo ufficio si spalancasse. Grace Garcia, venticinque anni, sua assistente amministrativa, indossava un corto vestitino rosso di lana su leggings di cotone e stivali alti con i bottoni. Aveva raccolto i lunghissimi capelli neri, fissandoli con un pettinino. I riccioli sfuggiti al fermaglio le incorniciavano il viso a forma di cuore. L’abbondante mascara applicato con perizia accentuava la vivacità dei suoi occhi scuri. Un passo dietro di lei c’era Jerry Klein. Alto e dinoccolato, andò a sistemarsi subito su una delle poltroncine davanti alla scrivania di Laurie. Indossava come sempre dolcevita e cardigan. Dichiarava di voler far durare per almeno vent’anni l’unico vestito blu e l’unico smoking in suo possesso. E Laurie era sicura che ce l’avrebbe fatta. Ora ventiseienne, era entrato allo studio tre anni prima con un contratto a termine di pochi mesi. Come assistente alla produzione si era dimostrato indispensabile. «Non vi terrò sulle spine», esordì Laurie. «Brett ci ha dato il via libera.» «Lo sapevo!» proruppe Grace. «Io l’ho capito dall’espressione che avevi quando sei uscita dall’ascensore», fece eco Jerry. «Nient’affatto», lo rintuzzò Laurie. «Io ho una faccia da poker. Comunque, per cominciare ho l’incarico di mettermi in contatto con Robert Powell. Se avrò il suo benestare, da quel che ho visto della sua intervista, sono quasi certa che saranno propense a partecipare al progetto anche la figlia e le sue tre amiche.» «Soprattutto perché saranno pagate profumatamente e nessuna di loro si può definire ricca», commentò Jerry ricordando le informazioni raccolte durante le fasi preliminari del progetto. «Claire Bonner, la figlia di Betsy, fa l’assistente sociale a Chicago. Nubile. Nina Craig è divorziata e vive a Hollywood, dove si mantiene facendo la comparsa nei film. Alison Schaefer lavora come farmacista in un piccolo drugstore di Cleveland. Ha un marito invalido, vittima di un pirata della strada vent’anni fa. Regina Callari si è trasferita a St. Augustine in Florida, dove ha una piccola agenzia immobiliare. Divorziata con un figlio al college.» «Ci stiamo esponendo a un bel rischio», li ammonì Laurie. «Brett mi ha già ricordato che le ultime due serie sono stati dei fiaschi.» «E ha parlato delle prime due che stanno andando ancora forte?» ribatté indignata Grace. «No, questo non lo ha fatto. E non lo farebbe mai. Io però sento che questa è un’idea vincente. Se Robert Powell ci sta, sono quasi pronta a scommettere che tireremo dentro anche le altre», concluse Laurie. «Diciamo che lo spero vivamente e prego che succeda», ritenne di dover aggiungere subito dopo. 2 QUANDO ormai si dava per scontato che sarebbe stato lui il prossimo commissario, il vice Leo Farley della polizia di New York aveva inaspettatamente presentato richiesta di prepensionamento, il giorno dopo i funerali del genero. A distanza di cinque anni, non aveva mai avuto ripensamenti. A sessantatré anni era ancora un poliziotto fin nel profondo dell’anima. Da sempre aveva avuto l’intenzione di esserlo anche nella pratica fino al giorno del pensionamento contrattuale, ma qualcosa di più importante aveva cambiato i suoi programmi. L’inspiegabile uccisione a sangue freddo di Greg e la minaccia udita dall’anziana testimone, «Timmy, di’ a tua madre che adesso tocca a lei, poi sarà il tuo turno», erano una ragione più che sufficiente per decidere di dedicare la propria vita alla protezione della figlia e del nipote. Dritto come un palo, di statura media, con una folta chioma color grigio ferro e un fisico tonico tenuto a regime, Leo Farley era in una costante condizione di allerta. Sapeva di non poter tenere sempre sotto controllo la figlia. Lei aveva un lavoro che amava e di cui aveva bisogno. Usava i mezzi pubblici, faceva lunghe corse a Central Park, e con il bel tempo pranzava spesso in una delle piccole isole di verde nei dintorni dell’ufficio. Altra questione era rappresentata da Timmy. Per come la vedeva Leo, non c’era niente che impedisse all’assassino di Greg di decidere di prendere di mira Timmy prima di sua madre, perciò si era autoproclamato suo angelo custode. Era lui ad accompagnare tutte le mattine il nipote alla Saint David’s School ed era lui ad aspettare che uscisse. Se Timmy aveva da svolgere qualche attività supplementare dopo la scuola, Leo montava con discrezione di guardia ai bordi della pista di pattinaggio o dell’area di ricreazione. Per Leo, Greg Moran aveva rappresentato il figlio maschio ideale. Erano passati ormai dieci anni da quando si erano conosciuti al pronto soccorso del Lenox Hill Hospital. Era lì che lui e Eileen si erano precipitati appena ricevuta la telefonata con cui li informavano che Laurie, la loro figlia ventiseienne, era stata investita da un taxi in Park Avenue ed era priva di sensi. «Si è svegliata e sta bene», erano le convincenti e rassicuranti parole con cui li aveva ricevuti Greg, alto e imponente nella sua verde divisa ospedaliera. «Una frattura alla caviglia e una commozione cerebrale. La terremo in osservazione, ma è fuori pericolo.» A quella notizia Eileen, in preda com’era ad angoscia e disperazione, aveva perso i sensi e Greg si era trovato con un’altra paziente da accudire. L’aveva sorretta intervenendo con tempismo prima che cadesse. Da allora non era più uscito dalle loro vite, pensò Leo. Già tre mesi dopo Greg e Laurie erano fidanzati. E alla morte di Eileen, avvenuta solo un anno più tardi, Greg era stato un incrollabile sostegno per tutti. Perché mai qualcuno l’aveva voluto morto? L’indagine era stata più che meticolosa, nulla era rimasto intentato nello sforzo di trovare chi potesse covare motivi di rancore verso Greg, per quanto impensabile risultasse a chiunque lo avesse conosciuto. Dopo aver velocemente eliminato amici e compagni di corso, avevano esaminato puntigliosamente tutti i dati relativi al suo operato, prima come interno, e poi come direttore del personale. Nei due ospedali in cui aveva lavorato non emerse nulla in merito a qualche paziente o suo famigliare che lo avesse accusato di una diagnosi errata o di una terapia sfociata in un danno permanente o un decesso. Alla procura distrettuale il caso era conosciuto come l’«assassino dagli occhi blu». Capitava alle volte che Timmy avesse un sussulto nel girarsi all’improvviso a incrociare lo sguardo di Leo, i cui occhi erano di un’intensa sfumatura di celeste. Era sicuro anche lui, come Laurie e lo psicologo, che l’uomo che aveva ucciso Greg dovesse aver avuto grandi e penetranti occhi azzurri. Laurie aveva discusso con il padre la sua idea per la nuova serie televisiva, da lanciare con il caso del Graduation Gala. Leo aveva tenuto per sé il proprio sconcerto. L’idea che la figlia riunisse un gruppo di persone tra le quali probabilmente si nascondeva un assassino non poteva non turbarlo. Qualcuno aveva odiato abbastanza Betsy Bonner Powell da soffocarla con un cuscino. Quella stessa persona aveva sicuramente un forte senso di autoconservazione. Leo sapeva che venti anni prima le quattro giovani donne e il marito di Betsy erano stati interrogati dai più abili ed esperti detective della Omicidi. Se in quella casa era entrato qualcuno riuscendo a non lasciare traccia della sua intrusione e se quel caso fosse diventato l’argomento di un programma televisivo, omicida e indiziati si sarebbero trovati di nuovo tutti insieme: una situazione molto pericolosa. Erano questi i pensieri che occupavano la mente di Leo mentre riaccompagnava a casa Timmy dalla scuola. Dopo la morte di Greg, Laurie aveva immediatamente traslocato non potendo sopportare la vista del parco giochi in cui era stato ucciso il marito. Una macchina di pattuglia di passaggio rallentò incrociandoli e l’agente di fianco al conducente indirizzò a Leo un saluto militare. «Mi piace quando ti salutano così, nonno», squittì Timmy. «Mi fa sentire al sicuro», aggiunse poi con distaccato realismo. Attento, si ammonì Leo. Ho sempre detto a Timmy che se io non fossi stato presente e lui o i suoi amici avessero avuto un problema, dovevano chiedere aiuto a un poliziotto. Aumentò involontariamente la pressione sulla mano di Timmy. «Finora non hai avuto alcun problema che io non potessi risolvere per te.» Poi, come per un ripensamento, soggiunse: «Almeno per quel che ne so». Erano quasi arrivati a casa. Il vento aveva cambiato direzione e soffiava loro in faccia. Leo si fermò per calcare meglio su orecchie e fronte il berretto di lana di Timmy. «Stamattina a uno delle medie che stava andando a scuola a piedi hanno cercato di strappare di mano il cellulare», raccontò Timmy. «Era un tizio in bici. Ma un poliziotto ha visto tutto e lo ha arrestato.» L’aggressore non aveva gli occhi blu. Leo si vergognava di dover ammettere di averne provato un enorme sollievo. Finché non avessero preso l’assassino di Greg non si sarebbe dato pace. Ma prima o poi verrà il giorno in cui sarà fatta giustizia, disse tra sé. Quella stessa mattina, mentre usciva di corsa da casa già pochi secondi dopo il suo arrivo, Laurie gli aveva annunciato che avrebbe avuto il verdetto finale sul reality show. Da quel momento Leo era vissuto nell’ansia, ben sapendo che avrebbe dovuto aspettare fino a sera per sapere quale decisione fosse stata presa. Davanti alla loro seconda tazza di caffè, quando Timmy aveva ormai finito di cenare ed era raggomitolato nella poltrona grande con il suo libro, Laurie ne avrebbe discusso con lui. Dopodiché Leo sarebbe tornato a casa sua, a poche centinaia di metri dall’abitazione della figlia. Si era assunto l’impegno di riservare il giusto spazio che Laurie e Timmy meritavano e gli era sufficiente sapere che nessuno poteva entrare nel loro palazzo senza che il portiere li avvertisse. Ma se le danno il via libera per quella serie, non c’è da aspettarsi nulla di buono, pensava. Come sbucando dal nulla, un uomo in felpa con cappuccio, occhiali scuri e una borsa di tela a tracolla gli sfrecciò accanto sui rollerskate e per poco non fece cadere Timmy, sfiorando quindi una giovane donna visibilmente incinta che si trovava a due o tre metri da loro. «Scendi dal marciapiede!» gridò Leo allo skater nell’attimo in cui scompariva oltre l’angolo. Dietro gli occhiali scuri, uno scintillio illuminò gli occhi azzurri, accompagnato da una forte risata. Gli incontri di quel genere alimentavano la sensazione di potere di cui aveva bisogno e che provò nel momento in cui toccò letteralmente Timmy, sapendo di poter in qualsiasi momento mettere in pratica la sua minaccia. 3 ROBERT Nicholas Powell aveva settantotto anni, ma a giudicare dall’aspetto e dal dinamismo ne dimostrava dieci di meno. I capelli, ancora folti, erano bianchi, i lineamenti piacenti, il portamento ancora eretto, anche se aveva perso qualche centimetro dal metro e ottantacinque originale. Dava un’impressione di autorevolezza che veniva immediatamente percepita da chiunque si trovasse al suo cospetto. Tolto il venerdì, trascorreva ancora giornate piene nel suo ufficio di Wall Street, accompagnato in macchina come sempre dal fedele autista Josh Damiano. Quel giorno, martedì 16 marzo, Rob aveva deciso di restare a casa e incontrare Laurie Moran nella sua abitazione di Salem Ridge e non in ufficio. La produttrice televisiva gli aveva spiegato il motivo della sua visita sollecitando con astuzia la sua curiosità. «Signor Powell», gli aveva detto, «penso che se lei, sua figlia e le sue amiche accetteranno di ricostruire le circostanze di quel Graduation Gala, il pubblico si renderà conto di quanto incredibile sia sospettare che qualcuno di voi possa essere stato responsabile della morte di sua moglie. Il vostro era un matrimonio felice. È una cosa che sapevano tutti coloro che vi conoscevano. Sua moglie e sua figlia andavano d’amore e d’accordo. Le altre tre neolaureate avevano frequentato costantemente la casa di Betsy dai tempi del liceo e successivamente, quando lei sposò Betsy, continuarono a essere ospiti gradite. Lei ha una casa molto grande e con tutta la gente che c’era a quella festa è più che possibile che qualcuno si sia introdotto senza che nessuno se ne accorgesse. Si sapeva della preziosa collezione di gioielli di sua moglie che quella sera aveva indossato la parure di smeraldi.» «I giornali trasformarono una tragedia in uno scandalo.» Nelle orecchie di Robert Powell risuonava ancora l’amaro commento con cui aveva risposto a Laurie Moran. Comunque, fra poco sarà qui, pensò, vediamo cosa succede. Era alla scrivania del suo spazioso ufficio al pianterreno. Le ampie vetrate si affacciavano sul giardino dietro la casa. Un panorama splendido in primavera, in estate e all’inizio dell’autunno, considerò Rob. D’inverno, il giardino spoglio tornava a offrire una vista addolcita e talvolta resa magica dalla neve, ma in una giornata di marzo fredda, umida e sotto una coltre di nubi scure, con gli alberi denudati, la vasca della piscina coperta e la dépendance chiusa in attesa della bella stagione, non c’era pianta esotica in grado di mitigare la crudezza del paesaggio invernale. La poltrona imbottita che occupava era molto confortevole e sorrise tra sé meditando sul segreto mai condiviso con nessuno. Era sicuro che star seduto a quella imponente, antica scrivania di mogano con le eleganti incisioni sui lati e sulle gambe conferisse ancor più prestigio all’immagine coltivata con tanta cura. Era l’immagine che aveva cominciato a creare il giorno in cui, a diciassette anni, aveva lasciato Detroit per il suo ingresso da borsista a Harvard. All’università si era sempre vantato di avere una madre professoressa di college e un padre ingegnere, quando in realtà sua madre lavorava nelle cucine dell’Università del Michigan e suo padre faceva il meccanico in uno stabilimento della Ford. Sorrise ricordando come, da studente del secondo anno, si era comprato un manuale di buone maniere e un set di vecchia posateria argentata con cui fare pratica con utensili a lui poco familiari come per esempio il coltello da pesce fino a saperli usare con disinvoltura. Conseguita la laurea, dopo un periodo di apprendistato alla Merrill Lynch, aveva dato inizio alla sua carriera nel mondo della finanza. Ora, nonostante qualche periodo di incertezze, il R. N. Powell Hedge Fund era considerato uno degli investimenti migliori e più sicuri di Wall Street. Alle undici in punto la suoneria melodica della porta d’ingresso annunciò l’arrivo di Laurie Moran. Rob si mise diritto. Si sarebbe ovviamente alzato in piedi quando la sua visitatrice fosse stata accompagnata nel suo ufficio, ma non prima che lo vedesse seduto alla scrivania. Si sentiva inaspettatamente molto curioso di conoscerla. Gli era stato impossibile stabilire quanti anni potesse avere, a giudicare dalla voce udita al telefono. Nel presentarsi, il tono era stato pratico, sbrigativo, ma poi la donna aveva lasciato trasparire una nota di commozione nel parlare della morte di Betsy. Dopo la loro conversazione, aveva cercato informazioni su di lei nella rete ed era rimasto non poco colpito nello scoprire che era la vedova del medico ucciso al parco giochi e che vantava riconoscimenti importanti nel mondo della produzione televisiva. Le fotografie gli avevano rivelato una persona molto attraente. E io non sono ancora troppo vecchio per non apprezzarlo, aveva pensato Rob. Bussarono alla porta e un attimo dopo entrò Jane, la sua governante dai tempi di Betsy, seguita da Laurie Moran. «Grazie, Jane», disse Rob e prima di alzarsi aspettò che fosse uscita chiudendosi la porta alle spalle. «Signora Moran», salutò allora in tono cortese. Le porse la mano e le indicò la poltrona davanti alla scrivania. Robert Powell non poteva sapere che cosa stesse pensando Laurie. Ebbene, eccoci qui, diceva tra sé mentre si accomodava con un sorriso cordiale. La governante si era presa cura del cappotto, dopodiché Laurie entrò con il suo completo giacca e pantaloni gessato blu scuro, una camicetta bianca e stivali intonati. Gli unici gioielli erano due perle alle orecchie e la fede nuziale d’oro. Aveva raccolto i capelli in una compatta treccia alla francese fermata con delle forcine, un’acconciatura che la faceva sentire più efficiente. Nel giro di cinque minuti fu certa che Robert Powell avesse già deciso di accettare la sua proposta, ma a lui ce ne vollero dieci per confermarlo. «Signor Powell sono felice che abbia accettato di rimettere in scena gli avvenimenti della sera del Graduation Gala. Ora naturalmente avremo bisogno della collaborazione di sua figlia e delle sue amiche. Mi aiuterà a convincerle a partecipare?» «Lieto di venirle incontro, anche se ovviamente non posso dare assicurazioni per loro conto.» «Ha mantenuto rapporti stretti con la figlia della sua defunta moglie?» «No. Non che non lo avessi desiderato. Ero e sono molto affezionato a Claire. È vissuta qui da quando aveva tredici anni fino al compimento dei ventuno. La morte di sua madre è stata uno choc terribile per lei. Non so quanto si sia informata su Claire, ma deve sapere che i suoi genitori non si erano mai sposati. Il padre se ne andò appena Betsy rimase incinta. Betsy recitava in qualche particina a Broadway e quando non era in scena lavorava come maschera. Furono momenti duri per lei e Claire prima che arrivassi io.» Fece una pausa. «Betsy era molto bella», riprese. «Sono sicuro che avrebbe facilmente trovato un marito, ma dopo quello che le era successo con il padre di Claire so che l’idea la mandava in ansia.» «Lo posso capire», annuì Laurie. «Anch’io. Non avendo figli miei, ho sempre considerato Claire come una figlia naturale. Mi ha addolorato quando se ne è andata così in fretta dopo la morte di Betsy. Ma credo che fra tutti e due lo strazio fosse troppo grande per rimanere sotto un solo tetto, una situazione che lei colse all’istante. Come lei sicuramente saprà, vive a Chicago dove fa l’assistente sociale. Non si è mai sposata.» «Qui non è mai tornata?» «No. E non ha mai accettato la mia offerta di un sostanzioso aiuto economico. Ha stracciato le mie lettere e me le ha rispedite.» «Secondo lei perché ha agito così?» chiese Laurie. «Era profondamente gelosa della mia relazione con sua madre. Non si dimentichi che per tredici anni erano vissute da sole.» «Crede dunque che rifiuterà di prendere parte al programma?» «No, questo no. È capitato di tanto in tanto che un giornalista intraprendente abbia scritto del caso e alcuni di loro hanno citato dichiarazioni di Claire o di una delle altre ragazze. Le loro posizioni sono sempre risultate concordi. Hanno tutte l’impressione che la gente le guardi con sospetto e farebbe loro piacere mettere fine a questo clima.» «Abbiamo intenzione di offrire a ciascuna cinquantamila dollari per la loro partecipazione al programma», lo informò Laurie. «Non le ho mai perse di vista. È una somma che può far comodo a tutte e quattro. Per avere la certezza che accettino, la autorizzo a dire che sono pronto a versare a ciascuna un quarto di milione di dollari per la loro collaborazione.» «Sul serio?» si meravigliò Laurie. «Sì. E mi informi su chi altri vuole intervistare nel suo programma.» «Direi che sicuramente vorrò sentire che cos’ha da raccontare la sua governante», rispose Laurie. «Dia anche a lei i cinquantamila che intende offrire alle altre e io ne aggiungerò altrettanti. Mi assicurerò che si metta a sua disposizione, ma non è necessario che venga pagata come le altre. Io ho settantotto anni e tre stent nelle arterie che portano al cuore. So di essere sospettato anch’io come le ragazze, so di essere un indiziato o una ‘persona informata dei fatti’ come si preferisce dire oggigiorno, no? Prima di morire voglio sedermi in un’aula di giustizia e vedere l’assassino di Betsy condannato al carcere.» «Non ha mai sentito nessun rumore provenire dalla sua stanza?» «No. Come sicuramente saprà, occupavamo una suite. Fra le nostre due camere da letto c’era un salotto. Confesso di avere un sonno profondo e di russare parecchio. Dopo che ci siamo scambiati la buonanotte, mi ero ritirato nella mia stanza.» Quella sera Laurie attese che Timmy fosse immerso nella lettura del suo libro di Harry Potter prima di riferire al padre dell’incontro con Powell. «So che dovrei evitare i giudizi affrettati», disse, «ma ho sentito un’eco di sincerità nella voce di Powell. E la sua offerta di dare un quarto di milione di dollari alle ragazze è fantastica.» «Un quarto di milione più quello che verserai loro tu», precisò Leo. «Hai detto che Powell sa che a tutte e quattro quelle donne faranno comodo tutti quei soldi.» «Sì, così ha sostenuto.» Laurie sentì di aver assunto un atteggiamento difensivo. «E ha mai aiutato nessuna di loro in questi anni, compresa la figlia di sua moglie?» «Ha fatto intendere di no.» «Io credo che sia un aspetto sul quale dovresti indagare. Chissà qual è il vero motivo per cui è disposto a sganciare tutti quei quattrini.» Era nella natura di Leo voler sapere che cosa c’era dietro le iniziative della gente. Era il poliziotto che aveva dentro. E il padre. E il nonno. A quel punto decise di finire il caffè e tornare a casa. Sto diventando ipersensibile, pensava, e questo non è un bene né per Laurie né per Timmy. Anche il modo in cui ho gridato a quel tizio sui rollerskate. Avevo ragione di protestare, avrebbe potuto investire qualcuno, ma a spaventarmi davvero è stato vederlo strusciare Timmy. Se fosse stato armato, con una pistola o un coltello, nemmeno tenendo Timmy per mano avrei potuto intervenire abbastanza in fretta per proteggerlo. Era troppo vecchio del mestiere per non sapere che se qualcuno decideva di sfogare il proprio rancore verso una persona, non esisteva al mondo protezione o sorveglianza che potesse impedirgli di uccidere la sua vittima. 4 CLAIRE Bonner prese posto a un tavolino del Seafood Bar del Breakers Hotel a Palm Beach. Era sul lato dell’oceano e osservò con svogliato interesse le onde che si abbattevano sul frangiflutti direttamente sotto il bar. In cielo splendeva il sole ma il vento era più forte di quanto si fosse aspettata in Florida in una giornata di inizio primavera. Indossava una giacchetta celeste con la zip che aveva appena acquistato. Aveva deciso di prenderla quando si era accorta che sul taschino portava la scritta THE BREAKERS. Faceva parte della fantasia del weekend lungo che stava trascorrendo in Florida. I corti capelli biondo cenere incorniciavano un viso nascosto per metà da enormi occhiali da sole. Raramente si toglieva quegli occhiali, ma quando accadeva, Claire rivelava lineamenti raffinati e un’espressione di tranquillità a cui aveva lavorato per anni. Un osservatore attento si sarebbe accorto tuttavia che quell’espressione era più dovuta all’accettazione della realtà che a un’autentica pace interiore. Nella figura snella si intuiva la fragilità di una persona convalescente. Lo stesso osservatore le avrebbe assegnato trentacinque anni di età. In questo caso si sarebbe sbagliato. Ne aveva quarantuno. Nei quattro giorni trascorsi l’aveva sempre servita lo stesso, cortese, giovane cameriere, che questa volta avvicinandosi al suo tavolo le si rivolse chiamandola per nome. «Mi lasci indovinare, signora Bonner», disse. «Zuppa di frutti di mare e doppia porzione di chele di granchio.» «Indovinato», rispose Claire lasciando comparire l’abbozzo di un sorriso agli angoli delle labbra. «E il solito bicchiere di chardonnay», aggiunse lui prendendo nota. Fai una cosa per alcuni giorni di fila e diventa il solito, rifletté Claire con sarcasmo. Lo chardonnay arrivò subito. Sollevò il bicchiere e si guardò intorno mentre beveva. Tutti gli avventori erano in abbigliamento casual ma firmato. The Breakers era un albergo di lusso, per gente danarosa. Era la settimana di Pasqua e tutte le scuole erano chiuse. Quando era scesa in sala da pranzo per la prima colazione aveva visto che le famiglie con bambini erano quasi tutte accompagnate da una tata impegnata a tenere a freno i marmocchi troppo esuberanti perché i genitori potessero godersi in pace il sontuoso buffet. Le persone che frequentavano il bar all’ora di pranzo erano quasi tutte adulte. Nell’aggirarsi per l’albergo aveva notato che le famiglie con bambini gravitavano più volentieri nella zona dei ristoranti intorno alla piscina, dove la scelta dei piatti era più ampia. Che effetto le avrebbe fatto andare in vacanza lì tutti gli anni fin da quando era piccola? si chiese. Poi cercò di scacciare il ricordo delle sere in cui si addormentava nel teatro semivuoto dove sua madre faceva la maschera. Era stato prima che conoscessero Robert Powell, naturalmente. Ma a quell’epoca l’infanzia di Claire era quasi terminata. Mentre era assorta in quei pensieri, al tavolo accanto al suo si sedettero due coppie ancora in abiti da viaggio. «È così bello essere di nuovo qui», sentì dire con un sospiro compiaciuto a una delle due donne. Fingerò di essere di ritorno, pensò. Fingerò di avere preso tutti gli anni la stessa stanza affacciata sull’oceano e di aver compiuto lunghe e piacevoli passeggiate sulla spiaggia prima di colazione. Arrivò il suo cameriere con la zuppa. «Caldissima, come piace a lei, signora Bonner», la informò. Il primo giorno aveva chiesto che la zuppa fosse bollente e che il granchio le venisse servito come secondo. Il cameriere aveva preso mentalmente nota delle sue preferenze. La prima cucchiaiata di zuppa per poco non le bruciò il palato e allora mescolò il resto nella crosta di pagnotta privata di mollica che faceva da scodella aspettando che si raffreddasse un po’. Poi prese il bicchiere e bevve un lungo sorso di chardonnay. Era asciutto e nervoso, esattamente come era stato fin dal primo giorno della sua vacanza. Fuori del bar un vento ancora più forte sferzava le onde trasformandole in cascate di schiuma. Claire si sentì come una di quelle onde che cercavano di raggiungere la costa ma erano alla mercé di un vento potente. La decisione era ancora sospesa. Avrebbe sempre potuto dire di no. Per anni aveva rifiutato di fare ritorno alla casa del patrigno. E meno che mai aveva voglia di tornarci ora. Nessuno poteva costringerla a partecipare a un programma televisivo trasmesso in tutta la nazione e ricostruire la festa con cui vent’anni prima lei e le sue tre più care amiche avevano celebrato il conseguimento della laurea. D’altra parte, se avesse acconsentito, lo studio televisivo le avrebbe versato cinquantamila dollari, ai quali Rob ne avrebbe aggiunti altri duecentocinquantamila. Trecentomila dollari in tutto. Voleva dire prendere un periodo di aspettativa dal suo lavoro ai servizi sociali di Chicago. L’attacco di polmonite al quale era sopravvissuta in gennaio avrebbe potuto ucciderla e sapeva di essere ancora debole e incline a stancarsi subito. Non aveva mai accettato le offerte di denaro di Powell. Non un solo centesimo. Dopo quello che aveva fatto. Avevano voluto chiamare la festa Graduation Gala. Era stata bella, bellissima, ricordò Claire. Poi Alison, Regina e Nina erano rimaste a dormire a casa nostra. E durante quella notte mia madre è stata assassinata. Betsy Bonner Powell, bellissima, piena di vita, generosa, spiritosa, amorevole Betsy. Per la quale io provavo infinito disprezzo, pensò Claire. Detestavo mia madre, come detestavo il suo amato maritino, quello che ha costantemente cercato di mandarmi dei soldi. 5 REGINA Callari rimpiangeva d’essere andata all’ufficio postale a ritirare la raccomandata di Laurie Moran, una produttrice della Fisher Blake Studios. Prendere parte a un reality che avrebbe inscenato la notte del Graduation Gala! pensava smarrita. E, a onor del vero, sbalordita. La lettera l’aveva turbata a tal punto da farle perdere un cliente. Si era incartata nell’illustrare le caratteristiche della casa che stava mostrando e, nel bel mezzo della visita, il possibile cliente si era improvvisamente congedato. «Credo di aver visto abbastanza», aveva dichiarato in tono brusco. «Non è il genere di casa che stavo cercando.» Poi, tornata in agenzia, aveva dovuto telefonare a Bridget Whiting, la proprietaria settantaseienne, per informarla di non averci azzeccato. «Ero sicura che fosse la persona giusta ma non è andata come mi aspettavo», si scusò. Il disappunto nella voce della signora Whiting fu palpabile. «Non so per quanto tempo terranno fermo l’appartamento che mi hanno proposto in quella bella struttura di assistenza per gli anziani e invece sarebbe proprio la casa che vorrei. Oh, povera me! Regina, forse ho voluto sognare a occhi aperti. Non è colpa tua.» Invece lo è, pensò Regina, cercando di dominare la collera che provava nei confronti di se stessa mentre prometteva a Bridget che le avrebbe trovato un compratore al più presto, e poi, sapendo quanto le sarebbe stato difficile nell’attuale situazione di mercato immobiliare, s’affrettò a salutarla. Il suo ufficio, un ex box singolo, era appartenuto in passato a una residenza privata nella via principale di St. Augustine, in Florida. Il mercato immobiliare si era leggermente ripreso dal periodo critico, ma non abbastanza perché Regina potesse fare di più che sbarcare il lunario. Posò i gomiti sulla scrivania e si premette le dita sulle tempie. Le ciocche in cui affondò le dita le ricordarono che i suoi capelli neri come la notte ricrescevano con la solita seccante rapidità. Era ora di andare a tagliarli e a trattenerla era stata fino a quel momento l’insistenza con cui la sua parrucchiera pretendeva sempre di aggiungerle dei riflessi blu. Quello e naturalmente il relativo costo. Quella sciocca circostanza la spingeva a prendersela con se stessa e con la sua incontrollabile insofferenza. Cosa c’è mai di così tremendo, disse tra sé, se per venti minuti devo sopportare il bla-bla-bla di Lena? Del resto è l’unica che sa come rendere decente questo cespuglio ribelle. Gli occhi marrone scuro di Regina si soffermarono sulla foto che c’era sul suo tavolo. Zach, il figlio diciannovenne, le sorrideva. Stava portando a termine il suo secondo anno all’Università della Pennsylvania, un’istruzione pagata completamente dal padre, il suo ex marito. La sera prima Zach le aveva telefonato. Esitante, le aveva chiesto se avesse niente in contrario a un tour estivo da zaino in spalla in Europa e in Medio Oriente. La prima intenzione era stata di trascorrere l’estate a casa trovando un lavoro a St. Augustine, ma di lavoro non ce n’era. Il viaggio non sarebbe costato troppo e comunque lo avrebbe finanziato suo padre. «Mi resteranno comunque una decina di giorni da passare con te prima del nuovo semestre, mamma», l’aveva rassicurata come per offrirle qualcosa in cambio. Regina aveva risposto che era una opportunità troppo bella per lasciarsela scappare. Aveva evitato di far trapelare nella voce il suo profondo rammarico. Aveva nostalgia di Zach. Le mancava il dolce ragazzino che faceva irruzione in agenzia tornando dalla scuola, felice di condividere con lei ogni singolo momento della sua giornata. Le mancava l’alto e timido adolescente che rimandava la cena tutte le volte che lei faceva tardi con un cliente. Dal giorno del divorzio, Earl si era fatto in quattro per escogitare strategie sempre nuove con cui separarla da Zach. Tutto era cominciato quando Zach, a dieci anni d’età, si era iscritto a un corso di vela estivo a Cape Cod. Al corso era seguito il periodo di vacanza che il tribunale aveva stabilito dovesse trascorrere con Earl, il quale lo portava con la sua nuova moglie a sciare in Svizzera o sulle spiagge della Costa Azzurra. Sapeva quanto Zach le volesse bene, ma una casa piccola e un tenore di vita in economia non potevano certo competere con la vita che gli proponeva un padre così facoltoso. E ora sarebbe rimasto via per quasi tutta l’estate. Regina allungò lentamente la mano per prendere la lettera e rileggerla. «Lo studio ci pagherà cinquantamila dollari e il grande Robert Nicholas Powell ce ne darà altri duecentocinquantamila», mormorò. «Il signor Magnanimità in persona.» Ripensò alle amiche con cui aveva fatto gli onori di casa al Graduation Gala. Claire Bonner. Così bella, ma sempre così riservata, un’ombra seminvisibile accanto a sua madre. Alison Schaefer, così intelligente da mettere in soggezione tutte le altre. Avevo sempre pensato, si disse, che sarebbe stata la nuova Madame Curie. In ottobre, pochi mesi dopo la morte di Betsy, si era sposata, e poi Rod, suo marito, era rimasto vittima di un incidente. Per quel che mi risulta da allora ha sempre dovuto camminare con le stampelle. Nina Craig. L’avevamo soprannominata «la rossa di fuoco». Ricordo che già al primo anno di università, se le saltava la mosca al naso, c’era da starci attente. Era capace di dirne quattro anche a un professore se non otteneva un giudizio abbastanza positivo per qualche compito. E poi ci sono io, concluse Regina. A quindici anni ho aperto il portellone del box per mettere via la bici e ho trovato mio padre appeso a una corda. Gli sporgevano gli occhi dalle orbite e gli pendeva la lingua fino al mento. Se doveva impiccarsi, perché non lo ha fatto in ufficio? Sapeva che sarei stata io a trovarlo. Gli volevo così bene! Perché mi ha fatto una cosa così brutta? Tutti quegli incubi che non finiscono mai. E cominciano sempre con lei che scende dalla bici. Prima di telefonare alla polizia e ai vicini di casa dove sua madre stava giocando a bridge, Regina aveva staccato dalla camicia il messaggio suicida lasciato dal padre e lo aveva nascosto. Quando erano arrivati gli agenti, avevano detto che il più delle volte i suicidi lasciano un messaggio per la famiglia. Sua madre, scossa dai singhiozzi, aveva cercato dappertutto, assistita da Regina che fingeva di aiutarla. Le ragazze sono state il mio salvagente dopo quella tragedia, ricordò. Eravamo così amiche. Dopo il Gala e l’uccisione di Betsy, io, Claire e Nina abbiamo fatto da damigelle d’onore ad Alison. Una mossa veramente stupida. Si è sposata troppo presto dopo la morte di Betsy e i giornali scandalistici ci si sono buttati a pesce con titoli che rivangavano puntualmente la storia del delitto del Graduation Gala. È stato allora che ci siamo rese conto che avrebbero continuato a sospettarci tutte e quattro forse per il resto dei nostri giorni. Non ci siamo più ritrovate tutte assieme, rimpianse. Dopo il matrimonio ciascuna se ne andò per la propria strada e, volendo evitare di incontrarci, scegliemmo città diverse. Che effetto mi farebbe rivederle, ritrovarmi con tutte loro sotto lo stesso tetto? Eravamo così giovani allora, così scombussolate e spaventate quando Betsy fu ritrovata morta. E poi l’interrogatorio della polizia, prima ascoltate tutte insieme, poi ciascuna separatamente. È un miracolo che nessuna di noi abbia perso la testa confessando di averla soffocata, sottoposte a quel terrificante terzo grado. «Sappiamo che è stato qualcuno che si trovava in casa. Chi di voi lo ha fatto? Se non è stata lei, dev’essere stata una delle sue amiche. Per il suo bene, se vuole proteggere se stessa, ci dica quello che sa.» Ricordava che la polizia aveva avanzato l’ipotesi che il movente potessero essere stati gli smeraldi di Betsy. Quando era andata a letto, li aveva depositati sul vassoio di cristallo sopra il comò. Secondo la polizia era possibile che si fosse svegliata nel momento in cui la stavano derubando e che il ladro fosse stato colto dal panico. Uno dei suoi orecchini era sul pavimento. Era stata Betsy a farlo cadere quando se li era tolti, o qualcuno che indossava i guanti si era spaventato e se l’era lasciato sfuggire di mano quando Betsy si era svegliata? Regina si alzò adagio e si guardò intorno. Cercò di immaginare come potesse essere avere trecentomila dollari in banca. Attenzione, si frenò subito, non ti scordare che metà andranno in tasse. Ma anche così sarebbe stato comunque un incredibile colpaccio. O forse tutti quei soldi avrebbero riesumato i giorni in cui suo padre era stato sulla cresta dell’onda e anche loro come Robert e Betsy Powell avevano avuto una grande villa a Salem Ridge con tutto il contorno di governante, cuoca, giardiniere, chauffeur, uno dei più rinomati caterer di New York per i loro frequenti ricevimenti... Contemplò il suo box trasformato in agenzia immobiliare. Anche con le pareti celesti che si abbinavano alla scrivania e alle poltrone bianche con i cuscini blu, la realtà di quel locale balzava comunque all’occhio: uno sforzo commovente per nascondere un giro d’affari modesto. Una rimessa è una rimessa, pensò, tolto l’unico lusso che ho fatto installare quando ho comprato questo box dopo il divorzio. Il lusso si trovava in fondo al corridoio, oltre la toilette. Dietro una porta anonima e sempre chiusa a chiave c’era un bagno privato con una Jacuzzi, una doccia a vapore, un ampio ripiano con il lavabo incassato e una cabina armadio. Era lì che certe volte, alla fine di una giornata di lavoro, faceva una doccia e si cambiava per concedersi una serata con gli amici o una cena solitaria seguita da un film. Earl l’aveva lasciata dieci anni prima, quando Zach stava per compierne nove. Alla lunga non era riuscito a sopportare le sue crisi depressive. «Fatti aiutare, Regina. Io non ce la faccio più, non reggo i tuoi malumori, non reggo i tuoi incubi. Nel caso non te ne sia accorta, hanno un effetto negativo su nostro figlio.» Dopo il divorzio, Earl, che all’epoca vendeva computer e scriveva canzoni per hobby, era riuscito finalmente a cedere dei brani a un’importante casa discografica. Il passo successivo era stato quello di sposare Sonya Miles, una promettente cantante rock all’epoca ancora sconosciuta. Quando Sonya aveva scalato le classifiche con l’album che aveva scritto per lei, Earl era diventato una celebrità nel mondo cui aveva sempre aspirato. Vi ci si era tuffato come se fosse stato da sempre il suo ambiente naturale, pensò Regina, mentre andava agli schedari. Dal fondo di quello che teneva chiuso a chiave tolse una scatola priva di etichette. Sepolta sotto un mazzo di pubblicità immobiliari c’era una seconda scatola più sottile che conteneva tutti gli articoli di giornale apparsi sul delitto del Graduation Gala. Sono anni che non li guardo, pensò mentre posava il materiale sulla scrivania. Cominciò a sfogliare i giornali, alcuni dei quali avevano cominciato a sfaldarsi lungo i margini. Trovò velocemente ciò che cercava. Era la foto di Betsy e Robert Powell che brindavano alle quattro neolaureate: Claire, Alison, Nina e lei stessa. Eravamo così carine, commentò tra sé contemplando l’immagine. Siamo andate insieme a comprarci i vestiti per la festa. Al college avevamo ottenuto ottimi risultati, eravamo cariche di speranze e programmi per il futuro, tutto andato in fumo quella notte. Ripose i giornali, chiuse lo scatolone, lo riportò allo schedario e lo lasciò cadere nell’ultimo cassetto, nascondendolo sotto una montagna di brochure. Accetterò il suo dannato denaro, decise. E anche quello dello studio. Forse così riuscirò a raddrizzare la mia vita. Di sicuro so di poterne usare una parte per fare una bella, breve vacanza con Zach prima che torni a scuola. Spinse con forza il cassetto, appose il cartello di CHIUSO alla finestra dell’ufficio, spense le luci, girò la chiave nella porta e si ritirò nel suo bagno privato. Mentre l’acqua scorreva nella Jacuzzi, si spogliò e si guardò nel grande specchio applicato all’uscio. Ho due mesi di tempo prima dello show e devo perdere dieci chili, pensò. Voglio presentarmi in forma, quando dovrò raccontare quello che ricordo. E voglio che Zach sia fiero di me. Le si insinuò nella mente un dubbio indesiderato. Sapeva che Earl si era sempre domandato se fosse stata lei a uccidere Betsy. Aveva inculcato quel sospetto nella testa di Zach? Non amava più Earl, non lo desiderava più, ma soprattutto desiderava non fare più quegli incubi. La Jacuzzi era piena d’acqua. Vi entrò, appoggiò la nuca e chiuse gli occhi. Mentre i riccioli neri si distendevano gonfiandosi d’acqua, pensò che le veniva offerta un’importante occasione: quella di convincere tutti che non era stata lei a uccidere quella schifosa bastarda. 6 ROD Kimball firmò la ricevuta e aprì la raccomandata mentre sua moglie Alison finiva di servire alcuni medicinali. Quando si fu liberata del cliente, s’affrettò a sfilargliela dalle dita. «Chi ci manda una raccomandata?» chiese con una certa apprensione mentre in un unico movimento prendeva la lettera, si girava e tornava al banco della farmacia senza concedergli la minima possibilità di avvertirla del contenuto. Preoccupato guardò sua moglie prima arrossire e poi impallidire durante la lettura dei due fogli della lettera, prima di lasciarli cadere sul bancone. «No», esclamò con un tremito nella voce, «non ce la faccio, una seconda volta no. Mio Dio, ma mi hanno presa per pazza?» «Calma, tesoro», cercò di confortarla Rod. Sforzandosi di trattenere una smorfia di dolore, scivolò dal suo sgabello dietro il registratore di cassa e prese le stampelle. A vent’anni dall’incidente che lo aveva reso invalido, il dolore era un compagno fedele. C’erano però giorni come quello, freddo e umido, sul finire di marzo, a Cleveland, in cui manifestava più del solito la sua presenza. Aveva il dolore scolpito nelle rughe intorno agli occhi e nella tensione delle mascelle. I capelli castano scuro erano ormai quasi completamente grigi. Sapeva di dimostrare molto più dei suoi quarantadue anni. Raggiunse faticosamente il banco della farmacia e si fermò davanti ad Alison, incombendo sulla sua figura minuta dall’alto della sua notevole statura. «Non sei costretta a fare niente che tu non voglia», dichiarò con fermezza in un sincero slancio protettivo. «Strappa quella lettera.» «No.» Alison scosse la testa, aprì il cassetto sotto il banco e vi ripose i due fogli. «Rod», disse poi, «abbi pazienza. Ora come ora non posso parlarne.» In quel momento la campanella della porta annunciò l’arrivo di un altro cliente e Rod tornò barcollante alla cassa. All’epoca in cui aveva sposato Alison, era stato appena reclutato come quarterback dai New York Giants. Era stato cresciuto da una madre single che per mantenerlo faceva da badante per un invalido. Suo padre, un alcolista senza speranza, era morto quando Rod aveva due anni. All’atto della firma del suo primo contratto importante, tutti gli addetti ai lavori si erano dichiarati unanimemente convinti che l’attendesse una carriera sfolgorante. Aveva ventidue anni ed era coetaneo di Alison, per la quale stravedeva fin dai giorni dell’asilo, al punto che già a quei tempi aveva annunciato pubblicamente in classe che prima o poi l’avrebbe sposata. Il tenore di vita della famiglia di Alison era sempre stato modesto. Suo padre dirigeva il reparto ortofrutticolo in un piccolo supermercato e Alison, che non era riuscita a ottenere una borsa di studio, si era mantenuta all’università grazie a prestiti agevolati per gli studenti e lavorando nel tempo libero. Abitava non lontano da Rod Kimball, in un quartiere povero di Salem Ridge. Il giorno stesso in cui gli era stato offerto il contratto con i New York Giants, Rod l’aveva chiesta in moglie. Era stato due mesi dopo l’uccisione di Betsy Powell. Nel chiederle di sposarlo, Rod aveva voluto dare un peso particolare al desiderio di Alison di completare la sua istruzione alla scuola di medicina, per poi dedicarsi alla ricerca. Le aveva promesso di pagare i suoi studi, di girare per casa in punta di piedi quando studiava e di aspettare ad avere dei figli finché non avesse ottenuto il master a cui teneva tanto. Invece tre settimane dopo le nozze era stato investito da un’auto pirata e Alison aveva trascorso la gran parte dei quattro anni successivi ad assisterlo nella lunga convalescenza. Presto i soldi che Rod aveva messo da parte nell’unica stagione in cui aveva giocato per i Giants erano finiti. A quel punto Alison si era indebitata di nuovo ed era tornata a scuola per procurarsi una specializzazione in farmaceutica. Aveva trovato il suo primo lavoro grazie a un anziano cugino senza figli che l’aveva presa con sé nel suo drugstore di Cleveland. «Rod, se vuoi c’è un posto anche per te», aveva aggiunto. «La mia assistente se ne va. È lei che si occupa di tutti i fornitori eccetto che per la farmacia e gestisce la cassa.» Erano stati ben contenti di lasciare New York, dove sembrava che non ci si potesse sottrarre a continue speculazioni sulla morte di Betsy Powell. Qualche anno più tardi si erano trasferiti a Cleveland, il cugino era andato in pensione e avevano rilevato il suo negozio. Ora avevano un’ampia cerchia di amicizie e nessuno chiedeva loro mai niente del delitto del Graduation Gala. Il soprannome di Rod alludeva al parafulmine. Lo aveva battezzato così un cronista sportivo ai tempi in cui giocava nella squadra della sua università, per come sapeva resistere ai tackle avversari quando si accingeva a lanciare la palla. Quella mattina trascorse in relativa tranquillità, ma nel pomeriggio ci fu un notevole viavai. Avevano due impiegati part-time, un farmacista semipensionato e un commesso che teneva in ordine il negozio e dava una mano alla cassa, ma nonostante il loro aiuto fu una giornata eccezionalmente faticosa e quando finalmente chiusero bottega alle otto di sera, Rod e Alison erano entrambi stanchi morti. Intanto si era messo a piovere, una pioggia fredda e pesante. Alison insisté perché Rod usasse la sedia a rotelle per andare alla macchina. «Se cerchi di andarci con le grucce finiamo fradici tutti e due», l’aveva apostrofato con una nota di esasperazione nella voce. Più di una volta negli anni trascorsi assieme, Rod aveva cercato il coraggio di chiederle di lasciarlo, di farsi una nuova vita normale con un’altra persona, ma non era mai riuscito ad affrontare apertamente l’argomento. Ancora non riusciva a immaginarsi una vita senza di lei più di quanto ne fosse stato capace durante gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Gli tornava talvolta alla mente un’osservazione fatta da sua nonna molto tempo prima. «Nella maggior parte dei matrimoni c’è uno dei due che ama l’altro di più ed è meglio che sia l’uomo. Ci sono più probabilità che il matrimonio duri fino in fondo.» Rod non aveva certo bisogno che qualcuno gli dicesse che era lui quello dei due ad amare di più. Era quasi certo che, se non le avesse offerto di pagarle la scuola di medicina, Alison non avrebbe accettato di sposarlo. In seguito, dopo l’incidente, era rimasta al suo fianco solo per dovere morale. Rod non si lasciava andare spesso a questo genere di amare riflessioni, ma i suoi turbamenti erano riaffiorati quel giorno all’arrivo della raccomandata: il Graduation Gala, le foto delle quattro ragazze su tutti i giornali, la spettacolarizzazione del loro matrimonio fatta dai mass media. «Lascia guidare me, Rod», si offrì Alison quando furono alla macchina. «So che stai soffrendo.» Aprì lo sportello riparandolo con l’ombrello e Rod salì senza protestare di fianco al posto di guida. Dato che le era impossibile tenere in mano l’ombrello e richiudere contemporaneamente la sedia a rotelle, Rod fu costretto a osservarla con rammarico armeggiare nella pioggia che le batteva sul volto prima che potesse finalmente sedersi al volante. A quel punto Alison si voltò verso di lui. «Io accetto», dichiarò. Il tono era di sfida, come se si aspettasse di dover affrontare le sue rimostranze. Quando Rod non disse niente, attese per un lungo momento, poi avviò il motore. «Nessun commento?» Questa volta Rod avvertì un leggero tremito nella sua voce. Non le avrebbe detto quello che stava pensando, che con quei lunghi capelli castani che le pendevano bagnati sulle spalle aveva un aspetto tremendamente giovane e vulnerabile. Sapeva che era spaventata. No, si corresse, diciamo pure terrorizzata. «Se le altre accettassero di partecipare al programma e tu rifiutassi, non sarebbe una cosa buona», disse a voce bassa. «Credo che tu debba andare. Credo che dobbiamo andarci», rettificò subito. «L’altra volta sono stata fortunata. Questa volta potrebbe non andarmi altrettanto bene.» Per il resto del tragitto rimasero in silenzio. La loro casa in stile ranch, attrezzata tenendo conto della sua invalidità, era a una ventina di minuti dal drugstore. Poterono evitare di esporsi di nuovo alla pioggia perché dalla rimessa si entrava direttamente in cucina. Appena liberatasi dall’impermeabile bagnato, Alison si lasciò andare a sedere e si prese la faccia tra le mani. «Rod, ho tanta paura. Non te l’ho mai detto, ma quella sera, quando salimmo tutti nelle nostre stanze per dormire, il mio unico pensiero fisso era quanto detestavo Betsy e Rob Powell.» Esitò per qualche istante. «Credo di aver avuto un attacco di sonnambulismo, quella notte», aggiunse poi titubante. «È possibile che sia andata nella stanza di Betsy.» «Cosa?» sbottò Rod lasciando cadere le stampelle e sedendosi accanto a lei. «Temi di poter essere stata nella stanza di Betsy? Qualcuno potrebbe averti visto?» «Non lo so.» Alison lasciò che la trattenesse tra le braccia per qualche secondo, poi si ritrasse per guardarlo in faccia. I grandi ed espressivi occhi marrone chiaro erano la caratteristica del suo volto che spiccava maggiormente. Ora che luccicavano di lacrime, contribuivano a farla apparire più spaventata e indifesa che mai. Poi Rod udì una domanda che mai si era aspettato uscisse dalle labbra di sua moglie. «Rod», gli chiese, «non è forse vero che hai sempre pensato che sia stata io a uccidere Betsy Powell?» «Sei impazzita?» proruppe lui. «Sei completamente matta?» Ma alle sue stesse orecchie l’eco di quella protesta suonò artefatta e poco convincente. 7 «ALLORA , hai deciso se andarci?» Fu questa la domanda che Nina Craig sentì nell’aprire la porta del suo appartamento a West Hollywood. Povera me, pensò subito, è in una di quelle fasi, e si morsicò il labbro per evitare di rispondere in malo modo alla madre sessantaduenne. Erano le cinque e mezzo del pomeriggio ed era chiaro che Muriel Craig aveva anticipato arbitrariamente di mezz’ora il suo normale orario per l’aperitivo con una brocca di apple martini o una bottiglia di vino. Muriel era ancora in camicia da notte e vestaglia, e questo significava che, a qualunque ora si fosse svegliata, era immersa nella nuvola di depressione in cui si adagiava così spesso. Sarà una lunga serata, pensò con stizza Nina. «Nessuna risposta dalla giuria dei Premi Oscar?» le domandò con sarcasmo la madre riempiendosi il bicchiere da una bottiglia ormai quasi vuota. Erano passati dieci anni da quando Nina aveva rinunciato alla speranza di sfondare come attrice e si era iscritta all’associazione dei figuranti, le comparse che, lavorando alla giornata, facevano da contorno e riempitivo nelle sessioni di ripresa cinematografica. Dalle cinque di quella mattina aveva trascorso un giorno intero sul set di un film su una rivoluzione, mescolata ad altre centinaia di figuranti che agitavano cartelli e reggevano striscioni. Si era girato nel deserto vicino a Palm Springs sotto un sole cocente. «Non so nemmeno io cosa fare, mamma», ammise cercando di dominare il tono della voce. «Perché non ci vai? Trecentomila dollari sono un bel gruzzoletto. Vengo con te. Mi piace l’idea di rivedere di persona il buon vecchio Robert Nicholas Powell.» Nina le lanciò un’occhiata. I capelli, che, come i suoi, erano stati un tempo di una naturale, intensa sfumatura di rosso, erano ora di un fasullo color fuoco che le stava malissimo. Aveva la pelle piena di macchie e profondamente incisa sulle guance e intorno alle labbra dalle rughe dei tanti anni di fumo di sigaretta. Nina la guardò sporgersi dal divano con la testa incassata nelle spalle ricurve e le mani chiuse intorno al bicchiere. Era difficile riconoscere in lei la bella donna che un tempo era stata una delle rare attrici che non conoscono pause tra un ingaggio e l’altro. Era lei ad aver avuto talento, pensò con amarezza Nina, non io. E adesso guarda in che stato è! Non ricascarci, si ammonì. È la fine di una dura giornata di lavoro, sei accaldata e stufa marcia di tutto e tutti. «Mamma», esordì, «faccio una doccia e mi metto addosso qualcosa di comodo. Poi ti faccio compagnia con un bicchiere di vino.» «Prendi quei trecentomila», la incalzò con asprezza la madre. «Usali per comprarmi un appartamento tutto per me. Tu non vuoi che io viva a casa tua più di quanto io abbia voglia di essere qui.» Quando a New York le occasioni di lavoro erano drasticamente diminuite, Muriel aveva seguito Nina in California. Un anno prima era stata vicina a morire bruciata viva quando aveva lasciato cadere una sigaretta che aveva appiccato il fuoco alla moquette del soggiorno del villino bifamigliare in cui viveva. Dopo che l’appartamento era stato rimesso in sesto, i proprietari della casa si erano rifiutati di riaffittargliela. «Potrebbe succedere di nuovo in piena notte», aveva detto a Nina il padrone di casa. «Non correrò questo rischio.» Era ormai quasi un anno che sua madre abitava con lei. Ora anche lei faceva la figurante, ma troppo spesso non era in condizioni di presentarsi sul set. Non ce la farò ancora per molto, pensò Nina mentre si chiudeva a chiave in camera da letto. Nello stato d’animo in cui era sua madre in quel momento, non c’era da meravigliarsi se l’avesse seguita per continuare la sua discussione sulla lettera inviatale dallo studio televisivo. La sua stanza era fresca e accogliente. Pareti bianche, parquet lucido con due tappetini bianchi ai lati del letto, tende color verde mela alle finestre. Il candore del copriletto era messo in risalto dalle federe bianche e verdi. Il letto a baldacchino e il comò erano quanto le restava dei suoi dieci anni di matrimonio con un attore di modesto successo che era risultato essere un imbroglione recidivo. Buon per loro che non avessero avuto figli. Erano divorziati da tre anni. E io sono pronta per qualcun altro, pensò Nina. Ma trovarmi un compagno finché ho mia madre a carico è una pia illusione. Non sono ancora da buttar via, pensò, e chissà, se partecipassi a quel programma potrei trovare l’aggancio giusto per rientrare nel giro della recitazione vera, magari lavorare in uno di quei reality. Come Desperate Housewife sarei imbattibile. E chissà come sarebbe rivedere Claire, Regina e Alison... Eravamo ancora bambine, pensò, tutte così impaurite. I poliziotti non facevano che distorcere tutto quello che dicevamo. E sua madre era stata impagabile quando le avevano chiesto se avesse avuto una relazione seria con Powell prima che lui conoscesse Betsy. «A quei tempi avevo relazioni sentimentali con almeno tre persone», aveva risposto. «Powell era una di loro.» Ma non è questa la storia che conosco io, rifletté con doloroso rammarico. Sua madre le faceva una colpa d’aver presentato Betsy a Powell. Colpa tua, colpa tua, colpa tua, una tiritera stridente e insopportabile come un disco rotto. Altro non sentiva uscire dalla sua bocca: aveva rovinato la sua vita. Muriel aveva rinunciato alla parte che avrebbe fatto di lei una star perché Powell non voleva che fosse ostacolata dalle esigenze di un contratto quando si fossero sposati. Quelle erano state le sue parole precise: «Quando ci sposeremo». E da allora non aveva perso occasione di rinfacciarle a Nina. Si sentì invadere dal furore che quei ricordi le evocavano. Ripensò alla notte del Graduation Gala. Sua madre non aveva voluto partecipare al ricevimento. «Io avrei dovuto viverci, in quella casa», si era lamentata. Betsy era andata a cercarla di proposito. «Dov’è tua madre?» le aveva chiesto. «O ancora non ha smesso di frignare per aver perso Rob?» E meno male che quella sera nessuno la sentì quando mi prese in disparte, pensò Nina. Non avrebbe fatto un bell’effetto l’indomani mattina quando si era scoperto che la moglie di Robert Powell era stata uccisa. Ma in quel momento, se fossi stata io ad avere quel cuscino tra le mani, glielo avrei volentieri schiacciato sulla faccia. Avevo bevuto troppo, quella sera, non ricordo nemmeno d’essere andata a letto. Non credo di aver fatto la doccia, perché nessuno ne ha parlato, neppure quella ficcanaso di governante secondo la cui dichiarazione Alison era ubriaca. Quando erano arrivati lei e gli altri, Powell era stramazzato per terra ed era stata la governante a togliere il cuscino dalla faccia di Betsy. Sua madre stava armeggiando con la maniglia della porta della sua stanza. «Dobbiamo parlare», gridava. «Voglio che partecipi a quel programma.» «Mamma», le rispose Nina riuscendo con uno sforzo estremo a non rivelare nel tono della voce la collera che l’aveva invasa, «sto per andare sotto la doccia. Va tutto bene. Accetterò l’offerta, tranquilla. Così poi potrò comprarti un appartamento tutto per te.» Prima di ammazzarti, aggiunse mentalmente. Dopodiché tornò a domandare a se stessa che cosa non avesse ricordato della notte in cui Betsy Powell era stata soffocata. 