Il libro
Erano le sei e mezzo di una sera come
tante a Manhattan e il sole basso
allungava le ombre quando il marito di
Laurie Moran fu barbaramente ucciso
sotto lo sguardo innocente del figlio, al
campo giochi non lontano da casa.
Timmy aveva solo tre anni e fu l’unico a
vedere in volto l’assassino del padre e a
incrociare quegli occhi blu che ancora
oggi tormentano i suoi sogni. Un
efferato delitto per il quale neanche
Laurie è mai riuscita a darsi pace,
perseguitata dalla promessa fatta dal
killer prima di uscire di scena: «Di’ a
tua mamma che adesso tocca a lei. Poi
sarà il tuo turno». Ora, a distanza di
anni, Laurie si ritrova ancora alle prese
con la morte, questa volta come
produttrice di un nuovo programma
televisivo dedicato a vecchi crimini
rimasti irrisolti. Il primo caso ad andare
in onda riguarda l’omicidio di Betsy
Powell, una ricca signora trovata morta
soffocata nel suo letto l’indomani
mattina della festa di diploma della
figlia e delle sue tre migliori amiche.
All’epoca la notizia aveva fatto molto
scalpore. Riaprendo il caso e invitando
in studio le quattro ragazze, ormai
donne, per ricostruire quelle terribili
ore, Laurie è certa di avere per le mani
un successo garantito. Ma non appena
le telecamere si accendono, diventa
chiaro che ognuna di loro sta
nascondendo segreti. Piccoli e grandi.
E un paio di occhi blu sta osservando da
molto vicino lo svolgersi degli eventi…
Alla sua pubblicazione in Inghilterra
e USA, La notte ritorna ha conquistato
già nella prima settimana i vertici delle
classifiche dei libri più venduti ed è
stato bestseller n. 1 del New York
Times. Mary Higgins Clark – «la
Signora dell’alta tensione», come l’ha
definita il New Yorker – regala ai suoi
lettori un nuovo capolavoro di
suspense.
L’autrice
Mary
Higgins
Clark,
acclamata
autrice
di
numerosissimi bestseller
internazionali – come La
culla vuota e La notte mi
appartiene – che hanno venduto
oltre trecento milioni di copie nel
mondo, è nota come la Regina della
suspense. Vive a Saddle River, nel
New Jersey, con il marito. Madre di
cinque figli, si divide tra la scrittura e
i molti nipoti.
www.maryhigginsclark.com
MARY HIGGINS CLARK
LA NOTTE
RITORNA
Traduzione di Helma Benassi
A John
e ai nostri figli e nipoti
del ramo Clark e Conheeney,
con affetto
Ringraziamenti
DUNQUE, ancora una volta la storia è
arrivata alla sua fine. Ieri sera ho scritto
le ultime parole e poi ho dormito per
dodici ore.
Questa mattina mi sono svegliata
felice di sapere che tutti gli
appuntamenti con i miei amici,
precedentemente annullati, potevano
essere ripristinati.
Ma è così bello raccontare un’altra
storia, condividere un altro viaggio con
personaggi creati da me e ai quali ho
finito per affezionarmi... forse sì e forse
no.
Come al solito, ormai da quarant’anni
il capitano della mia nave è stato il mio
editor, Michael V. Korda. Io gli mando
da venti a venticinque pagine alla volta.
La sua telefonata che dice «le pagine
vanno benissimo» è musica per le mie
orecchie. Lascia che ti ripeta una volta
ancora, con tutto il cuore, Michael, che
lavorare con te è una benedizione.
Marysue
Rucci,
la
nuova
caporedattrice alla Simon & Schuster, è
stata amica e mentore meravigliosa.
Lavorare con lei è una gioia.
La squadra domestica comincia dalla
mia mano destra, Nadine Petry, mia
figlia Patty e mio figlio Dave, Agnes
Newton e Irene Clark. E naturalmente
John Conheeney, marito straordinario, e
tutta quanta la mia famiglia.
Sentiti ringraziamenti a Gypsy da
Silva, la redattrice, e Jackie Seow, l’art
director. Grazie anche a Elizabeth
Breeden.
È ora di pensare al dopo. Ma
rimanderò per il momento. In fondo
domani è un altro giorno.
Prologo
AL parco giochi della Quindicesima
Strada a Manhattan, non lontano da casa,
il dottor Greg Moran spingeva il suo
bambino, Timmy, sull’altalena.
«Ultimi due minuti», annunciò
ridendo e dando un’altra spinta
abbastanza forte da far contento il
piccolo monello di tre anni, ma non tanto
forte da rischiare di farlo cadere. Era
una scena a cui in passato aveva spesso
assistito e quando metteva Timmy su una
di quelle altalene era sempre
estremamente prudente. Come medico
del pronto soccorso era un esperto di
incidenti.
Erano le sei e mezzo di sera e l’aria
si era fatta un po’ pungente, a ricordargli
che il successivo weekend si celebrava
il Labor Day. «Ancora un minuto», disse
con fermezza. Prima di portare Timmy al
parco giochi, Greg era stato in servizio
per dodici ore in un pronto soccorso più
caotico che mai. In una gara di macchine
sulla Prima Avenue i giovani che si
trovavano a bordo di due auto erano
rimasti coinvolti in un terribile schianto.
Miracolosamente nessuno aveva perso
la vita, ma tre dei ragazzi avevano
riportato ferite molto gravi.
Greg staccò le mani dall’altalena in
modo che rallentasse fino a fermarsi. Se
Timmy non aveva tentato inutilmente di
protestare significava che era pronto a
tornare a casa anche lui. In ogni caso in
tutto il parco giochi c’erano solo loro
due.
«Dottore!»
Quando si girò, Greg si trovò faccia a
faccia con un uomo di statura media,
muscoloso, il viso nascosto sotto una
sciarpa. Gli puntava una pistola alla
testa. Con una mossa istintiva, Greg si
spostò di lato per allontanarsi il più
possibile da Timmy. «Senti, il portafogli
è in questa tasca», disse in un tono
pacato. «Prendilo pure.»
«Papà.»
Timmy era spaventato. Ancora sul
seggiolino dell’altalena, si era girato e
aveva guardato lo sconosciuto negli
occhi.
Nei suoi ultimi istanti di vita, Greg
Moran, trentaquattro anni, medico
apprezzato, marito e padre affettuoso,
cercò di lanciarsi sul suo aggressore, ma
non poté in alcun modo sottrarsi al colpo
fatale che lo raggiunse con micidiale
precisione al centro della fronte.
«PAPÀÀÀÀÀÀÀ!» strillò Timmy.
L’assassino corse verso la strada, poi
si fermò e si voltò. «Timmy», gridò, «di’
a tua madre che adesso tocca a lei. Poi
sarà il tuo turno.»
Margy Bless, un’anziana signora che
stava tornando a casa dalla panetteria
del quartiere dove lavorava part-time,
udì il colpo di pistola e le minacce.
Restò immobile per alcuni lunghi
secondi come per capacitarsi della
scena spaventosa di cui era stata
testimone: l’uomo che scompariva
correndo dietro l’angolo con la pistola
ancora in pugno, il bambino che urlava
sull’altalena, l’altro uomo accasciato al
suolo.
Le tremavano così forte le mani che
le ci vollero tre tentativi prima di
riuscire a digitare il 911.
All’operatrice che rispose, Margy
riuscì solo a balbettare: «Presto! Presto!
Potrebbe tornare! Ha ucciso un uomo e
poi ha minacciato il bambino!»
La voce le morì in gola mentre
Timmy si metteva a gridare: «Occhi Blu
ha ucciso il mio papà... Occhi Blu ha
ucciso il mio papà!»
1
DALLA finestra del suo ufficio al
venticinquesimo piano del Rockefeller
Center, Laurie Moran osservava la pista
di pattinaggio al centro del famoso
complesso di Manhattan. Era una
giornata di marzo, serena ma fredda, e
da lassù guardava le goffe e pericolanti
manovre dei principianti in netto
contrasto con i pattinatori più esperti le
cui lame solcavano il ghiaccio con la
grazia di ballerini classici.
Suo figlio Timmy, di otto anni, era un
patito di hockey ed era seriamente
intenzionato a entrare nella squadra dei
New York Rangers. Laurie sorrise
pensando al volto di Timmy, i suoi
espressivi occhi marroni brillanti di
gioia nell’immaginare se stesso da
grande a difendere la porta dei Rangers.
A quell’età sarebbe emersa del tutto la
somiglianza con Greg, pensò Laurie, ma
si distolse in fretta da quella
considerazione e tornò a occuparsi del
progetto che stava esaminando.
A trentasei anni, con i capelli color
del miele lunghi sulle spalle, occhi
nocciola tendenti più al verde che al
marrone, fisico snello e lineamenti
classici che non avevano bisogno di
trucco, Laurie era quel tipo di donna che
le persone si voltano a guardare. «Bella
e di classe», veniva descritta il più delle
volte.
Famosa produttrice di programmi
alla Fisher Blake Studios, si accingeva a
lanciare una nuova serie televisiva su
omicidi irrisolti che aveva già messo in
cantiere prima della morte di Greg.
Aveva in seguito accantonato il progetto
nel timore si pensasse che avesse preso
spunto dal tragico caso del marito.
L’idea era di inscenare delitti dei
quali non era stato trovato il colpevole,
ricorrendo ad amici e parenti delle
vittime anziché veri attori, per ascoltare
dalle loro voci la loro versione di
quello che era successo all’epoca del
crimine. In tutti i casi in cui fosse stato
possibile, l’ambientazione sarebbe stata
quella reale. Era un’impresa rischiosa,
con tutti gli elementi per ottenere un
grande successo, ma anche per scatenare
un grande dibattito.
Si era appena vista con Brett Young,
il suo capo, che le aveva rammentato il
giuramento di non occuparsi mai più un
altro reality show. «I tuoi ultimi due flop
ci sono costati un occhio della testa,
Laurie», le aveva fatto notare. «Non
possiamo permettercene un terzo. E»,
con un’aggiunta allusiva, «non puoi
permettertelo neanche tu.»
Ora, in compagnia del caffè che si
era portata in ufficio tornando
dall’incontro delle due del pomeriggio,
Laurie
riandò
all’appassionata
perorazione con cui era riuscita a
convincerlo. «Brett, prima che tu mi
ripeta per l’ennesima volta quanto sei
stufo dei reality, ti prometto che questo
sarà diverso. Lo chiameremo Under
Suspicion. Nella presentazione che ti ho
preparato, a pagina due, troverai una
lunga lista di casi rimasti irrisolti e di
altri che si presume siano stati risolti,
ma dove emerge con evidenza la
possibilità che in prigione sia finita la
persona sbagliata.»
Si guardò intorno. Ciò che vide
confermò la sua risolutezza ad andare
fino in fondo. Il suo ufficio era
abbastanza grande da contenere un
divano sotto le vetrate e una grande
libreria nei cui scaffali erano in bella
mostra tutti i premi ricevuti e alcune foto
di famiglia, per lo più di suo padre e di
Timmy. Molto tempo prima aveva
deciso che le immagini di Greg
dovessero essere riservate alla sua casa
e alla sua camera da letto, non esposte
lì, dove inevitabilmente avrebbero
ricordato a tutti che lei era vedova e che
l’assassino di suo marito non era mai
stato scoperto.
«Il rapimento del figlio di Lindbergh
è al primo posto nella tua lista», aveva
ribattuto Brett. «È una storia di
ottant’anni fa. Non avrai in mente di
rivangare quella, spero.»
Laurie gli aveva spiegato che era un
buon esempio di uno di quei fatti
criminosi di cui si parlava per
generazioni non solo per il tragico esito,
ma anche per i molti interrogativi
rimasti
senza
risposta.
Bruno
Hauptmann, l’immigrato tedesco che era
stato giustiziato per il rapimento del
piccolo Lindbergh, era quasi certamente
colui che aveva costruito la scala con
cui il rapitore aveva avuto accesso alla
camera del neonato. Ma come faceva a
sapere che tutte le sere la tata lasciava il
bambino solo proprio in quei
quarantacinque minuti per andare a
cenare? Chi glielo aveva detto?
Aveva quindi raccontato a Brett
dell’omicidio irrisolto di una delle
figlie gemelle del senatore Charles H.
Percy. Era successo all’inizio della sua
prima campagna per il Senato nel 1966.
Lui era stato eletto, ma il delitto non era
mai stato risolto ed era rimasto il dubbio
che fosse stata uccisa la gemella
sbagliata. E se uno sconosciuto si era
introdotto nell’abitazione, come mai il
cane non aveva abbaiato?
Il fatto è, aveva spiegato a Brett, che
quando cominci a parlare di casi come
quello, non c’è nessuno che non abbia
una propria teoria. «Produrremo un
reality su delitti avvenuti tra i venti e i
trent’anni fa, raccogliendo i punti di
vista delle persone più vicine alla
vittima», aveva annunciato. «E ho già il
caso perfetto per la prima puntata: il
Graduation Gala.»
Era a quel punto che Brett aveva
manifestato vero interesse, notò Laurie.
Siccome abitava nella contea di
Westchester, era una storia che
conosceva bene: vent’anni prima,
quattro giovani donne che erano
cresciute assieme a Salem Ridge si
erano laureate in quattro college diversi.
Il patrigno di una di loro, Robert
Nicholas Powell, aveva organizzato una
festa in onore di tutte e quattro,
battezzandola
«Graduation
Gala»:
trecento
invitati,
abiti
eleganti,
champagne e caviale, fuochi d’artificio,
di tutto e di più. Dopo la festa, la figlia
adottiva e le sue tre amiche avevano
dormito a casa sua. L’indomani mattina
la moglie quarantaduenne di Powell,
Betsy Bonner Powell, una nota ed
esuberante protagonista della mondanità
locale, era stata trovata morta soffocata
nel suo letto. Il caso non era mai stato
risolto. Rob, come tutti chiamavano
Powell, aveva ormai settantotto anni, ma
era in eccellenti condizioni fisiche e
mentali e viveva ancora nella vecchia
casa.
Non si era mai risposato, ricordò
Laurie. Non molto tempo prima aveva
rilasciato un’intervista a The O’Reilly
Factor in cui aveva ribadito di essere
disposto a tutto pur di far luce sul
mistero della morte della moglie e di
sentirsi sicuro che il suo stato d’animo
fosse condiviso dalla figlia e dalle sue
amiche. Erano tutti convinti che, finché
non si fosse conosciuta la verità, il
dubbio che a uccidere Betsy fosse stato
uno di loro avrebbe serpeggiato tra la
gente.
È lì che Brett mi ha autorizzato a
contattare Powell e le quattro donne per
sapere se fossero disposte a partecipare,
pensò Laurie esultante.
Era ora di dare la buona notizia a
Grace e Jerry. Chiamò i due assistenti e
passarono solo pochi secondi prima che
la porta del suo ufficio si spalancasse.
Grace Garcia, venticinque anni, sua
assistente amministrativa, indossava un
corto vestitino rosso di lana su leggings
di cotone e stivali alti con i bottoni.
Aveva raccolto i lunghissimi capelli
neri, fissandoli con un pettinino. I
riccioli sfuggiti al fermaglio le
incorniciavano il viso a forma di cuore.
L’abbondante mascara applicato con
perizia accentuava la vivacità dei suoi
occhi scuri.
Un passo dietro di lei c’era Jerry
Klein. Alto e dinoccolato, andò a
sistemarsi subito su una delle
poltroncine davanti alla scrivania di
Laurie. Indossava come sempre
dolcevita e cardigan. Dichiarava di
voler far durare per almeno vent’anni
l’unico vestito blu e l’unico smoking in
suo possesso. E Laurie era sicura che ce
l’avrebbe fatta. Ora ventiseienne, era
entrato allo studio tre anni prima con un
contratto a termine di pochi mesi. Come
assistente alla produzione si era
dimostrato indispensabile.
«Non vi terrò sulle spine», esordì
Laurie. «Brett ci ha dato il via libera.»
«Lo sapevo!» proruppe Grace.
«Io l’ho capito dall’espressione che
avevi quando sei uscita dall’ascensore»,
fece eco Jerry.
«Nient’affatto», lo rintuzzò Laurie.
«Io ho una faccia da poker. Comunque,
per cominciare ho l’incarico di mettermi
in contatto con Robert Powell. Se avrò
il suo benestare, da quel che ho visto
della sua intervista, sono quasi certa che
saranno propense a partecipare al
progetto anche la figlia e le sue tre
amiche.»
«Soprattutto perché saranno pagate
profumatamente e nessuna di loro si può
definire ricca», commentò Jerry
ricordando le informazioni raccolte
durante le fasi preliminari del progetto.
«Claire Bonner, la figlia di Betsy, fa
l’assistente sociale a Chicago. Nubile.
Nina Craig è divorziata e vive a
Hollywood, dove si mantiene facendo la
comparsa nei film. Alison Schaefer
lavora come farmacista in un piccolo
drugstore di Cleveland. Ha un marito
invalido, vittima di un pirata della
strada vent’anni fa. Regina Callari si è
trasferita a St. Augustine in Florida,
dove
ha
una
piccola
agenzia
immobiliare. Divorziata con un figlio al
college.»
«Ci stiamo esponendo a un bel
rischio», li ammonì Laurie. «Brett mi ha
già ricordato che le ultime due serie
sono stati dei fiaschi.»
«E ha parlato delle prime due che
stanno andando ancora forte?» ribatté
indignata Grace.
«No, questo non lo ha fatto. E non lo
farebbe mai. Io però sento che questa è
un’idea vincente. Se Robert Powell ci
sta, sono quasi pronta a scommettere che
tireremo dentro anche le altre», concluse
Laurie. «Diciamo che lo spero
vivamente e prego che succeda», ritenne
di dover aggiungere subito dopo.
2
QUANDO ormai si dava per scontato che
sarebbe stato lui il prossimo
commissario, il vice Leo Farley della
polizia
di
New
York
aveva
inaspettatamente presentato richiesta di
prepensionamento, il giorno dopo i
funerali del genero. A distanza di cinque
anni, non aveva mai avuto ripensamenti.
A sessantatré anni era ancora un
poliziotto fin nel profondo dell’anima.
Da sempre aveva avuto l’intenzione di
esserlo anche nella pratica fino al giorno
del pensionamento contrattuale, ma
qualcosa di più importante aveva
cambiato i suoi programmi.
L’inspiegabile uccisione a sangue
freddo di Greg e la minaccia udita
dall’anziana testimone, «Timmy, di’ a tua
madre che adesso tocca a lei, poi sarà il
tuo turno», erano una ragione più che
sufficiente per decidere di dedicare la
propria vita alla protezione della figlia e
del nipote. Dritto come un palo, di
statura media, con una folta chioma
color grigio ferro e un fisico tonico
tenuto a regime, Leo Farley era in una
costante condizione di allerta.
Sapeva di non poter tenere sempre
sotto controllo la figlia. Lei aveva un
lavoro che amava e di cui aveva
bisogno. Usava i mezzi pubblici, faceva
lunghe corse a Central Park, e con il bel
tempo pranzava spesso in una delle
piccole isole di verde nei dintorni
dell’ufficio.
Altra questione era rappresentata da
Timmy. Per come la vedeva Leo, non
c’era niente che impedisse all’assassino
di Greg di decidere di prendere di mira
Timmy prima di sua madre, perciò si era
autoproclamato suo angelo custode. Era
lui ad accompagnare tutte le mattine il
nipote alla Saint David’s School ed era
lui ad aspettare che uscisse. Se Timmy
aveva da svolgere qualche attività
supplementare dopo la scuola, Leo
montava con discrezione di guardia ai
bordi della pista di pattinaggio o
dell’area di ricreazione.
Per Leo, Greg Moran aveva
rappresentato il figlio maschio ideale.
Erano passati ormai dieci anni da
quando si erano conosciuti al pronto
soccorso del Lenox Hill Hospital. Era lì
che lui e Eileen si erano precipitati
appena ricevuta la telefonata con cui li
informavano che Laurie, la loro figlia
ventiseienne, era stata investita da un
taxi in Park Avenue ed era priva di
sensi.
«Si è svegliata e sta bene», erano le
convincenti e rassicuranti parole con cui
li aveva ricevuti Greg, alto e imponente
nella sua verde divisa ospedaliera. «Una
frattura alla caviglia e una commozione
cerebrale. La terremo in osservazione,
ma è fuori pericolo.»
A quella notizia Eileen, in preda
com’era ad angoscia e disperazione,
aveva perso i sensi e Greg si era trovato
con un’altra paziente da accudire.
L’aveva sorretta intervenendo con
tempismo prima che cadesse. Da allora
non era più uscito dalle loro vite, pensò
Leo. Già tre mesi dopo Greg e Laurie
erano fidanzati. E alla morte di Eileen,
avvenuta solo un anno più tardi, Greg
era stato un incrollabile sostegno per
tutti.
Perché mai qualcuno l’aveva voluto
morto? L’indagine era stata più che
meticolosa, nulla era rimasto intentato
nello sforzo di trovare chi potesse
covare motivi di rancore verso Greg,
per quanto impensabile risultasse a
chiunque lo avesse conosciuto. Dopo
aver velocemente eliminato amici e
compagni di corso, avevano esaminato
puntigliosamente tutti i dati relativi al
suo operato, prima come interno, e poi
come direttore del personale. Nei due
ospedali in cui aveva lavorato non
emerse nulla in merito a qualche
paziente o suo famigliare che lo avesse
accusato di una diagnosi errata o di una
terapia sfociata in un danno permanente
o un decesso.
Alla procura distrettuale il caso era
conosciuto come l’«assassino dagli
occhi blu». Capitava alle volte che
Timmy avesse un sussulto nel girarsi
all’improvviso a incrociare lo sguardo
di Leo, i cui occhi erano di un’intensa
sfumatura di celeste. Era sicuro anche
lui, come Laurie e lo psicologo, che
l’uomo che aveva ucciso Greg dovesse
aver avuto grandi e penetranti occhi
azzurri.
Laurie aveva discusso con il padre la
sua idea per la nuova serie televisiva,
da lanciare con il caso del Graduation
Gala. Leo aveva tenuto per sé il proprio
sconcerto. L’idea che la figlia riunisse
un gruppo di persone tra le quali
probabilmente si nascondeva un
assassino non poteva non turbarlo.
Qualcuno aveva odiato abbastanza Betsy
Bonner Powell da soffocarla con un
cuscino. Quella stessa persona aveva
sicuramente un forte senso di
autoconservazione. Leo sapeva che venti
anni prima le quattro giovani donne e il
marito di Betsy erano stati interrogati
dai più abili ed esperti detective della
Omicidi. Se in quella casa era entrato
qualcuno riuscendo a non lasciare
traccia della sua intrusione e se quel
caso fosse diventato l’argomento di un
programma televisivo, omicida e
indiziati si sarebbero trovati di nuovo
tutti insieme: una situazione molto
pericolosa.
Erano questi i pensieri che
occupavano la mente di Leo mentre
riaccompagnava a casa Timmy dalla
scuola. Dopo la morte di Greg, Laurie
aveva immediatamente traslocato non
potendo sopportare la vista del parco
giochi in cui era stato ucciso il marito.
Una macchina di pattuglia di
passaggio rallentò incrociandoli e
l’agente di fianco al conducente
indirizzò a Leo un saluto militare.
«Mi piace quando ti salutano così,
nonno», squittì Timmy. «Mi fa sentire al
sicuro», aggiunse poi con distaccato
realismo.
Attento, si ammonì Leo. Ho sempre
detto a Timmy che se io non fossi stato
presente e lui o i suoi amici avessero
avuto un problema, dovevano chiedere
aiuto a un poliziotto. Aumentò
involontariamente la pressione sulla
mano di Timmy.
«Finora non hai avuto alcun problema
che io non potessi risolvere per te.» Poi,
come per un ripensamento, soggiunse:
«Almeno per quel che ne so».
Erano quasi arrivati a casa. Il vento
aveva cambiato direzione e soffiava
loro in faccia. Leo si fermò per calcare
meglio su orecchie e fronte il berretto di
lana di Timmy.
«Stamattina a uno delle medie che
stava andando a scuola a piedi hanno
cercato di strappare di mano il
cellulare», raccontò Timmy. «Era un
tizio in bici. Ma un poliziotto ha visto
tutto e lo ha arrestato.»
L’aggressore non aveva gli occhi blu.
Leo si vergognava di dover ammettere
di averne provato un enorme sollievo.
Finché non avessero preso l’assassino
di Greg non si sarebbe dato pace.
Ma prima o poi verrà il giorno in cui
sarà fatta giustizia, disse tra sé.
Quella stessa mattina, mentre usciva
di corsa da casa già pochi secondi dopo
il suo arrivo, Laurie gli aveva
annunciato che avrebbe avuto il verdetto
finale sul reality show. Da quel momento
Leo era vissuto nell’ansia, ben sapendo
che avrebbe dovuto aspettare fino a sera
per sapere quale decisione fosse stata
presa. Davanti alla loro seconda tazza di
caffè, quando Timmy aveva ormai finito
di cenare ed era raggomitolato nella
poltrona grande con il suo libro, Laurie
ne avrebbe discusso con lui. Dopodiché
Leo sarebbe tornato a casa sua, a poche
centinaia di metri dall’abitazione della
figlia. Si era assunto l’impegno di
riservare il giusto spazio che Laurie e
Timmy meritavano e gli era sufficiente
sapere che nessuno poteva entrare nel
loro palazzo senza che il portiere li
avvertisse.
Ma se le danno il via libera per
quella serie, non c’è da aspettarsi nulla
di buono, pensava.
Come sbucando dal nulla, un uomo in
felpa con cappuccio, occhiali scuri e una
borsa di tela a tracolla gli sfrecciò
accanto sui rollerskate e per poco non
fece cadere Timmy, sfiorando quindi una
giovane donna visibilmente incinta che
si trovava a due o tre metri da loro.
«Scendi dal marciapiede!» gridò Leo
allo skater nell’attimo in cui scompariva
oltre l’angolo.
Dietro gli occhiali scuri, uno
scintillio illuminò gli occhi azzurri,
accompagnato da una forte risata. Gli
incontri di quel genere alimentavano la
sensazione di potere di cui aveva
bisogno e che provò nel momento in cui
toccò letteralmente Timmy, sapendo di
poter in qualsiasi momento mettere in
pratica la sua minaccia.
3
ROBERT Nicholas Powell aveva
settantotto anni, ma a giudicare
dall’aspetto e dal dinamismo ne
dimostrava dieci di meno. I capelli,
ancora folti, erano bianchi, i lineamenti
piacenti, il portamento ancora eretto,
anche se aveva perso qualche centimetro
dal metro e ottantacinque originale.
Dava un’impressione di autorevolezza
che veniva immediatamente percepita da
chiunque si trovasse al suo cospetto.
Tolto il venerdì, trascorreva ancora
giornate piene nel suo ufficio di Wall
Street, accompagnato in macchina come
sempre dal fedele autista Josh Damiano.
Quel giorno, martedì 16 marzo, Rob
aveva deciso di restare a casa e
incontrare Laurie Moran nella sua
abitazione di Salem Ridge e non in
ufficio. La produttrice televisiva gli
aveva spiegato il motivo della sua visita
sollecitando con astuzia la sua curiosità.
«Signor Powell», gli aveva detto,
«penso che se lei, sua figlia e le sue
amiche accetteranno di ricostruire le
circostanze di quel Graduation Gala, il
pubblico si renderà conto di quanto
incredibile sia sospettare che qualcuno
di voi possa essere stato responsabile
della morte di sua moglie. Il vostro era
un matrimonio felice. È una cosa che
sapevano
tutti
coloro
che
vi
conoscevano. Sua moglie e sua figlia
andavano d’amore e d’accordo. Le altre
tre neolaureate avevano frequentato
costantemente la casa di Betsy dai tempi
del liceo e successivamente, quando lei
sposò Betsy, continuarono a essere
ospiti gradite. Lei ha una casa molto
grande e con tutta la gente che c’era a
quella festa è più che possibile che
qualcuno si sia introdotto senza che
nessuno se ne accorgesse. Si sapeva
della preziosa collezione di gioielli di
sua moglie che quella sera aveva
indossato la parure di smeraldi.»
«I giornali trasformarono una
tragedia in uno scandalo.» Nelle
orecchie di Robert Powell risuonava
ancora l’amaro commento con cui aveva
risposto a Laurie Moran. Comunque, fra
poco sarà qui, pensò, vediamo cosa
succede.
Era alla scrivania del suo spazioso
ufficio al pianterreno. Le ampie vetrate
si affacciavano sul giardino dietro la
casa. Un panorama splendido in
primavera, in estate e all’inizio
dell’autunno, considerò Rob. D’inverno,
il giardino spoglio tornava a offrire una
vista addolcita e talvolta resa magica
dalla neve, ma in una giornata di marzo
fredda, umida e sotto una coltre di nubi
scure, con gli alberi denudati, la vasca
della piscina coperta e la dépendance
chiusa in attesa della bella stagione, non
c’era pianta esotica in grado di mitigare
la crudezza del paesaggio invernale.
La poltrona imbottita che occupava
era molto confortevole e sorrise tra sé
meditando sul segreto mai condiviso con
nessuno. Era sicuro che star seduto a
quella imponente, antica scrivania di
mogano con le eleganti incisioni sui lati
e sulle gambe conferisse ancor più
prestigio all’immagine coltivata con
tanta cura. Era l’immagine che aveva
cominciato a creare il giorno in cui, a
diciassette anni, aveva lasciato Detroit
per il suo ingresso da borsista a
Harvard. All’università si era sempre
vantato
di
avere
una
madre
professoressa di college e un padre
ingegnere, quando in realtà sua madre
lavorava nelle cucine dell’Università
del Michigan e suo padre faceva il
meccanico in uno stabilimento della
Ford.
Sorrise ricordando come, da studente
del secondo anno, si era comprato un
manuale di buone maniere e un set di
vecchia posateria argentata con cui fare
pratica con utensili a lui poco familiari
come per esempio il coltello da pesce
fino a saperli usare con disinvoltura.
Conseguita la laurea, dopo un periodo di
apprendistato alla Merrill Lynch, aveva
dato inizio alla sua carriera nel mondo
della finanza. Ora, nonostante qualche
periodo di incertezze, il R. N. Powell
Hedge Fund era considerato uno degli
investimenti migliori e più sicuri di Wall
Street.
Alle undici in punto la suoneria
melodica della porta d’ingresso
annunciò l’arrivo di Laurie Moran. Rob
si mise diritto. Si sarebbe ovviamente
alzato in piedi quando la sua visitatrice
fosse stata accompagnata nel suo ufficio,
ma non prima che lo vedesse seduto alla
scrivania. Si sentiva inaspettatamente
molto curioso di conoscerla. Gli era
stato impossibile stabilire quanti anni
potesse avere, a giudicare dalla voce
udita al telefono. Nel presentarsi, il tono
era stato pratico, sbrigativo, ma poi la
donna aveva lasciato trasparire una nota
di commozione nel parlare della morte
di Betsy.
Dopo la loro conversazione, aveva
cercato informazioni su di lei nella rete
ed era rimasto non poco colpito nello
scoprire che era la vedova del medico
ucciso al parco giochi e che vantava
riconoscimenti importanti nel mondo
della
produzione
televisiva.
Le
fotografie gli avevano rivelato una
persona molto attraente. E io non sono
ancora troppo vecchio per non
apprezzarlo, aveva pensato Rob.
Bussarono alla porta e un attimo
dopo entrò Jane, la sua governante dai
tempi di Betsy, seguita da Laurie Moran.
«Grazie, Jane», disse Rob e prima di
alzarsi aspettò che fosse uscita
chiudendosi la porta alle spalle.
«Signora Moran», salutò allora in tono
cortese. Le porse la mano e le indicò la
poltrona davanti alla scrivania.
Robert Powell non poteva sapere che
cosa stesse pensando Laurie. Ebbene,
eccoci qui, diceva tra sé mentre si
accomodava con un sorriso cordiale. La
governante si era presa cura del
cappotto, dopodiché Laurie entrò con il
suo completo giacca e pantaloni gessato
blu scuro, una camicetta bianca e stivali
intonati. Gli unici gioielli erano due
perle alle orecchie e la fede nuziale
d’oro. Aveva raccolto i capelli in una
compatta treccia alla francese fermata
con delle forcine, un’acconciatura che la
faceva sentire più efficiente.
Nel giro di cinque minuti fu certa che
Robert Powell avesse già deciso di
accettare la sua proposta, ma a lui ce ne
vollero dieci per confermarlo. «Signor
Powell sono felice che abbia accettato
di rimettere in scena gli avvenimenti
della sera del Graduation Gala. Ora
naturalmente avremo bisogno della
collaborazione di sua figlia e delle sue
amiche. Mi aiuterà a convincerle a
partecipare?»
«Lieto di venirle incontro, anche se
ovviamente
non
posso
dare
assicurazioni per loro conto.»
«Ha mantenuto rapporti stretti con la
figlia della sua defunta moglie?»
«No. Non che non lo avessi
desiderato. Ero e sono molto affezionato
a Claire. È vissuta qui da quando aveva
tredici anni fino al compimento dei
ventuno. La morte di sua madre è stata
uno choc terribile per lei. Non so quanto
si sia informata su Claire, ma deve
sapere che i suoi genitori non si erano
mai sposati. Il padre se ne andò appena
Betsy rimase incinta. Betsy recitava in
qualche particina a Broadway e quando
non era in scena lavorava come
maschera. Furono momenti duri per lei e
Claire prima che arrivassi io.»
Fece una pausa. «Betsy era molto
bella», riprese. «Sono sicuro che
avrebbe facilmente trovato un marito,
ma dopo quello che le era successo con
il padre di Claire so che l’idea la
mandava in ansia.»
«Lo posso capire», annuì Laurie.
«Anch’io. Non avendo figli miei, ho
sempre considerato Claire come una
figlia naturale. Mi ha addolorato quando
se ne è andata così in fretta dopo la
morte di Betsy. Ma credo che fra tutti e
due lo strazio fosse troppo grande per
rimanere sotto un solo tetto, una
situazione che lei colse all’istante.
Come lei sicuramente saprà, vive a
Chicago dove fa l’assistente sociale.
Non si è mai sposata.»
«Qui non è mai tornata?»
«No. E non ha mai accettato la mia
offerta di un sostanzioso aiuto
economico. Ha stracciato le mie lettere
e me le ha rispedite.»
«Secondo lei perché ha agito così?»
chiese Laurie.
«Era profondamente gelosa della mia
relazione con sua madre. Non si
dimentichi che per tredici anni erano
vissute da sole.»
«Crede dunque che rifiuterà di
prendere parte al programma?»
«No, questo no. È capitato di tanto in
tanto che un giornalista intraprendente
abbia scritto del caso e alcuni di loro
hanno citato dichiarazioni di Claire o di
una delle altre ragazze. Le loro posizioni
sono sempre risultate concordi. Hanno
tutte l’impressione che la gente le guardi
con sospetto e farebbe loro piacere
mettere fine a questo clima.»
«Abbiamo intenzione di offrire a
ciascuna cinquantamila dollari per la
loro partecipazione al programma», lo
informò Laurie.
«Non le ho mai perse di vista. È una
somma che può far comodo a tutte e
quattro. Per avere la certezza che
accettino, la autorizzo a dire che sono
pronto a versare a ciascuna un quarto di
milione di dollari per la loro
collaborazione.»
«Sul serio?» si meravigliò Laurie.
«Sì. E mi informi su chi altri vuole
intervistare nel suo programma.»
«Direi che sicuramente vorrò sentire
che cos’ha da raccontare la sua
governante», rispose Laurie.
«Dia anche a lei i cinquantamila che
intende offrire alle altre e io ne
aggiungerò altrettanti. Mi assicurerò che
si metta a sua disposizione, ma non è
necessario che venga pagata come le
altre. Io ho settantotto anni e tre stent
nelle arterie che portano al cuore. So di
essere sospettato anch’io come le
ragazze, so di essere un indiziato o una
‘persona informata dei fatti’ come si
preferisce dire oggigiorno, no? Prima di
morire voglio sedermi in un’aula di
giustizia e vedere l’assassino di Betsy
condannato al carcere.»
«Non ha mai sentito nessun rumore
provenire dalla sua stanza?»
«No. Come sicuramente saprà,
occupavamo una suite. Fra le nostre due
camere da letto c’era un salotto.
Confesso di avere un sonno profondo e
di russare parecchio. Dopo che ci siamo
scambiati la buonanotte, mi ero ritirato
nella mia stanza.»
Quella sera Laurie attese che Timmy
fosse immerso nella lettura del suo libro
di Harry Potter prima di riferire al padre
dell’incontro con Powell.
«So che dovrei evitare i giudizi
affrettati», disse, «ma ho sentito un’eco
di sincerità nella voce di Powell. E la
sua offerta di dare un quarto di milione
di dollari alle ragazze è fantastica.»
«Un quarto di milione più quello che
verserai loro tu», precisò Leo. «Hai
detto che Powell sa che a tutte e quattro
quelle donne faranno comodo tutti quei
soldi.»
«Sì, così ha sostenuto.» Laurie sentì
di aver assunto un atteggiamento
difensivo.
«E ha mai aiutato nessuna di loro in
questi anni, compresa la figlia di sua
moglie?»
«Ha fatto intendere di no.»
«Io credo che sia un aspetto sul quale
dovresti indagare. Chissà qual è il vero
motivo per cui è disposto a sganciare
tutti quei quattrini.» Era nella natura di
Leo voler sapere che cosa c’era dietro
le iniziative della gente. Era il poliziotto
che aveva dentro. E il padre. E il nonno.
A quel punto decise di finire il caffè
e tornare a casa. Sto diventando
ipersensibile, pensava, e questo non è un
bene né per Laurie né per Timmy. Anche
il modo in cui ho gridato a quel tizio sui
rollerskate. Avevo ragione di protestare,
avrebbe potuto investire qualcuno, ma a
spaventarmi davvero è stato vederlo
strusciare Timmy. Se fosse stato armato,
con una pistola o un coltello, nemmeno
tenendo Timmy per mano avrei potuto
intervenire abbastanza in fretta per
proteggerlo.
Era troppo vecchio del mestiere per
non sapere che se qualcuno decideva di
sfogare il proprio rancore verso una
persona, non esisteva al mondo
protezione o sorveglianza che potesse
impedirgli di uccidere la sua vittima.
4
CLAIRE Bonner prese posto a un
tavolino del Seafood Bar del Breakers
Hotel a Palm Beach. Era sul lato
dell’oceano e osservò con svogliato
interesse le onde che si abbattevano sul
frangiflutti direttamente sotto il bar. In
cielo splendeva il sole ma il vento era
più forte di quanto si fosse aspettata in
Florida in una giornata di inizio
primavera.
Indossava una giacchetta celeste con
la zip che aveva appena acquistato.
Aveva deciso di prenderla quando si era
accorta che sul taschino portava la
scritta THE BREAKERS. Faceva parte
della fantasia del weekend lungo che
stava trascorrendo in Florida. I corti
capelli biondo cenere incorniciavano un
viso nascosto per metà da enormi
occhiali da sole. Raramente si toglieva
quegli occhiali, ma quando accadeva,
Claire rivelava lineamenti raffinati e
un’espressione di tranquillità a cui
aveva lavorato per anni. Un osservatore
attento si sarebbe accorto tuttavia che
quell’espressione era più dovuta
all’accettazione della realtà che a
un’autentica pace interiore. Nella figura
snella si intuiva la fragilità di una
persona convalescente. Lo stesso
osservatore le avrebbe assegnato
trentacinque anni di età. In questo caso
si sarebbe sbagliato. Ne aveva
quarantuno.
Nei quattro giorni trascorsi l’aveva
sempre servita lo stesso, cortese,
giovane cameriere, che questa volta
avvicinandosi al suo tavolo le si rivolse
chiamandola per nome. «Mi lasci
indovinare, signora Bonner», disse.
«Zuppa di frutti di mare e doppia
porzione di chele di granchio.»
«Indovinato»,
rispose
Claire
lasciando comparire l’abbozzo di un
sorriso agli angoli delle labbra.
«E il solito bicchiere di chardonnay»,
aggiunse lui prendendo nota.
Fai una cosa per alcuni giorni di fila
e diventa il solito, rifletté Claire con
sarcasmo.
Lo chardonnay arrivò subito. Sollevò
il bicchiere e si guardò intorno mentre
beveva.
Tutti gli avventori erano in
abbigliamento casual ma firmato. The
Breakers era un albergo di lusso, per
gente danarosa. Era la settimana di
Pasqua e tutte le scuole erano chiuse.
Quando era scesa in sala da pranzo per
la prima colazione aveva visto che le
famiglie con bambini erano quasi tutte
accompagnate da una tata impegnata a
tenere a freno i marmocchi troppo
esuberanti perché i genitori potessero
godersi in pace il sontuoso buffet.
Le persone che frequentavano il bar
all’ora di pranzo erano quasi tutte
adulte. Nell’aggirarsi per l’albergo
aveva notato che le famiglie con
bambini gravitavano più volentieri nella
zona dei ristoranti intorno alla piscina,
dove la scelta dei piatti era più ampia.
Che effetto le avrebbe fatto andare in
vacanza lì tutti gli anni fin da quando era
piccola? si chiese. Poi cercò di
scacciare il ricordo delle sere in cui si
addormentava nel teatro semivuoto dove
sua madre faceva la maschera. Era stato
prima che conoscessero Robert Powell,
naturalmente. Ma a quell’epoca
l’infanzia di Claire era quasi terminata.
Mentre era assorta in quei pensieri,
al tavolo accanto al suo si sedettero due
coppie ancora in abiti da viaggio. «È
così bello essere di nuovo qui», sentì
dire con un sospiro compiaciuto a una
delle due donne.
Fingerò di essere di ritorno, pensò.
Fingerò di avere preso tutti gli anni la
stessa stanza affacciata sull’oceano e di
aver compiuto lunghe e piacevoli
passeggiate sulla spiaggia prima di
colazione.
Arrivò il suo cameriere con la zuppa.
«Caldissima, come piace a lei, signora
Bonner», la informò.
Il primo giorno aveva chiesto che la
zuppa fosse bollente e che il granchio le
venisse servito come secondo. Il
cameriere aveva preso mentalmente nota
delle sue preferenze.
La prima cucchiaiata di zuppa per
poco non le bruciò il palato e allora
mescolò il resto nella crosta di pagnotta
privata di mollica che faceva da
scodella aspettando che si raffreddasse
un po’. Poi prese il bicchiere e bevve un
lungo sorso di chardonnay. Era asciutto
e nervoso, esattamente come era stato fin
dal primo giorno della sua vacanza.
Fuori del bar un vento ancora più
forte sferzava le onde trasformandole in
cascate di schiuma.
Claire si sentì come una di quelle
onde che cercavano di raggiungere la
costa ma erano alla mercé di un vento
potente. La decisione era ancora
sospesa. Avrebbe sempre potuto dire di
no. Per anni aveva rifiutato di fare
ritorno alla casa del patrigno. E meno
che mai aveva voglia di tornarci ora.
Nessuno
poteva
costringerla
a
partecipare a un programma televisivo
trasmesso in tutta la nazione e ricostruire
la festa con cui vent’anni prima lei e le
sue tre più care amiche avevano
celebrato il conseguimento della laurea.
D’altra parte, se avesse acconsentito,
lo studio televisivo le avrebbe versato
cinquantamila dollari, ai quali Rob ne
avrebbe
aggiunti
altri
duecentocinquantamila.
Trecentomila dollari in tutto. Voleva
dire prendere un periodo di aspettativa
dal suo lavoro ai servizi sociali di
Chicago. L’attacco di polmonite al quale
era sopravvissuta in gennaio avrebbe
potuto ucciderla e sapeva di essere
ancora debole e incline a stancarsi
subito. Non aveva mai accettato le
offerte di denaro di Powell. Non un solo
centesimo. Dopo quello che aveva fatto.
Avevano voluto chiamare la festa
Graduation Gala. Era stata bella,
bellissima, ricordò Claire. Poi Alison,
Regina e Nina erano rimaste a dormire a
casa nostra. E durante quella notte mia
madre è stata assassinata. Betsy Bonner
Powell, bellissima, piena di vita,
generosa, spiritosa, amorevole Betsy.
Per la quale io provavo infinito
disprezzo, pensò Claire.
Detestavo mia madre, come detestavo
il suo amato maritino, quello che ha
costantemente cercato di mandarmi dei
soldi.
5
REGINA Callari rimpiangeva d’essere
andata all’ufficio postale a ritirare la
raccomandata di Laurie Moran, una
produttrice della Fisher Blake Studios.
Prendere parte a un reality che avrebbe
inscenato la notte del Graduation Gala!
pensava smarrita. E, a onor del vero,
sbalordita.
La lettera l’aveva turbata a tal punto
da farle perdere un cliente. Si era
incartata nell’illustrare le caratteristiche
della casa che stava mostrando e, nel bel
mezzo della visita, il possibile cliente si
era improvvisamente congedato. «Credo
di aver visto abbastanza», aveva
dichiarato in tono brusco. «Non è il
genere di casa che stavo cercando.»
Poi, tornata in agenzia, aveva dovuto
telefonare a Bridget Whiting, la
proprietaria
settantaseienne,
per
informarla di non averci azzeccato. «Ero
sicura che fosse la persona giusta ma
non è andata come mi aspettavo», si
scusò.
Il disappunto nella voce della signora
Whiting fu palpabile. «Non so per
quanto
tempo
terranno
fermo
l’appartamento che mi hanno proposto in
quella bella struttura di assistenza per
gli anziani e invece sarebbe proprio la
casa che vorrei. Oh, povera me! Regina,
forse ho voluto sognare a occhi aperti.
Non è colpa tua.»
Invece lo è, pensò Regina, cercando
di dominare la collera che provava nei
confronti di se stessa mentre prometteva
a Bridget che le avrebbe trovato un
compratore al più presto, e poi, sapendo
quanto le sarebbe stato difficile
nell’attuale situazione di mercato
immobiliare, s’affrettò a salutarla.
Il suo ufficio, un ex box singolo, era
appartenuto in passato a una residenza
privata nella via principale di St.
Augustine, in Florida. Il mercato
immobiliare si era leggermente ripreso
dal periodo critico, ma non abbastanza
perché Regina potesse fare di più che
sbarcare il lunario. Posò i gomiti sulla
scrivania e si premette le dita sulle
tempie. Le ciocche in cui affondò le dita
le ricordarono che i suoi capelli neri
come la notte ricrescevano con la solita
seccante rapidità. Era ora di andare a
tagliarli e a trattenerla era stata fino a
quel momento l’insistenza con cui la sua
parrucchiera pretendeva sempre di
aggiungerle dei riflessi blu. Quello e
naturalmente il relativo costo.
Quella sciocca circostanza la
spingeva a prendersela con se stessa e
con la sua incontrollabile insofferenza.
Cosa c’è mai di così tremendo, disse tra
sé, se per venti minuti devo sopportare
il bla-bla-bla di Lena? Del resto è
l’unica che sa come rendere decente
questo cespuglio ribelle.
Gli occhi marrone scuro di Regina si
soffermarono sulla foto che c’era sul suo
tavolo. Zach, il figlio diciannovenne, le
sorrideva. Stava portando a termine il
suo secondo anno all’Università della
Pennsylvania,
un’istruzione
pagata
completamente dal padre, il suo ex
marito. La sera prima Zach le aveva
telefonato. Esitante, le aveva chiesto se
avesse niente in contrario a un tour
estivo da zaino in spalla in Europa e in
Medio Oriente. La prima intenzione era
stata di trascorrere l’estate a casa
trovando un lavoro a St. Augustine, ma
di lavoro non ce n’era. Il viaggio non
sarebbe costato troppo e comunque lo
avrebbe finanziato suo padre.
«Mi resteranno comunque una decina
di giorni da passare con te prima del
nuovo semestre, mamma», l’aveva
rassicurata come per offrirle qualcosa in
cambio.
Regina aveva risposto che era una
opportunità troppo bella per lasciarsela
scappare. Aveva evitato di far trapelare
nella voce il suo profondo rammarico.
Aveva nostalgia di Zach. Le mancava il
dolce ragazzino che faceva irruzione in
agenzia tornando dalla scuola, felice di
condividere con lei ogni singolo
momento della sua giornata. Le mancava
l’alto e timido adolescente che
rimandava la cena tutte le volte che lei
faceva tardi con un cliente.
Dal giorno del divorzio, Earl si era
fatto in quattro per escogitare strategie
sempre nuove con cui separarla da Zach.
Tutto era cominciato quando Zach, a
dieci anni d’età, si era iscritto a un
corso di vela estivo a Cape Cod. Al
corso era seguito il periodo di vacanza
che il tribunale aveva stabilito dovesse
trascorrere con Earl, il quale lo portava
con la sua nuova moglie a sciare in
Svizzera o sulle spiagge della Costa
Azzurra.
Sapeva quanto Zach le volesse bene,
ma una casa piccola e un tenore di vita
in economia non potevano certo
competere con la vita che gli proponeva
un padre così facoltoso. E ora sarebbe
rimasto via per quasi tutta l’estate.
Regina allungò lentamente la mano
per prendere la lettera e rileggerla. «Lo
studio ci pagherà cinquantamila dollari e
il grande Robert Nicholas Powell ce ne
darà
altri
duecentocinquantamila»,
mormorò. «Il signor Magnanimità in
persona.»
Ripensò alle amiche con cui aveva
fatto gli onori di casa al Graduation
Gala. Claire Bonner. Così bella, ma
sempre così riservata, un’ombra
seminvisibile accanto a sua madre.
Alison Schaefer, così intelligente da
mettere in soggezione tutte le altre.
Avevo sempre pensato, si disse, che
sarebbe stata la nuova Madame Curie. In
ottobre, pochi mesi dopo la morte di
Betsy, si era sposata, e poi Rod, suo
marito, era rimasto vittima di un
incidente. Per quel che mi risulta da
allora ha sempre dovuto camminare con
le stampelle. Nina Craig. L’avevamo
soprannominata «la rossa di fuoco».
Ricordo che già al primo anno di
università, se le saltava la mosca al
naso, c’era da starci attente. Era capace
di dirne quattro anche a un professore se
non otteneva un giudizio abbastanza
positivo per qualche compito.
E poi ci sono io, concluse Regina. A
quindici anni ho aperto il portellone del
box per mettere via la bici e ho trovato
mio padre appeso a una corda. Gli
sporgevano gli occhi dalle orbite e gli
pendeva la lingua fino al mento. Se
doveva impiccarsi, perché non lo ha
fatto in ufficio? Sapeva che sarei stata io
a trovarlo. Gli volevo così bene! Perché
mi ha fatto una cosa così brutta? Tutti
quegli incubi che non finiscono mai. E
cominciano sempre con lei che scende
dalla bici.
Prima di telefonare alla polizia e ai
vicini di casa dove sua madre stava
giocando a bridge, Regina aveva
staccato dalla camicia il messaggio
suicida lasciato dal padre e lo aveva
nascosto. Quando erano arrivati gli
agenti, avevano detto che il più delle
volte i suicidi lasciano un messaggio per
la famiglia. Sua madre, scossa dai
singhiozzi, aveva cercato dappertutto,
assistita da Regina che fingeva di
aiutarla.
Le ragazze sono state il mio
salvagente dopo quella tragedia,
ricordò. Eravamo così amiche. Dopo il
Gala e l’uccisione di Betsy, io, Claire e
Nina abbiamo fatto da damigelle
d’onore ad Alison. Una mossa
veramente stupida. Si è sposata troppo
presto dopo la morte di Betsy e i
giornali scandalistici ci si sono buttati a
pesce con titoli che rivangavano
puntualmente la storia del delitto del
Graduation Gala. È stato allora che ci
siamo rese conto che avrebbero
continuato a sospettarci tutte e quattro
forse per il resto dei nostri giorni.
Non ci siamo più ritrovate tutte
assieme, rimpianse. Dopo il matrimonio
ciascuna se ne andò per la propria
strada e, volendo evitare di incontrarci,
scegliemmo città diverse.
Che effetto mi farebbe rivederle,
ritrovarmi con tutte loro sotto lo stesso
tetto? Eravamo così giovani allora, così
scombussolate e spaventate quando
Betsy fu ritrovata morta. E poi
l’interrogatorio della polizia, prima
ascoltate tutte insieme, poi ciascuna
separatamente. È un miracolo che
nessuna di noi abbia perso la testa
confessando di averla soffocata,
sottoposte a quel terrificante terzo
grado. «Sappiamo che è stato qualcuno
che si trovava in casa. Chi di voi lo ha
fatto? Se non è stata lei, dev’essere
stata una delle sue amiche. Per il suo
bene, se vuole proteggere se stessa, ci
dica quello che sa.»
Ricordava che la polizia aveva
avanzato l’ipotesi che il movente
potessero essere stati gli smeraldi di
Betsy. Quando era andata a letto, li
aveva depositati sul vassoio di cristallo
sopra il comò. Secondo la polizia era
possibile che si fosse svegliata nel
momento in cui la stavano derubando e
che il ladro fosse stato colto dal panico.
Uno dei suoi orecchini era sul
pavimento. Era stata Betsy a farlo
cadere quando se li era tolti, o qualcuno
che indossava i guanti si era spaventato
e se l’era lasciato sfuggire di mano
quando Betsy si era svegliata?
Regina si alzò adagio e si guardò
intorno. Cercò di immaginare come
potesse essere avere trecentomila
dollari in banca. Attenzione, si frenò
subito, non ti scordare che metà
andranno in tasse. Ma anche così
sarebbe stato comunque un incredibile
colpaccio. O forse tutti quei soldi
avrebbero riesumato i giorni in cui suo
padre era stato sulla cresta dell’onda e
anche loro come Robert e Betsy Powell
avevano avuto una grande villa a Salem
Ridge con tutto il contorno di
governante,
cuoca,
giardiniere,
chauffeur, uno dei più rinomati caterer di
New York per i loro frequenti
ricevimenti...
Contemplò il suo box trasformato in
agenzia immobiliare. Anche con le
pareti celesti che si abbinavano alla
scrivania e alle poltrone bianche con i
cuscini blu, la realtà di quel locale
balzava comunque all’occhio: uno
sforzo commovente per nascondere un
giro d’affari modesto. Una rimessa è una
rimessa, pensò, tolto l’unico lusso che
ho fatto installare quando ho comprato
questo box dopo il divorzio.
Il lusso si trovava in fondo al
corridoio, oltre la toilette. Dietro una
porta anonima e sempre chiusa a chiave
c’era un bagno privato con una Jacuzzi,
una doccia a vapore, un ampio ripiano
con il lavabo incassato e una cabina
armadio. Era lì che certe volte, alla fine
di una giornata di lavoro, faceva una
doccia e si cambiava per concedersi una
serata con gli amici o una cena solitaria
seguita da un film.
Earl l’aveva lasciata dieci anni
prima, quando Zach stava per compierne
nove. Alla lunga non era riuscito a
sopportare le sue crisi depressive.
«Fatti aiutare, Regina. Io non ce la
faccio più, non reggo i tuoi malumori,
non reggo i tuoi incubi. Nel caso non te
ne sia accorta, hanno un effetto negativo
su nostro figlio.»
Dopo il divorzio, Earl, che all’epoca
vendeva computer e scriveva canzoni
per hobby, era riuscito finalmente a
cedere dei brani a un’importante casa
discografica. Il passo successivo era
stato quello di sposare Sonya Miles, una
promettente cantante rock all’epoca
ancora sconosciuta. Quando Sonya
aveva scalato le classifiche con l’album
che aveva scritto per lei, Earl era
diventato una celebrità nel mondo cui
aveva sempre aspirato. Vi ci si era
tuffato come se fosse stato da sempre il
suo ambiente naturale, pensò Regina,
mentre andava agli schedari.
Dal fondo di quello che teneva chiuso
a chiave tolse una scatola priva di
etichette. Sepolta sotto un mazzo di
pubblicità immobiliari c’era una
seconda scatola più sottile che
conteneva tutti gli articoli di giornale
apparsi sul delitto del Graduation Gala.
Sono anni che non li guardo, pensò
mentre posava il materiale sulla
scrivania. Cominciò a sfogliare i
giornali, alcuni dei quali avevano
cominciato a sfaldarsi lungo i margini.
Trovò velocemente ciò che cercava. Era
la foto di Betsy e Robert Powell che
brindavano alle quattro neolaureate:
Claire, Alison, Nina e lei stessa.
Eravamo così carine, commentò tra
sé contemplando l’immagine. Siamo
andate insieme a comprarci i vestiti per
la festa. Al college avevamo ottenuto
ottimi risultati, eravamo cariche di
speranze e programmi per il futuro, tutto
andato in fumo quella notte.
Ripose i giornali, chiuse lo
scatolone, lo riportò allo schedario e lo
lasciò cadere nell’ultimo cassetto,
nascondendolo sotto una montagna di
brochure. Accetterò il suo dannato
denaro, decise. E anche quello dello
studio. Forse così riuscirò a raddrizzare
la mia vita. Di sicuro so di poterne usare
una parte per fare una bella, breve
vacanza con Zach prima che torni a
scuola.
Spinse con forza il cassetto, appose il
cartello di CHIUSO alla finestra
dell’ufficio, spense le luci, girò la
chiave nella porta e si ritirò nel suo
bagno privato. Mentre l’acqua scorreva
nella Jacuzzi, si spogliò e si guardò nel
grande specchio applicato all’uscio. Ho
due mesi di tempo prima dello show e
devo perdere dieci chili, pensò. Voglio
presentarmi in forma, quando dovrò
raccontare quello che ricordo. E voglio
che Zach sia fiero di me.
Le si insinuò nella mente un dubbio
indesiderato. Sapeva che Earl si era
sempre domandato se fosse stata lei a
uccidere Betsy. Aveva inculcato quel
sospetto nella testa di Zach?
Non amava più Earl, non lo
desiderava
più,
ma
soprattutto
desiderava non fare più quegli incubi.
La Jacuzzi era piena d’acqua. Vi
entrò, appoggiò la nuca e chiuse gli
occhi.
Mentre i riccioli neri si distendevano
gonfiandosi d’acqua, pensò che le
veniva offerta un’importante occasione:
quella di convincere tutti che non era
stata lei a uccidere quella schifosa
bastarda.
6
ROD Kimball firmò la ricevuta e aprì la
raccomandata mentre sua moglie Alison
finiva di servire alcuni medicinali.
Quando si fu liberata del cliente,
s’affrettò a sfilargliela dalle dita.
«Chi ci manda una raccomandata?»
chiese con una certa apprensione mentre
in un unico movimento prendeva la
lettera, si girava e tornava al banco
della farmacia senza concedergli la
minima possibilità di avvertirla del
contenuto. Preoccupato guardò sua
moglie prima arrossire e poi impallidire
durante la lettura dei due fogli della
lettera, prima di lasciarli cadere sul
bancone. «No», esclamò con un tremito
nella voce, «non ce la faccio, una
seconda volta no. Mio Dio, ma mi hanno
presa per pazza?»
«Calma, tesoro», cercò di confortarla
Rod. Sforzandosi di trattenere una
smorfia di dolore, scivolò dal suo
sgabello dietro il registratore di cassa e
prese le stampelle. A vent’anni
dall’incidente che lo aveva reso
invalido, il dolore era un compagno
fedele. C’erano però giorni come quello,
freddo e umido, sul finire di marzo, a
Cleveland, in cui manifestava più del
solito la sua presenza. Aveva il dolore
scolpito nelle rughe intorno agli occhi e
nella tensione delle mascelle. I capelli
castano scuro erano ormai quasi
completamente grigi. Sapeva di
dimostrare molto più dei suoi
quarantadue
anni.
Raggiunse
faticosamente il banco della farmacia e
si fermò davanti ad Alison, incombendo
sulla sua figura minuta dall’alto della
sua notevole statura. «Non sei costretta a
fare niente che tu non voglia», dichiarò
con fermezza in un sincero slancio
protettivo. «Strappa quella lettera.»
«No.» Alison scosse la testa, aprì il
cassetto sotto il banco e vi ripose i due
fogli. «Rod», disse poi, «abbi pazienza.
Ora come ora non posso parlarne.»
In quel momento la campanella della
porta annunciò l’arrivo di un altro
cliente e Rod tornò barcollante alla
cassa.
All’epoca in cui aveva sposato
Alison, era stato appena reclutato come
quarterback dai New York Giants. Era
stato cresciuto da una madre single che
per mantenerlo faceva da badante per un
invalido. Suo padre, un alcolista senza
speranza, era morto quando Rod aveva
due anni. All’atto della firma del suo
primo contratto importante, tutti gli
addetti ai lavori si erano dichiarati
unanimemente convinti che l’attendesse
una carriera sfolgorante. Aveva ventidue
anni ed era coetaneo di Alison, per la
quale stravedeva fin dai giorni
dell’asilo, al punto che già a quei tempi
aveva annunciato pubblicamente in
classe che prima o poi l’avrebbe
sposata.
Il tenore di vita della famiglia di
Alison era sempre stato modesto. Suo
padre dirigeva il reparto ortofrutticolo
in un piccolo supermercato e Alison, che
non era riuscita a ottenere una borsa di
studio, si era mantenuta all’università
grazie a prestiti agevolati per gli
studenti e lavorando nel tempo libero.
Abitava non lontano da Rod Kimball, in
un quartiere povero di Salem Ridge. Il
giorno stesso in cui gli era stato offerto
il contratto con i New York Giants, Rod
l’aveva chiesta in moglie. Era stato due
mesi dopo l’uccisione di Betsy Powell.
Nel chiederle di sposarlo, Rod aveva
voluto dare un peso particolare al
desiderio di Alison di completare la sua
istruzione alla scuola di medicina, per
poi dedicarsi alla ricerca. Le aveva
promesso di pagare i suoi studi, di
girare per casa in punta di piedi quando
studiava e di aspettare ad avere dei figli
finché non avesse ottenuto il master a cui
teneva tanto.
Invece tre settimane dopo le nozze
era stato investito da un’auto pirata e
Alison aveva trascorso la gran parte dei
quattro anni successivi ad assisterlo
nella lunga convalescenza. Presto i soldi
che Rod aveva messo da parte
nell’unica stagione in cui aveva giocato
per i Giants erano finiti.
A quel punto Alison si era indebitata
di nuovo ed era tornata a scuola per
procurarsi una specializzazione in
farmaceutica. Aveva trovato il suo primo
lavoro grazie a un anziano cugino senza
figli che l’aveva presa con sé nel suo
drugstore di Cleveland. «Rod, se vuoi
c’è un posto anche per te», aveva
aggiunto. «La mia assistente se ne va. È
lei che si occupa di tutti i fornitori
eccetto che per la farmacia e gestisce la
cassa.»
Erano stati ben contenti di lasciare
New York, dove sembrava che non ci si
potesse sottrarre a continue speculazioni
sulla morte di Betsy Powell. Qualche
anno più tardi si erano trasferiti a
Cleveland, il cugino era andato in
pensione e avevano rilevato il suo
negozio. Ora avevano un’ampia cerchia
di amicizie e nessuno chiedeva loro mai
niente del delitto del Graduation Gala.
Il soprannome di Rod alludeva al
parafulmine. Lo aveva battezzato così un
cronista sportivo ai tempi in cui giocava
nella squadra della sua università, per
come sapeva resistere ai tackle
avversari quando si accingeva a lanciare
la palla.
Quella mattina trascorse in relativa
tranquillità, ma nel pomeriggio ci fu un
notevole viavai. Avevano due impiegati
part-time, un farmacista semipensionato
e un commesso che teneva in ordine il
negozio e dava una mano alla cassa, ma
nonostante il loro aiuto fu una giornata
eccezionalmente faticosa e quando
finalmente chiusero bottega alle otto di
sera, Rod e Alison erano entrambi
stanchi morti.
Intanto si era messo a piovere, una
pioggia fredda e pesante. Alison insisté
perché Rod usasse la sedia a rotelle per
andare alla macchina. «Se cerchi di
andarci con le grucce finiamo fradici
tutti e due», l’aveva apostrofato con una
nota di esasperazione nella voce.
Più di una volta negli anni trascorsi
assieme, Rod aveva cercato il coraggio
di chiederle di lasciarlo, di farsi una
nuova vita normale con un’altra persona,
ma non era mai riuscito ad affrontare
apertamente l’argomento. Ancora non
riusciva a immaginarsi una vita senza di
lei più di quanto ne fosse stato capace
durante gli anni dell’infanzia e
dell’adolescenza.
Gli tornava talvolta alla mente
un’osservazione fatta da sua nonna molto
tempo prima. «Nella maggior parte dei
matrimoni c’è uno dei due che ama
l’altro di più ed è meglio che sia
l’uomo. Ci sono più probabilità che il
matrimonio duri fino in fondo.»
Rod non aveva certo bisogno che
qualcuno gli dicesse che era lui quello
dei due ad amare di più. Era quasi certo
che, se non le avesse offerto di pagarle
la scuola di medicina, Alison non
avrebbe accettato di sposarlo. In
seguito, dopo l’incidente, era rimasta al
suo fianco solo per dovere morale.
Rod non si lasciava andare spesso a
questo genere di amare riflessioni, ma i
suoi turbamenti erano riaffiorati quel
giorno all’arrivo della raccomandata: il
Graduation Gala, le foto delle quattro
ragazze su tutti i giornali, la
spettacolarizzazione del loro matrimonio
fatta dai mass media.
«Lascia guidare me, Rod», si offrì
Alison quando furono alla macchina.
«So che stai soffrendo.»
Aprì lo sportello riparandolo con
l’ombrello e Rod salì senza protestare
di fianco al posto di guida. Dato che le
era impossibile tenere in mano
l’ombrello
e
richiudere
contemporaneamente la sedia a rotelle,
Rod fu costretto a osservarla con
rammarico armeggiare nella pioggia che
le batteva sul volto prima che potesse
finalmente sedersi al volante. A quel
punto Alison si voltò verso di lui. «Io
accetto», dichiarò. Il tono era di sfida,
come se si aspettasse di dover affrontare
le sue rimostranze.
Quando Rod non disse niente, attese
per un lungo momento, poi avviò il
motore. «Nessun commento?» Questa
volta Rod avvertì un leggero tremito
nella sua voce.
Non le avrebbe detto quello che stava
pensando, che con quei lunghi capelli
castani che le pendevano bagnati sulle
spalle aveva un aspetto tremendamente
giovane e vulnerabile. Sapeva che era
spaventata. No, si corresse, diciamo
pure terrorizzata.
«Se le altre accettassero di
partecipare al programma e tu rifiutassi,
non sarebbe una cosa buona», disse a
voce bassa. «Credo che tu debba andare.
Credo che dobbiamo andarci», rettificò
subito.
«L’altra volta sono stata fortunata.
Questa volta potrebbe non andarmi
altrettanto bene.»
Per il resto del tragitto rimasero in
silenzio. La loro casa in stile ranch,
attrezzata tenendo conto della sua
invalidità, era a una ventina di minuti
dal drugstore. Poterono evitare di
esporsi di nuovo alla pioggia perché
dalla rimessa si entrava direttamente in
cucina.
Appena
liberatasi
dall’impermeabile bagnato, Alison si
lasciò andare a sedere e si prese la
faccia tra le mani. «Rod, ho tanta paura.
Non te l’ho mai detto, ma quella sera,
quando salimmo tutti nelle nostre stanze
per dormire, il mio unico pensiero fisso
era quanto detestavo Betsy e Rob
Powell.» Esitò per qualche istante.
«Credo di aver avuto un attacco di
sonnambulismo, quella notte», aggiunse
poi titubante. «È possibile che sia
andata nella stanza di Betsy.»
«Cosa?» sbottò Rod lasciando cadere
le stampelle e sedendosi accanto a lei.
«Temi di poter essere stata nella stanza
di Betsy? Qualcuno potrebbe averti
visto?»
«Non lo so.»
Alison lasciò che la trattenesse tra le
braccia per qualche secondo, poi si
ritrasse per guardarlo in faccia. I grandi
ed espressivi occhi marrone chiaro
erano la caratteristica del suo volto che
spiccava maggiormente. Ora che
luccicavano di lacrime, contribuivano a
farla apparire più spaventata e indifesa
che mai. Poi Rod udì una domanda che
mai si era aspettato uscisse dalle labbra
di sua moglie.
«Rod», gli chiese, «non è forse vero
che hai sempre pensato che sia stata io a
uccidere Betsy Powell?»
«Sei impazzita?» proruppe lui. «Sei
completamente matta?»
Ma alle sue stesse orecchie l’eco di
quella protesta suonò artefatta e poco
convincente.
7
«ALLORA , hai deciso se andarci?»
Fu questa la domanda che Nina Craig
sentì nell’aprire la porta del suo
appartamento a West Hollywood.
Povera me, pensò subito, è in una di
quelle fasi, e si morsicò il labbro per
evitare di rispondere in malo modo alla
madre sessantaduenne. Erano le cinque e
mezzo del pomeriggio ed era chiaro che
Muriel
Craig
aveva
anticipato
arbitrariamente di mezz’ora il suo
normale orario per l’aperitivo con una
brocca di apple martini o una bottiglia
di vino.
Muriel era ancora in camicia da notte
e vestaglia, e questo significava che, a
qualunque ora si fosse svegliata, era
immersa nella nuvola di depressione in
cui si adagiava così spesso. Sarà una
lunga serata, pensò con stizza Nina.
«Nessuna risposta dalla giuria dei
Premi Oscar?» le domandò con
sarcasmo la madre riempiendosi il
bicchiere da una bottiglia ormai quasi
vuota.
Erano passati dieci anni da quando
Nina aveva rinunciato alla speranza di
sfondare come attrice e si era iscritta
all’associazione dei figuranti, le
comparse che, lavorando alla giornata,
facevano da contorno e riempitivo nelle
sessioni di ripresa cinematografica.
Dalle cinque di quella mattina aveva
trascorso un giorno intero sul set di un
film su una rivoluzione, mescolata ad
altre centinaia di figuranti che agitavano
cartelli e reggevano striscioni. Si era
girato nel deserto vicino a Palm Springs
sotto un sole cocente.
«Non so nemmeno io cosa fare,
mamma», ammise cercando di dominare
il tono della voce.
«Perché non ci vai? Trecentomila
dollari sono un bel gruzzoletto. Vengo
con te. Mi piace l’idea di rivedere di
persona il buon vecchio Robert
Nicholas Powell.»
Nina le lanciò un’occhiata. I capelli,
che, come i suoi, erano stati un tempo di
una naturale, intensa sfumatura di rosso,
erano ora di un fasullo color fuoco che
le stava malissimo. Aveva la pelle piena
di macchie e profondamente incisa sulle
guance e intorno alle labbra dalle rughe
dei tanti anni di fumo di sigaretta. Nina
la guardò sporgersi dal divano con la
testa incassata nelle spalle ricurve e le
mani chiuse intorno al bicchiere.
Era difficile riconoscere in lei la
bella donna che un tempo era stata una
delle rare attrici che non conoscono
pause tra un ingaggio e l’altro. Era lei ad
aver avuto talento, pensò con amarezza
Nina, non io. E adesso guarda in che
stato è!
Non ricascarci, si ammonì. È la fine
di una dura giornata di lavoro, sei
accaldata e stufa marcia di tutto e tutti.
«Mamma», esordì, «faccio una doccia e
mi metto addosso qualcosa di comodo.
Poi ti faccio compagnia con un bicchiere
di vino.»
«Prendi quei trecentomila», la
incalzò con asprezza la madre. «Usali
per comprarmi un appartamento tutto per
me. Tu non vuoi che io viva a casa tua
più di quanto io abbia voglia di essere
qui.»
Quando a New York le occasioni di
lavoro erano drasticamente diminuite,
Muriel aveva seguito Nina in California.
Un anno prima era stata vicina a morire
bruciata viva quando aveva lasciato
cadere una sigaretta che aveva appiccato
il fuoco alla moquette del soggiorno del
villino bifamigliare in cui viveva. Dopo
che l’appartamento era stato rimesso in
sesto, i proprietari della casa si erano
rifiutati di riaffittargliela. «Potrebbe
succedere di nuovo in piena notte»,
aveva detto a Nina il padrone di casa.
«Non correrò questo rischio.»
Era ormai quasi un anno che sua
madre abitava con lei. Ora anche lei
faceva la figurante, ma troppo spesso
non era in condizioni di presentarsi sul
set.
Non ce la farò ancora per molto,
pensò Nina mentre si chiudeva a chiave
in camera da letto. Nello stato d’animo
in cui era sua madre in quel momento,
non c’era da meravigliarsi se l’avesse
seguita per continuare la sua discussione
sulla lettera inviatale dallo studio
televisivo.
La sua stanza era fresca e
accogliente. Pareti bianche, parquet
lucido con due tappetini bianchi ai lati
del letto, tende color verde mela alle
finestre. Il candore del copriletto era
messo in risalto dalle federe bianche e
verdi. Il letto a baldacchino e il comò
erano quanto le restava dei suoi dieci
anni di matrimonio con un attore di
modesto successo che era risultato
essere un imbroglione recidivo. Buon
per loro che non avessero avuto figli.
Erano divorziati da tre anni. E io
sono pronta per qualcun altro, pensò
Nina. Ma trovarmi un compagno finché
ho mia madre a carico è una pia
illusione. Non sono ancora da buttar via,
pensò, e chissà, se partecipassi a quel
programma potrei trovare l’aggancio
giusto per rientrare nel giro della
recitazione vera, magari lavorare in uno
di quei reality. Come Desperate
Housewife sarei imbattibile.
E chissà come sarebbe rivedere
Claire, Regina e Alison... Eravamo
ancora bambine, pensò, tutte così
impaurite. I poliziotti non facevano che
distorcere tutto quello che dicevamo. E
sua madre era stata impagabile quando
le avevano chiesto se avesse avuto una
relazione seria con Powell prima che lui
conoscesse Betsy. «A quei tempi avevo
relazioni sentimentali con almeno tre
persone», aveva risposto. «Powell era
una di loro.»
Ma non è questa la storia che
conosco io, rifletté con doloroso
rammarico. Sua madre le faceva una
colpa d’aver presentato Betsy a Powell.
Colpa tua, colpa tua, colpa tua, una
tiritera stridente e insopportabile come
un disco rotto. Altro non sentiva uscire
dalla sua bocca: aveva rovinato la sua
vita.
Muriel aveva rinunciato alla parte
che avrebbe fatto di lei una star perché
Powell non voleva che fosse ostacolata
dalle esigenze di un contratto quando si
fossero sposati. Quelle erano state le sue
parole precise: «Quando ci sposeremo».
E da allora non aveva perso
occasione di rinfacciarle a Nina.
Si sentì invadere dal furore che quei
ricordi le evocavano. Ripensò alla notte
del Graduation Gala. Sua madre non
aveva voluto partecipare al ricevimento.
«Io avrei dovuto viverci, in quella
casa», si era lamentata.
Betsy era andata a cercarla di
proposito. «Dov’è tua madre?» le aveva
chiesto. «O ancora non ha smesso di
frignare per aver perso Rob?»
E meno male che quella sera nessuno
la sentì quando mi prese in disparte,
pensò Nina. Non avrebbe fatto un
bell’effetto l’indomani mattina quando si
era scoperto che la moglie di Robert
Powell era stata uccisa. Ma in quel
momento, se fossi stata io ad avere quel
cuscino tra le mani, glielo avrei
volentieri schiacciato sulla faccia.
Avevo bevuto troppo, quella sera,
non ricordo nemmeno d’essere andata a
letto. Non credo di aver fatto la doccia,
perché nessuno ne ha parlato, neppure
quella ficcanaso di governante secondo
la cui dichiarazione Alison era ubriaca.
Quando erano arrivati lei e gli altri,
Powell era stramazzato per terra ed era
stata la governante a togliere il cuscino
dalla faccia di Betsy.
Sua madre stava armeggiando con la
maniglia della porta della sua stanza.
«Dobbiamo parlare», gridava. «Voglio
che partecipi a quel programma.»
«Mamma», le rispose Nina riuscendo
con uno sforzo estremo a non rivelare
nel tono della voce la collera che
l’aveva invasa, «sto per andare sotto la
doccia. Va tutto bene. Accetterò
l’offerta, tranquilla. Così poi potrò
comprarti un appartamento tutto per te.»
Prima di ammazzarti, aggiunse
mentalmente. Dopodiché tornò a
domandare a se stessa che cosa non
avesse ricordato della notte in cui Betsy
Powell era stata soffocata.
8
LE adesioni al suo invito a partecipare a
una ricostruzione dei fatti avvenuti la
notte del Graduation Gala erano giunte
nell’ufficio di Laurie in ordine sparso.
L’ultima ci aveva messo quasi due
settimane ed era quella di Nina Craig.
Nella lettera sosteneva di aver
consultato un avvocato e le elencava
alcune condizioni supplementari che
riteneva appropriate. Robert Powell
avrebbe
dovuto
mettere
i
duecentocinquantamila
promessi
a
ciascuna delle quattro neolaureate a
disposizione come garanzia e il
compenso andava calcolato al netto
delle tasse. Anche i cinquantamila
offerti dalla Fisher Blake Studios
dovevano essere netti. «Il signor Powell
e la Fisher Blake non avranno
sicuramente la minima difficoltà a
riconoscerci un giusto compenso»,
scriveva Nina. «E ora che ho
riallacciato i contatti con le mie amiche
d’infanzia, mi rendo conto che tutte noi
abbiamo subito gravi danni morali per
esserci trovate in casa di Powell la notte
in cui Betsy Bonner Powell ha perso la
vita. Ritengo che per esporci
nuovamente all’interesse morboso del
pubblico saremo costrette a rinunciare a
un anonimato conquistato con tanta fatica
e per il quale è doveroso che riceviamo
un adeguato risarcimento.»
Laurie rilesse la lettera in preda allo
sconcerto. «Per dare loro tutti quei soldi
al netto delle tasse dovremmo stanziare
una somma quasi doppia», calcolò a
mente.
«Io non credo che Brett ci stia.» Il
tono neutro di Jerry Klein non
rispecchiava la delusione che gli si era
disegnata sul volto. Era stato lui a
firmare la ricevuta della raccomandata
di Nina Craig e a consegnarla a Laurie.
«Sarà costretto ad accettare», rispose
Laurie. «E credo che lo farà. Ha fatto di
tutto per promuovere la nuova serie e
non si tirerà indietro adesso.»
«Ma
non
ne
sarà
felice.»
L’espressione di Jerry era sempre più
preoccupata. «Laurie, spero che tu non
abbia scoperto troppo il collo con
questa tua idea di Under Suspicion.»
«Lo spero anch’io.» Laurie allungò lo
sguardo sulla pista di pattinaggio del
Rockefeller Center. Era una giornata
tiepida per i primi giorni di aprile e
c’era poca gente a pattinare sul ghiaccio.
Presto non ce ne sarebbe stato più e
l’area si sarebbe riempita di tavolini e
sedie per pranzi all’aperto.
Si sentì stringere il cuore di
commozione e nostalgia ricordando che
anche lei era stata a cena laggiù qualche
volta con Greg. Sapeva perché quel
ricordo era affiorato proprio in quel
momento: il suo show
aveva
l’ambizione di mettere la parola fine a
questioni rimaste in sospeso. Anche se
non aveva intenzione di rivelare la sua
apprensione né a Jerry né a Grace,
sapeva che il suo assistente aveva
ragione. Dopo tutto l’entusiasmo che
aveva finalmente manifestato per il suo
progetto, Brett Young, il suo capo,
avrebbe probabilmente accettato a
malincuore di spendere il doppio del
previsto pur di non dovervi rinunciare.
«Come la mettiamo con Robert
Powell?» le stava domandando Jerry.
«Credi che abbozzerà e pagherà lui le
tasse per poter dare alle partecipanti i
duecentocinquantamila?»
«Posso solo chiederglielo», rispose
Laurie. «E penso che sia meglio che lo
faccia di persona. Gli telefonerò per
domandargli se può vedermi oggi
stesso.»
«Non dovresti sentire prima Brett?»
«No. Inutile tirare in ballo lui se è
una causa persa. Se Powell non accetta,
la mia prossima mossa sarà di correre a
Los Angeles e cercare di convincere
Nina Craig ad accettare la nostra offerta.
Tutte le altre avevano già detto di sì per
la somma pattuita, ma è evidente che la
Craig le ha aizzate.»
«Che cosa le dirai?» volle sapere
Jerry.
«La
verità.
Se
necessario
procederemo senza di lei e non ci
farebbe una bella figura. E non
dimenticare che quando è morta, Betsy
Bonner Powell aveva quarantadue anni.
Oggi ne avrebbe sessantadue o
sessantatré. Oggigiorno molte persone
vivono in ottime condizioni fisiche fin
oltre gli ottant’anni. Quando quella notte
qualcuno le ha premuto un cuscino sulla
faccia, l’ha derubata di metà della vita
che avrebbe potuto godere. Il suo
assassino si è svegliato tutte le mattine
per tutti questi anni con la possibilità di
vivere una nuova giornata mentre il
corpo di Betsy giaceva in una cassa in
un cimitero.»
La sua voce si era via via scaldata e
il suo tono era diventato più vibrante e
Laurie sapeva bene che non era per la
memoria di Betsy Bonner Powell. Era
per Greg e per il fatto che il suo
assassino era ancora un uomo libero.
Non solo libero, ma una minaccia
vivente e costante per lei e Timmy.
«Scusami, Jerry», si schermì allora.
«Devo stare attenta a evitare che si
pensi che il mio progetto sia una
crociata personale.»
Sollevò il ricevitore. «E adesso
prendiamo un altro appuntamento con
Robert Nicholas Powell.»
9
ROB Powell era dietro casa, sul suo
personale campo da golf da tre buche. Il
clima mite di quella giornata di aprile lo
aveva spinto a tirar fuori le mazze e a
esercitare lo swing prima di raggiungere
i tre amici con cui aveva in programma
una partita a quattro al Winged Foot
Golf Club. Niente male, si compiacque
guardando il putt ben riuscito con cui
aveva spedito la pallina in buca.
Concentrandosi sul suo allenamento
aveva potuto sottrarsi almeno per
qualche momento alla preoccupazione
per non aver sentito niente dal suo
medico. La chemio a cui si era
sottoposto tre anni prima aveva
eliminato i noduli nei polmoni, ma
sapeva che c’era sempre la possibilità
che si riformassero. All’inizio della
settimana aveva fatto il suo checkup
semestrale.
«Chiusura in par», dichiarò a voce
alta mentre tornava a casa facendo
dondolare la mazza da golf.
Ancora un quarto d’ora prima che
arrivasse la sua ospite. Chissà che cosa
voleva ancora Laurie Moran. L’aveva
sentita preoccupata. Viene a dirmi che
una di loro non vuole partecipare al
programma? si chiese corrugando la
fronte. Io ho bisogno che ci siano tutte,
pensò, a qualsiasi costo.
Anche se la Moran gli avesse portato
notizie positive, Rob aveva la
sensazione che il tempo gli stesse
scappando di mano. Aveva bisogno di
giungere a un verdetto finale e quando in
marzo Laurie Moran gli aveva proposto
di ricostruire gli avvenimenti della notte
del Graduation Gala, per lui era stato
come ricevere la risposta a una
preghiera. Anche se pregare non è mai
stato proprio il mio forte, concluse tra
sé. È una pratica che lasciavo a Betsy.
A quel pensiero rise, un verso aspro
che suonò più simile a un latrato, subito
seguito da un attacco di tosse.
Perché il dottore non lo chiamava
dicendogli com’era andato il controllo?
Quando entrò nel patio in fondo al
sentiero a ciottoli, Jane Novak, la
governante,
stava
aprendo
le
portefinestre scorrevoli. «Buca in uno,
signor Robert?» gli chiese allegramente.
«Non proprio, ma niente male lo
stesso, Jane», rispose Rob cercando di
non irritarsi per la spiacevole abitudine
che aveva la sua governante di porgli
regolarmente quella domanda tutte le
volte che usciva sul prato. Se c’era una
cosa di Jane che avrebbe cambiato
volentieri era la sua totale assenza di
senso dell’umorismo. Per lei quella
domanda era una battuta di spirito.
Jane, una donna robusta dai capelli
color dell’acciaio e occhi della stessa
tonalità di grigio, era entrata in servizio
da lui poco dopo il suo matrimonio con
Betsy. Rob non era rimasto insensibile
al disagio che provava Betsy nei
confronti della governante precedente,
assunta dalla sua prima moglie e rimasta
alle sue dipendenze dopo la morte di lei.
«Rob, quella donna ce l’ha con me», gli
aveva confidato Betsy. «Lo sento. Dille
che non va bene e mandala via con un
sostanzioso benservito. Conosco la
persona giusta da mettere al suo posto.»
La persona che aveva in mente Betsy
era Jane Novak, che lavorava nel
backstage quando lei faceva la
maschera. «È una organizzatrice
straordinaria. L’unica capace di tenere
in ordine i camerini. Ed è brava in
cucina», l’aveva esaltata Betsy.
Era tutto vero. Entrata negli Stati
Uniti con una green card provenendo
dall’Ungheria, aveva preso con grande
entusiasmo in carico la grande villa e,
come Betsy aveva promesso, si era
rivelata perfettamente all’altezza del
compito. Coetanea di Betsy, Jane aveva
ora sessantadue anni. Se aveva amici
intimi o parenti, Rob non li aveva mai
visti. Occupava un bell’appartamentino
dietro la cucina e anche nei giorni di
libertà, da quel che Rob aveva potuto
constatare, raramente se ne allontanava.
Eccetto quando si trovava fuori città,
sapeva che tutte le mattine, alle sette e
mezzo in punto, Jane era in cucina a
preparargli la prima colazione.
Con il tempo Rob aveva imparato a
riconoscere le alterazioni nello stato
d’animo di Jane da lievi sfumature nella
sua espressione sempre placida. In quel
momento, entrando in casa, colse
immediatamente qualcosa che non
andava. «Ha detto che deve venire la
signora Moran, signor Rob», disse Jane.
«Se non sono troppo indiscreta, posso
domandarle se questo vuol dire che quel
programma si farà?»
«Non c’è niente di male a
chiedermelo», ribatté Rob, «ma la
risposta è che non lo so.» Mentre
parlava si rese conto che in realtà la
domanda di Jane lo aveva infastidito,
perché vi aveva sentito una nota di
disapprovazione.
Ebbe giusto il tempo di indossare una
camicia sportiva a maniche lunghe e
ridiscendere al pianterreno prima che
suonasse il campanello.
Erano le quattro in punto. Si domandò
se quella donna avesse la virtù naturale
della puntualità o se fosse arrivata un
po’ in anticipo e avesse aspettato in
macchina prima di farsi viva.
Era una di quelle considerazioni del
tutto irrilevanti in cui si ritrovava a
indulgere
da
qualche
tempo.
«Svagatezza» era la parola che gli era
venuta in mente. Si era persino preso il
disturbo di andare a controllare sul
vocabolario. «Indulgere in fantasticherie
e sogni a occhi aperti; essere inclini alla
distrazione.»
Sveglia, ordinò a se stesso, datti una
mossa. Aveva chiesto a Jane di far
accomodare Laurie Moran nello studio
invece che in ufficio. Betsy amava la
tradizione britannica del tè delle quattro.
Dopo la sua morte, lui aveva
abbandonato quell’abitudine, ma oggi gli
sembrava appropriata.
Altre divagazioni, si rimproverò
mentre Jane entrava seguita da Laurie
Moran.
Quando l’aveva vista il mese prima
l’aveva considerata attraente, ma
adesso, guardandola esitare per un
momento nel riquadro della porta, si
rese conto che era decisamente bella.
Aveva i lucenti capelli color del miele
sciolti sulle spalle e invece del
completo gessato aveva scelto una
camicetta a maniche lunghe a fiori e una
gonna con una vistosa cintura nera che le
accentuava la vita stretta. E i tacchi non
erano quei ridicoli trampoli che
andavano tanto di moda.
I suoi occhi da settantottenne
apprezzarono per la seconda volta la sua
avvenenza.
«Si accomodi, signora Moran,
venga», la sollecitò con cordialità. «Non
mordo.»
«Non è di quello che avevo paura,
signor Powell», rispose Laurie. Gli si
avvicinò sorridendo e si sedette sul
divano di fronte all’imponente poltrona
in pelle.
«Ho chiesto a Jane di prepararci un
tè», la informò. «Ora puoi servircelo,
Jane, grazie.»
«Gentile da parte sua.»
Ed era veramente un atto di
gentilezza, pensò Laurie.
Trasse un respiro profondo. Adesso
che si trovava lì, con una posta alta in
gioco, le era difficile mostrarsi calma.
Perché partecipassero al programma, le
quattro donne, le star del Graduation
Gala, sarebbero costate a quell’uomo
quasi due milioni di dollari.
Laurie si preparò al suo discorsetto,
ma prima di cominciare aspettò che la
governante, una donna che la metteva un
po’ in soggezione, si girasse e lasciasse
la stanza.
«Gliela renderò facile», esordì
inaspettatamente Robert Powell. «Si è
presentato un problema. Non c’è
bisogno di essere particolarmente
perspicaci
o dotati
di
intuito
soprannaturale per indovinare che si
tratta di soldi. Una delle quattro ragazze,
o donne, per meglio dire, pensa che non
offriamo
loro
abbastanza
per
convincerle a esporsi al giudizio del
pubblico.»
Laurie esitò per qualche secondo
prima di confermare con un cenno del
capo. «È così», ammise.
Powell sorrise. «Mi lasci indovinare
di chi si tratta. Possiamo escludere
Claire, visto che dopo la morte di Betsy
ha sempre rifiutato il mio aiuto. Non si
girerà indietro nemmeno quando verrà a
sapere che nel mio testamento le ho
lasciato una notevole somma di denaro.
Quando il momento verrà, è persino
possibile che regali quei soldi in
beneficenza.
«Eravamo molto legati, ma Claire era
molto affezionata anche a sua madre. La
morte di Betsy è stata per lei un colpo
inaccettabile. Non so come ma diventò
colpa mia, non che Claire pensasse che
avessi ucciso sua madre, questo no. Per
quanto in collera con me, sapeva che era
impossibile, ma credo che in cuor suo
non mi perdonava il molto tempo che
avevo trascorso da solo con Betsy.» Per
un lungo momento fissò il vuoto alle
spalle di Laurie.
«Per come la vedo io», riprese
parlando lentamente, «a tenerci in
scacco con la richiesta di un compenso
maggiore è Nina Craig. In questo è
molto simile a sua madre. Per un certo
periodo io e Muriel Craig abbiamo
avuto una relazione. Una donna molto
attraente, ma una personalità non priva
di una certa dose di durezza. Non smisi
di frequentarla solo perché avevo
conosciuto Betsy. Sarebbe successo
comunque. È stata solo una coincidenza
se è avvenuto più o meno in
contemporanea.»
Le sue reminiscenze furono interrotte
dall’ingresso di Jane con il tè. Posò il
vassoio sul tavolino tra divano e
poltrona. «Vuole che versi, signor
Powell?» si offrì. Aveva già preso la
teiera e stava versando il tè nella tazza
di Laurie.
Robert Powell inarcò le sopracciglia
indirizzando a Laurie un’occhiata
divertita. «Come vede», disse dopo che
Jane ebbe offerto panna liquida o limone
o zucchero o dolcificante e si fu ritirata,
«Jane mi ha fatto una domanda retorica.
Cosa che accade costantemente.»
Laurie, che aveva saltato il pranzo,
aveva appetito. Si costrinse a
sgranocchiare solo un angolino del
minuscolo sandwich di salmone privato
della crosta. Il suo istinto sarebbe stato
quello di ingollarlo intero e prenderne
subito un altro.
Ma mentre masticava adagio e con
grazia, cominciò ad avere l’impressione
che Robert Powell stesse giocando con
lei al gatto con il topo. Aveva veramente
tirato a indovinare quando aveva
affermato che era Nina Craig quella
delle quattro a chiedere più soldi oppure
Nina lo aveva contattato di persona?
E sapeva quanto pretendeva di essere
pagata?
«Ho visto giusto su Nina?» volle
sapere Powell accavallando le gambe e
cominciando a sorseggiare il suo tè.
«Sì», confermò Laurie.
«E quanto vuole per le quattro
laureate?»
«Duecentocinquantamila
ciascuna,
ma al netto delle tasse.»
«Più avida di come ricordassi»,
mormorò Powell. «Sua madre fatta e
finita.» Il tono della sua voce non era
più divertito. «Le dica che pago.»
L’improvviso
cambio
nell’espressione e nel tono colse Laurie
in contropiede.
«Signora Moran», spiegò lui, «c’è
una cosa che è necessario che capisca.
Anch’io come le quattro ragazze del
Gala sono vissuto per tutto questo tempo
sotto l’ombra del sospetto. Oggigiorno
si vive anche cent’anni, ma l’aspettativa
di vita media è tra gli ottanta e
ottantacinque. Prima di morire voglio
avere la possibilità che un vasto
pubblico possa vedere me e le ragazze e
capisca forse quanto è grande questa
villa e quante persone quella notte
entravano e uscivano da queste porte.
Come è più che possibile che qualcuno
si sia introdotto a nostra insaputa. Come
sa, abbiamo a disposizione parecchi
video di quella festa.»
«Lo so», rispose Laurie. «Credo di
aver letto tutto quello che è stato scritto
sul caso.»
«Bene. Allora si renderà conto che
tolte alcune generose donazioni a enti
caritatevoli e alle scuole che abbiamo
frequentato io, Claire e Betsy, mi restano
ancora molti soldi da spendere prima di
morire, quindi la somma che pretende
Nina è del tutto irrilevante.
«Però mi faccia un favore. Quando le
scrive per dirle che accettiamo le
condizioni che ci pongono per
comparire nel programma, la prego di
dirle che spero che sua madre abbia in
programma di accompagnarla. Sarebbe
un piacere per me rivederla.»
Anticipò le proteste di Laurie.
«Naturalmente non intendo ospitarla in
casa mia. Le farò riservare una stanza al
St. Regis.»
Powell non si era tirato indietro e
Laurie non si era aspettata di sentirsi
travolgere da un così violento senso di
sollievo. Improvvisamente le quotazioni
del suo programma riprendevano
slancio. Se Powell avesse rifiutato la
richiesta di Nina Craig, con tutta
probabilità lo show non sarebbe mai
decollato e ciò avrebbe decretato anche
la fine del suo lavoro. Due serie andate
male, poi una proposta rifiutata dopo
aver sollecitato grande interesse da
parte degli organi d’informazione non
avrebbero potuto che portare al suo
licenziamento.
Brett Young non tollerava le sconfitte.
Era sul punto di ringraziare Powell,
quando si accorse che stava guardando
dietro di lei, in direzione del patio
attraverso i vetri delle portefinestre. Si
girò a guardare che cosa avesse
provocato la sua fugace smorfia di
disapprovazione.
Appena al di là delle vetrate un
giardiniere stava rifinendo il bordo del
prato.
Powell staccò gli occhi dal
giardiniere per tornare a rivolgersi a
Laurie. «Chiedo scusa», disse, «ma mi
secca quando lavorano ancora a
quest’ora. Ho spiegato chiaro e tondo
che voglio che tutti i lavori di
manutenzione siano completati entro
mezzogiorno. Se devo ricevere degli
ospiti, non voglio avere il viale
d’accesso ostruito da quei loro veicoli
così ingombranti.»
Dal patio Occhi Blu vide che Powell
lo stava fissando. Finì di spuntare gli
steli d’erba lungo l’ultima sezione di
bordo e, senza guardare, tornò
velocemente al furgone con i suoi
attrezzi. Era il suo primo giorno di
lavoro alla Perfect Estates. Se Powell
si fosse lamentato di averlo visto in giro
nella sua proprietà a quell’ora così
tarda, Occhi Blu si sarebbe giustificato
dicendo che si era trattenuto oltre
l’orario di lavoro per fare buona
impressione sul suo nuovo capo.
Quando riprenderanno lo show, le
ragazze del Graduation non saranno le
sole a essere qui, pensò. Ci sarò
anch’io.
Che ambientazione perfetta per far
fuori Laurie Moran.
Aveva già preparato il messaggio da
lasciare sul suo corpo:
PRIMA GREG
ADESSO TU
IL PROSSIMO È TIMMY
10
IN giugno la preproduzione di
Graduation Gala, primo titolo della
nuova serie, entrò nel vivo. Laurie
aveva già ottenuto tutti i video che erano
stati girati alla festa, ma poi Robert
Powell le aveva spontaneamente
consegnato
alcune
registrazioni
supplementari effettuate quella sera da
altri ospiti.
Era come vedere la serata di
Cenerentola al gran ballo. Solo che di
Cenerentole ce ne erano quattro, rifletté
divertita Laurie mentre visionava un
nastro dopo l’altro.
Dopo la morte di Betsy, George
Curtis, socio del Winged Foot Golf
Club di Mamaroneck, aveva consegnato
alla polizia il video che lui stesso aveva
girato quella sera. Era però quasi del
tutto una replica di quanto era già in
possesso delle forze dell’ordine. Una
copia di quel nastro era stata data a
Robert Powell che ne aveva fatto
richiesta. «È molto simile a quello che
vi ho già dato», aveva spiegato al
detective che conduceva l’inchiesta,
«ma ci sono alcune scene di me e Betsy
che mi sono particolarmente care.» Dai
fotogrammi aveva fatto estrarre alcune
foto che lo ritraevano con la moglie: in
una si guardavano negli occhi, in
un’altra ballavano nel patio, in un’altra
ancora brindavano alle neolaureate.
«Con tutti questi film si ha quasi
l’impressione di aver partecipato anche
noi al ricevimento», commentò Laurie
mentre in sala proiezione con Grace e
Jerry visionava ripetutamente i nastri
per decidere quali sequenze usare per il
programma.
Comincerò con la scoperta del corpo
e l’arrivo della polizia, pensava. Era
stato alle otto di mattina. Powell era
andato a svegliare Betsy. Le stava
portando il caffè. Era l’ora in cui andava
sempre a svegliarla con una tazza
fumante, anche quando la sera prima
avevano fatto tardi.
Poi Jane che sopraggiungeva di corsa
urlando il nome di Betsy e gridando agli
altri di chiamare il 911.
Finiremo il primo spezzone con Betsy
e Powell che brindano alle neolaureate.
«In quel momento la bella Betsy Bonner
Powell aveva ancora solo quattro ore di
vita», Laurie decise di far dire alla voce
fuori campo.
George Curtis sapeva di correre il
rischio di essere intercettato dalle
videocamere di sorveglianza della villa
di Powell, ma non se ne preoccupava.
Davanti a casa sua passa mezza Salem
Ridge, pensò transitando in fila con tutte
le altre macchine lungo la tranquilla via
residenziale.
Che gli sbirri pensassero pure che
era un voyeur. Lo sono praticamente
tutti quelli che stanno sfilando qui
davanti.
Per l’occasione aveva preso il SUV
invece
della
Porsche
rossa
decappottabile. Se le telecamere non
avessero ripreso la targa, dubitava
molto di essere riconosciuto. Un gran
numero di abitanti di Salem Ridge
possedevano SUV di marca. E poi si era
messo berretto e occhiali scuri.
A sessantatré anni, alto, con un’intatta
chioma di capelli grigi, George Curtis
aveva il fisico asciutto dell’atleta
stagionato. Sposato da trentacinque anni
e con due gemelli al college, era stato
rampollo e figlio unico del proprietario
di una grande catena di fast-food. Alla
morte del padre, avvenuta quando aveva
ventisette anni, aveva preso il suo posto.
Visto che fino a quel momento si era
dedicato solo alla bella vita, tutti
avevano pensato che avrebbe venduto la
catena per vivere di rendita. Invece si
era sposato quasi subito e con il tempo
aveva triplicato il numero dei ristoranti
negli Stati Uniti e all’estero, al punto da
potersi attualmente vantare di servire un
milione di pasti al giorno.
A differenza di Robert Powell, il suo
ingresso a Harvard era stato favorito
dalla sua condizione di studente di
quarta generazione, grazie alla quale non
solo aveva trovato porte aperte e
tappeto rosso, ma era stato ammesso
d’ufficio alla Hasty Pudding, la
filodrammatica studentesca dell’ateneo.
I quindici anni di differenza d’età non
erano mai stati un intralcio nei suoi
rapporti con Robert Powell, anche se,
rifletteva
mentre
abbandonava
Evergreen Lane, se mai avesse saputo,
se mai avesse subodorato...
Ma Rob Powell non aveva mai
sospettato. George ne era certo. Non
gliene aveva mai offerto il motivo.
Suonò il suo telefono, un’intrusione
improvvisa e inattesa. Premette il
pulsante del microfono che aveva sul
volante.
«George Curtis», rispose.
«George, sono Rob Powell.»
Dio mio, ma stava guardando dalla
finestra? George si sentì arrossire. No,
non era possibile che avesse letto la
targa e di certo non può avermi
riconosciuto attraverso i finestrini.
«Come stai, Rob? E quando ci
facciamo due colpi a golf? Ti avverto
che ho battuto il mio record di
ottantadue sabati di fila.»
«Questo vuol dire che ogni volta hai
bisogno di sei giorni per recuperare!
Facciamo alle nove?»
«Ci sto. Prenoto io.» George
imboccò la strada in cui abitava con un
notevole senso di sollievo. Rob Powell
non era tipo da trattenersi in una
conversazione telefonica più a lungo
dell’indispensabile. È per questo che,
quando subito dopo Rob disse: «George,
ho da chiederti un favore», ne fu
sorpreso.
«Qualunque cosa, la risposta è sì»,
disse, una banalità che ferì persino le
sue stesse orecchie.
«Mi prendo tutte le tue concessioni in
Europa», scherzò Rob, ma il suo tono
diventò subito serio. «George, non ti
sarà
sfuggito
che
in
giugno
l’anniversario della morte di Betsy farà
da trampolino di lancio per un
programma televisivo.»
«No, non mi è sfuggito», ammise
Curtis.
«Ecco. Dunque, a parte le ragazze,
quelli della TV vorrebbero avere anche
uno degli amici presenti quella notte a
fare da commentatore negli intervalli tra
le sequenze scelte dai video che furono
girati allora. Io ho fatto il tuo nome e si
sono mostrati entusiasti di averti nel cast
del programma. Naturalmente avrei fatto
meglio a chiederlo prima a te, ma tu
puoi sempre rifiutare.»
Andare in televisione a parlare di
quella notte a una platea nazionale?
Sentì il sudore bagnargli le mani strette
sul volante.
Quando fece per parlare, sentì che gli
si era stretta la gola, ma riuscì a
mantenere un tono calmo e amichevole.
«Rob», riprese George Curtis, «ti ho
detto un momento fa che ero pronto a
favorirti in qualunque cosa mi avessi
chiesto. Ero serio e lo sono anche ora.»
«Grazie. Non mi è stato facile
chiedertelo e sono sicuro che non è
facile per te accettarlo.»
Un brusco scatto e la comunicazione
fu interrotta. George Curtis si rese conto
che frattanto il suo sudore aveva avuto
la meglio: ora era tutto fradicio. Cosa
aveva in mente Robert Powell? Gli
stava tendendo un tranello?
In preda a un’incipiente apprensione,
ora totalmente distratto, per poco non
oltrepassò l’ingresso di casa sua.
11
DALLE finestre dell’elegante soggiorno,
uno dei locali meno frequentati della
casa, Jane Novak osservava il passaggio
del corteo di automobili.
Al piano di sopra, nella camera da
letto di Betsy, c’era la squadra della TV.
La camera da letto della signora
Powell, si corresse con sarcasmo. Per
lei Betsy era diventata «la signora
Powell» il giorno stesso in cui aveva
preso servizio in quella casa ventinove
anni prima.
«Il signor Powell è una persona
all’antica, Jane», le aveva detto. «Mi ha
autorizzato senza obiezioni ad assumerti,
ma esige che tu ti rivolga a me in questa
maniera.»
Lì per lì a Jane, che aveva trentatré
anni, non era sembrato che ci fosse nulla
di strano. Era già abbastanza felice
d’aver ottenuto il posto. Il signor Powell
aveva voluto conoscerla e l’aveva fatta
andare a prendere dal suo chauffeur per
un colloquio. Le aveva spiegato che
siccome la villa era molto grande,
quattro volte alla settimana si incaricava
delle pulizie il personale di un servizio
esterno, che avrebbe operato sotto la sua
supervisione. Sarebbe stata lei a
preparare i pasti. Se avevano un
ricevimento, se ne sarebbe occupato
un’impresa di catering. Con due donne
delle pulizie ai suoi ordini invece di
dover passare il tempo a pulire i
camerini di attori trasandati, avrebbe
avuto a disposizione quasi tutto il giorno
per cucinare, un’attività che per lei non
era un’incombenza, ma una gioia. Non le
sembrava vero d’aver avuto una così
grande fortuna.
Allo scadere del primo anno di
servizio in casa Powell, l’accorata
gratitudine di Jane per il suo datore di
lavoro era ulteriormente aumentata. Si
era perdutamente innamorata di Rob
Powell.
Nemmeno per un solo istante aveva
creduto anche lontanamente possibile
che lui la guardasse come un uomo
guarda una donna.
Le bastava occuparsi del suo
benessere, gongolarsi delle lodi che
faceva della sua cucina, sentire il
rumore dei suoi passi sulle scale tutte le
mattine quando scendeva a prendere il
caffè da portare a Betsy. Nei venti anni
trascorsi dalla morte di Betsy, aveva
potuto vivere nell’illusione di essere
diventata lei la moglie di Rob.
Tutte le volte che lui diceva: «Questa
sera sono fuori a cena, Jane», si sentiva
prendere dal panico e segretamente
andava a consultare l’agenda che teneva
sulla sua scrivania.
Ma solo molto raramente vi trovava
scritti nomi di donne ed era infine giunta
alla conclusione che, data l’età, non ci
sarebbe mai più stata un’altra signora
Powell.
Un anno prima aveva riesaminato il
testamento con il proprio avvocato, che
era anche suo grande amico, e non lo
aveva messo via quando erano usciti
dietro casa a fare due tiri di golf.
Jane era andata a spiare l’ultima
pagina e aveva trovato quello che
cercava: il lascito previsto per lei. Rob
le avrebbe lasciato trecentomila dollari
con cui acquistare un appartamento a
Silver Pines, la zona dove Rob sapeva
che abitavano alcune persone che Jane
aveva conosciuto in chiesa e con cui
aveva stretto un’affettuosa amicizia.
Oltre al denaro per la casa, le lasciava
anche un vitalizio di mille dollari alla
settimana.
Dopo aver letto quelle righe l’amore
che provava per Robert Powell era
diventato venerazione.
Ma quello show sarebbe stato una
fonte di guai. Lo sapeva. Non svegliare
il can che dorme, pensò guardando tutti
quei curiosi che transitavano davanti
alla villa.
Si voltò scuotendo la testa e solo
allora si accorse che sulla soglia
sostava Laurie Moran, la titolare del
programma.
«Oh», si lasciò sfuggire sorpresa.
Laurie non poté non sentire che la sua
presenza non le era gradita. «Signora
Novak, mi rendo conto di quanto
disturbo le stiamo arrecando, immagino
che già non ne potrà più di noi. Avevo
solo una domanda da farle e non volevo
importunare il signor Powell.»
Jane riuscì a mostrarle un volto più
disteso.
«A sua disposizione. Che cosa
desidera, signora Moran?»
«La stanza della signora Powell è
davvero molto bella. Vorrei sapere se le
tende, il copriletto e la moquette sono
stati sostituiti dopo la sua morte o se
sono gli stessi che c’erano la notte in cui
è stata uccisa.»
«La signora Powell aveva fatto
riarredare il locale, ma poi non le era
piaciuto come era venuto. Aveva detto
che i colori erano troppo carichi.»
Uno spreco, pensò Jane impedendosi
di scuotere la testa, un terribile spreco
di denaro.
«Aveva ordinato delle tende nuove,
un nuovo rivestimento per la testiera del
letto e una nuova moquette. Dopo la sua
morte, il signor Powell aveva fatto fare
queste modifiche onorando il suo
desiderio. Sono quelle che vede ora.»
«Un ambiente davvero squisito»,
commentò Laurie con sincerità. «La
stanza viene mai usata?»
«No, mai», rispose Jane. «Ma
rinfrescata sì. Troverà sempre lucidi la
spazzola e il pettine d’argento sul tavolo
da toletta. Anche gli asciugamani in
bagno vengono sostituiti regolarmente. Il
signor Powell voleva che la sua stanza e
il bagno fossero sempre come se la
signora potesse aprire la porta da un
momento all’altro per entrarvi.»
Laurie non seppe resistere alla
tentazione. «Lui va spesso nella sua
stanza?» domandò.
Jane corrugò la fronte. «Non credo,
ma questa è una domanda che
probabilmente dovrebbe rivolgere al
signor Powell.»
Ora la sua disapprovazione era
evidente non solo nell’espressione del
viso, ma anche nel tono della voce.
Mamma mia, pensò Laurie. Meglio
non inimicarsela, questa qui. «Grazie,
Jane», la blandì in tono cordiale. «Ora
ce ne andiamo tutti quanti. Vi lasceremo
in pace per il fine settimana. Ci
rivediamo lunedì mattina. E le voglio
assicurare fin d’ora che sarà tutto
assolutamente finito per mercoledì nelle
prime ore del pomeriggio.»
Era quasi mezzogiorno e dunque
Robert Powell si aspettava che la troupe
dello studio televisivo togliesse
l’incomodo. Era anche un venerdì, il
giorno in cui lavorava da casa. Da
quando erano arrivati i tecnici, era
rimasto sempre chiuso nel suo studio.
Tre giorni, pensò nel pomeriggio
Laurie, mentre in ufficio rileggeva i suoi
appunti con Jerry e Grace, che erano
sempre al suo fianco tutte le volte che
andavano a girare a Salem Ridge.
Fu Grace a dare fiato a ciò che tutti e
tre stavano pensando. «Quella villa è
una favola», disse. «Mi fa passare la
voglia di tornare nel mio buco al quinto
piano senza ascensore dove non riesci a
fare tre passi di fila senza andare a
sbattere in un muro.» Fece una pausa con
un’aria sognante negli occhi più
contornati di mascara del solito.
«D’altra parte», proseguì, «mi fa venire
anche i brividi. Mia nonna diceva
sempre che un piccione che ti entra dalla
finestra è il segno che in casa sta per
arrivare la morte. Laurie, quando oggi
eri nella camera di Betsy Powell, non
c’era forse fuori un piccione che
cercava di entrare?»
«Andiamo, Grace», la rimproverò
Jerry. «Questa è grossa anche per una
come te.»
Grossa è sul serio, pensò Laurie.
Ma non aveva intenzione di confidare
a Grace e Jerry che quella magnifica
magione in cui era morta Betsy Powell
dava i brividi anche a lei.
12
A MEZZOGIORNO della domenica, Josh
era al Westchester Airport ad accogliere
Claire, la prima ad arrivare. Sebbene
conoscesse Josh, che era stato assunto
poco dopo la morte di Betsy, Claire si
limitò a un laconico salve ed evitò di
conversare con lui. Mentre veniva
accompagnata al Westchester Hilton,
tornò su quanto era stato programmato
per i prossimi tre giorni. Il lunedì
mattina si sarebbero incontrati per la
prima volta a colazione. Poi per il resto
del giorno avrebbero avuto la giornata
libera per riambientarsi nella villa e nel
giardino circostante. Le interviste
individuali avrebbero avuto luogo il
martedì. Tutte e quattro avevano
accettato di passare la notte del martedì
nella villa occupando le stesse stanze
che avevano avuto assegnate vent’anni
prima. Per il mercoledì mattina era
fissata l’intervista a Robert Powell, a
cui sarebbe seguita una sessione
fotografica intorno al tavolo da pranzo.
Dopodiché le ospiti sarebbero state
riaccompagnate all’aeroporto a prendere
i rispettivi voli.
«Noi ci rendiamo naturalmente conto
di quanto doloroso sia tutto questo per
voi, ma desideriamo sottolineare che la
vostra disponibilità ad apparire nel
programma è implicitamente una
perentoria dichiarazione pubblica della
vostra estraneità al terribile dramma che
ebbe luogo quella notte», concludeva la
lettera di Laurie.
La
nostra
estraneità!
ripeté
mentalmente con asprezza Claire Bonner
mentre si registrava alla reception del
Westchester Hilton.
Indossava un completo estivo giacca
e pantaloni color verde chiaro che aveva
acquistato in una rinomata boutique di
Chicago. Nei tre mesi trascorsi da
quando aveva ricevuto la prima lettera
da Laurie Moran, si era lasciata
crescere i capelli e li aveva schiariti:
ora la luminosa chioma le ricopriva le
spalle. Quel giorno però li aveva
raccolti in una coda di cavallo e si era
coperta la testa con un foulard. Si era
esercitata ad applicarsi il trucco, ma
quel giorno non lo portava. Truccata e
con i capelli acconciati come li soleva
portare sua madre, sapeva di somigliarle
moltissimo, ma non voleva che Josh lo
notasse e lo riferisse a Powell prima
d’averlo incontrato lei di persona.
«La sua suite è pronta, signora
Bonner», la informò il concierge
chiamando il fattorino. Claire non mancò
di notare lo sguardo con cui la
contemplò un po’ più a lungo di quanto
sarebbe stato opportuno e la punta di
eccitazione nella sua voce.
Perché no? Impossibile rimanere
estranei allo strombazzamento di tutti gli
organi d’informazione sull’imminente
programma televisivo. Le riviste di
gossip facevano a gara nel rivangare
tutto quanto era possibile trovare su
Betsy
Bonner
Powell.
«Una
presentazione fatale» era un titolo
particolarmente urticante apparso sulla
prima pagina dello Shocker, un
settimanale scandalistico. L’articolo
raccontava nei minimi particolari il
primo incontro di Betsy Bonner con
Robert Powell. Per festeggiare il
tredicesimo compleanno della figlia
Claire, Betsy l’aveva portata fuori a
pranzo in un ristorante di Rye. Nella
stessa sala, a una certa distanza, si
trovava anche Robert Powell, vedovo,
in compagnia della giovane Nina,
un’amica di Claire, e la madre di lei.
Quando Betsy e Claire avevano
abbandonato il loro tavolo per
andarsene, Nina le aveva chiamate. Era
stato così che Nina aveva presentato
Betsy e Claire al multimilionario
finanziere di Wall Street.
«Il resto, come si suol dire, è storia»,
era la banale introduzione alle ultime
colonne del servizio giornalistico.
Robert Powell aveva dichiarato che era
stato amore a prima vista. Tre mesi dopo
si erano sposati.
«L’attrice Muriel Craig fu stoica
nell’affrontare la situazione, ma c’è chi
nella cerchia delle sue amicizie sostiene
che fosse furiosa, in particolare nei
confronti della figlia Nina, responsabile
di aver voluto chiamare Claire al tavolo
del suo compagno.»
È vero, rifletté Claire mentre seguiva
il fattorino all’ascensore. Povera Nina.
La suite consisteva in una spaziosa
camera da letto con soggiorno e un
bagno con annessa toilette separata, in
un ambiente generalmente riposante in
varie sfumature pastello.
Claire diede la mancia al fattorino,
chiamò il servizio in camera e disfece
l’unica valigia che aveva portato con sé.