8 LE adesioni al suo invito a partecipare a una ricostruzione dei fatti avvenuti la notte del Graduation Gala erano giunte nell’ufficio di Laurie in ordine sparso. L’ultima ci aveva messo quasi due settimane ed era quella di Nina Craig. Nella lettera sosteneva di aver consultato un avvocato e le elencava alcune condizioni supplementari che riteneva appropriate. Robert Powell avrebbe dovuto mettere i duecentocinquantamila promessi a ciascuna delle quattro neolaureate a disposizione come garanzia e il compenso andava calcolato al netto delle tasse. Anche i cinquantamila offerti dalla Fisher Blake Studios dovevano essere netti. «Il signor Powell e la Fisher Blake non avranno sicuramente la minima difficoltà a riconoscerci un giusto compenso», scriveva Nina. «E ora che ho riallacciato i contatti con le mie amiche d’infanzia, mi rendo conto che tutte noi abbiamo subito gravi danni morali per esserci trovate in casa di Powell la notte in cui Betsy Bonner Powell ha perso la vita. Ritengo che per esporci nuovamente all’interesse morboso del pubblico saremo costrette a rinunciare a un anonimato conquistato con tanta fatica e per il quale è doveroso che riceviamo un adeguato risarcimento.» Laurie rilesse la lettera in preda allo sconcerto. «Per dare loro tutti quei soldi al netto delle tasse dovremmo stanziare una somma quasi doppia», calcolò a mente. «Io non credo che Brett ci stia.» Il tono neutro di Jerry Klein non rispecchiava la delusione che gli si era disegnata sul volto. Era stato lui a firmare la ricevuta della raccomandata di Nina Craig e a consegnarla a Laurie. «Sarà costretto ad accettare», rispose Laurie. «E credo che lo farà. Ha fatto di tutto per promuovere la nuova serie e non si tirerà indietro adesso.» «Ma non ne sarà felice.» L’espressione di Jerry era sempre più preoccupata. «Laurie, spero che tu non abbia scoperto troppo il collo con questa tua idea di Under Suspicion.» «Lo spero anch’io.» Laurie allungò lo sguardo sulla pista di pattinaggio del Rockefeller Center. Era una giornata tiepida per i primi giorni di aprile e c’era poca gente a pattinare sul ghiaccio. Presto non ce ne sarebbe stato più e l’area si sarebbe riempita di tavolini e sedie per pranzi all’aperto. Si sentì stringere il cuore di commozione e nostalgia ricordando che anche lei era stata a cena laggiù qualche volta con Greg. Sapeva perché quel ricordo era affiorato proprio in quel momento: il suo show aveva l’ambizione di mettere la parola fine a questioni rimaste in sospeso. Anche se non aveva intenzione di rivelare la sua apprensione né a Jerry né a Grace, sapeva che il suo assistente aveva ragione. Dopo tutto l’entusiasmo che aveva finalmente manifestato per il suo progetto, Brett Young, il suo capo, avrebbe probabilmente accettato a malincuore di spendere il doppio del previsto pur di non dovervi rinunciare. «Come la mettiamo con Robert Powell?» le stava domandando Jerry. «Credi che abbozzerà e pagherà lui le tasse per poter dare alle partecipanti i duecentocinquantamila?» «Posso solo chiederglielo», rispose Laurie. «E penso che sia meglio che lo faccia di persona. Gli telefonerò per domandargli se può vedermi oggi stesso.» «Non dovresti sentire prima Brett?» «No. Inutile tirare in ballo lui se è una causa persa. Se Powell non accetta, la mia prossima mossa sarà di correre a Los Angeles e cercare di convincere Nina Craig ad accettare la nostra offerta. Tutte le altre avevano già detto di sì per la somma pattuita, ma è evidente che la Craig le ha aizzate.» «Che cosa le dirai?» volle sapere Jerry. «La verità. Se necessario procederemo senza di lei e non ci farebbe una bella figura. E non dimenticare che quando è morta, Betsy Bonner Powell aveva quarantadue anni. Oggi ne avrebbe sessantadue o sessantatré. Oggigiorno molte persone vivono in ottime condizioni fisiche fin oltre gli ottant’anni. Quando quella notte qualcuno le ha premuto un cuscino sulla faccia, l’ha derubata di metà della vita che avrebbe potuto godere. Il suo assassino si è svegliato tutte le mattine per tutti questi anni con la possibilità di vivere una nuova giornata mentre il corpo di Betsy giaceva in una cassa in un cimitero.» La sua voce si era via via scaldata e il suo tono era diventato più vibrante e Laurie sapeva bene che non era per la memoria di Betsy Bonner Powell. Era per Greg e per il fatto che il suo assassino era ancora un uomo libero. Non solo libero, ma una minaccia vivente e costante per lei e Timmy. «Scusami, Jerry», si schermì allora. «Devo stare attenta a evitare che si pensi che il mio progetto sia una crociata personale.» Sollevò il ricevitore. «E adesso prendiamo un altro appuntamento con Robert Nicholas Powell.» 9 ROB Powell era dietro casa, sul suo personale campo da golf da tre buche. Il clima mite di quella giornata di aprile lo aveva spinto a tirar fuori le mazze e a esercitare lo swing prima di raggiungere i tre amici con cui aveva in programma una partita a quattro al Winged Foot Golf Club. Niente male, si compiacque guardando il putt ben riuscito con cui aveva spedito la pallina in buca. Concentrandosi sul suo allenamento aveva potuto sottrarsi almeno per qualche momento alla preoccupazione per non aver sentito niente dal suo medico. La chemio a cui si era sottoposto tre anni prima aveva eliminato i noduli nei polmoni, ma sapeva che c’era sempre la possibilità che si riformassero. All’inizio della settimana aveva fatto il suo checkup semestrale. «Chiusura in par», dichiarò a voce alta mentre tornava a casa facendo dondolare la mazza da golf. Ancora un quarto d’ora prima che arrivasse la sua ospite. Chissà che cosa voleva ancora Laurie Moran. L’aveva sentita preoccupata. Viene a dirmi che una di loro non vuole partecipare al programma? si chiese corrugando la fronte. Io ho bisogno che ci siano tutte, pensò, a qualsiasi costo. Anche se la Moran gli avesse portato notizie positive, Rob aveva la sensazione che il tempo gli stesse scappando di mano. Aveva bisogno di giungere a un verdetto finale e quando in marzo Laurie Moran gli aveva proposto di ricostruire gli avvenimenti della notte del Graduation Gala, per lui era stato come ricevere la risposta a una preghiera. Anche se pregare non è mai stato proprio il mio forte, concluse tra sé. È una pratica che lasciavo a Betsy. A quel pensiero rise, un verso aspro che suonò più simile a un latrato, subito seguito da un attacco di tosse. Perché il dottore non lo chiamava dicendogli com’era andato il controllo? Quando entrò nel patio in fondo al sentiero a ciottoli, Jane Novak, la governante, stava aprendo le portefinestre scorrevoli. «Buca in uno, signor Robert?» gli chiese allegramente. «Non proprio, ma niente male lo stesso, Jane», rispose Rob cercando di non irritarsi per la spiacevole abitudine che aveva la sua governante di porgli regolarmente quella domanda tutte le volte che usciva sul prato. Se c’era una cosa di Jane che avrebbe cambiato volentieri era la sua totale assenza di senso dell’umorismo. Per lei quella domanda era una battuta di spirito. Jane, una donna robusta dai capelli color dell’acciaio e occhi della stessa tonalità di grigio, era entrata in servizio da lui poco dopo il suo matrimonio con Betsy. Rob non era rimasto insensibile al disagio che provava Betsy nei confronti della governante precedente, assunta dalla sua prima moglie e rimasta alle sue dipendenze dopo la morte di lei. «Rob, quella donna ce l’ha con me», gli aveva confidato Betsy. «Lo sento. Dille che non va bene e mandala via con un sostanzioso benservito. Conosco la persona giusta da mettere al suo posto.» La persona che aveva in mente Betsy era Jane Novak, che lavorava nel backstage quando lei faceva la maschera. «È una organizzatrice straordinaria. L’unica capace di tenere in ordine i camerini. Ed è brava in cucina», l’aveva esaltata Betsy. Era tutto vero. Entrata negli Stati Uniti con una green card provenendo dall’Ungheria, aveva preso con grande entusiasmo in carico la grande villa e, come Betsy aveva promesso, si era rivelata perfettamente all’altezza del compito. Coetanea di Betsy, Jane aveva ora sessantadue anni. Se aveva amici intimi o parenti, Rob non li aveva mai visti. Occupava un bell’appartamentino dietro la cucina e anche nei giorni di libertà, da quel che Rob aveva potuto constatare, raramente se ne allontanava. Eccetto quando si trovava fuori città, sapeva che tutte le mattine, alle sette e mezzo in punto, Jane era in cucina a preparargli la prima colazione. Con il tempo Rob aveva imparato a riconoscere le alterazioni nello stato d’animo di Jane da lievi sfumature nella sua espressione sempre placida. In quel momento, entrando in casa, colse immediatamente qualcosa che non andava. «Ha detto che deve venire la signora Moran, signor Rob», disse Jane. «Se non sono troppo indiscreta, posso domandarle se questo vuol dire che quel programma si farà?» «Non c’è niente di male a chiedermelo», ribatté Rob, «ma la risposta è che non lo so.» Mentre parlava si rese conto che in realtà la domanda di Jane lo aveva infastidito, perché vi aveva sentito una nota di disapprovazione. Ebbe giusto il tempo di indossare una camicia sportiva a maniche lunghe e ridiscendere al pianterreno prima che suonasse il campanello. Erano le quattro in punto. Si domandò se quella donna avesse la virtù naturale della puntualità o se fosse arrivata un po’ in anticipo e avesse aspettato in macchina prima di farsi viva. Era una di quelle considerazioni del tutto irrilevanti in cui si ritrovava a indulgere da qualche tempo. «Svagatezza» era la parola che gli era venuta in mente. Si era persino preso il disturbo di andare a controllare sul vocabolario. «Indulgere in fantasticherie e sogni a occhi aperti; essere inclini alla distrazione.» Sveglia, ordinò a se stesso, datti una mossa. Aveva chiesto a Jane di far accomodare Laurie Moran nello studio invece che in ufficio. Betsy amava la tradizione britannica del tè delle quattro. Dopo la sua morte, lui aveva abbandonato quell’abitudine, ma oggi gli sembrava appropriata. Altre divagazioni, si rimproverò mentre Jane entrava seguita da Laurie Moran. Quando l’aveva vista il mese prima l’aveva considerata attraente, ma adesso, guardandola esitare per un momento nel riquadro della porta, si rese conto che era decisamente bella. Aveva i lucenti capelli color del miele sciolti sulle spalle e invece del completo gessato aveva scelto una camicetta a maniche lunghe a fiori e una gonna con una vistosa cintura nera che le accentuava la vita stretta. E i tacchi non erano quei ridicoli trampoli che andavano tanto di moda. I suoi occhi da settantottenne apprezzarono per la seconda volta la sua avvenenza. «Si accomodi, signora Moran, venga», la sollecitò con cordialità. «Non mordo.» «Non è di quello che avevo paura, signor Powell», rispose Laurie. Gli si avvicinò sorridendo e si sedette sul divano di fronte all’imponente poltrona in pelle. «Ho chiesto a Jane di prepararci un tè», la informò. «Ora puoi servircelo, Jane, grazie.» «Gentile da parte sua.» Ed era veramente un atto di gentilezza, pensò Laurie. Trasse un respiro profondo. Adesso che si trovava lì, con una posta alta in gioco, le era difficile mostrarsi calma. Perché partecipassero al programma, le quattro donne, le star del Graduation Gala, sarebbero costate a quell’uomo quasi due milioni di dollari. Laurie si preparò al suo discorsetto, ma prima di cominciare aspettò che la governante, una donna che la metteva un po’ in soggezione, si girasse e lasciasse la stanza. «Gliela renderò facile», esordì inaspettatamente Robert Powell. «Si è presentato un problema. Non c’è bisogno di essere particolarmente perspicaci o dotati di intuito soprannaturale per indovinare che si tratta di soldi. Una delle quattro ragazze, o donne, per meglio dire, pensa che non offriamo loro abbastanza per convincerle a esporsi al giudizio del pubblico.» Laurie esitò per qualche secondo prima di confermare con un cenno del capo. «È così», ammise. Powell sorrise. «Mi lasci indovinare di chi si tratta. Possiamo escludere Claire, visto che dopo la morte di Betsy ha sempre rifiutato il mio aiuto. Non si girerà indietro nemmeno quando verrà a sapere che nel mio testamento le ho lasciato una notevole somma di denaro. Quando il momento verrà, è persino possibile che regali quei soldi in beneficenza. «Eravamo molto legati, ma Claire era molto affezionata anche a sua madre. La morte di Betsy è stata per lei un colpo inaccettabile. Non so come ma diventò colpa mia, non che Claire pensasse che avessi ucciso sua madre, questo no. Per quanto in collera con me, sapeva che era impossibile, ma credo che in cuor suo non mi perdonava il molto tempo che avevo trascorso da solo con Betsy.» Per un lungo momento fissò il vuoto alle spalle di Laurie. «Per come la vedo io», riprese parlando lentamente, «a tenerci in scacco con la richiesta di un compenso maggiore è Nina Craig. In questo è molto simile a sua madre. Per un certo periodo io e Muriel Craig abbiamo avuto una relazione. Una donna molto attraente, ma una personalità non priva di una certa dose di durezza. Non smisi di frequentarla solo perché avevo conosciuto Betsy. Sarebbe successo comunque. È stata solo una coincidenza se è avvenuto più o meno in contemporanea.» Le sue reminiscenze furono interrotte dall’ingresso di Jane con il tè. Posò il vassoio sul tavolino tra divano e poltrona. «Vuole che versi, signor Powell?» si offrì. Aveva già preso la teiera e stava versando il tè nella tazza di Laurie. Robert Powell inarcò le sopracciglia indirizzando a Laurie un’occhiata divertita. «Come vede», disse dopo che Jane ebbe offerto panna liquida o limone o zucchero o dolcificante e si fu ritirata, «Jane mi ha fatto una domanda retorica. Cosa che accade costantemente.» Laurie, che aveva saltato il pranzo, aveva appetito. Si costrinse a sgranocchiare solo un angolino del minuscolo sandwich di salmone privato della crosta. Il suo istinto sarebbe stato quello di ingollarlo intero e prenderne subito un altro. Ma mentre masticava adagio e con grazia, cominciò ad avere l’impressione che Robert Powell stesse giocando con lei al gatto con il topo. Aveva veramente tirato a indovinare quando aveva affermato che era Nina Craig quella delle quattro a chiedere più soldi oppure Nina lo aveva contattato di persona? E sapeva quanto pretendeva di essere pagata? «Ho visto giusto su Nina?» volle sapere Powell accavallando le gambe e cominciando a sorseggiare il suo tè. «Sì», confermò Laurie. «E quanto vuole per le quattro laureate?» «Duecentocinquantamila ciascuna, ma al netto delle tasse.» «Più avida di come ricordassi», mormorò Powell. «Sua madre fatta e finita.» Il tono della sua voce non era più divertito. «Le dica che pago.» L’improvviso cambio nell’espressione e nel tono colse Laurie in contropiede. «Signora Moran», spiegò lui, «c’è una cosa che è necessario che capisca. Anch’io come le quattro ragazze del Gala sono vissuto per tutto questo tempo sotto l’ombra del sospetto. Oggigiorno si vive anche cent’anni, ma l’aspettativa di vita media è tra gli ottanta e ottantacinque. Prima di morire voglio avere la possibilità che un vasto pubblico possa vedere me e le ragazze e capisca forse quanto è grande questa villa e quante persone quella notte entravano e uscivano da queste porte. Come è più che possibile che qualcuno si sia introdotto a nostra insaputa. Come sa, abbiamo a disposizione parecchi video di quella festa.» «Lo so», rispose Laurie. «Credo di aver letto tutto quello che è stato scritto sul caso.» «Bene. Allora si renderà conto che tolte alcune generose donazioni a enti caritatevoli e alle scuole che abbiamo frequentato io, Claire e Betsy, mi restano ancora molti soldi da spendere prima di morire, quindi la somma che pretende Nina è del tutto irrilevante. «Però mi faccia un favore. Quando le scrive per dirle che accettiamo le condizioni che ci pongono per comparire nel programma, la prego di dirle che spero che sua madre abbia in programma di accompagnarla. Sarebbe un piacere per me rivederla.» Anticipò le proteste di Laurie. «Naturalmente non intendo ospitarla in casa mia. Le farò riservare una stanza al St. Regis.» Powell non si era tirato indietro e Laurie non si era aspettata di sentirsi travolgere da un così violento senso di sollievo. Improvvisamente le quotazioni del suo programma riprendevano slancio. Se Powell avesse rifiutato la richiesta di Nina Craig, con tutta probabilità lo show non sarebbe mai decollato e ciò avrebbe decretato anche la fine del suo lavoro. Due serie andate male, poi una proposta rifiutata dopo aver sollecitato grande interesse da parte degli organi d’informazione non avrebbero potuto che portare al suo licenziamento. Brett Young non tollerava le sconfitte. Era sul punto di ringraziare Powell, quando si accorse che stava guardando dietro di lei, in direzione del patio attraverso i vetri delle portefinestre. Si girò a guardare che cosa avesse provocato la sua fugace smorfia di disapprovazione. Appena al di là delle vetrate un giardiniere stava rifinendo il bordo del prato. Powell staccò gli occhi dal giardiniere per tornare a rivolgersi a Laurie. «Chiedo scusa», disse, «ma mi secca quando lavorano ancora a quest’ora. Ho spiegato chiaro e tondo che voglio che tutti i lavori di manutenzione siano completati entro mezzogiorno. Se devo ricevere degli ospiti, non voglio avere il viale d’accesso ostruito da quei loro veicoli così ingombranti.» Dal patio Occhi Blu vide che Powell lo stava fissando. Finì di spuntare gli steli d’erba lungo l’ultima sezione di bordo e, senza guardare, tornò velocemente al furgone con i suoi attrezzi. Era il suo primo giorno di lavoro alla Perfect Estates. Se Powell si fosse lamentato di averlo visto in giro nella sua proprietà a quell’ora così tarda, Occhi Blu si sarebbe giustificato dicendo che si era trattenuto oltre l’orario di lavoro per fare buona impressione sul suo nuovo capo. Quando riprenderanno lo show, le ragazze del Graduation non saranno le sole a essere qui, pensò. Ci sarò anch’io. Che ambientazione perfetta per far fuori Laurie Moran. Aveva già preparato il messaggio da lasciare sul suo corpo: PRIMA GREG ADESSO TU IL PROSSIMO È TIMMY 10 IN giugno la preproduzione di Graduation Gala, primo titolo della nuova serie, entrò nel vivo. Laurie aveva già ottenuto tutti i video che erano stati girati alla festa, ma poi Robert Powell le aveva spontaneamente consegnato alcune registrazioni supplementari effettuate quella sera da altri ospiti. Era come vedere la serata di Cenerentola al gran ballo. Solo che di Cenerentole ce ne erano quattro, rifletté divertita Laurie mentre visionava un nastro dopo l’altro. Dopo la morte di Betsy, George Curtis, socio del Winged Foot Golf Club di Mamaroneck, aveva consegnato alla polizia il video che lui stesso aveva girato quella sera. Era però quasi del tutto una replica di quanto era già in possesso delle forze dell’ordine. Una copia di quel nastro era stata data a Robert Powell che ne aveva fatto richiesta. «È molto simile a quello che vi ho già dato», aveva spiegato al detective che conduceva l’inchiesta, «ma ci sono alcune scene di me e Betsy che mi sono particolarmente care.» Dai fotogrammi aveva fatto estrarre alcune foto che lo ritraevano con la moglie: in una si guardavano negli occhi, in un’altra ballavano nel patio, in un’altra ancora brindavano alle neolaureate. «Con tutti questi film si ha quasi l’impressione di aver partecipato anche noi al ricevimento», commentò Laurie mentre in sala proiezione con Grace e Jerry visionava ripetutamente i nastri per decidere quali sequenze usare per il programma. Comincerò con la scoperta del corpo e l’arrivo della polizia, pensava. Era stato alle otto di mattina. Powell era andato a svegliare Betsy. Le stava portando il caffè. Era l’ora in cui andava sempre a svegliarla con una tazza fumante, anche quando la sera prima avevano fatto tardi. Poi Jane che sopraggiungeva di corsa urlando il nome di Betsy e gridando agli altri di chiamare il 911. Finiremo il primo spezzone con Betsy e Powell che brindano alle neolaureate. «In quel momento la bella Betsy Bonner Powell aveva ancora solo quattro ore di vita», Laurie decise di far dire alla voce fuori campo. George Curtis sapeva di correre il rischio di essere intercettato dalle videocamere di sorveglianza della villa di Powell, ma non se ne preoccupava. Davanti a casa sua passa mezza Salem Ridge, pensò transitando in fila con tutte le altre macchine lungo la tranquilla via residenziale. Che gli sbirri pensassero pure che era un voyeur. Lo sono praticamente tutti quelli che stanno sfilando qui davanti. Per l’occasione aveva preso il SUV invece della Porsche rossa decappottabile. Se le telecamere non avessero ripreso la targa, dubitava molto di essere riconosciuto. Un gran numero di abitanti di Salem Ridge possedevano SUV di marca. E poi si era messo berretto e occhiali scuri. A sessantatré anni, alto, con un’intatta chioma di capelli grigi, George Curtis aveva il fisico asciutto dell’atleta stagionato. Sposato da trentacinque anni e con due gemelli al college, era stato rampollo e figlio unico del proprietario di una grande catena di fast-food. Alla morte del padre, avvenuta quando aveva ventisette anni, aveva preso il suo posto. Visto che fino a quel momento si era dedicato solo alla bella vita, tutti avevano pensato che avrebbe venduto la catena per vivere di rendita. Invece si era sposato quasi subito e con il tempo aveva triplicato il numero dei ristoranti negli Stati Uniti e all’estero, al punto da potersi attualmente vantare di servire un milione di pasti al giorno. A differenza di Robert Powell, il suo ingresso a Harvard era stato favorito dalla sua condizione di studente di quarta generazione, grazie alla quale non solo aveva trovato porte aperte e tappeto rosso, ma era stato ammesso d’ufficio alla Hasty Pudding, la filodrammatica studentesca dell’ateneo. I quindici anni di differenza d’età non erano mai stati un intralcio nei suoi rapporti con Robert Powell, anche se, rifletteva mentre abbandonava Evergreen Lane, se mai avesse saputo, se mai avesse subodorato... Ma Rob Powell non aveva mai sospettato. George ne era certo. Non gliene aveva mai offerto il motivo. Suonò il suo telefono, un’intrusione improvvisa e inattesa. Premette il pulsante del microfono che aveva sul volante. «George Curtis», rispose. «George, sono Rob Powell.» Dio mio, ma stava guardando dalla finestra? George si sentì arrossire. No, non era possibile che avesse letto la targa e di certo non può avermi riconosciuto attraverso i finestrini. «Come stai, Rob? E quando ci facciamo due colpi a golf? Ti avverto che ho battuto il mio record di ottantadue sabati di fila.» «Questo vuol dire che ogni volta hai bisogno di sei giorni per recuperare! Facciamo alle nove?» «Ci sto. Prenoto io.» George imboccò la strada in cui abitava con un notevole senso di sollievo. Rob Powell non era tipo da trattenersi in una conversazione telefonica più a lungo dell’indispensabile. È per questo che, quando subito dopo Rob disse: «George, ho da chiederti un favore», ne fu sorpreso. «Qualunque cosa, la risposta è sì», disse, una banalità che ferì persino le sue stesse orecchie. «Mi prendo tutte le tue concessioni in Europa», scherzò Rob, ma il suo tono diventò subito serio. «George, non ti sarà sfuggito che in giugno l’anniversario della morte di Betsy farà da trampolino di lancio per un programma televisivo.» «No, non mi è sfuggito», ammise Curtis. «Ecco. Dunque, a parte le ragazze, quelli della TV vorrebbero avere anche uno degli amici presenti quella notte a fare da commentatore negli intervalli tra le sequenze scelte dai video che furono girati allora. Io ho fatto il tuo nome e si sono mostrati entusiasti di averti nel cast del programma. Naturalmente avrei fatto meglio a chiederlo prima a te, ma tu puoi sempre rifiutare.» Andare in televisione a parlare di quella notte a una platea nazionale? Sentì il sudore bagnargli le mani strette sul volante. Quando fece per parlare, sentì che gli si era stretta la gola, ma riuscì a mantenere un tono calmo e amichevole. «Rob», riprese George Curtis, «ti ho detto un momento fa che ero pronto a favorirti in qualunque cosa mi avessi chiesto. Ero serio e lo sono anche ora.» «Grazie. Non mi è stato facile chiedertelo e sono sicuro che non è facile per te accettarlo.» Un brusco scatto e la comunicazione fu interrotta. George Curtis si rese conto che frattanto il suo sudore aveva avuto la meglio: ora era tutto fradicio. Cosa aveva in mente Robert Powell? Gli stava tendendo un tranello? In preda a un’incipiente apprensione, ora totalmente distratto, per poco non oltrepassò l’ingresso di casa sua. 11 DALLE finestre dell’elegante soggiorno, uno dei locali meno frequentati della casa, Jane Novak osservava il passaggio del corteo di automobili. Al piano di sopra, nella camera da letto di Betsy, c’era la squadra della TV. La camera da letto della signora Powell, si corresse con sarcasmo. Per lei Betsy era diventata «la signora Powell» il giorno stesso in cui aveva preso servizio in quella casa ventinove anni prima. «Il signor Powell è una persona all’antica, Jane», le aveva detto. «Mi ha autorizzato senza obiezioni ad assumerti, ma esige che tu ti rivolga a me in questa maniera.» Lì per lì a Jane, che aveva trentatré anni, non era sembrato che ci fosse nulla di strano. Era già abbastanza felice d’aver ottenuto il posto. Il signor Powell aveva voluto conoscerla e l’aveva fatta andare a prendere dal suo chauffeur per un colloquio. Le aveva spiegato che siccome la villa era molto grande, quattro volte alla settimana si incaricava delle pulizie il personale di un servizio esterno, che avrebbe operato sotto la sua supervisione. Sarebbe stata lei a preparare i pasti. Se avevano un ricevimento, se ne sarebbe occupato un’impresa di catering. Con due donne delle pulizie ai suoi ordini invece di dover passare il tempo a pulire i camerini di attori trasandati, avrebbe avuto a disposizione quasi tutto il giorno per cucinare, un’attività che per lei non era un’incombenza, ma una gioia. Non le sembrava vero d’aver avuto una così grande fortuna. Allo scadere del primo anno di servizio in casa Powell, l’accorata gratitudine di Jane per il suo datore di lavoro era ulteriormente aumentata. Si era perdutamente innamorata di Rob Powell. Nemmeno per un solo istante aveva creduto anche lontanamente possibile che lui la guardasse come un uomo guarda una donna. Le bastava occuparsi del suo benessere, gongolarsi delle lodi che faceva della sua cucina, sentire il rumore dei suoi passi sulle scale tutte le mattine quando scendeva a prendere il caffè da portare a Betsy. Nei venti anni trascorsi dalla morte di Betsy, aveva potuto vivere nell’illusione di essere diventata lei la moglie di Rob. Tutte le volte che lui diceva: «Questa sera sono fuori a cena, Jane», si sentiva prendere dal panico e segretamente andava a consultare l’agenda che teneva sulla sua scrivania. Ma solo molto raramente vi trovava scritti nomi di donne ed era infine giunta alla conclusione che, data l’età, non ci sarebbe mai più stata un’altra signora Powell. Un anno prima aveva riesaminato il testamento con il proprio avvocato, che era anche suo grande amico, e non lo aveva messo via quando erano usciti dietro casa a fare due tiri di golf. Jane era andata a spiare l’ultima pagina e aveva trovato quello che cercava: il lascito previsto per lei. Rob le avrebbe lasciato trecentomila dollari con cui acquistare un appartamento a Silver Pines, la zona dove Rob sapeva che abitavano alcune persone che Jane aveva conosciuto in chiesa e con cui aveva stretto un’affettuosa amicizia. Oltre al denaro per la casa, le lasciava anche un vitalizio di mille dollari alla settimana. Dopo aver letto quelle righe l’amore che provava per Robert Powell era diventato venerazione. Ma quello show sarebbe stato una fonte di guai. Lo sapeva. Non svegliare il can che dorme, pensò guardando tutti quei curiosi che transitavano davanti alla villa. Si voltò scuotendo la testa e solo allora si accorse che sulla soglia sostava Laurie Moran, la titolare del programma. «Oh», si lasciò sfuggire sorpresa. Laurie non poté non sentire che la sua presenza non le era gradita. «Signora Novak, mi rendo conto di quanto disturbo le stiamo arrecando, immagino che già non ne potrà più di noi. Avevo solo una domanda da farle e non volevo importunare il signor Powell.» Jane riuscì a mostrarle un volto più disteso. «A sua disposizione. Che cosa desidera, signora Moran?» «La stanza della signora Powell è davvero molto bella. Vorrei sapere se le tende, il copriletto e la moquette sono stati sostituiti dopo la sua morte o se sono gli stessi che c’erano la notte in cui è stata uccisa.» «La signora Powell aveva fatto riarredare il locale, ma poi non le era piaciuto come era venuto. Aveva detto che i colori erano troppo carichi.» Uno spreco, pensò Jane impedendosi di scuotere la testa, un terribile spreco di denaro. «Aveva ordinato delle tende nuove, un nuovo rivestimento per la testiera del letto e una nuova moquette. Dopo la sua morte, il signor Powell aveva fatto fare queste modifiche onorando il suo desiderio. Sono quelle che vede ora.» «Un ambiente davvero squisito», commentò Laurie con sincerità. «La stanza viene mai usata?» «No, mai», rispose Jane. «Ma rinfrescata sì. Troverà sempre lucidi la spazzola e il pettine d’argento sul tavolo da toletta. Anche gli asciugamani in bagno vengono sostituiti regolarmente. Il signor Powell voleva che la sua stanza e il bagno fossero sempre come se la signora potesse aprire la porta da un momento all’altro per entrarvi.» Laurie non seppe resistere alla tentazione. «Lui va spesso nella sua stanza?» domandò. Jane corrugò la fronte. «Non credo, ma questa è una domanda che probabilmente dovrebbe rivolgere al signor Powell.» Ora la sua disapprovazione era evidente non solo nell’espressione del viso, ma anche nel tono della voce. Mamma mia, pensò Laurie. Meglio non inimicarsela, questa qui. «Grazie, Jane», la blandì in tono cordiale. «Ora ce ne andiamo tutti quanti. Vi lasceremo in pace per il fine settimana. Ci rivediamo lunedì mattina. E le voglio assicurare fin d’ora che sarà tutto assolutamente finito per mercoledì nelle prime ore del pomeriggio.» Era quasi mezzogiorno e dunque Robert Powell si aspettava che la troupe dello studio televisivo togliesse l’incomodo. Era anche un venerdì, il giorno in cui lavorava da casa. Da quando erano arrivati i tecnici, era rimasto sempre chiuso nel suo studio. Tre giorni, pensò nel pomeriggio Laurie, mentre in ufficio rileggeva i suoi appunti con Jerry e Grace, che erano sempre al suo fianco tutte le volte che andavano a girare a Salem Ridge. Fu Grace a dare fiato a ciò che tutti e tre stavano pensando. «Quella villa è una favola», disse. «Mi fa passare la voglia di tornare nel mio buco al quinto piano senza ascensore dove non riesci a fare tre passi di fila senza andare a sbattere in un muro.» Fece una pausa con un’aria sognante negli occhi più contornati di mascara del solito. «D’altra parte», proseguì, «mi fa venire anche i brividi. Mia nonna diceva sempre che un piccione che ti entra dalla finestra è il segno che in casa sta per arrivare la morte. Laurie, quando oggi eri nella camera di Betsy Powell, non c’era forse fuori un piccione che cercava di entrare?» «Andiamo, Grace», la rimproverò Jerry. «Questa è grossa anche per una come te.» Grossa è sul serio, pensò Laurie. Ma non aveva intenzione di confidare a Grace e Jerry che quella magnifica magione in cui era morta Betsy Powell dava i brividi anche a lei. 12 A MEZZOGIORNO della domenica, Josh era al Westchester Airport ad accogliere Claire, la prima ad arrivare. Sebbene conoscesse Josh, che era stato assunto poco dopo la morte di Betsy, Claire si limitò a un laconico salve ed evitò di conversare con lui. Mentre veniva accompagnata al Westchester Hilton, tornò su quanto era stato programmato per i prossimi tre giorni. Il lunedì mattina si sarebbero incontrati per la prima volta a colazione. Poi per il resto del giorno avrebbero avuto la giornata libera per riambientarsi nella villa e nel giardino circostante. Le interviste individuali avrebbero avuto luogo il martedì. Tutte e quattro avevano accettato di passare la notte del martedì nella villa occupando le stesse stanze che avevano avuto assegnate vent’anni prima. Per il mercoledì mattina era fissata l’intervista a Robert Powell, a cui sarebbe seguita una sessione fotografica intorno al tavolo da pranzo. Dopodiché le ospiti sarebbero state riaccompagnate all’aeroporto a prendere i rispettivi voli. «Noi ci rendiamo naturalmente conto di quanto doloroso sia tutto questo per voi, ma desideriamo sottolineare che la vostra disponibilità ad apparire nel programma è implicitamente una perentoria dichiarazione pubblica della vostra estraneità al terribile dramma che ebbe luogo quella notte», concludeva la lettera di Laurie. La nostra estraneità! ripeté mentalmente con asprezza Claire Bonner mentre si registrava alla reception del Westchester Hilton. Indossava un completo estivo giacca e pantaloni color verde chiaro che aveva acquistato in una rinomata boutique di Chicago. Nei tre mesi trascorsi da quando aveva ricevuto la prima lettera da Laurie Moran, si era lasciata crescere i capelli e li aveva schiariti: ora la luminosa chioma le ricopriva le spalle. Quel giorno però li aveva raccolti in una coda di cavallo e si era coperta la testa con un foulard. Si era esercitata ad applicarsi il trucco, ma quel giorno non lo portava. Truccata e con i capelli acconciati come li soleva portare sua madre, sapeva di somigliarle moltissimo, ma non voleva che Josh lo notasse e lo riferisse a Powell prima d’averlo incontrato lei di persona. «La sua suite è pronta, signora Bonner», la informò il concierge chiamando il fattorino. Claire non mancò di notare lo sguardo con cui la contemplò un po’ più a lungo di quanto sarebbe stato opportuno e la punta di eccitazione nella sua voce. Perché no? Impossibile rimanere estranei allo strombazzamento di tutti gli organi d’informazione sull’imminente programma televisivo. Le riviste di gossip facevano a gara nel rivangare tutto quanto era possibile trovare su Betsy Bonner Powell. «Una presentazione fatale» era un titolo particolarmente urticante apparso sulla prima pagina dello Shocker, un settimanale scandalistico. L’articolo raccontava nei minimi particolari il primo incontro di Betsy Bonner con Robert Powell. Per festeggiare il tredicesimo compleanno della figlia Claire, Betsy l’aveva portata fuori a pranzo in un ristorante di Rye. Nella stessa sala, a una certa distanza, si trovava anche Robert Powell, vedovo, in compagnia della giovane Nina, un’amica di Claire, e la madre di lei. Quando Betsy e Claire avevano abbandonato il loro tavolo per andarsene, Nina le aveva chiamate. Era stato così che Nina aveva presentato Betsy e Claire al multimilionario finanziere di Wall Street. «Il resto, come si suol dire, è storia», era la banale introduzione alle ultime colonne del servizio giornalistico. Robert Powell aveva dichiarato che era stato amore a prima vista. Tre mesi dopo si erano sposati. «L’attrice Muriel Craig fu stoica nell’affrontare la situazione, ma c’è chi nella cerchia delle sue amicizie sostiene che fosse furiosa, in particolare nei confronti della figlia Nina, responsabile di aver voluto chiamare Claire al tavolo del suo compagno.» È vero, rifletté Claire mentre seguiva il fattorino all’ascensore. Povera Nina. La suite consisteva in una spaziosa camera da letto con soggiorno e un bagno con annessa toilette separata, in un ambiente generalmente riposante in varie sfumature pastello. Claire diede la mancia al fattorino, chiamò il servizio in camera e disfece l’unica valigia che aveva portato con sé. Conteneva i tre completi che aveva scelto per l’occasione e la sua scorta di nuovi cosmetici. In una delle sue e-mail, Laurie Moran aveva voluto sapere che taglia portava, spiegando di volerle mettere a disposizione dei ricambi d’abito. Cambi d’abito! aveva pensato Claire nel leggerla. Perché diavolo ne dovrei aver bisogno? Ma poi aveva capito. Moran si sarebbe procurata vestiti da sera simili ma non identici a quelli che le ragazze avevano indossato vent’anni prima al Gala. Nelle sequenze registrate, avrebbero replicato alcune delle scene di allora, come quando avevano brindato tutte insieme posando per le macchine fotografiche tenendosi per la vita. E, più tardi, quando erano state interrogate dalla polizia. So di fare la mia figura, pensò Claire. Ora somiglio moltissimo alla mia adorata mamma. Un discreto colpetto alla porta l’avvertì che era arrivato il servizio in camera con l’insalata di pollo e il tè freddo che aveva ordinato. Ma mentre consumava lo spuntino, Claire si rese conto di non sentirsi così intrepida come aveva pensato. Qualcosa le diceva di rinunciare al suo piano. È solo emozione, cercò di convincere se stessa. Nient’altro che emozione. Ma era qualcosa di più. Con esasperante insistenza, una vocina interiore continuava a ripetere: Non farlo. Non farlo. Non vale il rischio! 13 IL viaggio da Cleveland al Westchester Airport era stato particolarmente faticoso. Il loro aereo era rimasto fermo sulla pista per due ore a causa di un forte temporale e sebbene fossero a bordo di un piccolo jet privato, gli spazi all’interno erano piuttosto angusti, scomodi in particolar modo per la schiena di Rod. A un certo punto Alison aveva persino proposto di rinunciare. «Alie», si era opposto Rod, «questa è l’occasione per te di poter ottenere il master che hai sempre desiderato. Fra Powell e lo studio televisivo incasserai trecentomila dollari al netto delle tasse, con cui potrai pagare la scuola di medicina e far fronte a tutte le altre spese. Sappiamo bene tutti e due che diventare medico e dedicarti poi alla ricerca è sempre stato il tuo sogno.» Anche tornando a casa dall’università tutte le sere, passerei tutto il tempo a studiare. E Rod, poveraccio? E se invece per frequentare l’università fossi costretta a trasferirmi, Rod dovrebbe abbandonare il suo posto al drugstore e venire con me per passare le sue giornate a girarsi i pollici? E poi, se così fosse, al negozio non ci saremmo più né lui né io e allora dovremmo assumere due persone per gestirlo. No, pensava Alison, non vedo proprio come potrebbe funzionare. Quando finalmente atterrarono a Westchester il suo orologio indicava le tre. Ormai le bastava guardare in faccia Rod per misurare a che grado di sofferenze fisiche fosse arrivato. Lo assistette nel trasferimento dalle grucce alla sedia a rotelle, poi si chinò su di lui e gli bisbigliò all’orecchio: «Grazie d’esserti sobbarcato questo viaggio». Lui riuscì a sorriderle alzando gli occhi su sua moglie. Fortunatamente al terminal li attendeva l’autista, un uomo dalla faccia rubizza, sulla cinquantina, con il fisico di un ex pugile. «Io sono Josh Damiano», si presentò, «lo chauffeur del signor Powell. Ha voluto assicurarsi che aveste a disposizione un trasporto comodo dall’aeroporto al vostro albergo.» «È molto premuroso da parte sua.» Alison sperò d’aver dissimulato a sufficienza il disprezzo che provò seduta stante. Ora che erano di nuovo a New York, la sua mente era stata invasa da un caleidoscopio di ricordi. Non vi avevano più messo piede da quindici anni, dopo che i medici avevano informato Rod che non ci sarebbero stati altri interventi chirurgici. Ormai avevano finito i soldi e la famiglia di Rod li manteneva ottenendo prestiti dalle banche, ma Alison era riuscita a portare a termine gli studi con dei corsi serali ottenendo il diploma da farmacista. Era stato con profonda gratitudine che avevano colto l’occasione di trasferirsi a Cleveland a lavorare nel drugstore del cugino. Amo New York, pensava ora, ma ricordo quanto fui felice di andarmene. Avevo la sensazione che la gente appena mi vedeva si domandava se fossi stata io a uccidere Betsy Bonner Powell. A Cleveland siamo riusciti a condurre una vita per la maggior parte tranquilla. «Ci sono delle panche vicino all’ingresso», annunciò Josh. «Mettetevi comodi e datemi il tempo di andare a prendere la macchina. Vedrò di sbrigarmi.» Lo guardarono andar via con i loro bagagli e lo videro riapparire in meno di cinque minuti. «La macchina è qui fuori», spiegò Josh affrettandosi a impugnare i manici della sedia a rotelle di Rod. Li attendeva una scintillante Bentley nera. Quando Josh aiutò Rod ad alzarsi dalla sedia a rotelle per prendere posto sul sedile posteriore, Alison provò una stretta al cuore. Soffre così tanto, pensò, e non si lamenta mai, come non parla mai della carriera da campione che avrebbe avuto se avesse potuto continuare a giocare... Il macchinone si mise in moto. «C’è poco traffico», riferì loro Josh. «Dovremmo metterci una ventina di minuti.» Avevano scelto di alloggiare al Crowne Plaza a White Plains. Erano abbastanza vicini a Salem Ridge, ma abbastanza lontani dagli alberghi dove avrebbero soggiornato le altre tre amiche d’infanzia. Così aveva voluto Laurie Moran. «Tutto bene?» si preoccupò d’informarsi Josh Damiano. «Comodissima», lo rassicurò Alison, mentre Rod borbottava parole d’assenso. Ma subito dopo Rod si sporse verso di lei. «Alie», bisbigliò. «Stavo pensando che, quando verrai ripresa, è meglio che tu non faccia parola del tuo sonnambulismo e della possibilità che quella notte tu sia entrata nella camera di Betsy.» «Oh, Rod», ribatté Alison sgomenta, «non lo avrei mai fatto.» «E non rivelare niente della tua speranza di diventare medico se non sono loro a chiedertelo. Ricorderebbe a tutti la delusione cocente che hai provato quando non hai ottenuto la borsa di studio per la scuola di medicina e quanto male ci sei rimasta quando Robert Powell ha fatto in modo che il decano dell’istituto l’assegnasse a Vivian Fields.» Il ricordo della pugnalata alla schiena che aveva ricevuto il giorno della sua laurea le distorse i lineamenti del volto in una smorfia di dolore e rabbia. «Betsy Powell cercava tutti i modi per entrare al Women’s Club con le altre dame dell’alta società e la madre di Vivian era la presidente dell’associazione. E naturalmente Powell aveva la sua influenza, dato che aveva donato un dormitorio al college! I Fields avrebbero potuto pagare di tasca propria l’istruzione di Vivian anche cento volte. Persino il decano era imbarazzato quando annunciò il suo nome. E come aveva abbassato il volume della voce nell’accennare ai brillanti risultati accademici di Vivian. Figuriamoci! Ha mollato al secondo anno! Avrei potuto cavarle gli occhi, a Betsy!» «Motivo per il quale se ti chiedono che cosa hai intenzione di fare di quei soldi, tu rispondi che hai in programma di fare il giro del mondo in crociera», le consigliò il marito. Quando alzò gli occhi allo specchietto retrovisore, Josh Damiano vide Rod sussurrare qualcosa all’orecchio della moglie e Alison reagire immediatamente con sofferente disappunto. Non poteva sentire che cosa si stessero dicendo, ma sorrise dentro di sé. Poco importa se li sento o no, pensò. Tutto quello che veniva detto in quell’automobile veniva debitamente registrato. 14 LA prima reazione di Regina Callari nell’apprendere che, tra la Fisher Blake Studios e Robert Powell, avrebbe guadagnato trecentomila dollari tondi tondi per apparire in un programma televisivo fu di sollievo ed euforia. Si sentì improvvisamente le spalle alleggerite dal peso soffocante di dover vivere alla giornata sfruttando le rare occasioni che aveva di piazzare qualche appartamento in vendita in un mercato immobiliare in crisi nera. Le restituì quasi del tutto la confortante sensazione di sicurezza in cui era vissuta negli anni dell’infanzia, fino al giorno in cui aveva trovato il corpo di suo padre appeso alla trave nella rimessa. Per molti anni aveva fatto ripetutamente lo stesso sogno sulla sua infanzia. Si svegliava nella sua grande camera da letto con il bel letto bianco e la spruzzata di delicati fiorellini rosa sulla testiera, il comodino, il comò, lo scrittoio e la libreria. Nel sogno rivedeva sempre come dal vivo il copriletto con i disegni rosa e bianchi intonati a quelli delle tendine alle finestre e il soffice scendiletto rosa. Dopo il suicidio del padre, quando sua madre si era resa conto di quanti pochi soldi avevano, erano andate a vivere in un buco dove dormivano nella stessa stanza. Sua madre da sempre appassionata di moda, aveva trovato lavoro come consulente agli acquisti da Bergdorf Goodman, dove in passato era stata un’apprezzata cliente. In qualche modo avevano tirato avanti e Regina si era laureata con ampio merito grazie a una borsa di studio. Dopo il matrimonio di Alison e le voci sulla morte di Betsy, mi sono trasferita in Florida per scappare, pensava mentre saliva a bordo del suo aereo a St. Augustine. Sai che fuga. Lascia perdere, si disse, non ci pensare altrimenti ti fai solo del male. Poche ore prima aveva salutato Zach che partiva per il suo tour europeo. Avrebbe raggiunto i suoi amici a Boston e da lì avrebbero preso quella stessa sera un aereo per Parigi. Comodamente seduta a bordo del piccolo velivolo privato, Regina si concesse un calice di vino prima del decollo. Un breve sorriso le sfiorò le labbra al ricordo delle belle giornate che aveva appena trascorso con Zach. Quando due settimane prima suo figlio era tornato a casa dal college, aveva appeso un cartello di CHIUSO PER FERIE alla porta dell’agenzia e annunciato a Zach che andavano in vacanza insieme: in crociera nei Caraibi. In quei giorni non solo aveva ritrovato il legame affettivo che tanto aveva temuto d’aver perso con lui, ma lo aveva ulteriormente consolidato. Zach aveva volutamente ridotto al minimo gli accenni al padre e alla sua nuova moglie, ma quando lei lo aveva sollecitato, le aveva raccontato tutto. «Mamma, so che quando papà ha cominciato a fare i soldi, e ne fa tanti, avrebbe dovuto darti di più. E credo che lo avrebbe anche fatto se non fosse stato condizionato dalla probabile reazione di Sonya. Ha davvero un brutto carattere.» Il padre di Zach aveva scritto le canzoni che lo avrebbero reso ricco ai tempi in cui erano sposati, ma purtroppo riuscì a piazzare la prima solo un anno dopo il divorzio. E io non potevo permettermi un avvocato per dimostrare che quando l’aveva scritta era sposato con me, pensò mesta Regina. «Credo che rimpianga di aver sposato Sonya», le aveva confidato il figlio. «Quando litigano, i decibel delle loro voci fanno ballare il tetto.» «Questa sì che mi piace», ricordava di avergli detto. Il suo sorriso s’intensificò ricordando i complimenti che le aveva fatto Zach per come era dimagrita. «Mamma, sei proprio uno sballo», si era congratulato. E non una sola volta. «Ho fatto un sacco di palestra in questi ultimi due mesi», gli aveva confessato. «Frequentarla regolarmente era un’ottima abitudine che purtroppo avevo perso.» Durante la crociera Zach le aveva chiesto dei suoi genitori. «A me hai sempre raccontato solo che il nonno si è ucciso perché aveva sbagliato certi investimenti ed era rimasto senza un soldo e che la nonna aveva intenzione di andare a vivere in Florida quando avesse smesso di lavorare, ma che è morta nel sonno quando tu ti eri trasferita lì solo da un anno», le aveva ricordato. «Non si era mai ripresa dalla perdita di mio padre.» E Zach gli somigliava tremendamente, pensò Regina adesso, mentre il suo aereo decollava. Alto, biondo e con gli occhi azzurri. L’ultima sera a cena in crociera Zach le aveva chiesto della notte in cui era morta Betsy. Aveva sentito suo padre che raccontava tutto a Sonya e aveva fatto ricerche in Internet. A quel punto Regina gli aveva raccontato del messaggio. Avrò sbagliato a rivelarglielo? si domandava ora. Ma avevo bisogno di parlarne a qualcuno. Ho sempre avuto paura d’aver commesso un errore per non averlo mostrato alla mamma. Lascia stare, si ammonì mentre si concedeva un secondo bicchiere di vino. Quando atterrò a Westchester erano le otto. L’uomo che l’accolse, le si presentò come lo chauffeur del signor Powell, Josh Damiano. Le spiegò che il signor Powell voleva che fosse agevolata in tutti i modi. Le fu difficile non scoppiare a ridere. Quando le aprì lo sportello della Bentley, non seppe resistere. «Immagino che il signor Powell abbia superato la fase dei Mercedes», commentò. «Oh, no», rispose con un sorriso Josh. «Una Mercedes ce l’ha eccome e a passo lungo, una famigliare.» «Buon per lui.» E chiuditi la bocca, si rimproverò Regina salendo in macchina. Avevano appena lasciato l’aeroporto quando squillò il suo cellulare. Era Zach. «Stiamo per imbarcarci, mamma. Volevo assicurarmi che fossi arrivata sana e salva.» «Oh, tesoro, che carino. Già mi manchi.» Il tono di Zach cambiò. «Quel messaggio, mamma. Mi hai detto che avevi avuto la tentazione di sbatterlo in faccia a Powell. L’hai portato con te?» «Sì, ce l’ho, ma non temere, non farò una cosa così folle. È nella valigia. Ti giuro che nessuno può trovarlo.» «Distruggilo, mamma! Se qualcuno lo trova, potresti correre qualche rischio molto serio.» «Zach, se ti fa stare più tranquillo, ti prometto che lo elimino.» No che non lo farò, pensò, ma non posso lasciare che parta in questo stato di ansia per me. Al volante della Bentley, Josh Damiano non aveva pensato di registrare Regina perché viaggiava da sola. Quando aveva sentito squillare il suo telefono, aveva immediatamente azionato il registratore. Non si può mai sapere, pensò. Non si è mai troppo zelanti quando si lavora per un uomo come il signor Powell. 15 ERA stata una giornata lunghissima. In compagnia di Jerry e Grace, Laurie aveva puntigliosamente analizzato una miriade di dettagli per assicurarsi che il primo giorno di riprese tutto fosse stato debitamente previsto e organizzato a puntino. «Questo è quanto», sospirò, rialzando finalmente la testa dai documenti sparsi sulla sua scrivania e appoggiandosi allo schienale. «Il dado è tratto, più di così ora come ora non possiamo fare. Le ragazze sono tutte qui e domani le incontreremo. Cominceremo alle nove. Il signor Powell ha detto che farà preparare dalla governante caffè, frutta e panini.» «Mi riesce veramente difficile credere che non si siano mai tenute in contatto tra di loro per tutti questi anni come sostengono», osservò Jerry. «Scommetto che comunque saranno andate a dare di tanto in tanto un’occhiata in Internet. Se io fossi una di loro, lo avrei fatto. Mia zia usa sempre Google per vedere che cosa sta combinando il suo ex.» «Io mi aspetto che almeno per i primi minuti il nostro incontro sarà all’insegna dell’imbarazzo», pronosticò Laurie con un’eco di preoccupazione nella voce. «D’altra parte per anni sono state molto amiche e tutte e quattro hanno subito e patito le durezze di un interrogatorio.» «Tempo fa», ricordò Jerry, «Nina Craig disse a un giornalista che tutte e quattro erano state accusate di aver partecipato a un complotto per assassinare Betsy e che il detective l’aveva sollecitata a testimoniare per l’accusa in cambio di una sentenza più mite. Dev’essere stata un’esperienza angosciante.» «Io ancora non capisco perché una di loro dovrebbe aver voluto uccidere Betsy Powell», intervenne Grace scuotendo la testa. «Stanno festeggiando la laurea con un party sontuoso. Hanno tutta la vita davanti. Nei video girati durante la festa sembrano tutte più che felici.» «Forse una di loro non lo era tanto quanto sembrava», commentò Laurie. «Vi dico come la vedo io», ribatté Grace. «Claire, la figlia di Betsy, certamente non aveva nessuna ragione per uccidere sua madre. Andavano d’amore e d’accordo. Il padre di Regina Callari aveva perso i suoi soldi in uno dei fondi d’investimento di Powell, ma persino sua madre ha ammesso che ripetutamente Powell gli aveva raccomandato di non investire più di quanto fosse in grado di perdere. Quando Powell conobbe Betsy, la madre di Nina Craig aveva con lui una relazione sentimentale, ma solo un pazzo soffocherebbe una persona per una ragione come quella. E Alison Schaefer si sposò quattro mesi dopo la laurea ma il suo fidanzato all’epoca era già un campione di football con un contratto multimilionario. Che motivo poteva aver avuto per schiacciare un cuscino sulla faccia di Betsy Powell?» Mentre parlava, Grace scandiva le diverse situazioni sulle dita di una mano. «E quella musona di governante era stata assunta da Betsy», continuò. «Dunque secondo me si tratta semplicemente della solita rapina andata male. Quella villa è grandissima. Ci sono portefinestre scorrevoli dappertutto. Il sistema d’allarme non era inserito. Una delle porte non era chiusa a chiave. Chiunque sarebbe potuto entrare. Io credo sia stato uno che voleva mettere le mani su quella parure di smeraldi. Una collana e due orecchini che da soli valevano un capitale. E non dimentichiamoci che uno di quegli orecchini è stato ritrovato sul pavimento della sua stanza.» «In mezzo a tutta quella gente poteva anche esserci un intruso», fece eco Laurie. «Alcuni degli ospiti avevano chiesto il permesso di portare degli amici e nei video ci sono un paio di persone che nessuno è stato in grado di identificare con sicurezza.» Fece una pausa. «Chissà, può darsi che questo aspetto salti fuori nel nostro programma. Se così sarà, vedrete quanto felici saranno Powell, la governante e le ragazze di aver partecipato.» «Io credo lo siano già», azzardò Jerry. «Trecentomila dollari netti sono una somma più che simpatica da infilarsi nel portafogli. Vorrei averla io.» «Se avessi io a disposizione quei soldi, mi toglierei lo sfizio di un appartamento nuovo che sia solo al quarto piano senza ascensore», mormorò Grace con un sospiro. «Ma se saltasse fuori che è stata una di loro», notò Jerry, «potrebbe sempre farsi difendere da Alex Buckley. E con i suoi onorari, i trecentomila sfumerebbero in un lampo.» Alex Buckley era il noto penalista che sarebbe stato l’ospite d’onore del programma e avrebbe condotto le singole interviste con Powell, la governante e le neolaureate. Non ancora quarantenne, era spesso ospite dei programmi televisivi in cui si discutevano importanti casi giudiziari. Era diventato famoso difendendo un ricco industriale accusato di aver ucciso il suo socio. Contro ogni probabilità, Buckley aveva ottenuto un verdetto di non colpevolezza, che la stampa aveva deplorato sostenendo che si fosse trattato di un gravissimo errore giudiziario. Dieci mesi dopo tuttavia la moglie del socio ucciso si era tolta la vita e nel suo messaggio d’addio aveva confessato l’omicidio del marito. Dopo aver visionato un gran numero di video di Alex Buckley, Laurie aveva deciso che sarebbe stato il conduttore ideale del suo programma sul Graduation Gala. Dopodiché aveva dovuto convincerlo. Aveva chiamato il suo ufficio e fissato un appuntamento. Era appena stata accompagnata nel suo ufficio, quando all’avvocato era arrivata una chiamata urgente, così, seduta davanti alla sua scrivania, Laurie aveva avuto l’occasione di studiarlo da vicino. Era bruno con gli occhi verde-azzurri sottolineati dalla montatura nera degli occhiali, mento volitivo e il fisico atletico, alto e snello, che ne aveva fatto una star della pallacanestro al college. Guardandolo in televisione, aveva concluso che fosse uno di quegli uomini che guadagnano d’istinto la simpatia e la fiducia degli spettatori ed erano giusto le qualità che cercava per la persona che avrebbe ricostruito la storia conducendo il suo programma. E l’intuizione che aveva avuto fu confermata dal modo rassicurante con cui lo aveva sentito confortare il suo interlocutore al telefono. Quando aveva concluso la conversazione telefonica, le aveva rivolto un sorriso cordiale e sincero. Ma il tono della sua prima domanda l’avvertiva implicitamente a non fargli perdere tempo: «Mi dica pure che cosa posso fare per lei, signora Moran». Laurie, che si era preparata a dovere, era stata concisa e appassionata. Ricordò il momento in cui Alex Buckley aveva annuito lentamente prima di appoggiare la testa allo schienale della poltrona. «Devo dire che trovo la sua proposta estremamente interessante, signora Moran», le aveva risposto. «Laurie», le disse in quel momento Jerry tornando su Buckley, «ero sicuro che il nostro principe del foro ti avrebbe congedata senza troppi complimenti.» «Sapevo che il compenso che potevo offrirgli per partecipare al programma non sarebbe stato sufficiente ad accontentarlo, ma mi aspettavo che potesse essere curioso di sapere qualcosa di più di un caso così importante e ancora irrisolto come il Graduation Gala. Grazie al cielo ci avevo visto giusto.» «Occhio di lince», la canzonò allegramente Jerry. «Farà un figurone.» Erano le sei del pomeriggio. «Speriamo», mormorò Laurie alzandosi. «Abbiamo sgobbato abbastanza. Direi che possiamo chiudere.» «Come dicevo oggi a Jerry e Grace», raccontava Laurie a suo padre due ore dopo bevendo un caffè con lui, «il dado è tratto.» «In che senso?» chiese Timmy. Per una volta non se n’era andato subito dopo cena. «Nel senso che ho fatto tutto il possibile e domani mattina cominceremo le registrazioni del programma.» «Diventerà una serie?» volle sapere Timmy. «Che resti tra me e te», l’ammonì Laurie con un sorriso. Come somiglia a Greg, pensò, non solo nell’aspetto, ma nelle espressioni che fa quando si mette a meditare su qualcosa. Voleva sapere sempre tutto dei progetti ai quali lavorava sua madre. Questa volta lei gli aveva descritto il nuovo programma in termini abbastanza generici come «la rimpatriata di quattro amiche che sono cresciute insieme ma non si sono più viste per vent’anni». La reazione del figlio era stata: «E perché non si sono più viste?» «Perché vivevano in stati diversi», aveva risposto Laurie con sufficiente sincerità. Quegli ultimi mesi erano stati duri, rifletté. Non c’era stata solo la pressione dei faticosi preparativi per il nuovo programma. Il 25 maggio Timmy aveva fatto la Prima Comunione e Laurie non aveva potuto impedire che le lacrime le scivolassero da sotto gli occhiali scuri. Dovrebbe esserci anche Greg qui. Dovrebbe esserci anche lui, quando invece non ci sarà mai per nessuno di tutti i momenti più importanti nella vita di Timmy. Non ci sarà per la Cresima e per la festa del diploma e per la laurea o per il giorno in cui si sposerà. Non ci sarà mai. Erano stati questi i pensieri che le erano martellati nella testa mentre si sforzava senza speranza di impedirsi di piangere. Si accorse in quel momento che Timmy la stava fissando con un’espressione preoccupata. «Mamma, hai la faccia triste», le disse. «Allora devo aver scelto quella sbagliata.» Laurie cacciò giù il groppo che le si stava formando in gola e sorrise. «Questa va meglio, giusto? Non ho motivo di essere triste con te e il nonno. Dico bene, papà?» Leo Farley non era nuovo all’emozione che evidentemente stava vivendo in quel momento sua figlia. Anche lui, quando pensava agli anni trascorsi accanto a Eileen, veniva preso talvolta da una profonda tristezza. Per non dire di quando ricordava Greg, perduto per mano di chissà quale reincarnazione di Satana... Leo scacciò quei pensieri. «E io ho voi due», rincarò con slancio. «Badate a non restare alzati troppo a lungo. Domani dobbiamo svegliarci tutti di buonora.» L’indomani mattina Timmy partiva per una vacanza di due settimane in campeggio con alcuni suoi amici. Leo e Laurie avevano avuto il loro bel da fare per contenere le loro ansie nel timore che Occhi Blu potesse scoprire dove stava andando Timmy. Alla fine però si erano arresi alla logica considerazione che se lo avessero isolato dai compagni e amici impedendogli di partecipare alle attività comuni, ne avrebbero fatto una persona timorosa e sempre sulle spine. Nei cinque anni trascorsi da quando Greg era stato ucciso, si erano sforzati in ogni modo di far vivere a Timmy una vita normale... pur vegliando su di lui. Leo si era recato personalmente nella località dove si sarebbero accampati i ragazzi e aveva parlato con il responsabile dell’organizzazione ottenendo l’assicurazione che tutti i ragazzi dell’età di Timmy sarebbero stati costantemente sotto gli occhi dei sorveglianti e che il campo era ulteriormente protetto da guardie giurate che avrebbero individuato immediatamente un estraneo. Al responsabile, Leo aveva riferito le parole gridate da Timmy: «Occhi Blu ha ucciso il mio papà». Poi aveva ripetuto la descrizione che la testimone aveva fornito alla polizia: «Aveva la faccia nascosta sotto una sciarpa. Aveva un berretto in testa. Era di altezza media, ben piantato ma non grasso. È scomparso dietro l’angolo in pochi secondi, ma non mi è sembrato che fosse giovane. Però era veramente veloce». Chissà perché mentre diceva «veramente veloce», nella mente di Leo era ricomparsa l’immagine dell’uomo che in marzo era passato schettinando sul marciapiede. Forse perché per poco non aveva travolto quella donna incinta davanti a noi, pensò. «Ancora un po’ di caffè, papà?» «No, grazie.» Leo dovette mordersi la lingua per non dire a Laurie che riunire una seconda volta tutte quelle persone del Graduation Gala sotto lo stesso tetto era troppo rischioso. Sarebbe successo comunque e non serviva sprecare fiato. Spinse indietro la seggiola, raccolse i piatti del dessert e le tazze e li portò in cucina. Laurie era già di là e stava caricando la lavastoviglie. «Ci penso io», si offrì Leo. «Tu controlla di nuovo lo zaino di Timmy. Credo di averci messo tutto.» «Allora c’è tutto. Non ho mai conosciuto una persona così ben organizzata come te. Cosa farei senza il mio papà?» «Te la caveresti benissimo, ma non temere, perché ho intenzione di restare nei paraggi ancora per un po’.» Leo Farley baciò sua figlia. Mentre pronunciava quelle parole, gli tornarono in mente per la milionesima volta, quelle che la donna che aveva assistito alla morte di Greg aveva sentito pronunciare all’assassino rivolto a Timmy: Di’ a tua madre che adesso tocca a lei. Poi sarà il tuo turno. In quel momento Leo Farley decise che per i giorni di registrazione del programma a Salem Ridge ci sarebbe stato anche lui. Sono un piedipiatti abbastanza esperto da poter spiare senza farmi accorgere, pensò. Se qualcosa dovesse andare storto, voglio esserci, disse tra sé. 16 LA sveglia di Alex Buckley suonò alle sei del mattino, pochi secondi dopo che la sua sveglia interiore lo avesse richiamato dal sonno facendogli aprire gli occhi. Per qualche minuto rimase sdraiato com’era a riordinare i pensieri. Era il giorno in cui si sarebbe recato a Salem Ridge per il primo giorno di riprese del Graduation Gala. Spinse via il lenzuolo e si alzò. Qualche anno prima era entrata nel suo ufficio una cliente in libertà condizionata. «Mamma mia», aveva esclamato quando lui si era alzato per accoglierla. «Non mi ero resa conto di quanto lei fosse sconfinato!» Alex, che era alto un metro e novantatré, aveva riso assecondandola. La sua cliente era alta meno di un metro e sessanta, una statura modesta che non le aveva impedito di infliggere al marito una coltellata mortale durante un diverbio coniugale. La sua battuta gli riaffiorò alla mente mentre entrava in bagno per fare la doccia, ma il breve ricordo si dissolse appena si mise a riflettere su ciò che lo aspettava. Sapeva bene perché aveva deciso di accettare la proposta di Laurie Moran. Del Graduation Gala aveva letto quando frequentava il secondo anno all’Università di Fordham e aveva successivamente seguito gli sviluppi del caso con morboso interesse, cercando di capire quale delle quattro laureate avesse commesso il delitto. Fin dall’inizio era stato sicuro che fosse una di loro. Il suo appartamento era in Beekman Place, sull’East River, un quartiere abitato da alti funzionari dell’ONU, nonché da uomini d’affari facoltosi che preferivano mantenere un profilo basso. Era capitato in quell’appartamento due anni prima e, durante la cena, aveva saputo che i padroni di casa intendevano venderlo. Aveva deciso su due piedi di acquistarlo. L’unico difetto che aveva, secondo lui, era l’enorme insegna rossa della Pepsi-Cola che lampeggiava notte e giorno sul tetto di un edificio di Long Island City e gli guastava il panorama dell’East River. Ma era un appartamento grande, con un’ala riservata alla servitù. Sapeva di non aver bisogno di tutto quello spazio, ma d’altra parte, si giustificava, una sala da pranzo con tutti i crismi significava che poteva organizzare pranzi a inviti; avrebbe potuto trasformare la seconda camera da letto in studio privato e una stanza per gli ospiti faceva sempre comodo. Suo fratello Andrew, tanto per dirne una, un avvocato specializzato in diritto societario che viveva a Washington, si recava regolarmente a Manhattan per affari. «Non avrai più bisogno di stare in albergo», gli aveva annunciato. «Sono pronto a pagare al tasso attuale», aveva scherzato suo fratello. «Per la verità», aveva aggiunto, «non ne posso più degli alberghi, perciò sarò felicissimo.» Quando aveva comprato l’appartamento, Alex aveva deciso che invece di una governante per due giorni alla settimana, sarebbe stato più conveniente avere un dipendente a tempo pieno che potesse tenere la casa pulita, fare delle commissioni per lui e preparargli i pasti quando era a casa. Consigliato dall’architetto di interni che aveva arredato la sua nuova dimora con gran buongusto, aveva assunto Ramon, che era stato alle dipendenze di altri suoi clienti ma aveva scelto di non trasferirsi in California con loro. Gli ex datori di lavoro di Ramon erano una coppia eccentrica che faceva gli orari più strani e sparpagliava sui pavimenti di casa gli indumenti che si toglieva. Ramon si era stabilito di buon grado nella stanza con bagno privato dietro la cucina, il piccolo monolocale progettato per un domestico residente. Sessantenne, originario delle Filippine, era divorziato da tempo e aveva una figlia che viveva a Syracuse. L’uomo non s’interessava minimamente agli affari privati di Alex e mai gli sarebbe passato per la testa di leggere qualcosa che il suo datore di lavoro avesse dimenticato sulla scrivania. Il domestico era già in cucina quando Alex, vestito di tutto punto in giacca con camicia bianca e cravatta si sedette al tavolino nell’angolo della prima colazione. Di fianco al suo piatto c’erano i quotidiani appena arrivati, ma dopo aver salutato Ramon e aver dato una scorsa ai titoli principali, li mise da parte. «Li leggerò quando tornerò a casa stasera», disse mentre Ramon gli versava il caffè. «Niente di succoso?» «Lei è a pagina sei del Post, signore. Ha accompagnato la signorina Allen alla prima di un film.» «Sì, infatti.» Alex non si era ancora abituato del tutto all’indesiderata pubblicità originata dalla notorietà conseguente alle sue frequenti apparizioni televisive. «È una donna molto bella, signore.» «Sì, infatti.» C’era anche quello. Scapolo com’era, avvocato sulla cresta dell’onda, non poteva farsi vedere al fianco di una donna in occasione di qualche avvenimento senza che si pensasse subito a una relazione. Elizabeth Allen era un’amica e niente di più. Consumò frettolosamente la frutta, i cereali e il toast che il domestico gli aveva preparato. Era troppo ansioso di andare finalmente alla grande villa a conoscere Robert Powell e le quattro ex neolaureate. Dovevano essere sui quarant’anni ormai, calcolò: Claire Bonner, Alison Schaefer, Regina Callari e Nina Craig. Dopo aver accettato di condurre il programma, aveva svolto ricerche approfondite sul loro conto e aveva letto tutto quanto era apparso sugli organi d’informazione all’epoca del delitto. Gli era stato chiesto di presentarsi alla villa di Powell alle nove. Era ora di mettersi in marcia. «Sarà a casa per cena, signor Alex?» domandò Ramon. «Sì.» «Ha in programma di avere uno o più ospiti?» Alex sorrise all’ometto che attendeva con ansia la sua risposta. Ramon è un perfezionista, pensò non per la prima volta. Non gli andava di sprecare il cibo quando lo si poteva evitare ed era lieto di essere informato a tempo debito quando Alex invitava amici a pranzo. L’avvocato scosse la testa. «Niente ospiti», ribatté. Pochi minuti dopo Alex era nella rimessa del suo palazzo. Ramon aveva già avvertito, perciò la sua Lexus decappottabile era parcheggiata vicino alla rampa d’uscita con il tettuccio abbassato. Alex inforcò gli occhiali da sole, avviò il motore e si diresse verso l’East River Drive. Aveva ben chiare nella testa le domande che avrebbe rivolto alle sei persone che si sapeva essersi trovate nella casa la notte in cui Betsy Bonner Powell era stata soffocata nel sonno. 17 LEO Farley strinse in un abbraccio vigoroso il nipote che si preparava a salire sull’autobus della Saint David’s School che lo avrebbe portato a Camp Mountainside sui monti Adirondack. Nascose come meglio poteva il sempre presente timore che Occhi Blu scovasse la destinazione del piccolo Timmy. «Ti invidio», gli disse, «perché so che te la spasserai un mondo con i tuoi amici.» «Lo so, nonno», rispose il bambino, ma subito la sua espressione si fece apprensiva. Guardando gli altri partecipanti, Leo si accorse che lo stesso stava accadendo a tutti i suoi compagni di viaggio. Al momento della separazione da genitori e nonni era corrisposto un palpito di ansia che si era rispecchiato sul viso di tutti i ragazzi. «Coraggio, campioni, tutti a bordo!» li incitò uno degli accompagnatori. Leo abbracciò di nuovo il nipote. «Ti divertirai», ripeté prima di schioccargli un bacio sulla guancia. «E tu ti prenderai cura della mamma, vero, nonno?» «Naturalmente.» Laurie aveva fatto colazione con Timmy alle sei del mattino prima che arrivasse a prenderla la macchina della Fisher Blake Studios per portarla a Salem Ridge. Durante i saluti era scappata qualche lacrimuccia. Mentre Timmy si metteva in fila per salire sul pullman, Leo rifletté che, anche se ormai solo di tanto in tanto gli accadeva di avere incubi di Occhi Blu, non aveva certamente scordato la terribile minaccia che gli aveva gridato l’assassino di suo padre. E a otto anni d’età, si preoccupava soprattutto che non accadesse qualcosa a sua madre. Non finché ci sarò io, concluse Leo. Salutata per un’ultima volta la comitiva in partenza, andò a recuperare la Toyota nera a noleggio che aveva parcheggiato nella Quinta Avenue, a un isolato da lì. Non avrebbe potuto gironzolare nei pressi di Laurie sulla sua vecchia Ford rossa, perché sicuramente sua figlia l’avrebbe riconosciuta. Partì alla volta di Salem Ridge. Tre quarti d’ora dopo era in Old Farms Road nel momento in cui la limousine che trasportava la prima delle quattro protagoniste imboccava il lungo viale di casa Powell. 18 OCCHI Blu assecondava sempre l’istinto. Quel giorno, cinque anni prima, aveva sentito che era giunto il momento di dare inizio alla sua vendetta. Quel pomeriggio aveva seguito il dottor Greg Moran e Timmy dalla loro abitazione sulla Ventunesima al parco giochi della Quindicesima. Aveva provato un brivido di onnipotenza nel vederli avviati mano nella mano verso il luogo dell’esecuzione. Al momento di attraversare la strada, il dottore aveva preso il figlio in braccio. Aveva riso nel vedere il sorriso beato sul viso di Timmy appeso al collo del padre. Per un attimo si era chiesto se ammazzarli tutti e due, ma aveva deciso di no. In quel modo gli sarebbe rimasta solo Laurie. No, meglio aspettare. Ora però toccava a lei. Quante cose sapeva su Laurie: dove abitava, dove lavorava, dove andava a correre sull’East River. Qualche volta era persino salito sul suo autobus e le si era seduto accanto. Se solo sapessi, se solo sapessi! Che fatica non girarsi a dirglielo in faccia. Aveva adottato il nome di Bruno Hoffa appena finito di scontare la condanna a cinque anni. Un vero giochetto da ragazzi cambiare nome e procurarsi documenti falsi dopo il periodo di libertà vigilata, si compiaceva ancora oggi. Nei sei mesi da quando era uscito di prigione per la seconda volta si era mantenuto con quel genere di lavori per cui nessuno bada molto ai tuoi precedenti, lavori alla giornata, brevi ingaggi nei cantieri edili. Il lavoro pesante non lo spaventava, anzi, gli piaceva. Ricordava d’aver sentito un giorno qualcuno dire che sembrava e si comportava come un contadino. Invece di prenderla male, ne aveva riso. Sapeva di avere il corpo tarchiato e le braccia forti che inducono la gente a pensare a qualcuno che lavora di vanga e zappa e a lui stava bene così. A sessant’anni compiuti, sapeva di poter probabilmente seminare qualsiasi sbirro avesse cercato di inseguirlo. In aprile aveva letto sui giornali che la Fisher Blake Studios avrebbe reinscenato il delitto del Graduation Gala e che a produrre il programma sarebbe stata Laurie Moran. A quel punto si era messo a caccia di un sistema per introdursi nella proprietà Powell in maniera da non destare sospetti. Quando era andato a studiare la villa, aveva notato il grosso furgone con la scritta PERFECT ESTATES sulla fiancata. Aveva cercato sull’elenco delle aziende e aveva fatto domanda di impiego. Da ragazzo aveva lavorato per un giardiniere, e aveva imparato tutti i fondamentali del mestiere. Non ci voleva un cervello da genio per tagliare l’erba di un prato o spuntare siepi e cespugli o piantare fiori nei posti che ti indicava il capo. Era un lavoro che gli piaceva. E sapeva che quando avessero cominciato a registrare il programma, Laurie Moran avrebbe trascorso alla villa molte ore della giornata. L’aveva vista da Powell per la prima volta quando era stato assunto da poco. L’aveva riconosciuta quand’era scesa dalla sua macchina e si era immediatamente munito di un paio di cesoie per avvicinarsi alle portefinestre per spiarla da vicino. Avrebbe potuto farla fuori quel giorno stesso quand’era uscita per tornare all’automobile, ma aveva preferito rimandare. Aveva già atteso così a lungo assaporando il terrore in cui viveva la sua famiglia. Non sarebbe meglio aspettare che tornasse con la sua troupe? si era domandato. I mass media non avrebbero drammatizzato ancora di più la sua morte grazie all’enorme pubblicità data al programma sul Graduation Gala? Ad Artie Carter, il datore di lavoro di Occhi Blu, Powell aveva detto che avrebbero dato il via alle registrazioni il 20 giugno. La preoccupazione di Occhi Blu era che Powell ordinasse all’impresa di completare tutta la manutenzione del giardino prima che cominciassero le riprese. Per questo aveva volto parlare con Artie il giorno prima, il 19, mentre davano gli ultimi ritocchi a prati, piante e arbusti. «Signor Carter», esordì nonostante tutti gli altri dipendenti lo chiamassero Artie. Aveva spiegato che era perché gli era stato insegnato a portare il massimo rispetto al boss e aveva avuto la sensazione che a Carter non fosse affatto dispiaciuto. In verità Artie Carter trovava che ci fosse qualcosa di non del tutto chiaro in Bruno Hoffa. Non si univa mai ai colleghi per una birra dopo il lavoro. Non partecipava mai ai loro dibattiti sul campionato di baseball durante i tragitti per andare e tornare dalla villa. Non si lamentava mai quando c’era brutto tempo. Secondo Artie, a Bruno si era spenta qualche lucina nel cervello, ma che importanza aveva? Era il migliore di tutta la sua squadra. Artie finì di ispezionare il lavoro eseguito e si dichiarò soddisfatto. Nemmeno quel capriccioso mai contento del signor Robert Powell avrebbe trovato da ridire. Fu quello il momento in cui gli si avvicinò Bruno Hoffa. «Signor Carter, avrei un suggerimento da fare», riprese. «Cosa c’è, Bruno?» Era stata una giornata lunga e faticosa e Artie aveva una gran voglia di tornare a casa e mandar giù una bella birra fresca. O magari un paio di belle birre fresche. Bruno distese le labbra sottili in un sorriso forzato, fissò sul collo di Artie gli occhi da sotto le palpebre pesanti, assunse un tono per lui insolitamente sussiegoso e cominciò titubante a recitare il discorsetto che si era preparato. «L’altro giorno il signor Powell è uscito mentre stavo piantando i fiori intorno alla pool house. Si è complimentato per i fiori, ma era molto seccato perché dice che sicuramente quelli della TV calpesteranno l’erba. Immagina che sia inevitabile, ma gli piacerebbe poter fare qualcosa.» «Il signor Powell è un perfezionista», rispose Artie. «Ed è il nostro cliente principale. Da quel che ho capito staranno qui tutta la settimana a scattare fotografie nei giardini. Che cosa possiamo farci noi?» chiese irritato. «Ci ha ordinato di chiudere entro oggi.» «Signor Carter», continuò imperterrito Occhi Blu, «a me sarebbe venuta un’idea. È chiaro che non possiamo tenere qui uno dei nostri furgoni perché il signor Powell darebbe fuori di matto. Ma forse lei potrebbe proporgli di far alloggiare me nella pool house. Così se quelli della TV rovinano l’erba o fanno buchi con la loro attrezzatura pesante, io posso rimettere tutto a posto appena liberano la zona. C’è anche la possibilità che decidano di fare una passeggiata in giardino o di pranzare all’aperto e di lasciare dei rifiuti in giro. Io potrei occuparmi anche di quello. Se il signor Powell è d’accordo, io potrei farmi portar qui la mattina presto per farmi venire a prendere quando hanno finito di registrare nel pomeriggio.» Artie Carter ci pensò su. Powell era un individuo così pignolo che avrebbe anche potuto gradire quel genere di proposta. E poi Bruno era un uomo così schivo che di sicuro non avrebbe intralciato nessuno della troupe. «Darò un colpo di telefono al signor Powell e gli suggerirò di tenerti a sua disposizione durante le riprese. Conoscendolo, scommetto che accetterà.» Senz’altro accetterà, pensò Occhi Blu trattenendo con una certa fatica un sorriso di trionfo. Laurie, non dovrai piangere ancora per molto la perdita di tuo marito, disse dentro di sé. Te lo prometto. 19 CON immenso dispiacere di Nina Craig, quando si presentarono alla reception del St. Regis, trovarono ad aspettarle un messaggio per sua madre. Come aveva temuto, era di Robert Powell, che invitava Muriel alla villa alle nove del mattino seguente in occasione della prima colazione. Con un sorriso soddisfatto, Muriel sventolò il biglietto sotto il naso di Nina. «E tu che dicevi che si stava solo divertendo con me», le rinfacciò. «Tu non puoi o non vuoi capire che io e Rob eravamo innamoratissimi. Il fatto che Betsy Bonner gli abbia fatto girare la testa non significa che non mi volesse bene.» Era evidente che, dopo aver bevuto una vodka e almeno due bicchieri di vino in aereo e dopo il battibecco in macchina quando si era messa a urlare quanto detestava Betsy, Muriel stava rischiando di violare i limiti della decenza. «Mamma, per piacere», cominciò lanciando un’occhiata ai due impiegati che osservavano in silenzio Muriel da dietro il bancone. «Il ‘piacere’ è tutto mio, fattene una ragione e leggi le recensioni! Tu sei solo una figurante, un elemento scenografico. Hai visto quella donna che mi ha fermato per la strada? Quella che si è complimentata per la mia splendida interpretazione nel remake di Prigionieri del passato?» Aveva alzato la voce mentre le sue guance diventavano via via più paonazze. «Quanto a te, non avevi la stoffa per fare l’attrice vera, è per questo che sei solo una comparsa, un semplice riempitivo nelle scene di folla.» Nina vide che uno dei due impiegati aveva riposto le chiavi delle loro stanze in buste separate. Porse la mano verso di lui. «Io sono Nina Craig», si presentò a bassa voce. «Mi scuso per la scenata che sta facendo mia madre.» Se Muriel aveva udito le sue parole, non lo diede a vedere. Aveva ancora qualcosa da dire. «E tu non perdi occasione per mortificarmi», concluse. L’impiegato ebbe il buongusto di non rispondere direttamente alle scuse che gli aveva porto Nina. «Faccio portare i vostri bagagli in camera», si limitò a mormorare. «Grazie. La mia valigia è quella grande nera.» Nina gliela indicò, poi s’incamminò a passi decisi abbandonando dietro di sé sua madre che finalmente aveva smesso di starnazzare e, furibonda e imbarazzata dagli sguardi curiosi delle altre persone in coda alla reception, riuscì a infilarsi nell’ascensore prima che le porte si chiudessero. Scese al sesto piano e seguì la freccia che indicava il lato dei numeri dispari riuscendo a chiudersi nella 621 prima che Muriel tentasse di raggiungerla in camera sua. Finalmente al sicuro, piombò a sedere nella poltrona più vicina stringendosi una mano nell’altra. «Non ce la faccio più», sussurrò. «Non ce la faccio più.» Più tardi chiamò il servizio in camera. Per come la conosceva, c’era da aspettarsi che sua madre, che occupava la camera attigua, le telefonasse per cenare con lei. Invece non accadde. Nina non avrebbe accettato di incontrarla, ma le fu negata la soddisfazione di sbatterle in faccia le parole che le formicolavano in gola. Avanti, copriti di ridicolo domani, fai pure. Io ho cercato di avvertirti. Tu sei Muriel Craig, un’attrice di serie B e un fallimento totale come madre e anche come essere umano. Nella speranza di raccogliere altre informazioni, Josh si era assunto l’incarico di andare personalmente a prenderle l’indomani mattina e di registrare di nuovo le loro rabbiose conversazioni. Era arrivato alle sette e mezzo, con trenta minuti d’anticipo sull’ora fissata, ma quando aveva fatto telefonare in camera, Nina Craig aveva risposto che stavano scendendo. Il fatto è che benché Nina avesse pensato che sua madre non sarebbe riuscita a escogitare nient’altro con cui contrariarla, Muriel l’aveva smentita annunciando che voleva arrivare in anticipo sulla prima colazione per poter passare un po’ di tempo con Robert Powell prima dell’arrivo degli altri. Questa volta almeno compirono il tragitto in silenzio. Alla villa, la porta fu aperta da Jane, la governante da tanti anni al servizio di Powell. Le squadrò dalla testa ai piedi, le salutò chiamandole per nome e annunciò che il signor Powell sarebbe sceso alle nove e che la signora Moran, la produttrice del programma, era già in sala da pranzo. Nina guardò sua madre nascondere la delusione e trasformarsi in Muriel Craig, l’attrice. Reagì con un sorriso aggraziato e in tono cordiale ringraziò Laurie Moran per l’invito ad accompagnare sua figlia. «È il signor Powell a ospitarvi, signora Craig», ribatté Laurie. «Non è me che deve ringraziare. Se ho capito, dopo la colazione, verrete riaccompagnate al St. Regis, giusto?» Perfetto, pensò con soddisfazione Nina. Mentre tendeva la mano a Laurie, si sorprese di quanto giovane fosse la produttrice del programma. Sui trentacinque, calcolò con invidia. La settimana prima, il giorno del suo quarantaduesimo compleanno, aveva preso dolorosamente coscienza del grigiore di una vita senza prospettive e del fatto che quei trecentomila dollari piovuti dal cielo sarebbero serviti solo per comprare a sua madre un appartamento e togliersela una volta per tutte dai piedi. Sul set del suo ultimo film, Nina aveva recitato da comparsa in una scena che si svolgeva in una grande sala da ballo e Grant Richmond, il produttore, le aveva detto che ballava splendidamente. «Fai sfigurare tutti gli altri», l’aveva lusingata. Nina sapeva che era vicino ai sessant’anni ed era rimasto vedovo di recente. Poi, la sera precedente, l’aveva invitata a bere un aperitivo con lui. Aveva puntualizzato d’aver promesso di partecipare alla cena in programma quella stessa sera con lo staff della produzione, aggiungendo: «ci rifaremo in un’altra occasione». L’aveva fatta riaccompagnare a casa con la sua macchina. Cosa non darei perché mia madre avesse ragione e Robert Powell fosse ancora interessato a lei, pensò. Poi, mentre accettava il caffè che le offriva la governante, si mise a osservare Muriel con occhio critico. Non era niente male. Indossava un completo giacca e pantaloni bianco, molto costoso e acquistato con la carta dell’American Express di Nina, con un paio di scarpe bianche con i tacchi alti che mettevano in mostra le lunghe gambe e l’eccellente silhouette. All’elegante salone di bellezza aveva accettato il riguardoso consiglio dell’estetista di smorzare un tantino l’accecante rosso dei capelli e ora esibiva un’attraente tinta ruggine in un’acconciatura molto più adatta con la chioma che le sfiorava le spalle. Quanto al maquillage, era sempre stata un’artista. In alte parole, concluse Nina, la mia adorata madre è uno schianto. E io come sono? si chiese. Passabile, ma potrebbe essere meglio. Ho bisogno di spazio. Quando torno a casa, vorrei entrare in un ambiente ordinato e riposante, che non sia soffocato dal fumo delle sigarette, e potermi gustare un bicchiere di vino in terrazza, davanti alla piscina, in beata solitudine. E poter invitare Grant Richmond per un drink se m’inviterà veramente fuori a cena, aggiunse tra sé. Con una tazza di caffè in mano, Muriel stava dicendo a Laurie Moran quanto bene ricordasse la terribile, tragica notte di vent’anni prima, quella in cui era stata crudelmente uccisa la sua cara, carissima amica Betsy. «Mi ha spezzato il cuore», stava sospirando. «Eravamo così amiche.» Disgustata, Nina andò a guardare la piscina dalle vetrate e, al di là della vasca, i tre green con le buche da golf. La porta della pool house si aprì e vide un uomo uscire sul prato. Strano, si sorprese, possibile che Robert Powell avesse alloggiato lì un ospite? Solo in un secondo tempo scorse qualcosa nella mano dello sconosciuto. Poco dopo lo vide chinarsi a potare l’arbusto più vicino alla casetta. Poi suonarono alla porta e Nina si allontanò dalle vetrate. Era arrivata un’altra delle persone sospettate d’aver avuto parte nella morte di Betsy Bonner Powell. 20 L’IDEA che aveva avuto Robert Powell di coinvolgerlo nella riedizione del Graduation Gala aveva procurato a George Curtis un’irrequietudine crescente. Era già grave che fosse stato costretto ad accettare di finire a un certo punto davanti alle telecamere, ma perché mai era stato invitato a quella prima colazione, alla quale avrebbero «partecipato tutti gli indiziati»? Anche se Rob si era affrettato ad aggiungere: «Non che tu lo sia, George». Ora, mentre si fermava nel viale d’accesso della villa, George estrasse di tasca un fazzoletto e si asciugò la fronte, gesto per lui alquanto inusuale. Il tettuccio della sua Porsche rossa era abbassato, non c’era ragione per cui dovesse sudare se non per lo stato d’ansia di cui era prigioniero. Ma il miliardario George Curtis, presenza fissa nell’elenco di Forbes, amico di presidenti e primi ministri, stava arrivando proprio in quel momento alla conclusione che per la fine di quella settimana non era escluso che si trovasse in manette, in stato d’arresto. Si passò di nuovo il fazzoletto sulla fronte. Indugiò per un minuto intero e scese dalla macchina solo quando ebbe ripreso il controllo dei nervi. Era una di quelle mattine di giugno che gli annunciatori delle previsioni del tempo definivano «perfette». Cielo azzurro, sole caldo e scintillante, una brezza lieve che saliva dal vicino Long Island Sound. Niente che potesse risollevare lo spirito di George. Quando stava per attraversare il viale d’accesso, si fermò vedendo una limousine sbucare da dietro la curva. Il veicolo frenò per permettergli di proseguire fino alla porta d’ingresso. George attese che lo chauffeur aprisse lo sportello posteriore della limousine per far smontare gli occupanti. Anche se erano passati vent’anni, riconobbe all’istante Alison Schaefer. Non è cambiata molto, fu l’immediata impressione di George: alta, slanciata, con i capelli scuri non così lunghi come un tempo. Ricordava d’aver scambiato con lei qualche parola la notte del Gala e di aver percepito una certa asprezza nel tono della sua voce quando aveva commentato la prodigalità con cui era stato organizzato il ricevimento. «Soldi che si sarebbero potuti spendere per miglior causa», aveva detto e siccome era stato un giudizio alquanto inatteso sulla bocca di una delle ospiti d’onore, George non l’aveva più scordato. Ora Alison assistette un’altra persona che stava uscendo dall’abitacolo con una manovra abbastanza complicata. George impiegò solo pochi attimi per ricordare chi fosse l’uomo che faticosamente si drizzava in piedi e si sistemava le grucce sotto le ascelle. Rod Kimball, naturalmente, pensò George, il giovane quarterback dalle grandi aspettative che era stato investito da un pirata della strada poco dopo aver sposato Alison. Suonò il campanello nel momento in cui la coppia arrivava davanti all’ampia porta d’ingresso. Alison e George si salutarono con educato contegno, dopodiché Alison presentò suo marito. Jane aprì la porta e li accolse con quella che per lei era calda cordialità dicendo inutilmente: «Il signor Powell vi sta aspettando». Dopo aver parcheggiato davanti alla villa, Alex Buckley si concesse un momento per contemplare la massiccia struttura di pietra. Che cosa aveva pensato Betsy Bonner quando aveva visto quella casa? si domandò. Lei, che viveva in affitto in un modesto appartamento di Salem Ridge nella speranza di conoscere un giorno qualcuno con i soldi. Aveva sicuramente messo a segno un bel colpo, per essere cresciuta nel Bronx ed essersi guadagnata da vivere come maschera in un teatro, rifletté Alex scendendo dalla macchina e dirigendosi verso la porta. Fu fatto entrare da Jane e annunciato al gruppo che si andava formando in sala da pranzo. Notò con sollievo che Laurie Moran lo aveva preceduto. «Bene, si comincia», gli bisbigliò lei quando gli strinse la mano. «Giusto quello che pensavo anch’io», rispose lui altrettanto sottovoce. Regina si rendeva conto di quanto fosse pericoloso portare il messaggio suicida di suo padre con sé a quella colazione. Se qualcuno avesse aperto la sua borsetta e lo avesse trovato, lei sarebbe diventata logicamente la prima indiziata del delitto avvenuto vent’anni prima. Tanto sarebbe valso rinunciare a proseguire lo show. D’altra parte aveva il terrore quasi paranoico che qualcuno rubasse il messaggio se l’avesse lasciato nella cassaforte dell’albergo. C’è da aspettarsi un tiro mancino come quello da parte di Robert Powell, pensava. Se non lo so io! Ma almeno posso tenere sempre sott’occhio la mia borsetta. Aveva ripiegato il messaggio in modo da infilarlo in una taschina del lembo portacarte del portafogli. Quando la limousine su cui viaggiava imboccò il viale d’accesso della villa, vide la porta d’ingresso aprirsi per accogliere tre persone. Uno si reggeva sulle stampelle. Dev’essere il marito di Alison, pensò. Quando aveva saputo dell’incidente, era in Florida. Che idiote siamo state ad accettare di farle da damigelle! rimpianse adesso. I mass media erano saltati loro addosso come avvoltoi. Sotto una delle foto in cui erano ritratte lei, Claire e Nina insieme, la didascalia recitava: LA SPOSINA E LE SUE AMICHE SOSPETTATE DI OMICIDIO. A proposito di colpi bassi! Era così immersa nelle sue elucubrazioni che lì per lì non si accorse che la limousine si era fermata e che l’autista le stava tenendo lo sportello aperto. Prese fiato, scese e salì i gradini dell’ingresso. Quante volte sono stata in questa casa? si chiese mentre premeva il pulsante del campanello. Ai tempi del liceo lei e Claire erano grandi amiche. Ma perché ho continuato a frequentarla dopo che papà si è ucciso? Era per la curiosità morbosa di vedere Betsy elargire il suo fascino a destra e a manca? O era perché avevo sempre sperato di trovare un giorno il modo di fargliela pagare a tutte e due? Nella breve attesa prima che qualcuno venisse ad aprirle passò nervosamente in rassegna il proprio aspetto. Aveva perso i dieci chili che si era ripromessa quando aveva ricevuto la lettera con la proposta di partecipare al programma. Per l’evento aveva acquistato qualche nuovo capo di abbigliamento e sapeva che la giacca bianca e nera sui morbidi calzoni bianchi facevano onore alla sua ritrovata figura e si accordavano perfettamente ai capelli corvini. Non so più quante volte Zach mi ha ripetuto che ero da sballo, pensava nel momento in cui la porta si spalancò e, con un formale benvenuto, Jane si fece da parte per farla entrare. Mentre varcava la soglia fu colta a tradimento dal ricordo d’aver promesso al figlio di bruciare il messaggio, prima che si trasformasse in una prova indiziale a sostegno del sospetto che a uccidere Betsy Bonner Powell fosse stata lei. Non si vedevano da anni e Claire immaginava che ritrovarsi davanti al patrigno sarebbe stato per lei un momento di spiacevole patema. Quella mattina tuttavia si svegliò da un sonno turbato in un confortante stato d’animo di gelida calma interiore. Il servizio in camera arrivò puntuale alle sette e Claire consumò la sua colazione all’europea guardando il telegiornale. Invece di soffermarsi sugli ultimi sviluppi nell’inchiesta su una serie di aggressioni e rapine avvenute a Manhattan, la sua mente tornò alla ripresa televisiva del momento in cui la salma di sua madre veniva portata via dalla villa. Eravamo tutte insieme, nello studio, pensò. In vestaglia. E i poliziotti cominciarono a interrogarci... Spense il televisore e portò con sé in bagno la seconda tazza di caffè. Riempì la vasca e sciolse nell’acqua i sali da bagno che si era appositamente procurata. Quelli che usava sempre la cara Betsy, pensò. Quando sarò alla villa, voglio avere il suo stesso profumo. Non aveva fretta, voleva essere sicura che al suo arrivo tutti gli altri fossero già presenti. Sorrise a quel pensiero. Betsy era sempre in ritardo. Una cosa che mandava in bestia Rob. Lui era un fanatico della puntualità, sempre e comunque. Se ne so qualcosa io! Aveva scelto una giacca Escada di cachemire e seta color azzurro cielo e pantaloni grigi a tubo. Il colore della giacca, pensò mentre la indossava, era quello preferito da Betsy. Secondo lei metteva in risalto il colore dei suoi occhi. Bene, concluse, che ora metta in risalto il colore dei miei. Quando aveva lasciato la casa di Robert Powell aveva portato con sé come unico gioiello il semplice filo di perle che era appartenuto in origine alla nonna, di cui serbava un ricordo solo molto vago. Rammento però di averle voluto molto bene, pensava. Anche se quando è morta avevo solo tre anni, ricordo ancora quando mi leggeva i libri tenendomi seduta sulle sue ginocchia. Alle otto e mezzo l’autista si fece annunciare dal concierge. «Mi ci vorrà un’altra mezz’oretta», gli fece comunicare. Calcolava che così sarebbe arrivata alla villa verso le nove e venti. Quando inevitabilmente tutti gli altri sarebbero già stati presenti. A quel punto la figlia di Betsy Bonner Powell avrebbe fatto la sua entrata. 21 LAURIE sapeva che quella colazione sarebbe stata carica di tensione, ma non si era immaginata che l’atmosfera nella stanza sarebbe stata così elettrica. Era bastato un minuto perché tutti si rendessero conto che Muriel Craig era una petulante bugiarda nell’illustrare in toni appassionati quanto le fosse stata cara la compianta amica Betsy Powell. Tutti ricordavano che un tempo Muriel aveva avuto una storia con Robert Powell e che, dopo il suo improvviso matrimonio con Betsy, aveva dichiarato pubblicamente che il finanziere era stato solo uno dei tre uomini che frequentava all’epoca. Che cosa pensa quando si guarda intorno e riflette che tutto quello che vede sarebbe potuto essere suo? si chiese Laurie. La sala da pranzo era dominata dal ritratto di un aristocratico con un’espressione sdegnosa, un antenato del signor Powell, come si era premurata di spiegare Jane, uno dei firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza, naturalmente. Tranquilla che controllo, pensò Laurie. Aveva sempre sentito dire che Powell si era fatto da sé. A parte ciò, la sala da pranzo era molto bella, con le pareti rosse e il tappeto persiano e una splendida vista sul giardino dietro la villa. Guardò i tecnici allestire le attrezzature per la ripresa in esterno che sarebbe stata una delle prime sequenze del programma. Avevano già filmato la facciata della villa. Alex Buckley avrebbe dato inizio al suo racconto come voce fuori campo su quelle sequenze. Jane aveva disposto sulla credenza d’antiquariato i succhi di frutta, il caffè, brioche, panini e frutta. Il prezioso tavolo da pranzo era apparecchiato per dieci. C’era un tocco d’antiquariato in ogni particolare, dagli opachi riflessi della posateria d’argento, all’eleganza démodé dei piatti di portata. Powell si vuole chiaramente assicurare che tutti i partecipanti a questa piccola riunione s’imprimano ben in testa chi e che cosa è, rifletté Laurie mentre arrivavano in rapida successione George Curtis, Alison Schaefer con il marito Rod e Alex Buckley. Poco dopo fece il suo ingresso anche Regina Callari. Osservò con vivo interesse le tre amiche che, dopo essersi perse di vista per vent’anni, si prendevano l’un l’altra per mano e si scambiavano abbracci spontanei. Mentre Muriel Craig, George Curtis, Rod Kimball e Alex Buckley si tenevano debitamente in disparte, le tre protagoniste del Gala si lasciarono andare a espressioni di affetto che sembrò a tutti sincero: «Mio Dio, quanto tempo... Ma non sei cambiata affatto... Non sai quanto mi sei mancata...» Robert Powell si presentò alle nove in punto. «Jane mi ha riferito che Claire non è ancora arrivata», esclamò. «In questo è esattamente come la mia amata Betsy.» Laurie fu certa di scorgere autentico furore sotto la maschera di divertita accettazione del ritardo di Claire. Probabile che avesse voluto apparire per ultimo, quando tutte e quattro le ex neolaureate fossero state presenti. Lo guardò abbracciare con affettuosa cordialità ciascuna delle ospiti. Salutò George Curtis con un: «Grazie mille per essere venuto, George. Saremmo tutti e due più felici sul campo da golf». Si rivolse a Rod con un caloroso: «Noi non ci siamo mai incontrati prima, vero?» E finalmente toccò a Muriel Craig. «Ti ho tenuta per ultima», la blandì con tenerezza mentre le cingeva le spalle e la baciava. «Sei bellissima come sempre. Hai passato questi venti anni in una capsula temporale?» Muriel ricambiò radiosa il suo abbraccio, poi, sotto lo sguardo attento di Laurie, lanciò un’occhiata alla figlia, che si girò dall’altra parte, scuotendo la testa. «Vedo che avete preso tutti il caffè», notò Rob, «ma dovete almeno assaggiare i muffin che Jane ha preparato per voi. Vi prometto che sono squisiti. Dopodiché vi prego di accomodarvi dove volete, eccetto Muriel, che si siederà accanto a me.» Mio Dio, se non va giù pesante, pensò Laurie. Manca solo che s’inginocchi per chiederla in moglie. Era stupita che fosse così sfacciato. D’altra parte era pur vero che Muriel era una sua vecchia fiamma. Quando si sedettero a tavola, Alex Buckley si mise tra Nina Craig e Alison. Rod Kimball prese posto a sinistra di Laurie. «Le siamo molto grati, signora Moran, d’aver creato questa occasione perché le ragazze, o forse dovrei dire donne, possano riscattarsi dal sospetto che una di loro sia un’assassina e che le ha perseguitate per tutti questi anni», esordì Rod. Laurie non sottolineò che quella famosa sera in casa c’erano anche altre due persone: Robert Powell, il marito di Betsy, trasportato in fretta e furia in ospedale in uno stato di totale prostrazione con ustioni di terzo grado alle mani; e Jane Novak, amica di lunga data di Betsy e governante. Jane era arrivata nella stanza pochi secondi dopo la crisi isterica di Powell. Io avrei pensato che non avrebbe voluto tenerla con sé, rifletté Laurie, invece Jane è rimasta e, a giudicare da quel che ho visto finora, mi sembra evidente che anticipare ogni desiderio del suo padrone sia la missione della sua vita. «Non so nemmeno immaginare come si viva senza mai poter prevedere quando a qualche giornalista salta il ticchio di ritirare fuori questa vecchia storia», commentò Laurie. «Non c’è bisogno dei giornalisti», ribatté con amarezza Rod. «Non c’è persona al mondo che non abbia una sua teoria. In Internet si trovano ogni giorno le ipotesi più pazzesche.» A Laurie il marito di Alison era piaciuto subito. Il suo viso attraente portava i segni delle sofferenze patite dopo il terribile incidente che lo aveva reso invalido e gli aveva rovinato la carriera, ma nel suo comportamento non aveva trovato traccia di autocommiserazione. E poi era evidente la sua devozione per la moglie. Quando Robert Powell l’aveva salutata, era rimasto al suo fianco in un atteggiamento protettivo, tenendole un braccio intorno alla vita. Ma perché lo aveva ritenuto necessario? si domandava Laurie. «Comunque, speriamo che il programma faccia capire al pubblico che in quella tragedia queste giovani donne hanno avuto solo un ruolo da casuali comprimarie. I miei due assistenti hanno letto tutto quello che c’è da leggere al riguardo ed entrambi sono convinti che nella villa si sia introdotto all’insaputa di tutti qualcuno con l’intenzione di rubare gli smeraldi di Betsy, dopo essersi imbucato nel ricevimento in abito da sera.» Le note del campanello dell’ingresso sedarono tutte le conversazioni. I presenti si girarono verso la porta della sala da pranzo. Robert Powell spinse la sedia indietro e si alzò. Tutti udirono il rumore dei passi in corridoio ed eccola, Claire Bonner, incantevole con i capelli biondi che le sfioravano le spalle, gli occhi azzurri messi in risalto dal trucco applicato con maestria, la figura snella in un elegante completo d’alta moda, a contemplare gli ospiti a uno a uno con un dolce sorriso sulle labbra. Mamma mia, pensò Laurie, è sua madre fatta e finita. Poi udì un gemito soffocato e il tonfo di qualcosa di pesante che cade per terra. Nina Craig era svenuta. 22 LEO Farley passò davanti alla villa di Robert Powell a una velocità normale. Non intendeva attirare su di sé attenzioni indesiderate, anche se, nel caso fosse stato fermato per un qualsiasi motivo, aveva nel portafogli il tesserino di funzionario di polizia in pensione. Quel pensiero lo fece sorridere. «Papà, non c’è poliziotto in tutta l’area dei tre stati che non ti riconosca. Per anni sei sempre stato tu a tenere le conferenze stampa nei casi di crimini importanti.» Tutto vero, ammise tra sé Leo. Il suo superiore, il commissario, preferiva tenersi lontano dal riverbero delle luci della ribalta. «Pensaci tu, Leo», diceva sempre quando c’era da fare dichiarazioni in pubblico. «Tu sei bravo.» Nel corso dell’ultimo passaggio aveva annotato che il viale d’accesso della villa accanto a quella di Powell era protetto da una catenella che impediva a veicoli estranei di accedervi. Gli scuri non coprivano del tutto le finestre, ma erano abbassati fin quasi in fondo. Non c’erano automobili parcheggiate sul terreno della proprietà e in generale la villa aveva quell’aria sonnolenta che hanno le abitazioni quando gli occupanti sono via. Sulla cassetta per la corrispondenza c’era il nome del proprietario: J. J. ADAMS. Leo aveva usato Google e aveva cercato anche in Facebook e aveva avuto fortuna. Aveva trovato una foto di Jonathan Adams e sua moglie e un messaggio agli amici in cui dichiaravano di essere nella loro villa a Nizza e di spassarsela un mondo. Incredibile che la gente si esponga spontaneamente in quel modo, pensò Leo. Se io fossi un malintenzionato, potrei usare queste informazioni quantomeno per entrare in casa loro, per non dir di peggio. Leo lasciò la macchina a dieci isolati di distanza, vicino alla stazione ferroviaria, poi partì correndo verso Old Farms Road. Aveva preso l’abitudine di tornare indietro correndo dopo aver accompagnato Timmy a scuola e grazie a tanto allenamento non gli era particolarmente faticoso raggiungere in quel modo il luogo che aveva scelto come posto di osservazione. All’angolo fu fermato da un’auto di pattuglia che accostò davanti a lui. Di fianco all’autista sedeva un veterano. «Ispettore Farley, che ci fa qui? Per quel che ne sapevo, non mette mai il naso fuori del suo territorio.» Leo conosceva di vista il sergente, un tipo gioviale, membro della banda di cornamuse che suonava a Manhattan negli eventi speciali, come la festa di san Patrizio. Leo, convinto com’era che le cose non accadono mai per caso, dopo aver salutato il sergente chiese subito se a capo della polizia di Salem Ridge ci fosse ancora Ed Penn. «Come no?» ribatté il sergente. «Va in pensione l’anno prossimo.» Leo rifletté. Non aveva avuto intenzione di contattare la polizia locale, ma all’improvviso gli sembrò una buona idea. «Mi piacerebbe vederlo», disse. «Be’, salti su. La portiamo in sede.» Cinque minuti dopo Leo stava spiegando al capo Edward Penn perché faceva jogging nelle strade di Salem Ridge. «Naturalmente ricordi anche tu che Greg Moran, mio genero, è stato assassinato e che il suo assassino ha detto a mio nipote che poi sarebbe toccato a sua madre.» «Lo ricordo bene, Leo», rispose, serio, Penn. «Sai che mia figlia ha prodotto il programma sul Graduation Gala?» «Sì. Una donna notevole, Leo. Devi esserne fiero.» «Sarò anche fissato, ma io ho la sensazione che questo programma potrebbe essere fonte di qualche brutto guaio.» «È una sensazione che ho anch’io», confessò apertamente Penn. «Non dimenticare che vent’anni fa quando arrivò la telefonata della governante che strepitava che era morta Betsy Powell, qui c’ero io. Noi pensavamo che fosse un infarto e abbiamo fatto mandare l’ambulanza. Poi, quando siamo arrivati noi, abbiamo trovato la stanza piena di gente, non solo Robert Powell, ma anche le quattro ragazze festeggiate e la governante. Un casino. E naturalmente questo significa che la scena del crimine era contaminata.» «Quale fu la reazione di Powell?» volle sapere Leo. «Era bianco come un lenzuolo, con il cuore in fibrillazione, peggio che in stato di choc. Era sempre lui a portarle il caffè la mattina, perciò era stato lui a trovarla, ma immagino che tu abbia letto tutto questo sui giornali.» «Sì, infatti», annuì Leo, a suo agio nell’ambiente a lui così famigliare di una stazione di polizia. Prima le volanti parcheggiate davanti all’ingresso, poi il banco del sergente alla reception, e per finire il corridoio in fondo al quale sapeva che c’erano le camere di sicurezza e l’accesso all’attigua prigione. Aveva nostalgia del suo lavoro. Era entrato nella blasonata polizia di New York appena uscito dal college. Non aveva mai preso in considerazione niente di diverso e aveva prestato servizio con dedizione e passione in ogni minuto della sua vita. Sapeva anche che se non si fosse dimesso, con tutta probabilità sarebbe stato nominato commissario alla scadenza del mandato del suo superiore. Ma niente di tutto questo aveva importanza in confronto alla necessità di impedire a Occhi Blu di mettere in atto la sua minaccia. «Abbiamo messo quelle quattro ragazze sotto il torchio per benino», stava raccontando Ed Penn, «ma nessuna di loro ha mollato. Io sono sempre stato convinto che sia stata una delle quattro, ma non si può escludere la possibilità di un intruso. Era un ricevimento grandioso e chiunque avrebbe potuto mescolarsi alla folla degli invitati presentandosi in abito da sera. Secondo la governante, lei stessa aveva chiuso a chiave tutte le porte prima di andare a letto, invece qualcuno aveva aperto la portafinestra dello studio, quella che si affaccia sul patio, e l’aveva lasciata così. Si è scoperto che due delle ragazze, Regina e Nina, erano uscite nel patio da quella parte un paio di volte a fumare una sigaretta.» Tutte cose che Leo aveva letto. «Sul serio credi che a ucciderla sia stata una delle quattro ragazze?» «Troppo calme, tutte e quattro. Non pensi che dovessero essere almeno un tantino turbate? Persino la figlia di Betsy era maledettamente composta. Non ricordo d’aver visto una sola lacrima versata da una di loro in quella camera da letto per tutta la settimana.» «Qualcuna di loro poteva avere un movente?» «Be’, Betsy e sua figlia Claire erano così affezionate l’una all’altra che, piuttosto che alloggiare al campus, Claire andava e tornava in macchina dal Vassar. Il padre di Regina perse tutto e s’impiccò dopo aver investito nel fondo di Powell. Regina lo trovò appeso quando aveva quindici anni. Ma persino sua madre ha riferito che Powell gli aveva raccomandato con tutto il cuore di non impegnare più soldi di quanti fosse in grado di perdere. L’attrice Muriel Craig, la madre di Nina, aveva una relazione con Powell, ma quando l’abbiamo interrogata, ha detto che erano solo amici e che entrambi frequentavano altre persone all’epoca in cui Powell conobbe Betsy. Resta solo Alison Schaefer. Era fidanzata con Rod Kimball, il campione di football, che sposò quattro mesi dopo. Nessun movente nemmeno lì. Quanto a Robert Powell, era senza dubbio a pezzi dopo la sua morte e non è saltata fuori la minima relazione con qualche altra donna.» «Se non è stato un intruso, ci resta la governante», commentò Leo. «Nessun movente nemmeno lì. Betsy la conosceva dai tempi in cui faceva la maschera al teatro. Sapeva che era una lavoratrice fidata e cucinava bene. Con la governante precedente Betsy non si sentiva a suo agio. Era stata assunta dalla ex moglie di Powell, quindi non c’erano più legami affettivi particolari. Jane aveva lasciato i camerini del teatro per andare a vivere in un appartamentino di tre stanze in una grande villa signorile con l’aggiunta di un fior di stipendio. Betsy non faceva che ripetere quanto la sua assistenza le fosse preziosa.» «Allora resta proprio solo un estraneo arrivato da fuori», concluse Leo. Penn si rabbuiò in viso. «Non possiamo escludere a priori che rimettendo insieme tutte e sei quelle persone non salti fuori qualcosa di illuminante. Se è stato uno di loro, potrebbe esagerare nel cercare di non attirare su di sé dei sospetti a distanza di venti anni, oppure qualcuno degli altri potrebbe sapere qualcosa che all’epoca non ebbe modo di emergere. Ho letto che a interrogare le persone coinvolte davanti alle telecamere sarà Alex Buckley, il penalista che si vede sempre in TV. L’idea sarebbe che ciascuno di loro convinca della propria innocenza una platea nazionale.» Leo ritenne che fosse venuto il momento di rivelare al collega perché faceva jogging a Salem Ridge a una trentina di chilometri da casa sua. «Io ho sempre pensato che riunire tutte quelle persone per, detto in parole povere, rivivere quel delitto fosse una pessima idea. Ma sai com’è, noialtri sbirri ci fidiamo del nostro sesto senso.» «Puoi dirlo forte. Saremmo nei pasticci se non ce l’avessimo.» «In questo caso il mio sesto senso, ma possiamo chiamarla premonizione, è che l’assassino di mio genero, ‘Occhi Blu’, come lo descrive mio nipote, potrebbe ritenere che questa sarebbe l’occasione perfetta per ammazzare mia figlia.» Ignorò il sussulto di sorpresa di Penn. «Sono passati cinque anni. Laurie ha avuto molta pubblicità per via di questo nuovo programma. La sua foto è apparsa un po’ dappertutto. Su Twitter la gente fa le proprie ipotesi su chi può essere stato a uccidere Betsy Powell. Non ti sembra abbastanza logico che lo psicopatico che ha ucciso Greg e minacciato Laurie e Timmy scelga questo momento per fare la sua mossa? Ti immagini i titoloni se ci riuscisse?» «Purtroppo sì. Ma tu come pensi di impedirglielo, Leo?» «Appostandomi dai vicini di casa. Ho controllato e sono in vacanza. Veglierò nel caso qualcuno cerchi di intrufolarsi passando da dietro. Da quel che ho scoperto, l’unico modo per entrare nella tenuta di Powell senza essere visto è scavalcando la recinzione posteriore.» «E se cercasse di confondersi nella troupe televisiva? Non è possibile?» «Laurie è molto rigorosa nella gestione del personale. Tutta la squadra è allerta nell’eventualità che si infiltri qualche paparazzo. I tecnici assegnati al programma si accorgerebbero immediatamente di uno sconosciuto.» «E se tu vedessi davvero qualcuno che cerca di scavalcare la recinzione, cosa succederebbe?» «Che gli sarei addosso prima che possa tentare qualcosa.» Leo si strinse nelle spalle. «È il meglio che io possa fare. Nessuno entrerà nella proprietà mentre stanno girando il programma. Gli uomini della troupe impediranno a chiunque di intromettersi e rovinare una scena. Le riprese verranno concluse verso le sei del pomeriggio e a quel punto potrò ritirarmi anch’io. Ma Laurie non deve sapere che sono qui. Darebbe fuori di matto. Questo programma la rilancerà nella sua carriera o, se dovesse andare male, le costerà il posto.» Leo fece una pausa. «Dunque», concluse poi con un mezzo sorriso, «adesso sai perché faccio jogging nelle strade della tua città.» Vide Penn assumere un’espressione pensierosa. «Leo, lavoreremo con te. Non ci sarà niente di strano se un’auto di pattuglia passerà nei pressi della villa di Powell ogni quarto d’ora o giù di lì, percorrendo entrambe le strade, davanti e dietro. La sua proprietà arriva fino alla fine dell’isolato. Se vediamo una macchina parcheggiata da qualche parte nelle vicinanze, prendiamo nota della targa. Se vediamo qualcuno in giro a piedi e non è una persona di nostra conoscenza, ne controlliamo l’identità.» Leo si alzò in piedi sentendosi gonfiare il cuore di gratitudine. «E naturalmente tutto questo potrebbe non essere necessario. Chissà, forse in questo momento l’assassino di mio genero è in qualche altro continente.» «E forse no», fece eco il capo Edward Penn. Poi si alzò a sua volta, passò intorno alla scrivania e strinse la mano di Leo. 23 ALEX Buckley si precipitò su Nina, s’inginocchiò e le controllò il battito cardiaco assicurandosi che stesse respirando. Dopo lo sbigottito silenzio iniziale, si alzarono anche tutti gli altri. Muriel, bianca in volto, afferrò sinceramente spaventata il braccio di Robert Powell e si chinò sulla figlia. Nina mosse le palpebre. «Tutto bene», annunciò Alex. «Ma datele spazio.» «Betsy», gemette Nina. «Betsy.» Gli occhi di Laurie si spostarono su Claire, che non si era mossa dalla soglia della sala da pranzo. Le parve di scorgere sulla sua faccia un principio di espressione di trionfo, Laurie aveva visto un gran numero di foto di Betsy e le sembrava evidente che Claire avesse deliberatamente fatto tutto il possibile per somigliare al massimo a sua madre. Alex sollevò Nina da terra e la condusse nello studio, dove la fece distendere sul divano. Tutti gli altri lo seguirono, mentre Jane arrivava di corsa con una salvietta inumidita di acqua fredda che applicò con dita esperte alla fronte di Nina. «Qualcuno chiami un dottore!» gridò Muriel. «Nina, Nina, parlami.» «Betsy», mormorò Nina. «È tornata.» Poi, mentre Nina si guardava intorno, Muriel le prese la faccia tra le mani. «Nina, piccola mia, è tutto a posto.» Con un movimento improvviso e violento, Nina la respinse. «Toglimi le mani di dosso», sbottò con una voce tremante di emozione. «Tieni le tue manacce lontane da me!» Subito dopo scoppiò a piangere. «Betsy è tornata da morta. È tornata da morta.» 