Conteneva i tre completi che aveva
scelto per l’occasione e la sua scorta di
nuovi cosmetici.
In una delle sue e-mail, Laurie Moran
aveva voluto sapere che taglia portava,
spiegando di volerle mettere a
disposizione dei ricambi d’abito.
Cambi d’abito! aveva pensato Claire
nel leggerla. Perché diavolo ne dovrei
aver bisogno?
Ma poi aveva capito. Moran si
sarebbe procurata vestiti da sera simili
ma non identici a quelli che le ragazze
avevano indossato vent’anni prima al
Gala.
Nelle sequenze registrate, avrebbero
replicato alcune delle scene di allora,
come quando avevano brindato tutte
insieme posando per le macchine
fotografiche tenendosi per la vita. E, più
tardi, quando erano state interrogate
dalla polizia.
So di fare la mia figura, pensò Claire.
Ora somiglio moltissimo alla mia
adorata mamma.
Un discreto colpetto alla porta
l’avvertì che era arrivato il servizio in
camera con l’insalata di pollo e il tè
freddo che aveva ordinato.
Ma mentre consumava lo spuntino,
Claire si rese conto di non sentirsi così
intrepida come aveva pensato.
Qualcosa le diceva di rinunciare al
suo piano.
È solo emozione, cercò di convincere
se stessa. Nient’altro che emozione.
Ma era qualcosa di più.
Con esasperante insistenza, una
vocina interiore continuava a ripetere:
Non farlo. Non farlo. Non vale il
rischio!
13
IL viaggio da Cleveland al Westchester
Airport era stato particolarmente
faticoso. Il loro aereo era rimasto fermo
sulla pista per due ore a causa di un
forte temporale e sebbene fossero a
bordo di un piccolo jet privato, gli spazi
all’interno erano piuttosto angusti,
scomodi in particolar modo per la
schiena di Rod. A un certo punto Alison
aveva persino proposto di rinunciare.
«Alie», si era opposto Rod, «questa è
l’occasione per te di poter ottenere il
master che hai sempre desiderato. Fra
Powell e lo studio televisivo incasserai
trecentomila dollari al netto delle tasse,
con cui potrai pagare la scuola di
medicina e far fronte a tutte le altre
spese. Sappiamo bene tutti e due che
diventare medico e dedicarti poi alla
ricerca è sempre stato il tuo sogno.»
Anche tornando a casa dall’università
tutte le sere, passerei tutto il tempo a
studiare. E Rod, poveraccio? E se
invece per frequentare l’università fossi
costretta a trasferirmi, Rod dovrebbe
abbandonare il suo posto al drugstore e
venire con me per passare le sue
giornate a girarsi i pollici? E poi, se
così fosse, al negozio non ci saremmo
più né lui né io e allora dovremmo
assumere due persone per gestirlo. No,
pensava Alison, non vedo proprio come
potrebbe funzionare.
Quando finalmente atterrarono a
Westchester il suo orologio indicava le
tre. Ormai le bastava guardare in faccia
Rod per misurare a che grado di
sofferenze fisiche fosse arrivato. Lo
assistette nel trasferimento dalle grucce
alla sedia a rotelle, poi si chinò su di lui
e gli bisbigliò all’orecchio: «Grazie
d’esserti sobbarcato questo viaggio».
Lui riuscì a sorriderle alzando gli
occhi su sua moglie.
Fortunatamente al terminal li
attendeva l’autista, un uomo dalla faccia
rubizza, sulla cinquantina, con il fisico
di un ex pugile. «Io sono Josh
Damiano», si presentò, «lo chauffeur del
signor Powell. Ha voluto assicurarsi che
aveste a disposizione un trasporto
comodo dall’aeroporto al vostro
albergo.»
«È molto premuroso da parte sua.»
Alison sperò d’aver dissimulato a
sufficienza il disprezzo che provò seduta
stante. Ora che erano di nuovo a New
York, la sua mente era stata invasa da un
caleidoscopio di ricordi. Non vi
avevano più messo piede da quindici
anni, dopo che i medici avevano
informato Rod che non ci sarebbero stati
altri interventi chirurgici.
Ormai avevano finito i soldi e la
famiglia di Rod li manteneva ottenendo
prestiti dalle banche, ma Alison era
riuscita a portare a termine gli studi con
dei corsi serali ottenendo il diploma da
farmacista. Era stato con profonda
gratitudine
che
avevano
colto
l’occasione di trasferirsi a Cleveland a
lavorare nel drugstore del cugino.
Amo New York, pensava ora, ma
ricordo quanto fui felice di andarmene.
Avevo la sensazione che la gente appena
mi vedeva si domandava se fossi stata io
a uccidere Betsy Bonner Powell. A
Cleveland siamo riusciti a condurre una
vita per la maggior parte tranquilla.
«Ci sono delle panche vicino
all’ingresso», annunciò Josh. «Mettetevi
comodi e datemi il tempo di andare a
prendere la macchina. Vedrò di
sbrigarmi.»
Lo guardarono andar via con i loro
bagagli e lo videro riapparire in meno di
cinque minuti. «La macchina è qui
fuori», spiegò Josh affrettandosi a
impugnare i manici della sedia a rotelle
di Rod.
Li attendeva una scintillante Bentley
nera.
Quando Josh aiutò Rod ad alzarsi
dalla sedia a rotelle per prendere posto
sul sedile posteriore, Alison provò una
stretta al cuore.
Soffre così tanto, pensò, e non si
lamenta mai, come non parla mai della
carriera da campione che avrebbe avuto
se avesse potuto continuare a giocare...
Il macchinone si mise in moto. «C’è
poco traffico», riferì loro Josh.
«Dovremmo metterci una ventina di
minuti.»
Avevano scelto di alloggiare al
Crowne Plaza a White Plains. Erano
abbastanza vicini a Salem Ridge, ma
abbastanza lontani dagli alberghi dove
avrebbero soggiornato le altre tre
amiche d’infanzia. Così aveva voluto
Laurie Moran.
«Tutto
bene?»
si
preoccupò
d’informarsi Josh Damiano.
«Comodissima», lo rassicurò Alison,
mentre
Rod
borbottava
parole
d’assenso.
Ma subito dopo Rod si sporse verso
di lei. «Alie», bisbigliò. «Stavo
pensando che, quando verrai ripresa, è
meglio che tu non faccia parola del tuo
sonnambulismo e della possibilità che
quella notte tu sia entrata nella camera
di Betsy.»
«Oh, Rod», ribatté Alison sgomenta,
«non lo avrei mai fatto.»
«E non rivelare niente della tua
speranza di diventare medico se non
sono loro a chiedertelo. Ricorderebbe a
tutti la delusione cocente che hai provato
quando non hai ottenuto la borsa di
studio per la scuola di medicina e
quanto male ci sei rimasta quando
Robert Powell ha fatto in modo che il
decano dell’istituto l’assegnasse a
Vivian Fields.»
Il ricordo della pugnalata alla
schiena che aveva ricevuto il giorno
della sua laurea le distorse i lineamenti
del volto in una smorfia di dolore e
rabbia. «Betsy Powell cercava tutti i
modi per entrare al Women’s Club con
le altre dame dell’alta società e la
madre di Vivian era la presidente
dell’associazione.
E
naturalmente
Powell aveva la sua influenza, dato che
aveva donato un dormitorio al college! I
Fields avrebbero potuto pagare di tasca
propria l’istruzione di Vivian anche
cento volte. Persino il decano era
imbarazzato quando annunciò il suo
nome. E come aveva abbassato il
volume della voce nell’accennare ai
brillanti risultati accademici di Vivian.
Figuriamoci! Ha mollato al secondo
anno! Avrei potuto cavarle gli occhi, a
Betsy!»
«Motivo per il quale se ti chiedono
che cosa hai intenzione di fare di quei
soldi, tu rispondi che hai in programma
di fare il giro del mondo in crociera», le
consigliò il marito.
Quando alzò gli occhi allo
specchietto retrovisore, Josh Damiano
vide
Rod
sussurrare
qualcosa
all’orecchio della moglie e Alison
reagire immediatamente con sofferente
disappunto. Non poteva sentire che cosa
si stessero dicendo, ma sorrise dentro di
sé.
Poco importa se li sento o no, pensò.
Tutto quello che veniva detto in
quell’automobile veniva debitamente
registrato.
14
LA prima reazione di Regina Callari
nell’apprendere che, tra la Fisher Blake
Studios e Robert Powell, avrebbe
guadagnato trecentomila dollari tondi
tondi per apparire in un programma
televisivo fu di sollievo ed euforia.
Si sentì improvvisamente le spalle
alleggerite dal peso soffocante di dover
vivere alla giornata sfruttando le rare
occasioni che aveva di piazzare qualche
appartamento in vendita in un mercato
immobiliare in crisi nera.
Le restituì quasi del tutto la
confortante sensazione di sicurezza in
cui era vissuta negli anni dell’infanzia,
fino al giorno in cui aveva trovato il
corpo di suo padre appeso alla trave
nella rimessa.
Per molti anni aveva fatto
ripetutamente lo stesso sogno sulla sua
infanzia. Si svegliava nella sua grande
camera da letto con il bel letto bianco e
la spruzzata di delicati fiorellini rosa
sulla testiera, il comodino, il comò, lo
scrittoio e la libreria. Nel sogno
rivedeva sempre come dal vivo il
copriletto con i disegni rosa e bianchi
intonati a quelli delle tendine alle
finestre e il soffice scendiletto rosa.
Dopo il suicidio del padre, quando
sua madre si era resa conto di quanti
pochi soldi avevano, erano andate a
vivere in un buco dove dormivano nella
stessa stanza.
Sua madre da sempre appassionata di
moda, aveva trovato lavoro come
consulente agli acquisti da Bergdorf
Goodman, dove in passato era stata
un’apprezzata cliente. In qualche modo
avevano tirato avanti e Regina si era
laureata con ampio merito grazie a una
borsa di studio.
Dopo il matrimonio di Alison e le
voci sulla morte di Betsy, mi sono
trasferita in Florida per scappare,
pensava mentre saliva a bordo del suo
aereo a St. Augustine. Sai che fuga.
Lascia perdere, si disse, non ci pensare
altrimenti ti fai solo del male.
Poche ore prima aveva salutato Zach
che partiva per il suo tour europeo.
Avrebbe raggiunto i suoi amici a Boston
e da lì avrebbero preso quella stessa
sera un aereo per Parigi.
Comodamente seduta a bordo del
piccolo velivolo privato, Regina si
concesse un calice di vino prima del
decollo.
Un breve sorriso le sfiorò le labbra
al ricordo delle belle giornate che aveva
appena trascorso con Zach.
Quando due settimane prima suo
figlio era tornato a casa dal college,
aveva appeso un cartello di CHIUSO PER
FERIE
alla porta dell’agenzia e
annunciato a Zach che andavano in
vacanza insieme: in crociera nei
Caraibi.
In quei giorni non solo aveva
ritrovato il legame affettivo che tanto
aveva temuto d’aver perso con lui, ma lo
aveva ulteriormente consolidato.
Zach aveva volutamente ridotto al
minimo gli accenni al padre e alla sua
nuova moglie, ma quando lei lo aveva
sollecitato, le aveva raccontato tutto.
«Mamma, so che quando papà ha
cominciato a fare i soldi, e ne fa tanti,
avrebbe dovuto darti di più. E credo che
lo avrebbe anche fatto se non fosse stato
condizionato dalla probabile reazione di
Sonya. Ha davvero un brutto carattere.»
Il padre di Zach aveva scritto le
canzoni che lo avrebbero reso ricco ai
tempi in cui erano sposati, ma purtroppo
riuscì a piazzare la prima solo un anno
dopo il divorzio. E io non potevo
permettermi un avvocato per dimostrare
che quando l’aveva scritta era sposato
con me, pensò mesta Regina.
«Credo che rimpianga di aver
sposato Sonya», le aveva confidato il
figlio. «Quando litigano, i decibel delle
loro voci fanno ballare il tetto.»
«Questa sì che mi piace», ricordava
di avergli detto.
Il
suo
sorriso
s’intensificò
ricordando i complimenti che le aveva
fatto Zach per come era dimagrita.
«Mamma, sei proprio uno sballo», si era
congratulato. E non una sola volta.
«Ho fatto un sacco di palestra in
questi ultimi due mesi», gli aveva
confessato. «Frequentarla regolarmente
era un’ottima abitudine che purtroppo
avevo perso.»
Durante la crociera Zach le aveva
chiesto dei suoi genitori. «A me hai
sempre raccontato solo che il nonno si è
ucciso perché aveva sbagliato certi
investimenti ed era rimasto senza un
soldo e che la nonna aveva intenzione di
andare a vivere in Florida quando
avesse smesso di lavorare, ma che è
morta nel sonno quando tu ti eri
trasferita lì solo da un anno», le aveva
ricordato.
«Non si era mai ripresa dalla perdita
di mio padre.»
E
Zach
gli
somigliava
tremendamente, pensò Regina adesso,
mentre il suo aereo decollava. Alto,
biondo e con gli occhi azzurri.
L’ultima sera a cena in crociera Zach
le aveva chiesto della notte in cui era
morta Betsy. Aveva sentito suo padre
che raccontava tutto a Sonya e aveva
fatto ricerche in Internet.
A quel punto Regina gli aveva
raccontato del messaggio.
Avrò sbagliato a rivelarglielo? si
domandava ora. Ma avevo bisogno di
parlarne a qualcuno. Ho sempre avuto
paura d’aver commesso un errore per
non averlo mostrato alla mamma.
Lascia stare, si ammonì mentre si
concedeva un secondo bicchiere di vino.
Quando atterrò a Westchester erano
le otto. L’uomo che l’accolse, le si
presentò come lo chauffeur del signor
Powell, Josh Damiano. Le spiegò che il
signor Powell voleva che fosse
agevolata in tutti i modi.
Le fu difficile non scoppiare a ridere.
Quando le aprì lo sportello della
Bentley, non seppe resistere. «Immagino
che il signor Powell abbia superato la
fase dei Mercedes», commentò.
«Oh, no», rispose con un sorriso
Josh. «Una Mercedes ce l’ha eccome e a
passo lungo, una famigliare.»
«Buon per lui.» E chiuditi la bocca,
si rimproverò Regina salendo in
macchina.
Avevano appena lasciato l’aeroporto
quando squillò il suo cellulare.
Era Zach. «Stiamo per imbarcarci,
mamma. Volevo assicurarmi che fossi
arrivata sana e salva.»
«Oh, tesoro, che carino. Già mi
manchi.»
Il tono di Zach cambiò. «Quel
messaggio, mamma. Mi hai detto che
avevi avuto la tentazione di sbatterlo in
faccia a Powell. L’hai portato con te?»
«Sì, ce l’ho, ma non temere, non farò
una cosa così folle. È nella valigia. Ti
giuro che nessuno può trovarlo.»
«Distruggilo, mamma! Se qualcuno lo
trova, potresti correre qualche rischio
molto serio.»
«Zach, se ti fa stare più tranquillo, ti
prometto che lo elimino.»
No che non lo farò, pensò, ma non
posso lasciare che parta in questo stato
di ansia per me.
Al volante della Bentley, Josh
Damiano non aveva pensato di registrare
Regina perché viaggiava da sola.
Quando aveva sentito squillare il suo
telefono,
aveva
immediatamente
azionato il registratore. Non si può mai
sapere, pensò.
Non si è mai troppo zelanti quando si
lavora per un uomo come il signor
Powell.
15
ERA stata una giornata lunghissima. In
compagnia di Jerry e Grace, Laurie
aveva puntigliosamente analizzato una
miriade di dettagli per assicurarsi che il
primo giorno di riprese tutto fosse stato
debitamente previsto e organizzato a
puntino.
«Questo è quanto», sospirò, rialzando
finalmente la testa dai documenti sparsi
sulla sua scrivania e appoggiandosi allo
schienale. «Il dado è tratto, più di così
ora come ora non possiamo fare. Le
ragazze sono tutte qui e domani le
incontreremo. Cominceremo alle nove.
Il signor Powell ha detto che farà
preparare dalla governante caffè, frutta e
panini.»
«Mi riesce veramente difficile
credere che non si siano mai tenute in
contatto tra di loro per tutti questi anni
come sostengono», osservò Jerry.
«Scommetto che comunque saranno
andate a dare di tanto in tanto
un’occhiata in Internet. Se io fossi una di
loro, lo avrei fatto. Mia zia usa sempre
Google per vedere che cosa sta
combinando il suo ex.»
«Io mi aspetto che almeno per i primi
minuti il nostro incontro sarà all’insegna
dell’imbarazzo», pronosticò Laurie con
un’eco di preoccupazione nella voce.
«D’altra parte per anni sono state molto
amiche e tutte e quattro hanno subito e
patito le durezze di un interrogatorio.»
«Tempo fa», ricordò Jerry, «Nina
Craig disse a un giornalista che tutte e
quattro erano state accusate di aver
partecipato a un complotto per
assassinare Betsy e che il detective
l’aveva sollecitata a testimoniare per
l’accusa in cambio di una sentenza più
mite. Dev’essere stata un’esperienza
angosciante.»
«Io ancora non capisco perché una di
loro dovrebbe aver voluto uccidere
Betsy Powell», intervenne Grace
scuotendo la testa. «Stanno festeggiando
la laurea con un party sontuoso. Hanno
tutta la vita davanti. Nei video girati
durante la festa sembrano tutte più che
felici.»
«Forse una di loro non lo era tanto
quanto sembrava», commentò Laurie.
«Vi dico come la vedo io», ribatté
Grace. «Claire, la figlia di Betsy,
certamente non aveva nessuna ragione
per uccidere sua madre. Andavano
d’amore e d’accordo. Il padre di Regina
Callari aveva perso i suoi soldi in uno
dei fondi d’investimento di Powell, ma
persino sua madre ha ammesso che
ripetutamente
Powell
gli
aveva
raccomandato di non investire più di
quanto fosse in grado di perdere.
Quando Powell conobbe Betsy, la madre
di Nina Craig aveva con lui una
relazione sentimentale, ma solo un pazzo
soffocherebbe una persona per una
ragione come quella. E Alison Schaefer
si sposò quattro mesi dopo la laurea ma
il suo fidanzato all’epoca era già un
campione di football con un contratto
multimilionario. Che motivo poteva aver
avuto per schiacciare un cuscino sulla
faccia di Betsy Powell?»
Mentre parlava, Grace scandiva le
diverse situazioni sulle dita di una mano.
«E quella musona di governante era stata
assunta da Betsy», continuò. «Dunque
secondo me si tratta semplicemente
della solita rapina andata male. Quella
villa
è
grandissima.
Ci
sono
portefinestre scorrevoli dappertutto. Il
sistema d’allarme non era inserito. Una
delle porte non era chiusa a chiave.
Chiunque sarebbe potuto entrare. Io
credo sia stato uno che voleva mettere le
mani su quella parure di smeraldi. Una
collana e due orecchini che da soli
valevano
un
capitale.
E
non
dimentichiamoci che uno di quegli
orecchini è stato ritrovato sul pavimento
della sua stanza.»
«In mezzo a tutta quella gente poteva
anche esserci un intruso», fece eco
Laurie. «Alcuni degli ospiti avevano
chiesto il permesso di portare degli
amici e nei video ci sono un paio di
persone che nessuno è stato in grado di
identificare con sicurezza.» Fece una
pausa. «Chissà, può darsi che questo
aspetto salti fuori nel nostro programma.
Se così sarà, vedrete quanto felici
saranno Powell, la governante e le
ragazze di aver partecipato.»
«Io credo lo siano già», azzardò
Jerry. «Trecentomila dollari netti sono
una somma più che simpatica da infilarsi
nel portafogli. Vorrei averla io.»
«Se avessi io a disposizione quei
soldi, mi toglierei lo sfizio di un
appartamento nuovo che sia solo al
quarto piano senza ascensore»,
mormorò Grace con un sospiro.
«Ma se saltasse fuori che è stata una
di loro», notò Jerry, «potrebbe sempre
farsi difendere da Alex Buckley. E con i
suoi
onorari,
i
trecentomila
sfumerebbero in un lampo.»
Alex Buckley era il noto penalista
che sarebbe stato l’ospite d’onore del
programma e avrebbe condotto le
singole interviste con Powell, la
governante e le neolaureate. Non ancora
quarantenne, era spesso ospite dei
programmi televisivi in cui si
discutevano importanti casi giudiziari.
Era diventato famoso difendendo un
ricco industriale accusato di aver ucciso
il suo socio. Contro ogni probabilità,
Buckley aveva ottenuto un verdetto di
non colpevolezza, che la stampa aveva
deplorato sostenendo che si fosse
trattato di un gravissimo errore
giudiziario. Dieci mesi dopo tuttavia la
moglie del socio ucciso si era tolta la
vita e nel suo messaggio d’addio aveva
confessato l’omicidio del marito.
Dopo aver visionato un gran numero
di video di Alex Buckley, Laurie aveva
deciso che sarebbe stato il conduttore
ideale del suo programma sul
Graduation Gala.
Dopodiché
aveva
dovuto
convincerlo.
Aveva chiamato il suo ufficio e
fissato un appuntamento.
Era appena stata accompagnata nel
suo ufficio, quando all’avvocato era
arrivata una chiamata urgente, così,
seduta davanti alla sua scrivania, Laurie
aveva avuto l’occasione di studiarlo da
vicino.
Era bruno con gli occhi verde-azzurri
sottolineati dalla montatura nera degli
occhiali, mento volitivo e il fisico
atletico, alto e snello, che ne aveva fatto
una star della pallacanestro al college.
Guardandolo in televisione, aveva
concluso che fosse uno di quegli uomini
che guadagnano d’istinto la simpatia e la
fiducia degli spettatori ed erano giusto
le qualità che cercava per la persona che
avrebbe ricostruito la storia conducendo
il suo programma. E l’intuizione che
aveva avuto fu confermata dal modo
rassicurante con cui lo aveva sentito
confortare il suo interlocutore al
telefono.
Quando
aveva
concluso
la
conversazione telefonica, le aveva
rivolto un sorriso cordiale e sincero. Ma
il tono della sua prima domanda
l’avvertiva implicitamente a non fargli
perdere tempo: «Mi dica pure che cosa
posso fare per lei, signora Moran».
Laurie, che si era preparata a dovere,
era stata concisa e appassionata.
Ricordò il momento in cui Alex
Buckley aveva annuito lentamente prima
di appoggiare la testa allo schienale
della poltrona. «Devo dire che trovo la
sua proposta estremamente interessante,
signora Moran», le aveva risposto.
«Laurie», le disse in quel momento
Jerry tornando su Buckley, «ero sicuro
che il nostro principe del foro ti avrebbe
congedata senza troppi complimenti.»
«Sapevo che il compenso che potevo
offrirgli per partecipare al programma
non sarebbe stato sufficiente ad
accontentarlo, ma mi aspettavo che
potesse essere curioso di sapere
qualcosa di più di un caso così
importante e ancora irrisolto come il
Graduation Gala. Grazie al cielo ci
avevo visto giusto.»
«Occhio di lince», la canzonò
allegramente Jerry. «Farà un figurone.»
Erano le sei del pomeriggio.
«Speriamo», mormorò Laurie alzandosi.
«Abbiamo sgobbato abbastanza. Direi
che possiamo chiudere.»
«Come dicevo oggi a Jerry e Grace»,
raccontava Laurie a suo padre due ore
dopo bevendo un caffè con lui, «il dado
è tratto.»
«In che senso?» chiese Timmy. Per
una volta non se n’era andato subito
dopo cena.
«Nel senso che ho fatto tutto il
possibile e domani mattina cominceremo
le registrazioni del programma.»
«Diventerà una serie?» volle sapere
Timmy.
«Che resti tra me e te», l’ammonì
Laurie con un sorriso. Come somiglia a
Greg, pensò, non solo nell’aspetto, ma
nelle espressioni che fa quando si mette
a meditare su qualcosa.
Voleva sapere sempre tutto dei
progetti ai quali lavorava sua madre.
Questa volta lei gli aveva descritto il
nuovo programma in termini abbastanza
generici come «la rimpatriata di quattro
amiche che sono cresciute insieme ma
non si sono più viste per vent’anni».
La reazione del figlio era stata: «E
perché non si sono più viste?»
«Perché vivevano in stati diversi»,
aveva risposto Laurie con sufficiente
sincerità.
Quegli ultimi mesi erano stati duri,
rifletté. Non c’era stata solo la pressione
dei faticosi preparativi per il nuovo
programma. Il 25 maggio Timmy aveva
fatto la Prima Comunione e Laurie non
aveva potuto impedire che le lacrime le
scivolassero da sotto gli occhiali scuri.
Dovrebbe esserci anche Greg qui.
Dovrebbe esserci anche lui, quando
invece non ci sarà mai per nessuno di
tutti i momenti più importanti nella vita
di Timmy. Non ci sarà per la Cresima e
per la festa del diploma e per la laurea
o per il giorno in cui si sposerà. Non ci
sarà mai. Erano stati questi i pensieri
che le erano martellati nella testa mentre
si sforzava senza speranza di impedirsi
di piangere.
Si accorse in quel momento che
Timmy la stava fissando con
un’espressione preoccupata.
«Mamma, hai la faccia triste», le
disse.
«Allora devo aver scelto quella
sbagliata.» Laurie cacciò giù il groppo
che le si stava formando in gola e
sorrise. «Questa va meglio, giusto? Non
ho motivo di essere triste con te e il
nonno. Dico bene, papà?»
Leo Farley non era nuovo
all’emozione che evidentemente stava
vivendo in quel momento sua figlia.
Anche lui, quando pensava agli anni
trascorsi accanto a Eileen, veniva preso
talvolta da una profonda tristezza. Per
non dire di quando ricordava Greg,
perduto per mano di chissà quale
reincarnazione di Satana...
Leo scacciò quei pensieri. «E io ho
voi due», rincarò con slancio. «Badate a
non restare alzati troppo a lungo.
Domani dobbiamo svegliarci tutti di
buonora.»
L’indomani mattina Timmy partiva
per una vacanza di due settimane in
campeggio con alcuni suoi amici.
Leo e Laurie avevano avuto il loro
bel da fare per contenere le loro ansie
nel timore che Occhi Blu potesse
scoprire dove stava andando Timmy.
Alla fine però si erano arresi alla logica
considerazione che se lo avessero
isolato dai compagni e amici
impedendogli di partecipare alle attività
comuni, ne avrebbero fatto una persona
timorosa e sempre sulle spine. Nei
cinque anni trascorsi da quando Greg
era stato ucciso, si erano sforzati in ogni
modo di far vivere a Timmy una vita
normale... pur vegliando su di lui.
Leo si era recato personalmente nella
località dove si sarebbero accampati i
ragazzi e aveva parlato con il
responsabile
dell’organizzazione
ottenendo l’assicurazione che tutti i
ragazzi dell’età di Timmy sarebbero
stati costantemente sotto gli occhi dei
sorveglianti e che il campo era
ulteriormente protetto da guardie giurate
che
avrebbero
individuato
immediatamente un estraneo.
Al responsabile, Leo aveva riferito le
parole gridate da Timmy: «Occhi Blu ha
ucciso il mio papà». Poi aveva ripetuto
la descrizione che la testimone aveva
fornito alla polizia: «Aveva la faccia
nascosta sotto una sciarpa. Aveva un
berretto in testa. Era di altezza media,
ben piantato ma non grasso. È
scomparso dietro l’angolo in pochi
secondi, ma non mi è sembrato che fosse
giovane. Però era veramente veloce».
Chissà perché mentre diceva
«veramente veloce», nella mente di Leo
era ricomparsa l’immagine dell’uomo
che in marzo era passato schettinando
sul marciapiede. Forse perché per poco
non aveva travolto quella donna incinta
davanti a noi, pensò.
«Ancora un po’ di caffè, papà?»
«No, grazie.» Leo dovette mordersi
la lingua per non dire a Laurie che
riunire una seconda volta tutte quelle
persone del Graduation Gala sotto lo
stesso tetto era troppo rischioso.
Sarebbe successo comunque e non
serviva sprecare fiato.
Spinse indietro la seggiola, raccolse i
piatti del dessert e le tazze e li portò in
cucina. Laurie era già di là e stava
caricando la lavastoviglie.
«Ci penso io», si offrì Leo. «Tu
controlla di nuovo lo zaino di Timmy.
Credo di averci messo tutto.»
«Allora c’è tutto. Non ho mai
conosciuto una persona così ben
organizzata come te. Cosa farei senza il
mio papà?»
«Te la caveresti benissimo, ma non
temere, perché ho intenzione di restare
nei paraggi ancora per un po’.» Leo
Farley baciò sua figlia. Mentre
pronunciava quelle parole, gli tornarono
in mente per la milionesima volta, quelle
che la donna che aveva assistito alla
morte di Greg aveva sentito pronunciare
all’assassino rivolto a Timmy: Di’ a tua
madre che adesso tocca a lei. Poi sarà
il tuo turno.
In quel momento Leo Farley decise
che per i giorni di registrazione del
programma a Salem Ridge ci sarebbe
stato anche lui. Sono un piedipiatti
abbastanza esperto da poter spiare senza
farmi accorgere, pensò.
Se qualcosa dovesse andare storto,
voglio esserci, disse tra sé.
16
LA sveglia di Alex Buckley suonò alle
sei del mattino, pochi secondi dopo che
la sua sveglia interiore lo avesse
richiamato dal sonno facendogli aprire
gli occhi.
Per qualche minuto rimase sdraiato
com’era a riordinare i pensieri.
Era il giorno in cui si sarebbe recato
a Salem Ridge per il primo giorno di
riprese del Graduation Gala.
Spinse via il lenzuolo e si alzò.
Qualche anno prima era entrata nel suo
ufficio
una
cliente
in
libertà
condizionata. «Mamma mia», aveva
esclamato quando lui si era alzato per
accoglierla. «Non mi ero resa conto di
quanto lei fosse sconfinato!»
Alex, che era alto un metro e
novantatré, aveva riso assecondandola.
La sua cliente era alta meno di un metro
e sessanta, una statura modesta che non
le aveva impedito di infliggere al marito
una coltellata mortale durante un
diverbio coniugale.
La sua battuta gli riaffiorò alla mente
mentre entrava in bagno per fare la
doccia, ma il breve ricordo si dissolse
appena si mise a riflettere su ciò che lo
aspettava.
Sapeva bene perché aveva deciso di
accettare la proposta di Laurie Moran.
Del Graduation Gala aveva letto quando
frequentava
il
secondo
anno
all’Università di Fordham e aveva
successivamente seguito gli sviluppi del
caso con morboso interesse, cercando di
capire quale delle quattro laureate
avesse commesso il delitto. Fin
dall’inizio era stato sicuro che fosse una
di loro.
Il suo appartamento era in Beekman
Place, sull’East River, un quartiere
abitato da alti funzionari dell’ONU,
nonché da uomini d’affari facoltosi che
preferivano mantenere un profilo basso.
Era capitato in quell’appartamento
due anni prima e, durante la cena, aveva
saputo che i padroni di casa intendevano
venderlo. Aveva deciso su due piedi di
acquistarlo. L’unico difetto che aveva,
secondo lui, era l’enorme insegna rossa
della Pepsi-Cola che lampeggiava notte
e giorno sul tetto di un edificio di Long
Island City e gli guastava il panorama
dell’East River.
Ma era un appartamento grande, con
un’ala riservata alla servitù. Sapeva di
non aver bisogno di tutto quello spazio,
ma d’altra parte, si giustificava, una sala
da pranzo con tutti i crismi significava
che poteva organizzare pranzi a inviti;
avrebbe potuto trasformare la seconda
camera da letto in studio privato e una
stanza per gli ospiti faceva sempre
comodo. Suo fratello Andrew, tanto per
dirne una, un avvocato specializzato in
diritto societario che viveva a
Washington, si recava regolarmente a
Manhattan per affari.
«Non avrai più bisogno di stare in
albergo», gli aveva annunciato.
«Sono pronto a pagare al tasso
attuale», aveva scherzato suo fratello.
«Per la verità», aveva aggiunto, «non ne
posso più degli alberghi, perciò sarò
felicissimo.»
Quando
aveva
comprato
l’appartamento, Alex aveva deciso che
invece di una governante per due giorni
alla settimana, sarebbe stato più
conveniente avere un dipendente a
tempo pieno che potesse tenere la casa
pulita, fare delle commissioni per lui e
preparargli i pasti quando era a casa.
Consigliato dall’architetto di interni che
aveva arredato la sua nuova dimora con
gran buongusto, aveva assunto Ramon,
che era stato alle dipendenze di altri
suoi clienti ma aveva scelto di non
trasferirsi in California con loro. Gli ex
datori di lavoro di Ramon erano una
coppia eccentrica che faceva gli orari
più strani e sparpagliava sui pavimenti
di casa gli indumenti che si toglieva.
Ramon si era stabilito di buon grado
nella stanza con bagno privato dietro la
cucina, il piccolo monolocale progettato
per un domestico residente. Sessantenne,
originario delle Filippine, era divorziato
da tempo e aveva una figlia che viveva a
Syracuse.
L’uomo
non
s’interessava
minimamente agli affari privati di Alex e
mai gli sarebbe passato per la testa di
leggere qualcosa che il suo datore di
lavoro avesse dimenticato sulla
scrivania.
Il domestico era già in cucina quando
Alex, vestito di tutto punto in giacca con
camicia bianca e cravatta si sedette al
tavolino nell’angolo della prima
colazione. Di fianco al suo piatto
c’erano i quotidiani appena arrivati, ma
dopo aver salutato Ramon e aver dato
una scorsa ai titoli principali, li mise da
parte.
«Li leggerò quando tornerò a casa
stasera», disse mentre Ramon gli
versava il caffè. «Niente di succoso?»
«Lei è a pagina sei del Post, signore.
Ha accompagnato la signorina Allen alla
prima di un film.»
«Sì, infatti.» Alex non si era ancora
abituato del tutto all’indesiderata
pubblicità originata dalla notorietà
conseguente
alle
sue
frequenti
apparizioni televisive.
«È una donna molto bella, signore.»
«Sì, infatti.» C’era anche quello.
Scapolo com’era, avvocato sulla cresta
dell’onda, non poteva farsi vedere al
fianco di una donna in occasione di
qualche avvenimento senza che si
pensasse subito a una relazione.
Elizabeth Allen era un’amica e niente di
più.
Consumò frettolosamente la frutta, i
cereali e il toast che il domestico gli
aveva preparato. Era troppo ansioso di
andare finalmente alla grande villa a
conoscere Robert Powell e le quattro ex
neolaureate.
Dovevano essere sui quarant’anni
ormai, calcolò: Claire Bonner, Alison
Schaefer, Regina Callari e Nina Craig.
Dopo aver accettato di condurre il
programma, aveva svolto ricerche
approfondite sul loro conto e aveva letto
tutto quanto era apparso sugli organi
d’informazione all’epoca del delitto.
Gli era stato chiesto di presentarsi
alla villa di Powell alle nove. Era ora di
mettersi in marcia. «Sarà a casa per
cena, signor Alex?» domandò Ramon.
«Sì.»
«Ha in programma di avere uno o più
ospiti?»
Alex sorrise all’ometto che attendeva
con ansia la sua risposta.
Ramon è un perfezionista, pensò non
per la prima volta. Non gli andava di
sprecare il cibo quando lo si poteva
evitare ed era lieto di essere informato a
tempo debito quando Alex invitava
amici a pranzo. L’avvocato scosse la
testa. «Niente ospiti», ribatté.
Pochi minuti dopo Alex era nella
rimessa del suo palazzo. Ramon aveva
già avvertito, perciò la sua Lexus
decappottabile era parcheggiata vicino
alla rampa d’uscita con il tettuccio
abbassato.
Alex inforcò gli occhiali da sole,
avviò il motore e si diresse verso l’East
River Drive. Aveva ben chiare nella
testa le domande che avrebbe rivolto
alle sei persone che si sapeva essersi
trovate nella casa la notte in cui Betsy
Bonner Powell era stata soffocata nel
sonno.
17
LEO Farley strinse in un abbraccio
vigoroso il nipote che si preparava a
salire sull’autobus della Saint David’s
School che lo avrebbe portato a Camp
Mountainside sui monti Adirondack.
Nascose come meglio poteva il sempre
presente timore che Occhi Blu scovasse
la destinazione del piccolo Timmy.
«Ti invidio», gli disse, «perché so
che te la spasserai un mondo con i tuoi
amici.»
«Lo so, nonno», rispose il bambino,
ma subito la sua espressione si fece
apprensiva.
Guardando gli altri partecipanti, Leo
si accorse che lo stesso stava accadendo
a tutti i suoi compagni di viaggio. Al
momento della separazione da genitori e
nonni era corrisposto un palpito di ansia
che si era rispecchiato sul viso di tutti i
ragazzi.
«Coraggio, campioni, tutti a bordo!»
li incitò uno degli accompagnatori.
Leo abbracciò di nuovo il nipote. «Ti
divertirai», ripeté prima di schioccargli
un bacio sulla guancia.
«E tu ti prenderai cura della mamma,
vero, nonno?»
«Naturalmente.»
Laurie aveva fatto colazione con
Timmy alle sei del mattino prima che
arrivasse a prenderla la macchina della
Fisher Blake Studios per portarla a
Salem Ridge. Durante i saluti era
scappata qualche lacrimuccia.
Mentre Timmy si metteva in fila per
salire sul pullman, Leo rifletté che,
anche se ormai solo di tanto in tanto gli
accadeva di avere incubi di Occhi Blu,
non aveva certamente scordato la
terribile minaccia che gli aveva gridato
l’assassino di suo padre.
E a otto anni d’età, si preoccupava
soprattutto che non accadesse qualcosa a
sua madre.
Non finché ci sarò io, concluse Leo.
Salutata per un’ultima volta la comitiva
in partenza, andò a recuperare la Toyota
nera a noleggio che aveva parcheggiato
nella Quinta Avenue, a un isolato da lì.
Non avrebbe potuto gironzolare nei
pressi di Laurie sulla sua vecchia Ford
rossa, perché sicuramente sua figlia
l’avrebbe riconosciuta. Partì alla volta
di Salem Ridge.
Tre quarti d’ora dopo era in Old
Farms Road nel momento in cui la
limousine che trasportava la prima delle
quattro protagoniste imboccava il lungo
viale di casa Powell.
18
OCCHI Blu assecondava sempre
l’istinto. Quel giorno, cinque anni prima,
aveva sentito che era giunto il momento
di dare inizio alla sua vendetta. Quel
pomeriggio aveva seguito il dottor Greg
Moran e Timmy dalla loro abitazione
sulla Ventunesima al parco giochi della
Quindicesima.
Aveva provato un brivido di
onnipotenza nel vederli avviati mano
nella
mano
verso
il
luogo
dell’esecuzione. Al momento di
attraversare la strada, il dottore aveva
preso il figlio in braccio. Aveva riso nel
vedere il sorriso beato sul viso di
Timmy appeso al collo del padre.
Per un attimo si era chiesto se
ammazzarli tutti e due, ma aveva deciso
di no. In quel modo gli sarebbe rimasta
solo Laurie. No, meglio aspettare.
Ora però toccava a lei. Quante cose
sapeva su Laurie: dove abitava, dove
lavorava, dove andava a correre
sull’East River. Qualche volta era
persino salito sul suo autobus e le si era
seduto accanto. Se solo sapessi, se solo
sapessi! Che fatica non girarsi a
dirglielo in faccia.
Aveva adottato il nome di Bruno
Hoffa appena finito di scontare la
condanna a cinque anni. Un vero
giochetto da ragazzi cambiare nome e
procurarsi documenti falsi dopo il
periodo di libertà vigilata, si
compiaceva ancora oggi.
Nei sei mesi da quando era uscito di
prigione per la seconda volta si era
mantenuto con quel genere di lavori per
cui nessuno bada molto ai tuoi
precedenti, lavori alla giornata, brevi
ingaggi nei cantieri edili.
Il lavoro pesante non lo spaventava,
anzi, gli piaceva. Ricordava d’aver
sentito un giorno qualcuno dire che
sembrava e si comportava come un
contadino.
Invece di prenderla male, ne aveva
riso. Sapeva di avere il corpo tarchiato
e le braccia forti che inducono la gente a
pensare a qualcuno che lavora di vanga
e zappa e a lui stava bene così.
A sessant’anni compiuti, sapeva di
poter probabilmente seminare qualsiasi
sbirro avesse cercato di inseguirlo.
In aprile aveva letto sui giornali che
la Fisher Blake Studios avrebbe
reinscenato il delitto del Graduation
Gala e che a produrre il programma
sarebbe stata Laurie Moran.
A quel punto si era messo a caccia di
un sistema per introdursi nella proprietà
Powell in maniera da non destare
sospetti.
Quando era andato a studiare la villa,
aveva notato il grosso furgone con la
scritta PERFECT ESTATES sulla fiancata.
Aveva cercato sull’elenco delle aziende
e aveva fatto domanda di impiego. Da
ragazzo aveva lavorato per un
giardiniere, e aveva imparato tutti i
fondamentali del mestiere. Non ci
voleva un cervello da genio per tagliare
l’erba di un prato o spuntare siepi e
cespugli o piantare fiori nei posti che ti
indicava il capo.
Era un lavoro che gli piaceva. E
sapeva che quando avessero cominciato
a registrare il programma, Laurie Moran
avrebbe trascorso alla villa molte ore
della giornata.
L’aveva vista da Powell per la prima
volta quando era stato assunto da poco.
L’aveva riconosciuta quand’era scesa
dalla sua macchina e si era
immediatamente munito di un paio di
cesoie per avvicinarsi alle portefinestre
per spiarla da vicino.
Avrebbe potuto farla fuori quel
giorno stesso quand’era uscita per
tornare all’automobile, ma aveva
preferito rimandare. Aveva già atteso
così a lungo assaporando il terrore in
cui viveva la sua famiglia. Non sarebbe
meglio aspettare che tornasse con la sua
troupe? si era domandato. I mass media
non avrebbero drammatizzato ancora di
più la sua morte grazie all’enorme
pubblicità data al programma sul
Graduation Gala?
Ad Artie Carter, il datore di lavoro
di Occhi Blu, Powell aveva detto che
avrebbero dato il via alle registrazioni il
20 giugno. La preoccupazione di Occhi
Blu era che Powell ordinasse
all’impresa di completare tutta la
manutenzione del giardino prima che
cominciassero le riprese.
Per questo aveva volto parlare con
Artie il giorno prima, il 19, mentre
davano gli ultimi ritocchi a prati, piante
e arbusti.
«Signor Carter», esordì nonostante
tutti gli altri dipendenti lo chiamassero
Artie. Aveva spiegato che era perché gli
era stato insegnato a portare il massimo
rispetto al boss e aveva avuto la
sensazione che a Carter non fosse affatto
dispiaciuto.
In verità Artie Carter trovava che ci
fosse qualcosa di non del tutto chiaro in
Bruno Hoffa. Non si univa mai ai
colleghi per una birra dopo il lavoro.
Non partecipava mai ai loro dibattiti sul
campionato di baseball durante i tragitti
per andare e tornare dalla villa. Non si
lamentava mai quando c’era brutto
tempo. Secondo Artie, a Bruno si era
spenta qualche lucina nel cervello, ma
che importanza aveva? Era il migliore di
tutta la sua squadra.
Artie finì di ispezionare il lavoro
eseguito e si dichiarò soddisfatto.
Nemmeno quel capriccioso mai contento
del signor Robert Powell avrebbe
trovato da ridire.
Fu quello il momento in cui gli si
avvicinò Bruno Hoffa.
«Signor Carter, avrei un suggerimento
da fare», riprese.
«Cosa c’è, Bruno?» Era stata una
giornata lunga e faticosa e Artie aveva
una gran voglia di tornare a casa e
mandar giù una bella birra fresca. O
magari un paio di belle birre fresche.
Bruno distese le labbra sottili in un
sorriso forzato, fissò sul collo di Artie
gli occhi da sotto le palpebre pesanti,
assunse un tono per lui insolitamente
sussiegoso e cominciò titubante a
recitare il discorsetto che si era
preparato.
«L’altro giorno il signor Powell è
uscito mentre stavo piantando i fiori
intorno alla pool house. Si è
complimentato per i fiori, ma era molto
seccato perché dice che sicuramente
quelli della TV calpesteranno l’erba.
Immagina che sia inevitabile, ma gli
piacerebbe poter fare qualcosa.»
«Il signor Powell è un perfezionista»,
rispose Artie. «Ed è il nostro cliente
principale. Da quel che ho capito
staranno qui tutta la settimana a scattare
fotografie nei giardini. Che cosa
possiamo farci noi?» chiese irritato. «Ci
ha ordinato di chiudere entro oggi.»
«Signor
Carter»,
continuò
imperterrito Occhi Blu, «a me sarebbe
venuta un’idea. È chiaro che non
possiamo tenere qui uno dei nostri
furgoni perché il signor Powell darebbe
fuori di matto. Ma forse lei potrebbe
proporgli di far alloggiare me nella pool
house. Così se quelli della TV rovinano
l’erba o fanno buchi con la loro
attrezzatura pesante, io posso rimettere
tutto a posto appena liberano la zona.
C’è anche la possibilità che decidano di
fare una passeggiata in giardino o di
pranzare all’aperto e di lasciare dei
rifiuti in giro. Io potrei occuparmi anche
di quello. Se il signor Powell è
d’accordo, io potrei farmi portar qui la
mattina presto per farmi venire a
prendere quando hanno finito di
registrare nel pomeriggio.»
Artie Carter ci pensò su. Powell era
un individuo così pignolo che avrebbe
anche potuto gradire quel genere di
proposta. E poi Bruno era un uomo così
schivo che di sicuro non avrebbe
intralciato nessuno della troupe.
«Darò un colpo di telefono al signor
Powell e gli suggerirò di tenerti a sua
disposizione durante le riprese.
Conoscendolo,
scommetto
che
accetterà.»
Senz’altro accetterà, pensò Occhi Blu
trattenendo con una certa fatica un
sorriso di trionfo. Laurie, non dovrai
piangere ancora per molto la perdita di
tuo marito, disse dentro di sé. Te lo
prometto.
19
CON immenso dispiacere di Nina Craig,
quando si presentarono alla reception
del St. Regis, trovarono ad aspettarle un
messaggio per sua madre.
Come aveva temuto, era di Robert
Powell, che invitava Muriel alla villa
alle nove del mattino seguente in
occasione della prima colazione.
Con un sorriso soddisfatto, Muriel
sventolò il biglietto sotto il naso di
Nina. «E tu che dicevi che si stava solo
divertendo con me», le rinfacciò. «Tu
non puoi o non vuoi capire che io e Rob
eravamo innamoratissimi. Il fatto che
Betsy Bonner gli abbia fatto girare la
testa non significa che non mi volesse
bene.»
Era evidente che, dopo aver bevuto
una vodka e almeno due bicchieri di
vino in aereo e dopo il battibecco in
macchina quando si era messa a urlare
quanto detestava Betsy, Muriel stava
rischiando di violare i limiti della
decenza.
«Mamma, per piacere», cominciò
lanciando un’occhiata ai due impiegati
che osservavano in silenzio Muriel da
dietro il bancone.
«Il ‘piacere’ è tutto mio, fattene una
ragione e leggi le recensioni! Tu sei solo
una figurante, un elemento scenografico.
Hai visto quella donna che mi ha
fermato per la strada? Quella che si è
complimentata per la mia splendida
interpretazione
nel
remake
di
Prigionieri del passato?»
Aveva alzato la voce mentre le sue
guance diventavano via via più
paonazze. «Quanto a te, non avevi la
stoffa per fare l’attrice vera, è per
questo che sei solo una comparsa, un
semplice riempitivo nelle scene di
folla.»
Nina vide che uno dei due impiegati
aveva riposto le chiavi delle loro stanze
in buste separate. Porse la mano verso
di lui. «Io sono Nina Craig», si presentò
a bassa voce. «Mi scuso per la scenata
che sta facendo mia madre.»
Se Muriel aveva udito le sue parole,
non lo diede a vedere. Aveva ancora
qualcosa da dire. «E tu non perdi
occasione per mortificarmi», concluse.
L’impiegato ebbe il buongusto di non
rispondere direttamente alle scuse che
gli aveva porto Nina. «Faccio portare i
vostri bagagli in camera», si limitò a
mormorare.
«Grazie. La mia valigia è quella
grande nera.» Nina gliela indicò, poi
s’incamminò
a
passi
decisi
abbandonando dietro di sé sua madre
che finalmente aveva smesso di
starnazzare e, furibonda e imbarazzata
dagli sguardi curiosi delle altre persone
in coda alla reception, riuscì a infilarsi
nell’ascensore prima che le porte si
chiudessero.
Scese al sesto piano e seguì la
freccia che indicava il lato dei numeri
dispari riuscendo a chiudersi nella 621
prima che Muriel tentasse di
raggiungerla in camera sua.
Finalmente al sicuro, piombò a
sedere nella poltrona più vicina
stringendosi una mano nell’altra. «Non
ce la faccio più», sussurrò. «Non ce la
faccio più.»
Più tardi chiamò il servizio in
camera. Per come la conosceva, c’era
da aspettarsi che sua madre, che
occupava la camera attigua, le
telefonasse per cenare con lei. Invece
non accadde. Nina non avrebbe accettato
di incontrarla, ma le fu negata la
soddisfazione di sbatterle in faccia le
parole che le formicolavano in gola.
Avanti, copriti di ridicolo domani, fai
pure. Io ho cercato di avvertirti. Tu sei
Muriel Craig, un’attrice di serie B e un
fallimento totale come madre e anche
come essere umano.
Nella speranza di raccogliere altre
informazioni, Josh si era assunto
l’incarico di andare personalmente a
prenderle l’indomani mattina e di
registrare di nuovo le loro rabbiose
conversazioni.
Era arrivato alle sette e mezzo, con
trenta minuti d’anticipo sull’ora fissata,
ma quando aveva fatto telefonare in
camera, Nina Craig aveva risposto che
stavano scendendo.
Il fatto è che benché Nina avesse
pensato che sua madre non sarebbe
riuscita a escogitare nient’altro con cui
contrariarla, Muriel l’aveva smentita
annunciando che voleva arrivare in
anticipo sulla prima colazione per poter
passare un po’ di tempo con Robert
Powell prima dell’arrivo degli altri.
Questa volta almeno compirono il
tragitto in silenzio.
Alla villa, la porta fu aperta da Jane,
la governante da tanti anni al servizio di
Powell. Le squadrò dalla testa ai piedi,
le salutò chiamandole per nome e
annunciò che il signor Powell sarebbe
sceso alle nove e che la signora Moran,
la produttrice del programma, era già in
sala da pranzo.
Nina guardò sua madre nascondere la
delusione e trasformarsi in Muriel
Craig, l’attrice. Reagì con un sorriso
aggraziato e in tono cordiale ringraziò
Laurie Moran per l’invito ad
accompagnare sua figlia.
«È il signor Powell a ospitarvi,
signora Craig», ribatté Laurie. «Non è
me che deve ringraziare. Se ho capito,
dopo
la
colazione,
verrete
riaccompagnate al St. Regis, giusto?»
Perfetto, pensò con soddisfazione
Nina. Mentre tendeva la mano a Laurie,
si sorprese di quanto giovane fosse la
produttrice
del
programma.
Sui
trentacinque, calcolò con invidia. La
settimana prima, il giorno del suo
quarantaduesimo compleanno, aveva
preso dolorosamente coscienza del
grigiore di una vita senza prospettive e
del fatto che quei trecentomila dollari
piovuti dal cielo sarebbero serviti solo
per comprare a sua madre un
appartamento e togliersela una volta per
tutte dai piedi.
Sul set del suo ultimo film, Nina
aveva recitato da comparsa in una scena
che si svolgeva in una grande sala da
ballo e Grant Richmond, il produttore, le
aveva detto che ballava splendidamente.
«Fai sfigurare tutti gli altri», l’aveva
lusingata.
Nina sapeva che era vicino ai
sessant’anni ed era rimasto vedovo di
recente. Poi, la sera precedente, l’aveva
invitata a bere un aperitivo con lui.
Aveva puntualizzato d’aver promesso di
partecipare alla cena in programma
quella stessa sera con lo staff della
produzione, aggiungendo: «ci rifaremo
in un’altra occasione». L’aveva fatta
riaccompagnare a casa con la sua
macchina.
Cosa non darei perché mia madre
avesse ragione e Robert Powell fosse
ancora interessato a lei, pensò. Poi,
mentre accettava il caffè che le offriva
la governante, si mise a osservare
Muriel con occhio critico. Non era
niente male. Indossava un completo
giacca e pantaloni bianco, molto costoso
e acquistato con la carta dell’American
Express di Nina, con un paio di scarpe
bianche con i tacchi alti che mettevano
in mostra le lunghe gambe e l’eccellente
silhouette. All’elegante salone di
bellezza aveva accettato il riguardoso
consiglio dell’estetista di smorzare un
tantino l’accecante rosso dei capelli e
ora esibiva un’attraente tinta ruggine in
un’acconciatura molto più adatta con la
chioma che le sfiorava le spalle. Quanto
al maquillage, era sempre stata
un’artista. In alte parole, concluse Nina,
la mia adorata madre è uno schianto.
E io come sono? si chiese. Passabile,
ma potrebbe essere meglio. Ho bisogno
di spazio. Quando torno a casa, vorrei
entrare in un ambiente ordinato e
riposante, che non sia soffocato dal fumo
delle sigarette, e potermi gustare un
bicchiere di vino in terrazza, davanti
alla piscina, in beata solitudine.
E poter invitare Grant Richmond per
un drink se m’inviterà veramente fuori a
cena, aggiunse tra sé.
Con una tazza di caffè in mano,
Muriel stava dicendo a Laurie Moran
quanto bene ricordasse la terribile,
tragica notte di vent’anni prima, quella
in cui era stata crudelmente uccisa la sua
cara, carissima amica Betsy. «Mi ha
spezzato il cuore», stava sospirando.
«Eravamo così amiche.»
Disgustata, Nina andò a guardare la
piscina dalle vetrate e, al di là della
vasca, i tre green con le buche da golf.
La porta della pool house si aprì e
vide un uomo uscire sul prato.
Strano, si sorprese, possibile che
Robert Powell avesse alloggiato lì un
ospite? Solo in un secondo tempo scorse
qualcosa nella mano dello sconosciuto.
Poco dopo lo vide chinarsi a potare
l’arbusto più vicino alla casetta.
Poi suonarono alla porta e Nina si
allontanò dalle vetrate. Era arrivata
un’altra delle persone sospettate d’aver
avuto parte nella morte di Betsy Bonner
Powell.
20
L’IDEA che aveva avuto Robert Powell
di coinvolgerlo nella riedizione del
Graduation Gala aveva procurato a
George
Curtis
un’irrequietudine
crescente.
Era già grave che fosse stato costretto
ad accettare di finire a un certo punto
davanti alle telecamere, ma perché mai
era stato invitato a quella prima
colazione, alla quale avrebbero
«partecipato tutti gli indiziati»? Anche
se Rob si era affrettato ad aggiungere:
«Non che tu lo sia, George».
Ora, mentre si fermava nel viale
d’accesso della villa, George estrasse di
tasca un fazzoletto e si asciugò la fronte,
gesto per lui alquanto inusuale. Il
tettuccio della sua Porsche rossa era
abbassato, non c’era ragione per cui
dovesse sudare se non per lo stato
d’ansia di cui era prigioniero.
Ma il miliardario George Curtis,
presenza fissa nell’elenco di Forbes,
amico di presidenti e primi ministri,
stava arrivando proprio in quel momento
alla conclusione che per la fine di quella
settimana non era escluso che si trovasse
in manette, in stato d’arresto. Si passò di
nuovo il fazzoletto sulla fronte.
Indugiò per un minuto intero e scese
dalla macchina solo quando ebbe
ripreso il controllo dei nervi. Era una di
quelle mattine di giugno che gli
annunciatori delle previsioni del tempo
definivano «perfette». Cielo azzurro,
sole caldo e scintillante, una brezza
lieve che saliva dal vicino Long Island
Sound. Niente che potesse risollevare lo
spirito di George.
Quando stava per attraversare il viale
d’accesso, si fermò vedendo una
limousine sbucare da dietro la curva. Il
veicolo frenò per permettergli di
proseguire fino alla porta d’ingresso.
George attese che lo chauffeur
aprisse lo sportello posteriore della
limousine per far smontare gli occupanti.
Anche se erano passati vent’anni,
riconobbe all’istante Alison Schaefer.
Non è cambiata molto, fu l’immediata
impressione di George: alta, slanciata,
con i capelli scuri non così lunghi come
un tempo. Ricordava d’aver scambiato
con lei qualche parola la notte del Gala
e di aver percepito una certa asprezza
nel tono della sua voce quando aveva
commentato la prodigalità con cui era
stato organizzato il ricevimento. «Soldi
che si sarebbero potuti spendere per
miglior causa», aveva detto e siccome
era stato un giudizio alquanto inatteso
sulla bocca di una delle ospiti d’onore,
George non l’aveva più scordato.
Ora Alison assistette un’altra persona
che stava uscendo dall’abitacolo con
una manovra abbastanza complicata.
George impiegò solo pochi attimi per
ricordare chi fosse l’uomo che
faticosamente si drizzava in piedi e si
sistemava le grucce sotto le ascelle.
Rod Kimball, naturalmente, pensò
George, il giovane quarterback dalle
grandi aspettative che era stato investito
da un pirata della strada poco dopo aver
sposato Alison.
Suonò il campanello nel momento in
cui la coppia arrivava davanti all’ampia
porta d’ingresso. Alison e George si
salutarono con educato contegno,
dopodiché Alison presentò suo marito.