24 OCCHI Blu osservò con grande interesse il modo in cui Laurie Moran, ora chiaramente al comando delle operazioni, dirigeva le riprese. Molto efficiente, concluse, guardandola controllare che le telecamere avessero l’angolazione che desiderava. A un certo punto lei lo chiamò con un gesto della mano e Bruno s’affrettò a raggiungerla. Con un breve sorriso cortese, Laurie gli chiese di portar via le piante che aveva collocato quella mattina nella sua inquadratura. «Sono molto belle», gli disse, «ma la settimana scorsa quando abbiamo fotografato questo angolo non c’erano.» Bruno si profuse in scuse benché non stesse nella pelle per l’emozione di essere così vicino alla sua preda. Che bella che è, pensò. Sarebbe un vero peccato rovinare quel bel faccino. Eviterò di farlo. Ma mentre era a così pochi centimetri da lei, nella sua mente cominciò a formarsi un nuovo piano ancor più soddisfacente. Cinque mesi prima si era introdotto nel computer di Leo Farley e ne aveva messo sotto controllo il telefono, cosicché da allora aveva sempre saputo tutto quello che c’era da sapere sulle attività sue, di Laurie e di Timmy. Le tecniche di pirateria informatica che aveva imparato on-line davano i loro frutti. Sapeva dunque che in quel momento Timmy si trovava a Camp Mountainside sugli Adirondack. E che da lì il suo campeggio distava solo quattro ore di macchina. Nel computer di Farley aveva trovato l’elenco completo delle attività a cui si sarebbe dedicato Timmy al campo. E il particolare più interessante per lui era che tra le sette e le otto di sera i ragazzi avevano un’ora di libertà, durante la quale era loro consentito fare o ricevere una telefonata. Di conseguenza dopo le otto di sera Laurie non avrebbe previsto di parlare con Timmy per le successive ventiquattr’ore. Come convincere il direttore del campo a lasciargli portar via Timmy senza destare sospetti? Occhi Blu si mise a lavorare a questa prospettiva mentre si teneva defilato, ma sempre pronto a riparare il minimo danno che tecnici od ospiti avessero arrecato al prato o alle piante del giardino. Scambiò persino due chiacchiere con l’uomo e la donna che accompagnavano costantemente Laurie. Jerry e Grace. Giovani entrambi. Con il mondo davanti. Si augurò per il loro bene che non fossero troppo vicini a Laurie quando fosse arrivato il suo momento di morire. Perché sarebbe arrivato, eh sì. Con non poco rammarico guardò i tecnici riporre l’attrezzatura. Dalle conversazioni che aveva origliato, sapeva che sarebbero tornati l’indomani alle otto, questa volta per cominciare a filmare le quattro ex neolaureate. Sempre ansioso di rendersi invisibile come istruito, telefonò alla sede della Perfect Estates e chiese che mandassero a prenderlo entro quindici minuti. Quando arrivò il furgone, Occhi Blu non fu contento di vedere che al volante c’era Dave Cappo. Dave era uno che non si faceva mai i fatti suoi. «Allora, Bruno, di dove sei? Hai sempre lavorato ai giardini? Io e mia moglie saremmo felici di averti per cena, scegli tu quando.» Una vistosa strizzata d’occhi. «Ma sappiamo tutti e due che ti tirerà scemo per cavarti tutto quello che hai da raccontare sulle quattro ragazze. Secondo te chi è stata?» «Perché non facciamo un paio di giorni dopo che qui hanno finito?» propose Occhi Blu. Ora di allora, pensava, con un briciolo di fortuna sarò lontano e tu e tua moglie avrete abbastanza di che tirarvi scemi l’uno con l’altra. 25 «A PARTE tutto questo, la giornata com’è andata?» domandò Leo. Era andato a cena con Laurie al Neary’s, da anni il loro ristorante preferito sulla Cinquantasettesima Strada. Erano le otto e mezzo e Laurie era visibilmente stanca. Aveva appena finito di descrivere al padre la prima colazione alla villa e il momento drammatico in cui Nina Craig aveva perso i sensi, finendo con l’inverosimile reazione della donna alle premure di sua madre. «Nel complesso direi piuttosto bene», rispose con un sospiro Laurie. «Solo piuttosto?» Leo cercò di assumere un tono distratto mentre prendeva il bicchiere e beveva un sorso di vino. «No, dovrei dire che è andata bene», rettificò Laurie. «Abbiamo aperto con una panoramica della casa come se stessimo arrivando dal viale d’accesso. Sono più che soddisfatta d’aver scelto Alex Buckley a raccontare la storia, è senz’altro la persona giusta. Poi mostriamo qualche sequenza del Graduation Gala di vent’anni fa con le quattro neolaureate, nessuna delle quali con l’aria di essere particolarmente felice.» «E Betsy Powell? Avete abbastanza video in cui la si vede interagire con le ragazze?» «Non tanto materiale quanto avrei voluto», ammise Laurie. «In quasi tutte le scene in cui appare lei, è con il marito o sta parlando con altri adulti.» Ci ripensò. «Non che le neolaureate fossero delle bambine», si affrettò ad aggiungere. «Avevano tutte ventuno o ventidue anni. Ma non erano quasi mai con Betsy. Oggi abbiamo visionato le registrazioni in cui si vedono le ragazze e secondo me erano tutte sulle spine. Domani le filmeremo mentre guardano le sequenze che useremo per il programma, poi Alex comincerà a parlare con loro del Gala.» Sospirò. «È stata sicuramente una giornata molto lunga e ho una fame da lupo. E tu?» «L’appetito non mi manca», rispose Leo. «E tu, papà, cos’hai fatto tutto il giorno ora che il tuo inseparabile amichetto è al campo?» Leo si era preparato. «Non molto», rispose morsicandosi la lingua per punirsi in anticipo delle bugie che le stava per rifilare. «Un po’ di palestra, da Bloomingdale’s a prendere un paio di camicie sportive, niente di speciale.» Non aveva avuto intenzione di dirlo, ma gli scappò suo malgrado: «Timmy mi manca di già ed è solo il primo giorno». «Manca anche a me», confessò Laurie, «ma sono lo stesso contenta di averlo lasciato andare. Ci teneva così tanto. E per quanto manchi a noi, un’ora fa, quando l’ho sentito al telefono, mi è sembrato entusiasta.» «Non capisco perché permettano a quei ragazzi una sola telefonata al giorno», brontolò Leo. «Lo sanno che esistono anche i nonni?» In quel momento Laurie vide suo padre improvvisamente vecchio e stanco. «Stai bene?» gli chiese preoccupata. «Benissimo.» «Papà, avrei dovuto pensare a rientrare a casa in tempo per condividere con te la telefonata a Timmy. Ti prometto che lo farò domani.» Per un po’ rimasero in silenzio, ciascuno a tenere a bada la propria apprensione all’idea che Timmy fosse così lontano e non ci fosse Leo a sorvegliarlo. Laurie si guardò intorno. Come al solito quasi tutti i tavoli erano occupati. Le conversazioni erano vivaci e tutti davano l’impressione di sentirsi di buonumore. Sono veramente tutti così sereni come sembra? si chiese. Naturalmente no, rispose a se stessa. Gratta la superficie e scopri che sotto la patina tutti hanno qualche problema. «Allora», quasi esclamò a un tratto nascondendo nel tono brioso della voce le sue preoccupazioni per Timmy, «ho deciso che questa sera prenderò fegato con pancetta. A Timmy non piace mentre io ne vado matta.» «Ti faccio compagnia», decise Leo e rifiutò il menu che Mary, una delle cameriere che da più anni lavoravano al Neary’s, stava porgendo loro con un bel sorriso. «Sappiamo tutti e due che cosa vogliamo, Mary», le disse. Pace e serenità, fu quello che balenò subito alla mente di Laurie. E non è quello che ci sta riservando il destino in questo momento. O forse per sempre. 26 FINALMENTE se ne erano andati tutti quanti. Sul finire della giornata Jane leggeva ormai negli occhi del signor Powell fino a che punto non ne potesse più dei suoi «ospiti». Partita l’ultima macchina, Powell si rifugiò subito nello studio e Jane lo seguì per chiedergli se desiderasse un aperitivo. «Tu mi leggi nel pensiero, Jane», le rispose. «Uno scotch. E fammelo abbondante.» Per cena Jane aveva in mente uno dei suoi pasti preferiti con salmone, asparagi, insalata verde e sorbetto con ananas fresco. Quando era a casa, al signor Rob piaceva cenare alle otto nella saletta. Quella sera invece non finì il suo pasto e non le rivolse nemmeno i soliti complimenti su come aveva cucinato bene. «Non ho molto appetito», dichiarò invece. «Niente dessert, grazie.» Poi si alzò e tornò a chiudersi nello studio. In pochi minuti Jane sparecchiò e rigovernò la cucina restituendola al suo normale lustro quotidiano. Salì quindi al piano di sopra, preparò il letto al suo padrone, regolò l’aria condizionata su diciotto gradi e posò sul comodino una caraffa d’acqua e un bicchiere. Per finire preparò pigiama, vestaglia e pantofole, maneggiando con tenerezza i capi di vestiario mentre li appendeva in bagno. Certe sere, quando era a casa, il signor Rob restava per un paio d’ore nello studio a guardare la televisione o leggere. Gli piacevano i film classici e il giorno seguente li commentava con lei. «Ho visto due Alfred Hitchcock, Jane. Un vero mago della suspense, non c’è nessuno come lui.» Se aveva avuto una giornata difficile in ufficio, dopo cena saliva direttamente al piano di sopra, si cambiava e leggeva o guardava un po’ di TV nel salotto della sua suite. C’erano anche sere in cui invitava gente per un aperitivo e una cena. Tutto questo era prevedibile e rendeva il compito di Jane semplice e lineare. A preoccuparla erano invece le sere in cui usciva e lei vedeva sulla sua agenda che aveva appuntamento con una donna da scortare al suo club. Per fortuna non accadeva molto spesso e raramente vedeva la stessa donna più di due o tre volte. Tutte queste considerazioni animavano la mente di Jane mentre completava i riti serali. La sua ultima incombenza, quando il signor Powell era a casa da solo, era di consultarlo per sapere se c’era nient’altro di cui avesse bisogno prima di ritirarsi nelle sue stanze. Quella sera lo trovò seduto nella poltrona grande dello studio, con i piedi sullo sgabello, i gomiti sui braccioli, le dita delle mani intrecciate. Il televisore era spento e non c’erano tracce di libri o riviste nei pressi della poltrona. «Tutto bene, signor Powell?» domandò premurosa. «Stavo solo riflettendo», rispose lui girandosi a guardarla. «Presumo che tutte le camere da letto siano in ordine?» Jane trattenne un moto di stizza: era del tutto inconcepibile che avesse ipotizzato che ci fosse anche una sola stanza in tutta la casa non in perfetto ordine. «Naturalmente sì, signore», rispose. «Controllale tutte un’ultima volta. Come sai ho chiesto a tutti i partecipanti al programma di trattenersi qui per la notte di domani. Offriremo loro un brunch celebrativo prima di congedarli.» Inarcò le sopracciglia e si concesse un sorrisetto enigmatico dal quale lasciò esclusa Jane. «Sarà un’esperienza molto interessante, non trovi?» 27 JOSH Damiano abitava dall’altra parte della cittadina, a soli quindici minuti dalla villa di Powell, ma in un mondo completamente diverso. Salem Ridge era un borgo adiacente alla ricca cittadina di Rye, sul Long Island Sound. Era stato popolato alla fine degli anni Sessanta da famiglie del ceto medio venute a occupare i cottage in stile coloniale e le casette costruite dalle imprese immobiliari. Ma la località era interessante, a soli quaranta chilometri da Manhattan e sul Long Island Sound, e nel giro di pochi anni il valore delle proprietà era salito alle stelle. Le abitazioni modeste erano state acquistate e abbattute per essere sostituite dal genere di villoni come quella che aveva fatto costruire Robert Powell. Alcuni dei vecchi proprietari avevano tenuto duro e tra di loro c’era anche Margaret Gibney, che amava la sua casa e non aveva voluto traslocare. Dopo la morte del marito, Margaret, a sessant’anni, aveva fatto ristrutturare il piano di sopra della sua palazzina in stile coloniale, trasformandolo in un appartamento separato. Josh Damiano era il suo primo e unico inquilino. Ora ottantenne, Margaret benediceva tutti i giorni il cielo per averle messo in casa quell’uomo urbano e tranquillo che portava fuori la spazzatura senza bisogno che glielo chiedesse e usava persino la turbina da neve per lei quando non era al lavoro. Quanto a Josh, dopo i quattordici anni di spiacevole matrimonio con la sua fidanzatina del liceo, era più che soddisfatto della sua situazione logistica e della sua vita. Rispettava e ammirava Robert Powell. Amava il suo lavoro di chauffeur. Ancora di più amava registrare le conversazioni di alti dirigenti quando il signor Powell lo mandava a prenderli con la Bentley per accompagnarli a riunioni o colazioni d’affari. Anche se aveva a bordo un solo passeggero, spesso si rivelavano utili le sue conversazioni telefoniche al cellulare. Quando una conversazione era particolarmente interessante, come per esempio trattative di insider trading, Josh la faceva riascoltare al dirigente e si offriva di vendergliela. Non lo faceva molto spesso, ma era un’attività molto redditizia. Con il passare del tempo, invece di ascoltare tutte le registrazioni, il signor Powell aveva preso l’abitudine di chiedere all’autista se avesse intercettato qualcosa di interessante. Se Josh diceva di no, come nel caso delle quattro ex neolaureate, il signor Powell si fidava. «Si sono limitate a dire ‘salve’ e ‘grazie’, signore», fu ciò che gli riferì delle sue corse da tassista tra la villa e l’aeroporto. Deluso, Robert Powell aveva scosso la testa. In momenti come quello Josh ricordava quando per poco non aveva perso il posto. Quando Betsy era morta lavorava solo da pochi mesi per il signor Powell. Aveva preso in antipatia la signora fin da subito. Chi credeva di essere, la regina d’Inghilterra? pensava guardandola attendere altezzosa che lui le porgesse la mano per aiutarla a salire in macchina. Una settimana prima di essere uccisa, l’aveva sentita dire al signor Powell che trovava che Josh avesse un atteggiamento troppo confidenziale e non mostrasse tutto il decoro richiesto a un membro della servitù. «Hai notato con che mollezza apre gli sportelli per noi? Dovrebbe sapere che deve stare ben dritto.» Era stato un brutto colpo per Josh, che aveva ormai preso dimestichezza con il suo nuovo lavoro e riteneva di essersi sistemato una volta per sempre. Alla morte di Betsy non aveva potuto far altro che mostrare costernazione, ma in cuor suo aveva ringraziato la buona sorte per avergli tolto di mezzo la persona che minacciava di farlo licenziare convincendo il signor Powell della sua presunta carenza di decoro. Il giorno della colazione, il signor Powell lo aveva mandato a prendere Claire Bonner. Con un po’ di fortuna, aveva pensato, farà qualche telefonata interessante. Non era andata così. Quand’era salita sulla Bentley, all’albergo, Claire aveva immediatamente chiuso gli occhi, lasciando chiaramente intendere che non gli avrebbe rivolto la parola. Era rimasto stupefatto nel constatare quanto somigliasse a sua madre. La ricordava scialba e anonima, adolescenziale nell’aspetto nonostante i ventidue anni d’età. Il primo giorno di riprese, Josh era rimasto alla villa tutto il giorno ad aiutare Jane a preparare sandwich e dessert da servire nel patio, dove il gruppo si ritirava tra una scena e l’altra. Dopo che tutti se n’erano andati, il signor Powell lo aveva congedato ordinandogli di tornare a passare a prendere Claire anche l’indomani mattina. «Cerca di parlarle, Josh», gli aveva chiesto. «Dille quanto ti piaceva sua madre, anche se so che non è così.» Alle sei Josh tornò a casa sulla sua vettura personale. Era una di quelle sere in cui la signora Gibney aveva voglia di chiacchierare e lo invitò a mangiare il pollo arrosto che aveva preparato per cena. Accadeva circa una volta alla settimana e di solito Josh era lieto di accettare perché la signora Gibney cucinava bene. Quella sera però aveva altro per la testa e la ringraziò dicendo che aveva già cenato in anticipo. Era una bugia, ma aveva voglia di pensare. Aveva in tasca le copie dei nastri con le registrazioni di Nina Craig e sua madre, Alison Schaefer e suo marito, e Regina Callari che parlava al telefono con il figlio. Era ovvio che nessuna di quelle donne avrebbe voluto che quelle conversazioni venissero ascoltate dal signor Powell o dalla polizia. Avevano accettato di recarsi alla villa per scagionarsi una volta per tutte dal sospetto d’aver avuto parte nella morte di Betsy, ma in ciascuna di quelle registrazioni c’erano altrettanti moventi per ognuna di loro. Prendevano tutte un bel gruzzolo per partecipare al programma. Tutte avrebbero appreso con orrore che i loro moventi erano finiti forti e chiari sul nastro di un registratore. Se avessero diffidato della sua promessa di mantenere la propria parte di accordo, aveva una risposta pronta. «Io conserverò sempre l’originale. Lei può distruggere la copia che le ho dato, e io non ho interesse a divulgarne il contenuto più di quanto ne abbia lei che arrivi alle orecchie del signor Powell o della polizia. Mi paghi e nessuno lo ascolterà né ora né mai.» Aveva deciso quanto chiedere: cinquantamila dollari, solo un sesto dei trecentomila che avrebbero incassato. Avrebbe funzionato. Erano tutte spaventate. Aveva percepito la loro ansia mentre le serviva nel patio. Josh voleva costruire il proprio nido. Era stato sempre lui ad accompagnare il signor Powell dall’oncologo. Aveva il sospetto che il signor Powell stesse peggio di quanto si credesse. Se gli fosse capitato qualcosa, Josh sapeva che avrebbe ricevuto centomila dollari, come stava scritto nel testamento del suo padrone. Ma aggiungerne altri centocinquantamila non era affatto disprezzabile. Ora, se solo fosse riuscito a trovare qualcosa anche su Claire! 28 GEORGE Curtis percorse i quattro isolati che lo separavano dalla sua abitazione nascondendo uno stato di spossatezza emotiva sotto una facciata di normale compostezza. Rob Powell lo stava tenendo sui carboni ardenti. Sapeva di lui e Betsy, ora George ne era certo. Ripensò a Laurie Moran, la produttrice del programma, che gli illustrava come intendeva realizzare la sequenza dell’indomani. Lo aveva ringraziato personalmente per la sua partecipazione. «So quanto è occupato, signor Curtis», gli aveva detto, «e non so come ringraziarla per averci dedicato un giorno intero. So che ha dovuto sopportare lunghe attese durante i preparativi e le prove e me ne scuso. Domani la riprenderemo davanti agli spezzoni che abbiamo deciso di mandare in onda della serata del Gala e poi Alex Buckley la intervisterà sui suoi ricordi di quell’evento.» Ricordi, pensava George mentre svoltava nel viale d’accesso della sua casa, ricordi. Quella era stata la sera dell’ultimatum di Betsy. «O dici a Isabelle che vuoi divorziare come mi hai promesso, o mi paghi venticinque milioni di dollari per restare con Rob e tenere la bocca chiusa. Sei miliardario, te lo puoi permettere.» Ed era stato mentre si recavano al Gala che Isabelle, raggiante, lo aveva informato di essere incinta da quattro mesi di due gemelli. «Ho aspettato a dirtelo, George», si era giustificata, «perché dopo quattro gravidanze finite male, non volevo deluderti di nuovo. Ma quattro mesi sono già una bella sicurezza. Dopo quindici anni di attese e preghiere, questa volta avremo finalmente una famiglia.» «O Dio mio», era stato il massimo che era riuscito a spiccicare. «O mio Dio.» Ero elettrizzato e atterrito, ricordò. Mi sono chiesto come avevo potuto lasciarmi irretire da Betsy, la moglie del mio migliore amico. Tutto era cominciato a Londra. George vi si trovava per una riunione d’affari con il direttore europeo della sua catena di fast-food fondata da suo padre nel 1940. Nello stesso periodo soggiornavano a Londra anche Rob e Betsy Powell, allo Stanhope Hotel come lui, nella suite accanto. Rob aveva fatto un salto a Berlino e si era trattenuto per la notte. Ho portato Betsy a cena, poi, tornati in albergo, lei mi ha proposto di bere il bicchiere della staffa con me nella mia suite, ricordò George. Dove è rimasta fino all’indomani mattina. L’inizio di una storia durata due anni. Io e Isabelle eravamo in un momento di crisi, pensò George mentre parcheggiava davanti a casa. Lei era presa da un numero infinito di iniziative di beneficenza e io ero in giro per il mondo a entrare in nuovi mercati. Quando ero a casa, non avevo nessuna voglia di accompagnarla ai suoi pranzi di beneficenza. Perché tutte le volte che Rob si assentava, io mi vedevo da qualche parte con Betsy. Ma dopo un anno l’entusiasmo si era sopito. Alla fine ero riuscito a vederla per quello che era, una manipolatrice. Ma a quel punto non ero più in grado di liberarmi di lei. Mi asfissiava con la sua pretesa che divorziassi. Al Gala Isabelle si è messa a raccontare alle amiche che era in attesa. Quando Betsy lo ha sentito, mi ha detto di aver capito che non avrei mai divorziato. E che allora, per tenere la bocca chiusa, voleva quei venticinque milioni di dollari. «Te lo puoi permettere, George», l’aveva apostrofato, sorridendo, ben cosciente di tutta la gente che avevano intorno. «Sei miliardario, non te ne accorgerai neppure. Altrimenti dico a Isabelle di noi due. Chissà, può anche darsi che lo choc la faccia abortire di nuovo.» A George era venuto il voltastomaco. «Se lo racconti a Isabelle o a chiunque, Rob divorzierà.» Con la gola strozzata, George aveva avuto difficoltà a parlare. «E so che il tuo accordo prematrimoniale ti lascerà praticamente al verde.» Betsy aveva continuato a sorridere imperterrita. «Ma io so che non andrà così, George, perché invece tu mi darai i soldi che ti ho chiesto. E io seguiterò a vivere felice e contenta con Rob e tu e Isabelle vi godrete i vostri gemelli.» «Ti pagherò, Betsy», ricordava ora di averle risposto mentre lei lo ascoltava sorridente, «ma se riveli qualcosa a Isabelle o a chiunque altro, ti uccido. Lo giuro.» «Brindiamo al nostro accordo», aveva concluso a quel punto lei facendo tintinnare il bicchiere contro il suo. Vent’anni più tardi, mentre chiudeva a chiave la macchina, George tornò a quanto gli aveva descritto Laurie Moran del programma per l’indomani. «Poi lei e Alex Buckley vi siederete insieme e l’avvocato le chiederà di darci le sue impressioni generali del ricevimento e di Betsy Powell», aveva proseguito Laurie. «Se avesse qualche particolare o aneddoto da raccontare su Betsy, tanto meglio. Da quel che mi risulta, lei era molto amico dei Powell e li vedeva spesso e sovente non solo in privato.» Ho spiegato alla Moran che vedevo Rob soprattutto sul campo da golf al club, piuttosto che in ricorrenze mondane, in coppia con le mogli, ricordò George mentre saliva i tre gradini davanti all’elegante palazzina in mattoni che aveva fatto costruire vent’anni prima. Rammentò le pretese pirotecniche dell’architetto che progettava atri grandi quanto una pista da pattinaggio regolamentare e scalinate gemelle che salivano a una galleria «da metterci a sedere un’orchestra completa». «Noi vogliamo una casa, non un auditorium», aveva commentato Isabelle. Ed era una casa. Spaziosa ma non sconfinata. Invitante e accogliente. Aprì la porta e si diresse in soggiorno. Come aveva previsto, vi trovò Isabelle e i gemelli, Leila e Justin, a casa dal college per le vacanze estive. Si sentì gonfiare il cuore di affetto nel guardarli. Terribile quanto vicino sono stato a perderli, pensò ricordando la sua minaccia a Betsy. 29 TORNATA in albergo, la prima cosa che fece Claire fu appendere il cartello di NON DISTURBARE alla porta e correre a lavarsi la faccia. Tutto il trucco che si era applicato con tanta meticolosità scomparve nella salviettina insaponata. Claire finì di strofinarsi solo quando, dopo ripetute verifiche, fu certa di averlo rimosso fino all’ultima traccia. Comunque è servito allo scopo, rifletté. Ho ben visto le loro facce quando sono comparsa, soprattutto quella di Rob Powell. Non so se lo svenimento di Nina fosse autentico o una messinscena. Come attrice era più che brava, anche se non ha mai sfondato. Ma credo che abbia rubato la scena a Papà-Rob. Scommetto che sarebbe svenuto lui, se lei non lo avesse preceduto. Del resto si è sempre vantato di essere stato votato come miglior attore quando recitava al liceo, no? E non si può dire che non abbia fatto grandi progressi da allora. 30 QUANDO Rob non invitò Muriel a cena, Nina lesse la delusione sul volto di sua madre. In macchina però Muriel tenne a sottolineare che più di una volta Powell aveva fatto riferimento ai bei momenti che avevano trascorso insieme. Nina ammise dentro di sé che su quello sua madre non esagerava. «Hai visto il lampadario?» chiese Muriel mentre uscivano dalla cabina dell’ascensore in albergo. «Deve valere quarantamila dollari.» «Tu come lo sai?» «Ne ho visto uno così quando siamo stati a Venezia a girare delle sequenze di retroscena.» Ci sta, pensò Nina. Ora, come attrice sei di nuovo nel backstage. «Hai visto quella governante? Si comportava come se fossimo un branco di intrusi.» «Mamma, io la ricordo dai tempi che eravamo ancora ragazzine. Dava sempre l’impressione di disapprovare tutto e tutti, con l’unica eccezione di Betsy.» Esitò per un attimo. «Intendo la ‘signora Powell’», si corresse poi con sarcasmo. «È così che Jane era obbligata a chiamarla, anche se avevano lavorato insieme per anni.» «Be’, io di certo non avrei preteso di essere chiamata signora Powell invece di Muriel», borbottò sua madre. «Se fossi stata io a sposare Rob.» «Io vado nella mia camera. Mi faccio portare su da mangiare», ribatté Nina alzando gli occhi al soffitto e incamminandosi subito a passo sostenuto. Il più bel regalo che hai ricevuto, pensò mentre si dirigeva verso la sua stanza, è che Betsy sia stata tolta di mezzo, eppure, nonostante tu abbia telefonato a Rob Powell un numero infinito di volte dopo la morte di sua moglie, lui non ha mai voluto rivederti. E adesso è chiaro come il sole che ti sta prendendo in giro. Ma non imparerai mai? 31 REGINA era appena rientrata in albergo quando ricevette una telefonata di Zach che la chiamava da Londra. Suo figlio andò dritto al dunque. «Mamma, sii sincera, ti prego, hai portato con te quella lettera?» Regina sapeva che sarebbe stato inutile mentire. «Sì, Zach, l’ho portata, scusami. Ti ho mentito perché non volevo che tu stessi in pensiero.» «Allora è giusto che tu sappia che io ho fatto a pezzi la copia che avevi fatto, mamma. Mi ero prefissato di distruggere quel messaggio dal momento stesso in cui me ne hai parlato. Avrei stracciato anche l’originale, ma non sono riuscito a trovarlo.» «Zach, è tutto a posto. So che hai ragione e quando avrò finito qui, ti prometto che la distruggerò. O, se preferisci, lascerò che sia tu a bruciarla. Ti do la mia parola.» «Perfetto, mamma, so che la manterrai.» Si scambiarono un «ti voglio bene», poi si salutarono. Regina corse al comò dove aveva lasciato la borsetta, l’aprì e con le dita che le tremavano recuperò il portafogli. Varcando la soglia della villa di Powell aveva immediatamente capito di aver commesso un errore portandosi dietro quella lettera. Aprì il comparto segreto del portafogli in cui aveva infilato il foglio ripiegato. Niente. Chi le aveva sottratto il biglietto doveva aver sospettato che avesse con sé qualcosa di importante, altrimenti avrebbe frugato in tutte le borsette che erano state lasciate sul tavolo del patio. E quella lettera rivelava un movente perfetto per voler uccidere Betsy. Frenetica, rovesciò sul ripiano il contenuto della borsa e vi rovistò dentro alla disperata, pregando che per qualche motivo fosse finita fuori posto. Ma non c’era. 32 ROD fu svegliato alle quattro di notte dal rumore di una porta che si chiudeva. «Alie?» chiamò. Accese la luce centrale. La porta del salotto era aperta, ma Alison non era nemmeno lì. Si precipitò a recuperare le stampelle. Dopo tanti anni di esercizio, aveva braccia e spalle forti e sapeva muoversi con rapidità. Controllò il bagno e lo spogliatoio, ma Alison non era nemmeno lì. Possibile che avesse avuto un nuovo attacco di sonnambulismo? Arrivò in pochi secondi alla porta della suite e l’aprì. Alison era là fuori. Scendeva lentamente per il lungo corridoio. La raggiunse in cima alle scale che scendevano nella hall. «Alison», bisbigliò prendendole la mano. La vide battere le palpebre girandosi verso di lui sbigottita. «Tutto bene», la tranquillizzò subito Rod. «Tutto bene. Adesso torniamo a letto.» Quando furono di nuovo in camera, Alison scoppiò a piangere. «Rod, Rod, camminavo di nuovo nel sonno, vero?» «Sì, ma è tutto finito. Non ci pensare più.» «Rod, quella sera al Gala ero così arrabbiata. Tutti mi chiedevano se mi sarei iscritta alla scuola di medicina e io rispondevo che almeno per un anno avrei dovuto lavorare. Tutte le volte che guardavo Betsy pensavo che mi aveva rubato quella borsa di studio solo per poter essere ammessa in un club esclusivo.» La sua voce si ridusse a un mormorio sibilante. «Quella notte, al Gala, sono uscita dalla mia stanza nel sonno», gemette disperata. «Quando mi sono svegliata, stavo uscendo dalla stanza di Betsy. Ero così felice che non si fosse accorta di niente. Ma è possibile che sia stata io a ucciderla?» Poi i singhiozzi le impedirono di continuare. 33 LEO Farley salutò la figlia che scendeva dal loro taxi e ordinò al conducente di aspettare finché non avesse visto il portiere che la faceva entrare nell’atrio del palazzo e chiudeva la porta dietro di lei. Ma la sicurezza assoluta non esiste, si rammaricò, poi convogliò tutta la sua stanchezza in un profondo sospiro. Era stata una giornata lunga, resa ancor più lunga dall’ansia per Timmy così lontano da casa. Assorto com’era nei suoi pensieri, non si accorse nemmeno che il taxi si era fermato davanti allo stabile in cui abitava, a un isolato da quello di Laurie. C’era già Tony ad aspettare di aprirgli la portiera. Di solito Leo saltava giù, ma quella sera, dopo aver pagato la corsa, si mosse con estrema lentezza e allungò persino la mano per appoggiarsi al braccio di Tony per alzarsi in piedi. Fu allora che l’avvertì di nuovo: l’accelerazione dei battiti cardiaci che preannunciavano un attacco di fibrillazione. Tony era ancora in attesa. Leo fece per issarsi fuori dell’abitacolo, poi ricordò che il medico gli aveva raccomandato di non ignorare mai, per nessun motivo i segnali del suo cuore quando cominciava a battere così svelto, come una locomotiva fuori controllo. «Precipitati in ospedale, Leo», gli aveva ordinato. «Sono molte le persone che hanno questo problema, ma il tuo è particolarmente grave. Bisogna rallentare il tuo cuore il più presto possibile.» Leo alzò gli occhi su Tony. «Mi sono appena ricordato d’aver dimenticato qualcosa a casa di mia figlia», mentì. «Visto che devo tornare indietro magari stanotte mi fermo da lei.» «Benissimo, signore. Buonanotte.» Tony chiuse lo sportello con decisione e, benché di malavoglia, Leo disse all’autista di portarlo al Mount Sinai Hospital. E meno male che è a soli pochi isolati da qui, pensò, mentre si tastava di nuovo il polso impazzito. 34 RIENTRANDO da Salem Ridge a Manhattan, Alex Buckley rifletteva su quanto era avvenuto quel giorno. Le quattro ex neolaureate, ora non più ragazzine, avevano stretto amicizia fin dai tempi del liceo e, anche se con il passare delle ore si erano lasciate andare sempre di più, all’inizio nel rivedersi avevano manifestato una certa diffidenza. A dispetto di una sottile facciata di cordialità, la loro reazione a Robert Powell era stata invece indiscutibilmente ostile. Dalla lunga esperienza nell’interrogare testimoni Alex aveva sviluppato la capacità di vedere attraverso lo schermo delle dichiarazioni e a trarre informazioni dall’espressione degli occhi e dal linguaggio del corpo. Quello che aveva concluso nell’esaminare quel giorno le quattro protagoniste del programma era che il loro sentimento comune nei confronti di Robert Powell era di malanimo. La domanda era: perché? Era pronto a scommettere che la loro animosità avesse avuto inizio vent’anni prima. Allora perché avevano accettato di farsi festeggiare con quel Graduation Gala? Se io avessi odiato il padre del mio migliore amico, pensò Alex, avrei rifiutato di festeggiare con lui a casa sua i nostri diplomi di laurea. Da quelle considerazioni scaturiva subito un altro interrogativo: che cosa pensavano di Betsy Bonner Powell? Se era stata una di loro quattro a ucciderla, allora il suo movente doveva essere stato tanto impellente da spingerla a non perdere l’occasione che le era data di passare la notte nella villa. Erano queste le domande con cui si baloccava Alex mentre lasciava l’automobile nella rimessa e andava verso la porta di casa. Ramon udì immediatamente il rumore della chiave nella serratura. Sorridente, si materializzò in tempo in anticamera per accoglierlo. «Buonasera, signor Alex. Spero che sia stata una buona giornata.» «Diciamo che è stata una giornata interessante», precisò Alex ricambiando il sorriso. «Mi cambio subito. Non avevo certo bisogno di giacca e cravatta oggi. Faceva troppo caldo.» In casa la temperatura era perfetta e come al solito il suo guardaroba era un capolavoro di precisione, grazie a Ramon, che appendeva giacche, camicie, cravatte e pantaloni ordinando i capi secondo i colori. Alex scelse una camicia sportiva a maniche corte e un paio di calzoni sportivi. Poi si lavò le mani, si sciacquò il viso e decise che ci stava bene una birra fresca. Passando davanti alla porta della sala da pranzo, vide che la tavola era apparecchiata per due. «Chi viene, Ramon?» chiese aprendo il frigorifero. «Non ricordo d’aver invitato nessuno.» «Non ho avuto la possibilità di dirglielo, signore», si giustificò Ramon intento a preparare un piccolo piatto di antipasti. «A minuti dovrebbe arrivare suo fratello. Domattina ha un appuntamento a New York.» «Ah, viene Andrew», esclamò Alex. «Ottimo», commentò con sincerità, nonostante un fugace momento di delusione, dato che aveva avuto intenzione di buttar giù durante la cena tutte le sue impressioni della giornata appena trascorsa. Andrew sapeva che quel giorno erano cominciate le riprese e senza dubbio aveva un sacco di domande a cui avrebbe preteso che rispondesse. Avrebbe usato dunque il suo interrogatorio per mettere meglio a fuoco i fatti. Un esercizio che ormai mi viene naturale, concluse tra sé. Il suo primo sorso di birra coincise con il campanello dell’ingresso che annunciava l’arrivo di Andrew. Aveva una chiave propria e Alex uscì in anticamera nel momento in cui suo fratello entrava. Per molto tempo erano vissuti insieme, loro due soli. La loro madre era morta quando Alex era appena entrato al college e due anni dopo era spirato anche il padre. Alex, che aveva appena compiuto ventun anni, era diventato il tutore di Andrew. Come accade quasi sempre tra fratelli, c’erano stati screzi frequenti quand’erano più piccoli. Erano entrambi molto competitivi e quando si affrontavano a golf o a tennis, la gioia di una vittoria da una parte corrispondeva a malumore e rancore dall’altra. Ma quando erano rimasti soli, era scomparsa tra loro anche la minima traccia di dissapore. Nella loro grande famiglia avevano solo cugini alla lontana, nessuno dei quali viveva a New York. Avevano venduto la casa in cui abitavano a Oyster Bay e si erano trasferiti in un appartamento di Manhattan, sulla Sessantasettesima Est, dove erano rimasti fino a quando Andrew si era laureato alla Columbia Law School e aveva accettato un incarico di lavoro a Washington. Alex, già laureato in legge da cinque anni e lanciato in una brillante carriera come penalista, era vissuto ancora in quell’appartamento fino a quando ne aveva acquistato uno in Beekman Place. A differenza di Alex, sei anni prima Andrew si era sposato e ora aveva tre figli, un maschio di cinque anni e due figlie gemelle di due. «Come stanno Marcy e i bambini?» fu la prima domanda che Alex rivolse al fratello dopo averlo abbracciato. Andrew, solo due dita più basso degli oltre centonovanta centimetri del fratello, con i capelli leggermente più scuri e gli occhi grigio azzurri, ma con un fisico altrettanto atletico, scoppiò a ridere. «Marcy è gelosa delle mie frequenti assenze. Le gemelle sono la tipica rappresentazione dei terribili due anni. Il loro vocabolario consiste di una sola parola: ‘no’. Johnny è come sempre un tesoro. Se mai ha avuto due anni come adesso le bambine, io non lo ricordo.» Abbassò gli occhi sul bicchiere che aveva in mano suo fratello. «Ce ne sarebbe una anche per me?» Ramon stava già versando la birra in un bicchiere raffreddato. Andarono nello studio, dove Andrew si lanciò senza complimenti sugli antipasti. «Muoio di fame. Oggi ho saltato il pranzo.» «Avresti dovuto farti portare qualcosa in ufficio», lo rimproverò Alex. «Questa è saggezza profonda. Peccato che non mi sia venuto in mente.» I fratelli si scambiarono un sorriso divertito. «Ma adesso veniamo al domandone», riprese Andrew. «Com’è andata oggi?» «Interessante, naturalmente.» Alex cominciò a raccontargli della riunione per la prima colazione. Quando arrivò a Nina Craig che perdeva i sensi alla vista di Claire, Andrew lo interruppe. «Faceva sul serio o recitava?» «Che cosa te lo fa chiedere?» volle sapere Alex. «Non dimenticare che prima che ci sposassimo Marcy ha recitato per molto tempo. Per cinque anni dopo il college è vissuta in California. Quando abbiamo saputo che eri coinvolto anche tu in questa iniziativa e che i giornalisti stavano riproponendo i particolari del caso, mi ha detto di aver recitato in un dramma con Muriel Craig e che tutte le sere dopo lo spettacolo Muriel si ubriacava in qualche bar e cominciava a raccontare a tutti che stava per sposare Robert Powell se quella stupida di sua figlia non gli avesse presentato la madre di una sua amica. Sosteneva che lei e Powell erano praticamente fidanzati e che adesso, non fosse stato per quell’idiota di sua figlia Nina, vivrebbe in un grande palazzo con un marito bello e ricco. Sembra che una sera fosse presente anche Nina e che dopo la tirata della madre, per poco non sono venute alle mani.» «Allora questo spiega qualcos’altro», osservò Alex. «Secondo me Nina ha veramente perso i sensi, però quando si è ripresa, ha urlato in faccia a sua madre di toglierle le sue schifose mani di dosso.» «Da quanti anni era sposata Betsy quando è stata uccisa?» domandò Andrew. «Erano sei o sette anni?» «Nove.» «Pensi che sia possibile che Nina Craig abbia colto l’occasione di eliminare Betsy pernottando alla villa dopo il Gala con la speranza di rendere Powell di nuovo disponibile per sua madre? Da quel che mi ha raccontato Marcy, Nina sa tirar fuori un bel caratterino quando le conviene.» Alex rifletté per un lungo momento, poi rivolse al fratello un sorrisetto sagace. «Forse avresti fatto meglio tu a intraprendere la strada del penale.» Ramon si affacciò dalla porta. «La cena è pronta, signore.» «Speriamo che si mangi pesce», si augurò Alex alzandosi. «Il fosforo fa funzionare meglio il cervello, non è vero, Ramon?» 35 LAURIE aveva fissato la sveglia per le sei ma aprì gli occhi alle cinque e mezzo. Un’occhiata all’orologio sul comodino le diede la bella notizia di potersi concedere il lusso di un’altra mezz’oretta di letto. Era l’ora in cui, se si svegliava in anticipo, Timmy andava da lei e s’intrufolava al suo fianco. Ricordò con affetto la bella sensazione di cingerlo con un braccio e sentire la sua testolina incuneata sotto il mento. Era alto per la sua età, ma a lei sembrava sempre così piccolo e vulnerabile da non poter dominare la sensazione di doverlo costantemente proteggere. Ucciderei per te, pensò con passione quando le tornò alla mente la minaccia che aveva urlato Occhi Blu. Ma quel giorno Timmy non c’era e aveva invece passato la sua prima notte lontano da lei o dal nonno. Non era mai accaduto prima, perché anche quando Laurie era costretta ad assentarsi per lavoro, Leo si trasferiva in casa sua. Chissà se si stava divertendo. Aveva nostalgia di casa? Sarebbe stato naturale, si disse. Tutti i ragazzini, la prima volta che vanno in campeggio, per un giorno o due soffrono di nostalgia. Ma sono io ad avere nostalgia di lui, rifletté mentre spingeva via lenzuolo e coperta leggera perché era meglio alzarsi e darsi da fare che continuare a stare a letto a crucciarsi per Timmy. Si fermò davanti alla foto incorniciata sul comò. Era l’ingrandimento di un’istantanea che qualcuno aveva scattato a lei, Greg e Timmy, una volta che si trovavano con un gruppo di amici su una spiaggia di East Hamtpon. Era l’ultima foto di loro tre. Una settimana dopo Greg non c’era più. Passò la punta del dito sul viso di Greg, un gesto che negli ultimi cinque anni aveva ripetuto centinaia di volte. Fantasticava che un giorno invece della superficie bidimensionale della stampa fotografica avrebbe sentito sotto il polpastrello la pelle di Greg, che avrebbe fatto scorrere il dito lungo il profilo delle sue labbra e le avrebbe sentite incurvarsi in un sorriso. Ricordò la notte in cui, alcuni mesi dopo la sua morte, aveva sentito così forte il bisogno di lui da addormentarsi bisbigliando all’infinito il suo nome. Poi lo aveva sognato e nel sogno le era apparso con la vividezza della realtà, ansioso e rattristato, quasi che soffrisse nel vederla così addolorata... Posò nuovamente la foto sul comò scuotendo la testa. Quindici minuti più tardi, con i capelli ancora bagnati della doccia e un accappatoio di cotone sul corpo snello, andò in cucina, dove la macchina del caffè era già entrata in funzione, avviata dal timer. *** Jerry e Grace passarono a prenderla alle otto meno un quarto. Avrebbero incontrato il resto della troupe alla villa. Grace era come al solito ancora in fase di rodaggio: il suo organismo entrava a regime più tardi degli altri. «Sono andata a letto alle dieci», spiegò a Laurie, «ma poi non sono riuscita a prendere sonno. Cercavo di immaginare chi di loro potesse aver ucciso Betsy Powell.» «E la tua conclusione qual è stata?» volle sapere Laurie. «Una qualunque di loro o tutte assieme, le quattro ragazze, intendo. Come in Assassinio sull’Orient Express. Hanno pugnalato tutti a turno il tizio che aveva rapito la neonata.» «Figuriamoci se Grace non se ne sarebbe venuta fuori con una teoria del complotto», commentò Jerry. «Io dico che è stata la governante. È così evidente che ci vedrebbe tutti quanti più volentieri sul pianeta Marte e tanto fastidio nei nostri confronti non può dipendere soltanto dal fatto che stiamo creando confusione nella sua bella routine. Io credo che sia preoccupata. Tu che ne dici, Laurie?» Laurie stava prendendo il cellulare. Aveva sentito il debole segnale che l’avvertiva dell’arrivo di un messaggio. Era di Brett Young: «Laurie, il trend è negativo anche per quest’ultimo trimestre. Come ti ho detto, i tuoi due ultimi pilot sono stati costosi e deludenti. Meglio per te che questo funzioni». 36 IL signor Powell si era svegliato prima del solito. Alle sette e un quarto stava già finendo la sua seconda tazza di caffè. Da dove sedeva nella saletta della prima colazione godeva della vista completa del suo giardino dietro casa, cosa che normalmente gli dava conforto e gratificazione. Quel giorno però, nonostante l’esplosione delle rose intorno al patio, i riflessi cristallini dell’acqua della fontana e la fantasiosa tavolozza di colori degli arbusti intorno al laghetto, la sua espressione era corrucciata. La troupe televisiva aveva lasciato accanto alla villa, nel viale dietro casa, due dei loro grossi pulmini, e Jane sapeva che la loro presenza contrariava il suo padrone quanto infastidiva lei. Jane conosceva bene i suoi stati d’animo. La sera prima era sembrato quasi divertito dall’evolversi della giornata, con lo svenimento di Nina Craig e le ostentate moine con cui Muriel aveva cercato di rinverdire i loro reciproci sentimenti di quando non era ancora entrata in scena Betsy. Fino a che punto sapeva di George Curtis e Betsy? si domandava Jane. Vent’anni prima stava servendo gli antipasti al Gala quando aveva percepito la forte tensione tra Curtis e Betsy ed era riuscita ad avvicinarsi abbastanza senza farsi notare da sentire la minaccia che Curtis aveva rivolto alla moglie di Powell. Sapeva che se Betsy fosse riuscita a incassare venticinque milioni da Curtis, probabilmente avrebbe nascosto i soldi, come già aveva fatto con i gioielli, per continuare imperterrita la sua vita al fianco del signor Rob. Se solo avessi idea di quanto so su di te, pensò Jane mentre resisteva con fermezza all’impulso di accarezzare una spalla del signor Rob. Devo ricordargli che è stato lui ad autorizzare tutto questo e dovrei suggerirgli di andare a passare la giornata in ufficio, visto che, da quel che ho capito, oggi di lui non c’è bisogno qui? Ma non gli toccò la spalla e non gli suggerì di andare in ufficio. Non avrebbe accolto di buon grado che si prendesse una simile libertà. Fece invece il gesto simbolico di versargli dell’altro caffè ma lui, dopo un brusco rifiuto, si avviò silenziosamente alla porta. Il giorno prima aveva sorpreso quel ficcanaso di Josh che frugava nelle borsette, quando alle ospiti era stato ordinato di lasciarle sul tavolo del patio. Aveva preso qualcosa da una borsa. Non aveva visto bene quale, perché Josh era stato troppo svelto. Che cosa aveva trovato di tanto interessante? Sapeva da tempo che registrava le conversazioni delle persone che trasportava in macchina. Sapeva anche che Betsy, «la signora Powell», si corresse con maligno sarcasmo, lo aveva in antipatia. Se non fosse stata uccisa, Josh non avrebbe conservato a lungo il suo poso di lavoro, pensò Jane. Chissà che cosa aveva preso da una di quelle borsette? Una cosa però la sapeva con certezza: se si fosse trattato di qualcosa che poteva tornare utile al signor Powell, Josh glielo avrebbe mostrato e, come un cane che riceve in premio una carezza dal suo padrone, si sarebbe ritrovato con qualche centinaio di dollari extra in tasca. «Jane, stamattina non voglio vedere nessuno», annunciò Powell prima di andarsene. «Sarò spesso e sovente al telefono con l’ufficio. Quelli della TV si porteranno dietro da mangiare, perciò non c’è motivo di aprire la cucina per loro. I tecnici useranno il bagno della pool house. Che gli altri restino nel patio e passino dalla cucina per usare il bagno. Non voglio che nessuno di loro vada di sopra o gironzoli per casa. Tutto chiaro?» Che cos’era cambiato così drasticamente dalla sera prima, quando sembrava che si stesse divertendo tanto? si chiese Jane. Possibile che fosse sulle spine in attesa dell’intervista a quattr’occhi con Alex Buckley? L’avvocato? Jane lo conosceva di fama, ne aveva letto sui giornali e sulle riviste e lo aveva visto discutere di casi giudiziari in televisione. Sapeva che a un certo punto avrebbe fatto anche a lei domande su quella sera. Be’, sono riuscita a tenere i miei pensieri per me per quasi trent’anni, pensò. Sono sicura di poter continuare a custodire i miei segreti. Sorrise mentre pensava ai gioielli che aveva portato via dal nascondiglio di Betsy dopo che avevano trovato il suo cadavere. Naturalmente la «signora Powell» non aveva mai indossato in presenza di suo marito gli orecchini, l’anello e la collana che le aveva regalato George Curtis. Betsy li riservava per quelle sue discrete scappatelle quando il signor Powell era fuori città. Lui non aveva mai saputo niente e di certo George Curtis non avrebbe mai tentato di recuperarli. Chissà se per tutti questi anni Curtis ha temuto che quei gioielli venissero ritrovati e fossero fatti risalire fino a lui? Quella sera aveva minacciato Betsy, e Curtis abita a non più di dieci minuti a piedi da qui. Be’, se a qualcuno dovesse venire in mente di sospettare me o il signor Rob della morte di Betsy, posso sempre fingere di averli semplicemente trovati e lasciare che dell’omicidio sia accusato George Curtis. Confortata dalla rassicurante presenza dei gioielli ben nascosti nel suo alloggio personale, Jane prese la tazza che Robert Powell aveva posato quando aveva lasciato la saletta e, premendosela amorevolmente sulle labbra finì il caffè rimasto. 37 PER colazione Claire si era fatta servire in camera spremuta d’arancia, caffè e un muffin. Era vestita di tutto punto già molto prima che arrivasse l’automobile a prelevarla e portarla alla casa dove aveva trascorso i nove anni più tristi della sua vita. Aveva scelto volutamente l’abbigliamento che le era usuale a casa, una semplice maglia di cotone a maniche lunghe e calzoni sportivi neri. Questa volta non si era truccata e, com’era abituata anche a casa, non aveva indossato gioielli. Per tutti questi anni sono sempre stata invisibile, pensò. Da bambina era mia madre a spingermi ad assumere questo aspetto così dimesso. Perché dovrei cambiare ora? E comunque ormai è troppo tardi per qualunque cambiamento. C’era una sola soddisfazione nella vita di Claire, il suo lavoro di assistente sociale nel settore delle situazioni problematiche domestiche. Sapeva di svolgerlo al meglio ed era solo quando contribuiva a salvare donne e bambini da circostanze insopportabili che si sentiva ricompensata da un senso di pace e appagamento. Perché sono venuta qui? si domandava. Che cosa pensavo di ricavarne? Che cosa immaginavo di poter concludere? Partecipando, tutte e quattro rischiavano di rivelare le proprie ragioni segrete di odio verso Betsy. Claire le conosceva tutte, quelle ragioni, e le condivideva. Ricordava quanto solidali fossero state le sue tre amiche negli anni del liceo. Quando ero fuori con loro, pensò, riuscivo quasi a dimenticare tutto il resto. Ora siamo tutte preoccupate di quello che la gente possa venire a sapere su di noi. Che conseguenze avrà questo programma? Farà emergere la verità o sarà semplicemente una riedizione pasticciata di brutti ricordi e vite distrutte? Alzò le spalle in un gesto spazientito, poi si sintonizzò su un programma di notizie per ammazzare il tempo in attesa che arrivasse la macchina. In uno dei servizi si parlava dello show sull’assassinio di Betsy Bonner Powell e su come fosse destinato a essere «l’evento più atteso di tutta la stagione televisiva». Spense il televisore nel momento stesso in cui cominciava a squillare il telefono. Dalla hall Josh Damiano le chiese in un tono spigliato se fosse pronta a scendere. Forse sono pronta da vent’anni, pensò Claire infilando l’avambraccio nei manici della borsetta. 38 LUNEDÌ sera, verso le nove, il capo della polizia Ed Penn aveva ricevuto una telefonata di Leo Farley. Lo aveva sentito affaticato, per poi apprendere con sconcerto che Leo era in ospedale. «Non sono riusciti a farmi tornare il cuore a un ritmo di battiti naturale», gli aveva spiegato Leo. «E naturalmente questo significa che non posso essere lì a tenere gli occhi aperti nell’eventualità di qualche possibile problema.» Il primo giudizio di Penn fu che, dopo essere stato per cinque anni vittima dello stress provocato dalla minaccia che incombeva su figlia e nipote, ora stava cedendo fisicamente. Dopo aver ripetuto ciò che Leo già sapeva, che cioè la produzione aveva piazzato una guardia all’ingresso della proprietà di Powell per impedire l’ingresso ai paparazzi e che tutte le persone che le si presentavano venivano debitamente controllate, Penn promise a Leo di inviare un’auto di pattuglia dietro la tenuta per impedire che qualcuno cercasse di introdursi nella proprietà scalando la recinzione. Ora che il programma era effettivamente in corso d’opera, Penn si era portato a casa la voluminosa documentazione del caso e la stava rileggendo dalla prima all’ultima pagina. Quando era arrivata la telefonata di Leo, stava esaminando con una lente d’ingrandimento le foto scattate sulla scena del crimine, l’elegante sfondo della camera da letto in contrasto con la scioccante immagine del cadavere di Betsy Powell, i capelli sparsi sul guanciale, gli occhi fissi nel vuoto, la camicia da notte di raso accartocciata sulle spalle. Nel resoconto si leggeva che la governante aveva sentito dalla cucina il trambusto al piano di sopra e che quando era corsa su aveva trovato Robert Powell che rantolava raggomitolato sul pavimento accanto al letto, con le mani ustionate dal caffè che aveva portato a Betsy. Richiamate dalle urla di Jane, erano accorse le quattro neolaureate. Secondo la loro testimonianza, Jane Novak si era messa a strillare: «Betsy, Betsy», quando normalmente la chiamava signora Powell. E Jane sosteneva che, subito dopo aver tolto il cuscino dalla faccia della vittima, aveva raccolto dal pavimento l’orecchino di smeraldi e lo aveva posato sul comodino. «Dev’essere stato perché per poco non lo calpestavo», aveva spiegato. «Non pensavo a quello che facevo.» E quello che stava facendo era contaminare la scena di un crimine, aveva pensato Penn. Prima per aver spostato il guanciale, poi per aver raccolto l’orecchino. «Poi sono corsa dal signor Powell», proseguiva la deposizione di Jane. «Aveva perso i sensi. Lì per lì ho creduto che fosse morto. In televisione avevo visto una scena in cui facevano un massaggio cardiaco e l’ho provato su di lui nel caso che il suo cuore avesse smesso di battere. A quel punto sono entrate le ragazze e ho gridato loro di chiamare la polizia e un’ambulanza.» Il particolare che lui stesso aveva notato immediatamente, rifletteva in quel momento Penn, era la calma unanime delle quattro ragazze. Certo, gli avevano riferito di essere rimaste in piedi fino alle tre a chiacchierare e avevano bevuto vino in quantità. Ad appannare la loro reazione immediata alla morte violenta di Betsy Powell potevano essere stati la carenza di sonno e le libagioni eccessive, ma a lui sembrava che anche tenendo in debito conto il trauma del primo impatto, Claire Bonner fosse rimasta sorprendentemente composta per una ragazza di quell’età che si trova al cospetto del cadavere di sua madre. E lo stesso valeva anche per le altre tre, quando erano state interrogate. E io continuo a pensare che non è stato uno venuto da fuori, aveva ripetuto tra sé Penn. Sono sempre stato convinto che a uccidere Betsy Powell sia stata una delle persone presenti nella villa. Le sei persone in questione erano Robert Powell, la governante e le quattro festeggiate. Sarebbero state tutte interrogate da Buckley, che, nel controinterrogatorio di un teste, si supponeva fosse un inquisitore spietato. Sarebbe stato interessante confrontare le loro dichiarazioni di allora con quanto avrebbero detto questa volta davanti alle telecamere. Penn si era guardato intorno scuotendo la testa. Che quel caso non fosse stato risolto pesava sulla coscienza del dipartimento in modo insopportabile. Il suo sguardo si era fermato sulle numerose citazioni che lui e il suo dipartimento si erano guadagnati nel corso di tanti anni di servizio. Ce n’era un’altra che desiderava. Quella per aver risolto il delitto di Betsy Bonner Powell. A quel punto si era accorto che erano le nove passate, troppo tardi per continuare a indugiare in inutili congetture. Sollevò il ricevitore e ordinò che a partire dall’indomani mattina all’alba ci fosse una volante appostata dietro l’abitazione di Powell. 39 MARTEDÌ mattina Bruno si svegliò alle sei. A fargli spalancare gli occhi era stata l’eccitazione di sentirsi di momento in momento più vicino all’esito glorioso della sua vendetta finale. Accese la televisione e ascoltò le notizie mentre si preparava una colazione spartana. Gli era concesso di avere in camera un piccolo frigorifero. Mise in funzione la macchina del caffè e versò in una tazza yogurt e cereali. Dopo il notiziario principale e una decina di spot pubblicitari udì quello che stava aspettando. «Attualmente alla villa di Robert Powell si stanno effettuando le riprese del pilot della nuova serie intitolata Under Suspicion. Vent’anni dopo il Graduation Gala, le quattro festeggiate si sono riunite per apparire in un programma televisivo nel quale rivendicare la loro innocenza nella morte della bella Betsy Bonner Powell, noto personaggio della mondanità newyorkese.» Bruno rise forte, una risata acida, malevola. Il giorno prima aveva parlato con un tecnico sorprendentemente loquace della troupe televisiva. Gli aveva confidato che avrebbero filmato quel giorno e ancora l’indomani. Quella notte le ex neolaureate avrebbero dormito alla villa. Le avrebbero riprese sedute nello studio come vent’anni prima. Poi, l’indomani mattina, mentre consumavano una prima colazione d’addio. E mentre facevano colazione, Bruno sarebbe uscito dalla pool house armato di fucile. Pensò a quel giorno di tanti anni prima quando, ancora ragazzino a Brooklyn, era a contatto con certi individui che sapeva appartenere alla malavita. Faceva il garzone in una tavola calda dove alcuni di loro andavano a fare colazione tutte le mattine. Aveva sentito un paio di loro vantarsi della loro abilità di tiratori, dicevano che sarebbero stati capaci di spaccare una mela in testa al figlio di Guglielmo Tell, ma con un colpo di fucile, non con una freccia. Era stato allora che Bruno aveva comprato un fucile e una pistola di seconda mano e aveva cominciato a esercitarsi. Sei mesi dopo, mentre puliva il tavolo, annunciò a quei due che gli sarebbe piaciuto far loro vedere com’era bravo a sparare. Lo avevano deriso. «Sai, moccioso», l’aveva canzonato uno dei due, «a me quelli che mi fanno perder tempo con le loro spacconate mi fanno girare. Perciò mi piace metterli alla prova. Avanti, facci vedere.» Ed era stato così che lo avevano preso nella gang. Bruno avrebbe potuto scegliere qualsiasi momento per freddare Laurie Moran, ma voleva che stramazzasse a terra mentre veniva ripresa dalle telecamere. Bevve rumorosamente il suo caffè pregustando quel momento. I poliziotti dell’auto di pattuglia parcheggiata dietro la proprietà si sarebbero affrettati a scavalcare la recinzione e correre verso la sala da pranzo. Si sarebbero precipitati anche quelli della TV. Quando tutti fossero passati oltre la casetta, Bruno sarebbe uscito dalla porta di servizio e in pochi secondi avrebbe superato la siepe del tutto indisturbato. In quattro minuti correndo senza affannarsi avrebbe raggiunto il parcheggio pubblico della stazione ferroviaria. Il parcheggio era a un solo isolato dalla stanza in cui si trovava in quel momento. Aveva già scelto la vettura che avrebbe rubato, una Lexus famigliare il cui proprietario arrivava tutte le mattine alle sette per prendere il treno delle sette e un quarto per Manhattan. Bruno sarebbe stato già lontano prima ancora che avessero capito da dove era partita la fucilata. Il proprietario della macchina non avrebbe denunciato il furto prima di martedì sera. Preso com’era dai suoi progetti non si era accorto che la sua tazza era vuota. In che modo il suo piano poteva fallire? Naturalmente qualche imprevisto poteva sempre esserci. Uno dei due poliziotti poteva non essere in grado di issarsi oltre la recinzione e in quel caso sarebbe stato ancora in strada e Bruno avrebbe dovuto affrontarlo. Non voglio sparargli, pensava, la detonazione richiamerebbe il suo collega. Se però lo tramortisco con il calcio del fucile, avrò tutto il tempo che mi serve per... L’elemento sorpresa, la confusione intorno al corpo accasciato di Laurie, il sangue che le sgorgava dalla testa... tutto questo avrebbe agito in suo favore. Potrebbero prendermi, ammise, e così avrebbe dovuto rinunciare per sempre a far fuori Timmy. Ma se riuscirò a dileguarmi, vedrò di chiudere la partita con lui alla svelta. La fortuna non mi assisterà in eterno. Avendo spiato i dati contenuti nel computer di Leo Farley, sapeva che Timmy era al campo e persino in che tenda era e ogni particolare di come era organizzato il campeggio. Ma anche se fosse riuscito a introdurvisi di notte e a rapire Timmy, Laurie sarebbe stata immediatamente avvertita e lui si sarebbe giocato la possibilità di avvicinarla. No, prima Laurie e solo dopo anche Timmy. Si strinse nelle spalle. Era sicuro che la vecchia avesse sentito la sua minaccia: «Di’ a tua madre che adesso tocca a lei, poi sarà il tuo turno». Così aveva promesso e così doveva essere. Erano passate molte ore da quando aveva controllato il telefono di Leo, non che lo sbirro avesse molto da dire a nessuno. Ascoltò comunque la registrazione della telefonata che aveva fatto Leo al capo della polizia la sera precedente e venne così a sapere che era attualmente ricoverato in terapia intensiva al Mount Sinai Hospital. Cominciò a valutare quali nuove prospettive gli presentava questo sviluppo. Poi cominciò a sorridere. Ma sicuro, come no? Perfetto. Si poteva fare. Quando Laurie si sarebbe ritrovata con le altre per la colazione d’addio, Bruno sarebbe uscito dalla pool house tenendo Timmy per mano... puntandogli un fucile alla testa. e 40 A REGINA tremavano così violentemente le mani da non riuscire a sfilarsi la maglietta dalla testa. Laurie Moran aveva detto loro di indossare qualcosa di semplice. Aveva fatto confezionare indumenti identici a quelli che avevano indosso quando era arrivata la polizia dopo il ritrovamento del corpo di Betsy. Le ragazze avevano consegnato i pigiama ai poliziotti perché fossero analizzati dalla Scientifica ed erano state invitate ad aspettare nello studio per essere interrogate. Regina indossava una T-shirt rossa a maniche lunghe su un paio di jeans. Dover mettersi addosso vestiti simili adesso la faceva star male. Era come se venisse spogliata di tutti gli strati protettivi che aveva costruito intorno a sé nel corso di quegli ultimi vent’anni. Solo pensare a quegli abiti le faceva ricordare come si erano sentite vulnerabili, strette tutte assieme nello studio, senza poter nemmeno fare un salto in cucina per una tazza di caffè o una fetta di pane tostato. C’era anche Jane nello studio con loro, a cui era stato impedito di accompagnare in ospedale il signor Powell sull’ambulanza. Chi aveva rubato dalla sua borsetta il messaggio suicida di suo padre? E che cosa ne avrebbe fatto? Se la polizia l’avesse trovato, avrebbero potuto arrestarla per averlo preso dal corpo di suo padre. Sapeva che avevano sempre sospettato che il messaggio esistesse e che fosse stata lei a trafugarlo. Non ricordava più quante volte aveva mentito agli inquirenti durante l’inchiesta sulla sua morte. Chiunque si fosse impossessato di quella lettera, avrebbe potuto fornire alla polizia la prova di cui avevano bisogno per incriminarla dell’omicidio di Betsy. Le si colmarono gli occhi di lacrime. Zach, che a diciannove anni aveva dimostrato di avere molto più sale in zucca di lei, aveva distrutto la copia che aveva trascritto e aveva cercato invano di trovare l’originale. Poi l’aveva supplicata di non portarlo con sé. Cosa sarebbe stato di lui se lei fosse stata arrestata e incriminata per la morte di Betsy? Ripensò al bambino che la raggiungeva in agenzia dopo la scuola quando non aveva da svolgere attività sportive e pretendeva di aiutarla a ripiegare e imbustare gli annunci di vendite che inviava alle comunità della zona. Era sempre così felice quando uno dei loro annunci appariva in una delle liste. Erano sempre stati così legati, loro due. Era una circostanza per cui si era sempre ritenuta infinitamente fortunata. Arrivò la sua colazione e Regina cercò di mandar giù il caffè e persino di mangiare un boccone di croissant, che le si fermò in gola. Devi assolutamente darti un contegno, si rimproverò. Se ti fai vedere così nervosa quando verrai intervistata da quell’avvocato, quell’Alex Buckley, non farai che peggiorare la situazione. Ti prego, Dio, pensò, fammene venir fuori al meglio. Squillò il suo telefono. Era arrivata la macchina che l’avrebbe trasportata da Powell. «Scendo subito», rispose, ma suo malgrado non riuscì a nascondere un tentennamento nella voce. 41 DOPO l’attacco di sonnambulismo, Alison non riuscì più a dormire. Rod la sentì agitarsi nel letto e alla fine le passò un braccio sotto le spalle e l’attirò a sé. «Alie», la rincuorò, «se quella notte ti aggiravi per casa nel sonno, per quanto convinta tu possa essere di essere stata nella stanza di Betsy, non è detto che la tua memoria non stia travisando i fatti.» «Ci sono stata. Lei aveva un piccolo lume notturno. Ricordo persino d’aver visto scintillare quell’orecchino sulla moquette. Rod, se l’ho preso in mano, devo averci lasciato sopra le mie impronte digitali.» «Ma tu non lo hai preso», cercò di tranquillizzarla Rod. «Alie, devi smetterla di pensare in questo modo. Quando sarai davanti alla telecamera, devi raccontare solo quello che sai, vale a dire niente. Hai sentito Jane strillare e sei corsa nella camera di Betsy con le tue amiche. Scioccata tanto quanto loro. Quando verrai intervistata, parla sempre al plurale, di te e delle tue amiche insieme, e andrà tutto bene. E non ti scordare che la ragione per cui stai partecipando a questo programma è che vuoi avere quei soldi che ti servono per la scuola di medicina. Cosa ti vado ripetendo da quando ti si è offerta la possibilità di tornare a studiare?» «Che un giorno dirai di me che sono la nuova Madame Curie», mormorò Alison. «Infatti. E adesso torna a dormire.» Ma anche se smise di girarsi e rigirarsi nel letto, Alison non tornò a dormire. Alle sette, quando trillò la sveglia, aveva già fatto la doccia e indossato la polo e i pantaloni che presto avrebbe sostituito con la T-shirt e i jeans che aveva indosso la mattina dopo la morte di Betsy Powell. 42 LAURIE, Jerry e Grace arrivarono alla villa pochi minuti dopo la troupe, che quella mattina includeva tra gli altri parrucchiera, truccatrice e costumista. Al corteo si erano aggiunti altri due pulmini, uno come spogliatoio, l’altro per truccare e pettinare coloro che sarebbero stati ripresi dalle telecamere. Laurie aveva già lavorato con loro e si era trovata bene. «La prima scena sarà delle quattro protagoniste e la governante vestite come lo erano dopo la scoperta del corpo di Betsy. Ci vuole un trucco leggero, perché non avrebbero avuto il tempo di truccarsi e in ogni caso non sarebbe loro mai venuto in mente di farlo. Abbiamo una foto scattata quella mattina dalla polizia. Studiala e cerca di farle apparire com’erano vent’anni fa. Naturalmente non hanno più i capelli lunghi di allora, ma nonostante siano ormai donne mature non sono cambiate molto.» Meg Miller, la truccatrice, esaminò con attenzione la fotografia. «Una cosa te la posso dire, Laurie: hanno tutte l’aria di essere spaventate a morte.» «Concordo», annuì Laurie. «E il mio compito è scoprire perché. È naturale che siano traumatizzate e disorientate, ma perché anche così spaventate? Se Betsy era stata uccisa da un estraneo, allora di che cosa avevano paura?» Avrebbero effettuato le riprese nello studio, il locale in cui quella mattina la polizia aveva fatto riunire le ragazze. Incredibilmente in quei vent’anni nulla era stato cambiato dell’arredamento, cosicché l’ambiente appariva come una inquietante evocazione di quello di allora. D’altronde, ragionava Laurie, c’era da pensare che in tutti quegli anni solo Robert Powell avesse usato quella stanza. Secondo Jane Novak, era solito intrattenere gli ospiti in soggiorno o in sala da pranzo. Secondo quanto le aveva raccontato, se era a casa da solo, dopo cena si ritirava nello studio a guardare la televisione o a leggere, altrimenti saliva direttamente nella sua suite. Visto che nella villa abitava solo lui e che Jane la teneva linda e ordinata come un gioiello, era solo logico che non si fosse mai sentita la necessità di cambiare qualcosa dell’arredamento. O, si domandò Laurie, era Powell a volere che la sua abitazione rimanesse come congelata nel tempo, ancora intatta come l’aveva lasciata sua moglie? Aveva sentito di persone con questo genere di manie. Si sentì attraversare da un brivido mentre tornava velocemente sui suoi passi entrando nello studio dal patio. I tecnici stavano sistemando le telecamere. Nessuna traccia di Robert Powell. Jane aveva detto loro che sarebbe stato nel suo ufficio e ci sarebbe rimasto per tutta la mattina. Fin dal principio Powell aveva sostenuto che non era necessario retribuire Jane come le quattro protagoniste. «Credo di poter parlare in sua vece se affermo che tutti e due desideriamo più che mai che questa terribile faccenda si concluda. Jane ha sempre rimpianto il fatto che dopo che aveva chiuso a chiave tutte le porte per la notte, le ragazze abbiano aperto quella dello studio per poi scordarsi di richiuderla a chiave quando sono rientrate dopo aver fumato nel patio. Non fosse stato per la loro trascuratezza, nessuno sarebbe potuto penetrare nascostamente in casa mia.» Forse Powell e Jane hanno ragione, pensò Laurie. Dopo aver controllato le telecamere e le luci, tornò fuori e dal patio vide Alex Buckley che scendeva dalla sua automobile. Invece del completo blu scuro con camicia bianca e cravatta che aveva indossato il giorno prima, questa volta aveva scelto una camicia sportiva e pantaloni comodi in tela kaki. Aveva viaggiato con il tettuccio abbassato e il vento gli aveva spettinato i capelli castani. Lo vide ravviarseli in un gesto che probabilmente era solo istintivo mentre s’incamminava verso di lei. «Mattiniera», commentò con un simpatico sorriso. «Per forza. È importante essere presenti in anticipo quando si deve cominciare a girare un programma al sorgere del sole.» «No, grazie. Io aspetto di poter pigiare un bottone e vederlo in TV.» Come già aveva fatto nel suo ufficio, passò bruscamente all’ordine del giorno. «È ancora rimasto che cominciamo da me che parlo alle protagoniste dopo che le avete riprese sedute nello studio?» «Sì. Ho scelto questa sequenza insolita perché ho la netta sensazione che tutte e quattro si siano preparate le risposte. Cominciando con loro tutte assieme, spero di coglierle di sorpresa. E non si stupisca di come sono vestite, perché abbiamo voluto che indossassero mise identiche a quelle che avevano addosso subito dopo il ritrovamento del corpo di Betsy.» Alex Buckley non era solito manifestare il suo stupore, ma questa volta era così sbigottito che non poté farne a meno. «Avete fatto metter loro gli stessi abiti che indossavano vent’anni fa?» «Non gli stessi, ma identici, sì. Per due scene. Quella nello studio dove erano state convogliate con Jane all’arrivo della polizia. E poi in un’altra in cui indosseranno invece vestiti da sera uguali a quelli del Gala. Le fotograferemo facendo passare sullo sfondo i video in cui erano state riprese individualmente e in gruppo durante i festeggiamenti. Per fare un esempio, quando Robert Powell brinda in loro onore, includeremo la foto delle quattro ragazze che lo guardano.» Nel momento in cui stava per rispondere, Alex Buckley fu interrotto dall’arrivo quasi simultaneo delle quattro protagoniste. Toccò a Laurie rimanere stupefatta nel vedere Muriel Craig scendere dalla stessa limousine su cui viaggiava sua figlia Nina. La sua presenza non era prevista. O era stato Powell a invitarla, o doveva essere stata un’idea sua. In entrambi i casi a Nina non era certamente piaciuto. E poteva anche essere un bene per quando Nina fosse stata intervistata. 43 MARTEDÌ mattina Josh portò la Bentley a lavare e controllare. Il signor Rob voleva che fosse tenuta sempre in condizioni perfette, «altrimenti», pensava Josh mentre aspettava comodamente seduto nell’angolo dell’officina riservata ai clienti. Soddisfatto di sé, si congratulò con se stesso per aver risolto il problema di come far ascoltare alle quattro donne i nastri che aveva registrato. Avrebbe messo il registratore nella toilette per signore accanto alla cucina, dove c’erano un tavolo da toletta e un panchetto per le ospiti che avessero desiderato ritoccarsi trucco o pettinatura. Avrebbe dato le cassette a Nina, Regina e Alison dicendo loro che forse avrebbero trovato interessante riascoltare le conversazioni che avevano fatto in macchina, proponendo quindi loro di distruggerle in cambio di cinquantamila dollari ciascuna. Si sarebbero fatte prendere dal panico, tutte e tre, ne era certo. In automobile Claire non aveva aperto bocca, quindi non c’era una cassetta anche per lei. Eppure Josh era pronto a scommettere che fra tutte era quella con più segreti da rivelare. Era in possesso del messaggio suicida che Regina aveva nascosto nella borsetta. All’inizio era stato indeciso se consegnarlo al signor Rob o tentare di trovarne un utilizzo più proficuo. Poi era giunto a una conclusione che lo accontentava del tutto: chiedere a Regina centomila dollari per averlo indietro, magari anche qualcosa di più, spiegandole che, se avesse rifiutato, si sarebbe rivolto direttamente alla polizia. Quel messaggio avrebbe con tutta probabilità allontanato ogni sospetto dal signor Rob, Jane e le sue tre amiche. E se lui avesse consegnato quel documento al capo della polizia sarebbe stato un eroe e un bravo cittadino. Ma alla polizia gli avrebbero magari chiesto cosa gli fosse venuto in mente di frugare nelle borsette delle signore e a una domanda del genere non aveva pronta una risposta convincente, perciò si augurava di non doversene inventare una. Quella mattina il signor Rob non lo aveva mandato a prelevare nessuna delle quattro. Invece, in un tono un po’ indispettito, gli aveva ordinato di mettersi a sua disposizione appena avesse finito in officina, nel caso decidesse di andare in ufficio. Il padrone era evidentemente contrariato dalla presenza di tutta quella gente in giro per casa. Non solo resuscitava un sacco di vecchi ricordi, rifletteva Josh, ma faceva riemergere in primo piano il fatto inconfutabile che lui stesso era indiziato per la morte della moglie, per quanto disperatamente desiderasse scagionarsi. Anche lui come Jane era riuscito a dare un’occhiata al testamento del suo padrone quando lo aveva lasciato sulla scrivania. Donava dieci milioni di dollari a Harvard da usare per borse di studio da assegnare a studenti meritevoli e cinque milioni al Waverly College, dove aveva ricevuto un dottorato ad honorem e aveva già intestato la biblioteca a se stesso e Betsy. Al Waverly aveva studiato Alison Schaefer. Josh ricordava che era stata la migliore delle quattro, come studentessa, e di aver spesso annunciato di voler proseguire con una specializzazione in medicina. Però poi aveva sposato Rod Kimball quattro mesi dopo il Gala. Josh si era sempre chiesto perché quella sera non si fosse fatta accompagnare da Rod. Chissà, forse avevano litigato. Mentre un meccanico andava a informarlo che l’auto era pronta, Josh concluse il corso delle sue riflessioni. Il signor Rob doveva essere molto malato se si era preso la briga di formalizzare le sue volontà riguardo al suo patrimonio. Ma mentre montava in macchina e ripartiva verso la villa, non poté fare a meno di pensare che se il signor Rob aveva deciso di acconsentire all’allestimento di quel programma potevano esserci più ragioni di quante risultassero evidenti. 44 COSTRETTO in un letto d’ospedale, Leo Farley sentiva crescere in sé l’insofferenza con il passare di ogni minuto. Guardò sdegnato l’ago che gli avevano infilato nel braccio sinistro e il flacone che gli pendeva al di sopra della testa. Aveva un monitor cardiaco fissato al petto e quando aveva cercato di alzarsi, era arrivata subito di corsa un’infermiera. «Signor Farley!» lo aveva ammonito. «Non può andare in bagno da solo. Deve farsi accompagnare. Le è solo concesso di chiudere la porta.» Ma quanta generosità, pensò con sarcasmo. Poiché però non era giusto prendersela con il messaggero, la ringraziò e le permise suo malgrado di seguirlo fino alla porta della toilette. Alle nove del mattino, quando andò a vederlo il medico, Leo aveva fatto il pieno. «Senti», lo aggredì, «posso andare via da qui senza avvertire mia figlia. Mi ha visto ieri sera prima che venissi in ospedale, quindi so che non si aspetta di conferire con me prima del tardo pomeriggio di oggi. Ha ancora due giorni per finire il suo programma ed è sotto pressione perché per lei è fondamentale che abbia successo. Se le dico che sono in ospedale, si preoccuperà terribilmente e probabilmente finirà per correre qui invece di portare a termine lo show.» Il dottor James Morris, un vecchio amico, fu altrettanto energico. «Leo, tua figlia si preoccuperà molto di più se ti capitasse qualcosa. Chiamerò Laurie, che comunque sa che vai soggetto a queste tachicardie, e sarò più che convincente nello spiegarle che la tua aritmia si è ormai stabilizzata e che sarò in grado di dimetterti tranquillamente domattina. Cosa che posso fare prima che la chiami tu questa sera. Sarai molto più utile a lei e a tuo nipote se resterai vivo e in salute che se te ne andassi in giro rischiando un attacco cardiaco fatale.» Suonò il suo cercapersone. «Scusami Leo, ma devo andare.» «Tranquillo. Finiremo più tardi.» Appena il dottor Morris se ne fu andato, Leo chiamò Camp Mountainside al cellulare. Si fece passare l’amministrazione, e da lì il capo dei sorveglianti, che aveva già conosciuto di persona. «Sono il nonno rompiscatole», esordì. «Volevo sapere come se la sta cavando Timmy. Ha gli incubi?» «No», rispose il sorvegliante. «A colazione ho chiesto com’era andata e il suo capocamerata ha detto che ha dormito per nove ore filate senza mai muoversi.» «Questa è veramente una bella notizia», commentò Leo rinfrancato. «Non deve stare in pensiero, signor Farley. È in ottime mani. Come sta lei, piuttosto?» «Potrei stare meglio», brontolò Leo. «Sono al Mount Sinai Hospital per un attacco di fibrillazione cardiaca. E non sto mai bene quando non sono in grado di vegliare su Timmy in ogni minuto del giorno.» Leo non poteva sapere che in quel momento il suo interlocutore stava pensando che, considerata la tensione in cui era vissuto in quegli ultimi cinque anni, non c’era da meravigliarsi se il suo cuore ogni tanto impazziva. Udì invece e con gratitudine le sue rassicurazioni: «Si riguardi, signor Farley. Noi avremo cura di suo nipote, promesso». Due ore dopo, quando ascoltò la registrazione, Occhi Blu si felicitò con se stesso. Mi ha offerto un ponte d’oro, pensò. Adesso non dubiteranno mai di me. 45 NEI ventinove anni trascorsi al servizio di Powell, Jane Novak aveva sempre indossato la stessa divisa nera con il grembiule bianco. Anche i capelli erano acconciati sempre alla stessa maniera: pettinati all’indietro e raccolti in una crocchia ordinata. L’unica differenza era che ora erano striati di grigio. Jane non aveva mai usato maquillage e subì con sdegno l’aggressione di Meg Miller che voleva applicarle un velo di fard e un po’ di eyeliner agli occhi. «Signora Novak, è solo perché i riflettori la faranno apparire troppo bianca e lucida», le spiegò Meg. Ma Jane non volle saperne. «So di avere una bella pelle», dichiarò, «ed è proprio perché non ho mai usato quella robaccia.» «Naturalmente, certo, come vuole lei», rispose Meg, mentre pensava senza aggiungerlo che effettivamente la carnagione di Jane era invidiabile. E lo era in generale tutto il suo viso: non fosse stato per la piega all’ingiù agli angoli della bocca e l’espressione quasi accigliata, Jane Novak sarebbe stata una donna molto attraente. Toccò quindi a Claire accettare solo il minimo di trucco assolutamente indispensabile. «Io non lo metto mai», si schermì. «Sarebbe sprecato», aggiunse poi con amarezza. «Tanto nessuno mi guarda. Le attenzioni erano tutte per mia madre.» Regina era così nervosa che Meg poté solo applicarle un correttore sulla fronte per nascondere le goccioline di sudore. Alison, molto silenziosa si sottopose al trucco senza fiatare. «Solo quel minimo per spegnere il riflesso delle luci», le disse Meg e ricevette in cambio un’alzata di spalle. «Io sono un’attrice», dichiarò Nina Craig. «So cosa succede con le luci. Faccia del suo meglio.» Poco poté fare Courtney, la parrucchiera, salvo avvicinarsi il più possibile all’acconciatura che avevano le quattro donne nella foto vecchia di vent’anni. In attesa dell’arrivo delle sue star, Laurie, Jerry e Grace si occupavano degli ultimi ritocchi all’ambientazione nello studio di Powell. In un angolo, fuori della portata delle telecamere, era stato collocato un cavalletto con un ingrandimento della foto delle quattro neolaureate e Jane scattata vent’anni prima dal fotografo della polizia. Sarebbe servito come riferimento nel piazzare le intervistate. Il cameraman, il suo assistente e il tecnico delle luci avevano già preparato le loro postazioni. Tre delle ragazze erano sedute sul grande divano e davano l’impressione di confortarsi stringendosi l’una all’altra. Ai lati del tavolino davanti al divano c’erano due poltrone. Una di esse era occupata da Jane Novak, la faccia sconvolta, gli occhi luccicanti di lacrime non versate. Di fronte a lei sedeva Claire Bonner con un’espressione contemplativa, ma senza dare segni visibili di cordoglio. Alex Buckley sedeva nella poltrona di pelle accanto alla porta che Powell usava spesso dopo cena e da lì osservava con interesse i preparativi in corso. «È una poltrona reclinabile», aveva spiegato Jane a Laurie. «Al signor Powell piace abbassare lo schienale in maniera da alzare i piedi. Il dottore gli ha detto che fa bene alla circolazione.» È una gran bella stanza, giudicò Alex con ammirazione. Rivestimenti con pannelli di mogano alle pareti a fare da contorno ai vivaci disegni del tappeto persiano. Il televisore a parete era inserito al centro della libreria, sopra il caminetto. Oltre all’angolo con il divano e le poltrone dove si trovavano ora le protagoniste dello show e Jane Novak, c’era una seconda zona conversazione più circoscritta con una poltrona di pelle e un altro divano. A destra del divano dove sedevano le donne, c’era la porta a vetri scorrevole che dava nel patio e che secondo Jane era quella dalla quale erano uscite e rientrate le ragazze quando la notte del Gala si erano ritrovate a fumare una sigaretta insieme. La porta che poi si erano dimenticate di bloccare. Secondo il referto della polizia, la mattina seguente i posacenere sul tavolo del patio erano pieni zeppi. Jane aveva riferito che nel contenitore per la raccolta dei vetri c’erano almeno tre bottiglie da vino vuote e lasciate lì dopo che lei e il personale del catering avevano portato via tutto, finita la festa. Alex ascoltò Laurie che spiegava alle protagoniste come si sarebbe svolta la seduta fotografica. «Come sapete, vogliamo che questa ripresa faccia da introduzione, con voi che indossate praticamente gli stessi vestiti di quella mattina e occupate gli stessi posti di allora. Poi Alex Buckley vi intervisterà separatamente nei posti in cui siete adesso chiedendovi di raccontare che cosa pensavate e che emozioni provavate. Parlavate tra di voi? Dalla vecchia foto sembra di no.» Fu Nina a rispondere per tutte. «Non abbiamo praticamente detto una sola parola», rispose. «Eravamo tutte troppo scioccate.» «Posso ben capirlo», annuì Laurie. «Dunque dovete semplicemente mettervi dov’eravate e cominceremo a fotografare. Non guardate l’obiettivo. Guardate la foto sul cavalletto e cercate di assumere la stessa posizione.» Dalla sua postazione vantaggiosa dietro una delle telecamere, Alex Buckley sentì crescere la tensione, la stessa che provava anche lui in un’aula di giustizia quando veniva chiamato alla sbarra un testimone importante. Sapeva che Laurie Moran stava cercando di creare il massimo impatto drammatico inserendo nel video entrambe le foto, ma sapeva anche che il suo scopo finale era di stabilizzare le quattro donne e Jane spingendo una o l’altra a fare qualche dichiarazione che fosse in contraddizione con quanto risultava agli atti dell’inchiesta. Alex vide entrare silenziosamente Meg, la truccatrice, e fermarsi in disparte armata della sua valigetta di cosmetici. Sapeva che si teneva pronta a intervenire nel caso che la faccia di qualcuno fosse risultata troppo lucida. Osservò piacevolmente meravigliato come le quattro donne apparissero ancora giovanili e fossero riuscite a mantenere una bella linea e pensò che Nina, che non dimostrava nemmeno trent’anni, dovesse aver lavorato sodo per ottenere quel risultato. Sconcertante il fenomeno di Claire Bonner, che solo ieri era apparsa irresistibile e terribilmente somigliante alla madre, e adesso, al confronto, era così terribilmente scialba. A che razza di gioco stava giocando? «Bene, possiamo cominciare», annunciò Laurie. «Grace, quel cuscino dietro Nina è un po’ troppo a destra.» Grace lo spostò. Laurie guardò di nuovo nel mirino della fotocamera e fece finalmente un cenno al fotografo, che si mise al lavoro, gli scatti si susseguirono a ripetizione con sporadici interventi di Laurie. «Alison, cerca di non girarti verso sinistra. Nina, tirati indietro come sei seduta nella foto originale, se no sembra che ti stia mettendo in posa. Jane, tu gira un pochino la testa di qui.» Dopo trentacinque minuti di fotografie, Laurie si ritenne soddisfatta del materiale raccolto. «Grazie di cuore a tutti quanti», disse in tono gioviale. «Ci prendiamo una piccola pausa, poi Alex comincerà le interviste. Claire, tu sarai la prima. Torneremo nello studio e voi due vi siederete uno davanti all’altro nelle poltrone che state occupando adesso tu e Jane. Gli altri avranno un po’ di tempo da riempire. Nello spogliatoio ci sono quotidiani e riviste, ma è una bellissima giornata e immagino che avrete voglia di stare nel patio, no?» L’una dopo l’altra si alzarono tutte in piedi. Jane fu la prima a dirigersi alla porta. «Metto fuori gli snack e vi avverto quando è tutto pronto», annunciò. «Potete consumarli fuori o nella saletta della prima colazione. Si pranza all’una e mezzo.» 46 IL capo della polizia locale Ed Penn non si era reso conto di quanto lo avesse influenzato la viva preoccupazione di Leo per la sicurezza della figlia durante le riprese di Under Suspicion. L’aver fatto piazzare un’auto di pattuglia dietro la casa non gli bastava e alla fine decise di andare a fare un sopralluogo di persona. Confessò a se stesso di essere più che curioso di vedere che aspetto avessero vent’anni dopo le neolaureate del Graduation Gala. Erano le dieci circa quando, dopo aver controllato l’appostamento dell’auto di pattuglia, Penn decise di entrare nella proprietà e conoscere Laurie Moran. Naturalmente non le avrebbe detto niente delle ansie di suo padre, ma d’altra parte Laurie era già abbastanza occupata con le sei persone che si trovavano in casa la notte in cui Betsy Powell era stata assassinata. E Penn era convinto che l’assassino fosse uno di loro. Robert Powell aveva avuto un collasso e lo avevano trovato con le mani gravemente ustionate dal caffè ancora bollente che stava portando alla moglie. Ciononostante avrebbe potuto benissimo ucciderla calcolando che qualche bruciatura alle mani fosse un prezzo modesto da pagare per sembrare innocente. Penn sapeva bene che il padre di Regina si era tolto la vita per via di un investimento fallimentare nelle attività finanziarie di Powell. Era comprensibile che la figlia avesse sviluppato odio per l’uomo che era stato la causa indiretta della morte del genitore. E Penn era sicuro che quando aveva sostenuto che non c’era nessun messaggio suicida Regina avesse mentito. Aveva solo quindici anni, ma aveva retto a un interrogatorio particolarmente pesante con uno stoicismo che era indice di un’ostinazione da donna adulta. Claire Bonner era un enigma. Era stato lo choc a renderla così impassibile dopo la morte della madre? Penn era stato al funerale. Aveva visto Robert Powell con la faccia inondata di lacrime, ma aveva visto anche Claire calma, quasi distaccata, padrona di sé, come si suol dire. Di Nina Craig sapeva poco, solo che sua madre la rimproverava in continuazione per aver presentato Betsy Bonner a Robert Powell. Alison Schaefer era quella che sembrava avere meno motivi di rancore verso Betsy. Si era sposata quattro mesi dopo la morte della Bonner e all’epoca Rod era ancora un astro nascente nel mondo del football americano. Davanti all’ingresso si rallegrò di vedere che non c’erano fotografi in agguato. La guardia lasciò passare la sua automobile e l’autista, un poliziotto entrato in servizio da poco, si fermò dietro i pulmini. «Ci metto poco», lo informò Penn incamminandosi verso il patio dove aveva visto un gruppo di persone riunite a fare colazione. Laurie gli andò incontro e lo accompagnò dagli altri. Quando fu più vicino, Penn riconobbe immediatamente le quattro ex neolaureate. Erano sedute allo stesso tavolo con il marito di Alison e tutte alzarono gli occhi su di lui quando lo videro arrivare, in un primo momento sorprese, poi diffidenti. Regina però fu la sola a sussultare quasi che avesse ricevuto uno schiaffo. Fu a lei che si rivolse per prima. «Regina, non so se si ricorda di me», esordì. «Sì, certo che mi ricordo», rispose lei. «Come va?» proseguì imperterrito Penn. «Mi ha addolorato venire a sapere della morte di sua madre quando si era appena trasferita in Florida.» Regina fu sul punto di rispondere che sua madre era stata stroncata dal crepacuore perché non si era mai fatta una ragione della morte di suo marito, ma si trattenne temendo di dare al poliziotto uno spunto per riaprire la questione del messaggio suicida. O Penn è qui adesso perché ne è già in possesso? si chiese. Sperando che non le tremasse la mano, Regina prese il suo bicchiere di tè freddo e cominciò a bere mentre il capo della polizia salutava le sue amiche. Finito con loro, Penn si dedicò al tavolo al quale sedevano Laurie, Alex Buckley, Muriel Craig, Jerry e Grace. «Tra pochi minuti Alex intervisterà Regina su quel che ricorda di quella notte e del mattino seguente», spiegò Laurie. «Domani sera, dopo il tramonto, riprenderemo le laureate in abito da sera mentre sullo sfondo faremo scorrere i video girati la sera della festa. Se desidera venire ad assistere, sarà un piacere.» Fu in quel momento che nel patio apparve Robert Powell. «Ho dovuto dedicare un po’ di ore al lavoro», si giustificò. «Quando si dirige un fondo d’investimento non si possono staccare gli occhi dall’andamento del mercato neppure per un minuto. Come va, Ed? È qui per proteggerci l’uno dall’altro?» «Non credo che sia necessario, signor Powell.» Powell sorrideva e si comportava con apparente naturalezza, ma Penn scorse i segni della fatica sotto i suoi occhi e notò la pesantezza dei suoi movimenti quando si sedette al tavolo e rifiutò con un cenno della testa il sandwich che Laurie gli offriva dal piatto portato da Jane. Muriel, che non aveva mai smesso di lamentarsi di non aver niente da fare, si rianimò all’istante. «Rob, caro», squittì, «hai lavorato abbastanza per oggi. Perché tu e io non facciamo un salto al club per due colpi di golf? Me la cavavo piuttosto bene, sai? Affitterò i bastoni al club e, giusto in caso fossi riuscita a convincerti, ho pensato bene di portarmi dietro un paio di scarpe da golf.» Laurie si aspettava un secco rifiuto, ma Powell la sorprese sorridendo. «Questa è l’idea migliore che ho sentito in tutta la mattinata», dichiarò. «Ma purtroppo devo rimandare l’invito a un momento migliore. Ho ancora troppo da fare in ufficio.» Fece una pausa, poi girò lo sguardo su Laurie. «Suppongo che lei non abbia niente per me oggi, giusto?» «Giusto, signor Powell. Alex intervisterà le ragazze, una alla volta. E per finire anche Jane, se avremo ancora tempo.» «Quanto ci vorrà per le interviste?» volle sapere Powell. «Suppongo che siamo nell’ordine dei dieci minuti ciascuna.» «Sarà più o meno da quelle parti», confermò Laurie. «Ma Alex vuole parlare con ciascuna di loro per almeno un’ora. Non è così, Alex?» «Sì, infatti.» «Signor Rob», intervenne Jane, «sicuro di non voler mangiare qualcosa? Non ha nemmeno fatto colazione.» «Jane è encomiabile nel modo in cui si prende cura di me», dichiarò Powell ai presenti. «Certe volte, anzi, è quasi come una chioccia.» Non esattamente un complimento, pensò Laurie. Vide che era della stessa idea anche Jane, a giudicare da come arrossì. «Confidenza toglie riverenza», sbottò Muriel lanciando un’occhiata a Jane mentre Robert Powell si alzava e rientrava in casa. Senza una parola, Jane si girò e andò all’altro tavolo, quello dove sedevano le donne con Rod. Tutte rifiutarono altro caffè e a quel punto Laurie si alzò. «Se non lo sapevate già, immagino che ormai ve ne siate rese conto. Nel nostro mestiere la maggior parte del tempo la si passa ad aspettare. Alex comincerà con Claire. Quando avrà finito, Claire potrà tornare in albergo e lo stesso vale per tutte le altre. Calcolate un’oretta ciascuna.» Si alzò anche Penn. «Se qualche curioso dovesse diventare troppo insistente o altri vi dovessero dare delle noie mentre girate», esortò Laurie, «mi faccia subito un fischio.» Le porse il suo biglietto da visita. «Qui comincia a far caldo», disse Rod ad Alison. «Immagino che non siamo stati invitati a occupare il soggiorno», aggiunse con sarcasmo, «e lo studio serve per le riprese. Ma forse possiamo andare nella saletta della prima colazione. Le sedie che ci sono lì sono sicuramente comode.» «Claire», le si rivolse Laurie, «guardi che dovrebbe veramente mettersi un po’ più di trucco. Con le ciglia e le sopracciglia così chiare risulterà smorta nel video. Bisogna che si faccia ravvivare un tantino il colorito.» Allungò lo sguardo in direzione del pulmino del trucco. «La stanno aspettando», aggiunse. Poi, con un breve cenno del capo, andò verso la casa e aprì la portafinestra che dava nello studio. Penn indirizzò un gesto al suo autista e s’incamminò verso la macchina. Notò solo di sfuggita Bruno, che perlustrava meticolosamente il giardino in cerca di pezzi di carta o zolle scomposte. Ne vide solo il profilo e soltanto per un attimo, ma mentre saliva in macchina avvertì una confusa sensazione di disagio salirgli dall’inconscio. Una vocina gli diceva: Io dovrei conoscere quel tizio, ma perché? Mentre seguiva Laurie nello studio, lo stesso identico pensiero affiorò alla mente di Alex Buckley: Dovrei conoscere quel tizio, ma perché? Alex esitò, poi estrasse di tasca il cellulare e scattò una foto. Prese nota mentalmente di farsi dire come si chiamava dalla ditta per cui lavorava e di inoltrare il nome al suo investigatore. Per la prima volta le quattro donne rimasero sole e Josh, che aveva aiutato Jane a servire il caffè, vide presentarsi la sua occasione. «Ho un regalo per tre di voi», annunciò. «Eccetto Claire.» La guardò. «Ho cercato di parlarle in macchina, ma lei non ha voluto darmi retta.» Si girò verso le altre. «Qui c’è un nastro che credo che tutte voi troverete molto interessante, in particolare lei, Regina. Non è che per caso le sia venuto a mancare qualcosa che fortuitamente io ho trovato?» Consegnò buste personali a Regina, Alison e Nina. «Nel cassetto del tavolo da toletta del bagno per signore vicino alla cucina c’è un registratore», le informò. «Perché non scambiamo due chiacchiere dopo che tutte e tre avrete ascoltato i nastri?» Poi raccolse sul vassoio le tazze che erano state usate per il caffè. «Ci vediamo più tardi», concluse in un tono fiducioso nel quale lasciò vibrare una lieve eco di minaccia. 47 SICCOME l’ufficio si trovava di fianco allo studio, dove si stava svolgendo il grosso delle attività relative al programma, Robert Powell decise di salire nella suite che aveva condiviso con Betsy nei nove anni del loro matrimonio. Jane lo seguì con dell’altro caffè fresco in ottemperanza a una richiesta ricevuta in malo modo. Poi, preso atto del suo cattivo umore, chiuse la porta tra camera da letto e salotto per poter rigovernare in fretta e in silenzio. Rinunciò a passare l’aspirapolvere perché sapeva che il rumore lo avrebbe irritato. Appena finito, tornò di sotto. Robert si stava chiedendo ancora una volta se invitando le ragazze, o per meglio dire le donne, si corresse con una punta di malignità, a inscenare quello che era avvenuto vent’anni prima non fosse stato un terribile errore. Era stata forse la prognosi del suo medico a spingerlo a prendere quella decisione? O era stato un desiderio perverso di rivederle, di manipolarle come Betsy le aveva manipolate tanti anni prima? Aveva assorbito la personalità di Betsy al punto da aver perso ogni connotazione della propria anche se erano passati vent’anni? Ciascuna di loro aveva avuto un buon motivo per uccidere Betsy, lo sapeva. Interessante sarebbe stato vedere se una di loro avrebbe ceduto alle domande di Alex Buckley. Era sicuro che Buckley fosse in grado di accorgersi di risposte preconfezionate. C’era da aspettarsi che tutte e quattro avessero preparato con cura che cosa dire nei loro colloqui separati con Buckley. Era altresì sicuro che avrebbero cominciato tutte con le prime impressioni avute di ciò che avevano visto quando erano arrivate di corsa nella stanza di Betsy dopo averlo sentito gridare. Era come se fosse solo ieri quando era entrato in quella camera con il caffè che Betsy pretendeva fosse bollente «perché diffonda l’aroma dei chicchi». Robert Powell si guardò le brutte cicatrici che aveva sulle mani e che si era procurato quando, varcando la soglia della stanza di Betsy, aveva visto il cuscino che le copriva la faccia. Da sotto si allungavano a raggiera i suoi lunghi capelli biondi e le sue mani erano ancora aggrappate agli orli. Era evidente la lotta che aveva ingaggiato per liberarsi. Ricordò di aver urlato il suo nome e di aver cercato invano di non rovesciare il caffè prima che gli avessero ceduto le ginocchia. Ricordava Jane che si chinava su di lui in un goffo tentativo di rianimarlo, mentre le ragazze circondavano il letto come fantasmi. Poi più niente, fino a quando si era svegliato in ospedale, cosciente solo del dolore alle mani, invocando ancora il nome di Betsy. Sospirò. Era ora di tornare giù, aveva ancora alcune telefonate importanti da fare. Ma esitò ancora un momento riflettendo su cosa avrebbe potuto raccontare Claire a Buckley. Si accorse che quello che gli era sembrato divertente non lo era più. Adesso la sola cosa che desiderava era che quelle donne se ne andassero da casa sua e gli consentissero di riprendere quel poco tempo che ancora gli restava della sua vita piacevole e solitaria. 48 ALEX sedeva di fronte a Claire Bonner al tavolo dello studio. Ancora una volta Claire aveva impedito a Meg Miller di ritoccarle ciglia e sopracciglia. Ora, guardandola, Alex trovava impossibile vedere in lei qualcosa della donna affascinante che aveva visto entrare in quella casa solo il giorno prima. Ma non gli era difficile capire che cosa ci fosse di diverso. Le lunghe ciglia e le sopracciglia ben disegnate di Claire erano estremamente chiare, come del resto la sua carnagione. Non portava rossetto ed era presumibile che avesse usato qualche espediente per spegnere i naturali riflessi dorati dei capelli. Ma scoprirò qual è il suo gioco, pensò e le rivolse un sorriso d’incoraggiamento mentre, dietro i tecnici, Laurie comandava: «Azione», e si accendeva la spia rossa della telecamera. «Mi trovo qui nell’abitazione del finanziere Robert Nicholas Powell», cominciò, «la cui bella moglie, Betsy Bonner Powell, fu assassinata vent’anni fa alla fine di un Graduation Gala organizzato in onore di Claire, la figlia di Betsy, e delle sue tre più care amiche neolaureate come lei. Claire Bonner è con me in questo momento. Claire, so che trovarvi qui oggi dev’essere straordinariamente difficile per tutte voi. Ma, mi dica, perché lei ha accettato di partecipare al programma?» «Perché per questi ultimi vent’anni», dichiarò con slancio Claire, «io e le altre ragazze e, in minor misura il mio patrigno e la governante, non abbiamo mai smesso di essere sospettate della morte di Betsy, o di essere, come usa dire oggi, ‘persone informate dei fatti’. Ha idea di che cosa significhi entrare in un supermercato e vedere la propria foto sulla copertina di qualche rivista dozzinale con scritto in grande: ‘ERA GELOSA DELLA SUA BELLA MADRE’?» «No, non credo», rispose sottovoce Alex. «O magari c’è la foto di tutte e quattro schierate, come se fossimo alla polizia e ci stessero scattando foto segnaletiche. Ecco perché siamo qui oggi, perché vogliamo che la gente si renda conto di quanto ingiustamente noi quattro giovani donne, traumatizzate in maniera indicibile e psicologicamente brutalizzate dalla polizia, siamo state trattate. È per questo che sono qui ora io, signor Buckley.» «E presumo che sia la stessa ragione per cui sono qui anche le sue amiche», aggiunse Alex Buckley. «Avrete avuto molto da raccontarvi l’una con l’altra, non è vero?» «Per la verità non abbiamo avuto molto tempo per questo», lo contraddisse Claire. «So che è perché non volevate che ci accordassimo sulle nostre dichiarazioni. E a questo proposito desidero chiarirle fin da subito che non c’è stato niente da confrontare o verificare tra di noi come potrete scoprire voi stessi. Le nostre versioni restano quelle di sempre per il semplice fatto che eravamo tutte insieme al momento in cui è successo tutto.» «Claire, prima di parlare della morte di sua madre, vorrei tornare un po’ indietro nel tempo. Perché non cominciamo da quando sua madre conobbe Robert Powell? Se non sbaglio vivevate a Salem Ridge da poco tempo. È così?» «Sì, è così. Io avevo finito le medie in giugno e mia madre voleva trasferirsi a vivere nella contea di Westchester. Posso confessare con franchezza che sapevo del suo desiderio di conoscere un uomo ricco. Aveva trovato da affittare in una villetta bifamigliare e le posso assicurare che non ci sono molte villette bifamigliari a Salem Ridge. «In settembre ho cominciato il liceo ed è stato allora che ho stretto amicizia con Nina, Alison e Regina. Io compio gli anni in ottobre e quell’anno mia madre ha voluto fare una follia e mi ha portato al La Boehm di Bedford. C’erano anche Nina Craig con sua madre. Nina ci ha visto e ci ha chiesto di andare al loro tavolo a conoscere sua madre. Naturalmente così facendo abbiamo conosciuto anche Robert Powell, che era con loro. Io credo che sia stato amore a prima vista per entrambi, dico tra mia madre e Robert. So che la madre di Nina non ha mai digerito che ‘Betsy mi abbia rubato Rob quando stavamo per fidanzarci’, per usare le sue parole.» «Suo padre abbandonò lei e la madre quando lei era ancora molto piccola. Come ha potuto sua madre occuparsi di lei pur lavorando a tempo pieno?» «Nei miei primi tre anni di vita c’era ancora la nonna», rispose Claire e subito, a quel ricordo, le si inumidirono gli occhi. «Poi ci sono state alcune babysitter, una via l’altra. Se per qualche motivo quella di turno non poteva venire, la mamma mi portava al teatro e io dormivo in una poltrona vuota o certe volte in un camerino libero se il cast non era molto numeroso. In un modo o nell’altro ce la siamo cavata. Ma poi la mamma ha conosciuto Robert Powell e naturalmente è cambiato tutto.» «Lei e sua madre eravate molto affezionate l’una all’altra, vero? Ha mai provato gelosia nei suoi confronti per il fatto che Robert Powell fosse entrato così all’improvviso nella vostra vita e le avesse sottratto gran parte del tempo e delle attenzioni che le dedicava sua madre?» «Io volevo che fosse felice. Lui era un uomo molto ricco. Dopo che eravamo vissute sempre in modesti appartamentini, trasferirci in questa splendida villa per noi fu quasi come salire in paradiso.» «Quasi come un paradiso?» s’affrettò a chiedere Alex. «In tutto e per tutto come un paradiso», si corresse Claire. «Dunque quello per lei fu un anno molto speciale, Claire, con un primo cambio di residenza, l’inizio del liceo, il matrimonio di sua madre e il trasferimento in questa casa.» «Uno stravolgimento», ammise Claire con un abbozzo di sorriso. Se solo sapessi, pensò intanto. Se solo sapessi! «Claire, che rapporti aveva stabilito con Robert Powell?» Claire lo guardò dritto negli occhi. «Rapporti di stretta vicinanza fin dal principio», dichiarò lei. Oh, stretta vicinanza davvero, pensò, ricordando come tendeva l’orecchio aspettando di sentir aprirsi la porta della sua stanza. Alex Buckley sapeva che dietro le sue risposte pacate Claire stava cercando di tenere nascosti i tizzoni ancora infuocati di una collera tumultuosa. Non era tutto rose e fiori in questa casa, pensò mentre decideva di cambiare regime. «Claire, parliamo un po’ del Gala. Che tipo di serata è stata? Quanta gente c’era? Naturalmente abbiamo queste informazioni nella loro forma ufficiale, ma mi piacerebbe sentire la sua impressione personale.» Come aveva previsto, Claire cominciò a rispondere con una serie di frasi appositamente studiate. «È stata una serata perfetta», replicò. «Tanto per cominciare il clima era assolutamente delizioso, sui venticinque gradi se ricordo bene. C’era una band a suonare nel patio e uno spazio per ballare. C’erano postazioni dappertutto dove servirsi di ogni genere di manicaretti. Vicino alla piscina c’era un tavolo con delle splendide decorazioni. Come centrotavola c’era una grande torta rettangolare con sopra tutti i nostri nomi e gli stemmi dei nostri rispettivi quattro college nei loro colori originali.» «Lei aveva scelto di restare a casa mentre frequentava il Vassar, non è vero, Claire?» Di nuovo Alex scorse negli occhi di Claire un’espressione che non riuscì a decifrare. Che cosa c’era dietro? Rabbia, delusione, l’una e l’altra? Decise di seguire un’intuizione. «Claire, provò dispiacere per non essersi trasferita a vivere al campus come le sue amiche?» «Il Vassar è uno splendido college. Può darsi che mi sia persa qualcosa dell’esperienza del campus tornando a casa tutti i giorni, ma tra me e mia madre c’era un legame molto stretto ed ero felice di non separarmi da lei.» Il sorriso di Claire sembrò più un sogghigno, ma si riprese subito. «Alla festa ci siamo divertite un mondo», continuò. «Poi, come sa, le mie amiche sono rimaste per la notte. Quando se ne sono andati tutti gli invitati, ci siamo messe in pigiama e siamo scese nello studio in vestaglia a bere del vino. Molto vino. E a spettegolare sulla festa, come si fa tra ragazze.» «E nello studio c’erano anche sua madre e il signor Powell?» «Rob ci augurò la buonanotte subito dopo aver salutato gli ultimi ospiti. Mia madre rimase con noi per qualche minuto, ma poi disse di volersi rilassare. ‘Voglio mettermi comoda anch’io come voi’, annunciò. Salì in camera e tornò giù in camicia da notte e vestaglia.» «E si trattenne a lungo?» Per un momento sulle labbra e negli occhi di Claire apparve un sorriso vero. «Mia madre non era una che beveva molto, non mi fraintenda, ma di sicuro non le dispiaceva farsi un paio di bicchieri di vino dopo cena. Quella sera ne bevve forse tre prima di salire in camera sua. Augurandoci la buonanotte ci abbracciò e baciò tutte e quattro, motivo per il quale tutte noi l’indomani mattina avevamo alcuni suoi capelli e quindi il suo DNA su pigiama e vestaglie.» «Le altre ragazze volevano molto bene a sua madre, giusto?» «Credo che la ammirassero.» Alex sapeva che ciascuna di loro aveva una ragione per odiare Betsy Powell. Nina perché sua madre la torturava per averle presentato Robert. Regina perché suo padre aveva perso tutti i soldi investendoli nel fondo di Robert Powell. Alison perché Betsy Bonner le aveva sottratto la borsa di studio che le spettava per servirsene per obiettivi personali. Robert Powell aveva donato una grossa somma di denaro al college di Alison. Quella donazione non era stata dimenticata quando la borsa di studio era stata assegnata alla figlia della donna che presiedeva un circolo, per entrare nel quale Betsy era disposta a fare carte false. «Dopo che sua madre vi augurò la buonanotte, ebbe occasione di rivederla?» «Mi sta chiedendo se l’ho rivista viva?» ribatté Claire, ma poi non attese la sua risposta. «L’ultimo ricordo che ho di mia madre viva», disse, «è del momento in cui si girò e mandò un bacio a tutte noi. È naturalmente un ricordo molto vivo. Era una donna straordinariamente bella. Indossava sempre camicia da notte e vestaglia coordinate. Quella sera erano di raso celeste con rifiniture di pizzo color avorio. Aveva i capelli sciolti sulle spalle e sembrava estremamente felice del grande successo che aveva avuto il ricevimento. Quando l’ho rivista è stato dopo che o Rob o Jane le avevano tolto il cuscino dalla faccia. Aveva gli occhi sbarrati e fissi nel vuoto. Una mano che stringeva ancora l’orlo del cuscino. So che doveva aver dormito profondamente per via di tutto il vino che aveva bevuto, ma ho sempre avuto l’impressione che avesse lottato con tutte le forze.» Alex notò che mentre parlava, la voce di Claire era via via cambiata, il suo tono si era fatto sempre più neutrale, meccanico. Stringeva le mani l’una nell’altra e il suo viso già pallido era diventato esangue. «Come ha saputo che era successo qualcosa di terribile?» domandò Alex. «Avevo sentito un urlo spaventoso provenire dalla stanza di mia madre. In seguito sono venuta a sapere che era stato Rob a gridare. Era salito a portare come al solito a mia madre il primo caffè del mattino. Credo che stessimo dormendo saporitamente tutte e quattro, dato che avevamo bevuto e chiacchierato fino alle tre di notte. Siamo arrivate in camera di mia madre più o meno tutte assieme. Jane doveva aver sentito gridare Robert e ci aveva precedute. Era in ginocchio accanto a Robert, che era stramazzato a terra e si dibatteva in preda al dolore. Credo che si fosse lanciato sul letto per strappare il cuscino dalla faccia di mia madre e che si fosse versato il caffè bollente sulle mani. Il cuscino era di fianco alla testa di mia madre ed era macchiato di caffè.» Alex vide la sua espressione diventare improvvisamente gelida. Il contrasto con quella che aveva assunto quando aveva parlato della nonna era impressionante. «Poi cosa accadde, Claire?» «Credo che a telefonare alla polizia sia stata Alison. Ha strillato qualcosa come: ‘Abbiamo bisogno di un’ambulanza e della polizia! Betsy Bonner Powell è morta! Credo che sia stata assassinata!’» «Che cosa avete fatto mentre aspettavate?» «Credo che non passarono più di tre minuti prima che arrivassero ambulanza e polizia. Poi fu il caos totale. Fummo letteralmente scacciate dalla stanza di mia madre. Ricordo che il capo della polizia ci ordinò di rientrare nelle nostre camere e di cambiarci. Ebbe la faccia tosta di dirci che aveva preso mentalmente nota di quello che avevamo addosso e guai a noi se avessimo cercato di sostituire quei pigiama con altri indumenti da notte. Solo più tardi abbiamo capito che quegli indumenti sarebbero stati analizzati in cerca di tracce di DNA che avrebbero potuto incriminare una di noi.» «Dunque avete indossato i jeans e le T-shirt simili a quelle che avevate quando vi hanno fotografato questa mattina...» «Sì. Dopo che ci siamo cambiate ci hanno accompagnato da basso, qui nello studio, dove ci hanno detto di aspettare che ci chiamassero per essere interrogate. Non ci hanno neppure permesso di andare in cucina per un caffè.» «Lei è ancora molto arrabbiata per tutto quello che accadde, non è vero, Claire?» «Sì, lo sono eccome», rispose lei con la voce vibrante di sdegno. «Ma ci pensi. Avevamo poco più di vent’anni. A guardare indietro mi rendo conto che per quanto ci sentissimo tutte cresciute solo per esserci appena laureate, in realtà eravamo soltanto bambine terrorizzate. Gli interrogatori a cui ci sottoposero per tutta quella giornata e nelle settimane seguenti furono una versione farsa della giustizia. Ci richiamarono non so più quante volte alla stazione della polizia ed è proprio per questo che sui giornali cominciarono a definirci ‘indiziate’.» «Lei chi pensa che sia stato a uccidere sua madre, Claire?» «C’erano trecento persone alla festa. Ce ne sono alcune che non siamo state capaci di riconoscere dalle foto e i video che abbiamo raccolto. La gente continuava a entrare e uscire dalla casa per usare i bagni. Jane aveva appeso un cordone ai piedi delle scale, ma chiunque avrebbe potuto passarci sotto. Quella sera mia madre portava la parure di smeraldi. E chiunque avrebbe potuto riconoscere qual era la sua stanza ed essersi nascosto in una delle cabine armadio. Io credo che qualcuno abbia atteso fino a quando ha creduto che stesse dormendo abbastanza profondamente e sia uscito per prendere gli smeraldi che aveva lasciato sul tavolino. Poi può darsi, chissà, che mia madre si sia mossa nel sonno e che il ladro si sia spaventato e abbia cercato di rimettere a posto gli smeraldi. Un orecchino è stato trovato per terra. Io credo che mia madre si sia svegliata e che la persona che si trovava nella stanza abbia cercato di impedirle di chiamare aiuto nell’unico modo che aveva a disposizione.» «E dunque secondo lei quella persona è l’assassino di sua madre?» «Sì. E non dimentichi che avevamo lasciato aperta la portafinestra del patio. Eravamo fumatrici tutte e quattro e il mio patrigno proibiva nella maniera più rigorosa che si fumasse in casa.» «È per questo che è così risentita per il modo in cui gli organi di informazione hanno riferito della morte di sua madre?» «Come potrei non esserlo?» ribatté Claire a denti stretti. «Il motivo per cui sono qui adesso è appunto per dirle che nessuno di noi, Rob, Jane, Nina, Regina e Alison, ripeto nessuno, ha avuto niente a che fare con la morte di mia madre. Né loro e nemmeno io.» La voce di Claire si fece improvvisamente stridula: «E nemmeno io!» «Grazie, Claire, per averci raccontato quello che ricorda del giorno terribile in cui perse la madre a cui era così profondamente affezionata.» Alex si allungò per stringerle la mano. Quella di Claire era madida di sudore. 