Jane aprì la porta e li accolse con
quella che per lei era calda cordialità
dicendo inutilmente: «Il signor Powell
vi sta aspettando».
Dopo aver parcheggiato davanti alla
villa, Alex Buckley si concesse un
momento per contemplare la massiccia
struttura di pietra.
Che cosa aveva pensato Betsy
Bonner quando aveva visto quella casa?
si domandò. Lei, che viveva in affitto in
un modesto appartamento di Salem
Ridge nella speranza di conoscere un
giorno qualcuno con i soldi.
Aveva sicuramente messo a segno un
bel colpo, per essere cresciuta nel
Bronx ed essersi guadagnata da vivere
come maschera in un teatro, rifletté Alex
scendendo dalla macchina e dirigendosi
verso la porta.
Fu fatto entrare da Jane e annunciato
al gruppo che si andava formando in
sala da pranzo. Notò con sollievo che
Laurie Moran lo aveva preceduto.
«Bene, si comincia», gli bisbigliò lei
quando gli strinse la mano.
«Giusto quello che pensavo anch’io»,
rispose lui altrettanto sottovoce.
Regina si rendeva conto di quanto
fosse pericoloso portare il messaggio
suicida di suo padre con sé a quella
colazione. Se qualcuno avesse aperto la
sua borsetta e lo avesse trovato, lei
sarebbe diventata logicamente la prima
indiziata del delitto avvenuto vent’anni
prima. Tanto sarebbe valso rinunciare a
proseguire lo show.
D’altra parte aveva il terrore quasi
paranoico che qualcuno rubasse il
messaggio se l’avesse lasciato nella
cassaforte
dell’albergo.
C’è
da
aspettarsi un tiro mancino come quello
da parte di Robert Powell, pensava. Se
non lo so io! Ma almeno posso tenere
sempre sott’occhio la mia borsetta.
Aveva ripiegato il messaggio in modo
da infilarlo in una taschina del lembo
portacarte del portafogli.
Quando la limousine su cui viaggiava
imboccò il viale d’accesso della villa,
vide la porta d’ingresso aprirsi per
accogliere tre persone. Uno si reggeva
sulle stampelle.
Dev’essere il marito di Alison,
pensò.
Quando
aveva
saputo
dell’incidente, era in Florida.
Che idiote siamo state ad accettare di
farle da damigelle! rimpianse adesso. I
mass media erano saltati loro addosso
come avvoltoi. Sotto una delle foto in
cui erano ritratte lei, Claire e Nina
insieme, la didascalia recitava: LA
SPOSINA E LE SUE AMICHE SOSPETTATE
DI OMICIDIO.
A proposito di colpi bassi!
Era così immersa nelle sue
elucubrazioni che lì per lì non si accorse
che la limousine si era fermata e che
l’autista le stava tenendo lo sportello
aperto.
Prese fiato, scese e salì i gradini
dell’ingresso.
Quante volte sono stata in questa
casa? si chiese mentre premeva il
pulsante del campanello. Ai tempi del
liceo lei e Claire erano grandi amiche.
Ma perché ho continuato a
frequentarla dopo che papà si è ucciso?
Era per la curiosità morbosa di vedere
Betsy elargire il suo fascino a destra e a
manca? O era perché avevo sempre
sperato di trovare un giorno il modo di
fargliela pagare a tutte e due?
Nella breve attesa prima che
qualcuno venisse ad aprirle passò
nervosamente in rassegna il proprio
aspetto.
Aveva perso i dieci chili che si era
ripromessa quando aveva ricevuto la
lettera con la proposta di partecipare al
programma.
Per
l’evento
aveva
acquistato qualche nuovo capo di
abbigliamento e sapeva che la giacca
bianca e nera sui morbidi calzoni
bianchi facevano onore alla sua ritrovata
figura e si accordavano perfettamente ai
capelli corvini.
Non so più quante volte Zach mi ha
ripetuto che ero da sballo, pensava nel
momento in cui la porta si spalancò e,
con un formale benvenuto, Jane si fece
da parte per farla entrare.
Mentre varcava la soglia fu colta a
tradimento dal ricordo d’aver promesso
al figlio di bruciare il messaggio, prima
che si trasformasse in una prova
indiziale a sostegno del sospetto che a
uccidere Betsy Bonner Powell fosse
stata lei.
Non si vedevano da anni e Claire
immaginava che ritrovarsi davanti al
patrigno sarebbe stato per lei un
momento di spiacevole patema. Quella
mattina tuttavia si svegliò da un sonno
turbato in un confortante stato d’animo
di gelida calma interiore. Il servizio in
camera arrivò puntuale alle sette e
Claire consumò la sua colazione
all’europea guardando il telegiornale.
Invece di soffermarsi sugli ultimi
sviluppi nell’inchiesta su una serie di
aggressioni e rapine avvenute a
Manhattan, la sua mente tornò alla
ripresa televisiva del momento in cui la
salma di sua madre veniva portata via
dalla villa.
Eravamo tutte insieme, nello studio,
pensò. In vestaglia.
E i poliziotti cominciarono a
interrogarci...
Spense il televisore e portò con sé in
bagno la seconda tazza di caffè. Riempì
la vasca e sciolse nell’acqua i sali da
bagno che si era appositamente
procurata.
Quelli che usava sempre la cara
Betsy, pensò. Quando sarò alla villa,
voglio avere il suo stesso profumo.
Non aveva fretta, voleva essere
sicura che al suo arrivo tutti gli altri
fossero già presenti. Sorrise a quel
pensiero. Betsy era sempre in ritardo.
Una cosa che mandava in bestia Rob.
Lui era un fanatico della puntualità,
sempre e comunque.
Se ne so qualcosa io!
Aveva scelto una giacca Escada di
cachemire e seta color azzurro cielo e
pantaloni grigi a tubo.
Il colore della giacca, pensò mentre
la indossava, era quello preferito da
Betsy. Secondo lei metteva in risalto il
colore dei suoi occhi. Bene, concluse,
che ora metta in risalto il colore dei
miei.
Quando aveva lasciato la casa di
Robert Powell aveva portato con sé
come unico gioiello il semplice filo di
perle che era appartenuto in origine alla
nonna, di cui serbava un ricordo solo
molto vago. Rammento però di averle
voluto molto bene, pensava. Anche se
quando è morta avevo solo tre anni,
ricordo ancora quando mi leggeva i libri
tenendomi seduta sulle sue ginocchia.
Alle otto e mezzo l’autista si fece
annunciare dal concierge.
«Mi ci vorrà un’altra mezz’oretta»,
gli fece comunicare.
Calcolava che così sarebbe arrivata
alla villa verso le nove e venti. Quando
inevitabilmente tutti gli altri sarebbero
già stati presenti.
A quel punto la figlia di Betsy Bonner
Powell avrebbe fatto la sua entrata.
21
LAURIE sapeva che quella colazione
sarebbe stata carica di tensione, ma non
si era immaginata che l’atmosfera nella
stanza sarebbe stata così elettrica.
Era bastato un minuto perché tutti si
rendessero conto che Muriel Craig era
una petulante bugiarda nell’illustrare in
toni appassionati quanto le fosse stata
cara la compianta amica Betsy Powell.
Tutti ricordavano che un tempo
Muriel aveva avuto una storia con
Robert Powell e che, dopo il suo
improvviso matrimonio con Betsy,
aveva dichiarato pubblicamente che il
finanziere era stato solo uno dei tre
uomini che frequentava all’epoca.
Che cosa pensa quando si guarda
intorno e riflette che tutto quello che
vede sarebbe potuto essere suo? si
chiese Laurie. La sala da pranzo era
dominata dal ritratto di un aristocratico
con un’espressione sdegnosa, un
antenato del signor Powell, come si era
premurata di spiegare Jane, uno dei
firmatari
della
Dichiarazione
d’Indipendenza, naturalmente.
Tranquilla che controllo, pensò
Laurie. Aveva sempre sentito dire che
Powell si era fatto da sé. A parte ciò, la
sala da pranzo era molto bella, con le
pareti rosse e il tappeto persiano e una
splendida vista sul giardino dietro la
villa. Guardò i tecnici allestire le
attrezzature per la ripresa in esterno che
sarebbe stata una delle prime sequenze
del programma. Avevano già filmato la
facciata della villa. Alex Buckley
avrebbe dato inizio al suo racconto
come voce fuori campo su quelle
sequenze.
Jane aveva disposto sulla credenza
d’antiquariato i succhi di frutta, il caffè,
brioche, panini e frutta.
Il prezioso tavolo da pranzo era
apparecchiato per dieci. C’era un tocco
d’antiquariato in ogni particolare, dagli
opachi riflessi della posateria d’argento,
all’eleganza démodé dei piatti di
portata.
Powell
si
vuole chiaramente
assicurare che tutti i partecipanti a
questa piccola riunione s’imprimano ben
in testa chi e che cosa è, rifletté Laurie
mentre arrivavano in rapida successione
George Curtis, Alison Schaefer con il
marito Rod e Alex Buckley. Poco dopo
fece il suo ingresso anche Regina
Callari.
Osservò con vivo interesse le tre
amiche che, dopo essersi perse di vista
per vent’anni, si prendevano l’un l’altra
per mano e si scambiavano abbracci
spontanei.
Mentre Muriel Craig, George Curtis,
Rod Kimball e Alex Buckley si tenevano
debitamente in disparte, le tre
protagoniste del Gala si lasciarono
andare a espressioni di affetto che
sembrò a tutti sincero: «Mio Dio, quanto
tempo... Ma non sei cambiata affatto...
Non sai quanto mi sei mancata...»
Robert Powell si presentò alle nove
in punto. «Jane mi ha riferito che Claire
non è ancora arrivata», esclamò. «In
questo è esattamente come la mia amata
Betsy.»
Laurie fu certa di scorgere autentico
furore sotto la maschera di divertita
accettazione del ritardo di Claire.
Probabile che avesse voluto apparire
per ultimo, quando tutte e quattro le ex
neolaureate fossero state presenti.
Lo guardò abbracciare con affettuosa
cordialità ciascuna delle ospiti. Salutò
George Curtis con un: «Grazie mille per
essere venuto, George. Saremmo tutti e
due più felici sul campo da golf». Si
rivolse a Rod con un caloroso: «Noi non
ci siamo mai incontrati prima, vero?» E
finalmente toccò a Muriel Craig.
«Ti ho tenuta per ultima», la blandì
con tenerezza mentre le cingeva le spalle
e la baciava. «Sei bellissima come
sempre. Hai passato questi venti anni in
una capsula temporale?»
Muriel ricambiò radiosa il suo
abbraccio, poi, sotto lo sguardo attento
di Laurie, lanciò un’occhiata alla figlia,
che si girò dall’altra parte, scuotendo la
testa.
«Vedo che avete preso tutti il caffè»,
notò Rob, «ma dovete almeno assaggiare
i muffin che Jane ha preparato per voi.
Vi prometto che sono squisiti.
Dopodiché vi prego di accomodarvi
dove volete, eccetto Muriel, che si
siederà accanto a me.»
Mio Dio, se non va giù pesante,
pensò Laurie. Manca solo che
s’inginocchi per chiederla in moglie.
Era stupita che fosse così sfacciato.
D’altra parte era pur vero che Muriel
era una sua vecchia fiamma.
Quando si sedettero a tavola, Alex
Buckley si mise tra Nina Craig e Alison.
Rod Kimball prese posto a sinistra di
Laurie. «Le siamo molto grati, signora
Moran, d’aver creato questa occasione
perché le ragazze, o forse dovrei dire
donne, possano riscattarsi dal sospetto
che una di loro sia un’assassina e che le
ha perseguitate per tutti questi anni»,
esordì Rod.
Laurie non sottolineò che quella
famosa sera in casa c’erano anche altre
due persone: Robert Powell, il marito di
Betsy, trasportato in fretta e furia in
ospedale in uno stato di totale
prostrazione con ustioni di terzo grado
alle mani; e Jane Novak, amica di lunga
data di Betsy e governante.
Jane era arrivata nella stanza pochi
secondi dopo la crisi isterica di Powell.
Io avrei pensato che non avrebbe
voluto tenerla con sé, rifletté Laurie,
invece Jane è rimasta e, a giudicare da
quel che ho visto finora, mi sembra
evidente che anticipare ogni desiderio
del suo padrone sia la missione della
sua vita.
«Non so nemmeno immaginare come
si viva senza mai poter prevedere
quando a qualche giornalista salta il
ticchio di ritirare fuori questa vecchia
storia», commentò Laurie.
«Non c’è bisogno dei giornalisti»,
ribatté con amarezza Rod. «Non c’è
persona al mondo che non abbia una sua
teoria. In Internet si trovano ogni giorno
le ipotesi più pazzesche.»
A Laurie il marito di Alison era
piaciuto subito. Il suo viso attraente
portava i segni delle sofferenze patite
dopo il terribile incidente che lo aveva
reso invalido e gli aveva rovinato la
carriera, ma nel suo comportamento non
aveva
trovato
traccia
di
autocommiserazione. E poi era evidente
la sua devozione per la moglie. Quando
Robert Powell l’aveva salutata, era
rimasto al suo fianco in un atteggiamento
protettivo, tenendole un braccio intorno
alla vita. Ma perché lo aveva ritenuto
necessario? si domandava Laurie.
«Comunque, speriamo che il
programma faccia capire al pubblico
che in quella tragedia queste giovani
donne hanno avuto solo un ruolo da
casuali comprimarie. I miei due
assistenti hanno letto tutto quello che c’è
da leggere al riguardo ed entrambi sono
convinti che nella villa si sia introdotto
all’insaputa di tutti qualcuno con
l’intenzione di rubare gli smeraldi di
Betsy, dopo essersi imbucato nel
ricevimento in abito da sera.»
Le note del campanello dell’ingresso
sedarono tutte le conversazioni. I
presenti si girarono verso la porta della
sala da pranzo.
Robert Powell spinse la sedia
indietro e si alzò. Tutti udirono il rumore
dei passi in corridoio ed eccola, Claire
Bonner, incantevole con i capelli biondi
che le sfioravano le spalle, gli occhi
azzurri messi in risalto dal trucco
applicato con maestria, la figura snella
in un elegante completo d’alta moda, a
contemplare gli ospiti a uno a uno con un
dolce sorriso sulle labbra.
Mamma mia, pensò Laurie, è sua
madre fatta e finita. Poi udì un gemito
soffocato e il tonfo di qualcosa di
pesante che cade per terra.
Nina Craig era svenuta.
22
LEO Farley passò davanti alla villa di
Robert Powell a una velocità normale.
Non intendeva attirare su di sé attenzioni
indesiderate, anche se, nel caso fosse
stato fermato per un qualsiasi motivo,
aveva nel portafogli il tesserino di
funzionario di polizia in pensione.
Quel pensiero lo fece sorridere.
«Papà, non c’è poliziotto in tutta l’area
dei tre stati che non ti riconosca. Per
anni sei sempre stato tu a tenere le
conferenze stampa nei casi di crimini
importanti.»
Tutto vero, ammise tra sé Leo. Il suo
superiore, il commissario, preferiva
tenersi lontano dal riverbero delle luci
della ribalta. «Pensaci tu, Leo», diceva
sempre quando c’era da fare
dichiarazioni in pubblico. «Tu sei
bravo.»
Nel corso dell’ultimo passaggio
aveva annotato che il viale d’accesso
della villa accanto a quella di Powell
era protetto da una catenella che
impediva a veicoli estranei di
accedervi. Gli scuri non coprivano del
tutto le finestre, ma erano abbassati fin
quasi in fondo. Non c’erano automobili
parcheggiate sul terreno della proprietà
e in generale la villa aveva quell’aria
sonnolenta che hanno le abitazioni
quando gli occupanti sono via.
Sulla cassetta per la corrispondenza
c’era il nome del proprietario: J. J.
ADAMS. Leo aveva usato Google e
aveva cercato anche in Facebook e
aveva avuto fortuna. Aveva trovato una
foto di Jonathan Adams e sua moglie e
un messaggio agli amici in cui
dichiaravano di essere nella loro villa a
Nizza e di spassarsela un mondo.
Incredibile che la gente si esponga
spontaneamente in quel modo, pensò
Leo. Se io fossi un malintenzionato,
potrei usare queste informazioni
quantomeno per entrare in casa loro, per
non dir di peggio. Leo lasciò la
macchina a dieci isolati di distanza,
vicino alla stazione ferroviaria, poi partì
correndo verso Old Farms Road. Aveva
preso l’abitudine di tornare indietro
correndo dopo aver accompagnato
Timmy a scuola e grazie a tanto
allenamento non gli era particolarmente
faticoso raggiungere in quel modo il
luogo che aveva scelto come posto di
osservazione.
All’angolo fu fermato da un’auto di
pattuglia che accostò davanti a lui. Di
fianco all’autista sedeva un veterano.
«Ispettore Farley, che ci fa qui? Per quel
che ne sapevo, non mette mai il naso
fuori del suo territorio.»
Leo conosceva di vista il sergente, un
tipo gioviale, membro della banda di
cornamuse che suonava a Manhattan
negli eventi speciali, come la festa di
san Patrizio.
Leo, convinto com’era che le cose
non accadono mai per caso, dopo aver
salutato il sergente chiese subito se a
capo della polizia di Salem Ridge ci
fosse ancora Ed Penn.
«Come no?» ribatté il sergente. «Va
in pensione l’anno prossimo.»
Leo rifletté. Non aveva avuto
intenzione di contattare la polizia locale,
ma all’improvviso gli sembrò una buona
idea. «Mi piacerebbe vederlo», disse.
«Be’, salti su. La portiamo in sede.»
Cinque minuti dopo Leo stava
spiegando al capo Edward Penn perché
faceva jogging nelle strade di Salem
Ridge.
«Naturalmente ricordi anche tu che
Greg Moran, mio genero, è stato
assassinato e che il suo assassino ha
detto a mio nipote che poi sarebbe
toccato a sua madre.»
«Lo ricordo bene, Leo», rispose,
serio, Penn.
«Sai che mia figlia ha prodotto il
programma sul Graduation Gala?»
«Sì. Una donna notevole, Leo. Devi
esserne fiero.»
«Sarò anche fissato, ma io ho la
sensazione che questo programma
potrebbe essere fonte di qualche brutto
guaio.»
«È una sensazione che ho anch’io»,
confessò apertamente Penn. «Non
dimenticare che vent’anni fa quando
arrivò la telefonata della governante che
strepitava che era morta Betsy Powell,
qui c’ero io. Noi pensavamo che fosse
un infarto e abbiamo fatto mandare
l’ambulanza. Poi, quando siamo arrivati
noi, abbiamo trovato la stanza piena di
gente, non solo Robert Powell, ma anche
le quattro ragazze festeggiate e la
governante. Un casino. E naturalmente
questo significa che la scena del crimine
era contaminata.»
«Quale fu la reazione di Powell?»
volle sapere Leo.
«Era bianco come un lenzuolo, con il
cuore in fibrillazione, peggio che in
stato di choc. Era sempre lui a portarle
il caffè la mattina, perciò era stato lui a
trovarla, ma immagino che tu abbia letto
tutto questo sui giornali.»
«Sì, infatti», annuì Leo, a suo agio
nell’ambiente a lui così famigliare di
una stazione di polizia. Prima le volanti
parcheggiate davanti all’ingresso, poi il
banco del sergente alla reception, e per
finire il corridoio in fondo al quale
sapeva che c’erano le camere di
sicurezza e l’accesso all’attigua
prigione.
Aveva nostalgia del suo lavoro. Era
entrato nella blasonata polizia di New
York appena uscito dal college. Non
aveva mai preso in considerazione
niente di diverso e aveva prestato
servizio con dedizione e passione in
ogni minuto della sua vita.
Sapeva anche che se non si fosse
dimesso, con tutta probabilità sarebbe
stato nominato commissario alla
scadenza del mandato del suo superiore.
Ma niente di tutto questo aveva
importanza in confronto alla necessità di
impedire a Occhi Blu di mettere in atto
la sua minaccia.
«Abbiamo messo quelle quattro
ragazze sotto il torchio per benino»,
stava raccontando Ed Penn, «ma nessuna
di loro ha mollato. Io sono sempre stato
convinto che sia stata una delle quattro,
ma non si può escludere la possibilità di
un intruso. Era un ricevimento grandioso
e chiunque avrebbe potuto mescolarsi
alla folla degli invitati presentandosi in
abito da sera. Secondo la governante, lei
stessa aveva chiuso a chiave tutte le
porte prima di andare a letto, invece
qualcuno aveva aperto la portafinestra
dello studio, quella che si affaccia sul
patio, e l’aveva lasciata così. Si è
scoperto che due delle ragazze, Regina e
Nina, erano uscite nel patio da quella
parte un paio di volte a fumare una
sigaretta.»
Tutte cose che Leo aveva letto. «Sul
serio credi che a ucciderla sia stata una
delle quattro ragazze?»
«Troppo calme, tutte e quattro. Non
pensi che dovessero essere almeno un
tantino turbate? Persino la figlia di Betsy
era maledettamente composta. Non
ricordo d’aver visto una sola lacrima
versata da una di loro in quella camera
da letto per tutta la settimana.»
«Qualcuna di loro poteva avere un
movente?»
«Be’, Betsy e sua figlia Claire erano
così affezionate l’una all’altra che,
piuttosto che alloggiare al campus,
Claire andava e tornava in macchina dal
Vassar. Il padre di Regina perse tutto e
s’impiccò dopo aver investito nel fondo
di Powell. Regina lo trovò appeso
quando aveva quindici anni. Ma persino
sua madre ha riferito che Powell gli
aveva raccomandato con tutto il cuore di
non impegnare più soldi di quanti fosse
in grado di perdere. L’attrice Muriel
Craig, la madre di Nina, aveva una
relazione con Powell, ma quando
l’abbiamo interrogata, ha detto che
erano solo amici e che entrambi
frequentavano altre persone all’epoca in
cui Powell conobbe Betsy. Resta solo
Alison Schaefer. Era fidanzata con Rod
Kimball, il campione di football, che
sposò quattro mesi dopo. Nessun
movente nemmeno lì. Quanto a Robert
Powell, era senza dubbio a pezzi dopo
la sua morte e non è saltata fuori la
minima relazione con qualche altra
donna.»
«Se non è stato un intruso, ci resta la
governante», commentò Leo.
«Nessun movente nemmeno lì. Betsy
la conosceva dai tempi in cui faceva la
maschera al teatro. Sapeva che era una
lavoratrice fidata e cucinava bene. Con
la governante precedente Betsy non si
sentiva a suo agio. Era stata assunta
dalla ex moglie di Powell, quindi non
c’erano più legami affettivi particolari.
Jane aveva lasciato i camerini del teatro
per andare a vivere in un appartamentino
di tre stanze in una grande villa signorile
con l’aggiunta di un fior di stipendio.
Betsy non faceva che ripetere quanto la
sua assistenza le fosse preziosa.»
«Allora resta proprio solo un
estraneo arrivato da fuori», concluse
Leo.
Penn si rabbuiò in viso. «Non
possiamo escludere a priori che
rimettendo insieme tutte e sei quelle
persone non salti fuori qualcosa di
illuminante. Se è stato uno di loro,
potrebbe esagerare nel cercare di non
attirare su di sé dei sospetti a distanza di
venti anni, oppure qualcuno degli altri
potrebbe sapere qualcosa che all’epoca
non ebbe modo di emergere. Ho letto
che a interrogare le persone coinvolte
davanti alle telecamere sarà Alex
Buckley, il penalista che si vede sempre
in TV. L’idea sarebbe che ciascuno di
loro convinca della propria innocenza
una platea nazionale.»
Leo ritenne che fosse venuto il
momento di rivelare al collega perché
faceva jogging a Salem Ridge a una
trentina di chilometri da casa sua. «Io ho
sempre pensato che riunire tutte quelle
persone per, detto in parole povere,
rivivere quel delitto fosse una pessima
idea. Ma sai com’è, noialtri sbirri ci
fidiamo del nostro sesto senso.»
«Puoi dirlo forte. Saremmo nei
pasticci se non ce l’avessimo.»
«In questo caso il mio sesto senso,
ma possiamo chiamarla premonizione, è
che l’assassino di mio genero, ‘Occhi
Blu’, come lo descrive mio nipote,
potrebbe ritenere che questa sarebbe
l’occasione perfetta per ammazzare mia
figlia.»
Ignorò il sussulto di sorpresa di Penn.
«Sono passati cinque anni. Laurie ha
avuto molta pubblicità per via di questo
nuovo programma. La sua foto è apparsa
un po’ dappertutto. Su Twitter la gente fa
le proprie ipotesi su chi può essere stato
a uccidere Betsy Powell. Non ti sembra
abbastanza logico che lo psicopatico che
ha ucciso Greg e minacciato Laurie e
Timmy scelga questo momento per fare
la sua mossa? Ti immagini i titoloni se
ci riuscisse?»
«Purtroppo sì. Ma tu come pensi di
impedirglielo, Leo?»
«Appostandomi dai vicini di casa.
Ho controllato e sono in vacanza.
Veglierò nel caso qualcuno cerchi di
intrufolarsi passando da dietro. Da quel
che ho scoperto, l’unico modo per
entrare nella tenuta di Powell senza
essere visto è scavalcando la recinzione
posteriore.»
«E se cercasse di confondersi nella
troupe televisiva? Non è possibile?»
«Laurie è molto rigorosa nella
gestione del personale. Tutta la squadra
è allerta nell’eventualità che si infiltri
qualche paparazzo. I tecnici assegnati al
programma
si
accorgerebbero
immediatamente di uno sconosciuto.»
«E se tu vedessi davvero qualcuno
che cerca di scavalcare la recinzione,
cosa succederebbe?»
«Che gli sarei addosso prima che
possa tentare qualcosa.» Leo si strinse
nelle spalle. «È il meglio che io possa
fare. Nessuno entrerà nella proprietà
mentre stanno girando il programma. Gli
uomini della troupe impediranno a
chiunque di intromettersi e rovinare una
scena. Le riprese verranno concluse
verso le sei del pomeriggio e a quel
punto potrò ritirarmi anch’io. Ma Laurie
non deve sapere che sono qui. Darebbe
fuori di matto. Questo programma la
rilancerà nella sua carriera o, se
dovesse andare male, le costerà il
posto.» Leo fece una pausa. «Dunque»,
concluse poi con un mezzo sorriso,
«adesso sai perché faccio jogging nelle
strade della tua città.»
Vide Penn assumere un’espressione
pensierosa.
«Leo, lavoreremo con te. Non ci sarà
niente di strano se un’auto di pattuglia
passerà nei pressi della villa di Powell
ogni quarto d’ora o giù di lì,
percorrendo entrambe le strade, davanti
e dietro. La sua proprietà arriva fino
alla fine dell’isolato. Se vediamo una
macchina parcheggiata da qualche parte
nelle vicinanze, prendiamo nota della
targa. Se vediamo qualcuno in giro a
piedi e non è una persona di nostra
conoscenza, ne controlliamo l’identità.»
Leo si alzò in piedi sentendosi
gonfiare il cuore di gratitudine. «E
naturalmente tutto questo potrebbe non
essere necessario. Chissà, forse in
questo momento l’assassino di mio
genero è in qualche altro continente.»
«E forse no», fece eco il capo
Edward Penn. Poi si alzò a sua volta,
passò intorno alla scrivania e strinse la
mano di Leo.
23
ALEX Buckley si precipitò su Nina,
s’inginocchiò e le controllò il battito
cardiaco assicurandosi che stesse
respirando.
Dopo lo sbigottito silenzio iniziale, si
alzarono anche tutti gli altri. Muriel,
bianca in volto, afferrò sinceramente
spaventata il braccio di Robert Powell e
si chinò sulla figlia.
Nina mosse le palpebre.
«Tutto bene», annunciò Alex. «Ma
datele spazio.»
«Betsy», gemette Nina. «Betsy.»
Gli occhi di Laurie si spostarono su
Claire, che non si era mossa dalla soglia
della sala da pranzo. Le parve di
scorgere sulla sua faccia un principio di
espressione di trionfo, Laurie aveva
visto un gran numero di foto di Betsy e
le sembrava evidente che Claire avesse
deliberatamente fatto tutto il possibile
per somigliare al massimo a sua madre.
Alex sollevò Nina da terra e la
condusse nello studio, dove la fece
distendere sul divano. Tutti gli altri lo
seguirono, mentre Jane arrivava di corsa
con una salvietta inumidita di acqua
fredda che applicò con dita esperte alla
fronte di Nina.
«Qualcuno chiami un dottore!» gridò
Muriel. «Nina, Nina, parlami.»
«Betsy», mormorò Nina. «È tornata.»
Poi, mentre Nina si guardava intorno,
Muriel le prese la faccia tra le mani.
«Nina, piccola mia, è tutto a posto.»
Con un movimento improvviso e
violento, Nina la respinse. «Toglimi le
mani di dosso», sbottò con una voce
tremante di emozione. «Tieni le tue
manacce lontane da me!» Subito dopo
scoppiò a piangere. «Betsy è tornata da
morta. È tornata da morta.»
24
OCCHI Blu osservò con grande interesse
il modo in cui Laurie Moran, ora
chiaramente
al
comando
delle
operazioni, dirigeva le riprese.
Molto
efficiente,
concluse,
guardandola
controllare
che
le
telecamere avessero l’angolazione che
desiderava.
A un certo punto lei lo chiamò con un
gesto della mano e Bruno s’affrettò a
raggiungerla.
Con un breve sorriso cortese, Laurie
gli chiese di portar via le piante che
aveva collocato quella mattina nella sua
inquadratura.
«Sono molto belle», gli disse, «ma la
settimana scorsa quando abbiamo
fotografato questo angolo non c’erano.»
Bruno si profuse in scuse benché non
stesse nella pelle per l’emozione di
essere così vicino alla sua preda. Che
bella che è, pensò. Sarebbe un vero
peccato rovinare quel bel faccino.
Eviterò di farlo.
Ma mentre era a così pochi centimetri
da lei, nella sua mente cominciò a
formarsi un nuovo piano ancor più
soddisfacente.
Cinque mesi prima si era introdotto
nel computer di Leo Farley e ne aveva
messo sotto controllo il telefono,
cosicché da allora aveva sempre saputo
tutto quello che c’era da sapere sulle
attività sue, di Laurie e di Timmy. Le
tecniche di pirateria informatica che
aveva imparato on-line davano i loro
frutti.
Sapeva dunque che in quel momento
Timmy si trovava a Camp Mountainside
sugli Adirondack. E che da lì il suo
campeggio distava solo quattro ore di
macchina.
Nel computer di Farley aveva trovato
l’elenco completo delle attività a cui si
sarebbe dedicato Timmy al campo. E il
particolare più interessante per lui era
che tra le sette e le otto di sera i ragazzi
avevano un’ora di libertà, durante la
quale era loro consentito fare o ricevere
una telefonata.
Di conseguenza dopo le otto di sera
Laurie non avrebbe previsto di parlare
con Timmy per le successive
ventiquattr’ore.
Come convincere il direttore del
campo a lasciargli portar via Timmy
senza destare sospetti?
Occhi Blu si mise a lavorare a questa
prospettiva mentre si teneva defilato, ma
sempre pronto a riparare il minimo
danno che tecnici od ospiti avessero
arrecato al prato o alle piante del
giardino.
Scambiò persino due chiacchiere con
l’uomo e la donna che accompagnavano
costantemente Laurie.
Jerry e Grace. Giovani entrambi. Con
il mondo davanti. Si augurò per il loro
bene che non fossero troppo vicini a
Laurie quando fosse arrivato il suo
momento di morire.
Perché sarebbe arrivato, eh sì.
Con non poco rammarico guardò i
tecnici riporre l’attrezzatura. Dalle
conversazioni che aveva origliato,
sapeva che sarebbero tornati l’indomani
alle otto, questa volta per cominciare a
filmare le quattro ex neolaureate.
Sempre ansioso di rendersi invisibile
come istruito, telefonò alla sede della
Perfect Estates e chiese che mandassero
a prenderlo entro quindici minuti.
Quando arrivò il furgone, Occhi Blu
non fu contento di vedere che al volante
c’era Dave Cappo. Dave era uno che
non si faceva mai i fatti suoi. «Allora,
Bruno, di dove sei? Hai sempre lavorato
ai giardini? Io e mia moglie saremmo
felici di averti per cena, scegli tu
quando.» Una vistosa strizzata d’occhi.
«Ma sappiamo tutti e due che ti tirerà
scemo per cavarti tutto quello che hai da
raccontare sulle quattro ragazze.
Secondo te chi è stata?»
«Perché non facciamo un paio di
giorni dopo che qui hanno finito?»
propose Occhi Blu.
Ora di allora, pensava, con un
briciolo di fortuna sarò lontano e tu e tua
moglie avrete abbastanza di che tirarvi
scemi l’uno con l’altra.
25
«A PARTE tutto questo, la giornata com’è
andata?» domandò Leo. Era andato a
cena con Laurie al Neary’s, da anni il
loro
ristorante
preferito
sulla
Cinquantasettesima Strada. Erano le otto
e mezzo e Laurie era visibilmente
stanca. Aveva appena finito di
descrivere al padre la prima colazione
alla villa e il momento drammatico in
cui Nina Craig aveva perso i sensi,
finendo con l’inverosimile reazione
della donna alle premure di sua madre.
«Nel complesso direi piuttosto
bene», rispose con un sospiro Laurie.
«Solo piuttosto?» Leo cercò di
assumere un tono distratto mentre
prendeva il bicchiere e beveva un sorso
di vino.
«No, dovrei dire che è andata bene»,
rettificò Laurie. «Abbiamo aperto con
una panoramica della casa come se
stessimo arrivando dal viale d’accesso.
Sono più che soddisfatta d’aver scelto
Alex Buckley a raccontare la storia, è
senz’altro la persona giusta. Poi
mostriamo qualche sequenza del
Graduation Gala di vent’anni fa con le
quattro neolaureate, nessuna delle quali
con l’aria di essere particolarmente
felice.»
«E Betsy Powell? Avete abbastanza
video in cui la si vede interagire con le
ragazze?»
«Non tanto materiale quanto avrei
voluto», ammise Laurie. «In quasi tutte
le scene in cui appare lei, è con il marito
o sta parlando con altri adulti.» Ci
ripensò. «Non che le neolaureate fossero
delle bambine», si affrettò ad
aggiungere. «Avevano tutte ventuno o
ventidue anni. Ma non erano quasi mai
con Betsy. Oggi abbiamo visionato le
registrazioni in cui si vedono le ragazze
e secondo me erano tutte sulle spine.
Domani le filmeremo mentre guardano le
sequenze che useremo per il programma,
poi Alex comincerà a parlare con loro
del Gala.»
Sospirò. «È stata sicuramente una
giornata molto lunga e ho una fame da
lupo. E tu?»
«L’appetito non mi manca», rispose
Leo.
«E tu, papà, cos’hai fatto tutto il
giorno ora che il tuo inseparabile
amichetto è al campo?»
Leo si era preparato. «Non molto»,
rispose morsicandosi la lingua per
punirsi in anticipo delle bugie che le
stava per rifilare. «Un po’ di palestra, da
Bloomingdale’s a prendere un paio di
camicie sportive, niente di speciale.»
Non aveva avuto intenzione di dirlo, ma
gli scappò suo malgrado: «Timmy mi
manca di già ed è solo il primo giorno».
«Manca anche a me», confessò
Laurie, «ma sono lo stesso contenta di
averlo lasciato andare. Ci teneva così
tanto. E per quanto manchi a noi, un’ora
fa, quando l’ho sentito al telefono, mi è
sembrato entusiasta.»
«Non capisco perché permettano a
quei ragazzi una sola telefonata al
giorno», brontolò Leo. «Lo sanno che
esistono anche i nonni?»
In quel momento Laurie vide suo
padre improvvisamente vecchio e
stanco.
«Stai bene?» gli chiese preoccupata.
«Benissimo.»
«Papà, avrei dovuto pensare a
rientrare a casa in tempo per
condividere con te la telefonata a
Timmy. Ti prometto che lo farò domani.»
Per un po’ rimasero in silenzio,
ciascuno a tenere a bada la propria
apprensione all’idea che Timmy fosse
così lontano e non ci fosse Leo a
sorvegliarlo.
Laurie si guardò intorno. Come al
solito quasi tutti i tavoli erano occupati.
Le conversazioni erano vivaci e tutti
davano l’impressione di sentirsi di
buonumore. Sono veramente tutti così
sereni come sembra? si chiese.
Naturalmente no, rispose a se stessa.
Gratta la superficie e scopri che sotto la
patina tutti hanno qualche problema.
«Allora», quasi esclamò a un tratto
nascondendo nel tono brioso della voce
le sue preoccupazioni per Timmy, «ho
deciso che questa sera prenderò fegato
con pancetta. A Timmy non piace mentre
io ne vado matta.»
«Ti faccio compagnia», decise Leo e
rifiutò il menu che Mary, una delle
cameriere che da più anni lavoravano al
Neary’s, stava porgendo loro con un bel
sorriso.
«Sappiamo tutti e due che cosa
vogliamo, Mary», le disse.
Pace e serenità, fu quello che balenò
subito alla mente di Laurie. E non è
quello che ci sta riservando il destino in
questo momento. O forse per sempre.
26
FINALMENTE se ne erano andati tutti
quanti. Sul finire della giornata Jane
leggeva ormai negli occhi del signor
Powell fino a che punto non ne potesse
più dei suoi «ospiti».
Partita l’ultima macchina, Powell si
rifugiò subito nello studio e Jane lo
seguì per chiedergli se desiderasse un
aperitivo.
«Tu mi leggi nel pensiero, Jane», le
rispose. «Uno scotch. E fammelo
abbondante.»
Per cena Jane aveva in mente uno dei
suoi pasti preferiti con salmone,
asparagi, insalata verde e sorbetto con
ananas fresco.
Quando era a casa, al signor Rob
piaceva cenare alle otto nella saletta.
Quella sera invece non finì il suo pasto e
non le rivolse nemmeno i soliti
complimenti su come aveva cucinato
bene. «Non ho molto appetito», dichiarò
invece. «Niente dessert, grazie.» Poi si
alzò e tornò a chiudersi nello studio.
In pochi minuti Jane sparecchiò e
rigovernò la cucina restituendola al suo
normale lustro quotidiano.
Salì quindi al piano di sopra, preparò
il letto al suo padrone, regolò l’aria
condizionata su diciotto gradi e posò sul
comodino una caraffa d’acqua e un
bicchiere.
Per finire preparò pigiama, vestaglia
e pantofole, maneggiando con tenerezza i
capi di vestiario mentre li appendeva in
bagno.
Certe sere, quando era a casa, il
signor Rob restava per un paio d’ore
nello studio a guardare la televisione o
leggere. Gli piacevano i film classici e
il giorno seguente li commentava con
lei. «Ho visto due Alfred Hitchcock,
Jane. Un vero mago della suspense, non
c’è nessuno come lui.»
Se aveva avuto una giornata difficile
in ufficio, dopo cena saliva direttamente
al piano di sopra, si cambiava e leggeva
o guardava un po’ di TV nel salotto della
sua suite.
C’erano anche sere in cui invitava
gente per un aperitivo e una cena. Tutto
questo era prevedibile e rendeva il
compito di Jane semplice e lineare.
A preoccuparla erano invece le sere
in cui usciva e lei vedeva sulla sua
agenda che aveva appuntamento con una
donna da scortare al suo club.
Per fortuna non accadeva molto
spesso e raramente vedeva la stessa
donna più di due o tre volte.
Tutte
queste
considerazioni
animavano la mente di Jane mentre
completava i riti serali.
La sua ultima incombenza, quando il
signor Powell era a casa da solo, era di
consultarlo per sapere se c’era
nient’altro di cui avesse bisogno prima
di ritirarsi nelle sue stanze.
Quella sera lo trovò seduto nella
poltrona grande dello studio, con i piedi
sullo sgabello, i gomiti sui braccioli, le
dita delle mani intrecciate. Il televisore
era spento e non c’erano tracce di libri o
riviste nei pressi della poltrona.
«Tutto bene, signor Powell?»
domandò premurosa.
«Stavo solo riflettendo», rispose lui
girandosi a guardarla. «Presumo che
tutte le camere da letto siano in ordine?»
Jane trattenne un moto di stizza: era
del tutto inconcepibile che avesse
ipotizzato che ci fosse anche una sola
stanza in tutta la casa non in perfetto
ordine. «Naturalmente sì, signore»,
rispose.
«Controllale tutte un’ultima volta.
Come sai ho chiesto a tutti i partecipanti
al programma di trattenersi qui per la
notte di domani. Offriremo loro un
brunch
celebrativo
prima
di
congedarli.»
Inarcò le sopracciglia e si concesse
un sorrisetto enigmatico dal quale lasciò
esclusa Jane.
«Sarà
un’esperienza
molto
interessante, non trovi?»
27
JOSH Damiano abitava dall’altra parte
della cittadina, a soli quindici minuti
dalla villa di Powell, ma in un mondo
completamente diverso.
Salem Ridge era un borgo adiacente
alla ricca cittadina di Rye, sul Long
Island Sound.
Era stato popolato alla fine degli anni
Sessanta da famiglie del ceto medio
venute a occupare i cottage in stile
coloniale e le casette costruite dalle
imprese immobiliari.
Ma la località era interessante, a soli
quaranta chilometri da Manhattan e sul
Long Island Sound, e nel giro di pochi
anni il valore delle proprietà era salito
alle stelle. Le abitazioni modeste erano
state acquistate e abbattute per essere
sostituite dal genere di villoni come
quella che aveva fatto costruire Robert
Powell.
Alcuni dei vecchi proprietari
avevano tenuto duro e tra di loro c’era
anche Margaret Gibney, che amava la
sua casa e non aveva voluto traslocare.
Dopo la morte del marito, Margaret, a
sessant’anni, aveva fatto ristrutturare il
piano di sopra della sua palazzina in
stile coloniale, trasformandolo in un
appartamento separato.
Josh Damiano era il suo primo e
unico
inquilino.
Ora
ottantenne,
Margaret benediceva tutti i giorni il
cielo per averle messo in casa
quell’uomo urbano e tranquillo che
portava fuori la spazzatura senza
bisogno che glielo chiedesse e usava
persino la turbina da neve per lei
quando non era al lavoro.
Quanto a Josh, dopo i quattordici
anni di spiacevole matrimonio con la
sua fidanzatina del liceo, era più che
soddisfatto della sua situazione logistica
e della sua vita.
Rispettava e ammirava Robert
Powell. Amava il suo lavoro di
chauffeur. Ancora di più amava
registrare le conversazioni di alti
dirigenti quando il signor Powell lo
mandava a prenderli con la Bentley per
accompagnarli a riunioni o colazioni
d’affari. Anche se aveva a bordo un solo
passeggero, spesso si rivelavano utili le
sue conversazioni telefoniche al
cellulare. Quando una conversazione era
particolarmente interessante, come per
esempio trattative di insider trading,
Josh la faceva riascoltare al dirigente e
si offriva di vendergliela. Non lo faceva
molto spesso, ma era un’attività molto
redditizia.
Con il passare del tempo, invece di
ascoltare tutte le registrazioni, il signor
Powell aveva preso l’abitudine di
chiedere
all’autista
se
avesse
intercettato qualcosa di interessante. Se
Josh diceva di no, come nel caso delle
quattro ex neolaureate, il signor Powell
si fidava. «Si sono limitate a dire ‘salve’
e ‘grazie’, signore», fu ciò che gli riferì
delle sue corse da tassista tra la villa e
l’aeroporto. Deluso, Robert Powell
aveva scosso la testa.
In momenti come quello Josh
ricordava quando per poco non aveva
perso il posto. Quando Betsy era morta
lavorava solo da pochi mesi per il
signor Powell. Aveva preso in antipatia
la signora fin da subito. Chi credeva di
essere, la regina d’Inghilterra? pensava
guardandola attendere altezzosa che lui
le porgesse la mano per aiutarla a salire
in macchina.
Una settimana prima di essere uccisa,
l’aveva sentita dire al signor Powell che
trovava
che
Josh
avesse
un
atteggiamento troppo confidenziale e non
mostrasse tutto il decoro richiesto a un
membro della servitù. «Hai notato con
che mollezza apre gli sportelli per noi?
Dovrebbe sapere che deve stare ben
dritto.»
Era stato un brutto colpo per Josh,
che aveva ormai preso dimestichezza
con il suo nuovo lavoro e riteneva di
essersi sistemato una volta per sempre.
Alla morte di Betsy non aveva potuto far
altro che mostrare costernazione, ma in
cuor suo aveva ringraziato la buona
sorte per avergli tolto di mezzo la
persona che minacciava di farlo
licenziare convincendo il signor Powell
della sua presunta carenza di decoro.
Il giorno della colazione, il signor
Powell lo aveva mandato a prendere
Claire Bonner. Con un po’ di fortuna,
aveva pensato, farà qualche telefonata
interessante.
Non era andata così. Quand’era salita
sulla Bentley, all’albergo, Claire aveva
immediatamente chiuso gli occhi,
lasciando chiaramente intendere che non
gli avrebbe rivolto la parola.
Era rimasto stupefatto nel constatare
quanto somigliasse a sua madre. La
ricordava
scialba
e
anonima,
adolescenziale nell’aspetto nonostante i
ventidue anni d’età.
Il primo giorno di riprese, Josh era
rimasto alla villa tutto il giorno ad
aiutare Jane a preparare sandwich e
dessert da servire nel patio, dove il
gruppo si ritirava tra una scena e l’altra.
Dopo che tutti se n’erano andati, il
signor Powell lo aveva congedato
ordinandogli di tornare a passare a
prendere Claire anche l’indomani
mattina.
«Cerca di parlarle, Josh», gli aveva
chiesto. «Dille quanto ti piaceva sua
madre, anche se so che non è così.» Alle
sei Josh tornò a casa sulla sua vettura
personale.
Era una di quelle sere in cui la
signora Gibney aveva voglia di
chiacchierare e lo invitò a mangiare il
pollo arrosto che aveva preparato per
cena.
Accadeva circa una volta alla
settimana e di solito Josh era lieto di
accettare perché la signora Gibney
cucinava bene. Quella sera però aveva
altro per la testa e la ringraziò dicendo
che aveva già cenato in anticipo. Era una
bugia, ma aveva voglia di pensare.
Aveva in tasca le copie dei nastri con
le registrazioni di Nina Craig e sua
madre, Alison Schaefer e suo marito, e
Regina Callari che parlava al telefono
con il figlio.
Era ovvio che nessuna di quelle
donne avrebbe voluto che quelle
conversazioni venissero ascoltate dal
signor Powell o dalla polizia. Avevano
accettato di recarsi alla villa per
scagionarsi una volta per tutte dal
sospetto d’aver avuto parte nella morte
di Betsy, ma in ciascuna di quelle
registrazioni c’erano altrettanti moventi
per ognuna di loro.
Prendevano tutte un bel gruzzolo per
partecipare al programma. Tutte
avrebbero appreso con orrore che i loro
moventi erano finiti forti e chiari sul
nastro di un registratore. Se avessero
diffidato della sua promessa di
mantenere la propria parte di accordo,
aveva una risposta pronta.
«Io conserverò sempre l’originale.
Lei può distruggere la copia che le ho
dato, e io non ho interesse a divulgarne
il contenuto più di quanto ne abbia lei
che arrivi alle orecchie del signor
Powell o della polizia. Mi paghi e
nessuno lo ascolterà né ora né mai.»
Aveva deciso quanto chiedere:
cinquantamila dollari, solo un sesto dei
trecentomila che avrebbero incassato.
Avrebbe funzionato. Erano tutte
spaventate. Aveva percepito la loro
ansia mentre le serviva nel patio.
Josh voleva costruire il proprio nido.
Era stato sempre lui ad accompagnare il
signor Powell dall’oncologo. Aveva il
sospetto che il signor Powell stesse
peggio di quanto si credesse. Se gli
fosse capitato qualcosa, Josh sapeva che
avrebbe ricevuto centomila dollari,
come stava scritto nel testamento del suo
padrone.
Ma
aggiungerne
altri
centocinquantamila non era affatto
disprezzabile.
Ora, se solo fosse riuscito a trovare
qualcosa anche su Claire!
28
GEORGE Curtis percorse i quattro isolati
che lo separavano dalla sua abitazione
nascondendo uno stato di spossatezza
emotiva sotto una facciata di normale
compostezza.
Rob Powell lo stava tenendo sui
carboni ardenti. Sapeva di lui e Betsy,
ora George ne era certo. Ripensò a
Laurie Moran, la produttrice del
programma, che gli illustrava come
intendeva realizzare la sequenza
dell’indomani. Lo aveva ringraziato
personalmente per la sua partecipazione.
«So quanto è occupato, signor
Curtis», gli aveva detto, «e non so come
ringraziarla per averci dedicato un
giorno intero. So che ha dovuto
sopportare lunghe attese durante i
preparativi e le prove e me ne scuso.
Domani la riprenderemo davanti agli
spezzoni che abbiamo deciso di mandare
in onda della serata del Gala e poi Alex
Buckley la intervisterà sui suoi ricordi
di quell’evento.»
Ricordi, pensava George mentre
svoltava nel viale d’accesso della sua
casa, ricordi. Quella era stata la sera
dell’ultimatum di Betsy. «O dici a
Isabelle che vuoi divorziare come mi hai
promesso, o mi paghi venticinque
milioni di dollari per restare con Rob e
tenere la bocca chiusa. Sei miliardario,
te lo puoi permettere.»
Ed era stato mentre si recavano al
Gala che Isabelle, raggiante, lo aveva
informato di essere incinta da quattro
mesi di due gemelli.
«Ho aspettato a dirtelo, George», si
era giustificata, «perché dopo quattro
gravidanze finite male, non volevo
deluderti di nuovo. Ma quattro mesi
sono già una bella sicurezza. Dopo
quindici anni di attese e preghiere,
questa volta avremo finalmente una
famiglia.»
«O Dio mio», era stato il massimo
che era riuscito a spiccicare. «O mio
Dio.»
Ero elettrizzato e atterrito, ricordò.
Mi sono chiesto come avevo potuto
lasciarmi irretire da Betsy, la moglie del
mio migliore amico.
Tutto era cominciato a Londra.
George vi si trovava per una riunione
d’affari con il direttore europeo della
sua catena di fast-food fondata da suo
padre nel 1940. Nello stesso periodo
soggiornavano a Londra anche Rob e
Betsy Powell, allo Stanhope Hotel
come lui, nella suite accanto. Rob aveva
fatto un salto a Berlino e si era trattenuto
per la notte.
Ho portato Betsy a cena, poi, tornati
in albergo, lei mi ha proposto di bere il
bicchiere della staffa con me nella mia
suite, ricordò George. Dove è rimasta
fino all’indomani mattina. L’inizio di una
storia durata due anni.
Io e Isabelle eravamo in un momento
di crisi, pensò George mentre
parcheggiava davanti a casa. Lei era
presa da un numero infinito di iniziative
di beneficenza e io ero in giro per il
mondo a entrare in nuovi mercati.
Quando ero a casa, non avevo nessuna
voglia di accompagnarla ai suoi pranzi
di beneficenza.
Perché tutte le volte che Rob si
assentava, io mi vedevo da qualche
parte con Betsy.
Ma dopo un anno l’entusiasmo si era
sopito. Alla fine ero riuscito a vederla
per quello che era, una manipolatrice.
Ma a quel punto non ero più in grado di
liberarmi di lei. Mi asfissiava con la sua
pretesa che divorziassi.
Al Gala Isabelle si è messa a
raccontare alle amiche che era in attesa.
Quando Betsy lo ha sentito, mi ha
detto di aver capito che non avrei mai
divorziato. E che allora, per tenere la
bocca chiusa, voleva quei venticinque
milioni di dollari. «Te lo puoi
permettere,
George»,
l’aveva
apostrofato, sorridendo, ben cosciente di
tutta la gente che avevano intorno. «Sei
miliardario, non te ne accorgerai
neppure. Altrimenti dico a Isabelle di
noi due. Chissà, può anche darsi che lo
choc la faccia abortire di nuovo.»
A George era venuto il voltastomaco.
«Se lo racconti a Isabelle o a chiunque,
Rob divorzierà.» Con la gola strozzata,
George aveva avuto difficoltà a parlare.
«E
so
che
il
tuo
accordo
prematrimoniale ti lascerà praticamente
al verde.»
Betsy aveva continuato a sorridere
imperterrita. «Ma io so che non andrà
così, George, perché invece tu mi darai i
soldi che ti ho chiesto. E io seguiterò a
vivere felice e contenta con Rob e tu e
Isabelle vi godrete i vostri gemelli.»
«Ti pagherò, Betsy», ricordava ora di
averle risposto mentre lei lo ascoltava
sorridente, «ma se riveli qualcosa a
Isabelle o a chiunque altro, ti uccido. Lo
giuro.»
«Brindiamo al nostro accordo»,
aveva concluso a quel punto lei facendo
tintinnare il bicchiere contro il suo.
Vent’anni più tardi, mentre chiudeva
a chiave la macchina, George tornò a
quanto gli aveva descritto Laurie Moran
del programma per l’indomani.
«Poi lei e Alex Buckley vi siederete
insieme e l’avvocato le chiederà di
darci le sue impressioni generali del
ricevimento e di Betsy Powell», aveva
proseguito Laurie. «Se avesse qualche
particolare o aneddoto da raccontare su
Betsy, tanto meglio. Da quel che mi
risulta, lei era molto amico dei Powell e
li vedeva spesso e sovente non solo in
privato.»
Ho spiegato alla Moran che vedevo
Rob soprattutto sul campo da golf al
club, piuttosto che in ricorrenze
mondane, in coppia con le mogli,
ricordò George mentre saliva i tre
gradini davanti all’elegante palazzina in
mattoni che aveva fatto costruire
vent’anni prima. Rammentò le pretese
pirotecniche
dell’architetto
che
progettava atri grandi quanto una pista
da pattinaggio regolamentare e scalinate
gemelle che salivano a una galleria «da
metterci
a
sedere
un’orchestra
completa».
«Noi vogliamo una casa, non un
auditorium»,
aveva
commentato
Isabelle.
Ed era una casa. Spaziosa ma non
sconfinata. Invitante e accogliente.
Aprì la porta e si diresse in
soggiorno. Come aveva previsto, vi
trovò Isabelle e i gemelli, Leila e Justin,
a casa dal college per le vacanze estive.
Si sentì gonfiare il cuore di affetto
nel guardarli.
Terribile quanto vicino sono stato a
perderli, pensò ricordando la sua
minaccia a Betsy.
29
TORNATA in albergo, la prima cosa che
fece Claire fu appendere il cartello di
NON DISTURBARE alla porta e correre a
lavarsi la faccia.
Tutto il trucco che si era applicato
con tanta meticolosità scomparve nella
salviettina insaponata. Claire finì di
strofinarsi solo quando, dopo ripetute
verifiche, fu certa di averlo rimosso fino
all’ultima traccia. Comunque è servito
allo scopo, rifletté. Ho ben visto le loro
facce quando sono comparsa, soprattutto
quella di Rob Powell. Non so se lo
svenimento di Nina fosse autentico o una
messinscena. Come attrice era più che
brava, anche se non ha mai sfondato.
Ma credo che abbia rubato la scena a
Papà-Rob. Scommetto che sarebbe
svenuto lui, se lei non lo avesse
preceduto. Del resto si è sempre vantato
di essere stato votato come miglior
attore quando recitava al liceo, no? E
non si può dire che non abbia fatto
grandi progressi da allora.
30
QUANDO Rob non invitò Muriel a cena,
Nina lesse la delusione sul volto di sua
madre. In macchina però Muriel tenne a
sottolineare che più di una volta Powell
aveva fatto riferimento ai bei momenti
che avevano trascorso insieme. Nina
ammise dentro di sé che su quello sua
madre non esagerava.
«Hai visto il lampadario?» chiese
Muriel mentre uscivano dalla cabina
dell’ascensore in albergo. «Deve valere
quarantamila dollari.»
«Tu come lo sai?»
«Ne ho visto uno così quando siamo
stati a Venezia a girare delle sequenze di
retroscena.»
Ci sta, pensò Nina. Ora, come attrice
sei di nuovo nel backstage.
«Hai visto quella governante? Si
comportava come se fossimo un branco
di intrusi.»
«Mamma, io la ricordo dai tempi che
eravamo ancora ragazzine. Dava sempre
l’impressione di disapprovare tutto e
tutti, con l’unica eccezione di Betsy.»
Esitò per un attimo. «Intendo la ‘signora
Powell’», si corresse poi con sarcasmo.
«È così che Jane era obbligata a
chiamarla, anche se avevano lavorato
insieme per anni.»
«Be’, io di certo non avrei preteso di
essere chiamata signora Powell invece
di Muriel», borbottò sua madre. «Se
fossi stata io a sposare Rob.»
«Io vado nella mia camera. Mi faccio
portare su da mangiare», ribatté Nina
alzando gli occhi al soffitto e
incamminandosi
subito
a
passo
sostenuto. Il più bel regalo che hai
ricevuto, pensò mentre si dirigeva verso
la sua stanza, è che Betsy sia stata tolta
di mezzo, eppure, nonostante tu abbia
telefonato a Rob Powell un numero
infinito di volte dopo la morte di sua
moglie, lui non ha mai voluto rivederti.
E adesso è chiaro come il sole che ti sta
prendendo in giro.
Ma non imparerai mai?
31
REGINA era appena rientrata in albergo
quando ricevette una telefonata di Zach
che la chiamava da Londra. Suo figlio
andò dritto al dunque.
«Mamma, sii sincera, ti prego, hai
portato con te quella lettera?»
Regina sapeva che sarebbe stato
inutile mentire.