49 IL martedì mattina George Curtis si destò com’era sua abitudine alle sei e mezzo e sfiorò dolcemente con le labbra la fronte di Isabelle, cercando di non svegliarla. Sentiva forte il bisogno di toccarla. Durante la notte si era svegliato sovente e ogni volta le aveva fatto scivolare il braccio dietro la schiena. Poi la memoria lo trafiggeva con una lama di rimorso: Anche Betsy indossava sempre camicie da notte di raso. Isabelle, era l’inevitabile pensiero che seguiva subito dopo, ho rischiato di perderti e c’è mancato così poco. Avevo quasi buttato via la vita felice che avevo vissuto con te e i nostri figli per quasi vent’anni. Quella nuova vita era cominciata la mattina del Gala, quando Isabelle gli aveva detto che era in attesa dei gemelli. All’incredibile annuncio aveva fatto seguito la richiesta di venticinque milioni di dollari da parte di Betsy in cambio del suo silenzio sulla loro relazione. Glieli avrei anche dati, rifletté George, ma sapevo che non sarebbero mai bastati a eliminare la minaccia che raccontasse tutto a Isabelle, quello era solo l’inizio. Questi erano i pensieri che ancora gli affollavano la mente mentre faceva la doccia, si vestiva e scendeva in cucina a preparare il caffè. Si portò il caffè in macchina, infilò il bicchiere nel supporto e partì alla volta dell’ufficio, il quartiere generale internazionale della Curtis Foods, che si trovava a una quindicina di chilometri da casa, a New Rochelle. Amava molto la sua ora e mezzo di solitudine di primo mattino in ufficio. Era il momento in cui si concentrava meglio nell’analisi dell’importante corrispondenza che gli giungeva dai suoi direttori di zona da ogni angolo del mondo. Ma quella mattina non riusciva a concentrarsi. Dopo aver letto con molta soddisfazione gli ottimi indici di profitto delle sue attività all’estero, la sua unica reazione fu di rammaricarsi per la scelta fatta tanti anni prima. Non avrebbe avuto la minima difficoltà a trovare la somma da versare a Betsy e a nascondere l’ammanco senza sollevare sospetti. Ma non potevo fidarmi di lei, continuò a ripetersi. Quando poco prima delle nove l’ufficio cominciò a riempirsi, salutò la sua fedele assistente Amy Hewes con la solita cordialità e cominciò subito a riguardare con lei alcune e-mail che meritavano una risposta tempestiva. Ma era troppo distratto per concentrarsi a lungo. Alle undici e mezzo telefonò a casa. «Qualche programma per l’ora di pranzo?» chiese a Isabelle. «Nessuno», rispose prontamente lei. «Mi ha chiamato Sharon per andare a giocare a golf con lei, ma oggi mi sento troppo pigra. Sono qui semidistesa nel patio. Louis sta preparando un gazpacho e un’insalata di pollo. Ti va bene?» «Perfetto. Arrivo.» Quando, passando davanti alla sua scrivania, annunciò a Amy che non sarebbe tornato nel pomeriggio, la sua segretaria ne fu sorpresa. «Non venirmi a dire che proprio tu, l’apprezzato oratore che sa sempre incantare il suo pubblico, è nervoso per l’intervista di oggi pomeriggio», lo stuzzicò lei. George cercò di sorridere. «Forse sì.» Il breve tragitto in macchina gli sembrò interminabile. Era così impaziente di vedere Isabelle che lasciò l’automobile nel viale d’accesso, salì di corsa i gradini dell’ingresso, spalancò la porta e percorse a passo spedito il lungo corridoio. Prima di aprire la portafinestra del patio si fermò a guardare fuori. Isabelle era su una delle sedie da giardino con i piedi su uno sgabello e un libro in mano. A sessant’anni appena compiuti, i suoi capelli erano ora un casco d’argento: da poco aveva scelto di tagliarli più corti con la frangia. Era uno stile che si addiceva alla perfezione a lineamenti classici affinati nell’arco di molte generazioni. I suoi antenati erano giunti in America sulla Mayflower. Si era tolta le scarpe e aveva incrociato le caviglie, con le belle gambe già abbronzate scoperte fin sopra le ginocchia. Per un lungo momento George Curtis contemplò la bella donna che era sua moglie da trentacinque anni. Si erano conosciuti a un ballo organizzato a Harvard dagli studenti dell’ultimo anno. Isabelle vi si era recata con alcune compagne del Wellesley College. Appena ho notato lei, non ho più visto nessuna delle altre ragazze, ricordò George. Però la prima volta che ho incontrato i suoi genitori, so che erano tutt’altro che contenti. Avrebbero preferito che la nostra famiglia avesse fatto i soldi a Wall Street, non vendendo hot dog e hamburger. Che cosa avrebbero pensato i suoi genitori se avessero saputo che me l’intendevo con la moglie del mio migliore amico? Di sicuro avrebbero esortato Isabelle a sbarazzarsi di me. E se lo avesse scoperto Isabelle, concluse, mi avrebbe mollato anche se era incinta dei gemelli. E lo farebbe anche ora, aggiunse mestamente tra sé George mentre usciva nel patio. Sentendo il fruscio della porta scorrevole, Isabelle alzò gli occhi e gli rivolse un sorriso affettuoso. «È perché c’ero anch’io sul menu che ti è venuta questa gran voglia di farmi compagnia a pranzo?» lo apostrofò mentre si alzava per baciarlo. «Intuito femminile», scherzò lui ricambiando il bacio e prendendola tra le braccia. Arrivò Louis, il cuoco di casa, con due bicchieri di tè freddo su un vassoio. «È un piacere averla a casa a pranzo, signor Curtis», lo salutò in tono gioviale. Erano ventidue anni che Louis cucinava per loro. Era chef in un ristorante della zona quando una sera si era presentato al tavolo al quale erano seduti a cenare. «Ho sentito dire che state cercando un nuovo cuoco», aveva detto a bassa voce. «Sì, lo chef che abbiamo ora va in pensione», aveva confermato George. «Io sarei molto felice se voleste mettermi alla prova», aveva ribattuto Louis. «Qui serviamo soprattutto piatti italiani, ma io mi sono diplomato al Culinary Institute a Hyde Park e sono in grado di offrirvi un’ampia selezione di menu.» E così è stato, pensò George, senza contare le pietanze che aveva preparato adatte ai neonati quando i gemelli erano ancora molto piccoli e la generosità con cui aveva consentito loro di «aiutarlo» in cucina quando erano un po’ più grandicelli. «Louis», chiese George mentre si sedeva accanto a Isabelle e lo chef gli serviva il tè freddo, «vorresti mettere il mio bicchiere sul tavolo e portarmi invece un Bloody Mary?» Isabelle sollevò un sopracciglio. «Non è da te, George. Sei nervoso per l’intervista con Alex Buckley?» George aspettò che Louis fosse uscito e avesse chiuso la porta. «A disagio più che nervoso», precisò poi. «A me tutta quanta l’idea di questo programma sembra alquanto bizzarra. Ho la sensazione che lo scopo non sia affatto quello di dimostrare che queste persone sono innocenti, quanto proprio quello di puntare il dito su uno del gruppo.» «Come per esempio tu, George?» George Curtis fissò la moglie in silenzio. Sentì improvvisamente freddo. «Cosa intendi dire?» «La notte del Gala ho sentito l’interessante conversazione che hai avuto con Betsy. Anche se ti eri allontanato dal grosso degli invitati, io non ero distante. Ti avevo seguito ed ero dietro quelle palme che avevano fatto portare per decorare il giardino. E tu non ti sei reso conto di quanto avessi alzato la voce.» George Curtis sentì che l’incubo che aveva sempre temuto stava per materializzarsi. Isabelle stava per dirgli che, ora che i gemelli erano grandi, voleva il divorzio. «Isabelle», cominciò con un tremito nella voce, «sono addolorato più di quanto tu possa immaginare. Ti prego, ti supplico, perdonami.» «Oh, l’ho già fatto», tagliò corto lei. «Pensavi che fossi così stupida da non sospettare che avessi una storia con quella sgualdrina? Quando ho sentito cosa vi dicevate, ho deciso che non volevo perderti. Sapevo che tra noi non stava andando molto bene e sapevo anche che era almeno in parte anche colpa mia. Non ti avrei perdonato troppo facilmente, ma sono ancora contenta della decisione che presi in quel momento. Sei stato un marito e un padre adorabile e io ti voglio un mondo di bene.» «Ho passato tutti questi anni in preda alla paura e al senso di colpa», confessò a quel punto George Curtis con la voce rotta. «Lo so», rispose adamantina Isabelle. «È stato il mio modo di punirti. Ah, ecco Louis con il tuo Bloody Mary. Scommetto che adesso ne senti ancora più il bisogno.» Mio Dio, e io che credevo di conoscere mia moglie! esclamò tra sé George Curtis mentre prendeva il drink che gli aveva portato Louis. «Louis», disse Isabelle finendo di bere un sorso di tè freddo, «credo che adesso siamo pronti per pranzare.» «George», riprese quando Louis tornò in cucina, «quando hai detto a Betsy che se mai mi avesse rivelato della vostra relazione l’avresti uccisa, può darsi che non sia stata la sola persona a sentirti. Come ripeto, non ti sei reso conto di aver alzato parecchio la voce. Poi, quando siamo tornati a casa e siamo andati a letto, io mi sono addormentata tra le tue braccia. Quando mi sono svegliata in piena notte, alle quattro, tu non c’eri, e sei rimasto via per più di un’ora. Io ho semplicemente pensato che fossi sceso a vedere un po’ di tivù. È quello che fai normalmente quando ti svegli di notte e non riesci a riprendere sonno. Quando ho saputo che Betsy era stata soffocata, ho pregato Dio che, se fossi stato tu a ucciderla, non avessi lasciato nessuna traccia che potesse incriminarti. Se dovesse emergere qualcosa durante le riprese di questo programma, giurerò che quella notte tu non hai mai lasciato il nostro letto.» «Isabelle, non crederai che...» «George, abitiamo a pochi isolati da loro. Avresti potuto arrivare alla villa di Powell a piedi in cinque minuti. Conoscevi perfettamente la disposizione all’interno. E francamente non m’importa niente se l’hai uccisa tu. So che ce lo possiamo permettere, ma non vedo perché avresti dovuto mai pagare venticinque milioni di dollari a quella barbona ricattatrice.» George l’aiutò con galanteria a sedersi a tavola. «Ti amo con tutto il cuore», disse ancora Isabelle mentre si sedeva. «E i gemelli ti adorano. Non dire niente che possa rovinare tutto. Ah, ecco Louis con l’insalata. Immagino che tu abbia un bell’appetito, vero?» 50 «OTTIMO , ragazzi, ci siamo. Pausa. Poi tocca ad Alison Schaefer. Riprendiamo tra mezz’ora», annunciò Laurie. Jerry, Grace e i tecnici della troupe sapevano che nel linguaggio di Laurie quelle parole si traducevano con: «Sparite!» Sapevano che a quel punto desiderava parlare da sola con Alex Buckley. Uscirono tutti quanti in fila indiana e l’ultimo chiuse la porta senza che nessuno osasse obiettare qualcosa. «Perché non prendo un caffè per tutti e due?» propose Alex. «So che lei lo vuole nero e senza zucchero.» «Molto volentieri», rispose Laurie. «Torno subito», annunciò lui affrettandosi a lasciare lo studio. Quando tornò, cinque minuti dopo, Laurie sedeva al posto di Claire, intenta a scrivere degli appunti. «Grazie mille», disse quando George posò le tazze sul tavolino davanti a lei. «Si sono riunite da qualche parte? Cioè, ha visto Claire parlare alle altre della sua intervista?» «Non so dove sia Claire», rispose Alex Buckley, «ma di certo sta succedendo qualcosa di molto strano. Regina è bianca come un cadavere e Nina e sua madre sono nel patio e a vederle da lontano direi che stanno litigando. Cosa che non mi sorprende. Alison e Rod stanno passeggiando vicino alla piscina e Alison mi sembra peggio che turbata. Ha un fazzoletto in mano e ogni tanto si asciuga gli occhi.» Laurie era sconcertata. «Cosa può essere stato?» «Quando le abbiamo lasciate, prima lei e io e pochi minuti dopo anche Claire», ricostruì Alex, «dev’essere evidentemente successo qualcosa che le ha sconvolte. Io so solo che aspettavano che Josh portasse loro dell’altro caffè. Ma può darsi che riesca a farmi dire qualcosa da Alison quando la intervisterò fra poco», concluse. Il suo tono si fece professionale. «Allora, so che vuole parlarmi dell’intervista con Claire.» «Infatti», annuì Laurie. «Perché si è soffermato così a lungo sui suoi rapporti con Robert Powell?» «Ci pensi bene, Laurie. È comprensibile che Claire e sua madre si siano sorrette a vicenda per tredici anni stabilendo tra loro un legame affettivo molto stretto. Poi entra in scena Robert Powell. Venire a vivere in questa reggia è stato certamente una svolta da favola, ma in ogni caso, a giudicare da tutto quello che ho letto, non c’è dubbio che la madre di Claire e Powell fossero praticamente inseparabili. E perché Claire non è andata a vivere al campus come hanno fatto le sue amiche? Deve aver passato molte notti da sola a casa. Per quel che mi risulta, Betsy e Powell erano fuori quasi tutte le sere. Perché Claire non poteva alloggiare al Vassar? Non ha visto come è cambiata la sua espressione quando ha parlato di Powell? Come è cambiato anche il tono della sua voce? Mi creda, sono sicuro che c’è sotto qualcosa», concluse con forza Alex. Laurie lo guardò dritto negli occhi per qualche istante poi annuì. Alex sorrise. «Se ne è accorta anche lei. Ne ero certo. Ogni volta che preparo un caso da dibattere in tribunale faccio raccogliere ai miei investigatori tutto quello che c’è da sapere non solo sulle persone che devo difendere, ma anche sui testimoni che deporranno in aula, pro o contro il mio cliente. Una delle prime cose che ho imparato è di cercare sotto l’apparenza. Se chiede a me, le dirò che Claire Bonner non era così angosciata dalla morte di sua madre come sostiene di essere.» «All’inizio io avevo attribuito la sua reazione allo choc», ammise Laurie. «Poi ho cominciato a ricredermi. Ha parlato solo del modo brutale in cui la polizia ha trattato lei e le altre ragazze e di quanto questo l’abbia indignata, ma nemmeno una parola di rimpianto per la morte della madre.» A quel punto Laurie cambiò argomento. «Ora, prima che entri Alison Schaefer, lasci che le dia qualche ragguaglio su di lei.» Alex la lasciò parlare bevendo il suo caffè. «Rod Kimball e Alison Schaefer si sono sposati quattro mesi dopo il Gala, eppure per la festa di quella sera Alison non lo aveva invitato. Aveva deciso di sposarsi in fretta e furia per come erano finite tutte e quante sulla graticola dopo la morte di Betsy? La sola altra cosa che posso aggiungere è che aveva perso una borsa di studio. Fu assegnata alla ragazza seconda in classifica per risultati accademici e guarda caso era la figlia di un’amica di Besty. Il fatto che Powell avesse donato una carrettata di dollari al college di Alison ha influenzato la scelta per la borsa di studio? Sì, era una borsa di studio che veniva assegnata da un ex alunno del college e la scelta era a totale discrezione del decano del corpo docenti.» Alex annuì. «Vedo che anche lei guarda sotto i sassi.» «Può contarci», rispose Laurie. «E allora mi sono chiesta se l’improvvisa decisione di sposare Rod non dipendesse dal fatto che lui aveva appena firmato un sostanzioso contratto con i Giants. Ma se è così è altrettanto vero che dopo l’incidente lei comunque gli è rimasta accanto, giusto? A quanto pare, lui era innamorato di lei da sempre, fin dai tempi dell’asilo. Al momento delle nozze aveva davanti a sé un brillante futuro come quarterback. Ma anche se lei era attratta soprattutto dalla fama e dalla fortuna di un marito campione di football, non è possibile che i suoi sentimenti fossero solo apparenza. Ci sono questi ultimi venti anni a dimostrarlo.» «Oppure può darsi che fosse così fuori di sé per aver perso la borsa di studio da soffocare Betsy e successivamente confessarlo a Rod», ipotizzò Alex. «Un buon sistema per indurla a tenerselo stretto per tutti questi anni.» Bussarono alla porta dello studio e fece capolino il cameraman. «Laurie, non stiamo facendo un po’ troppo tardi?» Laurie e Alex si scambiarono un’occhiata. Fu Alex a rispondere. «Ha ragione, possiamo riprendere. La prego, annunci ad Alison Schaefer che adesso può venire.» 51 QUELLA stessa mattina, qualche ora dopo, Leo Farley fissava il soffitto mentre il suo medico e vecchio amico gli controllava il ritmo cardiaco. «Io sto benissimo», dichiarò a denti stretti. «Così la pensi tu», rispose bonario il dottor James Morris, «ma, credimi, qui sei e qui resterai finché non lo dirò io. E prima che me lo chiedi di nuovo, lascia che te lo spieghi un’altra volta. Ieri sera avevi ancora delle fibrillazioni. Se non vuoi che ti venga un infarto, te ne stai buono.» «Va bene, va bene», sbuffò rassegnato Leo. «Ma Jim, tu non capisci. Io non voglio che Laurie sappia che sono qui e ti posso dire che ha già mangiato la foglia. Non mi chiama mai mentre sta andando al lavoro, cosa che invece oggi ha fatto. Ieri sera è stata così insistente nel voler sapere dove mi trovavo... Non è pensabile che si preoccupi per me quando è così impegnata con il suo programma.» «Vuoi che le telefoni adesso per rassicurarla?» propose Morris. «Conosco Laurie. Se chiami, sarà ancora più in pensiero.» «Di solito quando parli con lei?» «Dopo che è rientrata a casa dall’ufficio. Ieri sera me la sono cavata, ma stasera si aspetterà che mi faccia vivo di persona e che come minimo ci facciamo un hamburger insieme. Non so che scusa inventarmi», brontolò Leo Farley, ora rabbuiato ma non più in collera. «Facciamo così, Leo. Ieri hai avuto due aritmie. Se questa sera il tuo cuore se ne sta buonino, domani ti dimetto», promise Morris. «Se non ti spiace, non ho ancora disimparato a rassicurare i parenti sullo stato di salute dei miei pazienti. E se me lo lasci fare con Laurie, posto che il tuo cuore non faccia di nuovo il matto, domani mattina ti autorizzo ad andartene. Meglio di così non ho da offrirti. Perciò pensaci. Laurie può sempre passare a trovarti stasera. Non mi hai detto che Timmy le telefona tra le sette e le otto?» «Sì. Si fa telefonare alle otto meno un quarto per essere sicura di non avere impegni.» «Allora perché non le dici di venire qui a quell’ora per ricevere qui la telefonata, così potete parlare con Timmy tutti e due? Da quello che mi hai raccontato, gli è concessa una sola telefonata al giorno.» La faccia di Leo Farley si rasserenò. «Come sempre le tue idee sono le migliori, Jim.» Il dottor Morris sapeva quanto Leo Farley avesse preso sul serio la minaccia che incombeva sulla figlia e il nipote. E non si metterà il cuore in pace finché quell’Occhi Blu non sarà finito a marcire in galera, pensò. Posò una mano sulla spalla di Leo, ma riuscì a serrare le labbra prima di pronunciare la frase più inutile che esista in tutte le lingue del mondo: «Non ti preoccupare». 52 DOPO che tutte e tre ebbero ricevuto i nastri da Josh, Alison fu la prima a recarsi in bagno, recuperare il mangianastri dal cassetto del tavolo della toletta, inserirvi la cassetta e ascoltarla. Sgomenta, risentì la conversazione che aveva avuto con Rod sulla sua intrusione da sonnambula nella stanza di Betsy la notte del Gala. Quasi isterica, recuperò la cassetta e corse fuori. Rod, che l’aveva vista dalla finestra, arrancò più in fretta che poté per raggiungerla. Qualche minuto dopo, con le grucce posate a breve distanza, sedeva con un braccio intorno alle spalle di Alison sulla panca vicino alla piscina, entrambi con la schiena rivolta ai tecnici della TV che si trovavano all’esterno della villa. Dopo il suo confuso racconto, Alison era riuscita a smettere di piangere, ma le tremavano ancora le labbra. «Ma non vedi, Rod?» gemette. «È per questo che Powell ha mandato Josh a prenderci tutte quante all’aeroporto su quella bella Bentley a intervalli di due ore, tutte eccetto Claire, che era arrivata la sera prima. Non lo avrebbe fatto se non per una ragione ora evidente, che nella Bentley c’è una microspia. Rod, non ricordi che abbiamo parlato della notte del Gala? Di quando sono entrata dormendo nella stanza di Betsy?» «Zitta», l’ammonì il marito guardandosi intorno. Ma non c’era nessuno abbastanza vicino da poterli sentire. Mio Dio, qui rischio di diventare paranoico, pensò. Strinse il braccio intorno alle spalle di Alison. «Alie, se tirano fuori la storia della borsa di studio, rispondi che naturalmente ci sei rimasta male, ma non più che tanto. Avevi una cotta segreta per me fin dai tempi dell’asilo.» S’interruppe. Questa parte è vera almeno per quel che riguarda me, pensò. «E mi hai chiesto di sposarti anche se pensavi che fossi abbastanza piena di odio da uccidere Betsy Powell», aggiunse in tono lugubre Alison. «Non puoi negare che per tutti questi anni hai sempre creduto che potessi essere stata io.» «So quanto la detestavi, ma non ho mai veramente creduto che l’abbia uccisa tu.» «Sì, la odiavo davvero. Ho cercato di farmene una ragione, ma non ci sono riuscita. Anzi, la odio ancora adesso. È stato così ingiusto», proruppe con passione Alison. «Powell donò un sacco di soldi al Waverly perché Betsy voleva assolutamente entrare in quel suo club esclusivo. Quando il decano ha assegnato la borsa alla figlia dell’amica di Betsy, non credi che mi avesse dato un ottimo motivo per ammazzarla? Ti ho detto che la mia cara amica piantò lì al secondo anno?» «Mi sembra che me l’abbia menzionato una o due volte», mormorò Rod. «Rod, quando vedi crollare tutto quello per cui hai lavorato sodo e pregato e sognato per tanto tempo... Mi stavo già alzando per accettare la borsa di studio quando il decano ha fatto il suo nome. Non te lo puoi immaginare!» Si girò a guardarlo e fu allora che notò i segni della sofferenza sul bel volto del marito, vide spuntare le stampelle dietro di lui. «Oh, Rod, che imbecille che sono stata a dire queste cose, proprio a te...» «Non fa niente, Alie.» Sì che fa qualcosa, pensò lei. Fa molto, troppo. «Alison, guarda che ti stanno aspettando.» Stava andando verso di loro Jerry, l’assistente di Laurie. «Rod, ho paura di crollare», bisbigliò ansiosa Alison mentre si alzava e subito si chinava per posargli un bacio fugace sulla fronte. «Non succederà», la rassicurò con fermezza Rod guardando negli occhi la donna che amava con tanta devozione. E gli occhi di Alison, color nocciola, il suo tratto somatico più appariscente, ardevano. Il pianto le aveva gonfiato un po’ le palpebre, ma ci avrebbe pensato la truccatrice a rimediare. La guardò andare verso la casa. In vent’anni non l’aveva mai vista così scossa. E sapeva perché: perché le si offriva una seconda occasione per la carriera a cui aveva ambito con tutto il cuore, quella che le era stata negata con un colpo di mano. Fu colto da un pensiero estemporaneo. Alie si era lasciata crescere i capelli che adesso le arrivavano alle spalle. A lui piacevano così. Qualche giorno prima gli aveva comunicato l’intenzione di tagliarli. Gli era dispiaciuto, ma non si sarebbe mai sognato di dirle di no. C’erano molte cose che non le aveva detto in quei venti anni passati assieme... Se alla fine di questo programma avesse ricevuto il compenso pattuito, si domandò angosciato per l’ennesima volta, lo avrebbe usato per comprarsi l’indipendenza da lui? 53 NINA fu la seconda ad ascoltare la sua cassetta. Quando tornò al tavolo si rivolse a sua madre con maligno compiacimento. «Questa è più per te che per me», l’aggredì. «Perché non vai in bagno e non ti ascolti con cura ogni singola parola? E dopo che l’avrai fatto, non credo che continuerai a piagnucolare con Rob Powell sostenendo che Betsy era la tua più cara e intima amica.» «Di cosa diavolo parli?» sbottò Muriel alzandosi di scatto. «Il mangianastri è nel cassetto di centro del tavolo da toletta nel bagno in corridoio», le spiegò Nina. «Dovresti riuscire a trovarlo.» L’espressione tronfia di Muriel cedette all’insidia di preoccupazione e incertezza. Senza rispondere a sua figlia, s’incamminò a passi pesanti verso il corridoio. Il tonfo della porta del bagno che si richiudeva preannunciò qualche minuto dopo il suo imminente ritorno. Riapparve con un’espressione cupa nei lineamenti contratti. Indirizzò un cenno del capo a Nina. «Vieni fuori», ordinò. «Allora?» volle sapere Nina appena furono nel patio con la portafinestra chiusa alle loro spalle. «Cosa vuoi?» «Cosa voglio?» sibilò la madre. «Cosa voglio? Sei impazzita? Hai ascoltato bene quel nastro? Ne vengo fuori come un essere orrendo. E Rob mi ha invitato a cena stasera. Andava tutto così bene prima...» «Prima che io ti guastassi tutto presentando Rob Powell a Betsy quando ormai eri praticamente fidanzata con lui», finì Nina in sua vece. L’espressione di Muriel s’indurì. «Pensi che Rob abbia ascoltato quei nastri?» chiese riassumendo la sua personalità di calcolatrice. «Non ne ho idea. Immagino di sì, ma è solo un’ipotesi. Può darsi che l’autista ci stia ricattando per conto proprio e che abbia lasciato Rob fuori dal suo affaruccio personale.» «Allora dagli i cinquantamila.» Nina trasalì. «Ma starai scherzando! Rob Powell si sta prendendo gioco di te con queste sue improvvise attenzioni. Se ti voleva tanto, perché non si è fatto vivo con te vent’anni fa dopo la morte di Betsy?» «Paga quell’autista», ribadì Muriel. «Altrimenti rivelerò a Rob e alla polizia che mi hai confessato di aver ucciso Betsy per darmi un’altra occasione con Rob. Hai detto che avevi pensato che io sarei stata molto generosa con te dopo che fossi diventata la signora Powell.» «Faresti una cosa del genere?» domandò incredula Nina impallidendo. «Perché non dovrei? È vero, no?» l’apostrofò in malo modo Muriel. «E non ti scordare che se avessi ragione tu, e l’interesse di Rob non fosse sincero, io potrò sempre consolarmi con il milione di dollari di ricompensa che ha messo a disposizione per informazioni che portino all’arresto dell’assassino di sua moglie. Ha offerto questa somma vent’anni fa e non l’ha mai ritirata.» 54 QUANDO vide Alison scappare praticamente di casa e Muriel che ordinava a Nina di seguirla nel patio, Regina capì di dover ascoltare al più presto la sua cassetta. Mentre andava in bagno concluse che doveva essere stato Josh a impossessarsi della lettera suicida. Il mangianastri era sopra il tavolino. Inserì la cassetta, poi schiacciò il tasto di avvio con un dito reso insensibile dalla paura. Sebbene Zach le stesse telefonando dall’Inghilterra, la conversazione che aveva avuto con lei era perfettamente chiara. Peggio di così non poteva andare, pensò Regina in preda all’angoscia. E adesso che cosa succede se nego di aver nascosto la nota suicida di papà? Josh è in grado di mostrarla quando vuole. Dopodiché io potrei essere arrestata per aver mentito alla polizia quando sono stata interrogata per ore. Josh avrebbe da mostrare come prova non solo la lettera ma anche il nastro registrato. Quando tornò al tavolo e allontanò da sé la tazza di caffè ormai freddo, sapeva di non avere altra scelta che pagare a Josh la somma richiesta. Imbronciata come sempre, si materializzò all’improvviso Jane con un bricco di caffè fresco e un’altra tazza. Regina guardò la tazza fumante prendere il posto di quella che aveva scartato. Mentre beveva il primo sorso, nella sua mente si formarono ancora una volta le immagini di un incubo che ormai le era fin troppo famigliare. Risaliva in bici il vialetto della bella casa con l’impagabile vista su Long Island in cui era vissuta per quindici anni. Pigiava il tasto che faceva alzare il portellone della rimessa. La brezza irrompeva nella rimessa dal Sound e faceva dondolare il corpo di suo padre. Aveva la bocca spalancata, gli occhi strabuzzati, la lingua fuori. Aveva un foglietto appuntato alla giacca. Una mano stretta sulla corda. All’ultimo momento aveva cambiato idea? Ricordò il gelo che l’aveva invasa, il torpore dei suoi movimenti quando aveva staccato il messaggio dal cadavere del padre che si era mosso al suo contatto, lo aveva letto e, sconvolta, se lo era infilato in tasca. Nel messaggio suo padre aveva scritto d’aver avuto una relazione sentimentale con Betsy e di rimpiangerlo amaramente. Betsy gli aveva detto che il fondo d’investimento che Rob aveva appena avviato stava per salire alle stelle e lo aveva esortato a metterci tutto quello che poteva. E Regina, seppure ancora quindicenne, aveva intuito che Betsy operava per conto di suo marito. Non potevo lasciare che mia madre vedesse quel biglietto, pensò ora Regina. Le avrebbe spezzato il cuore e sapevo che il suo cuore avrebbe già sofferto abbastanza per la morte di papà. E la mamma disprezzava Betsy Powell. Sapeva quanto fosse falsa. E adesso qualcuno era in possesso di quel messaggio. Doveva per forza essere Josh, che era sempre in giro per casa sulla scia di Jane. Cosa posso fare? si chiese. Cosa posso fare? In quel momento entrò Josh con un vassoio in mano a prendere le stoviglie rimaste sul tavolo. Guardò da una parte e dall’altra assicurandosi che fossero soli. «Quando possiamo parlare, Regina?» domandò. «E devo dirle che ha sbagliato a non seguire il consiglio di suo figlio di bruciare il messaggio suicida di suo padre. Ci ho riflettuto, nessuno più di lei aveva un motivo così forte per uccidere Betsy Powell. Non è d’accordo? E non le sembra che il quarto di milione di dollari che riceverà dal signor Rob siano un prezzo più che modesto per avere in cambio la certezza che nessuno vedrà mai il biglietto o sentirà mai quel nastro?» Regina non seppe cosa rispondere. La sua faccia era pietrificata in un’espressione di orrore e senso di colpa e i suoi occhi vedevano qualcos’altro alle spalle di Josh: il corpo elegantemente vestito di suo padre che dondolava appeso al cappio che aveva intorno al collo. 55 D’ISTINTO , appena conclusasi l’intervista con Alex Buckley, Claire corse su per le scale. Sapeva che non era andata bene. A tutte le domande sul Gala aveva risposto con la versione che si era accuratamente preparata, dal momento in cui le amiche si erano ritrovate nello studio dopo la festa fino a quando si erano precipitate nella camera da letto di sua madre nelle prime ore del mattino. Tuttavia, ne era uscita con una sensazione di amaro in bocca, quella che era una verità assodata era suonata falsa alle sue stesse orecchie. Eppure non aveva avuto difficoltà a ricreare i momenti terribili nella stanza di sua madre: Rob che si contorceva dolorante sul pavimento con le vesciche che già gli si gonfiavano sulle mani bruciate dal caffè. Jane che strillava: «Betsy, Betsy», tenendo in mano il cuscino che aveva posto fine alla vita della sua padrona. Il colore dei capelli di sua madre che era sembrato incantevole quando nello studio aveva augurato loro la buonanotte, ora, nelle prime luci del mattino, era sgargiante in una maniera quasi pacchiana e la sua radiosa carnagione era grigia e chiazzata. E io ero contenta, ricordò Claire. Ero impaurita, ma ero contenta. L’unica cosa che riuscivo a pensare era di essermi liberata, di potermene finalmente andare da questa casa. E l’ho fatto il giorno del funerale. Sono andata a stare da Regina e sua madre nel loro minuscolo appartamentino. Dormivo sul divano del soggiorno. C’erano dappertutto fotografie del padre di Regina. Sua madre fu dolce e gentile con me, sebbene avessero perso tutto per aver investito nel fondo di Robert Powell. Claire ricordava ancora fin troppo bene quando aveva sentito Betsy e Powell scherzare su quanto fosse sprovveduto Eric, il padre di Regina. «Bada bene, Betsy, sono dispiaciuto di essere costretto a fartelo fare, ma è necessario. O lui o noi.» E la risposta di sua madre: «Meglio che sia lui ad andare a gambe all’aria», prima di scoppiare a ridere. Tutte le notti che restavo sveglia su quel divano a pensare che se non fosse stato per mia madre e il mio patrigno ora Eric sarebbe ancora vivo e Regina e sua madre vivrebbero ancora in quella loro bella casa sul Sound. E Alison? Aveva sudato sette camicie per quella borsa di studio e gliel’avevano soffiata solo perché mia madre potesse diventare membro di non so quale club. Claire scosse la testa. Era alla finestra a guardare il giardino. I veicoli dello studio televisivo erano parcheggiati con discrezione all’estremità del lato sinistro. Alison e Rod sedevano sulla panca ai bordi della piscina. Nell’insieme le sembrava di contemplare il quadro di un paesaggio. Poi colse un movimento. Si aprì la porta della pool house e ne uscì quell’individuo dalla pelle olivastra che aveva visto in quei giorni svolgere svariati lavoretti in giardino. La sua ingombrante presenza guastò l’atmosfera idilliaca del giardino e spedì un brivido lungo la schiena di Claire. In quell’attimo si udì il rumore della porta della sua stanza che si apriva. Quando si girò trovò sulla soglia Robert Powell. Sorridente. «Niente che posso fare per te, Claire?» le chiese. 56 IL lunedì notte il capo della polizia Ed Penn non dormì bene. La sensazione di minaccia incombente con cui lo aveva contagiato Leo Farley rese agitato e intermittente il poco di sonno che riuscì a concedersi. E fece sogni strani. C’era una persona in pericolo. Non sapeva chi fosse. Era in una grande casa vuota e andava in cerca per le stanze con la pistola in pugno. Sentiva un rumore di passi, ma non riusciva a capire da dove giungesse... Alle quattro Ed Penn si svegliò da quel sogno e non riuscì a riaddormentarsi. Era concorde con Leo nel ritenere che riunire quelle sei persone sotto lo stesso tetto dopo vent’anni potesse essere pericoloso. Penn era sicuro che a uccidere Betsy Powell dovesse essere stata una di quelle sei persone: Powell, la sua governante, la figlia di Betsy o una delle sue tre amiche. C’era la portafinestra tra patio e studio che non era stata sprangata, sì. E allora? C’era l’eventualità che un estraneo si fosse mescolato nella folla degli invitati ufficiali. Ma forse no. Quello che aveva notato subito quella mattina, quando era arrivato sul posto, era che nessuna delle quattro ragazze, figlia compresa, aveva manifestato la minima traccia di sincero cordoglio per la scomparsa di Betsy Powell. E la governante non aveva fatto che pregare che le fosse consentito andare in ospedale a vedere «il signor Rob». Fino a che non si era resa conto di che cosa potesse sottintendere tanta insistenza e aveva improvvisamente chiuso la bocca, ricordò Penn. Powell? Poche persone al mondo si sarebbero ustionati volutamente le mani con bruciature di terzo grado. Non si poteva escludere del tutto che versarsi del caffè addosso fosse stato un tentativo di copertura da parte sua, ma restava incomprensibile quale potesse essere il suo movente. La governante? Più che possibile. Interessante che le quattro ragazze fossero state concordi nell’affermare che gridava: «Betsy, Betsy!» tenendo il cuscino in mano. Non che strappare immediatamente il cuscino dalla faccia di Betsy Powell non fosse un evidente gesto automatico e istintivo, ma il fatto che Jane strillasse: «Betsy, Betsy!» era un altro paio di maniche. Ed Penn aveva appreso che quando Betsy era diventata la moglie di Robert Powell e aveva assunto come governante la vecchia amica Jane, aveva preteso di essere chiamata «signora Powell». Poteva darsi che nell’animo di Jane fosse progressivamente montato un cocente risentimento per i nove anni trascorsi al suo fianco come serva dopo esserle stata amica. Quel giardiniere? Non aveva precedenti. Forse gli solleticava la memoria per colpa di quel nome così stupido. Quale madre con un briciolo di buonsenso avrebbe chiamato il proprio figlio Bruno quando faceva di cognome Hoffa e il caso Lindbergh meritava ancora articoli in prima pagina? Oh, be’, sempre meglio di certi nomi astrusi che i genitori appioppano di questi tempi ai propri figli, concluse Ed. Inutile restare a letto. Tanto valeva che il capo della polizia di Salem Ridge si desse una mossa. Farò un salto da Powell verso mezzogiorno, pensò, e probabilmente li becco tutti assieme per pranzo. Si alzò a sedere. Poi sentì la moglie dall’altra parte del letto: «Ed? Vuoi essere così gentile da deciderti? O ti alzi adesso o ti rimetti a dormire. Tutti questi tuoi tentennamenti mi stanno facendo impazzire». «Scusa, Liz», borbottò. Alzandosi da letto si rese conto di essere dibattuto tra due desideri. Da un lato sperava che uno di loro inciampasse e confessasse involontariamente di aver ucciso Betsy Powell. Dall’altro si augurava con uguale convinzione che le riprese del programma si concludessero l’indomani come previsto e che tutti se ne tornassero a casa loro. Quel delitto rimasto senza un colpevole era stato per vent’anni una spina nel fianco di Ed Penn. La villa di Powell era una polveriera, pensò, e l’unica cosa che posso fare è stare a guardare quando salterà in aria. Nelle ore del pomeriggio, quando tornò in ufficio dopo essere stato all’abitazione di Powell, le sue impressioni non erano mutate. 57 LAURIE decise che doveva sentire di nuovo suo padre. La sera prima lo aveva trovato terribilmente stanco e il suo colorito di solito acceso era peggio che opaco. Quando gli aveva telefonato mentre andava al lavoro, le aveva detto di avere appena finito di fare la doccia e di sentirsi bene. Non sta affatto bene, pensò. Si alzò e passò dietro la telecamera. «Faccio solo una rapida telefonata a mio padre prima che arrivi Alison», spiegò ad Alex. «Con comodo», rispose lui di buon grado. Ma quando lei compose il numero e aspettò una risposta, Alex lesse nella tensione del suo corpo un nervosismo crescente. «Non mi risponde», disse Laurie. «Gli lasci un messaggio», le suggerì Alex. «No, non capisce. Mio padre risponderebbe a una mia chiamata anche se stesse baciando l’anello del papa!» «E allora secondo lei quale potrebbe essere la ragione?» «Forse ha saputo qualcosa di Occhi Blu e non me lo vuole dire», rispose Laurie con un tremito nella voce. «Oppure ha avuto un altro attacco di fibrillazioni cardiache.» Alex Buckley contemplò con compassione la giovane donna che tutt’a un tratto aveva perso tutta la sua patina di professionalità. Fino a quel momento si era meravigliato della forza d’animo con cui, con l’assassinio del marito ancora irrisolto e una terribile minaccia che pendeva su di lei e sul figlio, stesse portando avanti un programma su un delitto rimasto senza un colpevole, ma in quel momento poté vedere con i propri occhi fino a che punto aveva affidato la propria sicurezza a suo padre. Si era informato sul caso di Greg Moran. Gli balenò alla mente l’immagine della vedova trentunenne che usciva dalla chiesa dietro il feretro del marito sorretta dal braccio del padre. Sapeva che suo padre aveva abbandonato di punto in bianco il suo posto alla polizia di New York per sorvegliare il nipotino. Se gli fosse successo qualcosa adesso, Laurie e suo figlio sarebbero rimasti senza protezione. «Laurie, chi è il medico di suo padre?» «È un cardiologo, si chiama James Morris. Sono grandi amici da quarant’anni.» «Allora telefoni a lui e gli chieda se ha avuto a che fare con suo padre.» «Ottima idea.» Bussarono alla porta. Alex balzò in piedi. Fece capolino Grace con l’intenzione di chiedere se fossero pronti per cominciare, ma la domanda le morì sulle labbra. Vide l’espressione preoccupata di Laurie con il telefonino all’orecchio, sentì Alex bisbigliare: «Ci dia un minuto», e chiuse la porta. 58 «È COSÌ , Laurie si è molto preoccupata quando le ho detto che sei in ospedale», riferì il dottor Morris a Leo Farley. «Ma sono riuscito a tranquillizzarla. Appena finito di girare verrà a trovarti e in quell’occasione, come le ho suggerito, potrete parlare tutti e due con Timmy.» «Almeno mi hai risparmiato la brutta incombenza di dovermi inventare qualche balla da raccontarle», brontolò Leo Farley. «Le hai detto che mi dimetti domani?» «Le ho detto che, se non ci saranno altri episodi di aritmia, domattina ti lascio andare. Ho anche aggiunto che in quarant’anni di pratica medica, tu sei il paziente più insopportabile che mi sia capitato. E ti giuro che questo è valso più di ogni altra cosa a rassicurarla, Leo.» Leo Farley rise di sollievo. «Sì, ti credo. Ma sono insopportabile solo perché a me sono insopportabili tutti questi dannati monitor che mi tengono bloccato a letto.» Il dottor James Morris si guardò bene dal lasciar trasparire nel tono della voce la solidarietà che provava nei confronti del vecchio amico. «Speriamo semplicemente che il tuo cuore non faccia di nuovo il matto, Leo. E ti raccomando di sforzarti di restare calmo e magari vedere qualche gioco a quiz in televisione e se tutto andrà bene domattina te ne vai a casa.» Bruno si felicitò con se stesso. Aver messo sotto controllo il telefono di Leo era stata un’idea brillante. Leo aveva già chiamato il responsabile del campeggio e gli aveva detto di essere stato ricoverato in ospedale. E adesso Bruno sapeva che quella sera Laurie e suo padre avrebbero entrambi parlato con Timmy per telefono. Se nonno e mamma lo avessero sentito verso le otto di sera, sarebbero stati sicuri che tutto andava per il meglio e non si sarebbero aspettati di sentirlo più fino alla stessa ora dell’indomani. Mi presenterò al campeggio verso le dieci in divisa da poliziotto, pensò Bruno. Dirò a chi è in servizio che le condizioni di salute del nonno del ragazzino sono improvvisamente peggiorate. Se chiameranno Mount Sinai, avranno la conferma che è un paziente ricoverato, ma come vuole la legge si rifiuteranno di dare informazioni sul suo stato clinico. Funzionerà. Bruno era così sicuro che cominciò a fare preparativi per il piccolo ospite. Stese delle coperte e un guanciale nel locale tecnico della pool house. Metterlo nella cameretta con il letto sarebbe stato troppo pericoloso. Avrebbe dovuto legarlo e imbavagliarlo. Doveva in ogni caso rispettare la routine quotidiana e farsi venire a prendere dal furgone della Perfect Estates che lo avrebbe riportato lì l’indomani mattina. Avrebbe comprato delle merendine e del succo d’arancia per Timmy. Aveva sempre con sé un sacchetto con il cibo per il mezzogiorno, quindi nessuno avrebbe notato niente di insolito. La troupe della produzione aveva lasciato in giro dappertutto copie della tabella di marcia. Sapeva che l’indomani sarebbe stato intervistato Powell, dopodiché tutti sarebbero stati fotografati al tavolo della prima colazione come era accaduto in apertura del programma. Quello sarebbe stato il momento in cui avrebbero fatto il loro ingresso lui e Timmy. Io arrivo tenendolo per mano e puntandogli un fucile alla testa, fantasticò Bruno. Grido a Laurie di venire fuori o gli sparo. E la brava mamma uscirà di corsa a salvare il suo bambino. Rise dal fondo della gola, poi aprì la porta della pool house. Sulla panca ai bordi della piscina c’erano la ex neolaureata con il marito con le stampelle. Bruno si mise a esaminare con molta cura le piante intorno alla pool house in cerca di eventuali imperfezioni da sistemare. Domani saranno macchiate di sangue, pensò compiaciuto. Quello di mamma e figlio. È giusto che muoiano insieme, anche se io non dovessi farcela. 59 «AVEVO ragione», sussurrò Laurie mentre spegneva il telefono. «Il dottor Morris ha detto che stanno per fare un angiogramma a papà, anche se solo per precauzione. Ma io gli devo credere?» «Laurie, che cosa le ha detto di preciso il dottore?» chiese Alex. «Che ieri sera papà ha avuto delle fibrillazioni cardiache.» Con qualche tentennamento Laurie spiegò che cosa le aveva riferito il medico. «Io so il perché delle fibrillazioni», aggiunse. «Papà aveva paura di questo programma. Pensa che una delle sei persone sia un assassino e che, messo sotto pressione, possa perdere la testa.» Potrebbe non avere tutti i torti, pensò Alex. «Senta, Laurie», rispose, «quando abbiamo finito qui oggi pomeriggio, perché non lascia che l’accompagni direttamente all’ospedale? Non dovrà aspettare il pulmino dello studio. Lasci che qui ci pensino Jerry e Grace a sgomberare.» S’interruppe e per qualche istante attese una risposta. «Aspetterò nell’atrio che lei abbia finito con suo padre», aggiunse poi d’impulso, «poi possiamo andare a mangiare un boccone insieme, se non ha nient’altro in agenda.» «Il mio programma per stasera era un hamburger con papà. Da ex sbirro numero uno, vorrà sapere tutto quello che è successo oggi fin nei minimi particolari.» «Allora lei gli faccia rapporto in ospedale e dopo vorrà dire che mangerà un hamburger con me», concluse con fermezza Alex. Laurie esitava. Data la situazione, proprio non si vedeva ad andare a un ristorante da sola. La compagnia di Alex Buckley le sarebbe stata di conforto. E poi potremo discutere in pace delle altre interviste, pensò. «Allora grazie, accetto.» Abbozzò un vago sorriso, prima di voltarsi dall’altra parte. «Jerry», chiamò. «Vuoi dire per favore agli altri e ad Alison Schaefer di entrare?» La sua voce suonò di nuovo squillante e autoritaria. 60 LA Regina che andò a cercare Josh Damiano aveva la faccia truce. Lo trovò a passare l’aspirapolvere nel grande soggiorno. Ricordò che Betsy si compiaceva di chiamarlo «il salone». «Fino al giorno in cui ha sposato Robert Powell, il solo salone in cui era mai entrata era il salone di bellezza.» Così soleva dire sua madre di Betsy. Josh alzò gli occhi e quando la vide spense l’aspirapolvere. «Sapevo che mi avrebbe cercato, Regina», commentò allegramente rivolgendole un bel sorriso. Regina aveva acceso l’iPhone e stava registrando tutto. «Vedo che fa parecchi mestieri, Josh. Chauffeur, donna di servizio e ricattatore. Sembra che non ci sia limite ai suoi talenti.» Il sorriso si spense sulle labbra di Damiano. «Attenta, Regina», l’ammonì senza scomporsi. «L’unica ragione per cui do una mano in casa è che il signor Powell ha sospeso il normale servizio di pulizie fino a giovedì, quando se ne saranno andati tutti.» «Sentirsi dare della donna di servizio non le è piaciuto molto, vero, Josh?» lo apostrofò Regina. «Cosa mi dice della qualifica di truffatore? Le va di traverso anche questa?» Josh Damiano non batté ciglio. «Preferisco pensare che la sto proteggendo dall’accusa di aver ucciso Betsy Powell. Nel messaggio suicida di suo padre c’è il più esplicito dei moventi e non si dimentichi che ha ripetutamente mentito alla polizia continuando a sostenere di non aver trovato nessun messaggio né sul corpo di suo padre, né nelle sue vicinanze.» «Ma che bella bugiarda che sono, vero?» ribatté Regina. «D’altra parte ho anche fatto un grande favore a Robert Powell nascondendo l’esistenza di quel messaggio. Ci ha pensato? C’è scritto chiaro e tondo che aveva lasciato che sua moglie avesse una relazione con mio padre solo per rivelargli informazioni riservate sul suo fondo di investimenti. Il risultato è che mio padre ha perso tutti i suoi soldi e così facendo ha permesso a Powell di salvarsi dalla bancarotta.» «E allora?» «Allora nella conversazione che lei ha registrato in macchina io stavo mentendo a mio figlio. Ho un’altra copia del messaggio di mio padre. Ora io le offro un’alternativa: mi restituisce l’originale e chiudiamo la partita qui. Altrimenti oggi stesso consegnerò la copia del mio messaggio e la registrazione di questa conversazione al capo della polizia locale e a finire dietro le sbarre sarà lei. Devo presumere che abbia registrato anche tutte le altre persone che ha accompagnato in macchina. Scommetto che, se messe sotto pressione, consegneranno tutte i loro nastri.» «Sta scherzando.» «Nient’affatto. Avevo quindici anni quando ho trovato quel messaggio. Il suicidio di mio padre fu l’inizio del lento declino di mia madre. Se avesse anche saputo della relazione di mio padre con Betsy sarebbe crollata ancora prima.» Josh Damiano tentò una risatina. «Un ulteriore buon motivo per cogliere l’occasione di passare la notte in questa casa e potersi vendicare di Betsy.» «Se non che Betsy Powell non meritava il sacrificio di una vita intera passata in prigione. Io sono un po’ claustrofobica. Spero che lei non lo sia.» Se ne andò senza aspettare una risposta. In corridoio cominciò a tremare violentemente. Avrebbe funzionato? Era la sua unica speranza. Salì nella stanza in cui avrebbe trascorso la notte, chiuse la porta a chiave e controllò l’iPhone. La batteria era scarica. 61 ALISON entrò nello studio apparentemente calma ma dentro di sé in preda a un’ansia frenetica. Quella notte ero nella stanza di Betsy, continuava a ripetersi. Cercò di ricordare le parole rassicuranti di Rod, ma stranamente a tornarle alla mente era solo quello che lei aveva detto a lui, che cioè non poteva sapere cosa voleva dire desiderare qualcosa con tutto il cuore e vederselo portar via. Proprio a lui dovevo parlare così? si domandava. Ricordò i titoli a caratteri cubitali di quando aveva firmato per i Giants, i pronostici di un futuro brillante da grande campione. Le lunghe ore che lei aveva dedicato allo studio, erano state le stesse che lui aveva dedicato a migliorarsi sui campi da football. Rod l’aveva amata e corteggiata fin da quand’erano bambini, sempre pronto a favorirla. Ma io avevo intenzione di sposare uno scienziato, pensò. Saremmo stati il nuovo dottor Curie e signora. Anzi no, si corresse, il dottore e la «dottoressa» Curie. Quanta presunzione. E Rod accettò anche quello. Quando mi chiese in moglie gli dissi di sì perché mi aveva promesso di farmi specializzare in medicina. Dopo l’incidente ho potuto al massimo diplomarmi come farmacista, ma non ho potuto lasciarlo. Dentro di me però non gli ho mai perdonato di avermi fatto sentire obbligata a restare al suo fianco. E anche adesso non posso fare a meno di pensare che se fossi venuta qui da sola non mi sarei lasciata andare a quelle dichiarazioni in macchina. E non esisterebbe nessuna registrazione! «Entri, Alison», la invitò Laurie Moran. Alex Buckley si alzò in piedi. Mamma mia com’è alto, pensò Alison mentre si accomodava davanti a lui. Si sentiva così rigida da temere che un movimento troppo brusco l’avrebbe spezzata in due come se fosse fatta di vetro. «Alison, prima di tutto la devo ringraziare per aver accettato di essere con noi in questo programma», cominciò Alex. «Sono passati venti anni dal Graduation Gala e dalla morte di Betsy Powell. Perché ha deciso di partecipare a questo programma?» La domanda era posta in tono amichevole. Rod l’aveva ammonita a stare attenta a non abbassare la guardia. Ora Alison scelse con cura le parole con cui rispondere. «Ha idea, può anche solo vagamente immaginare, che cosa significhi essere sospettati d’aver ucciso qualcuno per vent’anni?» «No, non credo di poterlo neppure immaginare. Come avvocato penalista, ho visto molti indiziati costretti a sopportare di vivere sotto una spada di Damocle finché una giuria non li ha dichiarati non colpevoli.» «Finché una giuria non li ha dichiarati non colpevoli», ripeté Alison con la voce carica di amarezza. «Ma non vede? È proprio qui il problema. Nessuno ha formalmente accusato nessuna di noi e di conseguenza siamo tutte trattate come se fossimo colpevoli.» «È così che si sente ancora oggi?» «Potrebbe essere diversamente? Solo nel corso di quest’ultimo anno due testate hanno pubblicato due importanti articoli sul nostro caso. So sempre quando si è scritto nuovamente di noi. Qualcuno entra in farmacia e compra qualcosa di poco conto come un tubetto di dentifricio e mi guarda come se fossi un insetto al microscopio.» «Un paragone interessante, Alison. Si è sentita per tutti questi anni come un insetto al microscopio? Lei sperava di diventare medico, non è vero?» Attenta, si ammonì Alison. «Sì.» «Aveva ogni sacrosanto motivo per credere che stessero per assegnarle una borsa di studio, giusto?» «Ero in gara», rispose pacata Alison. «Sono arrivata seconda. Succede.» «Alison, ho svolto qualche ricerca. Non è forse vero che poco prima che lei si laureasse Robert Powell aveva donato dieci milioni di dollari al suo college per edificare un nuovo dormitorio intitolato ‘The Robert and Betsy Powell House’?» «Sì, lo so.» «È vero che a ricevere quella borsa di studio è stata la figlia di un’amica di Betsy Powell?» Alison, tu non gliel’hai perdonata. Non puoi darlo a vedere adesso. Le sembrava quasi di sentire Rod che le urlava all’orecchio. «Ci sono rimasta male, è ovvio. Meritavo quella borsa di studio e lo sapevano tutti. Regalarla a Vivian Fields serviva a Betsy per entrare nel circolo di cui la madre di Vivian era presidente. «Ma, vede, il mio rimpianto è finito lì. Rod aveva appena firmato un importante contratto con i Giants e la prima cosa che ha fatto subito dopo è stata chiedermi in moglie. E il suo regalo di nozze sarebbe stato la mia iscrizione alla scuola di medicina.» «Allora perché non invitò Rod al Gala, se eravate già fidanzati?» Alison cercò di sorridere. «Per la verità è successo prima del nostro fidanzamento. Per Rod era molto stupido da parte mia partecipare al Gala dopo quello che mi aveva fatto Betsy.» Così i conti tornano, pensò. Non l’ho invitato perché non ero innamorata di lui. Ma poi quando lui ha firmato per i Giants e ha promesso di farmi studiare medicina, ho accettato di sposarlo... Lottava per non perdere il controllo. Alex Buckley la fissò negli occhi. «Alison, per favore, chiuda gli occhi e visualizzi il momento in cui entrò nella stanza di Betsy dopo aver sentito gridare Jane.» Il tono della sua voce era quasi ipnotico. Alison chiuse gli occhi come le era stato chiesto. Era nella stanza di Betsy. Mise un piede sull’orecchino e questo la fece trasalire. Sentì aprirsi una porta e s’infilò nella cabina armadio che aveva alle spalle. Vide entrare qualcuno e prendere il guanciale di fianco a quello su cui posava la testa Betsy. Poi quell’ombra si chinò su Betsy. Attraverso uno spiraglio dell’anta guardò il corpo di Betsy dibattersi sotto il cuscino che la stava soffocando. I suoi gemiti strozzati si spensero in pochi istanti. Poi l’ombra scivolò via. Sognavo, si chiese Alison, o ho veramente visto una faccia? Non lo sapeva. Riaprì di scatto gli occhi. «Cosa c’è, Alison?» s’affrettò a domandarle Alex Buckley sorpreso dalla sua espressione traumatizzata. «Ha l’aria spaventata.» «Basta, non ce la faccio più!» proruppe Alison. «Basta e basta. Non mi importa che cosa pensa di me la gente. Che si chiedano pure se sono stata io a uccidere Betsy. No, non sono stata io, ma una cosa vi posso dire: quando sono entrata di corsa in quella stanza e l’ho vista morta, ero contenta! E lo erano anche le altre. Betsy Powell era cattiva e vanitosa ed era una puttana e spero che marcisca all’inferno!» 