«Sì, Zach, l’ho portata, scusami. Ti
ho mentito perché non volevo che tu
stessi in pensiero.»
«Allora è giusto che tu sappia che io
ho fatto a pezzi la copia che avevi fatto,
mamma. Mi ero prefissato di distruggere
quel messaggio dal momento stesso in
cui me ne hai parlato. Avrei stracciato
anche l’originale, ma non sono riuscito a
trovarlo.»
«Zach, è tutto a posto. So che hai
ragione e quando avrò finito qui, ti
prometto che la distruggerò. O, se
preferisci, lascerò che sia tu a bruciarla.
Ti do la mia parola.»
«Perfetto, mamma, so che la
manterrai.»
Si scambiarono un «ti voglio bene»,
poi si salutarono.
Regina corse al comò dove aveva
lasciato la borsetta, l’aprì e con le dita
che le tremavano recuperò il portafogli.
Varcando la soglia della villa di Powell
aveva immediatamente capito di aver
commesso un errore portandosi dietro
quella lettera.
Aprì il comparto segreto del
portafogli in cui aveva infilato il foglio
ripiegato.
Niente.
Chi le aveva sottratto il biglietto
doveva aver sospettato che avesse con
sé qualcosa di importante, altrimenti
avrebbe frugato in tutte le borsette che
erano state lasciate sul tavolo del patio.
E quella lettera rivelava un movente
perfetto per voler uccidere Betsy.
Frenetica, rovesciò sul ripiano il
contenuto della borsa e vi rovistò dentro
alla disperata, pregando che per qualche
motivo fosse finita fuori posto. Ma non
c’era.
32
ROD fu svegliato alle quattro di notte dal
rumore di una porta che si chiudeva.
«Alie?» chiamò. Accese la luce
centrale. La porta del salotto era aperta,
ma Alison non era nemmeno lì. Si
precipitò a recuperare le stampelle.
Dopo tanti anni di esercizio, aveva
braccia e spalle forti e sapeva muoversi
con rapidità. Controllò il bagno e lo
spogliatoio, ma Alison non era nemmeno
lì. Possibile che avesse avuto un nuovo
attacco di sonnambulismo? Arrivò in
pochi secondi alla porta della suite e
l’aprì. Alison era là fuori. Scendeva
lentamente per il lungo corridoio.
La raggiunse in cima alle scale che
scendevano nella hall.
«Alison», bisbigliò prendendole la
mano. La vide battere le palpebre
girandosi verso di lui sbigottita.
«Tutto bene», la tranquillizzò subito
Rod. «Tutto bene. Adesso torniamo a
letto.»
Quando furono di nuovo in camera,
Alison scoppiò a piangere. «Rod, Rod,
camminavo di nuovo nel sonno, vero?»
«Sì, ma è tutto finito. Non ci pensare
più.»
«Rod, quella sera al Gala ero così
arrabbiata. Tutti mi chiedevano se mi
sarei iscritta alla scuola di medicina e io
rispondevo che almeno per un anno
avrei dovuto lavorare. Tutte le volte che
guardavo Betsy pensavo che mi aveva
rubato quella borsa di studio solo per
poter essere ammessa in un club
esclusivo.» La sua voce si ridusse a un
mormorio sibilante. «Quella notte, al
Gala, sono uscita dalla mia stanza nel
sonno», gemette disperata. «Quando mi
sono svegliata, stavo uscendo dalla
stanza di Betsy. Ero così felice che non
si fosse accorta di niente. Ma è
possibile che sia stata io a ucciderla?»
Poi i singhiozzi le impedirono di
continuare.
33
LEO Farley salutò la figlia che scendeva
dal loro taxi e ordinò al conducente di
aspettare finché non avesse visto il
portiere che la faceva entrare nell’atrio
del palazzo e chiudeva la porta dietro di
lei.
Ma la sicurezza assoluta non esiste,
si rammaricò, poi convogliò tutta la sua
stanchezza in un profondo sospiro. Era
stata una giornata lunga, resa ancor più
lunga dall’ansia per Timmy così lontano
da casa.
Assorto com’era nei suoi pensieri,
non si accorse nemmeno che il taxi si
era fermato davanti allo stabile in cui
abitava, a un isolato da quello di Laurie.
C’era già Tony ad aspettare di
aprirgli la portiera. Di solito Leo
saltava giù, ma quella sera, dopo aver
pagato la corsa, si mosse con estrema
lentezza e allungò persino la mano per
appoggiarsi al braccio di Tony per
alzarsi in piedi.
Fu allora che l’avvertì di nuovo:
l’accelerazione dei battiti cardiaci che
preannunciavano
un
attacco
di
fibrillazione. Tony era ancora in attesa.
Leo fece per issarsi fuori dell’abitacolo,
poi ricordò che il medico gli aveva
raccomandato di non ignorare mai, per
nessun motivo i segnali del suo cuore
quando cominciava a battere così svelto,
come una locomotiva fuori controllo.
«Precipitati in ospedale, Leo», gli
aveva ordinato. «Sono molte le persone
che hanno questo problema, ma il tuo è
particolarmente
grave.
Bisogna
rallentare il tuo cuore il più presto
possibile.»
Leo alzò gli occhi su Tony. «Mi sono
appena ricordato d’aver dimenticato
qualcosa a casa di mia figlia», mentì.
«Visto che devo tornare indietro magari
stanotte mi fermo da lei.»
«Benissimo, signore. Buonanotte.»
Tony chiuse lo sportello con
decisione e, benché di malavoglia, Leo
disse all’autista di portarlo al Mount
Sinai Hospital.
E meno male che è a soli pochi
isolati da qui, pensò, mentre si tastava di
nuovo il polso impazzito.
34
RIENTRANDO da Salem Ridge a
Manhattan, Alex Buckley rifletteva su
quanto era avvenuto quel giorno. Le
quattro ex neolaureate, ora non più
ragazzine, avevano stretto amicizia fin
dai tempi del liceo e, anche se con il
passare delle ore si erano lasciate
andare sempre di più, all’inizio nel
rivedersi avevano manifestato una certa
diffidenza.
A dispetto di una sottile facciata di
cordialità, la loro reazione a Robert
Powell
era
stata
invece
indiscutibilmente ostile.
Dalla
lunga
esperienza
nell’interrogare testimoni Alex aveva
sviluppato la capacità di vedere
attraverso
lo
schermo
delle
dichiarazioni e a trarre informazioni
dall’espressione degli occhi e dal
linguaggio del corpo. Quello che aveva
concluso nell’esaminare quel giorno le
quattro protagoniste del programma era
che il loro sentimento comune nei
confronti di Robert Powell era di
malanimo.
La domanda era: perché? Era pronto
a scommettere che la loro animosità
avesse avuto inizio vent’anni prima.
Allora perché avevano accettato di
farsi festeggiare con quel Graduation
Gala? Se io avessi odiato il padre del
mio migliore amico, pensò Alex, avrei
rifiutato di festeggiare con lui a casa sua
i nostri diplomi di laurea. Da quelle
considerazioni scaturiva subito un altro
interrogativo: che cosa pensavano di
Betsy Bonner Powell? Se era stata una
di loro quattro a ucciderla, allora il suo
movente doveva essere stato tanto
impellente da spingerla a non perdere
l’occasione che le era data di passare la
notte nella villa.
Erano queste le domande con cui si
baloccava Alex mentre lasciava
l’automobile nella rimessa e andava
verso la porta di casa.
Ramon udì immediatamente il rumore
della chiave nella serratura. Sorridente,
si materializzò in tempo in anticamera
per accoglierlo. «Buonasera, signor
Alex. Spero che sia stata una buona
giornata.»
«Diciamo che è stata una giornata
interessante», precisò Alex ricambiando
il sorriso. «Mi cambio subito. Non
avevo certo bisogno di giacca e cravatta
oggi. Faceva troppo caldo.»
In casa la temperatura era perfetta e
come al solito il suo guardaroba era un
capolavoro di precisione, grazie a
Ramon, che appendeva giacche,
camicie, cravatte e pantaloni ordinando i
capi secondo i colori.
Alex scelse una camicia sportiva a
maniche corte e un paio di calzoni
sportivi. Poi si lavò le mani, si sciacquò
il viso e decise che ci stava bene una
birra fresca.
Passando davanti alla porta della
sala da pranzo, vide che la tavola era
apparecchiata per due.
«Chi viene, Ramon?» chiese aprendo
il frigorifero. «Non ricordo d’aver
invitato nessuno.»
«Non ho avuto la possibilità di
dirglielo, signore», si giustificò Ramon
intento a preparare un piccolo piatto di
antipasti. «A minuti dovrebbe arrivare
suo fratello. Domattina ha un
appuntamento a New York.»
«Ah, viene Andrew», esclamò Alex.
«Ottimo», commentò con sincerità,
nonostante un fugace momento di
delusione, dato che aveva avuto
intenzione di buttar giù durante la cena
tutte le sue impressioni della giornata
appena trascorsa. Andrew sapeva che
quel giorno erano cominciate le riprese
e senza dubbio aveva un sacco di
domande a cui avrebbe preteso che
rispondesse. Avrebbe usato dunque il
suo interrogatorio per mettere meglio a
fuoco i fatti. Un esercizio che ormai mi
viene naturale, concluse tra sé.
Il suo primo sorso di birra coincise
con il campanello dell’ingresso che
annunciava l’arrivo di Andrew. Aveva
una chiave propria e Alex uscì in
anticamera nel momento in cui suo
fratello entrava.
Per molto tempo erano vissuti
insieme, loro due soli. La loro madre
era morta quando Alex era appena
entrato al college e due anni dopo era
spirato anche il padre. Alex, che aveva
appena compiuto ventun anni, era
diventato il tutore di Andrew.
Come accade quasi sempre tra
fratelli, c’erano stati screzi frequenti
quand’erano più piccoli. Erano entrambi
molto competitivi e quando si
affrontavano a golf o a tennis, la gioia di
una vittoria da una parte corrispondeva
a malumore e rancore dall’altra.
Ma quando erano rimasti soli, era
scomparsa tra loro anche la minima
traccia di dissapore. Nella loro grande
famiglia avevano solo cugini alla
lontana, nessuno dei quali viveva a New
York. Avevano venduto la casa in cui
abitavano a Oyster Bay e si erano
trasferiti in un appartamento di
Manhattan, sulla Sessantasettesima Est,
dove erano rimasti fino a quando
Andrew si era laureato alla Columbia
Law School e aveva accettato un
incarico di lavoro a Washington.
Alex, già laureato in legge da cinque
anni e lanciato in una brillante carriera
come penalista, era vissuto ancora in
quell’appartamento fino a quando ne
aveva acquistato uno in Beekman Place.
A differenza di Alex, sei anni prima
Andrew si era sposato e ora aveva tre
figli, un maschio di cinque anni e due
figlie gemelle di due.
«Come stanno Marcy e i bambini?»
fu la prima domanda che Alex rivolse al
fratello dopo averlo abbracciato.
Andrew, solo due dita più basso
degli oltre centonovanta centimetri del
fratello, con i capelli leggermente più
scuri e gli occhi grigio azzurri, ma con
un fisico altrettanto atletico, scoppiò a
ridere.
«Marcy è gelosa delle mie frequenti
assenze. Le gemelle sono la tipica
rappresentazione dei terribili due anni.
Il loro vocabolario consiste di una sola
parola: ‘no’. Johnny è come sempre un
tesoro. Se mai ha avuto due anni come
adesso le bambine, io non lo ricordo.»
Abbassò gli occhi sul bicchiere che
aveva in mano suo fratello. «Ce ne
sarebbe una anche per me?»
Ramon stava già versando la birra in
un bicchiere raffreddato.
Andarono nello studio, dove Andrew
si lanciò senza complimenti sugli
antipasti. «Muoio di fame. Oggi ho
saltato il pranzo.»
«Avresti dovuto farti portare
qualcosa in ufficio», lo rimproverò
Alex.
«Questa è saggezza profonda.
Peccato che non mi sia venuto in mente.»
I fratelli si scambiarono un sorriso
divertito. «Ma adesso veniamo al
domandone», riprese Andrew. «Com’è
andata oggi?»
«Interessante, naturalmente.» Alex
cominciò a raccontargli della riunione
per la prima colazione. Quando arrivò a
Nina Craig che perdeva i sensi alla vista
di Claire, Andrew lo interruppe.
«Faceva sul serio o recitava?»
«Che cosa te lo fa chiedere?» volle
sapere Alex.
«Non dimenticare che prima che ci
sposassimo Marcy ha recitato per molto
tempo. Per cinque anni dopo il college è
vissuta in California. Quando abbiamo
saputo che eri coinvolto anche tu in
questa iniziativa e che i giornalisti
stavano riproponendo i particolari del
caso, mi ha detto di aver recitato in un
dramma con Muriel Craig e che tutte le
sere dopo lo spettacolo Muriel si
ubriacava in qualche bar e cominciava a
raccontare a tutti che stava per sposare
Robert Powell se quella stupida di sua
figlia non gli avesse presentato la madre
di una sua amica. Sosteneva che lei e
Powell erano praticamente fidanzati e
che adesso, non fosse stato per
quell’idiota di sua figlia Nina, vivrebbe
in un grande palazzo con un marito bello
e ricco. Sembra che una sera fosse
presente anche Nina e che dopo la tirata
della madre, per poco non sono venute
alle mani.»
«Allora questo spiega qualcos’altro»,
osservò Alex. «Secondo me Nina ha
veramente perso i sensi, però quando si
è ripresa, ha urlato in faccia a sua madre
di toglierle le sue schifose mani di
dosso.»
«Da quanti anni era sposata Betsy
quando è stata uccisa?» domandò
Andrew. «Erano sei o sette anni?»
«Nove.»
«Pensi che sia possibile che Nina
Craig abbia colto l’occasione di
eliminare Betsy pernottando alla villa
dopo il Gala con la speranza di rendere
Powell di nuovo disponibile per sua
madre? Da quel che mi ha raccontato
Marcy, Nina sa tirar fuori un bel
caratterino quando le conviene.»
Alex rifletté per un lungo momento,
poi rivolse al fratello un sorrisetto
sagace. «Forse avresti fatto meglio tu a
intraprendere la strada del penale.»
Ramon si affacciò dalla porta. «La
cena è pronta, signore.»
«Speriamo che si mangi pesce», si
augurò Alex alzandosi. «Il fosforo fa
funzionare meglio il cervello, non è
vero, Ramon?»
35
LAURIE aveva fissato la sveglia per le
sei ma aprì gli occhi alle cinque e
mezzo. Un’occhiata all’orologio sul
comodino le diede la bella notizia di
potersi concedere il lusso di un’altra
mezz’oretta di letto.
Era l’ora in cui, se si svegliava in
anticipo, Timmy andava da lei e
s’intrufolava al suo fianco. Ricordò con
affetto la bella sensazione di cingerlo
con un braccio e sentire la sua testolina
incuneata sotto il mento. Era alto per la
sua età, ma a lei sembrava sempre così
piccolo e vulnerabile da non poter
dominare la sensazione di doverlo
costantemente proteggere. Ucciderei per
te, pensò con passione quando le tornò
alla mente la minaccia che aveva urlato
Occhi Blu.
Ma quel giorno Timmy non c’era e
aveva invece passato la sua prima notte
lontano da lei o dal nonno. Non era mai
accaduto prima, perché anche quando
Laurie era costretta ad assentarsi per
lavoro, Leo si trasferiva in casa sua.
Chissà se si stava divertendo. Aveva
nostalgia di casa? Sarebbe stato
naturale, si disse. Tutti i ragazzini, la
prima volta che vanno in campeggio, per
un giorno o due soffrono di nostalgia.
Ma sono io ad avere nostalgia di lui,
rifletté mentre spingeva via lenzuolo e
coperta leggera perché era meglio
alzarsi e darsi da fare che continuare a
stare a letto a crucciarsi per Timmy.
Si fermò davanti alla foto
incorniciata
sul
comò.
Era
l’ingrandimento di un’istantanea che
qualcuno aveva scattato a lei, Greg e
Timmy, una volta che si trovavano con
un gruppo di amici su una spiaggia di
East Hamtpon.
Era l’ultima foto di loro tre. Una
settimana dopo Greg non c’era più.
Passò la punta del dito sul viso di
Greg, un gesto che negli ultimi cinque
anni aveva ripetuto centinaia di volte.
Fantasticava che un giorno invece della
superficie bidimensionale della stampa
fotografica avrebbe sentito sotto il
polpastrello la pelle di Greg, che
avrebbe fatto scorrere il dito lungo il
profilo delle sue labbra e le avrebbe
sentite incurvarsi in un sorriso.
Ricordò la notte in cui, alcuni mesi
dopo la sua morte, aveva sentito così
forte il bisogno di lui da addormentarsi
bisbigliando all’infinito il suo nome.
Poi lo aveva sognato e nel sogno le
era apparso con la vividezza della
realtà, ansioso e rattristato, quasi che
soffrisse nel vederla così addolorata...
Posò nuovamente la foto sul comò
scuotendo la testa. Quindici minuti più
tardi, con i capelli ancora bagnati della
doccia e un accappatoio di cotone sul
corpo snello, andò in cucina, dove la
macchina del caffè era già entrata in
funzione, avviata dal timer.
***
Jerry e Grace passarono a prenderla
alle otto meno un quarto. Avrebbero
incontrato il resto della troupe alla villa.
Grace era come al solito ancora in
fase di rodaggio: il suo organismo
entrava a regime più tardi degli altri.
«Sono andata a letto alle dieci», spiegò
a Laurie, «ma poi non sono riuscita a
prendere sonno. Cercavo di immaginare
chi di loro potesse aver ucciso Betsy
Powell.»
«E la tua conclusione qual è stata?»
volle sapere Laurie.
«Una qualunque di loro o tutte
assieme, le quattro ragazze, intendo.
Come in Assassinio sull’Orient
Express. Hanno pugnalato tutti a turno il
tizio che aveva rapito la neonata.»
«Figuriamoci se Grace non se ne
sarebbe venuta fuori con una teoria del
complotto», commentò Jerry. «Io dico
che è stata la governante. È così
evidente che ci vedrebbe tutti quanti più
volentieri sul pianeta Marte e tanto
fastidio nei nostri confronti non può
dipendere soltanto dal fatto che stiamo
creando confusione nella sua bella
routine. Io credo che sia preoccupata. Tu
che ne dici, Laurie?»
Laurie stava prendendo il cellulare.
Aveva sentito il debole segnale che
l’avvertiva dell’arrivo di un messaggio.
Era di Brett Young: «Laurie, il trend
è negativo anche per quest’ultimo
trimestre. Come ti ho detto, i tuoi due
ultimi pilot sono stati costosi e
deludenti. Meglio per te che questo
funzioni».
36
IL signor Powell si era svegliato prima
del solito. Alle sette e un quarto stava
già finendo la sua seconda tazza di caffè.
Da dove sedeva nella saletta della prima
colazione godeva della vista completa
del suo giardino dietro casa, cosa che
normalmente gli dava conforto e
gratificazione. Quel giorno però,
nonostante l’esplosione delle rose
intorno al patio, i riflessi cristallini
dell’acqua della fontana e la fantasiosa
tavolozza di colori degli arbusti intorno
al laghetto, la sua espressione era
corrucciata. La troupe televisiva aveva
lasciato accanto alla villa, nel viale
dietro casa, due dei loro grossi pulmini,
e Jane sapeva che la loro presenza
contrariava il suo padrone quanto
infastidiva lei.
Jane conosceva bene i suoi stati
d’animo. La sera prima era sembrato
quasi divertito dall’evolversi della
giornata, con lo svenimento di Nina
Craig e le ostentate moine con cui
Muriel aveva cercato di rinverdire i
loro reciproci sentimenti di quando non
era ancora entrata in scena Betsy.
Fino a che punto sapeva di George
Curtis e Betsy? si domandava Jane.
Vent’anni prima stava servendo gli
antipasti al Gala quando aveva
percepito la forte tensione tra Curtis e
Betsy ed era riuscita ad avvicinarsi
abbastanza senza farsi notare da sentire
la minaccia che Curtis aveva rivolto alla
moglie di Powell. Sapeva che se Betsy
fosse riuscita a incassare venticinque
milioni da Curtis, probabilmente
avrebbe nascosto i soldi, come già
aveva fatto con i gioielli, per continuare
imperterrita la sua vita al fianco del
signor Rob.
Se solo avessi idea di quanto so su di
te, pensò Jane mentre resisteva con
fermezza all’impulso di accarezzare una
spalla del signor Rob. Devo ricordargli
che è stato lui ad autorizzare tutto questo
e dovrei suggerirgli di andare a passare
la giornata in ufficio, visto che, da quel
che ho capito, oggi di lui non c’è
bisogno qui? Ma non gli toccò la spalla
e non gli suggerì di andare in ufficio.
Non avrebbe accolto di buon grado che
si prendesse una simile libertà. Fece
invece il gesto simbolico di versargli
dell’altro caffè ma lui, dopo un brusco
rifiuto, si avviò silenziosamente alla
porta.
Il giorno prima aveva sorpreso quel
ficcanaso di Josh che frugava nelle
borsette, quando alle ospiti era stato
ordinato di lasciarle sul tavolo del
patio. Aveva preso qualcosa da una
borsa. Non aveva visto bene quale,
perché Josh era stato troppo svelto. Che
cosa aveva trovato di tanto interessante?
Sapeva da tempo che registrava le
conversazioni delle persone che
trasportava in macchina. Sapeva anche
che Betsy, «la signora Powell», si
corresse con maligno sarcasmo, lo
aveva in antipatia. Se non fosse stata
uccisa, Josh non avrebbe conservato a
lungo il suo poso di lavoro, pensò Jane.
Chissà che cosa aveva preso da una
di quelle borsette? Una cosa però la
sapeva con certezza: se si fosse trattato
di qualcosa che poteva tornare utile al
signor Powell, Josh glielo avrebbe
mostrato e, come un cane che riceve in
premio una carezza dal suo padrone, si
sarebbe ritrovato con qualche centinaio
di dollari extra in tasca.
«Jane, stamattina non voglio vedere
nessuno», annunciò Powell prima di
andarsene. «Sarò spesso e sovente al
telefono con l’ufficio. Quelli della TV si
porteranno dietro da mangiare, perciò
non c’è motivo di aprire la cucina per
loro. I tecnici useranno il bagno della
pool house. Che gli altri restino nel
patio e passino dalla cucina per usare il
bagno. Non voglio che nessuno di loro
vada di sopra o gironzoli per casa. Tutto
chiaro?»
Che
cos’era
cambiato
così
drasticamente dalla sera prima, quando
sembrava che si stesse divertendo tanto?
si chiese Jane. Possibile che fosse sulle
spine in attesa dell’intervista a
quattr’occhi con Alex Buckley?
L’avvocato? Jane lo conosceva di fama,
ne aveva letto sui giornali e sulle riviste
e lo aveva visto discutere di casi
giudiziari in televisione. Sapeva che a
un certo punto avrebbe fatto anche a lei
domande su quella sera.
Be’, sono riuscita a tenere i miei
pensieri per me per quasi trent’anni,
pensò. Sono sicura di poter continuare a
custodire i miei segreti. Sorrise mentre
pensava ai gioielli che aveva portato via
dal nascondiglio di Betsy dopo che
avevano trovato il suo cadavere.
Naturalmente la «signora Powell» non
aveva mai indossato in presenza di suo
marito gli orecchini, l’anello e la
collana che le aveva regalato George
Curtis. Betsy li riservava per quelle sue
discrete scappatelle quando il signor
Powell era fuori città. Lui non aveva
mai saputo niente e di certo George
Curtis non avrebbe mai tentato di
recuperarli.
Chissà se per tutti questi anni Curtis
ha temuto che quei gioielli venissero
ritrovati e fossero fatti risalire fino a
lui? Quella sera aveva minacciato Betsy,
e Curtis abita a non più di dieci minuti a
piedi da qui. Be’, se a qualcuno dovesse
venire in mente di sospettare me o il
signor Rob della morte di Betsy, posso
sempre fingere di averli semplicemente
trovati e lasciare che dell’omicidio sia
accusato George Curtis.
Confortata
dalla
rassicurante
presenza dei gioielli ben nascosti nel
suo alloggio personale, Jane prese la
tazza che Robert Powell aveva posato
quando aveva lasciato la saletta e,
premendosela amorevolmente sulle
labbra finì il caffè rimasto.
37
PER colazione Claire si era fatta servire
in camera spremuta d’arancia, caffè e un
muffin. Era vestita di tutto punto già
molto prima che arrivasse l’automobile
a prelevarla e portarla alla casa dove
aveva trascorso i nove anni più tristi
della sua vita.
Aveva
scelto
volutamente
l’abbigliamento che le era usuale a casa,
una semplice maglia di cotone a maniche
lunghe e calzoni sportivi neri. Questa
volta non si era truccata e, com’era
abituata anche a casa, non aveva
indossato gioielli. Per tutti questi anni
sono sempre stata invisibile, pensò. Da
bambina era mia madre a spingermi ad
assumere questo aspetto così dimesso.
Perché dovrei cambiare ora? E
comunque ormai è troppo tardi per
qualunque cambiamento.
C’era una sola soddisfazione nella
vita di Claire, il suo lavoro di assistente
sociale nel settore delle situazioni
problematiche domestiche. Sapeva di
svolgerlo al meglio ed era solo quando
contribuiva a salvare donne e bambini
da circostanze insopportabili che si
sentiva ricompensata da un senso di
pace e appagamento.
Perché sono venuta qui? si
domandava. Che cosa pensavo di
ricavarne? Che cosa immaginavo di
poter concludere? Partecipando, tutte e
quattro rischiavano di rivelare le
proprie ragioni segrete di odio verso
Betsy. Claire le conosceva tutte, quelle
ragioni, e le condivideva. Ricordava
quanto solidali fossero state le sue tre
amiche negli anni del liceo. Quando ero
fuori con loro, pensò, riuscivo quasi a
dimenticare tutto il resto.
Ora siamo tutte preoccupate di quello
che la gente possa venire a sapere su di
noi. Che conseguenze avrà questo
programma? Farà emergere la verità o
sarà semplicemente una riedizione
pasticciata di brutti ricordi e vite
distrutte? Alzò le spalle in un gesto
spazientito, poi si sintonizzò su un
programma di notizie per ammazzare il
tempo in attesa che arrivasse la
macchina. In uno dei servizi si parlava
dello show sull’assassinio di Betsy
Bonner Powell e su come fosse
destinato a essere «l’evento più atteso di
tutta la stagione televisiva».
Spense il televisore nel momento
stesso in cui cominciava a squillare il
telefono. Dalla hall Josh Damiano le
chiese in un tono spigliato se fosse
pronta a scendere.
Forse sono pronta da vent’anni,
pensò Claire infilando l’avambraccio
nei manici della borsetta.
38
LUNEDÌ sera, verso le nove, il capo
della polizia Ed Penn aveva ricevuto
una telefonata di Leo Farley. Lo aveva
sentito affaticato, per poi apprendere
con sconcerto che Leo era in ospedale.
«Non sono riusciti a farmi tornare il
cuore a un ritmo di battiti naturale», gli
aveva spiegato Leo. «E naturalmente
questo significa che non posso essere lì
a tenere gli occhi aperti nell’eventualità
di qualche possibile problema.»
Il primo giudizio di Penn fu che, dopo
essere stato per cinque anni vittima
dello stress provocato dalla minaccia
che incombeva su figlia e nipote, ora
stava cedendo fisicamente. Dopo aver
ripetuto ciò che Leo già sapeva, che cioè
la produzione aveva piazzato una
guardia all’ingresso della proprietà di
Powell per impedire l’ingresso ai
paparazzi e che tutte le persone che le si
presentavano venivano debitamente
controllate, Penn promise a Leo di
inviare un’auto di pattuglia dietro la
tenuta per impedire che qualcuno
cercasse di introdursi nella proprietà
scalando la recinzione.
Ora che il programma era
effettivamente in corso d’opera, Penn si
era portato a casa la voluminosa
documentazione del caso e la stava
rileggendo dalla prima all’ultima
pagina.
Quando era arrivata la telefonata di
Leo, stava esaminando con una lente
d’ingrandimento le foto scattate sulla
scena del crimine, l’elegante sfondo
della camera da letto in contrasto con la
scioccante immagine del cadavere di
Betsy Powell, i capelli sparsi sul
guanciale, gli occhi fissi nel vuoto, la
camicia da notte di raso accartocciata
sulle spalle.
Nel resoconto si leggeva che la
governante aveva sentito dalla cucina il
trambusto al piano di sopra e che
quando era corsa su aveva trovato
Robert
Powell
che
rantolava
raggomitolato sul pavimento accanto al
letto, con le mani ustionate dal caffè che
aveva portato a Betsy.
Richiamate dalle urla di Jane, erano
accorse le quattro neolaureate. Secondo
la loro testimonianza, Jane Novak si era
messa a strillare: «Betsy, Betsy»,
quando normalmente la chiamava
signora Powell.
E Jane sosteneva che, subito dopo
aver tolto il cuscino dalla faccia della
vittima, aveva raccolto dal pavimento
l’orecchino di smeraldi e lo aveva
posato sul comodino.
«Dev’essere stato perché per poco
non lo calpestavo», aveva spiegato.
«Non pensavo a quello che facevo.»
E quello che stava facendo era
contaminare la scena di un crimine,
aveva pensato Penn. Prima per aver
spostato il guanciale, poi per aver
raccolto l’orecchino.
«Poi sono corsa dal signor Powell»,
proseguiva la deposizione di Jane.
«Aveva perso i sensi. Lì per lì ho
creduto che fosse morto. In televisione
avevo visto una scena in cui facevano un
massaggio cardiaco e l’ho provato su di
lui nel caso che il suo cuore avesse
smesso di battere. A quel punto sono
entrate le ragazze e ho gridato loro di
chiamare la polizia e un’ambulanza.»
Il particolare che lui stesso aveva
notato immediatamente, rifletteva in quel
momento Penn, era la calma unanime
delle quattro ragazze. Certo, gli avevano
riferito di essere rimaste in piedi fino
alle tre a chiacchierare e avevano
bevuto vino in quantità. Ad appannare la
loro reazione immediata alla morte
violenta di Betsy Powell potevano
essere stati la carenza di sonno e le
libagioni eccessive, ma a lui sembrava
che anche tenendo in debito conto il
trauma del primo impatto, Claire Bonner
fosse
rimasta
sorprendentemente
composta per una ragazza di quell’età
che si trova al cospetto del cadavere di
sua madre.
E lo stesso valeva anche per le altre
tre, quando erano state interrogate.
E io continuo a pensare che non è
stato uno venuto da fuori, aveva ripetuto
tra sé Penn. Sono sempre stato convinto
che a uccidere Betsy Powell sia stata
una delle persone presenti nella villa.
Le sei persone in questione erano
Robert Powell, la governante e le
quattro festeggiate.
Sarebbero state tutte interrogate da
Buckley, che, nel controinterrogatorio di
un teste, si supponeva fosse un
inquisitore spietato. Sarebbe stato
interessante
confrontare
le
loro
dichiarazioni di allora con quanto
avrebbero detto questa volta davanti alle
telecamere.
Penn si era guardato intorno
scuotendo la testa. Che quel caso non
fosse stato risolto pesava sulla
coscienza del dipartimento in modo
insopportabile. Il suo sguardo si era
fermato sulle numerose citazioni che lui
e il suo dipartimento si erano guadagnati
nel corso di tanti anni di servizio. Ce
n’era un’altra che desiderava.
Quella per aver risolto il delitto di
Betsy Bonner Powell.
A quel punto si era accorto che erano
le nove passate, troppo tardi per
continuare a indugiare in inutili
congetture. Sollevò il ricevitore e
ordinò che a partire dall’indomani
mattina all’alba ci fosse una volante
appostata dietro l’abitazione di Powell.
39
MARTEDÌ mattina Bruno si svegliò alle
sei. A fargli spalancare gli occhi era
stata l’eccitazione di sentirsi di
momento in momento più vicino
all’esito glorioso della sua vendetta
finale.
Accese la televisione e ascoltò le
notizie mentre si preparava una
colazione spartana. Gli era concesso di
avere in camera un piccolo frigorifero.
Mise in funzione la macchina del caffè e
versò in una tazza yogurt e cereali.
Dopo il notiziario principale e una
decina di spot pubblicitari udì quello
che stava aspettando. «Attualmente alla
villa di Robert Powell si stanno
effettuando le riprese del pilot della
nuova serie intitolata Under Suspicion.
Vent’anni dopo il Graduation Gala, le
quattro festeggiate si sono riunite per
apparire in un programma televisivo nel
quale rivendicare la loro innocenza
nella morte della bella Betsy Bonner
Powell,
noto
personaggio
della
mondanità newyorkese.»
Bruno rise forte, una risata acida,
malevola. Il giorno prima aveva parlato
con un tecnico sorprendentemente
loquace della troupe televisiva. Gli
aveva confidato che avrebbero filmato
quel giorno e ancora l’indomani. Quella
notte le ex neolaureate avrebbero
dormito alla villa. Le avrebbero riprese
sedute nello studio come vent’anni
prima. Poi, l’indomani mattina, mentre
consumavano una prima colazione
d’addio.
E mentre facevano colazione, Bruno
sarebbe uscito dalla pool house armato
di fucile.
Pensò a quel giorno di tanti anni
prima quando, ancora ragazzino a
Brooklyn, era a contatto con certi
individui che sapeva appartenere alla
malavita. Faceva il garzone in una
tavola calda dove alcuni di loro
andavano a fare colazione tutte le
mattine.
Aveva sentito un paio di loro vantarsi
della loro abilità di tiratori, dicevano
che sarebbero stati capaci di spaccare
una mela in testa al figlio di Guglielmo
Tell, ma con un colpo di fucile, non con
una freccia. Era stato allora che Bruno
aveva comprato un fucile e una pistola
di seconda mano e aveva cominciato a
esercitarsi.
Sei mesi dopo, mentre puliva il
tavolo, annunciò a quei due che gli
sarebbe piaciuto far loro vedere
com’era bravo a sparare. Lo avevano
deriso. «Sai, moccioso», l’aveva
canzonato uno dei due, «a me quelli che
mi fanno perder tempo con le loro
spacconate mi fanno girare. Perciò mi
piace metterli alla prova. Avanti, facci
vedere.»
Ed era stato così che lo avevano
preso nella gang.
Bruno avrebbe potuto scegliere
qualsiasi momento per freddare Laurie
Moran, ma voleva che stramazzasse a
terra mentre veniva ripresa dalle
telecamere.
Bevve rumorosamente il suo caffè
pregustando quel momento.
I poliziotti dell’auto di pattuglia
parcheggiata dietro la proprietà si
sarebbero affrettati a scavalcare la
recinzione e correre verso la sala da
pranzo. Si sarebbero precipitati anche
quelli della TV. Quando tutti fossero
passati oltre la casetta, Bruno sarebbe
uscito dalla porta di servizio e in pochi
secondi avrebbe superato la siepe del
tutto indisturbato. In quattro minuti
correndo senza affannarsi avrebbe
raggiunto il parcheggio pubblico della
stazione ferroviaria. Il parcheggio era a
un solo isolato dalla stanza in cui si
trovava in quel momento.
Aveva già scelto la vettura che
avrebbe rubato, una Lexus famigliare il
cui proprietario arrivava tutte le mattine
alle sette per prendere il treno delle
sette e un quarto per Manhattan.
Bruno sarebbe stato già lontano
prima ancora che avessero capito da
dove era partita la fucilata.
Il proprietario della macchina non
avrebbe denunciato il furto prima di
martedì sera.
Preso com’era dai suoi progetti non
si era accorto che la sua tazza era vuota.
In che modo il suo piano poteva
fallire?
Naturalmente qualche imprevisto
poteva sempre esserci. Uno dei due
poliziotti poteva non essere in grado di
issarsi oltre la recinzione e in quel caso
sarebbe stato ancora in strada e Bruno
avrebbe dovuto affrontarlo. Non voglio
sparargli, pensava, la detonazione
richiamerebbe il suo collega. Se però lo
tramortisco con il calcio del fucile, avrò
tutto il tempo che mi serve per...
L’elemento sorpresa, la confusione
intorno al corpo accasciato di Laurie, il
sangue che le sgorgava dalla testa... tutto
questo avrebbe agito in suo favore.
Potrebbero prendermi, ammise, e
così avrebbe dovuto rinunciare per
sempre a far fuori Timmy. Ma se
riuscirò a dileguarmi, vedrò di chiudere
la partita con lui alla svelta. La fortuna
non mi assisterà in eterno.
Avendo spiato i dati contenuti nel
computer di Leo Farley, sapeva che
Timmy era al campo e persino in che
tenda era e ogni particolare di come era
organizzato il campeggio. Ma anche se
fosse riuscito a introdurvisi di notte e a
rapire Timmy, Laurie sarebbe stata
immediatamente avvertita e lui si
sarebbe giocato la possibilità di
avvicinarla. No, prima Laurie e solo
dopo anche Timmy.
Si strinse nelle spalle. Era sicuro che
la vecchia avesse sentito la sua
minaccia: «Di’ a tua madre che adesso
tocca a lei, poi sarà il tuo turno». Così
aveva promesso e così doveva essere.
Erano passate molte ore da quando
aveva controllato il telefono di Leo, non
che lo sbirro avesse molto da dire a
nessuno.
Ascoltò comunque la registrazione
della telefonata che aveva fatto Leo al
capo della polizia la sera precedente e
venne così a sapere che era attualmente
ricoverato in terapia intensiva al Mount
Sinai Hospital.
Cominciò a valutare quali nuove
prospettive gli presentava questo
sviluppo.
Poi cominciò a sorridere.
Ma sicuro, come no? Perfetto. Si
poteva fare.
Quando Laurie si sarebbe ritrovata
con le altre per la colazione d’addio,
Bruno sarebbe uscito dalla pool house
tenendo Timmy per mano...
puntandogli un fucile alla testa.
e
40
A REGINA tremavano così violentemente
le mani da non riuscire a sfilarsi la
maglietta dalla testa. Laurie Moran
aveva detto loro di indossare qualcosa
di semplice. Aveva fatto confezionare
indumenti identici a quelli che avevano
indosso quando era arrivata la polizia
dopo il ritrovamento del corpo di Betsy.
Le ragazze avevano consegnato i
pigiama ai poliziotti perché fossero
analizzati dalla Scientifica ed erano
state invitate ad aspettare nello studio
per essere interrogate.
Regina indossava una T-shirt rossa a
maniche lunghe su un paio di jeans.
Dover mettersi addosso vestiti simili
adesso la faceva star male. Era come se
venisse spogliata di tutti gli strati
protettivi che aveva costruito intorno a
sé nel corso di quegli ultimi vent’anni.
Solo pensare a quegli abiti le faceva
ricordare come si erano sentite
vulnerabili, strette tutte assieme nello
studio, senza poter nemmeno fare un
salto in cucina per una tazza di caffè o
una fetta di pane tostato. C’era anche
Jane nello studio con loro, a cui era
stato impedito di accompagnare in
ospedale
il
signor
Powell
sull’ambulanza.
Chi aveva rubato dalla sua borsetta il
messaggio suicida di suo padre? E che
cosa ne avrebbe fatto?
Se la polizia l’avesse trovato,
avrebbero potuto arrestarla per averlo
preso dal corpo di suo padre. Sapeva
che avevano sempre sospettato che il
messaggio esistesse e che fosse stata lei
a trafugarlo. Non ricordava più quante
volte aveva mentito agli inquirenti
durante l’inchiesta sulla sua morte.
Chiunque si fosse impossessato di
quella lettera, avrebbe potuto fornire
alla polizia la prova di cui avevano
bisogno per incriminarla dell’omicidio
di Betsy.
Le si colmarono gli occhi di lacrime.
Zach, che a diciannove anni aveva
dimostrato di avere molto più sale in
zucca di lei, aveva distrutto la copia che
aveva trascritto e aveva cercato invano
di trovare l’originale. Poi l’aveva
supplicata di non portarlo con sé.
Cosa sarebbe stato di lui se lei fosse
stata arrestata e incriminata per la morte
di Betsy?
Ripensò al bambino che la
raggiungeva in agenzia dopo la scuola
quando non aveva da svolgere attività
sportive e pretendeva di aiutarla a
ripiegare e imbustare gli annunci di
vendite che inviava alle comunità della
zona. Era sempre così felice quando uno
dei loro annunci appariva in una delle
liste. Erano sempre stati così legati, loro
due. Era una circostanza per cui si era
sempre ritenuta infinitamente fortunata.
Arrivò la sua colazione e Regina
cercò di mandar giù il caffè e persino di
mangiare un boccone di croissant, che le
si fermò in gola.
Devi assolutamente darti un contegno,
si rimproverò. Se ti fai vedere così
nervosa quando verrai intervistata da
quell’avvocato, quell’Alex Buckley, non
farai che peggiorare la situazione.
Ti prego, Dio, pensò, fammene venir
fuori al meglio. Squillò il suo telefono.
Era arrivata la macchina che l’avrebbe
trasportata da Powell.
«Scendo subito», rispose, ma suo
malgrado non riuscì a nascondere un
tentennamento nella voce.
41
DOPO l’attacco di sonnambulismo,
Alison non riuscì più a dormire. Rod la
sentì agitarsi nel letto e alla fine le
passò un braccio sotto le spalle e l’attirò
a sé.
«Alie», la rincuorò, «se quella notte
ti aggiravi per casa nel sonno, per
quanto convinta tu possa essere di
essere stata nella stanza di Betsy, non è
detto che la tua memoria non stia
travisando i fatti.»
«Ci sono stata. Lei aveva un piccolo
lume notturno. Ricordo persino d’aver
visto scintillare quell’orecchino sulla
moquette. Rod, se l’ho preso in mano,
devo averci lasciato sopra le mie
impronte digitali.»
«Ma tu non lo hai preso», cercò di
tranquillizzarla Rod. «Alie, devi
smetterla di pensare in questo modo.
Quando sarai davanti alla telecamera,
devi raccontare solo quello che sai, vale
a dire niente. Hai sentito Jane strillare e
sei corsa nella camera di Betsy con le
tue amiche. Scioccata tanto quanto loro.
Quando verrai intervistata, parla sempre
al plurale, di te e delle tue amiche
insieme, e andrà tutto bene. E non ti
scordare che la ragione per cui stai
partecipando a questo programma è che
vuoi avere quei soldi che ti servono per
la scuola di medicina. Cosa ti vado
ripetendo da quando ti si è offerta la
possibilità di tornare a studiare?»
«Che un giorno dirai di me che sono
la nuova Madame Curie», mormorò
Alison.
«Infatti. E adesso torna a dormire.»
Ma anche se smise di girarsi e
rigirarsi nel letto, Alison non tornò a
dormire. Alle sette, quando trillò la
sveglia, aveva già fatto la doccia e
indossato la polo e i pantaloni che
presto avrebbe sostituito con la T-shirt e
i jeans che aveva indosso la mattina
dopo la morte di Betsy Powell.
42
LAURIE, Jerry e Grace arrivarono alla
villa pochi minuti dopo la troupe, che
quella mattina includeva tra gli altri
parrucchiera, truccatrice e costumista.
Al corteo si erano aggiunti altri due
pulmini, uno come spogliatoio, l’altro
per truccare e pettinare coloro che
sarebbero stati ripresi dalle telecamere.
Laurie aveva già lavorato con loro e
si era trovata bene. «La prima scena
sarà delle quattro protagoniste e la
governante vestite come lo erano dopo
la scoperta del corpo di Betsy. Ci vuole
un trucco leggero, perché non avrebbero
avuto il tempo di truccarsi e in ogni caso
non sarebbe loro mai venuto in mente di
farlo. Abbiamo una foto scattata quella
mattina dalla polizia. Studiala e cerca di
farle apparire com’erano vent’anni fa.
Naturalmente non hanno più i capelli
lunghi di allora, ma nonostante siano
ormai donne mature non sono cambiate
molto.»
Meg Miller, la truccatrice, esaminò
con attenzione la fotografia. «Una cosa
te la posso dire, Laurie: hanno tutte
l’aria di essere spaventate a morte.»
«Concordo», annuì Laurie. «E il mio
compito è scoprire perché. È naturale
che siano traumatizzate e disorientate,
ma perché anche così spaventate? Se
Betsy era stata uccisa da un estraneo,
allora di che cosa avevano paura?»
Avrebbero effettuato le riprese nello
studio, il locale in cui quella mattina la
polizia aveva fatto riunire le ragazze.
Incredibilmente in quei vent’anni nulla
era stato cambiato dell’arredamento,
cosicché l’ambiente appariva come una
inquietante evocazione di quello di
allora.
D’altronde, ragionava Laurie, c’era
da pensare che in tutti quegli anni solo
Robert Powell avesse usato quella
stanza. Secondo Jane Novak, era solito
intrattenere gli ospiti in soggiorno o in
sala da pranzo. Secondo quanto le aveva
raccontato, se era a casa da solo, dopo
cena si ritirava nello studio a guardare
la televisione o a leggere, altrimenti
saliva direttamente nella sua suite.
Visto che nella villa abitava solo lui
e che Jane la teneva linda e ordinata
come un gioiello, era solo logico che
non si fosse mai sentita la necessità di
cambiare qualcosa dell’arredamento.
O, si domandò Laurie, era Powell a
volere che la sua abitazione rimanesse
come congelata nel tempo, ancora intatta
come l’aveva lasciata sua moglie?
Aveva sentito di persone con questo
genere di manie.
Si sentì attraversare da un brivido
mentre tornava velocemente sui suoi
passi entrando nello studio dal patio. I
tecnici
stavano
sistemando
le
telecamere. Nessuna traccia di Robert
Powell. Jane aveva detto loro che
sarebbe stato nel suo ufficio e ci sarebbe
rimasto per tutta la mattina.
Fin dal principio Powell aveva
sostenuto che non era necessario
retribuire Jane come le quattro
protagoniste. «Credo di poter parlare in
sua vece se affermo che tutti e due
desideriamo più che mai che questa
terribile faccenda si concluda. Jane ha
sempre rimpianto il fatto che dopo che
aveva chiuso a chiave tutte le porte per
la notte, le ragazze abbiano aperto
quella dello studio per poi scordarsi di
richiuderla a chiave quando sono
rientrate dopo aver fumato nel patio.
Non fosse stato per la loro trascuratezza,
nessuno sarebbe potuto penetrare
nascostamente in casa mia.»
Forse Powell e Jane hanno ragione,
pensò Laurie. Dopo aver controllato le
telecamere e le luci, tornò fuori e dal
patio vide Alex Buckley che scendeva
dalla sua automobile.
Invece del completo blu scuro con
camicia bianca e cravatta che aveva
indossato il giorno prima, questa volta
aveva scelto una camicia sportiva e
pantaloni comodi in tela kaki. Aveva
viaggiato con il tettuccio abbassato e il
vento gli aveva spettinato i capelli
castani. Lo vide ravviarseli in un gesto
che probabilmente era solo istintivo
mentre s’incamminava verso di lei.
«Mattiniera», commentò con un
simpatico sorriso.
«Per forza. È importante essere
presenti in anticipo quando si deve
cominciare a girare un programma al
sorgere del sole.»
«No, grazie. Io aspetto di poter
pigiare un bottone e vederlo in TV.»
Come già aveva fatto nel suo ufficio,
passò bruscamente all’ordine del giorno.
«È ancora rimasto che cominciamo da
me che parlo alle protagoniste dopo che
le avete riprese sedute nello studio?»
«Sì. Ho scelto questa sequenza
insolita perché ho la netta sensazione
che tutte e quattro si siano preparate le
risposte. Cominciando con loro tutte
assieme, spero di coglierle di sorpresa.
E non si stupisca di come sono vestite,
perché abbiamo voluto che indossassero
mise identiche a quelle che avevano
addosso subito dopo il ritrovamento del
corpo di Betsy.»
Alex Buckley non era solito
manifestare il suo stupore, ma questa
volta era così sbigottito che non poté
farne a meno.
«Avete fatto metter loro gli stessi
abiti che indossavano vent’anni fa?»
«Non gli stessi, ma identici, sì. Per
due scene. Quella nello studio dove
erano state convogliate con Jane
all’arrivo della polizia. E poi in un’altra
in cui indosseranno invece vestiti da
sera uguali a quelli del Gala. Le
fotograferemo facendo passare sullo
sfondo i video in cui erano state riprese
individualmente e in gruppo durante i
festeggiamenti. Per fare un esempio,
quando Robert Powell brinda in loro
onore, includeremo la foto delle quattro
ragazze che lo guardano.»
Nel momento in cui stava per
rispondere, Alex Buckley fu interrotto
dall’arrivo quasi simultaneo delle
quattro protagoniste. Toccò a Laurie
rimanere stupefatta nel vedere Muriel
Craig scendere dalla stessa limousine su
cui viaggiava sua figlia Nina. La sua
presenza non era prevista. O era stato
Powell a invitarla, o doveva essere stata
un’idea sua.
In entrambi i casi a Nina non era
certamente piaciuto.
E poteva anche essere un bene per
quando Nina fosse stata intervistata.
43
MARTEDÌ mattina Josh portò la Bentley
a lavare e controllare. Il signor Rob
voleva che fosse tenuta sempre in
condizioni
perfette,
«altrimenti»,
pensava
Josh
mentre
aspettava
comodamente
seduto
nell’angolo
dell’officina riservata ai clienti.
Soddisfatto di sé, si congratulò con
se stesso per aver risolto il problema di
come far ascoltare alle quattro donne i
nastri che aveva registrato. Avrebbe
messo il registratore nella toilette per
signore accanto alla cucina, dove
c’erano un tavolo da toletta e un
panchetto per le ospiti che avessero
desiderato
ritoccarsi
trucco
o
pettinatura. Avrebbe dato le cassette a
Nina, Regina e Alison dicendo loro che
forse avrebbero trovato interessante
riascoltare le conversazioni che avevano
fatto in macchina, proponendo quindi
loro di distruggerle in cambio di
cinquantamila dollari ciascuna.
Si sarebbero fatte prendere dal
panico, tutte e tre, ne era certo. In
automobile Claire non aveva aperto
bocca, quindi non c’era una cassetta
anche per lei. Eppure Josh era pronto a
scommettere che fra tutte era quella con
più segreti da rivelare.
Era in possesso del messaggio
suicida che Regina aveva nascosto nella
borsetta. All’inizio era stato indeciso se
consegnarlo al signor Rob o tentare di
trovarne un utilizzo più proficuo. Poi era
giunto a una conclusione che lo
accontentava del tutto: chiedere a
Regina centomila dollari per averlo
indietro, magari anche qualcosa di più,
spiegandole che, se avesse rifiutato, si
sarebbe rivolto direttamente alla polizia.
Quel messaggio avrebbe con tutta
probabilità allontanato ogni sospetto dal
signor Rob, Jane e le sue tre amiche.
E se lui avesse consegnato quel
documento al capo della polizia sarebbe
stato un eroe e un bravo cittadino. Ma
alla polizia gli avrebbero magari chiesto
cosa gli fosse venuto in mente di frugare
nelle borsette delle signore e a una
domanda del genere non aveva pronta
una risposta convincente, perciò si
augurava di non doversene inventare
una.
Quella mattina il signor Rob non lo
aveva mandato a prelevare nessuna
delle quattro. Invece, in un tono un po’
indispettito, gli aveva ordinato di
mettersi a sua disposizione appena
avesse finito in officina, nel caso
decidesse di andare in ufficio.
Il padrone era evidentemente
contrariato dalla presenza di tutta quella
gente in giro per casa. Non solo
resuscitava un sacco di vecchi ricordi,
rifletteva Josh, ma faceva riemergere in
primo piano il fatto inconfutabile che lui
stesso era indiziato per la morte della
moglie, per quanto disperatamente
desiderasse scagionarsi.
Anche lui come Jane era riuscito a
dare un’occhiata al testamento del suo
padrone quando lo aveva lasciato sulla
scrivania. Donava dieci milioni di
dollari a Harvard da usare per borse di
studio da assegnare a studenti meritevoli
e cinque milioni al Waverly College,
dove aveva ricevuto un dottorato ad
honorem e aveva già intestato la
biblioteca a se stesso e Betsy.
Al Waverly aveva studiato Alison
Schaefer. Josh ricordava che era stata la
migliore delle quattro, come studentessa,
e di aver spesso annunciato di voler
proseguire con una specializzazione in
medicina. Però poi aveva sposato Rod
Kimball quattro mesi dopo il Gala.
Josh si era sempre chiesto perché
quella sera non si fosse fatta
accompagnare da Rod. Chissà, forse
avevano litigato.
Mentre un meccanico andava a
informarlo che l’auto era pronta, Josh
concluse il corso delle sue riflessioni. Il
signor Rob doveva essere molto malato
se si era preso la briga di formalizzare
le sue volontà riguardo al suo
patrimonio.
Ma mentre montava in macchina e
ripartiva verso la villa, non poté fare a
meno di pensare che se il signor Rob
aveva
deciso
di
acconsentire
all’allestimento di quel programma
potevano esserci più ragioni di quante
risultassero evidenti.
44
COSTRETTO in un letto d’ospedale, Leo
Farley sentiva crescere in sé
l’insofferenza con il passare di ogni
minuto. Guardò sdegnato l’ago che gli
avevano infilato nel braccio sinistro e il
flacone che gli pendeva al di sopra della
testa. Aveva un monitor cardiaco fissato
al petto e quando aveva cercato di
alzarsi, era arrivata subito di corsa
un’infermiera. «Signor Farley!» lo
aveva ammonito. «Non può andare in
bagno
da
solo.
Deve
farsi
accompagnare. Le è solo concesso di
chiudere la porta.»
Ma quanta generosità, pensò con
sarcasmo. Poiché però non era giusto
prendersela con il messaggero, la
ringraziò e le permise suo malgrado di
seguirlo fino alla porta della toilette.
Alle nove del mattino, quando andò a
vederlo il medico, Leo aveva fatto il
pieno. «Senti», lo aggredì, «posso
andare via da qui senza avvertire mia
figlia. Mi ha visto ieri sera prima che
venissi in ospedale, quindi so che non si
aspetta di conferire con me prima del
tardo pomeriggio di oggi. Ha ancora due
giorni per finire il suo programma ed è
sotto pressione perché per lei è
fondamentale che abbia successo. Se le
dico che sono in ospedale, si
preoccuperà
terribilmente
e
probabilmente finirà per correre qui
invece di portare a termine lo show.»
Il dottor James Morris, un vecchio
amico, fu altrettanto energico. «Leo, tua
figlia si preoccuperà molto di più se ti
capitasse qualcosa. Chiamerò Laurie,
che comunque sa che vai soggetto a
queste tachicardie, e sarò più che
convincente nello spiegarle che la tua
aritmia si è ormai stabilizzata e che sarò
in grado di dimetterti tranquillamente
domattina. Cosa che posso fare prima
che la chiami tu questa sera. Sarai molto
più utile a lei e a tuo nipote se resterai
vivo e in salute che se te ne andassi in
giro rischiando un attacco cardiaco
fatale.»
Suonò il suo cercapersone. «Scusami
Leo, ma devo andare.»
«Tranquillo. Finiremo più tardi.»
Appena il dottor Morris se ne fu
andato, Leo chiamò Camp Mountainside
al
cellulare.
Si
fece
passare
l’amministrazione, e da lì il capo dei
sorveglianti, che aveva già conosciuto di
persona. «Sono il nonno rompiscatole»,
esordì. «Volevo sapere come se la sta
cavando Timmy. Ha gli incubi?»
«No», rispose il sorvegliante. «A
colazione ho chiesto com’era andata e il
suo capocamerata ha detto che ha
dormito per nove ore filate senza mai
muoversi.»
«Questa è veramente una bella
notizia», commentò Leo rinfrancato.
«Non deve stare in pensiero, signor
Farley. È in ottime mani. Come sta lei,
piuttosto?»
«Potrei stare meglio», brontolò Leo.
«Sono al Mount Sinai Hospital per un
attacco di fibrillazione cardiaca. E non
sto mai bene quando non sono in grado
di vegliare su Timmy in ogni minuto del
giorno.»
Leo non poteva sapere che in quel
momento il suo interlocutore stava
pensando che, considerata la tensione in
cui era vissuto in quegli ultimi cinque
anni, non c’era da meravigliarsi se il suo
cuore ogni tanto impazziva. Udì invece e
con gratitudine le sue rassicurazioni: «Si
riguardi, signor Farley. Noi avremo cura
di suo nipote, promesso».
Due ore dopo, quando ascoltò la
registrazione, Occhi Blu si felicitò con
se stesso. Mi ha offerto un ponte d’oro,
pensò. Adesso non dubiteranno mai di
me.
45
NEI ventinove anni trascorsi al servizio
di Powell, Jane Novak aveva sempre
indossato la stessa divisa nera con il
grembiule bianco.
Anche i capelli erano acconciati
sempre alla stessa maniera: pettinati
all’indietro e raccolti in una crocchia
ordinata. L’unica differenza era che ora
erano striati di grigio. Jane non aveva
mai usato maquillage e subì con sdegno
l’aggressione di Meg Miller che voleva
applicarle un velo di fard e un po’ di
eyeliner agli occhi. «Signora Novak, è
solo perché i riflettori la faranno
apparire troppo bianca e lucida», le
spiegò Meg. Ma Jane non volle saperne.
«So di avere una bella pelle», dichiarò,
«ed è proprio perché non ho mai usato
quella robaccia.»
«Naturalmente, certo, come vuole
lei», rispose Meg, mentre pensava senza
aggiungerlo che effettivamente la
carnagione di Jane era invidiabile. E lo
era in generale tutto il suo viso: non
fosse stato per la piega all’ingiù agli
angoli della bocca e l’espressione quasi
accigliata, Jane Novak sarebbe stata una
donna molto attraente.