62 ERA la volta di Jane. Non era una donna nerboruta, ma con quelle spalle larghe e il portamento militaresco metteva soggezione. L’immancabile uniforme con il grembiule bianco inamidato sopra al vestito nero è quasi una caricatura, pensò Alex contemplandola. Se non per i ricevimenti formali, nessuno dei suoi amici faceva vestire in quel modo il personale di servizio. Sedette al posto lasciato libero da Alison. «Signora Novak», cominciò Alex, «lei e Betsy Powell avevate lavorato insieme in teatro?» Jane gli mostrò un sorriso sottile. «Detta così fa un effetto molto lusinghiero. Io tenevo in ordine i camerini e rammendavo i costumi. Betsy faceva la maschera e quando terminavano le repliche in una sala, ci mandavano in un’altra.» «Dunque eravate buone amiche.» «Buone amiche? In che senso? Lavoravamo assieme. A me piace far da mangiare. Ogni tanto la domenica invitavo lei e Claire a cena. Ero sicura che tutto quello che mangiavano loro lo compravano precotto. Betsy non ci sapeva fare in cucina e Claire era solo una bambina molto dolce.» «Si è meravigliata quando Betsy si trasferì a Salem Ridge?» «Betsy voleva sposare un uomo ricco. Decise di andare a vivere in una zona di gente danarosa per avere più possibilità. La storia le ha dato ragione.» «Quando sposò Robert Powell aveva trentadue anni. Non c’era stato nessuno prima di lui?» «Oh, Betsy aveva avuto le sue storie, ma mai con qualcuno che avesse abbastanza soldi per lei.» Jane si concesse un sogghigno. «Avrebbe dovuto sentire cosa diceva di alcuni di loro.» «C’è mai stato nessuno con cui ebbe un’intesa più importante?» domandò Alex. «Qualcuno che potrebbe essere stato geloso del suo matrimonio con il signor Powell?» Jane alzò le spalle. «Non direi. Andavano e venivano.» «Lei ci è rimasta male quando le chiese di chiamarla ‘signora Powell’?» «Rimasta male? Certo che no. Il signor Powell è una persona molto formale. Qui io ho un bellissimo appartamentino tutto per me. C’è un’impresa di pulizie che viene due volte la settimana, così non devo sobbarcarmi nessun lavoro pesante. Mi piace cucinare e il signor Powell è un gourmet. Perché avrei dovuto starci male? Io vengo da un paesino dell’Ungheria. Ci andava bene se avevamo l’acqua corrente in casa. E per i più fortunati la corrente elettrica.» «Capisco perché era ben felice di essere qui. Ma da quel che mi risulta quella mattina, quando fece irruzione nella stanza di Betsy Powell, si mise a gridare: ‘Betsy, Betsy!’» «È vero. Ero così scioccata che non so nemmeno io che cosa stavo dicendo.» «Jane, ha qualche teoria personale su chi abbia ucciso Betsy Powell?» «Senza dubbio», rispose con decisione Jane. «In un certo senso mi sento responsabile della sua morte.» «Perché mai, Jane?» «Perché avrei dovuto sapere che quelle ragazze erano uscite a fumare. Sarei dovuta rimanere sveglia e avrei dovuto assicurarmi che la portafinestra fosse di nuovo chiusa a chiave dopo che erano andate a letto.» «Dunque lei pensa che sia penetrato in casa uno sconosciuto, vero?» «O approfittando di quella portafinestra rimasta aperta oppure già prima, durante la festa. Betsy aveva due cabine armadio. Chiunque avrebbe potuto nascondersi in una delle due. Indossava una parure di smeraldi che valeva un patrimonio e non dimentichiamoci che uno degli orecchini era sul pavimento.» Laurie, che seguiva l’intervista da dietro la telecamera, si domandò se Jane avesse ragione. A qualcosa del genere aveva accennato anche Claire. E da quel che poteva vedere, nulla avrebbe potuto impedire a qualcuno di salire nascostamente le scale durante il ricevimento. Jane stava dicendo ad Alex di aver appeso un cordone di velluto davanti a entrambe le scale, quella principale e quella sul retro. «Al pianterreno ci sono quattro toilette», concluse. «Nessuno aveva bisogno di salire al primo piano, a meno che avesse intenzione di rubare i gioielli di Betsy.» Sembra quasi che si siano messe tutte d’accordo sulla storia da raccontare, rifletté Laurie. «Grazie di aver parlato con noi, signora Novak», stava dicendo Alex. «So quanto è difficile rivivere quella notte terribile.» «No che non lo sa», ribatté Jane in un tono di voce venato di tristezza. «Ricordarsi com’era bella Betsy alla festa, e poi vederla con il cuscino sulla faccia e sapere che era morta e sentire il signor Powell lamentarsi con le mani ustionate... Lei non può capire quanto sia difficile riviverla, signor Buckley. Proprio non può.» 63 PER il resto della mattina Nina si tenne a gelida distanza da sua madre. Quando Alison entrò nello studio per la sua intervista con Alex Buckley, raggiunse Rod ai bordi della piscina. «Ti scoccia se mi siedo qui con te per un po’?» chiese. Rod ne fu sorpreso, ma sorrise comunque. «Certo che no.» Nina si accomodò sulla panca accanto a lui. «Dimmi, vi siete pentiti tu e Alison di esservi messi in questa situazione?» Rod si girò a guardarla perplesso. «Senti», tagliò corto allora Nina, «anch’io ho ricevuto una cassetta e una l’ha avuta anche Regina. Quanto a Claire non lo so. «Ho visto la faccia sconvolta di Alison dopo aver ascoltato la sua cassetta. E anche quella di Regina. Allora ti chiedo, secondo te, Josh Damiano ha fatto quelle registrazioni per conto suo o è stato Rob Powell a ordinargliele?» «Non ne ho idea», rispose con cautela Rod. «Nemmeno io. Ma devo correre il rischio che Damiano stia operando di propria iniziativa e per questo gli darò i cinquantamila che pretende. Penso che vi converrebbe fare lo stesso. Non so che cosa ha sentito Damiano di quello che vi siete detti voi due, ma quel poliziotto di qui muore dalla voglia di risolvere il caso di Betsy e se gli capita fra le mani qualcosa con cui passare al contrattacco, non ci penserà due volte.» «Può darsi che tu abbia ragione», commentò Rod continuando a schermirsi. «Ma che cosa potrebbe mai avere che possa compromettere te? Certamente non il fatto che tua madre fosse in rapporti intimi con Rob Powell prima di sposare Betsy, no?» «Non è quello», rispose Nina, serafica. «Se non pago i cinquantamila dollari a Josh mia madre minaccia di dire che ho confessato a lei di aver ucciso Betsy.» Se fin dal principio di quella conversazione Rod non aveva smesso di sentirsi sorpreso, questa volta sfogò nella voce tutta la sua incredulità. «Ma questa è pura follia!» «Tutt’altro», ribadì Nina. «Se Robert Powell ascolta quel nastro in cui mia madre dice quanto odiava Betsy, lei si gioca le ultime possibilità che ha con lui, possibilità che a mio avviso sono solo pura fantasia da parte sua. Ma se Josh Damiano sta agendo per conto proprio, chi lo sa? Per questo vuole che paghi i cinquantamila dollari che mi ha chiesto. Ma vedi io so che Alison aveva molto più da temere di mia madre, che al massimo vedrebbe sfumare la sua speranza di una grande storia d’amore. Vent’anni fa quando la polizia ci interrogò tutte quante, io sono stata molto altruista.» Fece una pausa guardandolo fisso negli occhi. «Non ho detto a nessuno che quella sera Betsy fu semplicemente crudele nei confronti di Alison. Non faceva che sproloquiare con tutti gli invitati su quanto fosse orgogliosa Selma Fields della borsa di studio che aveva vinto sua figlia Vivian. E non mancava di aggiungere sempre che Selma avrebbe dato un party favoloso per Vivian e che poi tutta la famiglia avrebbe fatto un giro sullo yacht che hanno in Costa Azzurra. Alison passò tutta la sera a sforzarsi di trattenere le lacrime. E quando Betsy non fu a tiro d’orecchio, Alison mi disse: ‘Io l’ammazzo quella strega’. «Dunque ti chiedo, secondo te questa informazione non è abbastanza preziosa perché voi paghiate a Josh Damiano i cinquantamila che pretende da Alison e anche i cinquantamila dollari che vuole da me? Io voglio andarmene da qui con qualcosa. «Rod, credimi, sono desolata di tutto questo, ma non ho scelta. Ho bisogno fino all’ultimo centesimo di quei trecentomila per regalare a mia madre un appartamento e togliermela dai piedi. Se continuiamo a stare assieme, ti giuro che va a finire che sarò io ad ammazzare lei. So bene per esperienza personale i sentimenti che provava Alison al Gala.» Si alzò. «Prima di andarmene voglio che tu sappia quanto vi ammiro. Alison ti ha sposato per poter andare avanti negli studi, ma ti è rimasta accanto quando la splendida carriera che avresti dovuto fare come sportivo andò in fumo. La mia teoria è che la tieni legata a te perché ti ha confessato il delitto. Non è così, Rod?» Rod recuperò le grucce e si alzò in piedi. «È evidente che tu e tua madre siete fatte della stessa pasta», ringhiò bianco in volto. «Alison è una donna sveglia e perspicace. Magari sa esumare anche lei qualche ricordo su come per anni tua madre non ha smesso di torturarti perché per colpa tua Rob Powell l’ha lasciata per sposare Betsy. Forse a un certo momento hai perso la testa e hai ucciso Betsy perché Robert Powell fosse di nuovo libero. Ma c’è solo un problema. Nemmeno in un milione di anni Alison ucciderebbe qualcuno.» Nina sorrise. «Quando mi dai una risposta?» domandò. «Non lo so», rispose in malo modo Rod. «Ora, se non ti spiace, mi fai passare? Mia moglie sta uscendo e voglio andare da lei.» «Io credo che invece approfitterò di una di queste sedie a sdraio», ribatté gioviale Nina facendosi da parte per lasciarlo passare. 64 JANE andò direttamente dallo studio alla cucina. Per pranzo aveva già preparato una vichyssoise, un’insalata Waldorf e del prosciutto cotto affettato. Robert Powell entrò in cucina pochi minuti dopo. «Jane, stavo pensando. Fuori fa piuttosto caldo. Mangiamo in sala da pranzo. Quanti siamo oggi?» Jane notò subito che il suo umore era di gran lunga più sereno. Indossava una camicia celeste e pantaloni beige. Con quell’espressione rilassata, la folta chioma bianca e il portamento eretto non dimostrava certo i suoi anni. Non invecchia mai, pensò Jane. Sembrerà sempre un lord inglese. Lord e lady Powell. Che cosa le aveva chiesto? Ah, già, in quanti erano a pranzo. «Ci sono le quattro laureate», cominciò Jane e s’interruppe subito. «Abbia pazienza, io continuo a pensarle così. Comunque, poi ci sono la signora Moran, la signora Craig, il signor Rod Kimball, il signor Alex Buckley e lei.» «Gli intrepidi nove», scherzò allegramente Rob Powell. «O la disperata accozzaglia. Secondo te quale delle due, Jane?» Senza aspettare la sua risposta, aprì la porta che dava nel patio e uscì in giardino. Che cosa gli ha preso? si domandò Jane. Stamattina sembrava che volesse sbatterli tutti fuori di casa. Forse si sente meglio al pensiero che domani non ci saranno più. Non so che cosa abbiano raccontato le altre nelle loro interviste, ma io me la sono cavata alla grande. Molto soddisfatta di sé, cominciò ad apparecchiare in sala da pranzo. Sulla soglia apparve Josh. «Finisco io», le disse in tono sgarbato. «Tu porta da mangiare.» Jane lo fissò sorpresa. «Che cos’hai?» chiese. «Ho che io non sono il garzone di casa», sbottò Josh. Jane aveva appena cominciato a disporre le posate. Incredula, si raddrizzò con le guance infuocate e le labbra compresse. «Con lo stipendio che prendi», lo stigmatizzò, «hai una bella faccia tosta a parlare così solo perché devi dare una mano in casa per qualche giorno. Sta’ attento. Sta’ molto attento. Se ti sentisse il signor Powell, saresti fuori di qui prima ancora di aprire bocca. Se gli riferissi questa conversazione, sarebbe esattamente lo stesso.» «Senti, senti sua signoria», l’apostrofò lui con disprezzo. «Che fine hanno fatto tutti i gioielli che George Curtis regalava a Betsy? E non fingere di non sapere di che cosa sto parlando. Quando il signor Rob era via per affari, ero io che accompagnavo Betsy ai suoi incontri segreti con George Curtis e quando ce la portavo, luccicava e brillava come un albero di Natale. So che teneva le gioie nascoste da qualche parte in camera sua, ma non ho mai sentito che siano state ritrovate. Se c’è una cosa di cui sono sicuro è che il signor Powell non ha il minimo sospetto dell’esistenza di quella tresca.» «Non sai nemmeno di che cosa sei sicuro», sibilò Jane. «Allora perché non teniamo tutti e due la bocca chiusa? Domani a quest’ora se ne saranno andati tutti.» «Un’altra piccola considerazione, Jane. Se Betsy avesse veramente lasciato Powell per mettersi con George Curtis, ti avrebbe portato con sé per due ottime ragioni. La prima è che ti facevi comandare da lei a bacchetta come una schiava. La seconda è che uscita da qui la tua padrona, quando avesse chiesto il divorzio, Powell avrebbe assunto degli investigatori privati per scoprire da quanto tempo andava avanti il suo tradimento e avrebbe scoperto che tu la coprivi tutte le volte che lui chiamava dall’estero, quand’era via per lavoro.» «E che cosa pensi che avrebbe fatto di te se avesse saputo che eri tu a portarla avanti e indietro dal loro nido d’amore sulla sua Bentley?» ribatté Jane con un filo di voce tagliente. Si guardarono con odio per qualche istante in silenzio. «Meglio che ci muoviamo adesso», disse finalmente Jane in tono conciliante. «Sono stati avvertiti che il pranzo sarà servito all’una e mezzo.» 65 ALISON uscì correndo dallo studio come se stesse scappando. Alex e Laurie rimasero in silenzio in attesa che Jerry, Grace e i tecnici fossero usciti dietro di lei. «Due delle nostre neolaureate di allora», cominciò finalmente Alex, «hanno fornito adesso a un pubblico vastissimo una ragione convincente perché una di loro possa avere ucciso Betsy Powell.» «Questo è indiscutibile», concordò Laurie. «E chissà che cosa avranno da raccontare oggi pomeriggio Regina e Nina. Mi meraviglierei se a questo punto non rimpiangessero amaramente tutte e quattro di essersi lasciate convincere a partecipare a questo programma, seppure lo abbiano fatto per denaro.» «Sono sicuro che si mordono già le mani», annuì Alex. «Alex, secondo lei per quale motivo Powell ha insistito perché questa notte restassimo tutti qui e ha voluto farsi intervistare solo domani mattina?» «Per aumentare la pressione sulle quattro protagoniste sperando che una di loro crolli? Se andasse così, lei e io saremmo i testimoni principali», si rallegrò Alex. «Ma la mia opinione è che stia bluffando.» Consultò l’orologio. «Meglio che chiami l’ufficio. Ci vogliono di là tra un quarto d’ora.» «E io provo a sentire mio padre.» Alex finse di cercare qualcosa nella sua cartella. Voleva essere presente se Leo Farley non avesse risposto al telefono. 66 IL «pronto» brioso di Leo smussò immediatamente l’ansia di Laurie. «Ho sentito che ieri sera eri fuori città, papà», gli disse. «Sì, avevo un appuntamento di quelli che danno le palpitazioni al Mount Sinai. Come va il tuo show?» «Perché non mi hai chiamato quando sei andato in ospedale?» «Perché così non ti precipitavi qui. Ho avuto queste crisi altre volte. Jim Morris mi ha detto di calmarmi guardando qualche programma di quiz in televisione. Al momento sto guardando una replica di Lucy ed io.» «Allora non sia mai che ti interrompa. Sarò lì al più tardi alle sette e mezzo.» Esitò per qualche istante. «Papà, mi giuri che adesso stai bene?» domandò alla fine. «Sto bene. Smettila di preoccuparti.» «Me lo rendi parecchio difficile», ironizzò Laurie. «Va bene, tornatene alla tua sit-com. Ci vediamo più tardi.» Con una mano si lasciò cadere il cellulare in tasca. Con l’altra frugò impaziente l’altra tasca in cerca di un fazzoletto di carta con cui asciugarsi le lacrime che le si stavano affacciando. Alex gliene porse uno di tela stirato di fresco. «Laurie», la esortò mentre lei lo prendeva dalla sua mano con un sorrisetto di gratitudine, «non fa male lasciarsi andare ogni tanto.» «Ma io non posso», mormorò lei. «Il giorno che mi lascio andare, mollo tutto per sempre. Sento quella minaccia che mi rimbomba continuamente nelle orecchie. L’unico modo che ho per preservare il lume della ragione è sperare che Occhi Blu mantenga la sua promessa e che uccida prima me. Forse quando lo farà lo prenderanno. E se riuscirà a non farsi catturare, forse mio padre e Timmy potranno cambiare identità e scomparire, chi lo sa? Ma se ci trovassimo allo scoperto insieme io e Timmy? O se morissi io e non ci fosse mio padre a proteggere Timmy?» Alex non trovò una risposta che valesse la pena darle. Laurie smise immediatamente di piangere, prese il portacipria dalla borsetta e si ritoccò gli occhi. Quando si girò verso di lui, nella sua voce non c’era traccia di stress. «Meglio che lei faccia quella sua telefonata, Alex», lo sollecitò. «‘Il signor Rob’ ci aspetta a tavola tra quindici minuti precisi.» 67 QUANDO Robert Powell fece il suo ingresso, il capo della polizia Penn, le quattro ex neolaureate, Rod, Alex, Muriel e Laurie erano già a tavola. «Che silenzio», commentò il padrone di casa. «Ma posso capire, la tensione è notevole per tutti.» Fece una pausa guardandoli uno a uno. «Me incluso.» Si affacciò alla porta Jane con l’intenzione di entrare. «Jane, vuoi per piacere scusarci e chiudere la porta? Ho alcune cose da dire ai miei ospiti.» «Senz’altro, signore.» «Dunque», cominciò Powell dopo che Jane si fu ritirata, «nessuno di voi ha notato che questa giornata così bella è proprio come quella di vent’anni fa? La mattina del Gala ricordo che ero seduto a questo tavolo con Betsy. Ci congratulavamo l’un l’altro per aver azzeccato una giornata di tempo così perfetto. Chi di noi avrebbe mai immaginato che l’indomani mattina Betsy sarebbe stata trovata morta, assassinata da un intruso?» Fece una pausa. «O forse non da un intruso?» Attese, ma nessuno si azzardò ad aprire bocca. «Bene», riprese Powell in tono vivace, «vediamo se ho ben chiara la situazione. Oggi pomeriggio verranno intervistate prima Regina e poi Nina. Verso le quattro e mezzo le quattro donne indosseranno vestiti da sera in tutto e per tutto identici a quelli che portavano quella sera e saranno fotografate sullo sfondo di sequenze riprese durante il Gala. Accanto a lei, in piedi, Alex, ci sarà il mio buon amico George Curtis a dare le sue impressioni su quella serata.» Guardò Laurie. «Fin qui tutto giusto?» «Sì», confermò lei. Powell sorrise. «Domani mattina sarò io a farmi intervistare da lei, Alex, alla presenza delle quattro ospiti d’onore. Spero e mi aspetto che troverete tutto molto interessante. Una persona in particolare.» Il suo sorriso si assottigliò. «Quanto a questa notte, tutte le persone ora intorno al tavolo con la sola eccezione del capo Penn, saranno ospiti di casa mia. Finito di girare l’ultima scena, le protagoniste dello show saranno individualmente riaccompagnate ai rispettivi alberghi. Farete i vostri bagagli e lascerete l’albergo. I bagagli verranno caricati sulla vostra macchina. Cenerete per conto vostro dovunque preferiate, naturalmente a mie spese, ma siete tutte pregate di rientrare per le undici. A quell’ora berremo insieme il bicchiere della staffa e andremo tutti a dormire. Desidero che tutti siano perfettamente presenti per quanto ho da dichiarare domani. Siamo intesi?» Questa volta, sempre in silenzio, tutti annuirono. «Domani, all’ora di pranzo, vi consegnerò gli assegni che vi sono stati promessi. Dopodiché una di voi potrebbe voler usare quei soldi per comprare l’assistenza del signor Buckley.» Rivolse loro un sorriso maligno. «Scherzavo, naturalmente», aggiunse. Si girò verso Nina. «Nina, non sarà necessario che tua madre torni in albergo con te. Questa sera io e Muriel usciamo a cena insieme. È ora di lasciarci il passato alle spalle.» Muriel rivolse a Powell un sorriso adorante, poi scoccò un’occhiata di trionfo alla figlia. «E ora basta parlare d’affari. Godiamoci il pranzo. «Jane», chiamò. «Ora può tornare. So che ha preparato una vichyssoise. Nessuno può affermare di aver veramente vissuto se non ha ancora assaggiato la vichyssoise di Jane. È puro nettare degli dei.» Fu servita nel silenzio più assoluto. 68 USCITA dalla sala da pranzo, Regina attraversò il patio diretta al pulmino del trucco. La temperatura all’esterno era in netto contrasto con l’ambiente fresco della casa, ma il caldo le fu di conforto. Dopo aver ascoltato il complicato programma stabilito da Robert Powell per il resto di quella giornata e l’indomani mattina, era sicura di una cosa soltanto: aveva il messaggio suicida di suo padre. Quale prova più schiacciante si poteva desiderare per inchiodarla come l’assassina di Betsy? Per ventisette anni, anche sotto giuramento, aveva ripetutamente sostenuto che quel messaggio non era mai esistito, né sul corpo di suo padre, né nelle immediate vicinanze. Chi avrebbe potuto avere un movente più logico per uccidere Betsy? si domandava. E non c’era dubbio che Robert Powell fosse deciso a risolvere una volta per sempre il mistero della morte della moglie. Era quello lo scopo per cui aveva finanziato il programma. Passò oltre la piscina. Con quell’acqua cristallina che rifletteva il sole e i colori vivaci delle sedie a sdraio tutt’attorno, aveva un che di scenografia teatrale. Negli inviti, tutte erano state sollecitate a portare con sé dei costumi da bagno. Non lo aveva fatto nessuna di loro. E comunque la pool house, una replica in piccolo della villa padronale, non veniva usata da nessuno oltre il giardiniere, l’uomo che vedeva entrare e uscire incessantemente con il compito di prendersi cura del giardino. Arrivata al pulmino, esitò per qualche istante prima di aprire lo sportello. All’interno Meg era in attesa davanti al ripiano con i cosmetici allineati in buon ordine. Poco distante Courtney stava leggendo davanti al suo tavolo di spazzole, spray e asciugacapelli. Qualche ora prima Courtney aveva detto a Regina che non c’era donna al mondo che non avrebbe fatto carte false per avere quel casco di riccioli compatti. «E scommetto che lei li considera una seccatura per la velocità con cui ricrescono.» Esattamente, aveva pensato Regina. Evitò di guardare la parete di sinistra dov’erano stati appesi gli ingrandimenti di lei e delle altre neolaureate al Gala. Non aveva bisogno che le foto le ricordassero come erano. Claire senza una traccia di trucco, i capelli raccolti in una coda di cavallo, il vestito a collo alto con maniche fino ai gomiti. Alison con l’abito da sera confezionato dalla madre, sarta di talento che realizzava tutti i suoi capi: il padre di Alison dirigeva il reparto ortofrutticolo in un grande magazzino di generi alimentari. Nina, con la sua scollatura generosa, i capelli rosso fiamma, il trucco applicato con maestria. Sempre così sicura di sé, pensò Regina. E io ero quella più elegante. Dopo che abbiamo perso tutto, la mamma è andata a lavorare da Bergdorf. Anche se quel vestito era scontatissimo, non ce lo potevamo comunque permettere. Ma lei ha insistito. «Tuo padre te lo avrebbe comprato», mi ha detto. Solo allora Regina si accorse di non aver rivolto la parola né a Meg né a Courtney. «Salve a tutte e due», esclamò. «Non prendetemi per matta. Stavo solo pensando all’intervista.» «Anche Claire e Alison erano nervose», rispose ridendo Meg. «Per forza, questo è un programma che verrà trasmesso in tutto il mondo.» Regina prese posto al tavolino di Meg. «Grazie di avermelo ricordato», commentò mentre Meg le agganciava intorno al collo una mantellina di plastica. Quella mattina, per la posa da scattare nello studio delle quattro donne dopo il ritrovamento del corpo e l’arrivo della polizia, Meg aveva scelto un trucco molto leggero e Courtney aveva sistemato i capelli in maniera che fossero un tantino spettinati, come quella mattina dopo la morte di Betsy. Indossavano tutte indumenti di propria scelta. «Vestitevi comode», aveva consigliato loro Laurie. Regina aveva scelto una giacca di lino blu scuro, top bianco e pantaloni larghi. Come ornamento aveva solo il filo di perle che le aveva regalato suo padre per il quindicesimo compleanno. Ora guardò nello specchio i gesti sicuri con cui Meg cominciava ad applicare, fondotinta, blush, ombretto, mascara e rossetto. Alle sue spalle Courtney usò pochi colpi di spazzola per crearle una mezza frangia sulla fronte con le ciocche laterali fermate dietro le orecchie. «Sei bellissima», dichiarò. «Molto attraente», fece eco Meg. Mentre Meg toglieva a Regina la mantellina di plastica, Jerry aprì lo sportello. «Ci siamo, Regina?» chiese. «Credo di sì.» S’incamminarono insieme verso la villa. «So che è nervosa, Regina», cercò di sostenerla Jerry. «Ma non c’è motivo. Ci crede se le dico che Helen Hayes ha sofferto di panico da palcoscenico tutte le sere fino al momento di entrare in scena?» «Buffo», rispose Regina. «Lei sa che ho un’agenzia immobiliare. Giusto stamattina pensavo che il giorno in cui ho ricevuto la lettera che mi invitava a partecipare a questo programma ero così sballata da aver presentato malissimo la casa che dovevo vendere. La proprietaria era una signora di settantasei anni che voleva andare a vivere in una struttura per anziani dove sarebbe stata assistita. Ho venduto la casa per lei due mesi dopo e per trentamila dollari meno di quanto avrei potuto spuntare la prima volta. Quando riceverò il compenso per questo programma, le restituirò la mia percentuale.» «Allora lei è una vera mosca bianca», commentò Jerry mentre faceva scorrere la portafinestra tra patio e cucina. Regina ricordava che quella stessa mattina, qualche ora prima, avevano bloccato l’ingresso al patio. «Non c’è nessuno fuori ora ed è scomparsa anche Jane», osservò Jerry. «Si starà prendendo una pausa anche lei, in fondo.» Dove sono le altre? si domandò Regina mentre imboccavano il corridoio diretti allo studio. Hanno paura di stare assieme? Non ci fidiamo l’una dell’altra, pensò. Ciascuna di noi aveva un motivo per uccidere Betsy, ma il mio è il più lampante. Nello studio l’aspettavano Laurie Moran e Alex Buckley. In disparte c’era anche Grace, l’assistente di Laurie. Un tecnico stava ancora sistemando le luci. L’operatore era al suo posto dietro la telecamera. Senza essere invitata, Regina si sedette al tavolo di fronte ad Alex. Cominciò a tormentarsi le mani. Smettila, ordinò a se stessa. Sentì Laurie che le dava il benvenuto e rispose a modo. Fu poi la volta di Alex Buckley, ma a dispetto delle parole di saluto Regina vide che aveva assunto un atteggiamento ostile. Quando tirerà fuori il messaggio suicida di mio padre? si chiese. «Prima», annunciò il regista e cominciò a contare. «Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno.» Si udì il ciak e Alex cominciò. «Ci troviamo ora in compagnia della terza delle quattro ospiti d’onore al Graduation Gala, Regina Callari. «Regina, grazie d’aver accettato di essere con noi in questo programma. Lei è cresciuta in questa città, vero?» «Sì.» «Eppure da quel che so non vi ha più rimesso piede da quando andò via poco dopo il Gala e la morte di Betsy Bonner Powell, giusto?» Devi mostrarti calma, ricordò a se stessa Regina. «Come certamente le hanno spiegato le altre, tutte e quattro venivamo trattate da indiziate di omicidio. In una situazione del genere, lei sarebbe rimasto qui?» «Poco dopo si trasferì a vivere in Florida. Venne con lei anche sua madre?» «Sì, più tardi.» «Quando è morta era ancora molto giovane, vero?» «Stava per compiere cinquant’anni.» «Com’era?» «Era una di quelle donne che si dedicano a fare del bene, ma non le andava di mettersi in mostra.» «Com’erano i rapporti con suo padre?» «Anime gemelle.» «Di che cosa si occupava suo padre?» «Acquistava aziende in difficoltà, le rimetteva in piedi e le vendeva realizzando enormi guadagni. Era bravissimo.» «Ci torneremo sopra più tardi. Ora desidero parlare della notte del Gala cominciando da quando eravate tutte insieme nello studio.» Laurie ascoltò e osservò Regina raccontare la stessa storia delle sue amiche. Avevano bevuto molto. Avevano discusso della serata, avevano riso dell’abbigliamento di alcune delle invitate più anziane. Alla fine Regina descrisse il ritrovamento del cadavere di Betsy usando praticamente le stesse parole delle compagne che l’avevano preceduta. «Eravamo giovani. Si sa naturalmente che tutte noi avevamo i nostri motivi per non amare particolarmente i Powell», stava dicendo Regina. «Ma io ricordo che quella sera ero serena e rilassata e contenta di essere con le mie amiche. Abbiamo continuato a riempirci i bicchieri di vino e a uscire a fumare nel patio. Persino Claire scherzava su quant’era pedante il suo patrigno sul fumo. ‘Vi prego’, diceva, ‘non accendete la sigaretta finché non siete in fondo al patio dall’altra parte. Rob ha il naso di un segugio.’ «Parlavamo dei nostri progetti. Nina andava a Hollywood. Era sempre la protagonista principale nelle rappresentazioni al liceo e al college e poi naturalmente sua madre faceva l’attrice. Scherzò persino sul fatto che sua madre la tormentava ancora per aver chiamato Claire e Betsy al loro tavolo quando erano al ristorante. È così che Betsy conobbe Rob.» «E Claire come reagì?» chiese subito Alex. «Le ha detto: ‘Sei fortunata, Nina’», rispose Regina. «Secondo lei che cosa intendeva?» «Ho le mie teorie», replicò con sincerità Regina. «Ma sono solo congetture.» «Torniamo un po’ più indietro», propose Alex. «Ho visto delle foto di casa sua. Era davvero molto bella.» «Lo era», concordò Regina. «E soprattutto era una casa comoda e accogliente.» «Ma poi suo padre investì nel fondo di Robert Powell e tutto cambiò.» Regina capì al volo dove stava andando a parare. Fa’ attenzione adesso, si ammonì, perché sta costruendo il movente per il quale a uccidere Betsy saresti stata tu. «Dev’essere stato difficile non provare risentimento per il fatto che con quell’investimento suo padre aveva perso praticamente tutto quello che aveva.» «Mia madre era rattristata ma senza rancore. Mi disse che mio padre aveva l’animo del giocatore d’azzardo e che più di una volta metteva troppa carne al fuoco. D’altra parte non era mai stato avventato.» «Ma lei ha conservato un buon rapporto con Claire, vero?» «Sì, finché non ce ne siamo andate via tutte da Salem Ridge. Credo che dopo la morte di Betsy ci fosse tra noi il tacito accordo di non tenerci in contatto.» «Che effetto le ha fatto rimettere piede in questa casa dopo la morte di suo padre?» «Sono stata qui molto raramente. Non credo che a Rob Powell facesse piacere vedere le amiche di Claire. Ci si incontrava caso mai a casa dell’una o dell’altra.» «Allora perché aveva voluto organizzare il Gala per tutte e quattro?» «Credo che fosse un’idea di Betsy. Alcune delle sue amiche davano dei party per festeggiare la laurea delle loro figlie. Betsy ha voluto surclassarle.» «In che stato d’animo era la notte del Gala?» «Avevo nostalgia di mio padre. Pensavo a quanto sarebbe stata perfetta quella bella serata se fosse stato ancora vivo. Era stata invitata anche mia madre e posso dire di aver visto nei suoi occhi che i suoi pensieri erano simili ai miei.» «Regina», incalzò Alex, «fu lei a scoprire il corpo di suo padre quando aveva quindici anni.» «Infatti», rispose a bassa voce Regina. «Sarebbe stato più facile per voi se avesse lasciato un messaggio? Se si fosse scusato di essersi tolto la vita e di aver perso tutti quei soldi? Se avesse scritto un’ultima volta quanto vi aveva voluto bene? Crede che sarebbe stato d’aiuto a lei e a sua madre?» Il vivo ricordo di quella pedalata per il lungo viale d’accesso sentendosi felice, con l’aria salmastra a riempirle ancora le narici, del momento in cui premeva il pulsante di apertura del portellone del garage e vedeva il suo amato padre quarantacinquenne appeso al cappio con una mano stretta sulla corda, forse per aver cambiato idea quand’era ormai troppo tardi, incrinò la fragile compostezza di Regina. «Crede che un messaggio avrebbe potuto cambiare qualcosa?» chiese con la voce strozzata. «Mio padre era morto.» «Ha mai ritenuto Robert Powell responsabile della morte di suo padre che aveva perso tutto investendo nel suo fondo?» A quel punto quel che restava della sua compostezza crollò del tutto. «Ritengo responsabili tutti e due. Betsy è colpevole d’aver ingannato mio padre tanto quanto lo aveva fatto Powell.» «E lei come fa a saperlo, Regina? Sarà forse perché suo padre aveva in effetti lasciato un messaggio?» Alex attese, ma qualche secondo dopo tornò alla carica. «Lo aveva lasciato un messaggio, vero?» Regina sentì la propria voce mormorare debolmente: «No... no... no», sotto lo sguardo dell’avvocato che la fissava con un atteggiamento comprensivo ma insieme inquisitorio. 69 DOPO aver ascoltato la telefonata di Laurie a suo padre, l’eccitamento di Bruno salì a livello di batticuore. Rifletté con gioia febbrile come ogni cosa si stesse evolvendo nel senso da lui desiderato. Leo Farley sarebbe rimasto in ospedale fino all’indomani mattina. Leo e Laurie avrebbero ricevuto insieme in ospedale la telefonata di Timmy. Due ore dopo vado a prendermelo, pensò Bruno. Leo aveva già avvertito il direttore del campo di essere stato ricoverato. Bruno si sarebbe presentato vestito da poliziotto. Un giochetto, niente di più facile. E se anche alla fine dovessero prendermi, pazienza, ne è valsa la pena. Il caso di «Occhi Blu» aveva meritato l’attenzione dei mass media per anni e se ne parlava ancora. Se solo sapessero che mi sono fatto cinque dannati anni di prigione dopo aver ucciso il marito di Laurie. E solo per una rognosa violazione della libertà vigilata. Ma a suo modo è stato meglio così. Leo Farley e sua figlia hanno vissuto per cinque anni nell’incubo di non sapere quando e come avrei colpito di nuovo. Ma da domani non dovranno più aspettare. Bruno intascò il cellulare e uscì in tempo per vedere la macchina del capo della polizia fermarsi dietro i pulmini della TV. Era venuto per pranzo. Bruno si allontanò nella direzione opposta, arrivando fino al primo green del campo da golf, in modo che lo sbirro non avesse la possibilità di distinguere bene la sua faccia. Una cosa che Bruno aveva imparato era che gli sbirri avevano una memoria da elefante per le fisionomie, anche se una persona era invecchiata o si era rasata o fatta crescere barba, baffi o basette. A parte quegli idioti che mettono la propria foto su Facebook. Rise a voce alta a quel pensiero. Un’ora dopo stava esaminando con attenzione le aiuole ai bordi della vasca della piscina quando vide l’auto della polizia che ripartiva. Voleva dire che lo sbirro non si sarebbe più visto fino all’indomani. Giusto in tempo per il Gran Finale, pensò soddisfatto Bruno. 70 DOPO pranzo Nina e Muriel non si parlarono. Muriel aveva evidentemente chiesto a Robert Powell di metterle a disposizione un’automobile per il pomeriggio, perché ce n’era una ferma davanti all’ingresso che la stava aspettando. Nina sapeva che cosa significava. I costosi capi d’abbigliamento che sua madre aveva comprato usando la sua carta di credito stavano per essere messi in naftalina e sostituiti con altri nuovi di zecca, tutti comunque sempre acquistati con i soldi di Nina. Salì in camera a riordinare i pensieri prima di essere chiamata per la sua intervista. Anche la sua stanza, come le altre, era spaziosa, con una zona conversazione composta da divano, chaise longue, tavolino e televisore. Si sedette sul divano a contemplare il tessuto color crema dietro la testiera del letto, le cui guarnizioni riprendevano quelle delle tende, il tappeto armonizzato con la moquette e coordinato con le federe dei guanciali. Il tocco di un architetto d’interni raffinato, pensò. Ricordò che un anno circa prima di morire, Betsy aveva commissionato una ristrutturazione completa. Era stata Claire a raccontarlo alle amiche. «Mi è stato chiesto di portarvi a vedere la stanza nuova», aveva detto Claire. «Mia madre vuole che nessuno si perda il giro turistico.» Il «giro turistico» era avvenuto dopo la sua morte. Peraltro un’amica che nella sua stessa università si stava specializzando in legge le aveva spiegato che, se qualcuno fosse stato accusato della morte di Betsy, quel particolare sarebbe stato un elemento utile alla difesa: erano moltissime le persone che conoscevano bene la planimetria della villa... e sapevano che Betsy e Robert dormivano in camere separate. Cosa succederà? si chiese Nina. Sono sicura che Robert stia bluffando. Si sta prendendo gioco di mia madre che come al solito la farà pagare a me. Davvero saprebbe essere così vendicativa da sostenere di averle confessato di aver ucciso Betsy? No, concluse, non arriverebbe mai fino a quel punto, nemmeno lei. O mi sbaglio? Squillò il suo telefono. Quando lo prese sgranò gli occhi riconoscendo il numero. «Pronto, Grant?» rispose. Il calore che sentì nella voce di Grant nel pronunciare il suo nome non era solo cordialità. Le disse di non prendere nessun impegno per sabato sera. Voleva che andasse con lui a un ricevimento a casa di Steven Spielberg. Con Grant a un party a casa di Steven Spielberg! Voleva dire mescolarsi alla crème de la crème di Hollywood. E se sua madre avesse dichiarato che le aveva confessato di aver ucciso Betsy? O, quasi altrettanto orribile, fosse tornata in California con lei a riprendere da dove avevano lasciato, avendola sul collo, sbraitandole addosso da mattina a sera, vivendo in una casa che sembrava una stamberga, in mezzo a bicchieri sporchi abbandonati dappertutto, in una soffocante nuvola di fumo di sigarette. «Non vedo l’ora di averti al mio fianco sabato sera», mormorò Grant. Adesso non fare come Muriel, non fare la sdolcinata e non metterti a scodinzolare come un cagnolino, ammonì se stessa Nina. «Anch’io non vedo l’ora, Grant», rispose evitando di manifestare un entusiasmo eccessivo. Chiusa la comunicazione, Nina rimase immobile al suo posto, momentaneamente estranea a tutto ciò che la circondava. Non so in che modo lo farà, ma di sicuro mia madre mi rovinerà il resto della vita, pensò. Il telefono squillò di nuovo. Era Grace. «Nina, vuole per piacere scendere al trucco?» la chiamò. «Saranno pronti per la sua intervista tra mezz’ora circa.» 71 CONCLUSA l’intervista a Regina, Laurie e Alex si trattennero nello studio a discuterne. «Sono stato troppo duro con Regina?» volle sapere Alex. «No, non direi», rispose lentamente Laurie. «Ma alla fine credo che nessuno che abbia seguito l’intervista dubiti più dell’esistenza di un messaggio suicida. Ma perché una ragazzina di quindici anni avrebbe dovuto nasconderlo?» «So già che lei si è fatta un’idea», rispose Alex. «Non creda che non mi sia accorto che tutte le volte che mi chiede un parere, lei ha già formulato un’ipotesi per conto suo.» «Mi dichiaro colpevole.» Laurie sorrise. «La mia teoria è che in quel messaggio c’era qualcosa che Regina non voleva che sua madre leggesse e che si tratti di qualcosa che riguarda Betsy. Forse che suo padre aveva una relazione con lei. Così la vedo io. Ricorda quando Regina ha detto che i suoi genitori erano ‘anime gemelle’?» «E questo apre un’altra inquietante prospettiva, la possibilità cioè che Betsy abbia influenzato il padre di Regina a prendere l’incauta decisione di investire tutto quello che aveva nel fondo di Powell», ipotizzò Alex. «Questo non costituirebbe un forte movente perché Regina possa aver colto l’occasione favorevole che le si offriva di punire Betsy?» «Se fossi nei suoi panni e avessi perso i miei genitori e tutto quello che avevo per colpa di Betsy Powell», gli rispose Laurie, «io potrei uccidere. So che potrei.» «Lei pensa di poterlo fare», la corresse Alex. «Ma ora mi racconti che cosa ha pensato del discorsetto di Robert Powell a pranzo. Io per parte mia le dirò subito che secondo me è un bluff, ma se qualcuno di quelli che erano seduti intorno a quella tavola ha veramente ucciso Betsy Powell, può aver creduto alla sua minaccia. Certo che il suo è un gioco altamente pericoloso.» 72 NINA si guardò nello specchio mentre Meg le agganciava dietro il collo la mantellina di plastica. «Attenta, Meg», avvertì la truccatrice, «oggi vi è stato detto di farci sembrare delle bambolotte.» «Ci è stato chiesto di farvi sembrare com’eravate la mattina in cui avete trovato Betsy morta nel suo letto», la contraddisse Meg senza scomporsi. «E già allora lei spiccava su tutte le altre.» «Diciamo che ero passabile, ma per questa intervista voglio che mi faccia somigliare un po’ a lei.» Così dicendo, Nina le mostrò una foto che ritraeva Grant in compagnia di Kathryn, la moglie defunta. Meg studiò attentamente la foto. «Le somiglia di già», commentò. «Perché voglio assomigliarle», dichiarò Nina. Aveva cercato in Internet tutto quello che c’era su Grant Richmond. Nonostante la grande notorietà come uno dei principali produttori di Hollywood, conduceva una vita appartata dietro le quinte. Si era sposato a ventisei anni, quando sua moglie ne aveva ventuno. Due anni prima, dopo trent’anni di vita coniugale, sua moglie era morta in seguito a un difetto cardiaco congenito che si portava dietro da sempre. Niente figli e nemmeno l’ombra di uno scandalo. Dunque Grant era un monogamo naturale ed era solo da due anni. Probabilmente adesso cominciava ad avere di nuovo bisogno di compagnia. Ed era vicino ai sessanta. Nina richiamò una seconda immagine dall’archivio del suo telefonino. «E questa a chi somiglia?» domandò. Meg osservò per qualche attimo la foto. «È la stessa di prima, Nina. O è una parente?» Nina annuì soddisfatta. Non sono solo una brava imitatrice, le assomiglio davvero. «No, Meg», ribatté, «non è una parente, ma quando mi trucca voglio assomigliare a lei.» «Allora devo rinunciare all’eye-liner pesante e all’ombretto.» «A me sta bene.» «Ecco fatto», annunciò Meg mezz’ora dopo. Nina si controllò nello specchio. «Potrei essere sua sorella», si compiacque. «Perfetto.» «Tocca a me adesso, Nina, si sta facendo tardi», intervenne Courtney. «Lo so.» Nina si spostò da lei. Le mostrò la sua foto. «E in questa aveva i capelli corti», disse a Courtney. «Non voglio che lei tagli i miei, però.» «Non lo farò», rispose la parrucchiera. «Li pettino in maniera da ottenere lo stesso effetto.» Cinque minuti dopo Jerry bussò allo sportello del pulmino. Quando entrò, rimase interdetto davanti alla trasformazione di Nina. «Pronta, Nina?» chiese quando si fu ripreso. «Sono pronta.» Nina si diede un’ultima occhiata allo specchio prima di alzarsi. «Queste sono due maghe», commentò. «Non è d’accordo anche lei, Jerry?» «Sottoscrivo», rispose lui con sincerità. «Nel senso che non c’è nessuno più bravo di loro a cambiare look a una persona», si affrettò ad aggiungere. Nina rise. «Buon per lei che ha fatto questa precisazione.» Mentre procedevano verso la villa, Jerry confrontò mentalmente le quattro donne. Nina era quella che gli piaceva di più. Le altre sembravano imprigionate nel proprio guscio. Considerato che erano state amiche del cuore fino ai ventun anni, era strano quanto poco avessero da dirsi adesso. Quando erano nel patio tra una ripresa e l’altra, ciascuna di loro si appartava con un libro o uno smartphone. Per la verità era quello che faceva anche Nina, se non quando Muriel pretendeva di chiacchierare. Dava sempre retta a sua madre quando Muriel cominciava a tessere gli elogi di Robert Powell e a proclamare il suo incommensurabile affetto per Betsy. Era come se Muriel sperasse sempre di essere sentita da Powell, pensò Jerry. Recita sopra le righe. Con tutta la gente che ho visto esibirsi su un set o un altro, credo di saperne qualcosa. Stavano passando davanti alla piscina. «Una giornata come questa meriterebbe una nuotatina», osservò. «A lei non piacerebbe tuffarsi?» «Di sicuro mi piacerebbe fare due bracciate nella piscina del mio centro residenziale», ammise Nina. «È una cosa che faccio tutti i giorni, o di sera se lavoro fino a tardi.» Che cosa dire? si chiedeva intanto. Che genere di domande mi faranno? Cosa succederà domani quando Robert Powell ci congederà? Mia madre approfitterà di quell’occasione per giurare che le ho confessato di aver ucciso Betsy e reclamare la ricompensa? Puoi scommetterci! Non glielo permetterò. Jerry non tentò di protrarre la conversazione. A differenza di Regina, Nina non sembrava nervosa, ma vedeva che era assorta nei suoi pensieri, evidentemente si stava preparando per l’intervista. «Ecco il torbido Fantasma della Pool House», esclamò all’improvviso Nina sorprendendolo. Indicò Bruno, che si trovava in giardino dietro la villa. «Cosa sta facendo? Da la caccia agli insetti sulle piante?» Jerry rise. «Il signor Powell è una persona molto pignola. Pretende che tutta la proprietà sia sempre in condizioni perfette. Ieri, quand’eravamo qui fuori a scattarvi delle foto, avrebbe dovuto vedere gli occhi che ha fatto per le tracce che avevamo lasciato nell’erba. Dopodiché il Fantasma della Pool House, come lo ha definito lei, si è precipitato fuori a rimettere tutto a posto.» «Ah, certo, ricordo bene che razza di perfezionista era!» sbottò Nina. Quell’ultima sera, quando continuavamo a entrare e uscire dallo studio per fumare nel patio, rammentò, al momento di spegnere la sua ultima sigaretta Regina mancò deliberatamente il posacenere e schiacciò il mozzicone sul ripiano del tavolo. Credo di essere stata l’unica a vederla. Devo raccontare questa storia all’intervista? Anche questa volta nel patio e in cucina non c’era nessuno. Grant guarderà di certo il programma quando verrà trasmesso, si disse Nina mentre percorreva con Jerry il corridoio verso lo studio. Io ero di certo quella che aveva meno motivi di voler uccidere Betsy. Nessuna persona sana di mente sospetterebbe di me. Il fatto che mia madre mi ritenga responsabile di averli presentati non potrebbe mai diventare il movente di un omicidio. Sostò per un momento davanti alla porta dello studio. Bene, ormai ci siamo, pensò. Là dentro c’erano Alex e Laurie ad aspettarla. Chissà come si sentivano le altre arrivate davanti a quell’uscio? Nessuna di loro aveva provato lo stesso terrore che stava provando lei in quel momento? Coraggio, io sono un’attrice, saprò come giocarmela. Entrò, sorrise, e andò a sedersi davanti ad Alex assumendo l’atteggiamento di chi è sicuro di sé e non ha nulla da temere. «La tragica sera del Graduation Gala, Nina Craig fu l’ultima delle neolaureate a essere festeggiata», iniziò Alex. «Nina, grazie di essere qui con noi oggi.» Nina, con la bocca improvvisamente troppo secca per riuscire a parlare, si limitò ad annuire. «Come si sente a essere di nuovo qui a Salem Ridge», domandò Alex in tono amichevole e con un sorriso cordiale sulle labbra, «nuovamente in compagnia delle sue vecchie amiche dopo vent’anni?» Nina si era ripromessa di essere sincera fin dove le era consentito. «È una sensazione strana, non saprei descriverla. Sappiamo tutte perché siamo qui.» «Perché, Nina?» «Per cercare di dimostrare che nessuna di noi ha ucciso Betsy Powell», rispose lei. «E che Betsy fu assassinata da un estraneo entrato di nascosto. D’altra parte sappiamo tutte e quattro che voi sperate che una di noi si lasci andare a una confessione o si tradisca. Certamente è quello che si augura Robert Powell. E ovviamente non mi sento di biasimarlo.» «E questo che reazione provoca in lei, Nina?» «Di rabbia. Di autodifesa. Ma sono sentimenti che abbiamo provato tutte e quattro in questi ultimi vent’anni, quindi non è una novità. Si può ben dire che ho imparato a mie spese che ci si può abituare a tutto.» Mentre la ascoltava e osservava, Laurie trovò difficile nascondere la sorpresa. Nina Craig non reagiva alle domande di Alex nel modo in cui tutti si erano aspettati. Lei aveva previsto un atteggiamento più bellicoso. Nina in fondo era quella che meno di tutte avrebbe avuto ragione di soffocare Betsy, invece ora il suo atteggiamento era quasi di rammarico, persino nel confessare d’aver provato rabbia. E sembra anche diversa, rifletté Laurie. Il suo look è meno spigoloso di prima. E perché poi si è fatta acconciare i capelli in maniera che sembrino più corti? In tutte le ricerche che ho svolto su di lei, non ho mai visto una sua immagine in cui non avesse i capelli sciolti. Ha in mente qualcosa, ma cosa può essere? Nina stava raccontando ad Alex della sua infanzia. «Alex, come ovviamente sa, Muriel Craig, mia madre, è un’attrice. Si può dire che in un certo senso io sia nata in una valigia. A quei tempi eravamo sempre in giro.» «Come faceva per gli studi?» «Non è stato facile, ma tra una costa e l’altra, tra Los Angeles e New York, sono riuscita a finire le medie inferiori.» «E suo padre? So che i suoi genitori hanno divorziato quando lei era ancora molto giovane.» Non la sopportava neanche lui, pensò Nina. Ma lui è riuscito a liberarsene alla svelta. «Si erano sposati giovani e hanno divorziato quando io avevo tre anni.» «Lo ha visto spesso dopo il divorzio?» «No, però ha contribuito a mantenermi al college.» Un pochino, pensò, molto poco, quel tanto che mamma riuscì a spremergli davanti al giudice. «La verità è che praticamente non l’ha più visto dopo che i suoi divorziarono, non è così, Nina?» «Ha tentato anche lui la ventura come attore, non ce l’ha fatta, si è trasferito a Chicago, si è risposato e ha avuto quattro figli. Non c’era molto spazio per me.» Ma dove vuole andare a finire giù per questa via? si chiese ora sulle spine Nina. «Dunque lei è stata costretta a crescere in mancanza di una figura paterna, giusto?» «Mi sembra evidente.» «Nina, come mai lei e sua madre siete venute a vivere a Salem Ridge?» «Perché mia madre aveva una relazione con Robert Powell.» «Ma non è anche vero che le fu offerto il ruolo di protagonista in un pilot che diventò un serial andato in onda per sei anni e di cui ancora non hanno smesso di trasmettere le repliche?» «Sì, è vero. Ma Powell le aveva detto che non avrebbe sposato una donna che fosse stata tutto il giorno impegnata sul lavoro.» «Anche quando la relazione con Powell finì, voi due rimaneste a Salem Ridge. Mi sembra curioso.» «Non capisco perché. Mia madre aveva affittato un appartamento. Accanto a noi abitava una coppia di anziani molto simpatici, i Johnson. Dopo avere rotto con Robert Powell, piovvero su mia madre una notevole serie di offerte. Io avevo cominciato il liceo. Mia madre pagò i Johnson perché badassero a me mentre lei era al lavoro.» Evita di raccontare l’angoscia della tua solitudine dopo che i Johnson mettevano dentro la testa per darti la buonanotte e ti lasciavano tutta sola fino all’indomani mattina, si raccomandò Nina. E poi quando mamma tornava dal lavoro e si metteva a lamentarsi di quanto fosse costretta a sgobbare per colpa mia. Mi mancava quando non era a casa, ma poi, quando c’era, avrei voluto che se ne andasse a lavorare in qualche angolo sperduto del pianeta. «Sua madre conservò l’appartamento in affitto fino a quando lei non ebbe finito il liceo e andò al college, giusto?» «Sì. Ormai tutti i lavori che le venivano offerti erano a Hollywood. Aveva comprato un appartamento a Los Angeles.» «Dunque lei trascorreva i periodi di vacanza da sua madre.» «Tutte le volte che potevo. Ma d’estate lavoravo e accettavo qualunque lavoro stagionale mi venisse offerto.» «Ora parliamo del Gala, Nina.» Alex le rivolse più o meno le stesse domande che già aveva fatto alle altre. E le risposte di Nina furono pressoché le stesse che aveva ricevuto dalle sue amiche. Anche lei ripeté che evidentemente il colpevole era un estraneo penetrato nascostamente nella villa. «Torniamo un attimo indietro», la invitò Alex. «Si è meravigliata quando Claire le ha telefonato per dirle che sua madre e Robert Powell volevano organizzare un Graduation Gala per voi quattro?» «Sì, ma era una bella occasione per rivedere le altre ragazze.» «Fu invitata anche sua madre?» «Sì, ma non venne.» «Perché?» «Non poteva rinunciare a un provino importante.» «Nina, non fu forse perché sul biglietto d’invito Betsy scrisse di suo pugno che lei e Robert non vedevano l’ora di riabbracciarla e che ancora benediceva lei per averla chiamata al vostro tavolo quel giorno impagabile in cui conobbe Robert?» «Lei come fa a saperlo? Chi gliel’ha detto?» «Per la verità è stata sua madre», rispose amabile Alex. «Poco prima di pranzo, oggi.» Sta preparando il terreno per il momento in cui sosterrà che le ho confessato di aver assassinato Betsy, pensò Nina. Che ci sia o no qualcuno disposto a crederle, per me comunque sarà la fine di ogni prospettiva di agganciare Grant. Che cosa le stava domandando Alex Buckley? Come poteva descrivere i suoi sentimenti per Betsy Powell? Perché non dire la verità? Perché no? «La detestavo», confessò. «Soprattutto dopo aver letto quella nota. Era cattiva. Anzi, crudele. Non c’era in lei una sola briciola di decenza, e quando l’ho vista da vicino morta, ho dovuto fare uno sforzo per non sputarle in faccia.» 73 GEORGE Curtis arrivò da Powell alle tre e mezzo. Gli era stato chiesto di indossare lo stesso completo da sera che aveva al Gala. Ne aveva uno praticamente identico nel suo guardaroba. Siccome faceva molto caldo, portò con sé un appendino con lo smoking bianco, la camicia e il farfallino protetti da una busta di plastica. Prima di andare al club a giocare a bridge con le sue amiche Isabelle lo mise in guarda. «Tieni presente che, anche se tu pensi di aver tenuto ben nascosta la tua storiella extraconiugale, se mi sono insospettita io, non ti pare probabile che anche altri abbiano subodorato qualcosa? Forse persino Rob Powell, vero? Sta’ attento, allora, vedi di non cadere in qualche trabocchetto. Tu sei quello che più di tutti aveva motivo di desiderare la morte di Betsy.» Poi, con un bacio e un guizzo della mano, salì sulla cabriolet. «Isabelle, ti giuro...» aveva provato a ribattere. «Lo so», aveva tagliato corto lei. «Ma ricorda, tu non devi convincere me e comunque non mi importerebbe niente se lo facessi. Tu devi solo preoccuparti di non metterti nei guai.» La temperatura si era un po’ abbassata, ma faceva ancora molto caldo. George parcheggiò nel viale d’accesso, prese la gruccia con gli indumenti e girò intorno alla villa per entrare da dietro. Gli si presentò una scena animata. Tecnici e operatori inquadravano diversi scorci del giardino, presumibilmente i punti in cui si sarebbero trovate le quattro protagoniste dello show mentre lui avrebbe conferito in primo piano con Alex Buckley. Gli avrebbero detto che durante la sua intervista avrebbero mandato in onda anche spezzoni dei video girati durante il Gala. Appena lo vide, Laurie Moran gli andò incontro. «Grazie mille d’aver accettato, signor Curtis. Cercheremo di non trattenerla troppo a lungo. Perché non aspetta dentro casa con gli altri? Qui fuori fa troppo caldo.» «Buona idea», rispose lui. Attraversò il patio con scarso entusiasmo ed entrò nella villa. Le quattro donne erano nella sala da pranzo principale. Nei vestiti da sera che indossavano riconobbe l’estrema somiglianza con quelli con cui si erano presentate al ricevimento. Tanta eleganza e un maquillage applicato da mani sicuramente molto esperte non bastavano tuttavia a nascondere la tensione dei loro volti. Non dovette attendere a lungo. Poco dopo Grace, l’assistente di Laurie, venne ad accompagnare fuori le protagoniste. Quando tornò per lui e uscì con lei in giardino, le vide già piazzate nei punti scelti dalla produzione, ferme come statue. In fase di montaggio sapeva che dietro di loro avrebbero fatto scorrere immagini prese dai filmati del Gala originale. Si domandò cosa stessero pensando. Si domandò se tutte loro si sentissero come si era sentito lui quella sera. Era andato al Gala nel terrore che Betsy avesse il potere di mandare all’aria il suo matrimonio proprio nel momento in cui i figli per i quali lui e Isabelle avevano tanto pregato stavano diventando una realtà. Di sicuro Alison le serbava rancore. Aveva perso la sua borsa di studio per colpa della donazione che aveva fatto Rob al suo college. Di tanto in tanto capitava a George di andare a comprare qualcosa nel negozio dove lavorava suo padre e in quelle occasioni lo sentiva puntualmente elogiare lo zelo con cui studiava Alison... Non c’era nessuno in città che non avesse sentito Muriel raccontare la storia di come Betsy le avesse rubato Rob e solo per colpa di Nina. E da quel che aveva sentito in giro, Claire aveva disperatamente desiderato trasferirsi a vivere al campus del Vassar, un desiderio che Betsy e Rob avevano soffocato senza pietà. «Uno spreco di soldi quando vive in una casa bellissima», aveva dichiarato adamantina Betsy. E il padre di Regina si era tolto la vita per aver investito nel fondo di Rob. C’era forse una tra le quattro ospiti d’onore che, pur nella giostra di tanta ostentata sontuosità, avrebbe potuto evitare di provare disprezzo e rancore? E da quella notte in poi, per vent’anni, erano vissute tutte e quattro sotto la spada di Damocle del sospetto. George Curtis provò un profondo senso di vergogna. Io sì che sono tornato qui quella notte, ricordava. Era stato verso le quattro. Ero fermo proprio qui, dove mi trovo ora. Io sapevo dov’era la stanza di Betsy. Ero pazzo di paura che Betsy raccontasse di noi a Isabelle e che Isabelle mi lasciasse. Ma poi ho visto qualcuno che si muoveva nella camera di Betsy. C’era ancora una luce accesa in corridoio e quando si è aperta la porta mi è sembrato quasi di riconoscere chi fosse. E continuo a credere di sapere chi fosse. Anzi, so chi era. Quando hanno trovato Betsy morta avrei voluto dirlo, ma come avrei potuto spiegare come mai in quel momento mi trovavo lì? Impossibile. Ma se avessi confessato subito quello che avevo visto, tutte le altre persone non avrebbero dovuto subire la tortura dell’incessante sospetto per vent’anni. Si sentì colmare di senso di colpa. Alex Buckely gli stava andando incontro. «Pronti per la nostra passeggiata nel viale delle rimembranze, signor Curtis?» lo apostrofò con giovialità. 74 «COM’È andata secondo te?» chiese con ansia Laurie, salendo sulla decappottabile di Alex. Alex avviò il motore e azionò la chiusura del tettuccio. «Direi che ci vuole un po’ di aria condizionata. Per rispondere alla tua domanda, direi che è andata benissimo.» «È quello che è sembrato anche a me. Bene ma anche un po’ troppo per le lunghe. Sono già le sette meno venti e ho tanta paura che se troviamo troppo traffico non arriviamo all’ospedale in tempo per la telefonata di Timmy e papà non riuscirà a parlargli.» «Ho controllato la viabilità pochi minuti fa sul mio iPhone. Tutto tranquillo. Ti prometto che sarai all’ospedale entro le sette e mezzo.» «Finalmente siamo in dirittura d’arrivo», sospirò Laurie mentre Alex usciva dalla proprietà di Powell. «E adesso la domanda ovvia. Qual è la tua impressione su George Curtis?» «Un personaggio di classe», rispose con prontezza Alex. «Il tipo di persona che tutti ammirano. D’altra parte come potrebbe essere altrimenti? È stato sulla copertina di Forbes.» «E il fatto che sia anche più che attraente non guasta», aggiunse Laurie. «Pensaci bene. Curtis è miliardario, bello, affascinante. Mettiamolo a confronto con Robert Powell, almeno per quanto riguarda i soldi.» «Non c’è confronto, Laurie. Powell avrà un patrimonio nell’ordine del mezzo miliardo. Curtis è arcimiliardario.» «Adesso prendiamo in considerazione quella sequenza nei video del Gala in cui si vedono George Curtis e Betsy molto seri, quello dove sembra quasi che stiano litigando.» «Hai intenzione di usarlo nello sfondo, Laurie?» «No, sarebbe sleale. C’è una cosa che so però: i George Curtis di questo mondo non si lasciano immischiare in questo genere di programmi a meno che abbiano qualcosa da nascondere. Pensaci bene.» «Laurie, tu non finisci di sorprendermi. Ci ho pensato, come no. E ancora una volta sono d’accordo con te.» Laurie estrasse il telefonino. «Avverto papà che stiamo arrivando.» Leo rispose al primo squillo. «Ancora vivo», annunciò. «Ora sto guardando Arcibaldo. Un altro classico glorioso. Dove sei?» «Sto arrivando. Finora c’è poco traffico.» «Hai detto che ti accompagna qui Alex Buckley e che poi torni alla villa di Powell?» «Sì.» «Non lasciarlo a girarsi i pollici in macchina. Portalo su. Mi fa piacere conoscerlo.» Laurie lanciò un’occhiata ad Alex. «Ti va di conoscere mio padre?» «Certo che sì.» «Alex accetta con piacere, papà. Ci vediamo.» 75 BRUNO ascoltò l’intercettazione mentre stava indossando l’uniforme da poliziotto. Countdown! esultò tra sé. Dopo tutti questi anni finalmente mi posso vendicare. Ci saranno pianti sconsolati e digrignamento di denti, pensò. Oh, Leo, come ti sentirai triste. Tua figlia. Tuo nipote. E tutti quei poveretti a frugare negli archivi degli ospedali per vedere se il dottore aveva sbagliato un intervento su un paziente. E no, caro Leo, sei stato tu quello che ha fatto lo sbaglio. Quando eri un giovane sbirro di quelli tosti. Troppo tosto. Avresti potuto chiudere un occhio quando mi hai arrestato, invece no. Hai fatto a pezzi la mia vita. Mi sei costato trent’anni di galera e poi altri cinque per buona misura. Andò a piazzarsi davanti allo specchio grande sull’anta dell’armadio a muro del suo squallido appartamentino. Lo aveva affittato mensilmente perché, come aveva spiegato al padrone, voleva aspettare che il suo lavoro alla Perfect Estates diventasse stabile. Il padrone, felice di evitare per il momento le riparazioni necessarie, era stato ben felice di accettarlo. Se scomparissi all’improvviso non si girerebbe neppure indietro, pensava ora Bruno, soprattutto visto che gli ho pagato tutto il mese e lascerò che si tenga pure la caparra. Sa il cielo poi che altri danni si potrebbero fare a una topaia come questa, concluse Bruno. 