Toccò quindi a Claire accettare solo
il minimo di trucco assolutamente
indispensabile. «Io non lo metto mai», si
schermì. «Sarebbe sprecato», aggiunse
poi con amarezza. «Tanto nessuno mi
guarda. Le attenzioni erano tutte per mia
madre.»
Regina era così nervosa che Meg
poté solo applicarle un correttore sulla
fronte per nascondere le goccioline di
sudore.
Alison, molto silenziosa si sottopose
al trucco senza fiatare. «Solo quel
minimo per spegnere il riflesso delle
luci», le disse Meg e ricevette in cambio
un’alzata di spalle.
«Io sono un’attrice», dichiarò Nina
Craig. «So cosa succede con le luci.
Faccia del suo meglio.»
Poco poté fare Courtney, la
parrucchiera, salvo avvicinarsi il più
possibile all’acconciatura che avevano
le quattro donne nella foto vecchia di
vent’anni.
In attesa dell’arrivo delle sue star,
Laurie, Jerry e Grace si occupavano
degli ultimi ritocchi all’ambientazione
nello studio di Powell.
In un angolo, fuori della portata delle
telecamere, era stato collocato un
cavalletto con un ingrandimento della
foto delle quattro neolaureate e Jane
scattata vent’anni prima dal fotografo
della polizia. Sarebbe servito come
riferimento nel piazzare le intervistate. Il
cameraman, il suo assistente e il tecnico
delle luci avevano già preparato le loro
postazioni. Tre delle ragazze erano
sedute sul grande divano e davano
l’impressione di confortarsi stringendosi
l’una all’altra. Ai lati del tavolino
davanti al divano c’erano due poltrone.
Una di esse era occupata da Jane Novak,
la faccia sconvolta, gli occhi luccicanti
di lacrime non versate. Di fronte a lei
sedeva
Claire
Bonner
con
un’espressione contemplativa, ma senza
dare segni visibili di cordoglio.
Alex Buckley sedeva nella poltrona
di pelle accanto alla porta che Powell
usava spesso dopo cena e da lì
osservava con interesse i preparativi in
corso. «È una poltrona reclinabile»,
aveva spiegato Jane a Laurie. «Al signor
Powell piace abbassare lo schienale in
maniera da alzare i piedi. Il dottore gli
ha detto che fa bene alla circolazione.»
È una gran bella stanza, giudicò Alex
con ammirazione. Rivestimenti con
pannelli di mogano alle pareti a fare da
contorno ai vivaci disegni del tappeto
persiano. Il televisore a parete era
inserito al centro della libreria, sopra il
caminetto. Oltre all’angolo con il divano
e le poltrone dove si trovavano ora le
protagoniste dello show e Jane Novak,
c’era una seconda zona conversazione
più circoscritta con una poltrona di pelle
e un altro divano. A destra del divano
dove sedevano le donne, c’era la porta a
vetri scorrevole che dava nel patio e che
secondo Jane era quella dalla quale
erano uscite e rientrate le ragazze
quando la notte del Gala si erano
ritrovate a fumare una sigaretta insieme.
La porta che poi si erano dimenticate di
bloccare.
Secondo il referto della polizia, la
mattina seguente i posacenere sul tavolo
del patio erano pieni zeppi. Jane aveva
riferito che nel contenitore per la
raccolta dei vetri c’erano almeno tre
bottiglie da vino vuote e lasciate lì dopo
che lei e il personale del catering
avevano portato via tutto, finita la festa.
Alex ascoltò Laurie che spiegava alle
protagoniste come si sarebbe svolta la
seduta fotografica. «Come sapete,
vogliamo che questa ripresa faccia da
introduzione, con voi che indossate
praticamente gli stessi vestiti di quella
mattina e occupate gli stessi posti di
allora. Poi Alex Buckley vi intervisterà
separatamente nei posti in cui siete
adesso chiedendovi di raccontare che
cosa pensavate e che emozioni
provavate. Parlavate tra di voi? Dalla
vecchia foto sembra di no.»
Fu Nina a rispondere per tutte. «Non
abbiamo praticamente detto una sola
parola», rispose. «Eravamo tutte troppo
scioccate.»
«Posso ben capirlo», annuì Laurie.
«Dunque dovete semplicemente mettervi
dov’eravate
e
cominceremo
a
fotografare. Non guardate l’obiettivo.
Guardate la foto sul cavalletto e cercate
di assumere la stessa posizione.»
Dalla sua postazione vantaggiosa
dietro una delle telecamere, Alex
Buckley sentì crescere la tensione, la
stessa che provava anche lui in un’aula
di giustizia quando veniva chiamato alla
sbarra un testimone importante. Sapeva
che Laurie Moran stava cercando di
creare il massimo impatto drammatico
inserendo nel video entrambe le foto, ma
sapeva anche che il suo scopo finale era
di stabilizzare le quattro donne e Jane
spingendo una o l’altra a fare qualche
dichiarazione
che
fosse
in
contraddizione con quanto risultava agli
atti dell’inchiesta. Alex vide entrare
silenziosamente Meg, la truccatrice, e
fermarsi in disparte armata della sua
valigetta di cosmetici. Sapeva che si
teneva pronta a intervenire nel caso che
la faccia di qualcuno fosse risultata
troppo lucida.
Osservò piacevolmente meravigliato
come le quattro donne apparissero
ancora giovanili e fossero riuscite a
mantenere una bella linea e pensò che
Nina, che non dimostrava nemmeno
trent’anni, dovesse aver lavorato sodo
per ottenere quel risultato. Sconcertante
il fenomeno di Claire Bonner, che solo
ieri era apparsa irresistibile e
terribilmente somigliante alla madre, e
adesso, al confronto, era così
terribilmente scialba. A che razza di
gioco stava giocando?
«Bene,
possiamo
cominciare»,
annunciò Laurie. «Grace, quel cuscino
dietro Nina è un po’ troppo a destra.»
Grace lo spostò. Laurie guardò di nuovo
nel mirino della fotocamera e fece
finalmente un cenno al fotografo, che si
mise al lavoro, gli scatti si susseguirono
a ripetizione con sporadici interventi di
Laurie.
«Alison, cerca di non girarti verso
sinistra. Nina, tirati indietro come sei
seduta nella foto originale, se no sembra
che ti stia mettendo in posa. Jane, tu gira
un pochino la testa di qui.»
Dopo
trentacinque
minuti
di
fotografie, Laurie si ritenne soddisfatta
del materiale raccolto. «Grazie di cuore
a tutti quanti», disse in tono gioviale.
«Ci prendiamo una piccola pausa, poi
Alex comincerà le interviste. Claire, tu
sarai la prima. Torneremo nello studio e
voi due vi siederete uno davanti all’altro
nelle poltrone che state occupando
adesso tu e Jane. Gli altri avranno un po’
di tempo da riempire. Nello spogliatoio
ci sono quotidiani e riviste, ma è una
bellissima giornata e immagino che
avrete voglia di stare nel patio, no?»
L’una dopo l’altra si alzarono tutte in
piedi. Jane fu la prima a dirigersi alla
porta. «Metto fuori gli snack e vi
avverto quando è tutto pronto»,
annunciò. «Potete consumarli fuori o
nella saletta della prima colazione. Si
pranza all’una e mezzo.»
46
IL capo della polizia locale Ed Penn non
si era reso conto di quanto lo avesse
influenzato la viva preoccupazione di
Leo per la sicurezza della figlia durante
le riprese di Under Suspicion.
L’aver fatto piazzare un’auto di
pattuglia dietro la casa non gli bastava e
alla fine decise di andare a fare un
sopralluogo di persona. Confessò a se
stesso di essere più che curioso di
vedere che aspetto avessero vent’anni
dopo le neolaureate del Graduation
Gala.
Erano le dieci circa quando, dopo
aver
controllato
l’appostamento
dell’auto di pattuglia, Penn decise di
entrare nella proprietà e conoscere
Laurie Moran. Naturalmente non le
avrebbe detto niente delle ansie di suo
padre, ma d’altra parte Laurie era già
abbastanza occupata con le sei persone
che si trovavano in casa la notte in cui
Betsy Powell era stata assassinata. E
Penn era convinto che l’assassino fosse
uno di loro.
Robert Powell aveva avuto un
collasso e lo avevano trovato con le
mani gravemente ustionate dal caffè
ancora bollente che stava portando alla
moglie. Ciononostante avrebbe potuto
benissimo ucciderla calcolando che
qualche bruciatura alle mani fosse un
prezzo modesto da pagare per sembrare
innocente.
Penn sapeva bene che il padre di
Regina si era tolto la vita per via di un
investimento fallimentare nelle attività
finanziarie di Powell. Era comprensibile
che la figlia avesse sviluppato odio per
l’uomo che era stato la causa indiretta
della morte del genitore. E Penn era
sicuro che quando aveva sostenuto che
non c’era nessun messaggio suicida
Regina avesse mentito. Aveva solo
quindici anni, ma aveva retto a un
interrogatorio particolarmente pesante
con uno stoicismo che era indice di
un’ostinazione da donna adulta.
Claire Bonner era un enigma. Era
stato lo choc a renderla così impassibile
dopo la morte della madre? Penn era
stato al funerale. Aveva visto Robert
Powell con la faccia inondata di
lacrime, ma aveva visto anche Claire
calma, quasi distaccata, padrona di sé,
come si suol dire.
Di Nina Craig sapeva poco, solo che
sua madre la rimproverava in
continuazione per aver presentato Betsy
Bonner a Robert Powell.
Alison Schaefer era quella che
sembrava avere meno motivi di rancore
verso Betsy. Si era sposata quattro mesi
dopo la morte della Bonner e all’epoca
Rod era ancora un astro nascente nel
mondo del football americano.
Davanti all’ingresso si rallegrò di
vedere che non c’erano fotografi in
agguato. La guardia lasciò passare la sua
automobile e l’autista, un poliziotto
entrato in servizio da poco, si fermò
dietro i pulmini. «Ci metto poco», lo
informò Penn incamminandosi verso il
patio dove aveva visto un gruppo di
persone riunite a fare colazione.
Laurie gli andò incontro e lo
accompagnò dagli altri. Quando fu più
vicino, Penn riconobbe immediatamente
le quattro ex neolaureate. Erano sedute
allo stesso tavolo con il marito di
Alison e tutte alzarono gli occhi su di lui
quando lo videro arrivare, in un primo
momento sorprese, poi diffidenti. Regina
però fu la sola a sussultare quasi che
avesse ricevuto uno schiaffo.
Fu a lei che si rivolse per prima.
«Regina, non so se si ricorda di me»,
esordì.
«Sì, certo che mi ricordo», rispose
lei.
«Come va?» proseguì imperterrito
Penn. «Mi ha addolorato venire a sapere
della morte di sua madre quando si era
appena trasferita in Florida.»
Regina fu sul punto di rispondere che
sua madre era stata stroncata dal
crepacuore perché non si era mai fatta
una ragione della morte di suo marito,
ma si trattenne temendo di dare al
poliziotto uno spunto per riaprire la
questione del messaggio suicida. O Penn
è qui adesso perché ne è già in
possesso? si chiese. Sperando che non
le tremasse la mano, Regina prese il suo
bicchiere di tè freddo e cominciò a bere
mentre il capo della polizia salutava le
sue amiche.
Finito con loro, Penn si dedicò al
tavolo al quale sedevano Laurie, Alex
Buckley, Muriel Craig, Jerry e Grace.
«Tra pochi minuti Alex intervisterà
Regina su quel che ricorda di quella
notte e del mattino seguente», spiegò
Laurie. «Domani sera, dopo il tramonto,
riprenderemo le laureate in abito da sera
mentre sullo sfondo faremo scorrere i
video girati la sera della festa. Se
desidera venire ad assistere, sarà un
piacere.»
Fu in quel momento che nel patio
apparve Robert Powell. «Ho dovuto
dedicare un po’ di ore al lavoro», si
giustificò. «Quando si dirige un fondo
d’investimento non si possono staccare
gli occhi dall’andamento del mercato
neppure per un minuto. Come va, Ed? È
qui per proteggerci l’uno dall’altro?»
«Non credo che sia necessario,
signor Powell.»
Powell sorrideva e si comportava
con apparente naturalezza, ma Penn
scorse i segni della fatica sotto i suoi
occhi e notò la pesantezza dei suoi
movimenti quando si sedette al tavolo e
rifiutò con un cenno della testa il
sandwich che Laurie gli offriva dal
piatto portato da Jane. Muriel, che non
aveva mai smesso di lamentarsi di non
aver niente da fare, si rianimò
all’istante.
«Rob, caro», squittì, «hai lavorato
abbastanza per oggi. Perché tu e io non
facciamo un salto al club per due colpi
di golf? Me la cavavo piuttosto bene,
sai? Affitterò i bastoni al club e, giusto
in caso fossi riuscita a convincerti, ho
pensato bene di portarmi dietro un paio
di scarpe da golf.»
Laurie si aspettava un secco rifiuto,
ma Powell la sorprese sorridendo.
«Questa è l’idea migliore che ho sentito
in tutta la mattinata», dichiarò. «Ma
purtroppo devo rimandare l’invito a un
momento migliore. Ho ancora troppo da
fare in ufficio.» Fece una pausa, poi girò
lo sguardo su Laurie. «Suppongo che lei
non abbia niente per me oggi, giusto?»
«Giusto, signor Powell. Alex
intervisterà le ragazze, una alla volta. E
per finire anche Jane, se avremo ancora
tempo.»
«Quanto ci vorrà per le interviste?»
volle sapere Powell. «Suppongo che
siamo nell’ordine dei dieci minuti
ciascuna.»
«Sarà più o meno da quelle parti»,
confermò Laurie. «Ma Alex vuole
parlare con ciascuna di loro per almeno
un’ora. Non è così, Alex?»
«Sì, infatti.»
«Signor Rob», intervenne Jane,
«sicuro di non voler mangiare qualcosa?
Non ha nemmeno fatto colazione.»
«Jane è encomiabile nel modo in cui
si prende cura di me», dichiarò Powell
ai presenti. «Certe volte, anzi, è quasi
come una chioccia.»
Non esattamente un complimento,
pensò Laurie. Vide che era della stessa
idea anche Jane, a giudicare da come
arrossì.
«Confidenza toglie riverenza», sbottò
Muriel lanciando un’occhiata a Jane
mentre Robert Powell si alzava e
rientrava in casa.
Senza una parola, Jane si girò e andò
all’altro tavolo, quello dove sedevano le
donne con Rod. Tutte rifiutarono altro
caffè e a quel punto Laurie si alzò. «Se
non lo sapevate già, immagino che ormai
ve ne siate rese conto. Nel nostro
mestiere la maggior parte del tempo la si
passa ad aspettare. Alex comincerà con
Claire. Quando avrà finito, Claire potrà
tornare in albergo e lo stesso vale per
tutte le altre. Calcolate un’oretta
ciascuna.»
Si alzò anche Penn. «Se qualche
curioso dovesse diventare troppo
insistente o altri vi dovessero dare delle
noie mentre girate», esortò Laurie, «mi
faccia subito un fischio.» Le porse il suo
biglietto da visita.
«Qui comincia a far caldo», disse
Rod ad Alison. «Immagino che non
siamo stati invitati a occupare il
soggiorno», aggiunse con sarcasmo, «e
lo studio serve per le riprese. Ma forse
possiamo andare nella saletta della
prima colazione. Le sedie che ci sono lì
sono sicuramente comode.»
«Claire», le si rivolse Laurie,
«guardi che dovrebbe veramente
mettersi un po’ più di trucco. Con le
ciglia e le sopracciglia così chiare
risulterà smorta nel video. Bisogna che
si faccia ravvivare un tantino il
colorito.» Allungò lo sguardo in
direzione del pulmino del trucco. «La
stanno aspettando», aggiunse. Poi, con
un breve cenno del capo, andò verso la
casa e aprì la portafinestra che dava
nello studio.
Penn indirizzò un gesto al suo autista
e s’incamminò verso la macchina.
Notò solo di sfuggita Bruno, che
perlustrava meticolosamente il giardino
in cerca di pezzi di carta o zolle
scomposte. Ne vide solo il profilo e
soltanto per un attimo, ma mentre saliva
in macchina avvertì una confusa
sensazione
di
disagio
salirgli
dall’inconscio. Una vocina gli diceva:
Io dovrei conoscere quel tizio, ma
perché?
Mentre seguiva Laurie nello studio,
lo stesso identico pensiero affiorò alla
mente di Alex Buckley: Dovrei
conoscere quel tizio, ma perché? Alex
esitò, poi estrasse di tasca il cellulare e
scattò una foto. Prese nota mentalmente
di farsi dire come si chiamava dalla
ditta per cui lavorava e di inoltrare il
nome al suo investigatore.
Per la prima volta le quattro donne
rimasero sole e Josh, che aveva aiutato
Jane a servire il caffè, vide presentarsi
la sua occasione. «Ho un regalo per tre
di voi», annunciò. «Eccetto Claire.» La
guardò. «Ho cercato di parlarle in
macchina, ma lei non ha voluto darmi
retta.» Si girò verso le altre. «Qui c’è un
nastro che credo che tutte voi troverete
molto interessante, in particolare lei,
Regina. Non è che per caso le sia venuto
a mancare qualcosa che fortuitamente io
ho trovato?»
Consegnò buste personali a Regina,
Alison e Nina. «Nel cassetto del tavolo
da toletta del bagno per signore vicino
alla cucina c’è un registratore», le
informò. «Perché non scambiamo due
chiacchiere dopo che tutte e tre avrete
ascoltato i nastri?»
Poi raccolse sul vassoio le tazze che
erano state usate per il caffè. «Ci
vediamo più tardi», concluse in un tono
fiducioso nel quale lasciò vibrare una
lieve eco di minaccia.
47
SICCOME l’ufficio si trovava di fianco
allo studio, dove si stava svolgendo il
grosso delle attività relative al
programma, Robert Powell decise di
salire nella suite che aveva condiviso
con Betsy nei nove anni del loro
matrimonio. Jane lo seguì con dell’altro
caffè fresco in ottemperanza a una
richiesta ricevuta in malo modo. Poi,
preso atto del suo cattivo umore, chiuse
la porta tra camera da letto e salotto per
poter rigovernare in fretta e in silenzio.
Rinunciò a passare l’aspirapolvere
perché sapeva che il rumore lo avrebbe
irritato. Appena finito, tornò di sotto.
Robert si stava chiedendo ancora una
volta se invitando le ragazze, o per
meglio dire le donne, si corresse con
una punta di malignità, a inscenare
quello che era avvenuto vent’anni prima
non fosse stato un terribile errore. Era
stata forse la prognosi del suo medico a
spingerlo a prendere quella decisione?
O era stato un desiderio perverso di
rivederle, di manipolarle come Betsy le
aveva manipolate tanti anni prima?
Aveva assorbito la personalità di Betsy
al punto da aver perso ogni connotazione
della propria anche se erano passati
vent’anni? Ciascuna di loro aveva avuto
un buon motivo per uccidere Betsy, lo
sapeva. Interessante sarebbe stato
vedere se una di loro avrebbe ceduto
alle domande di Alex Buckley. Era
sicuro che Buckley fosse in grado di
accorgersi di risposte preconfezionate.
C’era da aspettarsi che tutte e quattro
avessero preparato con cura che cosa
dire nei loro colloqui separati con
Buckley. Era altresì sicuro che
avrebbero cominciato tutte con le prime
impressioni avute di ciò che avevano
visto quando erano arrivate di corsa
nella stanza di Betsy dopo averlo sentito
gridare.
Era come se fosse solo ieri quando
era entrato in quella camera con il caffè
che Betsy pretendeva fosse bollente
«perché diffonda l’aroma dei chicchi».
Robert Powell si guardò le brutte
cicatrici che aveva sulle mani e che si
era procurato quando, varcando la
soglia della stanza di Betsy, aveva visto
il cuscino che le copriva la faccia. Da
sotto si allungavano a raggiera i suoi
lunghi capelli biondi e le sue mani erano
ancora aggrappate agli orli. Era evidente
la lotta che aveva ingaggiato per
liberarsi.
Ricordò di aver urlato il suo nome e
di aver cercato invano di non rovesciare
il caffè prima che gli avessero ceduto le
ginocchia. Ricordava Jane che si
chinava su di lui in un goffo tentativo di
rianimarlo,
mentre
le
ragazze
circondavano il letto come fantasmi. Poi
più niente, fino a quando si era svegliato
in ospedale, cosciente solo del dolore
alle mani, invocando ancora il nome di
Betsy.
Sospirò. Era ora di tornare giù,
aveva
ancora
alcune
telefonate
importanti da fare. Ma esitò ancora un
momento riflettendo su cosa avrebbe
potuto raccontare Claire a Buckley.
Si accorse che quello che gli era
sembrato divertente non lo era più.
Adesso la sola cosa che desiderava era
che quelle donne se ne andassero da
casa sua e gli consentissero di
riprendere quel poco tempo che ancora
gli restava della sua vita piacevole e
solitaria.
48
ALEX sedeva di fronte a Claire Bonner
al tavolo dello studio. Ancora una volta
Claire aveva impedito a Meg Miller di
ritoccarle ciglia e sopracciglia. Ora,
guardandola, Alex trovava impossibile
vedere in lei qualcosa della donna
affascinante che aveva visto entrare in
quella casa solo il giorno prima.
Ma non gli era difficile capire che
cosa ci fosse di diverso. Le lunghe
ciglia e le sopracciglia ben disegnate di
Claire erano estremamente chiare, come
del resto la sua carnagione. Non portava
rossetto ed era presumibile che avesse
usato qualche espediente per spegnere i
naturali riflessi dorati dei capelli. Ma
scoprirò qual è il suo gioco, pensò e le
rivolse un sorriso d’incoraggiamento
mentre, dietro i tecnici, Laurie
comandava: «Azione», e si accendeva la
spia rossa della telecamera.
«Mi trovo qui nell’abitazione del
finanziere Robert Nicholas Powell»,
cominciò, «la cui bella moglie, Betsy
Bonner Powell, fu assassinata vent’anni
fa alla fine di un Graduation Gala
organizzato in onore di Claire, la figlia
di Betsy, e delle sue tre più care amiche
neolaureate come lei. Claire Bonner è
con me in questo momento. Claire, so
che trovarvi qui oggi dev’essere
straordinariamente difficile per tutte voi.
Ma, mi dica, perché lei ha accettato di
partecipare al programma?»
«Perché per questi ultimi vent’anni»,
dichiarò con slancio Claire, «io e le
altre ragazze e, in minor misura il mio
patrigno e la governante, non abbiamo
mai smesso di essere sospettate della
morte di Betsy, o di essere, come usa
dire oggi, ‘persone informate dei fatti’.
Ha idea di che cosa significhi entrare in
un supermercato e vedere la propria foto
sulla copertina di qualche rivista
dozzinale con scritto in grande: ‘ERA
GELOSA DELLA SUA BELLA MADRE’?»
«No, non credo», rispose sottovoce
Alex.
«O magari c’è la foto di tutte e
quattro schierate, come se fossimo alla
polizia e ci stessero scattando foto
segnaletiche. Ecco perché siamo qui
oggi, perché vogliamo che la gente si
renda conto di quanto ingiustamente noi
quattro giovani donne, traumatizzate in
maniera indicibile e psicologicamente
brutalizzate dalla polizia, siamo state
trattate. È per questo che sono qui ora
io, signor Buckley.»
«E presumo che sia la stessa ragione
per cui sono qui anche le sue amiche»,
aggiunse Alex Buckley. «Avrete avuto
molto da raccontarvi l’una con l’altra,
non è vero?»
«Per la verità non abbiamo avuto
molto
tempo
per
questo»,
lo
contraddisse Claire. «So che è perché
non volevate che ci accordassimo sulle
nostre dichiarazioni. E a questo
proposito desidero chiarirle fin da
subito che non c’è stato niente da
confrontare o verificare tra di noi come
potrete scoprire voi stessi. Le nostre
versioni restano quelle di sempre per il
semplice fatto che eravamo tutte insieme
al momento in cui è successo tutto.»
«Claire, prima di parlare della morte
di sua madre, vorrei tornare un po’
indietro nel tempo. Perché non
cominciamo da quando sua madre
conobbe Robert Powell? Se non sbaglio
vivevate a Salem Ridge da poco tempo.
È così?»
«Sì, è così. Io avevo finito le medie
in giugno e mia madre voleva trasferirsi
a vivere nella contea di Westchester.
Posso confessare con franchezza che
sapevo del suo desiderio di conoscere
un uomo ricco. Aveva trovato da
affittare in una villetta bifamigliare e le
posso assicurare che non ci sono molte
villette bifamigliari a Salem Ridge.
«In settembre ho cominciato il liceo
ed è stato allora che ho stretto amicizia
con Nina, Alison e Regina. Io compio
gli anni in ottobre e quell’anno mia
madre ha voluto fare una follia e mi ha
portato al La Boehm di Bedford.
C’erano anche Nina Craig con sua
madre. Nina ci ha visto e ci ha chiesto di
andare al loro tavolo a conoscere sua
madre. Naturalmente così facendo
abbiamo conosciuto anche Robert
Powell, che era con loro. Io credo che
sia stato amore a prima vista per
entrambi, dico tra mia madre e Robert.
So che la madre di Nina non ha mai
digerito che ‘Betsy mi abbia rubato Rob
quando stavamo per fidanzarci’, per
usare le sue parole.»
«Suo padre abbandonò lei e la madre
quando lei era ancora molto piccola.
Come ha potuto sua madre occuparsi di
lei pur lavorando a tempo pieno?»
«Nei miei primi tre anni di vita c’era
ancora la nonna», rispose Claire e
subito, a quel ricordo, le si inumidirono
gli occhi. «Poi ci sono state alcune
babysitter, una via l’altra. Se per
qualche motivo quella di turno non
poteva venire, la mamma mi portava al
teatro e io dormivo in una poltrona vuota
o certe volte in un camerino libero se il
cast non era molto numeroso. In un modo
o nell’altro ce la siamo cavata. Ma poi
la mamma ha conosciuto Robert Powell
e naturalmente è cambiato tutto.»
«Lei e sua madre eravate molto
affezionate l’una all’altra, vero? Ha mai
provato gelosia nei suoi confronti per il
fatto che Robert Powell fosse entrato
così all’improvviso nella vostra vita e
le avesse sottratto gran parte del tempo e
delle attenzioni che le dedicava sua
madre?»
«Io volevo che fosse felice. Lui era
un uomo molto ricco. Dopo che eravamo
vissute
sempre
in
modesti
appartamentini, trasferirci in questa
splendida villa per noi fu quasi come
salire in paradiso.»
«Quasi come un paradiso?» s’affrettò
a chiedere Alex.
«In tutto e per tutto come un
paradiso», si corresse Claire.
«Dunque quello per lei fu un anno
molto speciale, Claire, con un primo
cambio di residenza, l’inizio del liceo,
il matrimonio di sua madre e il
trasferimento in questa casa.»
«Uno stravolgimento», ammise Claire
con un abbozzo di sorriso. Se solo
sapessi, pensò intanto. Se solo sapessi!
«Claire, che rapporti aveva stabilito
con Robert Powell?»
Claire lo guardò dritto negli occhi.
«Rapporti di stretta vicinanza fin dal
principio», dichiarò lei. Oh, stretta
vicinanza davvero, pensò, ricordando
come tendeva l’orecchio aspettando di
sentir aprirsi la porta della sua stanza.
Alex Buckley sapeva che dietro le
sue risposte pacate Claire stava
cercando di tenere nascosti i tizzoni
ancora infuocati di una collera
tumultuosa. Non era tutto rose e fiori in
questa casa, pensò mentre decideva di
cambiare regime. «Claire, parliamo un
po’ del Gala. Che tipo di serata è stata?
Quanta gente c’era? Naturalmente
abbiamo queste informazioni nella loro
forma ufficiale, ma mi piacerebbe
sentire la sua impressione personale.»
Come aveva previsto, Claire
cominciò a rispondere con una serie di
frasi appositamente studiate. «È stata
una serata perfetta», replicò. «Tanto per
cominciare il clima era assolutamente
delizioso, sui venticinque gradi se
ricordo bene. C’era una band a suonare
nel patio e uno spazio per ballare.
C’erano postazioni dappertutto dove
servirsi di ogni genere di manicaretti.
Vicino alla piscina c’era un tavolo con
delle splendide decorazioni. Come
centrotavola c’era una grande torta
rettangolare con sopra tutti i nostri nomi
e gli stemmi dei nostri rispettivi quattro
college nei loro colori originali.»
«Lei aveva scelto di restare a casa
mentre frequentava il Vassar, non è vero,
Claire?»
Di nuovo Alex scorse negli occhi di
Claire un’espressione che non riuscì a
decifrare. Che cosa c’era dietro?
Rabbia, delusione, l’una e l’altra?
Decise di seguire un’intuizione. «Claire,
provò dispiacere per non essersi
trasferita a vivere al campus come le sue
amiche?»
«Il Vassar è uno splendido college.
Può darsi che mi sia persa qualcosa
dell’esperienza del campus tornando a
casa tutti i giorni, ma tra me e mia madre
c’era un legame molto stretto ed ero
felice di non separarmi da lei.»
Il sorriso di Claire sembrò più un
sogghigno, ma si riprese subito. «Alla
festa ci siamo divertite un mondo»,
continuò. «Poi, come sa, le mie amiche
sono rimaste per la notte. Quando se ne
sono andati tutti gli invitati, ci siamo
messe in pigiama e siamo scese nello
studio in vestaglia a bere del vino.
Molto vino. E a spettegolare sulla festa,
come si fa tra ragazze.»
«E nello studio c’erano anche sua
madre e il signor Powell?»
«Rob ci augurò la buonanotte subito
dopo aver salutato gli ultimi ospiti. Mia
madre rimase con noi per qualche
minuto, ma poi disse di volersi
rilassare. ‘Voglio mettermi comoda
anch’io come voi’, annunciò. Salì in
camera e tornò giù in camicia da notte e
vestaglia.»
«E si trattenne a lungo?»
Per un momento sulle labbra e negli
occhi di Claire apparve un sorriso vero.
«Mia madre non era una che beveva
molto, non mi fraintenda, ma di sicuro
non le dispiaceva farsi un paio di
bicchieri di vino dopo cena. Quella sera
ne bevve forse tre prima di salire in
camera sua. Augurandoci la buonanotte
ci abbracciò e baciò tutte e quattro,
motivo per il quale tutte noi l’indomani
mattina avevamo alcuni suoi capelli e
quindi il suo DNA su pigiama e
vestaglie.»
«Le altre ragazze volevano molto
bene a sua madre, giusto?»
«Credo che la ammirassero.»
Alex sapeva che ciascuna di loro
aveva una ragione per odiare Betsy
Powell. Nina perché sua madre la
torturava per averle presentato Robert.
Regina perché suo padre aveva perso
tutti i soldi investendoli nel fondo di
Robert Powell. Alison perché Betsy
Bonner le aveva sottratto la borsa di
studio che le spettava per servirsene per
obiettivi personali. Robert Powell
aveva donato una grossa somma di
denaro al college di Alison. Quella
donazione non era stata dimenticata
quando la borsa di studio era stata
assegnata alla figlia della donna che
presiedeva un circolo, per entrare nel
quale Betsy era disposta a fare carte
false.
«Dopo che sua madre vi augurò la
buonanotte,
ebbe
occasione
di
rivederla?»
«Mi sta chiedendo se l’ho rivista
viva?» ribatté Claire, ma poi non attese
la sua risposta. «L’ultimo ricordo che ho
di mia madre viva», disse, «è del
momento in cui si girò e mandò un bacio
a tutte noi. È naturalmente un ricordo
molto
vivo.
Era
una
donna
straordinariamente bella. Indossava
sempre camicia da notte e vestaglia
coordinate. Quella sera erano di raso
celeste con rifiniture di pizzo color
avorio. Aveva i capelli sciolti sulle
spalle e sembrava estremamente felice
del grande successo che aveva avuto il
ricevimento. Quando l’ho rivista è stato
dopo che o Rob o Jane le avevano tolto
il cuscino dalla faccia. Aveva gli occhi
sbarrati e fissi nel vuoto. Una mano che
stringeva ancora l’orlo del cuscino. So
che doveva aver dormito profondamente
per via di tutto il vino che aveva bevuto,
ma ho sempre avuto l’impressione che
avesse lottato con tutte le forze.»
Alex notò che mentre parlava, la
voce di Claire era via via cambiata, il
suo tono si era fatto sempre più neutrale,
meccanico. Stringeva le mani l’una
nell’altra e il suo viso già pallido era
diventato esangue.
«Come ha saputo che era successo
qualcosa di terribile?» domandò Alex.
«Avevo sentito un urlo spaventoso
provenire dalla stanza di mia madre. In
seguito sono venuta a sapere che era
stato Rob a gridare. Era salito a portare
come al solito a mia madre il primo
caffè del mattino. Credo che stessimo
dormendo saporitamente tutte e quattro,
dato
che
avevamo
bevuto
e
chiacchierato fino alle tre di notte.
Siamo arrivate in camera di mia madre
più o meno tutte assieme. Jane doveva
aver sentito gridare Robert e ci aveva
precedute. Era in ginocchio accanto a
Robert, che era stramazzato a terra e si
dibatteva in preda al dolore. Credo che
si fosse lanciato sul letto per strappare il
cuscino dalla faccia di mia madre e che
si fosse versato il caffè bollente sulle
mani. Il cuscino era di fianco alla testa
di mia madre ed era macchiato di caffè.»
Alex vide la sua espressione
diventare improvvisamente gelida. Il
contrasto con quella che aveva assunto
quando aveva parlato della nonna era
impressionante.
«Poi cosa accadde, Claire?»
«Credo che a telefonare alla polizia
sia stata Alison. Ha strillato qualcosa
come:
‘Abbiamo
bisogno
di
un’ambulanza e della polizia! Betsy
Bonner Powell è morta! Credo che sia
stata assassinata!’»
«Che cosa avete fatto mentre
aspettavate?»
«Credo che non passarono più di tre
minuti prima che arrivassero ambulanza
e polizia. Poi fu il caos totale. Fummo
letteralmente scacciate dalla stanza di
mia madre. Ricordo che il capo della
polizia ci ordinò di rientrare nelle nostre
camere e di cambiarci. Ebbe la faccia
tosta di dirci che aveva preso
mentalmente nota di quello che avevamo
addosso e guai a noi se avessimo
cercato di sostituire quei pigiama con
altri indumenti da notte. Solo più tardi
abbiamo capito che quegli indumenti
sarebbero stati analizzati in cerca di
tracce di DNA che avrebbero potuto
incriminare una di noi.»
«Dunque avete indossato i jeans e le
T-shirt simili a quelle che avevate
quando vi hanno fotografato questa
mattina...»
«Sì. Dopo che ci siamo cambiate ci
hanno accompagnato da basso, qui nello
studio, dove ci hanno detto di aspettare
che ci chiamassero per essere
interrogate. Non ci hanno neppure
permesso di andare in cucina per un
caffè.»
«Lei è ancora molto arrabbiata per
tutto quello che accadde, non è vero,
Claire?»
«Sì, lo sono eccome», rispose lei con
la voce vibrante di sdegno. «Ma ci
pensi. Avevamo poco più di vent’anni. A
guardare indietro mi rendo conto che per
quanto ci sentissimo tutte cresciute solo
per esserci appena laureate, in realtà
eravamo soltanto bambine terrorizzate.
Gli interrogatori a cui ci sottoposero per
tutta quella giornata e nelle settimane
seguenti furono una versione farsa della
giustizia. Ci richiamarono non so più
quante volte alla stazione della polizia
ed è proprio per questo che sui giornali
cominciarono a definirci ‘indiziate’.»
«Lei chi pensa che sia stato a
uccidere sua madre, Claire?»
«C’erano trecento persone alla festa.
Ce ne sono alcune che non siamo state
capaci di riconoscere dalle foto e i
video che abbiamo raccolto. La gente
continuava a entrare e uscire dalla casa
per usare i bagni. Jane aveva appeso un
cordone ai piedi delle scale, ma
chiunque avrebbe potuto passarci sotto.
Quella sera mia madre portava la parure
di smeraldi. E chiunque avrebbe potuto
riconoscere qual era la sua stanza ed
essersi nascosto in una delle cabine
armadio. Io credo che qualcuno abbia
atteso fino a quando ha creduto che
stesse
dormendo
abbastanza
profondamente e sia uscito per prendere
gli smeraldi che aveva lasciato sul
tavolino. Poi può darsi, chissà, che mia
madre si sia mossa nel sonno e che il
ladro si sia spaventato e abbia cercato
di rimettere a posto gli smeraldi. Un
orecchino è stato trovato per terra. Io
credo che mia madre si sia svegliata e
che la persona che si trovava nella
stanza abbia cercato di impedirle di
chiamare aiuto nell’unico modo che
aveva a disposizione.»
«E dunque secondo lei quella
persona è l’assassino di sua madre?»
«Sì. E non dimentichi che avevamo
lasciato aperta la portafinestra del patio.
Eravamo fumatrici tutte e quattro e il
mio patrigno proibiva nella maniera più
rigorosa che si fumasse in casa.»
«È per questo che è così risentita per
il modo in cui gli organi di informazione
hanno riferito della morte di sua
madre?»
«Come potrei non esserlo?» ribatté
Claire a denti stretti. «Il motivo per cui
sono qui adesso è appunto per dirle che
nessuno di noi, Rob, Jane, Nina, Regina
e Alison, ripeto nessuno, ha avuto niente
a che fare con la morte di mia madre. Né
loro e nemmeno io.» La voce di Claire
si fece improvvisamente stridula: «E
nemmeno io!»
«Grazie,
Claire,
per
averci
raccontato quello che ricorda del giorno
terribile in cui perse la madre a cui era
così profondamente affezionata.»
Alex si allungò per stringerle la
mano.
Quella di Claire era madida di
sudore.
49
IL martedì mattina George Curtis si
destò com’era sua abitudine alle sei e
mezzo e sfiorò dolcemente con le labbra
la fronte di Isabelle, cercando di non
svegliarla. Sentiva forte il bisogno di
toccarla. Durante la notte si era
svegliato sovente e ogni volta le aveva
fatto scivolare il braccio dietro la
schiena. Poi la memoria lo trafiggeva
con una lama di rimorso: Anche Betsy
indossava sempre camicie da notte di
raso. Isabelle, era l’inevitabile pensiero
che seguiva subito dopo, ho rischiato di
perderti e c’è mancato così poco. Avevo
quasi buttato via la vita felice che avevo
vissuto con te e i nostri figli per quasi
vent’anni.
Quella nuova vita era cominciata la
mattina del Gala, quando Isabelle gli
aveva detto che era in attesa dei gemelli.
All’incredibile annuncio aveva fatto
seguito la richiesta di venticinque
milioni di dollari da parte di Betsy in
cambio del suo silenzio sulla loro
relazione. Glieli avrei anche dati,
rifletté George, ma sapevo che non
sarebbero mai bastati a eliminare la
minaccia che raccontasse tutto a
Isabelle, quello era solo l’inizio.
Questi erano i pensieri che ancora gli
affollavano la mente mentre faceva la
doccia, si vestiva e scendeva in cucina a
preparare il caffè. Si portò il caffè in
macchina, infilò il bicchiere nel
supporto e partì alla volta dell’ufficio, il
quartiere generale internazionale della
Curtis Foods, che si trovava a una
quindicina di chilometri da casa, a New
Rochelle.
Amava molto la sua ora e mezzo di
solitudine di primo mattino in ufficio.
Era il momento in cui si concentrava
meglio nell’analisi dell’importante
corrispondenza che gli giungeva dai suoi
direttori di zona da ogni angolo del
mondo. Ma quella mattina non riusciva a
concentrarsi. Dopo aver letto con molta
soddisfazione gli ottimi indici di profitto
delle sue attività all’estero, la sua unica
reazione fu di rammaricarsi per la scelta
fatta tanti anni prima. Non avrebbe avuto
la minima difficoltà a trovare la somma
da versare a Betsy e a nascondere
l’ammanco senza sollevare sospetti.
Ma non potevo fidarmi di lei,
continuò a ripetersi.
Quando poco prima delle nove
l’ufficio cominciò a riempirsi, salutò la
sua fedele assistente Amy Hewes con la
solita cordialità e cominciò subito a
riguardare con lei alcune e-mail che
meritavano una risposta tempestiva. Ma
era troppo distratto per concentrarsi a
lungo. Alle undici e mezzo telefonò a
casa. «Qualche programma per l’ora di
pranzo?» chiese a Isabelle.
«Nessuno», rispose prontamente lei.
«Mi ha chiamato Sharon per andare a
giocare a golf con lei, ma oggi mi sento
troppo pigra. Sono qui semidistesa nel
patio. Louis sta preparando un gazpacho
e un’insalata di pollo. Ti va bene?»
«Perfetto. Arrivo.»
Quando, passando davanti alla sua
scrivania, annunciò a Amy che non
sarebbe tornato nel pomeriggio, la sua
segretaria ne fu sorpresa. «Non venirmi
a dire che proprio tu, l’apprezzato
oratore che sa sempre incantare il suo
pubblico, è nervoso per l’intervista di
oggi pomeriggio», lo stuzzicò lei.
George cercò di sorridere. «Forse
sì.»
Il breve tragitto in macchina gli
sembrò
interminabile.
Era
così
impaziente di vedere Isabelle che lasciò
l’automobile nel viale d’accesso, salì di
corsa i gradini dell’ingresso, spalancò
la porta e percorse a passo spedito il
lungo corridoio. Prima di aprire la
portafinestra del patio si fermò a
guardare fuori. Isabelle era su una delle
sedie da giardino con i piedi su uno
sgabello e un libro in mano. A
sessant’anni appena compiuti, i suoi
capelli erano ora un casco d’argento: da
poco aveva scelto di tagliarli più corti
con la frangia. Era uno stile che si
addiceva alla perfezione a lineamenti
classici affinati nell’arco di molte
generazioni. I suoi antenati erano giunti
in America sulla Mayflower. Si era tolta
le scarpe e aveva incrociato le caviglie,
con le belle gambe già abbronzate
scoperte fin sopra le ginocchia.
Per un lungo momento George Curtis
contemplò la bella donna che era sua
moglie da trentacinque anni. Si erano
conosciuti a un ballo organizzato a
Harvard dagli studenti dell’ultimo anno.
Isabelle vi si era recata con alcune
compagne del Wellesley College.
Appena ho notato lei, non ho più visto
nessuna delle altre ragazze, ricordò
George. Però la prima volta che ho
incontrato i suoi genitori, so che erano
tutt’altro che contenti. Avrebbero
preferito che la nostra famiglia avesse
fatto i soldi a Wall Street, non vendendo
hot dog e hamburger.
Che cosa avrebbero pensato i suoi
genitori se avessero saputo che me
l’intendevo con la moglie del mio
migliore amico? Di sicuro avrebbero
esortato Isabelle a sbarazzarsi di me.
E se lo avesse scoperto Isabelle,
concluse, mi avrebbe mollato anche se
era incinta dei gemelli.
E lo farebbe anche ora, aggiunse
mestamente tra sé George mentre usciva
nel patio. Sentendo il fruscio della porta
scorrevole, Isabelle alzò gli occhi e gli
rivolse un sorriso affettuoso. «È perché
c’ero anch’io sul menu che ti è venuta
questa gran voglia di farmi compagnia a
pranzo?» lo apostrofò mentre si alzava
per baciarlo.
«Intuito femminile», scherzò lui
ricambiando il bacio e prendendola tra
le braccia.
Arrivò Louis, il cuoco di casa, con
due bicchieri di tè freddo su un vassoio.
«È un piacere averla a casa a pranzo,
signor Curtis», lo salutò in tono
gioviale.
Erano ventidue anni che Louis
cucinava per loro. Era chef in un
ristorante della zona quando una sera si
era presentato al tavolo al quale erano
seduti a cenare. «Ho sentito dire che
state cercando un nuovo cuoco», aveva
detto a bassa voce.
«Sì, lo chef che abbiamo ora va in
pensione», aveva confermato George.
«Io sarei molto felice se voleste
mettermi alla prova», aveva ribattuto
Louis. «Qui serviamo soprattutto piatti
italiani, ma io mi sono diplomato al
Culinary Institute a Hyde Park e sono in
grado di offrirvi un’ampia selezione di
menu.»
E così è stato, pensò George, senza
contare le pietanze che aveva preparato
adatte ai neonati quando i gemelli erano
ancora molto piccoli e la generosità con
cui aveva consentito loro di «aiutarlo»
in cucina quando erano un po’ più
grandicelli.
«Louis», chiese George mentre si
sedeva accanto a Isabelle e lo chef gli
serviva il tè freddo, «vorresti mettere il
mio bicchiere sul tavolo e portarmi
invece un Bloody Mary?»
Isabelle sollevò un sopracciglio.
«Non è da te, George. Sei nervoso per
l’intervista con Alex Buckley?»
George aspettò che Louis fosse uscito
e avesse chiuso la porta. «A disagio più
che nervoso», precisò poi. «A me tutta
quanta l’idea di questo programma
sembra alquanto bizzarra. Ho la
sensazione che lo scopo non sia affatto
quello di dimostrare che queste persone
sono innocenti, quanto proprio quello di
puntare il dito su uno del gruppo.»
«Come per esempio tu, George?»
George Curtis fissò la moglie in
silenzio. Sentì improvvisamente freddo.
«Cosa intendi dire?»
«La notte del Gala ho sentito
l’interessante conversazione che hai
avuto con Betsy. Anche se ti eri
allontanato dal grosso degli invitati, io
non ero distante. Ti avevo seguito ed ero
dietro quelle palme che avevano fatto
portare per decorare il giardino. E tu
non ti sei reso conto di quanto avessi
alzato la voce.»
George Curtis sentì che l’incubo che
aveva sempre temuto stava per
materializzarsi. Isabelle stava per dirgli
che, ora che i gemelli erano grandi,
voleva il divorzio. «Isabelle», cominciò
con un tremito nella voce, «sono
addolorato più di quanto tu possa
immaginare. Ti prego, ti supplico,
perdonami.»
«Oh, l’ho già fatto», tagliò corto lei.
«Pensavi che fossi così stupida da non
sospettare che avessi una storia con
quella sgualdrina? Quando ho sentito
cosa vi dicevate, ho deciso che non
volevo perderti. Sapevo che tra noi non
stava andando molto bene e sapevo
anche che era almeno in parte anche
colpa mia. Non ti avrei perdonato
troppo facilmente, ma sono ancora
contenta della decisione che presi in
quel momento. Sei stato un marito e un
padre adorabile e io ti voglio un mondo
di bene.»
«Ho passato tutti questi anni in preda
alla paura e al senso di colpa», confessò
a quel punto George Curtis con la voce
rotta.
«Lo so», rispose adamantina Isabelle.
«È stato il mio modo di punirti. Ah, ecco
Louis con il tuo Bloody Mary.
Scommetto che adesso ne senti ancora
più il bisogno.»
Mio Dio, e io che credevo di
conoscere mia moglie! esclamò tra sé
George Curtis mentre prendeva il drink
che gli aveva portato Louis.
«Louis», disse Isabelle finendo di
bere un sorso di tè freddo, «credo che
adesso siamo pronti per pranzare.»
«George», riprese quando Louis
tornò in cucina, «quando hai detto a
Betsy che se mai mi avesse rivelato
della vostra relazione l’avresti uccisa,
può darsi che non sia stata la sola
persona a sentirti. Come ripeto, non ti
sei reso conto di aver alzato parecchio
la voce. Poi, quando siamo tornati a
casa e siamo andati a letto, io mi sono
addormentata tra le tue braccia. Quando
mi sono svegliata in piena notte, alle
quattro, tu non c’eri, e sei rimasto via
per più di un’ora. Io ho semplicemente
pensato che fossi sceso a vedere un po’
di tivù. È quello che fai normalmente
quando ti svegli di notte e non riesci a
riprendere sonno. Quando ho saputo che
Betsy era stata soffocata, ho pregato Dio
che, se fossi stato tu a ucciderla, non
avessi lasciato nessuna traccia che
potesse incriminarti. Se dovesse
emergere qualcosa durante le riprese di
questo programma, giurerò che quella
notte tu non hai mai lasciato il nostro
letto.»
«Isabelle, non crederai che...»
«George, abitiamo a pochi isolati da
loro. Avresti potuto arrivare alla villa di
Powell a piedi in cinque minuti.
Conoscevi perfettamente la disposizione
all’interno.
E
francamente
non
m’importa niente se l’hai uccisa tu. So
che ce lo possiamo permettere, ma non
vedo perché avresti dovuto mai pagare
venticinque milioni di dollari a quella
barbona ricattatrice.»
George l’aiutò con galanteria a
sedersi a tavola. «Ti amo con tutto il
cuore», disse ancora Isabelle mentre si
sedeva. «E i gemelli ti adorano. Non
dire niente che possa rovinare tutto. Ah,
ecco Louis con l’insalata. Immagino che
tu abbia un bell’appetito, vero?»
50
«OTTIMO , ragazzi, ci siamo. Pausa. Poi
tocca ad Alison Schaefer. Riprendiamo
tra mezz’ora», annunciò Laurie. Jerry,
Grace e i tecnici della troupe sapevano
che nel linguaggio di Laurie quelle
parole si traducevano con: «Sparite!»
Sapevano che a quel punto desiderava
parlare da sola con Alex Buckley.
Uscirono tutti quanti in fila indiana e
l’ultimo chiuse la porta senza che
nessuno osasse obiettare qualcosa.
«Perché non prendo un caffè per tutti e
due?» propose Alex. «So che lei lo
vuole nero e senza zucchero.»
«Molto volentieri», rispose Laurie.
«Torno subito», annunciò lui
affrettandosi a lasciare lo studio.
Quando tornò, cinque minuti dopo,
Laurie sedeva al posto di Claire, intenta
a scrivere degli appunti. «Grazie mille»,
disse quando George posò le tazze sul
tavolino davanti a lei. «Si sono riunite
da qualche parte? Cioè, ha visto Claire
parlare alle altre della sua intervista?»
«Non so dove sia Claire», rispose
Alex Buckley, «ma di certo sta
succedendo qualcosa di molto strano.
Regina è bianca come un cadavere e
Nina e sua madre sono nel patio e a
vederle da lontano direi che stanno
litigando. Cosa che non mi sorprende.
Alison e Rod stanno passeggiando
vicino alla piscina e Alison mi sembra
peggio che turbata. Ha un fazzoletto in
mano e ogni tanto si asciuga gli occhi.»
Laurie era sconcertata. «Cosa può
essere stato?»
«Quando le abbiamo lasciate, prima
lei e io e pochi minuti dopo anche
Claire», ricostruì Alex, «dev’essere
evidentemente successo qualcosa che le
ha sconvolte. Io so solo che aspettavano
che Josh portasse loro dell’altro caffè.
Ma può darsi che riesca a farmi dire
qualcosa da Alison quando la
intervisterò fra poco», concluse. Il suo
tono si fece professionale. «Allora, so
che vuole parlarmi dell’intervista con
Claire.»
«Infatti», annuì Laurie. «Perché si è
soffermato così a lungo sui suoi rapporti
con Robert Powell?»
«Ci pensi bene, Laurie. È
comprensibile che Claire e sua madre si
siano sorrette a vicenda per tredici anni
stabilendo tra loro un legame affettivo
molto stretto. Poi entra in scena Robert
Powell. Venire a vivere in questa reggia
è stato certamente una svolta da favola,
ma in ogni caso, a giudicare da tutto
quello che ho letto, non c’è dubbio che
la madre di Claire e Powell fossero
praticamente inseparabili. E perché
Claire non è andata a vivere al campus
come hanno fatto le sue amiche? Deve
aver passato molte notti da sola a casa.
Per quel che mi risulta, Betsy e Powell
erano fuori quasi tutte le sere. Perché
Claire non poteva alloggiare al Vassar?
Non ha visto come è cambiata la sua
espressione quando ha parlato di
Powell? Come è cambiato anche il tono
della sua voce? Mi creda, sono sicuro
che c’è sotto qualcosa», concluse con
forza Alex.
Laurie lo guardò dritto negli occhi
per qualche istante poi annuì.
Alex sorrise. «Se ne è accorta anche
lei. Ne ero certo. Ogni volta che preparo
un caso da dibattere in tribunale faccio
raccogliere ai miei investigatori tutto
quello che c’è da sapere non solo sulle
persone che devo difendere, ma anche
sui testimoni che deporranno in aula, pro
o contro il mio cliente. Una delle prime
cose che ho imparato è di cercare sotto
l’apparenza. Se chiede a me, le dirò che
Claire Bonner non era così angosciata
dalla morte di sua madre come sostiene
di essere.»
«All’inizio io avevo attribuito la sua
reazione allo choc», ammise Laurie.
«Poi ho cominciato a ricredermi. Ha
parlato solo del modo brutale in cui la
polizia ha trattato lei e le altre ragazze e
di quanto questo l’abbia indignata, ma
nemmeno una parola di rimpianto per la
morte della madre.» A quel punto Laurie
cambiò argomento. «Ora, prima che
entri Alison Schaefer, lasci che le dia
qualche ragguaglio su di lei.»
Alex la lasciò parlare bevendo il suo
caffè. «Rod Kimball e Alison Schaefer
si sono sposati quattro mesi dopo il
Gala, eppure per la festa di quella sera
Alison non lo aveva invitato. Aveva
deciso di sposarsi in fretta e furia per
come erano finite tutte e quante sulla
graticola dopo la morte di Betsy? La
sola altra cosa che posso aggiungere è
che aveva perso una borsa di studio. Fu
assegnata alla ragazza seconda in
classifica per risultati accademici e
guarda caso era la figlia di un’amica di
Besty. Il fatto che Powell avesse donato
una carrettata di dollari al college di
Alison ha influenzato la scelta per la
borsa di studio? Sì, era una borsa di
studio che veniva assegnata da un ex
alunno del college e la scelta era a totale
discrezione del decano del corpo
docenti.»
Alex annuì. «Vedo che anche lei
guarda sotto i sassi.»
«Può contarci», rispose Laurie. «E
allora mi sono chiesta se l’improvvisa
decisione di sposare Rod non
dipendesse dal fatto che lui aveva
appena firmato un sostanzioso contratto
con i Giants. Ma se è così è altrettanto
vero che dopo l’incidente lei comunque
gli è rimasta accanto, giusto? A quanto
pare, lui era innamorato di lei da
sempre, fin dai tempi dell’asilo. Al
momento delle nozze aveva davanti a sé
un brillante futuro come quarterback. Ma
anche se lei era attratta soprattutto dalla
fama e dalla fortuna di un marito
campione di football, non è possibile
che i suoi sentimenti fossero solo
apparenza. Ci sono questi ultimi venti
anni a dimostrarlo.»
«Oppure può darsi che fosse così
fuori di sé per aver perso la borsa di
studio
da
soffocare
Betsy
e
successivamente confessarlo a Rod»,
ipotizzò Alex. «Un buon sistema per
indurla a tenerselo stretto per tutti questi
anni.»
Bussarono alla porta dello studio e
fece capolino il cameraman. «Laurie,
non stiamo facendo un po’ troppo tardi?»
Laurie e Alex si scambiarono
un’occhiata. Fu Alex a rispondere. «Ha
ragione, possiamo riprendere. La prego,
annunci ad Alison Schaefer che adesso
può venire.»
51
QUELLA stessa mattina, qualche ora
dopo, Leo Farley fissava il soffitto
mentre il suo medico e vecchio amico
gli controllava il ritmo cardiaco. «Io sto
benissimo», dichiarò a denti stretti.
«Così la pensi tu», rispose bonario il
dottor James Morris, «ma, credimi, qui
sei e qui resterai finché non lo dirò io. E
prima che me lo chiedi di nuovo, lascia
che te lo spieghi un’altra volta. Ieri sera
avevi ancora delle fibrillazioni. Se non
vuoi che ti venga un infarto, te ne stai
buono.»
«Va bene, va bene», sbuffò
rassegnato Leo. «Ma Jim, tu non capisci.
Io non voglio che Laurie sappia che
sono qui e ti posso dire che ha già
mangiato la foglia. Non mi chiama mai
mentre sta andando al lavoro, cosa che
invece oggi ha fatto. Ieri sera è stata così
insistente nel voler sapere dove mi
trovavo... Non è pensabile che si
preoccupi per me quando è così
impegnata con il suo programma.»
«Vuoi che le telefoni adesso per
rassicurarla?» propose Morris.
«Conosco Laurie. Se chiami, sarà
ancora più in pensiero.»
«Di solito quando parli con lei?»
«Dopo che è rientrata a casa
dall’ufficio. Ieri sera me la sono cavata,
ma stasera si aspetterà che mi faccia
vivo di persona e che come minimo ci
facciamo un hamburger insieme. Non so
che scusa inventarmi», brontolò Leo
Farley, ora rabbuiato ma non più in
collera.
«Facciamo così, Leo. Ieri hai avuto
due aritmie. Se questa sera il tuo cuore
se ne sta buonino, domani ti dimetto»,
promise Morris. «Se non ti spiace, non
ho ancora disimparato a rassicurare i
parenti sullo stato di salute dei miei
pazienti. E se me lo lasci fare con
Laurie, posto che il tuo cuore non faccia
di nuovo il matto, domani mattina ti
autorizzo ad andartene. Meglio di così
non ho da offrirti. Perciò pensaci. Laurie
può sempre passare a trovarti stasera.
Non mi hai detto che Timmy le telefona
tra le sette e le otto?»
«Sì. Si fa telefonare alle otto meno un
quarto per essere sicura di non avere
impegni.»