76 MENTRE Laurie e Alex andavano via, i tecnici riponevano l’attrezzatura. Le quattro protagoniste dello show avevano tolto i vestiti da sera e tutte e quattro avevano rifiutato l’offerta di conservarli. «Laurie desidera veramente che li teniate», spiegò Jerry. «E sappiate che sono costati parecchio.» Fu Nina a parlare per tutte. «E sono giusto quello di cui abbiamo bisogno, tanto per non dimenticare mai quella sera.» Le macchine che dovevano trasportarle ai rispettivi alberghi erano già in attesa. Quando Rod e Alison arrivarono nella loro camera, furono ben felici di chiudersi la porta alle spalle. Fu allora che Rod la prese affettuosamente per un braccio. «Alie, è tutto a posto.» «Non è tutto a posto, Rod. No che non lo è. Sai che cosa c’è su quel nastro. Sai che cosa può farne Josh.» Si staccò da lui e con rabbia andò a prendere i suoi indumenti dall’armadio, li sfilò dagli appendini e cominciò a gettarli sul letto. Rod andò a sedersi sul divano e cominciò inconsciamente a massaggiarsi le ginocchia dolenti. «Adesso ci facciamo uno scotch», dichiarò con enfasi. «Poi ordineremo una cena con i fiocchi, da consumare qui in camera o fuori, scegli tu. Ordineremo i piatti più costosi del menu, con gli omaggi di Robert Powell.» «Non riuscirei a mandar giù neanche un boccone», protestò Alison. «Ordinalo lo stesso, un boccone a tua scelta.» «Rod, mi fai ridere quando non ce n’è il minimo motivo.» «Alison è per questo che sono qui», ribatté lui. In cuor suo condivideva fino in fondo tutta la preoccupazione di sua moglie per le registrazioni raccolte da Josh, non tanto per i soldi, ma piuttosto per quello che avrebbe sofferto Alie se, di nuovo per colpa di Betsy Powell, le fosse stata negata la possibilità di iscriversi a medicina. 77 REGINA ripose i pochi nuovi indumenti che aveva acquistato in vista del programma. Forse tra non molto mi resterà solo una tuta arancione, pensò mestamente. Dieci e lode a Robert Powell. Mi ha rovinato la vita quando avevo quindici anni e adesso ha la grande occasione di rovinare il poco che me ne resta ancora. Non mi meraviglierei di venire a sapere che è stato lui a ordinare a Josh di frugare nella mia borsa. Ma nel suo messaggio suo padre accusava lui e Betsy di averlo deliberatamente raggirato. Perché mai Robert avrebbe voluto esporsi in una maniera così pericolosa? No, doveva essere un’iniziativa personale di Josh. E io devo assolutamente pagarlo, pensò. Bell’ironia della sorte: mi sono messa pubblicamente nelle condizioni di diventare la prima indiziata nell’omicidio di Betsy più che se me ne fossi rimasta a casa a vendere immobili. Finì di infilare tutti i suoi effetti personali nel borsone e nella valigia grande che aveva portato con sé. E adesso? si domandò. Non mi va di chiamare il servizio in camera. Giù c’è un’auto che mi aspetta, messami a disposizione da Powell. Devo approfittarne? Sì, decise, perché no? Avrebbe chiesto all’autista di portarla alla sua vecchia casa e da lì al ristorante dove andava regolarmente a cena con i suoi genitori. Auld lang syne, pensò. 78 UN’ALTRA notte nella casa che odiava! Perché aveva voluto farsi tanto male? Era un interrogativo che l’assillava da quando era atterrato l’aereo. Era stato stupido da parte sua fare in modo da somigliare tanto a sua madre quella prima mattina? Lo aveva fatto per rinfacciargli quel «papà Rob»? Forse. E lui aveva avuto la faccia tosta di aprire la porta della sua stanza subito dopo l’intervista di quella mattina per porle proprio quella domanda. Ma perché in tutti questi anni non l’ho mai denunciato? si domandò ora. Perché non lo denuncio adesso? Conosceva la risposta. Perché la sua accusa sarebbe stata il movente perfetto con cui incriminarla dell’uccisione della madre, e perché, con il suo stuolo di avvocati, papà Rob l’avrebbe fatta passare per una bugiarda fuori di testa e sua madre sarebbe stata ben lieta di sostenere la sua tesi. C’era pure un motivo per cui era diventata assistente sociale: voleva aiutare le ragazze che si fossero trovate nella sua situazione. Ma non sono molte quelle che vengono a confidarmi che la loro madre accetta il fatto che il loro patrigno s’infili di notte nella loro stanza, pensò. E io so che finché non andrò in terapia io stessa, non riuscirò a fare un solo passo avanti nella mia vita, rifletté in questo momento Claire. È lui che mi tiene in ostaggio ancora dopo tutti questi anni. Ma aveva un modo per rifarsi. Quella sera e l’indomani mattina si sarebbe trasformata di nuovo nella riedizione della sua amata Betsy. Come se questo possa minimamente modificare il grande disegno delle cose, pensò con amarezza mentre sollevava il telefono per chiamare il servizio in camera. Chissà se Nina sverrà di nuovo quando mi vedrà. E poi perché mai proprio lei fra tutte doveva essere quella che sveniva? 79 NINA preparò i bagagli, poi si fece portare da mangiare in camera. Mentre mangiucchiava con scarso entusiasmo manicaretti inutilmente squisiti, squillò il suo telefono. Era Grant, del tutto imprevisto. «Non ho potuto resistere alla curiosità di sapere com’è andata l’intervista», esclamò. «Alex Buckley ha fama di strapazzare i testimoni.» «Be’, con me ha fatto un’esibizione da Oscar», rispose Nina. «Aspetta di vederla.» «Ehi, mi sembri molto giù.» «Certo che lo sono.» «Cerca di riprenderti, ma guarda che ti capisco. Vent’anni fa ho deposto come teste in una causa per frode. Non è stato per niente piacevole.» Piacevole! Che bella parola, pensò Nina mentre ascoltava Grant che le diceva quanto ansioso fosse di vederla e le augurava buon viaggio. Bevve un lungo sorso di vodka dal bicchiere di fianco al piatto della cena. Magari se prometto a mia madre di regalarle tutti soldi che mi avanzeranno dopo aver pagato Josh, sarà soddisfatta, pensò. Specialmente se le dico anche che uno dei più grandi produttori di Hollywood mi sta corteggiando! 80 AL Mount Sinai Hospital, le occhiate che Leo lanciava all’orologio erano sempre più impazienti. Erano le otto meno venti e Laurie non era ancora arrivata. Ma proprio quando era ormai certo che avrebbe ricevuto in macchina la telefonata di Timmy, la vide materializzarsi nel riquadro della porta. Nell’imponente individuo alle sue spalle riconobbe all’istante il celebre Alex Buckley. Laurie corse ad abbracciarlo. «Scusami tanto, papà. Dovrebbero prendere l’East River Drive e buttarlo a mare. All’altezza della Centoventicinquesima eravamo tutti imbottigliati. Nemmeno un attacco terroristico potrebbe creare un ingorgo simile.» «Calma, calma», l’ammonì Leo, «o mi finisci ricoverata anche tu qui dentro per un attacco di fibrillazioni.» Alzò gli occhi verso Alex. «Non crede anche lei, avvocato?» «Credo che sua figlia sia sotto una pressione notevole», rispose con prudenza Alex mentre avvicinava una seggiola al capezzale di Leo Farley. «Ma le posso giurare che con questo programma sta andando veramente forte.» «Adesso, prima che tu me lo chieda di nuovo, Laurie, la risposta è sì, mi sento bene, e sì, domani esco», dichiarò Leo Farley. «A che ora metti la parola fine a questa tua caccia alle streghe?» «Ehi, papà», protestò Laurie, «vedi di non mancare di rispetto al mio lavoro.» «Io ho il massimo rispetto per il tuo lavoro», ribatté lui. «Ma se fossi riuscito a farla in barba a tutti per vent’anni dopo aver ammazzato qualcuno e adesso mi trovassi sotto i riflettori dove ogni parola che dico di fronte a una platea come minimo nazionale di telespettatori verrà studiata al microscopio da tutti gli investigatori da strapazzo del Paese, potrei essere indotto a fare quello che è necessario per coprire le mie tracce.» Alex notò che entrambi i suoi visitatori continuavano a consultare l’orologio. Mancavano cinque minuti alle otto. «Timmy sta tardando», constatò Leo. «Meglio che chiami di nuovo l’ufficio su al campo e senta se non è successo qualcosa.» «Papà», esclamò Laurie, «non dirmi che hai telefonato alla direzione del campo?» «Certo che sì. Così li tengo sul chi va là e mi assicuro che non abbassino la guardia. Cosa gliene pare, Alex?» «Nella sua situazione, se io fossi il genitore o il nonno, farei esattamente lo stesso», lo confortò Alex. La suoneria del telefono di Laurie suscitò un sospiro di sollievo collettivo. Laurie non lasciò che il suo cellulare squillasse a lungo. «Ciao, Timmy», salutò in tono brioso, all’unisono con Leo. «Ciao, mamma», rispose una giovane voce gioiosa. «Avevo paura che non arrivassi in tempo a casa perché ci fosse anche il nonno con te quando chiamavo.» «Be’, siamo qui tutti e due», lo tranquillizzò Laurie. Alex ascoltò Timmy descrivere quello che aveva fatto durante il giorno. Era nella squadra «A» di nuoto. Andava perfettamente d’accordo con i tre ragazzi nella sua tenda. Il campeggio era la cosa più bella del mondo. Solo alla fine della conversazione il suo tono si fece malinconico. «Mi mancate, sai? Siete sicuri, sicuri che verrete a trovarmi il giorno di visite?» «Siamo sicuri, sicuri di venirti a trovare il giorno di visite», promise Laurie. «Puoi scommetterci che ci saremo», fece eco Leo. «Ho mai mancato a una promessa, giovanotto?» «No, nonno.» «Credi che comincerei a farlo adesso?» domandò Leo con finta severità. Il tono malinconico scomparve. «No, nonno», rispose Timmy ridendo. Dopo che si furono salutati, Laurie si rivolse ad Alex. «Sentito il mio ometto?» chiese con orgoglio. «A sentirlo direi che questo è un ragazzo in gamba», la complimentò Alex. «E adesso voglio che voi due ve ne andiate da qualche parte a mangiare qualcosa prima di tornare dal nostro Powell», intervenne Leo. «È già abbastanza tardi. Laurie, spero che dopo che avrai chiuso questo programma ti prenderai un paio di giorni.» «È l’ultima cosa che ho intenzione di fare, papà. Anzi, è quasi buffo ma la postproduzione può essere la fase più faticosa. Però devo darti ragione, questo è stato veramente estenuante sul piano emotivo. Ti confesso che spero di non essere mai sospettata d’aver commesso un delitto.» «Non temere», si fece sentire Alex. «Ti difendo io, con il dieci percento di sconto sull’onorario.» Risero tutti assieme e nel salutare Leo, Alex aggiunse d’impulso: «Mi capita di difendere certi imputati sui quali mi piacerebbe avere la sua opinione. Le va di pranzare assieme qualche volta?» «Molto volentieri», rispose Leo. «Posso venire anch’io?» chiese Laurie ridendo. «Va da sé», disse Alex, questa volta più serio. Dopo un ultimo giro di saluti, Alex e Laurie lasciarono l’ospedale. «Adoro Manhattan», sospirò Laurie quando furono in strada. «Per me è casa dolce casa.» «Anche per me», annuì Alex. «Senti, non ci aspettano di ritorno al mausoleo prima delle undici e sono solo le otto e mezzo. Perché non ce la prendiamo comoda?» «Si era parlato di un hamburger, no?» «Dimentichiamocelo. Il Marea sulla Central Park Sud è uno dei migliori ristoranti di New York. È sempre pieno, ma a quest’ora quelli che vanno a teatro hanno già finito. Ti va?» «Potrebbe non andarmi?» ribatté Laurie. Ora che si sentiva tranquilla d’aver visto che Leo stava bene e d’aver sentito Timmy così felice, sapeva di potersi godere la serata in compagnia di Alex. In quello stesso istante Bruno stava percorrendo il Tappan Zee Bridge diretto al campeggio di Timmy. 81 IN un ristorante altrettanto elegante della contea di Westchester, a una quarantina di chilometri da quello scelto da Alex e Laurie, Robert Powell e Muriel Craig sorseggiavano champagne. «Al nostro nuovo incontro», mormorò lui a bassa voce. «Rob, caro, mi sei mancato. Oh, non sai quanto.» Muriel allungò la mano verso la sua. «Perché in tutti questi anni non mi hai mai chiamata?» «Avevo paura a farlo. Quando ci siamo separati sono stato molto ingiusto con te. So che avevi rinunciato a quel serial televisivo che poi è stato un grande successo. L’avevi fatto per me e io non sapevo da che parte cominciare per farmi perdonare.» «Ma io ti ho chiamato e ti ho scritto», gli rammentò Muriel. «Cosa che mi ha fatto sentire ancora più in colpa», confessò Robert Powell. «E ancora non ti ho detto come questa sera ti trovo assolutamente irresistibile.» Muriel sapeva che era un complimento sincero. Aveva diretto lei Meg e Courtney nella scelta del trucco e dell’acconciatura e in una boutique esclusiva di Bedford aveva trovato un fantastico coordinato da sera. Nessun problema se aveva già acquistato un bellissimo completo elegante con tanto di accessori intonati all’abito in Rodeo Drive a Hollywood. Aveva sempre con sé la carta di credito di Nina. «Penso che dovremmo ordinare», stava dicendo Robert. Durante la cena alternò furbescamente complimenti a subdole domande. «Non sapevo che tu non avessi mai perdonato Nina per aver chiamato Claire e Betsy al nostro tavolo, quel giorno, Muriel.» «Avrei potuto ucciderla», confidò lei in un tono rabbioso e a un volume un po’ troppo alto. «Ero così innamorata di te.» «E io spesso ti ho pensato e mi sono rimproverato per essermi invaghito così scioccamente per poi rimpiangerlo.» Fece una pausa. «E dopo, quando la buona sorte mi ha liberato di Betsy, mi è spiaciuto di non aver saputo chi ringraziare.» Muriel parve momentaneamente sconcertata, poi si guardò intorno per assicurarsi che gli avventori ai tavoli più vicini fossero tutti assorti nelle loro conversazioni. Soddisfatta, si protese il più possibile verso Powell, finendo per sporcare di burro il risvolto della giacca nuova. «Robbie, mi stai dicendo che eri contento che qualcuno avesse soffocato Betsy?» «Giurami di non dirlo a nessuno», bisbigliò lui. «Puoi contarci, è il nostro segreto. Però tu sai che io e mia figlia Nina siamo sempre state molto unite, vero?» «Certo che lo so.» «Ebbene, era così infuriata per quello che Betsy aveva scritto sul mio biglietto d’invito, sai, che voleva che vedessi quanto voi due eravate felici e come era grata a Nina per avertela presentata...» «Tutto questo l’ho saputo solo in un secondo tempo ed è stato uno choc.» «Io ho sofferto, ma Nina era fuori di sé. Sapeva che ti amavo con tutto il cuore. Rob, io credo che a uccidere Betsy sia stata Nina. Lo ha fatto per me, lo ha fatto perché potessi avere un’altra possibilità con te.» «Ne sei sicura o è una tua ipotesi, Muriel?» Gli occhi di Robert Powell si fecero improvvisamente attenti, il tono della sua voce tagliente. Benché a non più di due spanne da lui, Muriel Craig non si accorse della trasformazione nel suo atteggiamento. «Sì che sono sicura, Robbie. Mi telefonò. Se ti ricordi io ero a Hollywood e lei piangeva al telefono. Mi ha detto: ‘Mamma, ho paura. Mi stanno facendo un sacco di domande. Mamma... io l’ho fatto per te’.» 82 JANE controllò le stanze per l’ultima volta prima dell’arrivo degli ospiti. Nello studio aveva aperto il bar e allestito un buffet come aveva fatto la sera in cui Betsy era stata uccisa. Oh, pensava, non vedo l’ora di togliermele tutte dai piedi! Dopo quei giorni di confusione, non ricordava più quanto piacevole fosse sentire la casa dominata dal silenzio. Il signor Rob aveva portato a cena quell’essere impossibile di Muriel Craig. D’accordo, era molto attraente, ma si capiva che aveva già mandato giù due o tre drink. E in bagno era rimasto quel vago odore di fumo. Il signor Rob provava il massimo disprezzo per chi beveva troppo o fumava. Con Muriel stava giocando, Jane ne riconosceva i segnali. Era lo stesso modo in cui Betsy si era presa gioco del padre di Regina, riuscendo alla fine a spingerlo a buttare nel fondo d’investimento di suo marito tutti i suoi averi fino all’ultimo centesimo. Ah, quanto a frodare il prossimo quei due erano dei veri geni, pensò con ammirazione. Betsy poi era due volte ingannatrice. Era stata abilissima nel nascondere al signor Rob le sue scappatelle. Per questo mi faceva tutti quei regalini, ricordò Jane, mi teneva buona perché non la smascherassi. Non la lasciava tranquilla però non essersi accorta dei maneggi di Josh che ora stava ricattando le persone di cui aveva intercettato le conversazioni in macchina. Se il signor Rob avesse scoperto che lei aveva aiutato Betsy a tradirlo, l’avrebbe licenziata in tronco. Guai se fosse venuto a saperlo. Ma chi avrebbe potuto dirglielo? Josh no di certo, perché avrebbe perso il posto anche lui. Ho ancora i gioielli che George Curtis aveva regalato a Betsy, pensò mentre preparava i letti per le ospiti e abbassava gli scuri nelle stanze, un’azione che non faceva più da vent’anni, a eccezione del signor Rob, naturalmente. Per lui qualche volta metteva anche un cioccolatino sul guanciale, come facevano negli alberghi. Il signor Curtis era stato lì nel pomeriggio. E chissà come gli si torcevano le viscere, rifletté, a dover parlare con Alex Buckley della sera del Gala. Dopo il ricevimento Jane aveva preparato il buffet per le ragazze ed era stata lei a indirizzarle nello studio. Per la prima mezz’ora era andata avanti e indietro e aveva ascoltato tutto quello che si erano dette finché non avevano cominciato a parlare di Betsy fuori dei denti. A un certo punto si erano rese conto della sua presenza e Jane aveva pensato bene di augurare loro la buonanotte ed eclissarsi. Ma se la situazione dovesse diventare spinosa per me, disse tra sé, avrei qualcosa su ciascuna di loro con cui difendermi. Posò la testa sul guanciale del signor Rob, solo per un istante. Poi si rialzò e lo sprimacciò con qualche rapido colpetto delle dita. L’indomani a quell’ora lei e il signor Rob sarebbero stati nuovamente soli. 83 «È ORA di rientrare», disse con aria riluttante Alex. Per un’ora e mezzo, tra un convenevole e l’altro e i commenti sull’ottima cena, Alex si era ritrovato a raccontare a Laurie particolari del proprio passato, che aveva perso prima sua madre e poi suo padre quando era ancora al college e che a ventun anni era stato nominato tutore del fratello diciassettenne. «Diventò il mio ‘ometto’», disse e subito ebbe voglia di rimangiarselo. «Scusami, Laurie», aggiunse precipitosamente. «Non intendevo fare riferimenti alla tua situazione.» «Non ce ne sono», lo tranquillizzò lei. «Mentre non mi piace che quando parlano con me le persone misurino ogni parola. La situazione in cui vivo per me è diventata ordinaria. Ma tuo fratello ha preso la laurea di avvocato e ha fatto una brillante carriera, mentre Occhi Blu prima o poi verrà catturato e noi non dovremo più portare questo terribile fardello. La mia sola consolazione è che Occhi Blu ha giurato di prendersela prima con me.» Bevve un sorso di champagne. «E questo meriterebbe anche un brindisi!» esclamò poi. «Posa quel bicchiere», ribatté in tono autoritario Alex. «Beviamo alla cattura di Occhi Blu e che marcisca in prigione per il resto dei suoi giorni.» Solo in cuor suo aggiunse: «O che finisca ammazzato con una pallottola tra gli occhi sparata a sangue freddo come ha fatto lui con tuo marito». Poi, per quanto malvolentieri, Alex alzò la mano per farsi portare il conto. Un quarto d’ora dopo erano sulla Henry Hudson Parkway diretti a Westchester. Alex si accorse che Laurie faticava a tenersi sveglia. «Perché non chiudi gli occhi?» la esortò. «Mi hai detto che la notte scorsa non hai dormito perché eri troppo preoccupata per tuo padre e dubito che potrai dormire molto anche questa notte.» «Hai assolutamente ragione», sospirò Laurie. Chiuse gli occhi e in meno di un minuto Alex sentì il suo respiro rallentare a un ritmo regolare e sommesso. Di tanto in tanto le lanciava uno sguardo. Nelle luci dell’autostrada osservò il suo profilo finché, quasi in risposta a un suo desiderio segreto, Laurie si girò verso di lui nel sonno. Alex ripensò alla preoccupazione espressa da Leo Farley nel saperla sotto lo stesso tetto in compagnia di un gruppo di persone tra le quali si celava sicuramente un omicida. Ma chi di loro? E poi c’era quel giardiniere che gli solleticava la memoria. Perché? Il giorno prima, quando lo aveva trovato nel patio, gli aveva scattato una foto che aveva inviato al suo investigatore. Aveva chiamato anche la Perfect Estates. Alla persona che aveva risposto al telefono aveva spiegato che, per motivi di sicurezza, stava verificando i nominativi di tutte le persone che si trovavano alla villa. Il discorso che aveva tenuto loro Robert Powell a pranzo era chiaramente un tentativo di spaventare uno del gruppo inducendolo a fare una mossa, rifletté Alex, e chiunque fosse quella persona era possibile che attuasse un ultimo disperato tentativo di fermarlo. Mezz’ora dopo, toccò il braccio di Laurie. «Ci siamo, Bella Addormentata», le annunciò con la giusta delicatezza. «Ora di svegliarsi. Siamo arrivati.» 84 BRUNO era nell’ufficio del campeggio. Stava aspettando che il sorvegliante di turno, avvertito della sua presenza, arrivasse dal suo bungalow. Toby Barber aveva ventisei anni, un giovane dal sonno profondo abituato ad andare a letto con le galline. Entrò in ufficio strofinandosi gli occhi e si trovò al cospetto di un uomo dall’aria autorevole in divisa da poliziotto, in preda a una certa trepidazione. «Mi spiace averla disturbata, signor Barber», disse Bruno a Toby, «ma è molto, molto importante. Il vicecommissario Farley ha avuto una grave crisi cardiaca. Potrebbe non farcela. Vuole vedere subito suo nipote.» Bruno era un bravo attore. Parlò guardando sempre il giovane sorvegliante dritto negli occhi. «Ci è stato chiesto di avere attenzioni particolari per Timmy», rispose Toby, che ancora non si era svegliato del tutto, «ma so che oggi il nonno del ragazzo ha chiamato il direttore del campo e gli ha detto che era stato ricoverato in ospedale per un problema di cuore. Chiamo subito il mio superiore al cellulare per farmi dare l’autorizzazione. È a una festa di compleanno.» «Il vicecommissario Farley sta morendo», insisté Bruno in un tono più pressante. «Vuole vedere suo nipote.» «Capisco, certo», rispose nervoso Toby. «Solo una telefonata.» Non ottenne risposta. «Probabilmente non sente», commentò sempre più a disagio Toby. «Riprovo fra qualche minuto.» «Non aspetterò qualche minuto», tuonò Bruno. «Il vicecommissario è un uomo in fin di vita che esige di vedere suo nipote.» «Vado a prendere Timmy», balbettò Barber intimidito. «Mi dia solo il tempo di aiutarlo a cambiarsi.» «Che non si cambi. Gli faccia mettere l’accappatoio e le ciabatte!» ordinò Bruno. «Ha tutti i vestiti che gli servono a casa.» «Sì, naturalmente. Ha ragione. Vado a prenderlo.» Dieci minuti dopo Bruno andava alla macchina tenendo per mano un Timmy mezzo addormentato e lo sollevava di peso per metterlo a sedere nell’abitacolo. La sua mente era un tumulto di trionfo e pregustazione. 85 ROBERT Powell arrivò a casa in tempo per accogliere il primo degli ospiti. Muriel corse di sopra a cambiarsi la giacca. Disgustata di quello che vide guardandosi allo specchio, si rifece il trucco e ripettinò i capelli. Tornò di sotto cercando di non far vedere quanto fosse instabile sulle gambe. Entrata nello studio, si accorse che dopo di lei era già arrivata anche Nina. Notò l’espressione di disprezzo negli occhi della figlia. Aspetta e vedrai, pensò mentre andava a baciare Rob sulla guancia. Lui le passò con tenerezza un braccio intorno alla vita. Nel giro di pochi minuti sopraggiunsero anche Claire, Regina, Alison e Rod. Gli ultimi furono Laurie e Alex, ma nell’arco di dieci minuti erano tutti riuniti nello studio. Jane si appostò al bar e cominciò a distribuire bicchieri di vino o liquori. Robert Powell levò in alto il suo. «Non saprò mai ringraziarvi abbastanza di essere qui con me e mi scuso se avete dovuto subire per vent’anni questa condizione di disagio. Come sapete, anch’io sono vissuto sotto la terribile ombra del sospetto. Sono però felice di comunicarvi che domani mattina, durante la mia intervista, annuncerò al mondo intero che so chi ha ucciso la mia amata Betsy... e farò il nome di quella persona. Facciamo dunque un ultimo brindisi alla liberazione finalmente conquistata e auguriamoci l’un l’altro la buonanotte.» Il silenzio fu totale. I piatti con i cibi del buffet, preparati con cura da Jane, furono ignorati. Tutti posarono i propri bicchieri senza aprire bocca e cominciarono a lasciare la stanza. In corridoio c’era Josh in attesa di assistere Jane nel ritiro di piatti e bicchieri prima di spegnere le luci. Prima di salutare Robert Powell, Laurie e Alex aspettarono che gli altri fossero saliti al piano di sopra. «Una dichiarazione molto forte la sua, signor Powell», commentò a quel punto Alex. «E molto provocatoria. Davvero ritiene che fosse necessaria?» «Ritengo che fosse assolutamente necessaria», ribadì Robert Powell. «Ho passato molti anni a studiare ciascuna di quelle quattro giovani donne cercando di immaginare chi fosse salita a soffocare mia moglie nel sonno. So che Betsy aveva i suoi difetti, ma era la donna giusta per me e in questi vent’anni non ho mai potuto rassegnarmi ad averla persa. Secondo voi perché non mi sono risposato? Perché Betsy era insostituibile.» E allora che ci dici di Muriel Craig? si chiese Laurie. «E adesso vi auguro una splendida notte», concluse in tono deciso Powell. Alex accompagnò Laurie alla porta della sua stanza. «Chiuditi a chiave», le raccomandò. «Se Powell ha ragione, c’è qualcuno che in questo momento sta cercando di decidere cosa fare. Per quanto folle possa sembrarti, qualcuno potrebbe prendersela con te per aver organizzato questo show.» «O prendersela con te per aver spinto ciascuno di loro ad ammettere di aver odiato Betsy, Alex.» «Io non sono preoccupato», rispose lui sereno. «Vai a dormire ma chiudi la porta a chiave.» 86 REGINA sedeva sulla sponda del letto. So che parlava di me, pensava. Josh deve avergli dato il messaggio suicida. Chissà se verrò pagata lo stesso. I soldi mi serviranno per difendermi. Per vent’anni ho voluto che questa storia si concludesse. Be’, adesso è fatta. Muovendosi come un automa, si infilò il pigiama, poi andò in bagno, si gettò dell’acqua in faccia, spense la luce e andò a letto. Incapace di dormire, fissò il buio. 87 SOTTO la coperta leggera Alison e Rod si tenevano stretti per mano. «L’ho fatto sul serio», mormorò Alison. «So di essere stata nella stanza di Betsy e guardavo dalla cabina armadio.» «Guardavi cosa?» chiese Rod. «Qualcuno che premeva un cuscino sulla faccia di Betsy. Ma non era qualcuno, Rod, ero io.» «Non dirlo neppure!» «So che è vero, Rod. Io so che è vero.» «No che non sai che è vero. Finiscila.» «Rod, finirò in prigione.» «Neanche per sogno. E per un buon motivo: che non potrei vivere senza di te.» Con gli occhi fissi nell’oscurità, Alison prese atto della verità che l’ira le aveva sempre nascosto. «Rod», disse, «so che hai sempre pensato che ti avessi sposato per farmi pagare da te la scuola di medicina. Può anche darsi che abbia finito per crederci anch’io. Ma tu non sei stato il solo a innamorarti fin dal primo giorno dell’asilo. Perché mi sono innamorata anch’io. So che è terribile, ma la verità è che ho buttato via vent’anni della mia vita consumandoli nel mio odio per Betsy Powell.» Fece una risatina amara. «Se solo avessi avuto la soddisfazione di sapere che cosa stavo facendo mentre la uccidevo.» 88 SEDUTA sul divano in camera sua, Claire non tentava nemmeno di dormire. Dunque amava veramente mia madre, pensò. Ma meno di un mese dopo che ci eravamo trasferite qui, ha cominciato a venire nella mia stanza e io gliel’ho permesso per il bene che volevo a lei. Avevo visto com’era felice e volevo che continuasse a esserlo. Ero sicura che se glielo avessi confessato, ce ne saremmo andate, ma poi che cosa sarebbe stato di noi? Di nuovo in un buco di appartamento. Con quanti uomini era uscita sempre a caccia di quello che Robert Powell finalmente le aveva dato. Ci volevamo così bene quando ero piccola. Mi sembrava di doverglielo. Era il mio grande segreto, il sacrificio che facevo volentieri per mia madre. Vivendo come una benedizione tutte le notti in cui lui non veniva. Poi c’è stata quella volta che li ho sentiti parlare. Ho sentito lui che le raccontava della notte prima e lei che gli diceva quant’era contenta che io fossi così disponibile. Maledetta, maledetta, maledetta. Ho cominciato a soffocarla con la forza della mente fin da quando avevo tredici anni. Se sono stata io a farlo sul serio quella notte fatidica e qualcuno dichiara ora di avermi visto, accetterò a testa alta il mio destino. 89 NINA non cercò di mettersi a letto. Restò invece seduta a gambe incrociate a ripercorrere nella mente i momenti della giornata trascorsa. Possibile che sua madre avesse messo in atto la sua minaccia? È una brava attrice, pensò, chi non le avrebbe creduto? Non sapevo che Robert Powell fosse così sopraffatto da Betsy da non vederla per quello che era. Ma forse mi sbaglio, forse la vedeva per quello che era e lo trovava eccitante. Se mia madre in questi ultimi due giorni si è lasciata prendere in giro da Rob, peggio per lei se è stata tanto stupida da cascarci. Se gli ha riferito che ho confessato di aver ucciso Betsy, le chiuderà la porta in faccia. Ma quando domani sarà scaricata da Rob, potrebbe andare a reclamare la ricompensa dal capo della polizia. E io? Come posso difendermi io? 90 QUANDO nella villa si spense anche l’ultima luce, Bruno scese dalla macchina. Aveva somministrato un sonnifero a Timmy, che ora trasportava caricato su una spalla. Scavalcò la recinzione muovendosi con lentezza per non disturbarlo. Lo portò nella pool house e aprì la porta del locale tecnico. Lo adagiò sul giaciglio di coperte che aveva preparato per lui e gli legò non troppo strettamente mani e piedi. Quando Bruno lo imbavagliò, Timmy si mosse e farfugliò una protesta, ma ricadde subito in un sonno profondo. L’indomani mattina sarebbero passati a prendere Bruno con il furgone e, se non si fosse fatto trovare, avrebbe avuto difficoltà a giustificare la sua assenza. Ma il ragazzo se ne sarebbe stato tranquillo fino al suo ritorno, pensava. E anche se si fosse svegliato, non avrebbe potuto uscire e non avrebbe potuto togliersi il bavaglio. Gli aveva legato le mani dietro la schiena. Ora che era vicino alla fine, non solo si sentiva perfettamente calmo, ma sapeva che così sarebbe rimasto. Osservò Timmy che dormiva. C’era la luna piena ed entrava abbastanza luce perché potesse vederlo con chiarezza. «Un giorno saresti somigliato moltissimo al tuo papà», disse, «e la tua mamma è là dietro, in quella casa, e non sa che tu sei qui. Aspetta che scopra che sei sparito.» Sapeva di doversene andare, ma non resistette al tentativo di togliersi di tasca un piccolo astuccio. Lo aprì e ne estrasse due lenti a contatto di un azzurro brillante. Erano quelle che si era applicato quel giorno perché erano così vistose e sarebbero state ricordate da chiunque gli si fosse trovato abbastanza vicino da darne una descrizione. Ricordò che cosa aveva sentito strillare a Timmy: «Occhi Blu ha ucciso il mio papà». E già, pensò. Sì, ho ucciso il tuo papà. Chiuse l’astuccio e se lo mise in tasca. Le lenti gli sarebbero servite l’indomani. 91 LEO Farley non riusciva a prendere sonno. Il suo istinto di poliziotto aveva lanciato un allarme. Non riusciva a spegnerlo. Laurie è a posto, ricordò a se stesso. Grazie al cielo in quella casa c’è anche Alex Buckley. È evidente che Laurie gli piace, ma soprattutto sa bene che questa notte, con quel branco chiuso nella stessa casa, Laurie è esposta a una situazione possibilmente esplosiva. Timmy mi è sembrato in gran forma e lo vedrò comunque domenica. Allora perché sono così dannatamente sicuro che c’è qualcosa di molto grave che non sta andando per il verso giusto? Forse è colpa di tutti questi monitor che mi hanno attaccato. Farebbero ammattire chiunque. L’infermiere gli aveva lasciato sul comodino una pillola di sonnifero. «Non è forte, commissario», gli aveva detto, «ma servirà a rilassarla e l’aiuterà a dormire un po’.» Leo la prese, poi la lasciò ricadere sul comodino. Non ho intenzione di svegliarmi mezzo rimbambito, pensò. E comunque so che non mi aiuterà affatto a dormire. 92 ALLE tre di notte, Jane si alzò silenziosamente da letto, aprì la porta della sua camera e a piedi nudi raggiunse la stanza dove dormiva Muriel Craig. Muriel russava rumorosamente a evidente riprova di aver ecceduto nel bere. In punta di piedi Jane si avvicinò al letto, si chinò e sollevò il cuscino che stringeva tra le mani. Poi, con un movimento rapido e improvviso, lo calcò sulla faccia di Muriel. Un gemito strozzato sostituì bruscamente il russamento di poco prima. Le mani muscolose di Jane tenevano il cuscino bloccato come una lastra di marmo. Muriel cominciò ad ansimare. Prese a gesticolare invano cercando di liberare bocca e naso. «È inutile che ti sforzi», sentì sibilare. Le nebbie dell’alcol che le ovattavano il cervello si dissolsero completamente. Non voglio morire, pensò Muriel. Non voglio morire. Conficcò in profondità le lunghe unghie nel dorso delle mani della donna che l’aggrediva e per un momento la pressione si allentò. Muriel spinse via il cuscino e urlò. Ma subito dopo fu sopraffatta di nuovo, con più violenza di prima. «Non ti sarai illusa che ti avrei permesso di portarmelo via», ringhiò Jane premendo con tutto il peso del corpo il cuscino sulla faccia di Muriel. «Forse sanno che sono stata io a uccidere Betsy, ma tu puoi scordarti di portarmelo via. È mio. È mio.» Da un’estremità all’altra del primo piano tutti udirono il grido. Nello sgomento generale, il più veloce a reagire fu Alex. Arrivò per primo, si lanciò su Jane e la scaraventò per terra. Quando accese la luce, vide che Muriel era cianotica. Non respirava. La sollevò dal letto, l’adagiò sul pavimento e cominciò a praticarle la respirazione artificiale. In corridoio Robert Powell emergeva dalla sua stanza da una parte mentre dall’altra arrivavano di corsa le quattro donne seguite da Rod. Dalla stanza di Muriel sbucò Jane, guardò invasata a destra e a sinistra e partì di corsa in direzione delle scale sempre stringendo il cuscino. «Tu!» urlò Powell gettandosi all’inseguimento. «Sei stata tu?» Jane scese di corsa le scale respirando a fatica, rischiando ogni momento di precipitare. Attraversò di slancio la cucina, spinse con forza la portafinestra, uscì nell’oscurità senza sapere dove stesse andando. Era arrivata alla piscina quando Robert Powell la raggiunse. «Sei stata tu», l’accusò di nuovo. «Per vent’anni ti ho avuto in casa, ti ho vista tutti i giorni senza mai sospettare per un solo istante che fossi stata tu a uccidere la mia Betsy.» «Io ti amo, Rob», gemette lei. «Ti amo, ti amo, ti amo.» «Tu non sai nuotare, vero? Hai paura dell’acqua, vero?» La spinse all’improvviso cogliendola totalmente di sorpresa, poi soffocò le sue invocazioni d’aiuto mettendosi a urlare: «Jane, Jane, non aver paura! Ti aiutiamo noi! Jane, aspetta! Ma dove sei?» Quando fu sicuro che stesse annegando, riprese a correre, oltrepassò la pool house, arrivò al viale d’accesso della villa e lì, sfinito, si accasciò a terra. Lì fu trovato dai poliziotti della volante che piombò attraverso il cancello. Un agente si inginocchiò su di lui. «È tutto sotto controllo, signor Powell. Mi dica, sa da che parte è andata?» «No.» Robert Powell respirava a fatica. Era bianco come un lenzuolo. In quel momento si accesero tutte le luci all’esterno della villa e ogni angolo del giardino diventò visibile. «Forse nella pool house», annaspò. «Forse si è nascosta là dentro.» A sirene spiegate arrivarono altre volanti che invasero il viale d’accesso. Su una di esse c’era Ed Penn. «Controllate nella pool house», gridò l’agente che stava soccorrendo Powell. Uno dei suoi colleghi corse ad aprire la porta della casetta e proprio in quell’istante un altro agente gridò: «È quaggiù». Era in piedi sul bordo della vasca a guardare l’acqua. Jane giaceva sul fondo a faccia in su. Aveva gli occhi sbarrati e le mani ancora contratte sul cuscino che stringeva contro di sé. L’agente si tuffò e la riportò in superficie. Altri poliziotti lo aiutarono a issarla fuori e a stenderla sul bordo della vasca. Le pomparono il torace e le applicarono la respirazione bocca a bocca. Dopo qualche minuto rinunciarono all’inutile tentativo di resuscitarla. In casa Alex era riuscito a far ripartire il cuore di Muriel. Intorno a lui, come paralizzati, c’erano Rod e le quattro ex neolaureate. Mentre lottava per riprendere conoscenza, Muriel cominciò a mormorare: «Rob, Rob...» Le risa isteriche di Nina risuonarono in tutta la grande casa. 93 QUANDO Dave Cappo arrivò puntualmente alle otto al volante del furgone della ditta, Bruno lo stava già aspettando in strada da un quarto d’ora. Dave era elettrizzato. «Hai sentito cos’è successo?» chiese mentre ripartiva alla volta della villa di Powell. «Cosa?» chiese Bruno a cui sinceramente non importava niente. «Ieri notte alla villa di Powell qualcuno ha cercato di uccidere qualcuno.» «Cosa?» «È stata la governante. È stata lei a uccidere la moglie di Powell vent’anni fa», continuò senza prendere fiato Dave. «E ieri notte ha cercato di rifarlo con qualcun altro, ma l’hanno beccata. Ha cercato di scappare ed è caduta nella piscina. Purtroppo per lei non sapeva nuotare.» Hanno trovato Timmy? si chiese terrorizzato Bruno. «Non è pazzesco?» stava dicendo Dave. «Dico io, per vent’anni quelle quattro sono state sospettate del delitto e salta fuori che non era nessuna di loro.» «Cosa sta succedendo adesso?» cercò di sapere Bruno. Se hanno trovato Timmy, posso farmi riportare a casa immediatamente. Dirò a Dave che non mi sento bene. Posso sparire da qui in pochi minuti. Timmy non sa chi lo ha prelevato dal campo, ma non ci vorrà molto prima che vengano a cercarmi... «Oh, solita roba», rispose Dave. «Il medico legale ha portato via il corpo. Da quel che ho sentito la governante stava cercando di soffocare con un cuscino la madre di una di quelle quattro. Si chiama Muriel Craig. Fa l’attrice.» Bruno sentì il dovere di contribuire. «Ah, sì, ho sentito parlare di lei.» Non hanno perquisito la pool house, pensò. E non avevano motivo di farlo ora. Potrò andare fino in fondo. Dave lo lasciò come al solito nel viale d’accesso. «Non so se ti lasceranno entrare, ma tentar non nuoce. Poi ci racconterai.» Furono fermati da un agente. «Devo sentire cosa mi dicono», spiegò loro e telefonò alla villa. «Il signor Powell dice di lasciarlo entrare», annunciò poi. «Può cominciare a lavorare intorno alla zona che la polizia ha recintato.» Bruno scese dal furgone e si avviò con aria indifferente. Raggiunse camminando adagio l’area della piscina, notò che il corpo della governante non c’era più, entrò nella pool house, richiuse la porta e corse nel locale tecnico. Timmy era sveglio. Si contorceva sopra le coperte. Aveva le guance rigate di lacrime. Bruno si chinò su di lui. «Non piangere, Timmy», lo incalzò. «Adesso arriva la mamma. Ti do qualcosa da mangiare e ti lascio andare in bagno. Poi la mamma ti porterà dal nonno. Capito?» Timmy annuì. «Ora mi devi promettere che quando ti faccio mangiare non ti metti a gridare. Me lo prometti?» Timmy annuì di nuovo. Accanto al locale tecnico c’era anche una piccola toilette a disposizione di chi usava la piscina. Bruno vi portò Timmy e si fermò lì con lui. «Falla, da bravo», lo esortò e sarà la tua ultima volta, pensò intanto. Ricondusse Timmy al suo giaciglio di coperte, andò in cucina e prese le merendine, il latte e il succo d’arancia. «Ti tirerò giù il bavaglio», lo informò. «Ti darò il tempo di mangiare, ma tu sbrigati.» Con gli occhi sgranati dal terrore, Timmy ubbidì. Quand’ebbe finito, Bruno lo imbavagliò di nuovo assicurandosi anche questa volta di non stringere troppo. Poi spinse Timmy a distendersi. «Se cerchi di fare rumore, non servirà a niente perché non ti sentirà nessuno», lo avvertì. «Se te ne stai buono, zitto zitto, ti prometto che verrà la tua mamma a prenderti.» Bruno prese un rastrello, uscì dal locale e chiuse la porta a chiave. All’esterno cominciò a rastrellare l’erba intorno al piccolo campo da golf. 94 PRIMA che la polizia rispondesse alla chiamata, Josh si era precipitato nell’alloggio di Jane, dove aveva perquisito la camera da letto e trovato il nascondiglio in cui la governante custodiva i gioielli che George Curtis aveva regalato a Betsy. Ora erano al sicuro nelle sue tasche e nessuno ne sapeva niente. Era stata una sorpresa per lui venire a sapere che Jane aveva ucciso Betsy, per quanto avesse sempre sospettato che fosse morbosamente infatuata del suo datore di lavoro. Alle nove tutti quelli che erano rimasti a dormire alla villa scesero per fare colazione. Tutti laconici, tutti taciturni. Nessuno aveva ancora assimilato del tutto il fatto di essere finalmente liberi dal sospetto di aver assassinato la moglie del padrone di casa. Muriel aveva rifiutato di farsi ricoverare in ospedale ed era rimasta a letto finché il medico legale non se n’era andato portando via il corpo di Jane. Con la gola gonfia e la voce roca, aveva già cominciato a riflettere sul fatto che ora Robert era rimasto solo e che ormai sapeva che gli aveva mentito sulla presunta confessione ricevuta da Nina. Ma forse, sperava, capirà che ho mentito solo perché gli voglio troppo bene. A questo scopo finalmente si decise ad alzarsi, fece la doccia, si truccò e pettinò con particolare cura. Quand’ebbe finito, uscì dalla stanza in pullover, pantaloni e sandali. Sperava che i lividi che le stavano affiorando rapidamente sulla gola dimostrassero a Rob quanto le fosse costato l’amore che provava per lui. Nel frattempo, coadiuvato da altri detective, il capo della polizia Ed Penn aveva interrogato tutte le persone che si trovavano nella villa. I loro racconti erano risultati coerenti. Almeno a un primo sguardo, risultava apparente che, nel tentativo di uccidere Muriel, Jane avesse agito da sola. Tutto faceva pensare che fosse caduta per caso nella piscina mentre scappava. Date le circostanze, accettò suo malgrado l’insistente richiesta di Laurie e Alex di finire il loro programma. «L’indagine è ancora in corso», disse loro con fermezza. «Tutti dovranno venire in sede a sottoscrivere una deposizione formale. Ma credo di potervi permettere di andare avanti, basta che nessuno entri nella zona interdetta.» Laurie e Alex lo ringraziarono e si trasferirono nello studio dove avrebbe avuto luogo l’ultima intervista, quella a Robert Powell. Gli altri furono invitati ad assistere. Ormai erano tutti vestiti e pronti ad andarsene al più presto possibile. Ancora increduli che il loro incubo fosse finito, entrarono in fila indiana nello studio e presero posto dietro le telecamere in attesa che facesse il suo ingresso Robert Powell. 95 MARK Garret, il direttore del campeggio di Mountainside, fissò Toby Barber a bocca aperta. «Mi stai dicendo che hai lasciato che ieri sera uno sconosciuto portasse via Timmy Moran?» domandò costernato. «Suo nonno è in fin di vita», si giustificò Toby. «È venuto un agente di polizia a prenderlo.» «Perché non mi hai chiamato?» «L’ho fatto, signore, ma lei non ha risposto al telefono.» Garret provò una stretta al cuore rendendosi conto che Toby aveva ragione. Si era tolto la giacca e nel fracasso della festa non avrebbe mai potuto sentire la suoneria del cellulare. Ho parlato con Leo Farley solo ieri, cercò di rassicurarsi, quando mi ha detto che era in ospedale. Ma mi ha anche avvertito che la persona che ha ucciso il padre di Timmy aveva minacciato anche il bambino e sua madre. E se è stato lui a condurlo via? Ora in preda a una viva apprensione, Garret si mise al telefono. Aveva il numero di Leo Farley sempre a portata di mano nel caso si fosse materializzata una minaccia nei confronti di Timmy. Ora poteva solo sperare e pregare che Leo Farley fosse davvero in condizioni critiche. Farley gli rispose al primo squillo. «Salve, Mark», lo salutò. «Come va?» Garret dovette deglutire a vuoto. «Come sta, commissario?» s’informò. «Oh, adesso bene. Anzi, stamattina mi fanno uscire. Ieri sera ho sentito Timmy. Dice che si sta divertendo un mondo lì da voi.» «Allora non è stato lei a mandare qui un poliziotto ieri sera?» fu costretto a chiedergli apertamente Mark Garret. Leo impiegò qualche secondo per riprendersi dal colpo. L’incubo si stava avverando. Ad andare a prendere Timmy poteva essere stato solo Occhi Blu. «Vuol dirmi che dopo tutti i miei avvertimenti ha lasciato che uno sconosciuto portasse via mio nipote? Che aspetto aveva?» Garret chiese a Toby di descrivergli il poliziotto. Con un nodo in gola Leo ascoltò una descrizione che corrispondeva a quella che aveva dato Margy Bless alla polizia cinque anni prima dell’assassino di Greg: non molto alto, tarchiato... «Aveva gli occhi blu?» domandò. «Ho chiesto a Toby. Non lo ha notato. Era molto stanco.» «Imbecilli!» ruggì Leo Farley interrompendo la comunicazione. Strappò via i cavi con cui le macchine gli monitoravano il cuore. Gli echeggiavano nella mente le parole che Occhi Blu aveva gridato a Timmy: «Di’ a tua madre che adesso tocca a lei. Poi sarà il tuo turno». Digitò in fretta e furia il numero di Ed Penn. Se avesse tenuto fede alla sua minaccia, Occhi Blu avrebbe ucciso dapprima Laurie. Era sicuramente già diretto alla villa... e Dio volesse che Timmy fosse ancora vivo! 96 CON la faccia tirata e l’aria stanca, ma impeccabile in giacca estiva, camicia e cravatta, Robert Powell ascoltò in silenzio il benvenuto di Alex. Le quattro donne in onore delle quali aveva dato una grande festa vent’anni prima erano dietro di lui. «Signor Powell, non è certo così che prevedevo di chiudere questo programma. Lei ha mai saputo o sospettato che a uccidere sua moglie fosse stata Jane Novak?» «Assolutamente no», rispose con voce stanca Robert Powell. «Ho sempre sospettato che fosse stata una delle ragazze. Non sapevo decidere quale e volevo avere una risposta. Volevo la soluzione del mistero. Avevo bisogno di una soluzione. Io non sto bene, ho i giorni contati. Ho appena appreso che oltre ai miei altri acciacchi, ho un cancro al pancreas che si sta sviluppando molto velocemente. Tra non molto raggiungerò la mia amata Betsy o in cielo o all’inferno.» Ci fu una lunga pausa di silenzio. «Ho intenzione di lasciare a ciascuna delle ragazze di allora cinque milioni di dollari. So che in diverso modo io e Betsy abbiamo fatto del male a noi stessi e a ciascuna di loro.» Si girò a guardarle aspettandosi espressioni di gratitudine. Si trovò invece a contemplare identiche espressioni di disprezzo e disgusto. 97 «È ORA », decise Bruno. «Adesso chiami la tua mamma.» Si era messo nuovamente sugli occhi le lenti a contatto azzurre. Timmy guardò gli occhi blu che lo avevano perseguitato per più di cinque anni della sua giovane vita. «Tu hai ucciso il mio papà», disse. «Proprio così, Timmy, e lascia che ti spieghi perché. Io non volevo diventare un delinquente. Io volevo mollare le cattive compagnie. Avevo solo diciannove anni. Avrei potuto fare una vita completamente diversa. Ma quello sbirro tutto d’un pezzo di tuo nonno mi ha beccato che guidavo ubriaco. Io l’ho supplicato di lasciarmi andare e gli ho detto che l’indomani mi dovevo presentare per entrare nell’esercito. Invece lui mi ha arrestato. Dopodiché l’esercito non mi ha più voluto e io sono tornato nella mia gang. E una notte sono entrato in una casa a rubare e quando mi ha visto la vecchia che ci abitava ha avuto un infarto. È morta. Io mi sono buscato trent’anni.» La faccia di Bruno si contrasse in una maschera di furore. «Avrei potuto fare qualsiasi cosa. So costruire computer. So entrare in qualsiasi computer, intercettare qualunque telefono. E ho pensato a come pareggiare i conti con Leo Farley. Avrei ucciso le persone a cui voleva bene, suo genero, sua figlia e te. Ho fatto fuori tuo padre, ma mi hanno rispedito in prigione per altri cinque anni per una stupida violazione della libertà vigilata. Adesso lo sai anche tu, Timmy, ed è ora di chiamare la mamma.» Laurie e Alex guardarono le ex neolaureate sfilare dalla stanza lasciando Robert Powell solo, seduto al tavolo. Con un cenno del capo, Laurie indicò alla troupe che potevano sbaraccare. Non c’era altro da aggiungere. Alex sentì il cellulare che gli vibrava nella tasca. Era il suo ufficio, l’investigatore a cui aveva assegnato il compito di scoprire qualcosa sul giardiniere. «Alex», si sentì dire con un certo affanno, «quel giardiniere di cui mi avevi chiesto. Non si chiama Bruno Hoffa. È Rusty Tillman, che ha scontato trent’anni di galera. È uscito cinque anni e mezzo fa, una settimana prima che venisse ucciso il dottore. Poi è tornato in prigione per aver violato la libertà vigilata ed è uscito di nuovo cinque mesi fa. Ci siamo fatti mandare la scheda segnaletica...» Alex lasciò cadere il cellulare. Guardava incredulo Laurie. Stava uscendo nel patio. Sentì squillare il suo telefono mentre le urlava: «Laurie, aspetta!» Ma lei era già fuori e si stava portando il telefono all’orecchio. «Timmy, non ti è permesso chiamare durante il giorno», disse. «Cosa c’è, tesoro?» E poi alzò di scatto gli occhi. La porta della pool house si stava aprendo e ne usciva Timmy, in pigiama e accappatoio, tenuto per mano dal giardiniere. Il quale gli puntava un fucile alla testa. Laurie lanciò un grido e partì di corsa attraverso il prato. La volante su cui viaggiava il capo della polizia Ed Penn stava piombando a tutta velocità verso la villa. «Niente sirena!» aveva ordinato Penn al conducente. «Non vogliamo farci annunciare. Fai convogliare tutte le altre unità sulla casa di Powell.» La comunicazione urgente arrivò anche all’auto di pattuglia appostata dietro la tenuta. Il poliziotto che la occupava attraversò correndo la zona alberata e scavalcò di slancio la recinzione. Per quanto fosse un tiratore esperto, l’agente Ron Teski non aveva mai usato l’arma in servizio. Mentre correva verso la villa, pensava che forse quello era il giorno in cui avrebbe messo alla prova le tante ore di pratica al poligono. Occhi Blu lasciò andare la mano di Timmy e ridendo lasciò che si precipitasse verso Laurie, che a sua volta correva verso di loro, ancora distante qualche decina di metri. La volante sbucò dalla curva del viale davanti alla villa e dal finestrino Penn si sporse puntando la pistola su Occhi Blu. Fece fuoco, ma mancò il bersaglio. Ormai Laurie aveva raggiunto Timmy e si stava chinando per prenderlo in braccio. Occhi Blu mirò alla testa di Laurie attendendo che finisse di rialzarsi come aveva fantasticato per il gran finale che aveva scritto nella sua mente. Mentre stava per premere il grilletto, il primo colpo dell’agente Teski lo raggiunse alla spalla. Barcollando, Occhi Blu rialzò il fucile che aveva inavvertitamente abbassato nel momento in cui veniva ferito e cercò di prendere nuovamente la mira su Laurie. Nell’istante in cui schiacciava il grilletto avvertì un’esplosione nel petto. Stramazzò per terra contemporaneamente a uno schianto di vetri infranti. Il proiettile che aveva sparato aveva sfondato la portafinestra dello studio in cui Robert Powell era ancora seduto al tavolo. Con un’espressione perplessa, Powell si portò una mano a quel che restava della sua fronte e precipitò dalla sedia. Pochi secondi dopo Alex Buckley stringeva tra le braccia Laurie e Timmy. Epilogo SEI mesi più tardi le ex neolaureate si ritrovarono insieme, questa volta in un’atmosfera molto più lieta. Era stato Alex a proporre loro di passare la sera di Capodanno a casa sua. L’esistenza di ciascuna di loro aveva subito una svolta clamorosa e Alex riteneva che fosse ora che condividessero le loro esperienze. Così ciascuna raccontò di sé alle vecchie amiche mentre bevevano un aperitivo in attesa della cena preparata da Ramon. Claire si era rivolta a un terapeuta ed era finalmente riuscita a parlare di quello che le aveva fatto Robert Powell. «Non fu colpa mia», era ora in grado di sostenere con convinzione. Aveva ripreso a truccarsi e aveva accettato di buon grado di somigliare a sua madre. Adesso, attraente come era stata Betsy prima di lei, rideva serena raccontando alle vecchie amiche della sua ritrovata disinvoltura in società. La prima cosa che aveva fatto Regina nel ricevere i soldi del programma era stata restituire a Bridget Whiting la provvigione che le aveva pagato. Il mercato immobiliare aveva ripreso a tirare e ora poteva permettersi una casa più spaziosa con annesso l’ufficio per la sua agenzia. Enorme piacere le aveva dato venire a sapere che il suo ex e la sua moglie rock star erano nel mezzo di un divorzio burrascoso. Zach trascorreva con lei praticamente tutto il suo tempo libero. Nina si era fidanzata con Grant Richmond. Aveva volentieri ceduto a sua madre la sua parte di compenso ricevuta da Powell e dallo studio televisivo con l’impegno da parte di lei di non farsi sentire mai più. Naturalmente Muriel andava a raccontare in giro che Robert era innamorato pazzo di lei e che avevano avuto intenzione di sposarsi prima del terribile incidente in cui aveva perso la vita. Alison si era iscritta alla facoltà di medicina di Cleveland, ma rientrava a casa tutti i pomeriggi. Scherzava su quanto le fosse difficile tener testa ai suoi compagni ventenni. A rallegrare ulteriormente la sua vita giunse la notizia che era incinta di tre mesi. Rod l’aveva sorpresa annunciandole che le avrebbe fatto compagnia negli studi. Si era scoperto che da anni anche lui aveva desiderato diventare farmacista. Commentarono il fatto che Robert Powell era rimasto ucciso prima di portare a termine il suo ultimo tentativo di rimediare ai suoi torti. Si domandarono se, nel caso avesse lasciato loro tutti quei soldi, li avrebbero mai accettati, alla fine conclusero tutte e quattro che li avrebbero considerati un giusto risarcimento per tutto quello che avevano patito. Alla riunione era stato invitato anche George Curtis. Mentre le ascoltava, ringraziava la sua buona stella. Robert Powell non aveva mai sospettato della sua relazione segreta con Betsy. Isabelle lo aveva perdonato. Si sarebbe potuto risparmiare vent’anni di angoscia, ma se non era andata così era solo colpa sua e della sua vigliaccheria. A cena sorrise tra sé pensando all’annuncio che si accingeva a fare. Robert Powell aveva promesso di donare alle ex neolaureate cinque milioni di dollari ma era morto prima di poter cambiare il testamento. Sarebbe stato lui a regalare alle quattro donne i cinque milioni che avrebbero dovuto ricevere da Powell. Sapeva che stava solo cercando di perdonare a se stesso il danno che aveva inflitto loro con il suo silenzio durato due decenni. Tre delle quattro amiche avevano consegnato al capo della polizia Penn i nastri con cui Josh le aveva minacciate e adesso lo chauffeur di Robert Powell era in libertà dietro cauzione in attesa del processo. Perquisendo il suo appartamento erano stati ritrovati i gioielli rubati da Jane. Poiché Jane li aveva sottratti a Betsy, tornavano a far parte del patrimonio della defunta. Dopo che si fosse compiuta la trafila giudiziaria di Josh, i gioielli sarebbero stati consegnati a Claire affinché ne facesse ciò che voleva. Ascoltando le quattro donne, Alex ammirò la loro forza d’animo. Si girò a guardare Laurie. Per la prima volta nei quasi sei anni da quando era morto Greg, Laurie e Leo avevano lasciato Timmy in compagnia di una ragazza figlia di certi loro vicini di casa. Quanto la loro vita fosse cambiata si capiva dal modo spensierato in cui scherzavano e ridevano con gli altri. Per tutti era stato difficile accettare che un arresto di ordinaria amministrazione come quello effettuato da Leo da giovane agente di polizia, quando aveva fermato Occhi Blu al volante di un’automobile in stato di ubriachezza, fosse stato vissuto da quest’ultimo come l’evento che gli aveva rovinato la vita, al punto da spingerlo ad assassinare Greg e a costringere la sua famiglia a vivere per tanti anni nell’incubo di una condanna a morte. La serie intitolata Under Suspicion era decollata come Laurie aveva previsto. Alex sapeva che era troppo presto per farle sapere quanto si sentisse innamorato di lei. Laurie aveva ancora bisogno di tempo per riprendersi del tutto. Ma io posso aspettare, pensò, tutto il tempo che ci vorrà. Per quanto lungo sia. Della stessa autrice Nella notte un grido La culla vuota Incubo Non piangere più, signora Mentre la mia piccola dorme La Sindrome di Anastasia Le piace la musica, le piace ballare In giro per la città Un giorno ti vedrò Ricordatevi di me Domani vincerò Un colpo al cuore Una notte, all’improvviso Bella al chiaro di luna Testimone allo specchio Sarai solo mia Accadde tutto in una notte Ci incontreremo ancora Uno sconosciuto nell’ombra* Prima di dirti addio Sapevo tutto di lei La figlia prediletta Dove sono i bambini?* Una luce nella notte La seconda volta Quattro volte domenica La notte mi appartiene Casa dolce casa Due bambine in blu Ho già sentito questa canzone Dimmi dove sei Prendimi il cuore L’ombra del tuo sorriso* Nessuno mi crede* La lettera scomparsa* Sei tornato, papà?* La notte ritorna* Con Carol Higgins Clark L’appuntamento mancato Ti ho guardato dormire Furto al Rockefeller Center (Il ladro di Natale) Una crociera pericolosa Il biglietto vincente * Di questi libri è disponibile la versione ebook Indice Il libro L’autrice La notte ritorna Ringraziamenti Prologo 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 Epilogo Della stessa autrice