«Allora perché non le dici di venire
qui a quell’ora per ricevere qui la
telefonata, così potete parlare con
Timmy tutti e due? Da quello che mi hai
raccontato, gli è concessa una sola
telefonata al giorno.»
La faccia di Leo Farley si rasserenò.
«Come sempre le tue idee sono le
migliori, Jim.»
Il dottor Morris sapeva quanto Leo
Farley avesse preso sul serio la
minaccia che incombeva sulla figlia e il
nipote. E non si metterà il cuore in pace
finché quell’Occhi Blu non sarà finito a
marcire in galera, pensò.
Posò una mano sulla spalla di Leo,
ma riuscì a serrare le labbra prima di
pronunciare la frase più inutile che
esista in tutte le lingue del mondo: «Non
ti preoccupare».
52
DOPO che tutte e tre ebbero ricevuto i
nastri da Josh, Alison fu la prima a
recarsi in bagno, recuperare il
mangianastri dal cassetto del tavolo
della toletta, inserirvi la cassetta e
ascoltarla.
Sgomenta,
risentì
la
conversazione che aveva avuto con Rod
sulla sua intrusione da sonnambula nella
stanza di Betsy la notte del Gala. Quasi
isterica, recuperò la cassetta e corse
fuori. Rod, che l’aveva vista dalla
finestra, arrancò più in fretta che poté
per raggiungerla.
Qualche minuto dopo, con le grucce
posate a breve distanza, sedeva con un
braccio intorno alle spalle di Alison
sulla panca vicino alla piscina, entrambi
con la schiena rivolta ai tecnici della TV
che si trovavano all’esterno della villa.
Dopo il suo confuso racconto, Alison
era riuscita a smettere di piangere, ma le
tremavano ancora le labbra.
«Ma non vedi, Rod?» gemette. «È per
questo che Powell ha mandato Josh a
prenderci tutte quante all’aeroporto su
quella bella Bentley a intervalli di due
ore, tutte eccetto Claire, che era arrivata
la sera prima. Non lo avrebbe fatto se
non per una ragione ora evidente, che
nella Bentley c’è una microspia. Rod,
non ricordi che abbiamo parlato della
notte del Gala? Di quando sono entrata
dormendo nella stanza di Betsy?»
«Zitta»,
l’ammonì
il
marito
guardandosi intorno. Ma non c’era
nessuno abbastanza vicino da poterli
sentire. Mio Dio, qui rischio di
diventare paranoico, pensò.
Strinse il braccio intorno alle spalle
di Alison. «Alie, se tirano fuori la storia
della borsa di studio, rispondi che
naturalmente ci sei rimasta male, ma non
più che tanto. Avevi una cotta segreta
per me fin dai tempi dell’asilo.»
S’interruppe. Questa parte è vera
almeno per quel che riguarda me, pensò.
«E mi hai chiesto di sposarti anche se
pensavi che fossi abbastanza piena di
odio da uccidere Betsy Powell»,
aggiunse in tono lugubre Alison. «Non
puoi negare che per tutti questi anni hai
sempre creduto che potessi essere stata
io.»
«So quanto la detestavi, ma non ho
mai veramente creduto che l’abbia
uccisa tu.»
«Sì, la odiavo davvero. Ho cercato
di farmene una ragione, ma non ci sono
riuscita. Anzi, la odio ancora adesso. È
stato così ingiusto», proruppe con
passione Alison. «Powell donò un sacco
di soldi al Waverly perché Betsy voleva
assolutamente entrare in quel suo club
esclusivo. Quando il decano ha
assegnato la borsa alla figlia dell’amica
di Betsy, non credi che mi avesse dato
un ottimo motivo per ammazzarla? Ti ho
detto che la mia cara amica piantò lì al
secondo anno?»
«Mi sembra che me l’abbia
menzionato una o due volte», mormorò
Rod.
«Rod, quando vedi crollare tutto
quello per cui hai lavorato sodo e
pregato e sognato per tanto tempo... Mi
stavo già alzando per accettare la borsa
di studio quando il decano ha fatto il suo
nome. Non te lo puoi immaginare!»
Si girò a guardarlo e fu allora che
notò i segni della sofferenza sul bel
volto del marito, vide spuntare le
stampelle dietro di lui. «Oh, Rod, che
imbecille che sono stata a dire queste
cose, proprio a te...»
«Non fa niente, Alie.»
Sì che fa qualcosa, pensò lei. Fa
molto, troppo.
«Alison, guarda che ti stanno
aspettando.»
Stava andando verso di loro Jerry,
l’assistente di Laurie.
«Rod, ho paura di crollare»,
bisbigliò ansiosa Alison mentre si
alzava e subito si chinava per posargli
un bacio fugace sulla fronte.
«Non succederà», la rassicurò con
fermezza Rod guardando negli occhi la
donna che amava con tanta devozione. E
gli occhi di Alison, color nocciola, il
suo tratto somatico più appariscente,
ardevano. Il pianto le aveva gonfiato un
po’ le palpebre, ma ci avrebbe pensato
la truccatrice a rimediare.
La guardò andare verso la casa. In
vent’anni non l’aveva mai vista così
scossa. E sapeva perché: perché le si
offriva una seconda occasione per la
carriera a cui aveva ambito con tutto il
cuore, quella che le era stata negata con
un colpo di mano.
Fu
colto
da
un
pensiero
estemporaneo. Alie si era lasciata
crescere i capelli che adesso le
arrivavano alle spalle. A lui piacevano
così. Qualche giorno prima gli aveva
comunicato l’intenzione di tagliarli. Gli
era dispiaciuto, ma non si sarebbe mai
sognato di dirle di no. C’erano molte
cose che non le aveva detto in quei venti
anni passati assieme...
Se alla fine di questo programma
avesse ricevuto il compenso pattuito, si
domandò angosciato per l’ennesima
volta, lo avrebbe usato per comprarsi
l’indipendenza da lui?
53
NINA fu la seconda ad ascoltare la sua
cassetta. Quando tornò al tavolo si
rivolse a sua madre con maligno
compiacimento. «Questa è più per te che
per me», l’aggredì. «Perché non vai in
bagno e non ti ascolti con cura ogni
singola parola? E dopo che l’avrai fatto,
non
credo
che
continuerai
a
piagnucolare
con
Rob
Powell
sostenendo che Betsy era la tua più cara
e intima amica.»
«Di cosa diavolo parli?» sbottò
Muriel alzandosi di scatto.
«Il mangianastri è nel cassetto di
centro del tavolo da toletta nel bagno in
corridoio», le spiegò Nina. «Dovresti
riuscire a trovarlo.»
L’espressione tronfia di Muriel
cedette all’insidia di preoccupazione e
incertezza. Senza rispondere a sua figlia,
s’incamminò a passi pesanti verso il
corridoio. Il tonfo della porta del bagno
che si richiudeva preannunciò qualche
minuto dopo il suo imminente ritorno.
Riapparve con un’espressione cupa
nei lineamenti contratti. Indirizzò un
cenno del capo a Nina. «Vieni fuori»,
ordinò.
«Allora?» volle sapere Nina appena
furono nel patio con la portafinestra
chiusa alle loro spalle. «Cosa vuoi?»
«Cosa voglio?» sibilò la madre.
«Cosa voglio? Sei impazzita? Hai
ascoltato bene quel nastro? Ne vengo
fuori come un essere orrendo. E Rob mi
ha invitato a cena stasera. Andava tutto
così bene prima...»
«Prima che io ti guastassi tutto
presentando Rob Powell a Betsy quando
ormai eri praticamente fidanzata con
lui», finì Nina in sua vece.
L’espressione di Muriel s’indurì.
«Pensi che Rob abbia ascoltato quei
nastri?» chiese riassumendo la sua
personalità di calcolatrice.
«Non ne ho idea. Immagino di sì, ma
è solo un’ipotesi. Può darsi che l’autista
ci stia ricattando per conto proprio e che
abbia lasciato Rob fuori dal suo
affaruccio personale.»
«Allora dagli i cinquantamila.»
Nina trasalì. «Ma starai scherzando!
Rob Powell si sta prendendo gioco di te
con queste sue improvvise attenzioni. Se
ti voleva tanto, perché non si è fatto vivo
con te vent’anni fa dopo la morte di
Betsy?»
«Paga quell’autista», ribadì Muriel.
«Altrimenti rivelerò a Rob e alla polizia
che mi hai confessato di aver ucciso
Betsy per darmi un’altra occasione con
Rob. Hai detto che avevi pensato che io
sarei stata molto generosa con te dopo
che fossi diventata la signora Powell.»
«Faresti una cosa del genere?»
domandò incredula Nina impallidendo.
«Perché non dovrei? È vero, no?»
l’apostrofò in malo modo Muriel. «E
non ti scordare che se avessi ragione tu,
e l’interesse di Rob non fosse sincero,
io potrò sempre consolarmi con il
milione di dollari di ricompensa che ha
messo a disposizione per informazioni
che portino all’arresto dell’assassino di
sua moglie. Ha offerto questa somma
vent’anni fa e non l’ha mai ritirata.»
54
QUANDO
vide
Alison scappare
praticamente di casa e Muriel che
ordinava a Nina di seguirla nel patio,
Regina capì di dover ascoltare al più
presto la sua cassetta.
Mentre andava in bagno concluse che
doveva
essere
stato
Josh
a
impossessarsi della lettera suicida. Il
mangianastri era sopra il tavolino. Inserì
la cassetta, poi schiacciò il tasto di
avvio con un dito reso insensibile dalla
paura. Sebbene Zach le stesse
telefonando
dall’Inghilterra,
la
conversazione che aveva avuto con lei
era perfettamente chiara.
Peggio di così non poteva andare,
pensò Regina in preda all’angoscia. E
adesso che cosa succede se nego di aver
nascosto la nota suicida di papà? Josh è
in grado di mostrarla quando vuole.
Dopodiché io potrei essere arrestata per
aver mentito alla polizia quando sono
stata interrogata per ore. Josh avrebbe
da mostrare come prova non solo la
lettera ma anche il nastro registrato.
Quando tornò al tavolo e allontanò da
sé la tazza di caffè ormai freddo, sapeva
di non avere altra scelta che pagare a
Josh la somma richiesta.
Imbronciata come sempre, si
materializzò all’improvviso Jane con un
bricco di caffè fresco e un’altra tazza.
Regina guardò la tazza fumante prendere
il posto di quella che aveva scartato.
Mentre beveva il primo sorso, nella
sua mente si formarono ancora una volta
le immagini di un incubo che ormai le
era fin troppo famigliare. Risaliva in
bici il vialetto della bella casa con
l’impagabile vista su Long Island in cui
era vissuta per quindici anni. Pigiava il
tasto che faceva alzare il portellone
della rimessa. La brezza irrompeva nella
rimessa dal Sound e faceva dondolare il
corpo di suo padre. Aveva la bocca
spalancata, gli occhi strabuzzati, la
lingua fuori. Aveva un foglietto
appuntato alla giacca. Una mano stretta
sulla corda. All’ultimo momento aveva
cambiato idea?
Ricordò il gelo che l’aveva invasa, il
torpore dei suoi movimenti quando
aveva staccato il messaggio dal
cadavere del padre che si era mosso al
suo contatto, lo aveva letto e, sconvolta,
se lo era infilato in tasca.
Nel messaggio suo padre aveva
scritto d’aver avuto una relazione
sentimentale con Betsy e di rimpiangerlo
amaramente.
Betsy gli aveva detto che il fondo
d’investimento che Rob aveva appena
avviato stava per salire alle stelle e lo
aveva esortato a metterci tutto quello
che poteva. E Regina, seppure ancora
quindicenne, aveva intuito che Betsy
operava per conto di suo marito.
Non potevo lasciare che mia madre
vedesse quel biglietto, pensò ora
Regina. Le avrebbe spezzato il cuore e
sapevo che il suo cuore avrebbe già
sofferto abbastanza per la morte di papà.
E la mamma disprezzava Betsy Powell.
Sapeva quanto fosse falsa.
E adesso qualcuno era in possesso di
quel messaggio. Doveva per forza
essere Josh, che era sempre in giro per
casa sulla scia di Jane. Cosa posso fare?
si chiese. Cosa posso fare?
In quel momento entrò Josh con un
vassoio in mano a prendere le stoviglie
rimaste sul tavolo. Guardò da una parte
e dall’altra assicurandosi che fossero
soli.
«Quando possiamo parlare, Regina?»
domandò. «E devo dirle che ha sbagliato
a non seguire il consiglio di suo figlio di
bruciare il messaggio suicida di suo
padre. Ci ho riflettuto, nessuno più di lei
aveva un motivo così forte per uccidere
Betsy Powell. Non è d’accordo? E non
le sembra che il quarto di milione di
dollari che riceverà dal signor Rob
siano un prezzo più che modesto per
avere in cambio la certezza che nessuno
vedrà mai il biglietto o sentirà mai quel
nastro?»
Regina non seppe cosa rispondere.
La sua faccia era pietrificata in
un’espressione di orrore e senso di
colpa e i suoi occhi vedevano
qualcos’altro alle spalle di Josh: il
corpo elegantemente vestito di suo padre
che dondolava appeso al cappio che
aveva intorno al collo.
55
D’ISTINTO ,
appena
conclusasi
l’intervista con Alex Buckley, Claire
corse su per le scale.
Sapeva che non era andata bene. A
tutte le domande sul Gala aveva risposto
con la versione che si era accuratamente
preparata, dal momento in cui le amiche
si erano ritrovate nello studio dopo la
festa fino a quando si erano precipitate
nella camera da letto di sua madre nelle
prime ore del mattino. Tuttavia, ne era
uscita con una sensazione di amaro in
bocca, quella che era una verità
assodata era suonata falsa alle sue stesse
orecchie.
Eppure non aveva avuto difficoltà a
ricreare i momenti terribili nella stanza
di sua madre: Rob che si contorceva
dolorante sul pavimento con le vesciche
che già gli si gonfiavano sulle mani
bruciate dal caffè. Jane che strillava:
«Betsy, Betsy», tenendo in mano il
cuscino che aveva posto fine alla vita
della sua padrona. Il colore dei capelli
di sua madre che era sembrato
incantevole quando nello studio aveva
augurato loro la buonanotte, ora, nelle
prime luci del mattino, era sgargiante in
una maniera quasi pacchiana e la sua
radiosa carnagione era grigia e
chiazzata.
E io ero contenta, ricordò Claire.
Ero impaurita, ma ero contenta.
L’unica cosa che riuscivo a pensare
era di essermi liberata, di potermene
finalmente andare da questa casa.
E l’ho fatto il giorno del funerale.
Sono andata a stare da Regina e sua
madre
nel
loro
minuscolo
appartamentino. Dormivo sul divano del
soggiorno.
C’erano dappertutto fotografie del
padre di Regina. Sua madre fu dolce e
gentile con me, sebbene avessero perso
tutto per aver investito nel fondo di
Robert Powell.
Claire ricordava ancora fin troppo
bene quando aveva sentito Betsy e
Powell scherzare su quanto fosse
sprovveduto Eric, il padre di Regina.
«Bada bene, Betsy, sono dispiaciuto di
essere costretto a fartelo fare, ma è
necessario. O lui o noi.»
E la risposta di sua madre: «Meglio
che sia lui ad andare a gambe
all’aria», prima di scoppiare a ridere.
Tutte le notti che restavo sveglia su
quel divano a pensare che se non fosse
stato per mia madre e il mio patrigno ora
Eric sarebbe ancora vivo e Regina e sua
madre vivrebbero ancora in quella loro
bella casa sul Sound.
E Alison? Aveva sudato sette camicie
per quella borsa di studio e
gliel’avevano soffiata solo perché mia
madre potesse diventare membro di non
so quale club.
Claire scosse la testa. Era alla
finestra a guardare il giardino. I veicoli
dello
studio
televisivo
erano
parcheggiati
con
discrezione
all’estremità del lato sinistro. Alison e
Rod sedevano sulla panca ai bordi della
piscina. Nell’insieme le sembrava di
contemplare il quadro di un paesaggio.
Poi colse un movimento. Si aprì la
porta della pool house e ne uscì
quell’individuo dalla pelle olivastra che
aveva visto in quei giorni svolgere
svariati lavoretti in giardino.
La sua ingombrante presenza guastò
l’atmosfera idilliaca del giardino e
spedì un brivido lungo la schiena di
Claire. In quell’attimo si udì il rumore
della porta della sua stanza che si
apriva.
Quando si girò trovò sulla soglia
Robert Powell. Sorridente. «Niente che
posso fare per te, Claire?» le chiese.
56
IL lunedì notte il capo della polizia Ed
Penn non dormì bene. La sensazione di
minaccia incombente con cui lo aveva
contagiato Leo Farley rese agitato e
intermittente il poco di sonno che riuscì
a concedersi. E fece sogni strani. C’era
una persona in pericolo. Non sapeva
chi fosse. Era in una grande casa vuota
e andava in cerca per le stanze con la
pistola in pugno. Sentiva un rumore di
passi, ma non riusciva a capire da dove
giungesse...
Alle quattro Ed Penn si svegliò da
quel
sogno
e
non riuscì
a
riaddormentarsi.
Era concorde con Leo nel ritenere
che riunire quelle sei persone sotto lo
stesso tetto dopo vent’anni potesse
essere pericoloso. Penn era sicuro che a
uccidere Betsy Powell dovesse essere
stata una di quelle sei persone: Powell,
la sua governante, la figlia di Betsy o
una delle sue tre amiche.
C’era la portafinestra tra patio e
studio che non era stata sprangata, sì. E
allora? C’era l’eventualità che un
estraneo si fosse mescolato nella folla
degli invitati ufficiali.
Ma forse no.
Quello che aveva notato subito quella
mattina, quando era arrivato sul posto,
era che nessuna delle quattro ragazze,
figlia compresa, aveva manifestato la
minima traccia di sincero cordoglio per
la scomparsa di Betsy Powell.
E la governante non aveva fatto che
pregare che le fosse consentito andare in
ospedale a vedere «il signor Rob».
Fino a che non si era resa conto di
che cosa potesse sottintendere tanta
insistenza e aveva improvvisamente
chiuso la bocca, ricordò Penn.
Powell? Poche persone al mondo si
sarebbero ustionati volutamente le mani
con bruciature di terzo grado. Non si
poteva escludere del tutto che versarsi
del caffè addosso fosse stato un tentativo
di copertura da parte sua, ma restava
incomprensibile quale potesse essere il
suo movente.
La governante? Più che possibile.
Interessante che le quattro ragazze
fossero state concordi nell’affermare
che gridava: «Betsy, Betsy!» tenendo il
cuscino in mano.
Non che strappare immediatamente il
cuscino dalla faccia di Betsy Powell non
fosse un evidente gesto automatico e
istintivo, ma il fatto che Jane strillasse:
«Betsy, Betsy!» era un altro paio di
maniche. Ed Penn aveva appreso che
quando Betsy era diventata la moglie di
Robert Powell e aveva assunto come
governante la vecchia amica Jane, aveva
preteso di essere chiamata «signora
Powell».
Poteva darsi che nell’animo di Jane
fosse progressivamente montato un
cocente risentimento per i nove anni
trascorsi al suo fianco come serva dopo
esserle stata amica.
Quel giardiniere? Non aveva
precedenti. Forse gli solleticava la
memoria per colpa di quel nome così
stupido. Quale madre con un briciolo di
buonsenso avrebbe chiamato il proprio
figlio Bruno quando faceva di cognome
Hoffa e il caso Lindbergh meritava
ancora articoli in prima pagina?
Oh, be’, sempre meglio di certi nomi
astrusi che i genitori appioppano di
questi tempi ai propri figli, concluse Ed.
Inutile restare a letto. Tanto valeva
che il capo della polizia di Salem Ridge
si desse una mossa. Farò un salto da
Powell verso mezzogiorno, pensò, e
probabilmente li becco tutti assieme per
pranzo.
Si alzò a sedere. Poi sentì la moglie
dall’altra parte del letto: «Ed? Vuoi
essere così gentile da deciderti? O ti
alzi adesso o ti rimetti a dormire. Tutti
questi tuoi tentennamenti mi stanno
facendo impazzire».
«Scusa, Liz», borbottò.
Alzandosi da letto si rese conto di
essere dibattuto tra due desideri. Da un
lato sperava che uno di loro inciampasse
e confessasse involontariamente di aver
ucciso Betsy Powell. Dall’altro si
augurava con uguale convinzione che le
riprese del programma si concludessero
l’indomani come previsto e che tutti se
ne tornassero a casa loro. Quel delitto
rimasto senza un colpevole era stato per
vent’anni una spina nel fianco di Ed
Penn.
La villa di Powell era una
polveriera, pensò, e l’unica cosa che
posso fare è stare a guardare quando
salterà in aria.
Nelle ore del pomeriggio, quando
tornò in ufficio dopo essere stato
all’abitazione di Powell, le sue
impressioni non erano mutate.
57
LAURIE decise che doveva sentire di
nuovo suo padre. La sera prima lo aveva
trovato terribilmente stanco e il suo
colorito di solito acceso era peggio che
opaco.
Quando gli aveva telefonato mentre
andava al lavoro, le aveva detto di
avere appena finito di fare la doccia e di
sentirsi bene.
Non sta affatto bene, pensò.
Si alzò e passò dietro la telecamera.
«Faccio solo una rapida telefonata a mio
padre prima che arrivi Alison», spiegò
ad Alex.
«Con comodo», rispose lui di buon
grado.
Ma quando lei compose il numero e
aspettò una risposta, Alex lesse nella
tensione del suo corpo un nervosismo
crescente.
«Non mi risponde», disse Laurie.
«Gli lasci un messaggio», le suggerì
Alex.
«No, non capisce. Mio padre
risponderebbe a una mia chiamata anche
se stesse baciando l’anello del papa!»
«E allora secondo lei quale potrebbe
essere la ragione?»
«Forse ha saputo qualcosa di Occhi
Blu e non me lo vuole dire», rispose
Laurie con un tremito nella voce.
«Oppure ha avuto un altro attacco di
fibrillazioni cardiache.»
Alex Buckley contemplò con
compassione la giovane donna che tutt’a
un tratto aveva perso tutta la sua patina
di professionalità. Fino a quel momento
si era meravigliato della forza d’animo
con cui, con l’assassinio del marito
ancora irrisolto e una terribile minaccia
che pendeva su di lei e sul figlio, stesse
portando avanti un programma su un
delitto rimasto senza un colpevole, ma in
quel momento poté vedere con i propri
occhi fino a che punto aveva affidato la
propria sicurezza a suo padre.
Si era informato sul caso di Greg
Moran. Gli balenò alla mente
l’immagine della vedova trentunenne che
usciva dalla chiesa dietro il feretro del
marito sorretta dal braccio del padre.
Sapeva che suo padre aveva
abbandonato di punto in bianco il suo
posto alla polizia di New York per
sorvegliare il nipotino.
Se gli fosse successo qualcosa
adesso, Laurie e suo figlio sarebbero
rimasti senza protezione.
«Laurie, chi è il medico di suo
padre?»
«È un cardiologo, si chiama James
Morris. Sono grandi amici da
quarant’anni.»
«Allora telefoni a lui e gli chieda se
ha avuto a che fare con suo padre.»
«Ottima idea.»
Bussarono alla porta. Alex balzò in
piedi. Fece capolino Grace con
l’intenzione di chiedere se fossero
pronti per cominciare, ma la domanda le
morì sulle labbra. Vide l’espressione
preoccupata di Laurie con il telefonino
all’orecchio, sentì Alex bisbigliare: «Ci
dia un minuto», e chiuse la porta.
58
«È COSÌ , Laurie si è molto preoccupata
quando le ho detto che sei in ospedale»,
riferì il dottor Morris a Leo Farley. «Ma
sono riuscito a tranquillizzarla. Appena
finito di girare verrà a trovarti e in
quell’occasione, come le ho suggerito,
potrete parlare tutti e due con Timmy.»
«Almeno mi hai risparmiato la brutta
incombenza di dovermi inventare
qualche balla da raccontarle», brontolò
Leo Farley. «Le hai detto che mi dimetti
domani?»
«Le ho detto che, se non ci saranno
altri episodi di aritmia, domattina ti
lascio andare. Ho anche aggiunto che in
quarant’anni di pratica medica, tu sei il
paziente più insopportabile che mi sia
capitato. E ti giuro che questo è valso
più di ogni altra cosa a rassicurarla,
Leo.»
Leo Farley rise di sollievo. «Sì, ti
credo. Ma sono insopportabile solo
perché a me sono insopportabili tutti
questi dannati monitor che mi tengono
bloccato a letto.»
Il dottor James Morris si guardò bene
dal lasciar trasparire nel tono della voce
la solidarietà che provava nei confronti
del
vecchio
amico.
«Speriamo
semplicemente che il tuo cuore non
faccia di nuovo il matto, Leo. E ti
raccomando di sforzarti di restare calmo
e magari vedere qualche gioco a quiz in
televisione e se tutto andrà bene
domattina te ne vai a casa.»
Bruno si felicitò con se stesso. Aver
messo sotto controllo il telefono di Leo
era stata un’idea brillante. Leo aveva già
chiamato il responsabile del campeggio
e gli aveva detto di essere stato
ricoverato in ospedale. E adesso Bruno
sapeva che quella sera Laurie e suo
padre avrebbero entrambi parlato con
Timmy per telefono.
Se nonno e mamma lo avessero
sentito verso le otto di sera, sarebbero
stati sicuri che tutto andava per il meglio
e non si sarebbero aspettati di sentirlo
più fino alla stessa ora dell’indomani.
Mi presenterò al campeggio verso le
dieci in divisa da poliziotto, pensò
Bruno. Dirò a chi è in servizio che le
condizioni di salute del nonno del
ragazzino
sono
improvvisamente
peggiorate. Se chiameranno Mount
Sinai, avranno la conferma che è un
paziente ricoverato, ma come vuole la
legge
si
rifiuteranno
di
dare
informazioni sul suo stato clinico.
Funzionerà. Bruno era così sicuro che
cominciò a fare preparativi per il
piccolo ospite. Stese delle coperte e un
guanciale nel locale tecnico della pool
house. Metterlo nella cameretta con il
letto sarebbe stato troppo pericoloso.
Avrebbe dovuto legarlo e imbavagliarlo.
Doveva in ogni caso rispettare la routine
quotidiana e farsi venire a prendere dal
furgone della Perfect Estates che lo
avrebbe riportato lì l’indomani mattina.
Avrebbe comprato delle merendine e del
succo d’arancia per Timmy. Aveva
sempre con sé un sacchetto con il cibo
per il mezzogiorno, quindi nessuno
avrebbe notato niente di insolito.
La troupe della produzione aveva
lasciato in giro dappertutto copie della
tabella di marcia. Sapeva che
l’indomani sarebbe stato intervistato
Powell, dopodiché tutti sarebbero stati
fotografati al tavolo della prima
colazione come era accaduto in apertura
del programma.
Quello sarebbe stato il momento in
cui avrebbero fatto il loro ingresso lui e
Timmy. Io arrivo tenendolo per mano e
puntandogli un fucile alla testa,
fantasticò Bruno. Grido a Laurie di
venire fuori o gli sparo. E la brava
mamma uscirà di corsa a salvare il suo
bambino.
Rise dal fondo della gola, poi aprì la
porta della pool house. Sulla panca ai
bordi della piscina c’erano la ex
neolaureata con il marito con le
stampelle.
Bruno si mise a esaminare con molta
cura le piante intorno alla pool house in
cerca di eventuali imperfezioni da
sistemare.
Domani saranno macchiate di sangue,
pensò compiaciuto. Quello di mamma e
figlio. È giusto che muoiano insieme,
anche se io non dovessi farcela.
59
«AVEVO ragione», sussurrò Laurie
mentre spegneva il telefono. «Il dottor
Morris ha detto che stanno per fare un
angiogramma a papà, anche se solo per
precauzione. Ma io gli devo credere?»
«Laurie, che cosa le ha detto di
preciso il dottore?» chiese Alex.
«Che ieri sera papà ha avuto delle
fibrillazioni cardiache.» Con qualche
tentennamento Laurie spiegò che cosa le
aveva riferito il medico. «Io so il perché
delle fibrillazioni», aggiunse. «Papà
aveva paura di questo programma. Pensa
che una delle sei persone sia un
assassino e che, messo sotto pressione,
possa perdere la testa.»
Potrebbe non avere tutti i torti, pensò
Alex. «Senta, Laurie», rispose, «quando
abbiamo finito qui oggi pomeriggio,
perché non lascia che l’accompagni
direttamente all’ospedale? Non dovrà
aspettare il pulmino dello studio. Lasci
che qui ci pensino Jerry e Grace a
sgomberare.» S’interruppe e per qualche
istante attese una risposta. «Aspetterò
nell’atrio che lei abbia finito con suo
padre», aggiunse poi d’impulso, «poi
possiamo andare a mangiare un boccone
insieme, se non ha nient’altro in
agenda.»
«Il mio programma per stasera era un
hamburger con papà. Da ex sbirro
numero uno, vorrà sapere tutto quello
che è successo oggi fin nei minimi
particolari.»
«Allora lei gli faccia rapporto in
ospedale e dopo vorrà dire che mangerà
un hamburger con me», concluse con
fermezza Alex.
Laurie esitava. Data la situazione,
proprio non si vedeva ad andare a un
ristorante da sola. La compagnia di Alex
Buckley le sarebbe stata di conforto. E
poi potremo discutere in pace delle altre
interviste, pensò.
«Allora grazie, accetto.» Abbozzò un
vago sorriso, prima di voltarsi dall’altra
parte. «Jerry», chiamò. «Vuoi dire per
favore agli altri e ad Alison Schaefer di
entrare?» La sua voce suonò di nuovo
squillante e autoritaria.
60
LA Regina che andò a cercare Josh
Damiano aveva la faccia truce. Lo trovò
a passare l’aspirapolvere nel grande
soggiorno. Ricordò che Betsy si
compiaceva di chiamarlo «il salone».
«Fino al giorno in cui ha sposato
Robert Powell, il solo salone in cui era
mai entrata era il salone di bellezza.»
Così soleva dire sua madre di Betsy.
Josh alzò gli occhi e quando la vide
spense l’aspirapolvere. «Sapevo che mi
avrebbe cercato, Regina», commentò
allegramente rivolgendole un bel
sorriso.
Regina aveva acceso l’iPhone e stava
registrando tutto. «Vedo che fa parecchi
mestieri, Josh. Chauffeur, donna di
servizio e ricattatore. Sembra che non ci
sia limite ai suoi talenti.»
Il sorriso si spense sulle labbra di
Damiano. «Attenta, Regina», l’ammonì
senza scomporsi. «L’unica ragione per
cui do una mano in casa è che il signor
Powell ha sospeso il normale servizio
di pulizie fino a giovedì, quando se ne
saranno andati tutti.»
«Sentirsi dare della donna di servizio
non le è piaciuto molto, vero, Josh?» lo
apostrofò Regina. «Cosa mi dice della
qualifica di truffatore? Le va di traverso
anche questa?»
Josh Damiano non batté ciglio.
«Preferisco pensare che la sto
proteggendo dall’accusa di aver ucciso
Betsy Powell. Nel messaggio suicida di
suo padre c’è il più esplicito dei
moventi e non si dimentichi che ha
ripetutamente mentito alla polizia
continuando a sostenere di non aver
trovato nessun messaggio né sul corpo di
suo padre, né nelle sue vicinanze.»
«Ma che bella bugiarda che sono,
vero?» ribatté Regina. «D’altra parte ho
anche fatto un grande favore a Robert
Powell nascondendo l’esistenza di quel
messaggio. Ci ha pensato? C’è scritto
chiaro e tondo che aveva lasciato che
sua moglie avesse una relazione con mio
padre solo per rivelargli informazioni
riservate sul suo fondo di investimenti.
Il risultato è che mio padre ha perso tutti
i suoi soldi e così facendo ha permesso
a Powell di salvarsi dalla bancarotta.»
«E allora?»
«Allora nella conversazione che lei
ha registrato in macchina io stavo
mentendo a mio figlio. Ho un’altra copia
del messaggio di mio padre. Ora io le
offro un’alternativa: mi restituisce
l’originale e chiudiamo la partita qui.
Altrimenti oggi stesso consegnerò la
copia del mio messaggio e la
registrazione di questa conversazione al
capo della polizia locale e a finire
dietro le sbarre sarà lei. Devo
presumere che abbia registrato anche
tutte le altre persone che ha
accompagnato in macchina. Scommetto
che, se messe sotto pressione,
consegneranno tutte i loro nastri.»
«Sta scherzando.»
«Nient’affatto. Avevo quindici anni
quando ho trovato quel messaggio. Il
suicidio di mio padre fu l’inizio del
lento declino di mia madre. Se avesse
anche saputo della relazione di mio
padre con Betsy sarebbe crollata ancora
prima.»
Josh Damiano tentò una risatina. «Un
ulteriore buon motivo per cogliere
l’occasione di passare la notte in questa
casa e potersi vendicare di Betsy.»
«Se non che Betsy Powell non
meritava il sacrificio di una vita intera
passata in prigione. Io sono un po’
claustrofobica. Spero che lei non lo
sia.»
Se ne andò senza aspettare una
risposta. In corridoio cominciò a
tremare violentemente.
Avrebbe funzionato? Era la sua unica
speranza. Salì nella stanza in cui
avrebbe trascorso la notte, chiuse la
porta a chiave e controllò l’iPhone.
La batteria era scarica.
61
ALISON
entrò
nello
studio
apparentemente calma ma dentro di sé in
preda a un’ansia frenetica.
Quella notte ero nella stanza di Betsy,
continuava a ripetersi.
Cercò di ricordare le parole
rassicuranti di Rod, ma stranamente a
tornarle alla mente era solo quello che
lei aveva detto a lui, che cioè non
poteva sapere cosa voleva dire
desiderare qualcosa con tutto il cuore e
vederselo portar via.
Proprio a lui dovevo parlare così? si
domandava.
Ricordò i titoli a caratteri cubitali di
quando aveva firmato per i Giants, i
pronostici di un futuro brillante da
grande campione.
Le lunghe ore che lei aveva dedicato
allo studio, erano state le stesse che lui
aveva dedicato a migliorarsi sui campi
da football.
Rod l’aveva amata e corteggiata fin
da quand’erano bambini, sempre pronto
a favorirla.
Ma io avevo intenzione di sposare
uno scienziato, pensò. Saremmo stati il
nuovo dottor Curie e signora. Anzi no, si
corresse, il dottore e la «dottoressa»
Curie.
Quanta presunzione. E Rod accettò
anche quello. Quando mi chiese in
moglie gli dissi di sì perché mi aveva
promesso di farmi specializzare in
medicina.
Dopo l’incidente ho potuto al
massimo diplomarmi come farmacista,
ma non ho potuto lasciarlo. Dentro di me
però non gli ho mai perdonato di avermi
fatto sentire obbligata a restare al suo
fianco.
E anche adesso non posso fare a
meno di pensare che se fossi venuta qui
da sola non mi sarei lasciata andare a
quelle dichiarazioni in macchina. E non
esisterebbe nessuna registrazione!
«Entri, Alison», la invitò Laurie
Moran.
Alex Buckley si alzò in piedi.
Mamma mia com’è alto, pensò
Alison mentre si accomodava davanti a
lui. Si sentiva così rigida da temere che
un movimento troppo brusco l’avrebbe
spezzata in due come se fosse fatta di
vetro.
«Alison, prima di tutto la devo
ringraziare per aver accettato di essere
con noi in questo programma», cominciò
Alex. «Sono passati venti anni dal
Graduation Gala e dalla morte di Betsy
Powell. Perché ha deciso di partecipare
a questo programma?»
La domanda era posta in tono
amichevole. Rod l’aveva ammonita a
stare attenta a non abbassare la guardia.
Ora Alison scelse con cura le parole con
cui rispondere. «Ha idea, può anche
solo vagamente immaginare, che cosa
significhi essere sospettati d’aver ucciso
qualcuno per vent’anni?»
«No, non credo di poterlo neppure
immaginare. Come avvocato penalista,
ho visto molti indiziati costretti a
sopportare di vivere sotto una spada di
Damocle finché una giuria non li ha
dichiarati non colpevoli.»
«Finché una giuria non li ha
dichiarati non colpevoli», ripeté Alison
con la voce carica di amarezza. «Ma non
vede? È proprio qui il problema.
Nessuno ha formalmente accusato
nessuna di noi e di conseguenza siamo
tutte trattate come se fossimo
colpevoli.»
«È così che si sente ancora oggi?»
«Potrebbe essere diversamente? Solo
nel corso di quest’ultimo anno due
testate hanno pubblicato due importanti
articoli sul nostro caso. So sempre
quando si è scritto nuovamente di noi.
Qualcuno entra in farmacia e compra
qualcosa di poco conto come un tubetto
di dentifricio e mi guarda come se fossi
un insetto al microscopio.»
«Un paragone interessante, Alison. Si
è sentita per tutti questi anni come un
insetto al microscopio? Lei sperava di
diventare medico, non è vero?»
Attenta, si ammonì Alison. «Sì.»
«Aveva ogni sacrosanto motivo per
credere che stessero per assegnarle una
borsa di studio, giusto?»
«Ero in gara», rispose pacata Alison.
«Sono arrivata seconda. Succede.»
«Alison, ho svolto qualche ricerca.
Non è forse vero che poco prima che lei
si laureasse Robert Powell aveva
donato dieci milioni di dollari al suo
college per edificare un nuovo
dormitorio intitolato ‘The Robert and
Betsy Powell House’?»
«Sì, lo so.»
«È vero che a ricevere quella borsa
di studio è stata la figlia di un’amica di
Betsy Powell?»
Alison, tu non gliel’hai perdonata.
Non puoi darlo a vedere adesso.
Le sembrava quasi di sentire Rod che
le urlava all’orecchio.
«Ci sono rimasta male, è ovvio.
Meritavo quella borsa di studio e lo
sapevano tutti. Regalarla a Vivian Fields
serviva a Betsy per entrare nel circolo
di cui la madre di Vivian era presidente.
«Ma, vede, il mio rimpianto è finito
lì. Rod aveva appena firmato un
importante contratto con i Giants e la
prima cosa che ha fatto subito dopo è
stata chiedermi in moglie. E il suo
regalo di nozze sarebbe stato la mia
iscrizione alla scuola di medicina.»
«Allora perché non invitò Rod al
Gala, se eravate già fidanzati?»
Alison cercò di sorridere. «Per la
verità è successo prima del nostro
fidanzamento. Per Rod era molto stupido
da parte mia partecipare al Gala dopo
quello che mi aveva fatto Betsy.»
Così i conti tornano, pensò. Non l’ho
invitato perché non ero innamorata di
lui. Ma poi quando lui ha firmato per i
Giants e ha promesso di farmi studiare
medicina, ho accettato di sposarlo...
Lottava per non perdere il controllo.
Alex Buckley la fissò negli occhi.
«Alison, per favore, chiuda gli occhi e
visualizzi il momento in cui entrò nella
stanza di Betsy dopo aver sentito gridare
Jane.»
Il tono della sua voce era quasi
ipnotico. Alison chiuse gli occhi come
le era stato chiesto.
Era nella stanza di Betsy. Mise un
piede sull’orecchino e questo la fece
trasalire. Sentì aprirsi una porta e
s’infilò nella cabina armadio che aveva
alle spalle. Vide entrare qualcuno e
prendere il guanciale di fianco a quello
su cui posava la testa Betsy. Poi
quell’ombra si chinò su Betsy.
Attraverso uno spiraglio dell’anta
guardò il corpo di Betsy dibattersi sotto
il cuscino che la stava soffocando. I suoi
gemiti strozzati si spensero in pochi
istanti.
Poi l’ombra scivolò via. Sognavo, si
chiese Alison, o ho veramente visto una
faccia?
Non lo sapeva. Riaprì di scatto gli
occhi.
«Cosa c’è, Alison?» s’affrettò a
domandarle Alex Buckley sorpreso
dalla sua espressione traumatizzata. «Ha
l’aria spaventata.»
«Basta, non ce la faccio più!»
proruppe Alison. «Basta e basta. Non mi
importa che cosa pensa di me la gente.
Che si chiedano pure se sono stata io a
uccidere Betsy. No, non sono stata io,
ma una cosa vi posso dire: quando sono
entrata di corsa in quella stanza e l’ho
vista morta, ero contenta! E lo erano
anche le altre. Betsy Powell era cattiva
e vanitosa ed era una puttana e spero che
marcisca all’inferno!»
62
ERA la volta di Jane. Non era una donna
nerboruta, ma con quelle spalle larghe e
il portamento militaresco metteva
soggezione. L’immancabile uniforme con
il grembiule bianco inamidato sopra al
vestito nero è quasi una caricatura,
pensò Alex contemplandola. Se non per
i ricevimenti formali, nessuno dei suoi
amici faceva vestire in quel modo il
personale di servizio.
Sedette al posto lasciato libero da
Alison. «Signora Novak», cominciò
Alex, «lei e Betsy Powell avevate
lavorato insieme in teatro?»
Jane gli mostrò un sorriso sottile.
«Detta così fa un effetto molto
lusinghiero. Io tenevo in ordine i
camerini e rammendavo i costumi. Betsy
faceva la maschera e quando
terminavano le repliche in una sala, ci
mandavano in un’altra.»
«Dunque eravate buone amiche.»
«Buone amiche? In che senso?
Lavoravamo assieme. A me piace far da
mangiare. Ogni tanto la domenica
invitavo lei e Claire a cena. Ero sicura
che tutto quello che mangiavano loro lo
compravano precotto. Betsy non ci
sapeva fare in cucina e Claire era solo
una bambina molto dolce.»
«Si è meravigliata quando Betsy si
trasferì a Salem Ridge?»
«Betsy voleva sposare un uomo
ricco. Decise di andare a vivere in una
zona di gente danarosa per avere più
possibilità. La storia le ha dato
ragione.»
«Quando sposò Robert Powell aveva
trentadue anni. Non c’era stato nessuno
prima di lui?»
«Oh, Betsy aveva avuto le sue storie,
ma mai con qualcuno che avesse
abbastanza soldi per lei.» Jane si
concesse un sogghigno. «Avrebbe
dovuto sentire cosa diceva di alcuni di
loro.»
«C’è mai stato nessuno con cui ebbe
un’intesa più importante?» domandò
Alex. «Qualcuno che potrebbe essere
stato geloso del suo matrimonio con il
signor Powell?»
Jane alzò le spalle. «Non direi.
Andavano e venivano.»
«Lei ci è rimasta male quando le
chiese di chiamarla ‘signora Powell’?»
«Rimasta male? Certo che no. Il
signor Powell è una persona molto
formale. Qui io ho un bellissimo
appartamentino tutto per me. C’è
un’impresa di pulizie che viene due
volte la settimana, così non devo
sobbarcarmi nessun lavoro pesante. Mi
piace cucinare e il signor Powell è un
gourmet. Perché avrei dovuto starci
male? Io vengo da un paesino
dell’Ungheria. Ci andava bene se
avevamo l’acqua corrente in casa. E per
i più fortunati la corrente elettrica.»
«Capisco perché era ben felice di
essere qui. Ma da quel che mi risulta
quella mattina, quando fece irruzione
nella stanza di Betsy Powell, si mise a
gridare: ‘Betsy, Betsy!’»
«È vero. Ero così scioccata che non
so nemmeno io che cosa stavo dicendo.»
«Jane, ha qualche teoria personale su
chi abbia ucciso Betsy Powell?»
«Senza dubbio», rispose con
decisione Jane. «In un certo senso mi
sento responsabile della sua morte.»
«Perché mai, Jane?»
«Perché avrei dovuto sapere che
quelle ragazze erano uscite a fumare.
Sarei dovuta rimanere sveglia e avrei
dovuto assicurarmi che la portafinestra
fosse di nuovo chiusa a chiave dopo che
erano andate a letto.»
«Dunque lei pensa che sia penetrato
in casa uno sconosciuto, vero?»
«O
approfittando
di
quella
portafinestra rimasta aperta oppure già
prima, durante la festa. Betsy aveva due
cabine armadio. Chiunque avrebbe
potuto nascondersi in una delle due.
Indossava una parure di smeraldi che
valeva
un
patrimonio
e
non
dimentichiamoci che uno degli orecchini
era sul pavimento.»
Laurie, che seguiva l’intervista da
dietro la telecamera, si domandò se Jane
avesse ragione. A qualcosa del genere
aveva accennato anche Claire. E da quel
che poteva vedere, nulla avrebbe potuto
impedire a qualcuno di salire
nascostamente le scale durante il
ricevimento.
Jane stava dicendo ad Alex di aver
appeso un cordone di velluto davanti a
entrambe le scale, quella principale e
quella sul retro. «Al pianterreno ci sono
quattro toilette», concluse. «Nessuno
aveva bisogno di salire al primo piano,
a meno che avesse intenzione di rubare i
gioielli di Betsy.»
Sembra quasi che si siano messe tutte
d’accordo sulla storia da raccontare,
rifletté Laurie.
«Grazie di aver parlato con noi,
signora Novak», stava dicendo Alex.
«So quanto è difficile rivivere quella
notte terribile.»
«No che non lo sa», ribatté Jane in un
tono di voce venato di tristezza.
«Ricordarsi com’era bella Betsy alla
festa, e poi vederla con il cuscino sulla
faccia e sapere che era morta e sentire il
signor Powell lamentarsi con le mani
ustionate... Lei non può capire quanto sia
difficile riviverla, signor Buckley.
Proprio non può.»
63
PER il resto della mattina Nina si tenne a
gelida distanza da sua madre. Quando
Alison entrò nello studio per la sua
intervista con Alex Buckley, raggiunse
Rod ai bordi della piscina.
«Ti scoccia se mi siedo qui con te
per un po’?» chiese.
Rod ne fu sorpreso, ma sorrise
comunque. «Certo che no.»
Nina si accomodò sulla panca
accanto a lui. «Dimmi, vi siete pentiti tu
e Alison di esservi messi in questa
situazione?»
Rod si girò a guardarla perplesso.
«Senti», tagliò corto allora Nina,
«anch’io ho ricevuto una cassetta e una
l’ha avuta anche Regina. Quanto a Claire
non lo so.
«Ho visto la faccia sconvolta di
Alison dopo aver ascoltato la sua
cassetta. E anche quella di Regina.
Allora ti chiedo, secondo te, Josh
Damiano ha fatto quelle registrazioni per
conto suo o è stato Rob Powell a
ordinargliele?»
«Non ne ho idea», rispose con
cautela Rod.
«Nemmeno io. Ma devo correre il
rischio che Damiano stia operando di
propria iniziativa e per questo gli darò i
cinquantamila che pretende. Penso che
vi converrebbe fare lo stesso. Non so
che cosa ha sentito Damiano di quello
che vi siete detti voi due, ma quel
poliziotto di qui muore dalla voglia di
risolvere il caso di Betsy e se gli capita
fra le mani qualcosa con cui passare al
contrattacco, non ci penserà due volte.»
«Può darsi che tu abbia ragione»,
commentò
Rod
continuando
a
schermirsi. «Ma che cosa potrebbe mai
avere che possa compromettere te?
Certamente non il fatto che tua madre
fosse in rapporti intimi con Rob Powell
prima di sposare Betsy, no?»
«Non è quello», rispose Nina,
serafica. «Se non pago i cinquantamila
dollari a Josh mia madre minaccia di
dire che ho confessato a lei di aver
ucciso Betsy.»
Se fin dal principio di quella
conversazione Rod non aveva smesso di
sentirsi sorpreso, questa volta sfogò
nella voce tutta la sua incredulità. «Ma
questa è pura follia!»
«Tutt’altro», ribadì Nina. «Se Robert
Powell ascolta quel nastro in cui mia
madre dice quanto odiava Betsy, lei si
gioca le ultime possibilità che ha con
lui, possibilità che a mio avviso sono
solo pura fantasia da parte sua. Ma se
Josh Damiano sta agendo per conto
proprio, chi lo sa? Per questo vuole che
paghi i cinquantamila dollari che mi ha
chiesto. Ma vedi io so che Alison aveva
molto più da temere di mia madre, che
al massimo vedrebbe sfumare la sua
speranza di una grande storia d’amore.
Vent’anni fa quando la polizia ci
interrogò tutte quante, io sono stata
molto altruista.» Fece una pausa
guardandolo fisso negli occhi. «Non ho
detto a nessuno che quella sera Betsy fu
semplicemente crudele nei confronti di
Alison. Non faceva che sproloquiare
con tutti gli invitati su quanto fosse
orgogliosa Selma Fields della borsa di
studio che aveva vinto sua figlia Vivian.
E non mancava di aggiungere sempre
che Selma avrebbe dato un party
favoloso per Vivian e che poi tutta la
famiglia avrebbe fatto un giro sullo
yacht che hanno in Costa Azzurra.
Alison passò tutta la sera a sforzarsi di
trattenere le lacrime. E quando Betsy
non fu a tiro d’orecchio, Alison mi
disse: ‘Io l’ammazzo quella strega’.
«Dunque ti chiedo, secondo te questa
informazione non è abbastanza preziosa
perché voi paghiate a Josh Damiano i
cinquantamila che pretende da Alison e
anche i cinquantamila dollari che vuole
da me? Io voglio andarmene da qui con
qualcosa.
«Rod, credimi, sono desolata di tutto
questo, ma non ho scelta. Ho bisogno
fino all’ultimo centesimo di quei
trecentomila per regalare a mia madre
un appartamento e togliermela dai piedi.
Se continuiamo a stare assieme, ti giuro
che va a finire che sarò io ad ammazzare
lei. So bene per esperienza personale i
sentimenti che provava Alison al Gala.»
Si alzò. «Prima di andarmene voglio
che tu sappia quanto vi ammiro. Alison
ti ha sposato per poter andare avanti
negli studi, ma ti è rimasta accanto
quando la splendida carriera che avresti
dovuto fare come sportivo andò in fumo.
La mia teoria è che la tieni legata a te
perché ti ha confessato il delitto. Non è
così, Rod?»
Rod recuperò le grucce e si alzò in
piedi. «È evidente che tu e tua madre
siete fatte della stessa pasta», ringhiò
bianco in volto. «Alison è una donna
sveglia e perspicace. Magari sa esumare
anche lei qualche ricordo su come per
anni tua madre non ha smesso di
torturarti perché per colpa tua Rob
Powell l’ha lasciata per sposare Betsy.
Forse a un certo momento hai perso la
testa e hai ucciso Betsy perché Robert
Powell fosse di nuovo libero. Ma c’è
solo un problema. Nemmeno in un
milione di anni Alison ucciderebbe
qualcuno.»
Nina sorrise. «Quando mi dai una
risposta?» domandò.
«Non lo so», rispose in malo modo
Rod. «Ora, se non ti spiace, mi fai
passare? Mia moglie sta uscendo e
voglio andare da lei.»
«Io credo che invece approfitterò di
una di queste sedie a sdraio», ribatté
gioviale Nina facendosi da parte per
lasciarlo passare.
64
JANE andò direttamente dallo studio alla
cucina. Per pranzo aveva già preparato
una vichyssoise, un’insalata Waldorf e
del prosciutto cotto affettato.
Robert Powell entrò in cucina pochi
minuti dopo. «Jane, stavo pensando.
Fuori fa piuttosto caldo. Mangiamo in
sala da pranzo. Quanti siamo oggi?»
Jane notò subito che il suo umore era
di gran lunga più sereno. Indossava una
camicia celeste e pantaloni beige. Con
quell’espressione rilassata, la folta
chioma bianca e il portamento eretto non
dimostrava certo i suoi anni.
Non invecchia mai, pensò Jane.
Sembrerà sempre un lord inglese.
Lord e lady Powell.
Che cosa le aveva chiesto? Ah, già,
in quanti erano a pranzo.
«Ci sono le quattro laureate»,
cominciò Jane e s’interruppe subito.
«Abbia pazienza, io continuo a pensarle
così. Comunque, poi ci sono la signora
Moran, la signora Craig, il signor Rod
Kimball, il signor Alex Buckley e lei.»
«Gli intrepidi nove», scherzò
allegramente Rob Powell. «O la
disperata accozzaglia. Secondo te quale
delle due, Jane?»
Senza aspettare la sua risposta, aprì
la porta che dava nel patio e uscì in
giardino.
Che cosa gli ha preso? si domandò
Jane. Stamattina sembrava che volesse
sbatterli tutti fuori di casa. Forse si sente
meglio al pensiero che domani non ci
saranno più. Non so che cosa abbiano
raccontato le altre nelle loro interviste,
ma io me la sono cavata alla grande.
Molto soddisfatta di sé, cominciò ad
apparecchiare in sala da pranzo.
Sulla soglia apparve Josh. «Finisco
io», le disse in tono sgarbato. «Tu porta
da mangiare.»
Jane lo fissò sorpresa. «Che
cos’hai?» chiese.
«Ho che io non sono il garzone di
casa», sbottò Josh.
Jane aveva appena cominciato a
disporre le posate. Incredula, si
raddrizzò con le guance infuocate e le
labbra compresse. «Con lo stipendio che
prendi», lo stigmatizzò, «hai una bella
faccia tosta a parlare così solo perché
devi dare una mano in casa per qualche
giorno. Sta’ attento. Sta’ molto attento.
Se ti sentisse il signor Powell, saresti
fuori di qui prima ancora di aprire
bocca. Se gli riferissi questa
conversazione, sarebbe esattamente lo
stesso.»
«Senti,
senti
sua
signoria»,
l’apostrofò lui con disprezzo. «Che fine
hanno fatto tutti i gioielli che George
Curtis regalava a Betsy? E non fingere
di non sapere di che cosa sto parlando.
Quando il signor Rob era via per affari,
ero io che accompagnavo Betsy ai suoi
incontri segreti con George Curtis e
quando ce la portavo, luccicava e
brillava come un albero di Natale. So
che teneva le gioie nascoste da qualche
parte in camera sua, ma non ho mai
sentito che siano state ritrovate. Se c’è
una cosa di cui sono sicuro è che il
signor Powell non ha il minimo sospetto
dell’esistenza di quella tresca.»
«Non sai nemmeno di che cosa sei
sicuro», sibilò Jane. «Allora perché non
teniamo tutti e due la bocca chiusa?
Domani a quest’ora se ne saranno andati
tutti.»
«Un’altra piccola considerazione,
Jane. Se Betsy avesse veramente
lasciato Powell per mettersi con George
Curtis, ti avrebbe portato con sé per due
ottime ragioni. La prima è che ti facevi
comandare da lei a bacchetta come una
schiava. La seconda è che uscita da qui
la tua padrona, quando avesse chiesto il
divorzio, Powell avrebbe assunto degli
investigatori privati per scoprire da
quanto tempo andava avanti il suo
tradimento e avrebbe scoperto che tu la
coprivi tutte le volte che lui chiamava
dall’estero, quand’era via per lavoro.»
«E che cosa pensi che avrebbe fatto
di te se avesse saputo che eri tu a
portarla avanti e indietro dal loro nido
d’amore sulla sua Bentley?» ribatté Jane
con un filo di voce tagliente.
Si guardarono con odio per qualche
istante in silenzio. «Meglio che ci
muoviamo adesso», disse finalmente
Jane in tono conciliante. «Sono stati
avvertiti che il pranzo sarà servito
all’una e mezzo.»
65
ALISON uscì correndo dallo studio come
se stesse scappando. Alex e Laurie
rimasero in silenzio in attesa che Jerry,
Grace e i tecnici fossero usciti dietro di
lei.
«Due delle nostre neolaureate di
allora», cominciò finalmente Alex,
«hanno fornito adesso a un pubblico
vastissimo una ragione convincente
perché una di loro possa avere ucciso
Betsy Powell.»
«Questo è indiscutibile», concordò
Laurie. «E chissà che cosa avranno da
raccontare oggi pomeriggio Regina e
Nina. Mi meraviglierei se a questo punto
non rimpiangessero amaramente tutte e
quattro di essersi lasciate convincere a
partecipare a questo programma,
seppure lo abbiano fatto per denaro.»
«Sono sicuro che si mordono già le
mani», annuì Alex.
«Alex, secondo lei per quale motivo
Powell ha insistito perché questa notte
restassimo tutti qui e ha voluto farsi
intervistare solo domani mattina?»
«Per aumentare la pressione sulle
quattro protagoniste sperando che una di
loro crolli? Se andasse così, lei e io
saremmo i testimoni principali», si
rallegrò Alex. «Ma la mia opinione è
che stia bluffando.» Consultò l’orologio.
«Meglio che chiami l’ufficio. Ci
vogliono di là tra un quarto d’ora.»
«E io provo a sentire mio padre.»
Alex finse di cercare qualcosa nella
sua cartella.
Voleva essere presente se Leo Farley
non avesse risposto al telefono.
66
IL «pronto» brioso di Leo smussò
immediatamente l’ansia di Laurie.
«Ho sentito che ieri sera eri fuori
città, papà», gli disse.
«Sì, avevo un appuntamento di quelli
che danno le palpitazioni al Mount
Sinai. Come va il tuo show?»
«Perché non mi hai chiamato quando
sei andato in ospedale?»
«Perché così non ti precipitavi qui.
Ho avuto queste crisi altre volte. Jim
Morris mi ha detto di calmarmi
guardando qualche programma di quiz in
televisione. Al momento sto guardando
una replica di Lucy ed io.»
«Allora non sia mai che ti
interrompa. Sarò lì al più tardi alle sette
e mezzo.» Esitò per qualche istante.
«Papà, mi giuri che adesso stai bene?»
domandò alla fine.
«Sto bene. Smettila di preoccuparti.»
«Me lo rendi parecchio difficile»,
ironizzò Laurie. «Va bene, tornatene alla
tua sit-com. Ci vediamo più tardi.»
Con una mano si lasciò cadere il
cellulare in tasca. Con l’altra frugò
impaziente l’altra tasca in cerca di un
fazzoletto di carta con cui asciugarsi le
lacrime che le si stavano affacciando.
Alex gliene porse uno di tela stirato
di fresco. «Laurie», la esortò mentre lei
lo prendeva dalla sua mano con un
sorrisetto di gratitudine, «non fa male
lasciarsi andare ogni tanto.»
«Ma io non posso», mormorò lei. «Il
giorno che mi lascio andare, mollo tutto
per sempre. Sento quella minaccia che
mi rimbomba continuamente nelle
orecchie. L’unico modo che ho per
preservare il lume della ragione è
sperare che Occhi Blu mantenga la sua
promessa e che uccida prima me. Forse
quando lo farà lo prenderanno. E se
riuscirà a non farsi catturare, forse mio
padre e Timmy potranno cambiare
identità e scomparire, chi lo sa? Ma se
ci trovassimo allo scoperto insieme io e
Timmy? O se morissi io e non ci fosse
mio padre a proteggere Timmy?»
Alex non trovò una risposta che
valesse la pena darle. Laurie smise
immediatamente di piangere, prese il
portacipria dalla borsetta e si ritoccò gli
occhi. Quando si girò verso di lui, nella
sua voce non c’era traccia di stress.
«Meglio che lei faccia quella sua
telefonata, Alex», lo sollecitò. «‘Il
signor Rob’ ci aspetta a tavola tra
quindici minuti precisi.»
67
QUANDO Robert Powell fece il suo
ingresso, il capo della polizia Penn, le
quattro ex neolaureate, Rod, Alex,
Muriel e Laurie erano già a tavola.
«Che silenzio», commentò il padrone
di casa. «Ma posso capire, la tensione è
notevole per tutti.» Fece una pausa
guardandoli uno a uno. «Me incluso.»
Si affacciò alla porta Jane con
l’intenzione di entrare.
«Jane, vuoi per piacere scusarci e
chiudere la porta? Ho alcune cose da
dire ai miei ospiti.»
«Senz’altro, signore.»
«Dunque», cominciò Powell dopo
che Jane si fu ritirata, «nessuno di voi ha
notato che questa giornata così bella è
proprio come quella di vent’anni fa? La
mattina del Gala ricordo che ero seduto
a questo tavolo con Betsy. Ci
congratulavamo l’un l’altro per aver
azzeccato una giornata di tempo così
perfetto. Chi di noi avrebbe mai
immaginato che l’indomani mattina
Betsy sarebbe stata trovata morta,
assassinata da un intruso?» Fece una
pausa. «O forse non da un intruso?»
Attese, ma nessuno si azzardò ad
aprire bocca. «Bene», riprese Powell in
tono vivace, «vediamo se ho ben chiara
la situazione. Oggi pomeriggio verranno
intervistate prima Regina e poi Nina.
Verso le quattro e mezzo le quattro
donne indosseranno vestiti da sera in
tutto e per tutto identici a quelli che
portavano quella sera e saranno
fotografate sullo sfondo di sequenze
riprese durante il Gala. Accanto a lei, in
piedi, Alex, ci sarà il mio buon amico
George Curtis a dare le sue impressioni
su quella serata.»
Guardò Laurie. «Fin qui tutto
giusto?»
«Sì», confermò lei.
Powell sorrise. «Domani mattina
sarò io a farmi intervistare da lei, Alex,
alla presenza delle quattro ospiti
d’onore. Spero e mi aspetto che
troverete tutto molto interessante. Una
persona in particolare.» Il suo sorriso si
assottigliò.
«Quanto a questa notte, tutte le
persone ora intorno al tavolo con la sola
eccezione del capo Penn, saranno ospiti
di casa mia. Finito di girare l’ultima
scena, le protagoniste dello show
saranno individualmente riaccompagnate
ai rispettivi alberghi. Farete i vostri
bagagli e lascerete l’albergo. I bagagli
verranno caricati sulla vostra macchina.
Cenerete per conto vostro dovunque
preferiate, naturalmente a mie spese, ma
siete tutte pregate di rientrare per le
undici. A quell’ora berremo insieme il
bicchiere della staffa e andremo tutti a
dormire. Desidero che tutti siano
perfettamente presenti per quanto ho da
dichiarare domani. Siamo intesi?»
Questa volta, sempre in silenzio, tutti
annuirono.
«Domani, all’ora di pranzo, vi
consegnerò gli assegni che vi sono stati
promessi. Dopodiché una di voi
potrebbe voler usare quei soldi per
comprare l’assistenza del signor
Buckley.» Rivolse loro un sorriso
maligno. «Scherzavo, naturalmente»,
aggiunse.
Si girò verso Nina. «Nina, non sarà
necessario che tua madre torni in
albergo con te. Questa sera io e Muriel
usciamo a cena insieme. È ora di
lasciarci il passato alle spalle.»
Muriel rivolse a Powell un sorriso
adorante, poi scoccò un’occhiata di
trionfo alla figlia.
«E ora basta parlare d’affari.
Godiamoci il pranzo. «Jane», chiamò.
«Ora può tornare. So che ha preparato
una vichyssoise. Nessuno può affermare
di aver veramente vissuto se non ha
ancora assaggiato la vichyssoise di Jane.
È puro nettare degli dei.»
Fu servita nel silenzio più assoluto.
68
USCITA dalla sala da pranzo, Regina
attraversò il patio diretta al pulmino del
trucco. La temperatura all’esterno era in
netto contrasto con l’ambiente fresco
della casa, ma il caldo le fu di conforto.
Dopo aver ascoltato il complicato
programma stabilito da Robert Powell
per il resto di quella giornata e
l’indomani mattina, era sicura di una
cosa soltanto: aveva il messaggio
suicida di suo padre. Quale prova più
schiacciante si poteva desiderare per
inchiodarla come l’assassina di Betsy?
Per ventisette anni, anche sotto
giuramento,
aveva
ripetutamente
sostenuto che quel messaggio non era
mai esistito, né sul corpo di suo padre,
né nelle immediate vicinanze.
Chi avrebbe potuto avere un movente
più logico per uccidere Betsy? si
domandava. E non c’era dubbio che
Robert Powell fosse deciso a risolvere
una volta per sempre il mistero della
morte della moglie. Era quello lo scopo
per cui aveva finanziato il programma.
Passò oltre la piscina. Con
quell’acqua cristallina che rifletteva il
sole e i colori vivaci delle sedie a
sdraio tutt’attorno, aveva un che di
scenografia teatrale. Negli inviti, tutte
erano state sollecitate a portare con sé
dei costumi da bagno.
Non lo aveva fatto nessuna di loro.
E comunque la pool house, una
replica in piccolo della villa padronale,
non veniva usata da nessuno oltre il
giardiniere, l’uomo che vedeva entrare e
uscire incessantemente con il compito di
prendersi cura del giardino.
Arrivata al pulmino, esitò per
qualche istante prima di aprire lo
sportello.
All’interno Meg era in attesa davanti
al ripiano con i cosmetici allineati in
buon ordine.
Poco distante Courtney stava
leggendo davanti al suo tavolo di
spazzole, spray e asciugacapelli.
Qualche ora prima Courtney aveva
detto a Regina che non c’era donna al
mondo che non avrebbe fatto carte false
per avere quel casco di riccioli
compatti. «E scommetto che lei li
considera una seccatura per la velocità
con cui ricrescono.»
Esattamente, aveva pensato Regina.
Evitò di guardare la parete di sinistra
dov’erano stati appesi gli ingrandimenti
di lei e delle altre neolaureate al Gala.
Non aveva bisogno che le foto le
ricordassero come erano. Claire senza
una traccia di trucco, i capelli raccolti in
una coda di cavallo, il vestito a collo
alto con maniche fino ai gomiti. Alison
con l’abito da sera confezionato dalla
madre, sarta di talento che realizzava
tutti i suoi capi: il padre di Alison
dirigeva il reparto ortofrutticolo in un
grande magazzino di generi alimentari.
Nina, con la sua scollatura generosa, i
capelli rosso fiamma, il trucco applicato
con maestria. Sempre così sicura di sé,
pensò Regina.
E io ero quella più elegante. Dopo
che abbiamo perso tutto, la mamma è
andata a lavorare da Bergdorf. Anche se
quel vestito era scontatissimo, non ce lo
potevamo comunque permettere. Ma lei
ha insistito. «Tuo padre te lo avrebbe
comprato», mi ha detto.
Solo allora Regina si accorse di non
aver rivolto la parola né a Meg né a
Courtney. «Salve a tutte e due»,
esclamò. «Non prendetemi per matta.
Stavo solo pensando all’intervista.»
«Anche Claire e Alison erano
nervose», rispose ridendo Meg. «Per
forza, questo è un programma che verrà
trasmesso in tutto il mondo.»
Regina prese posto al tavolino di
Meg.
«Grazie di avermelo ricordato»,
commentò mentre Meg le agganciava
intorno al collo una mantellina di
plastica.
Quella mattina, per la posa da
scattare nello studio delle quattro donne
dopo il ritrovamento del corpo e
l’arrivo della polizia, Meg aveva scelto
un trucco molto leggero e Courtney
aveva sistemato i capelli in maniera che
fossero un tantino spettinati, come quella
mattina dopo la morte di Betsy.
Indossavano tutte indumenti di
propria scelta. «Vestitevi comode»,
aveva consigliato loro Laurie.
Regina aveva scelto una giacca di
lino blu scuro, top bianco e pantaloni
larghi. Come ornamento aveva solo il
filo di perle che le aveva regalato suo
padre per il quindicesimo compleanno.
Ora guardò nello specchio i gesti
sicuri con cui Meg cominciava ad
applicare, fondotinta, blush, ombretto,
mascara e rossetto.
Alle sue spalle Courtney usò pochi
colpi di spazzola per crearle una mezza
frangia sulla fronte con le ciocche
laterali fermate dietro le orecchie.
«Sei bellissima», dichiarò.
«Molto attraente», fece eco Meg.
Mentre Meg toglieva a Regina la
mantellina di plastica, Jerry aprì lo
sportello. «Ci siamo, Regina?» chiese.
«Credo di sì.»
S’incamminarono insieme verso la
villa. «So che è nervosa, Regina», cercò
di sostenerla Jerry. «Ma non c’è motivo.
Ci crede se le dico che Helen Hayes ha
sofferto di panico da palcoscenico tutte
le sere fino al momento di entrare in
scena?»
«Buffo», rispose Regina. «Lei sa che
ho un’agenzia immobiliare. Giusto
stamattina pensavo che il giorno in cui
ho ricevuto la lettera che mi invitava a
partecipare a questo programma ero così
sballata da aver presentato malissimo la
casa che dovevo vendere. La
proprietaria era una signora di
settantasei anni che voleva andare a
vivere in una struttura per anziani dove
sarebbe stata assistita. Ho venduto la
casa per lei due mesi dopo e per
trentamila dollari meno di quanto avrei
potuto spuntare la prima volta. Quando
riceverò il compenso per questo
programma, le restituirò la mia
percentuale.»
«Allora lei è una vera mosca
bianca», commentò Jerry mentre faceva
scorrere la portafinestra tra patio e
cucina.
Regina ricordava che quella stessa
mattina, qualche ora prima, avevano
bloccato l’ingresso al patio.
«Non c’è nessuno fuori ora ed è
scomparsa anche Jane», osservò Jerry.
«Si starà prendendo una pausa anche lei,
in fondo.»
Dove sono le altre? si domandò
Regina mentre imboccavano il corridoio
diretti allo studio. Hanno paura di stare
assieme?
Non ci fidiamo l’una dell’altra,
pensò. Ciascuna di noi aveva un motivo
per uccidere Betsy, ma il mio è il più
lampante.
Nello studio l’aspettavano Laurie
Moran e Alex Buckley. In disparte c’era
anche Grace, l’assistente di Laurie. Un
tecnico stava ancora sistemando le luci.
L’operatore era al suo posto dietro la
telecamera.
Senza essere invitata, Regina si
sedette al tavolo di fronte ad Alex.
Cominciò a tormentarsi le mani.
Smettila, ordinò a se stessa. Sentì Laurie
che le dava il benvenuto e rispose a
modo.
Fu poi la volta di Alex Buckley, ma a
dispetto delle parole di saluto Regina
vide che aveva assunto un atteggiamento
ostile. Quando tirerà fuori il messaggio
suicida di mio padre? si chiese.
«Prima», annunciò il regista e
cominciò a contare. «Dieci, nove, otto,
sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno.»
Si udì il ciak e Alex cominciò.
«Ci troviamo ora in compagnia della
terza delle quattro ospiti d’onore al
Graduation Gala, Regina Callari.
«Regina, grazie d’aver accettato di
essere con noi in questo programma. Lei
è cresciuta in questa città, vero?»
«Sì.»
«Eppure da quel che so non vi ha più
rimesso piede da quando andò via poco
dopo il Gala e la morte di Betsy Bonner
Powell, giusto?»
Devi mostrarti calma, ricordò a se
stessa Regina.
«Come certamente le hanno spiegato
le altre, tutte e quattro venivamo trattate
da indiziate di omicidio. In una
situazione del genere, lei sarebbe
rimasto qui?»
«Poco dopo si trasferì a vivere in
Florida. Venne con lei anche sua
madre?»
«Sì, più tardi.»
«Quando è morta era ancora molto
giovane, vero?»
«Stava per compiere cinquant’anni.»
«Com’era?»
«Era una di quelle donne che si
dedicano a fare del bene, ma non le
andava di mettersi in mostra.»
«Com’erano i rapporti con suo
padre?»
«Anime gemelle.»
«Di che cosa si occupava suo
padre?»
«Acquistava aziende in difficoltà, le
rimetteva in piedi e le vendeva
realizzando enormi guadagni. Era
bravissimo.»
«Ci torneremo sopra più tardi. Ora
desidero parlare della notte del Gala
cominciando da quando eravate tutte
insieme nello studio.»
Laurie ascoltò e osservò Regina
raccontare la stessa storia delle sue
amiche. Avevano bevuto molto. Avevano
discusso della serata, avevano riso
dell’abbigliamento di alcune delle
invitate più anziane. Alla fine Regina
descrisse il ritrovamento del cadavere
di Betsy usando praticamente le stesse
parole delle compagne che l’avevano
preceduta.
«Eravamo giovani. Si sa naturalmente
che tutte noi avevamo i nostri motivi per
non amare particolarmente i Powell»,
stava dicendo Regina. «Ma io ricordo
che quella sera ero serena e rilassata e
contenta di essere con le mie amiche.
Abbiamo continuato a riempirci i
bicchieri di vino e a uscire a fumare nel
patio. Persino Claire scherzava su
quant’era pedante il suo patrigno sul
fumo. ‘Vi prego’, diceva, ‘non accendete
la sigaretta finché non siete in fondo al
patio dall’altra parte. Rob ha il naso di
un segugio.’
«Parlavamo dei nostri progetti. Nina
andava a Hollywood. Era sempre la
protagonista
principale
nelle
rappresentazioni al liceo e al college e
poi naturalmente sua madre faceva
l’attrice. Scherzò persino sul fatto che
sua madre la tormentava ancora per aver
chiamato Claire e Betsy al loro tavolo
quando erano al ristorante. È così che
Betsy conobbe Rob.»
«E Claire come reagì?» chiese subito
Alex.
«Le ha detto: ‘Sei fortunata, Nina’»,
rispose Regina.
«Secondo lei che cosa intendeva?»
«Ho le mie teorie», replicò con
sincerità Regina. «Ma sono solo
congetture.»
«Torniamo un po’ più indietro»,
propose Alex. «Ho visto delle foto di
casa sua. Era davvero molto bella.»
«Lo era», concordò Regina. «E
soprattutto era una casa comoda e
accogliente.»
«Ma poi suo padre investì nel fondo
di Robert Powell e tutto cambiò.»
Regina capì al volo dove stava
andando a parare. Fa’ attenzione adesso,
si ammonì, perché sta costruendo il
movente per il quale a uccidere Betsy
saresti stata tu.
«Dev’essere stato difficile non
provare risentimento per il fatto che con
quell’investimento suo padre aveva
perso praticamente tutto quello che
aveva.»
«Mia madre era rattristata ma senza
rancore. Mi disse che mio padre aveva
l’animo del giocatore d’azzardo e che
più di una volta metteva troppa carne al
fuoco. D’altra parte non era mai stato
avventato.»
«Ma lei ha conservato un buon
rapporto con Claire, vero?»
«Sì, finché non ce ne siamo andate
via tutte da Salem Ridge. Credo che
dopo la morte di Betsy ci fosse tra noi il
tacito accordo di non tenerci in
contatto.»
«Che effetto le ha fatto rimettere
piede in questa casa dopo la morte di
suo padre?»
«Sono stata qui molto raramente. Non
credo che a Rob Powell facesse piacere
vedere le amiche di Claire. Ci si
incontrava caso mai a casa dell’una o
dell’altra.»
«Allora perché aveva voluto
organizzare il Gala per tutte e quattro?»
«Credo che fosse un’idea di Betsy.
Alcune delle sue amiche davano dei
party per festeggiare la laurea delle loro
figlie. Betsy ha voluto surclassarle.»
«In che stato d’animo era la notte del
Gala?»
«Avevo nostalgia di mio padre.
Pensavo a quanto sarebbe stata perfetta
quella bella serata se fosse stato ancora
vivo. Era stata invitata anche mia madre
e posso dire di aver visto nei suoi occhi
che i suoi pensieri erano simili ai miei.»
«Regina», incalzò Alex, «fu lei a
scoprire il corpo di suo padre quando
aveva quindici anni.»
«Infatti», rispose a bassa voce
Regina.
«Sarebbe stato più facile per voi se
avesse lasciato un messaggio? Se si
fosse scusato di essersi tolto la vita e di
aver perso tutti quei soldi? Se avesse
scritto un’ultima volta quanto vi aveva
voluto bene? Crede che sarebbe stato
d’aiuto a lei e a sua madre?»
Il vivo ricordo di quella pedalata per
il lungo viale d’accesso sentendosi
felice, con l’aria salmastra a riempirle
ancora le narici, del momento in cui
premeva il pulsante di apertura del
portellone del garage e vedeva il suo
amato padre quarantacinquenne appeso
al cappio con una mano stretta sulla
corda, forse per aver cambiato idea
quand’era ormai troppo tardi, incrinò la
fragile compostezza di Regina.
«Crede che un messaggio avrebbe
potuto cambiare qualcosa?» chiese con
la voce strozzata. «Mio padre era
morto.»
«Ha mai ritenuto Robert Powell
responsabile della morte di suo padre
che aveva perso tutto investendo nel suo
fondo?»
A quel punto quel che restava della
sua compostezza crollò del tutto.
«Ritengo responsabili tutti e due. Betsy
è colpevole d’aver ingannato mio padre
tanto quanto lo aveva fatto Powell.»
«E lei come fa a saperlo, Regina?
Sarà forse perché suo padre aveva in
effetti lasciato un messaggio?»
Alex attese, ma qualche secondo
dopo tornò alla carica. «Lo aveva
lasciato un messaggio, vero?»
Regina sentì la propria voce
mormorare debolmente: «No... no... no»,
sotto lo sguardo dell’avvocato che la
fissava
con
un
atteggiamento
comprensivo ma insieme inquisitorio.
69
DOPO aver ascoltato la telefonata di
Laurie a suo padre, l’eccitamento di
Bruno salì a livello di batticuore.
Rifletté con gioia febbrile come ogni
cosa si stesse evolvendo nel senso da lui
desiderato.
Leo Farley sarebbe rimasto in
ospedale fino all’indomani mattina.
Leo e Laurie avrebbero ricevuto
insieme in ospedale la telefonata di
Timmy.
Due ore dopo vado a prendermelo,
pensò Bruno. Leo aveva già avvertito il
direttore del campo di essere stato
ricoverato. Bruno si sarebbe presentato
vestito da poliziotto.
Un giochetto, niente di più facile.
E se anche alla fine dovessero
prendermi, pazienza, ne è valsa la
pena.
Il caso di «Occhi Blu» aveva
meritato l’attenzione dei mass media per
anni e se ne parlava ancora. Se solo
sapessero che mi sono fatto cinque
dannati anni di prigione dopo aver
ucciso il marito di Laurie. E solo per
una rognosa violazione della libertà
vigilata. Ma a suo modo è stato meglio
così. Leo Farley e sua figlia hanno
vissuto per cinque anni nell’incubo di
non sapere quando e come avrei colpito
di nuovo. Ma da domani non dovranno
più aspettare.
Bruno intascò il cellulare e uscì in
tempo per vedere la macchina del capo
della polizia fermarsi dietro i pulmini
della TV. Era venuto per pranzo.
Bruno si allontanò nella direzione
opposta, arrivando fino al primo green
del campo da golf, in modo che lo sbirro
non avesse la possibilità di distinguere
bene la sua faccia.
Una cosa che Bruno aveva imparato
era che gli sbirri avevano una memoria
da elefante per le fisionomie, anche se
una persona era invecchiata o si era
rasata o fatta crescere barba, baffi o
basette.
A parte quegli idioti che mettono la
propria foto su Facebook.
Rise a voce alta a quel pensiero.
Un’ora dopo stava esaminando con
attenzione le aiuole ai bordi della vasca
della piscina quando vide l’auto della
polizia che ripartiva.
Voleva dire che lo sbirro non si
sarebbe più visto fino all’indomani.
Giusto in tempo per il Gran Finale,
pensò soddisfatto Bruno.
70
DOPO pranzo Nina e Muriel non si
parlarono. Muriel aveva evidentemente
chiesto a Robert Powell di metterle a
disposizione un’automobile per il
pomeriggio, perché ce n’era una ferma
davanti all’ingresso che la stava
aspettando.
Nina sapeva che cosa significava. I
costosi capi d’abbigliamento che sua
madre aveva comprato usando la sua
carta di credito stavano per essere messi
in naftalina e sostituiti con altri nuovi di
zecca, tutti comunque sempre acquistati
con i soldi di Nina.
Salì in camera a riordinare i pensieri
prima di essere chiamata per la sua
intervista.
Anche la sua stanza, come le altre,
era
spaziosa,
con
una
zona
conversazione composta da divano,
chaise longue, tavolino e televisore.
Si sedette sul divano a contemplare il
tessuto color crema dietro la testiera del
letto, le cui guarnizioni riprendevano
quelle delle tende, il tappeto
armonizzato con la moquette e
coordinato con le federe dei guanciali. Il
tocco di un architetto d’interni raffinato,
pensò.
Ricordò che un anno circa prima di
morire, Betsy aveva commissionato una
ristrutturazione completa. Era stata
Claire a raccontarlo alle amiche.
«Mi è stato chiesto di portarvi a
vedere la stanza nuova», aveva detto
Claire. «Mia madre vuole che nessuno si
perda il giro turistico.»
Il «giro turistico» era avvenuto dopo
la sua morte. Peraltro un’amica che nella
sua stessa università si stava
specializzando in legge le aveva
spiegato che, se qualcuno fosse stato
accusato della morte di Betsy, quel
particolare sarebbe stato un elemento
utile alla difesa: erano moltissime le
persone che conoscevano bene la
planimetria della villa... e sapevano che
Betsy e Robert dormivano in camere
separate.
Cosa succederà? si chiese Nina.
Sono sicura che Robert stia bluffando.
Si sta prendendo gioco di mia madre che
come al solito la farà pagare a me.
Davvero
saprebbe
essere
così
vendicativa da sostenere di averle
confessato di aver ucciso Betsy?
No, concluse, non arriverebbe mai
fino a quel punto, nemmeno lei.
O mi sbaglio?
Squillò il suo telefono. Quando lo
prese sgranò gli occhi riconoscendo il
numero. «Pronto, Grant?» rispose.
Il calore che sentì nella voce di Grant
nel pronunciare il suo nome non era solo
cordialità.
Le disse di non prendere nessun
impegno per sabato sera. Voleva che
andasse con lui a un ricevimento a casa
di Steven Spielberg.
Con Grant a un party a casa di Steven
Spielberg! Voleva dire mescolarsi alla
crème de la crème di Hollywood.
E se sua madre avesse dichiarato che
le aveva confessato di aver ucciso
Betsy? O, quasi altrettanto orribile,
fosse tornata in California con lei a
riprendere da dove avevano lasciato,
avendola sul collo, sbraitandole
addosso da mattina a sera, vivendo in
una casa che sembrava una stamberga, in
mezzo a bicchieri sporchi abbandonati
dappertutto, in una soffocante nuvola di
fumo di sigarette.
«Non vedo l’ora di averti al mio
fianco sabato sera», mormorò Grant.
Adesso non fare come Muriel, non
fare la sdolcinata e non metterti a
scodinzolare come un cagnolino,
ammonì se stessa Nina. «Anch’io non
vedo l’ora, Grant», rispose evitando di
manifestare un entusiasmo eccessivo.
Chiusa la comunicazione, Nina
rimase immobile al suo posto,
momentaneamente estranea a tutto ciò
che la circondava.
Non so in che modo lo farà, ma di
sicuro mia madre mi rovinerà il resto
della vita, pensò.
Il telefono squillò di nuovo. Era
Grace. «Nina, vuole per piacere
scendere al trucco?» la chiamò.
«Saranno pronti per la sua intervista tra
mezz’ora circa.»
71
CONCLUSA l’intervista a Regina, Laurie
e Alex si trattennero nello studio a
discuterne.
«Sono stato troppo duro con
Regina?» volle sapere Alex.
«No, non direi», rispose lentamente
Laurie. «Ma alla fine credo che nessuno
che abbia seguito l’intervista dubiti più
dell’esistenza di un messaggio suicida.
Ma perché una ragazzina di quindici
anni avrebbe dovuto nasconderlo?»
«So già che lei si è fatta un’idea»,
rispose Alex. «Non creda che non mi sia
accorto che tutte le volte che mi chiede
un parere, lei ha già formulato un’ipotesi
per conto suo.»
«Mi dichiaro colpevole.» Laurie
sorrise. «La mia teoria è che in quel
messaggio c’era qualcosa che Regina
non voleva che sua madre leggesse e che
si tratti di qualcosa che riguarda Betsy.
Forse che suo padre aveva una relazione
con lei. Così la vedo io. Ricorda quando
Regina ha detto che i suoi genitori erano
‘anime gemelle’?»
«E questo apre un’altra inquietante
prospettiva, la possibilità cioè che Betsy
abbia influenzato il padre di Regina a
prendere l’incauta decisione di investire
tutto quello che aveva nel fondo di
Powell», ipotizzò Alex. «Questo non
costituirebbe un forte movente perché
Regina possa aver colto l’occasione
favorevole che le si offriva di punire
Betsy?»
«Se fossi nei suoi panni e avessi
perso i miei genitori e tutto quello che
avevo per colpa di Betsy Powell», gli
rispose Laurie, «io potrei uccidere. So
che potrei.»
«Lei pensa di poterlo fare», la
corresse Alex. «Ma ora mi racconti che
cosa ha pensato del discorsetto di
Robert Powell a pranzo. Io per parte
mia le dirò subito che secondo me è un
bluff, ma se qualcuno di quelli che erano
seduti intorno a quella tavola ha
veramente ucciso Betsy Powell, può
aver creduto alla sua minaccia. Certo
che il suo è un gioco altamente
pericoloso.»
72
NINA si guardò nello specchio mentre
Meg le agganciava dietro il collo la
mantellina di plastica.
«Attenta,
Meg»,
avvertì
la
truccatrice, «oggi vi è stato detto di farci
sembrare delle bambolotte.»
«Ci è stato chiesto di farvi sembrare
com’eravate la mattina in cui avete
trovato Betsy morta nel suo letto», la
contraddisse Meg senza scomporsi. «E
già allora lei spiccava su tutte le altre.»
«Diciamo che ero passabile, ma per
questa intervista voglio che mi faccia
somigliare un po’ a lei.» Così dicendo,
Nina le mostrò una foto che ritraeva
Grant in compagnia di Kathryn, la
moglie defunta.
Meg studiò attentamente la foto. «Le
somiglia di già», commentò.
«Perché
voglio
assomigliarle»,
dichiarò Nina.
Aveva cercato in Internet tutto quello
che c’era su Grant Richmond.
Nonostante la grande notorietà come uno
dei principali produttori di Hollywood,
conduceva una vita appartata dietro le
quinte. Si era sposato a ventisei anni,
quando sua moglie ne aveva ventuno.
Due anni prima, dopo trent’anni di
vita coniugale, sua moglie era morta in
seguito a un difetto cardiaco congenito
che si portava dietro da sempre.
Niente figli e nemmeno l’ombra di
uno scandalo.
Dunque Grant era un monogamo
naturale ed era solo da due anni.
Probabilmente adesso cominciava ad
avere di nuovo bisogno di compagnia.
Ed era vicino ai sessanta.
Nina richiamò una seconda immagine
dall’archivio del suo telefonino. «E
questa a chi somiglia?» domandò.
Meg osservò per qualche attimo la
foto. «È la stessa di prima, Nina. O è
una parente?»
Nina annuì soddisfatta. Non sono
solo una brava imitatrice, le assomiglio
davvero.
«No, Meg», ribatté, «non è una
parente, ma quando mi trucca voglio
assomigliare a lei.»
«Allora devo rinunciare all’eye-liner
pesante e all’ombretto.»
«A me sta bene.»
«Ecco fatto», annunciò Meg mezz’ora
dopo.
Nina si controllò nello specchio.
«Potrei essere sua sorella», si
compiacque. «Perfetto.»
«Tocca a me adesso, Nina, si sta
facendo tardi», intervenne Courtney.
«Lo so.» Nina si spostò da lei. Le
mostrò la sua foto. «E in questa aveva i
capelli corti», disse a Courtney. «Non
voglio che lei tagli i miei, però.»
«Non lo
farò»,
rispose
la
parrucchiera. «Li pettino in maniera da
ottenere lo stesso effetto.»
Cinque minuti dopo Jerry bussò allo
sportello del pulmino. Quando entrò,
rimase
interdetto
davanti
alla
trasformazione di Nina.
«Pronta, Nina?» chiese quando si fu
ripreso.
«Sono pronta.» Nina si diede
un’ultima occhiata allo specchio prima
di alzarsi. «Queste sono due maghe»,
commentò. «Non è d’accordo anche lei,
Jerry?»
«Sottoscrivo», rispose lui con
sincerità. «Nel senso che non c’è
nessuno più bravo di loro a cambiare
look a una persona», si affrettò ad
aggiungere.
Nina rise. «Buon per lei che ha fatto
questa precisazione.»
Mentre procedevano verso la villa,
Jerry confrontò mentalmente le quattro
donne. Nina era quella che gli piaceva
di più. Le altre sembravano imprigionate
nel proprio guscio. Considerato che
erano state amiche del cuore fino ai
ventun anni, era strano quanto poco
avessero da dirsi adesso. Quando erano
nel patio tra una ripresa e l’altra,
ciascuna di loro si appartava con un
libro o uno smartphone.
Per la verità era quello che faceva
anche Nina, se non quando Muriel
pretendeva di chiacchierare. Dava
sempre retta a sua madre quando Muriel
cominciava a tessere gli elogi di Robert
Powell e a proclamare il suo
incommensurabile affetto per Betsy.
Era come se Muriel sperasse sempre
di essere sentita da Powell, pensò Jerry.
Recita sopra le righe. Con tutta la gente
che ho visto esibirsi su un set o un altro,
credo di saperne qualcosa.
Stavano passando davanti alla
piscina. «Una giornata come questa
meriterebbe una nuotatina», osservò. «A
lei non piacerebbe tuffarsi?»
«Di sicuro mi piacerebbe fare due
bracciate nella piscina del mio centro
residenziale», ammise Nina. «È una
cosa che faccio tutti i giorni, o di sera se
lavoro fino a tardi.»
Che cosa dire? si chiedeva intanto.
Che genere di domande mi faranno?
Cosa succederà domani quando Robert
Powell ci congederà? Mia madre
approfitterà di quell’occasione per
giurare che le ho confessato di aver
ucciso Betsy e reclamare la ricompensa?
Puoi scommetterci!
Non glielo permetterò.
Jerry non tentò di protrarre la
conversazione. A differenza di Regina,
Nina non sembrava nervosa, ma vedeva
che era assorta nei suoi pensieri,
evidentemente si stava preparando per
l’intervista.
«Ecco il torbido Fantasma della Pool
House», esclamò all’improvviso Nina
sorprendendolo. Indicò Bruno, che si
trovava in giardino dietro la villa.
«Cosa sta facendo? Da la caccia agli
insetti sulle piante?»
Jerry rise. «Il signor Powell è una
persona molto pignola. Pretende che
tutta la proprietà sia sempre in
condizioni perfette. Ieri, quand’eravamo
qui fuori a scattarvi delle foto, avrebbe
dovuto vedere gli occhi che ha fatto per
le tracce che avevamo lasciato
nell’erba. Dopodiché il Fantasma della
Pool House, come lo ha definito lei, si è
precipitato fuori a rimettere tutto a
posto.»
«Ah, certo, ricordo bene che razza di
perfezionista era!» sbottò Nina.
Quell’ultima sera, quando continuavamo
a entrare e uscire dallo studio per
fumare nel patio, rammentò, al momento
di spegnere la sua ultima sigaretta
Regina mancò deliberatamente il
posacenere e schiacciò il mozzicone sul
ripiano del tavolo. Credo di essere stata
l’unica a vederla.
Devo raccontare questa storia
all’intervista?
Anche questa volta nel patio e in
cucina non c’era nessuno.
Grant guarderà di certo il programma
quando verrà trasmesso, si disse Nina
mentre percorreva con Jerry il corridoio
verso lo studio. Io ero di certo quella
che aveva meno motivi di voler uccidere
Betsy. Nessuna persona sana di mente
sospetterebbe di me. Il fatto che mia
madre mi ritenga responsabile di averli
presentati non potrebbe mai diventare il
movente di un omicidio.
Sostò per un momento davanti alla
porta dello studio. Bene, ormai ci siamo,
pensò. Là dentro c’erano Alex e Laurie
ad aspettarla. Chissà come si sentivano
le altre arrivate davanti a quell’uscio?
Nessuna di loro aveva provato lo stesso
terrore che stava provando lei in quel
momento?
Coraggio, io sono un’attrice, saprò
come giocarmela. Entrò, sorrise, e andò
a sedersi davanti ad Alex assumendo
l’atteggiamento di chi è sicuro di sé e
non ha nulla da temere.
«La tragica sera del Graduation Gala,
Nina Craig fu l’ultima delle neolaureate
a essere festeggiata», iniziò Alex.
«Nina, grazie di essere qui con noi
oggi.»
Nina, con la bocca improvvisamente
troppo secca per riuscire a parlare, si
limitò ad annuire.
«Come si sente a essere di nuovo qui
a Salem Ridge», domandò Alex in tono
amichevole e con un sorriso cordiale
sulle labbra, «nuovamente in compagnia
delle sue vecchie amiche dopo
vent’anni?»
Nina si era ripromessa di essere
sincera fin dove le era consentito. «È
una sensazione strana, non saprei
descriverla. Sappiamo tutte perché
siamo qui.»
«Perché, Nina?»
«Per cercare di dimostrare che
nessuna di noi ha ucciso Betsy Powell»,
rispose lei. «E che Betsy fu assassinata
da un estraneo entrato di nascosto.
D’altra parte sappiamo tutte e quattro
che voi sperate che una di noi si lasci
andare a una confessione o si tradisca.
Certamente è quello che si augura
Robert Powell. E ovviamente non mi
sento di biasimarlo.»
«E questo che reazione provoca in
lei, Nina?»
«Di rabbia. Di autodifesa. Ma sono
sentimenti che abbiamo provato tutte e
quattro in questi ultimi vent’anni, quindi
non è una novità. Si può ben dire che ho
imparato a mie spese che ci si può
abituare a tutto.»
Mentre la ascoltava e osservava,
Laurie trovò difficile nascondere la
sorpresa. Nina Craig non reagiva alle
domande di Alex nel modo in cui tutti si
erano aspettati. Lei aveva previsto un
atteggiamento più bellicoso. Nina in
fondo era quella che meno di tutte
avrebbe avuto ragione di soffocare
Betsy, invece ora il suo atteggiamento
era quasi di rammarico, persino nel
confessare d’aver provato rabbia. E
sembra anche diversa, rifletté Laurie. Il
suo look è meno spigoloso di prima. E
perché poi si è fatta acconciare i capelli
in maniera che sembrino più corti? In
tutte le ricerche che ho svolto su di lei,
non ho mai visto una sua immagine in cui
non avesse i capelli sciolti. Ha in mente
qualcosa, ma cosa può essere?
Nina stava raccontando ad Alex della
sua infanzia.
«Alex, come ovviamente sa, Muriel
Craig, mia madre, è un’attrice. Si può
dire che in un certo senso io sia nata in
una valigia. A quei tempi eravamo
sempre in giro.»
«Come faceva per gli studi?»
«Non è stato facile, ma tra una costa
e l’altra, tra Los Angeles e New York,
sono riuscita a finire le medie inferiori.»
«E suo padre? So che i suoi genitori
hanno divorziato quando lei era ancora
molto giovane.»
Non la sopportava neanche lui, pensò
Nina. Ma lui è riuscito a liberarsene alla
svelta. «Si erano sposati giovani e hanno
divorziato quando io avevo tre anni.»
«Lo ha visto spesso dopo il
divorzio?»
«No, però ha contribuito a
mantenermi al college.» Un pochino,
pensò, molto poco, quel tanto che
mamma riuscì a spremergli davanti al
giudice.
«La verità è che praticamente non
l’ha più visto dopo che i suoi
divorziarono, non è così, Nina?»
«Ha tentato anche lui la ventura come
attore, non ce l’ha fatta, si è trasferito a
Chicago, si è risposato e ha avuto
quattro figli. Non c’era molto spazio per
me.»
Ma dove vuole andare a finire giù
per questa via? si chiese ora sulle spine
Nina.
«Dunque lei è stata costretta a
crescere in mancanza di una figura
paterna, giusto?»
«Mi sembra evidente.»
«Nina, come mai lei e sua madre
siete venute a vivere a Salem Ridge?»
«Perché mia madre aveva una
relazione con Robert Powell.»
«Ma non è anche vero che le fu
offerto il ruolo di protagonista in un
pilot che diventò un serial andato in
onda per sei anni e di cui ancora non
hanno smesso di trasmettere le
repliche?»
«Sì, è vero. Ma Powell le aveva
detto che non avrebbe sposato una donna
che fosse stata tutto il giorno impegnata
sul lavoro.»
«Anche quando la relazione con
Powell finì, voi due rimaneste a Salem
Ridge. Mi sembra curioso.»
«Non capisco perché. Mia madre
aveva affittato un appartamento. Accanto
a noi abitava una coppia di anziani
molto simpatici, i Johnson. Dopo avere
rotto con Robert Powell, piovvero su
mia madre una notevole serie di offerte.
Io avevo cominciato il liceo. Mia madre
pagò i Johnson perché badassero a me
mentre lei era al lavoro.»
Evita di raccontare l’angoscia della
tua solitudine dopo che i Johnson
mettevano dentro la testa per darti la
buonanotte e ti lasciavano tutta sola fino
all’indomani mattina, si raccomandò
Nina. E poi quando mamma tornava dal
lavoro e si metteva a lamentarsi di
quanto fosse costretta a sgobbare per
colpa mia. Mi mancava quando non era
a casa, ma poi, quando c’era, avrei
voluto che se ne andasse a lavorare in
qualche angolo sperduto del pianeta.
«Sua madre conservò l’appartamento
in affitto fino a quando lei non ebbe
finito il liceo e andò al college, giusto?»
«Sì. Ormai tutti i lavori che le
venivano offerti erano a Hollywood.
Aveva comprato un appartamento a Los
Angeles.»
«Dunque lei trascorreva i periodi di
vacanza da sua madre.»
«Tutte le volte che potevo. Ma
d’estate lavoravo e accettavo qualunque
lavoro stagionale mi venisse offerto.»
«Ora parliamo del Gala, Nina.»
Alex le rivolse più o meno le stesse
domande che già aveva fatto alle altre. E
le risposte di Nina furono pressoché le
stesse che aveva ricevuto dalle sue
amiche. Anche lei ripeté che
evidentemente il colpevole era un
estraneo penetrato nascostamente nella
villa.
«Torniamo un attimo indietro», la
invitò Alex. «Si è meravigliata quando
Claire le ha telefonato per dirle che sua
madre e Robert Powell volevano
organizzare un Graduation Gala per voi
quattro?»
«Sì, ma era una bella occasione per
rivedere le altre ragazze.»
«Fu invitata anche sua madre?»
«Sì, ma non venne.»
«Perché?»
«Non poteva rinunciare a un provino
importante.»
«Nina, non fu forse perché sul
biglietto d’invito Betsy scrisse di suo
pugno che lei e Robert non vedevano
l’ora di riabbracciarla e che ancora
benediceva lei per averla chiamata al
vostro tavolo quel giorno impagabile in
cui conobbe Robert?»
«Lei come fa a saperlo? Chi gliel’ha
detto?»
«Per la verità è stata sua madre»,
rispose amabile Alex. «Poco prima di
pranzo, oggi.»
Sta preparando il terreno per il
momento in cui sosterrà che le ho
confessato di aver assassinato Betsy,
pensò Nina. Che ci sia o no qualcuno
disposto a crederle, per me comunque
sarà la fine di ogni prospettiva di
agganciare Grant.
Che cosa le stava domandando Alex
Buckley? Come poteva descrivere i suoi
sentimenti per Betsy Powell?
Perché non dire la verità? Perché no?
«La
detestavo»,
confessò.
«Soprattutto dopo aver letto quella nota.
Era cattiva. Anzi, crudele. Non c’era in
lei una sola briciola di decenza, e
quando l’ho vista da vicino morta, ho
dovuto fare uno sforzo per non sputarle
in faccia.»
73
GEORGE Curtis arrivò da Powell alle tre
e mezzo. Gli era stato chiesto di
indossare lo stesso completo da sera che
aveva al Gala. Ne aveva uno
praticamente
identico
nel
suo
guardaroba. Siccome faceva molto
caldo, portò con sé un appendino con lo
smoking bianco, la camicia e il
farfallino protetti da una busta di
plastica.
Prima di andare al club a giocare a
bridge con le sue amiche Isabelle lo
mise in guarda. «Tieni presente che,
anche se tu pensi di aver tenuto ben
nascosta la tua storiella extraconiugale,
se mi sono insospettita io, non ti pare
probabile che anche altri abbiano
subodorato qualcosa? Forse persino
Rob Powell, vero? Sta’ attento, allora,
vedi di non cadere in qualche
trabocchetto. Tu sei quello che più di
tutti aveva motivo di desiderare la morte
di Betsy.» Poi, con un bacio e un guizzo
della mano, salì sulla cabriolet.
«Isabelle, ti giuro...» aveva provato a
ribattere.
«Lo so», aveva tagliato corto lei.
«Ma ricorda, tu non devi convincere me
e comunque non mi importerebbe niente
se lo facessi. Tu devi solo preoccuparti
di non metterti nei guai.»
La temperatura si era un po’
abbassata, ma faceva ancora molto
caldo. George parcheggiò nel viale
d’accesso, prese la gruccia con gli
indumenti e girò intorno alla villa per
entrare da dietro. Gli si presentò una
scena animata. Tecnici e operatori
inquadravano diversi scorci del
giardino, presumibilmente i punti in cui
si sarebbero trovate le quattro
protagoniste dello show mentre lui
avrebbe conferito in primo piano con
Alex Buckley. Gli avrebbero detto che
durante la sua intervista avrebbero
mandato in onda anche spezzoni dei
video girati durante il Gala.
Appena lo vide, Laurie Moran gli
andò incontro. «Grazie mille d’aver
accettato, signor Curtis. Cercheremo di
non trattenerla troppo a lungo. Perché
non aspetta dentro casa con gli altri? Qui
fuori fa troppo caldo.»
«Buona idea», rispose lui. Attraversò
il patio con scarso entusiasmo ed entrò
nella villa. Le quattro donne erano nella
sala da pranzo principale. Nei vestiti da
sera che indossavano riconobbe
l’estrema somiglianza con quelli con cui
si erano presentate al ricevimento. Tanta
eleganza e un maquillage applicato da
mani sicuramente molto esperte non
bastavano tuttavia a nascondere la
tensione dei loro volti.
Non dovette attendere a lungo. Poco
dopo Grace, l’assistente di Laurie,
venne ad accompagnare fuori le
protagoniste. Quando tornò per lui e uscì
con lei in giardino, le vide già piazzate
nei punti scelti dalla produzione, ferme
come statue. In fase di montaggio sapeva
che dietro di loro avrebbero fatto
scorrere immagini prese dai filmati del
Gala originale. Si domandò cosa
stessero pensando. Si domandò se tutte
loro si sentissero come si era sentito lui
quella sera. Era andato al Gala nel
terrore che Betsy avesse il potere di
mandare all’aria il suo matrimonio
proprio nel momento in cui i figli per i
quali lui e Isabelle avevano tanto
pregato stavano diventando una realtà.
Di sicuro Alison le serbava rancore.
Aveva perso la sua borsa di studio per
colpa della donazione che aveva fatto
Rob al suo college. Di tanto in tanto
capitava a George di andare a comprare
qualcosa nel negozio dove lavorava suo
padre e in quelle occasioni lo sentiva
puntualmente elogiare lo zelo con cui
studiava Alison...
Non c’era nessuno in città che non
avesse sentito Muriel raccontare la
storia di come Betsy le avesse rubato
Rob e solo per colpa di Nina. E da quel
che aveva sentito in giro, Claire aveva
disperatamente desiderato trasferirsi a
vivere al campus del Vassar, un
desiderio che Betsy e Rob avevano
soffocato senza pietà. «Uno spreco di
soldi quando vive in una casa
bellissima»,
aveva
dichiarato
adamantina Betsy. E il padre di Regina
si era tolto la vita per aver investito nel
fondo di Rob.
C’era forse una tra le quattro ospiti
d’onore che, pur nella giostra di tanta
ostentata sontuosità, avrebbe potuto
evitare di provare disprezzo e rancore?
E da quella notte in poi, per vent’anni,
erano vissute tutte e quattro sotto la
spada di Damocle del sospetto.
George Curtis provò un profondo
senso di vergogna. Io sì che sono tornato
qui quella notte, ricordava. Era stato
verso le quattro. Ero fermo proprio qui,
dove mi trovo ora. Io sapevo dov’era la
stanza di Betsy. Ero pazzo di paura che
Betsy raccontasse di noi a Isabelle e che
Isabelle mi lasciasse. Ma poi ho visto
qualcuno che si muoveva nella camera
di Betsy. C’era ancora una luce accesa
in corridoio e quando si è aperta la
porta mi è sembrato quasi di riconoscere
chi fosse.
E continuo a credere di sapere chi
fosse. Anzi, so chi era. Quando hanno
trovato Betsy morta avrei voluto dirlo,
ma come avrei potuto spiegare come mai
in quel momento mi trovavo lì?
Impossibile. Ma se avessi confessato
subito quello che avevo visto, tutte le
altre persone non avrebbero dovuto
subire la tortura dell’incessante sospetto
per vent’anni. Si sentì colmare di senso
di colpa.
Alex Buckely gli stava andando
incontro. «Pronti per la nostra
passeggiata nel viale delle rimembranze,
signor Curtis?» lo apostrofò con
giovialità.
74
«COM’È andata secondo te?» chiese con
ansia
Laurie,
salendo
sulla
decappottabile di Alex.
Alex avviò il motore e azionò la
chiusura del tettuccio. «Direi che ci
vuole un po’ di aria condizionata. Per
rispondere alla tua domanda, direi che è
andata benissimo.»
«È quello che è sembrato anche a me.
Bene ma anche un po’ troppo per le
lunghe. Sono già le sette meno venti e ho
tanta paura che se troviamo troppo
traffico non arriviamo all’ospedale in
tempo per la telefonata di Timmy e papà
non riuscirà a parlargli.»
«Ho controllato la viabilità pochi
minuti fa sul mio iPhone. Tutto
tranquillo. Ti prometto che sarai
all’ospedale entro le sette e mezzo.»
«Finalmente siamo in dirittura
d’arrivo», sospirò Laurie mentre Alex
usciva dalla proprietà di Powell. «E
adesso la domanda ovvia. Qual è la tua
impressione su George Curtis?»
«Un personaggio di classe», rispose
con prontezza Alex. «Il tipo di persona
che tutti ammirano. D’altra parte come
potrebbe essere altrimenti? È stato sulla
copertina di Forbes.»
«E il fatto che sia anche più che
attraente non guasta», aggiunse Laurie.
«Pensaci bene. Curtis è miliardario,
bello, affascinante. Mettiamolo a
confronto con Robert Powell, almeno
per quanto riguarda i soldi.»
«Non c’è confronto, Laurie. Powell
avrà un patrimonio nell’ordine del
mezzo
miliardo.
Curtis
è
arcimiliardario.»
«Adesso
prendiamo
in
considerazione quella sequenza nei
video del Gala in cui si vedono George
Curtis e Betsy molto seri, quello dove
sembra quasi che stiano litigando.»
«Hai intenzione di usarlo nello
sfondo, Laurie?»
«No, sarebbe sleale. C’è una cosa
che so però: i George Curtis di questo
mondo non si lasciano immischiare in
questo genere di programmi a meno che
abbiano qualcosa da nascondere.
Pensaci bene.»
«Laurie,
tu
non
finisci
di
sorprendermi. Ci ho pensato, come no. E
ancora una volta sono d’accordo con
te.»
Laurie estrasse il
telefonino.
«Avverto papà che stiamo arrivando.»
Leo rispose al primo squillo.
«Ancora vivo», annunciò. «Ora sto
guardando Arcibaldo. Un altro classico
glorioso. Dove sei?»
«Sto arrivando. Finora c’è poco
traffico.»
«Hai detto che ti accompagna qui
Alex Buckley e che poi torni alla villa
di Powell?»
«Sì.»
«Non lasciarlo a girarsi i pollici in
macchina. Portalo su. Mi fa piacere
conoscerlo.»
Laurie lanciò un’occhiata ad Alex.
«Ti va di conoscere mio padre?»
«Certo che sì.»
«Alex accetta con piacere, papà. Ci
vediamo.»
75
BRUNO ascoltò l’intercettazione mentre
stava
indossando
l’uniforme
da
poliziotto. Countdown! esultò tra sé.
Dopo tutti questi anni finalmente mi
posso vendicare. Ci saranno pianti
sconsolati e digrignamento di denti,
pensò. Oh, Leo, come ti sentirai triste.
Tua figlia. Tuo nipote. E tutti quei
poveretti a frugare negli archivi degli
ospedali per vedere se il dottore aveva
sbagliato un intervento su un paziente. E
no, caro Leo, sei stato tu quello che ha
fatto lo sbaglio. Quando eri un giovane
sbirro di quelli tosti. Troppo tosto.
Avresti potuto chiudere un occhio
quando mi hai arrestato, invece no. Hai
fatto a pezzi la mia vita. Mi sei costato
trent’anni di galera e poi altri cinque per
buona misura.
Andò a piazzarsi davanti allo
specchio grande sull’anta dell’armadio a
muro del suo squallido appartamentino.
Lo aveva affittato mensilmente perché,
come aveva spiegato al padrone, voleva
aspettare che il suo lavoro alla Perfect
Estates diventasse stabile. Il padrone,
felice di evitare per il momento le
riparazioni necessarie, era stato ben
felice di accettarlo.
Se scomparissi all’improvviso non si
girerebbe neppure indietro, pensava ora
Bruno, soprattutto visto che gli ho
pagato tutto il mese e lascerò che si
tenga pure la caparra.
Sa il cielo poi che altri danni si
potrebbero fare a una topaia come
questa, concluse Bruno.
76
MENTRE Laurie e Alex andavano via, i
tecnici riponevano l’attrezzatura.
Le quattro protagoniste dello show
avevano tolto i vestiti da sera e tutte e
quattro avevano rifiutato l’offerta di
conservarli. «Laurie desidera veramente
che li teniate», spiegò Jerry. «E sappiate
che sono costati parecchio.»
Fu Nina a parlare per tutte. «E sono
giusto quello di cui abbiamo bisogno,
tanto per non dimenticare mai quella
sera.»
Le
macchine
che
dovevano
trasportarle ai rispettivi alberghi erano
già in attesa.
Quando Rod e Alison arrivarono
nella loro camera, furono ben felici di
chiudersi la porta alle spalle. Fu allora
che Rod la prese affettuosamente per un
braccio. «Alie, è tutto a posto.»
«Non è tutto a posto, Rod. No che
non lo è. Sai che cosa c’è su quel nastro.
Sai che cosa può farne Josh.» Si staccò
da lui e con rabbia andò a prendere i
suoi indumenti dall’armadio, li sfilò
dagli appendini e cominciò a gettarli sul
letto.
Rod andò a sedersi sul divano e
cominciò inconsciamente a massaggiarsi
le ginocchia dolenti. «Adesso ci
facciamo uno scotch», dichiarò con
enfasi. «Poi ordineremo una cena con i
fiocchi, da consumare qui in camera o
fuori, scegli tu. Ordineremo i piatti più
costosi del menu, con gli omaggi di
Robert Powell.»
«Non riuscirei a mandar giù neanche
un boccone», protestò Alison.
«Ordinalo lo stesso, un boccone a tua
scelta.»
«Rod, mi fai ridere quando non ce
n’è il minimo motivo.»
«Alison è per questo che sono qui»,
ribatté lui. In cuor suo condivideva fino
in fondo tutta la preoccupazione di sua
moglie per le registrazioni raccolte da
Josh, non tanto per i soldi, ma piuttosto
per quello che avrebbe sofferto Alie se,
di nuovo per colpa di Betsy Powell, le
fosse stata negata la possibilità di
iscriversi a medicina.
77
REGINA ripose i pochi nuovi indumenti
che aveva acquistato in vista del
programma. Forse tra non molto mi
resterà solo una tuta arancione, pensò
mestamente. Dieci e lode a Robert
Powell. Mi ha rovinato la vita quando
avevo quindici anni e adesso ha la
grande occasione di rovinare il poco che
me ne resta ancora. Non mi
meraviglierei di venire a sapere che è
stato lui a ordinare a Josh di frugare
nella mia borsa.
Ma nel suo messaggio suo padre
accusava lui e Betsy di averlo
deliberatamente raggirato. Perché mai
Robert avrebbe voluto esporsi in una
maniera così pericolosa? No, doveva
essere un’iniziativa personale di Josh. E
io devo assolutamente pagarlo, pensò.
Bell’ironia della sorte: mi sono messa
pubblicamente nelle condizioni di
diventare
la
prima
indiziata
nell’omicidio di Betsy più che se me ne
fossi rimasta a casa a vendere immobili.
Finì di infilare tutti i suoi effetti
personali nel borsone e nella valigia
grande che aveva portato con sé. E
adesso? si domandò. Non mi va di
chiamare il servizio in camera. Giù c’è
un’auto che mi aspetta, messami a
disposizione
da
Powell.
Devo
approfittarne? Sì, decise, perché no?
Avrebbe chiesto all’autista di portarla
alla sua vecchia casa e da lì al ristorante
dove andava regolarmente a cena con i
suoi genitori.
Auld lang syne, pensò.
78
UN’ALTRA notte nella casa che odiava!
Perché aveva voluto farsi tanto male?
Era un interrogativo che l’assillava
da quando era atterrato l’aereo. Era
stato stupido da parte sua fare in modo
da somigliare tanto a sua madre quella
prima mattina? Lo aveva fatto per
rinfacciargli quel «papà Rob»? Forse. E
lui aveva avuto la faccia tosta di aprire
la porta della sua stanza subito dopo
l’intervista di quella mattina per porle
proprio quella domanda. Ma perché in
tutti questi anni non l’ho mai denunciato?
si domandò ora. Perché non lo denuncio
adesso?
Conosceva la risposta. Perché la sua
accusa sarebbe stata il movente perfetto
con cui incriminarla dell’uccisione della
madre, e perché, con il suo stuolo di
avvocati, papà Rob l’avrebbe fatta
passare per una bugiarda fuori di testa e
sua madre sarebbe stata ben lieta di
sostenere la sua tesi. C’era pure un
motivo per cui era diventata assistente
sociale: voleva aiutare le ragazze che si
fossero trovate nella sua situazione. Ma
non sono molte quelle che vengono a
confidarmi che la loro madre accetta il
fatto che il loro patrigno s’infili di notte
nella loro stanza, pensò. E io so che
finché non andrò in terapia io stessa, non
riuscirò a fare un solo passo avanti nella
mia vita, rifletté in questo momento
Claire. È lui che mi tiene in ostaggio
ancora dopo tutti questi anni.
Ma aveva un modo per rifarsi. Quella
sera e l’indomani mattina si sarebbe
trasformata di nuovo nella riedizione
della sua amata Betsy. Come se questo
possa minimamente modificare il grande
disegno delle cose, pensò con amarezza
mentre sollevava il telefono per
chiamare il servizio in camera. Chissà
se Nina sverrà di nuovo quando mi
vedrà.
E poi perché mai proprio lei fra tutte
doveva essere quella che sveniva?
79
NINA preparò i bagagli, poi si fece
portare da mangiare in camera. Mentre
mangiucchiava con scarso entusiasmo
manicaretti inutilmente squisiti, squillò
il suo telefono. Era Grant, del tutto
imprevisto.
«Non ho potuto resistere alla
curiosità di sapere com’è andata
l’intervista», esclamò. «Alex Buckley ha
fama di strapazzare i testimoni.»
«Be’, con me ha fatto un’esibizione
da Oscar», rispose Nina. «Aspetta di
vederla.»
«Ehi, mi sembri molto giù.»
«Certo che lo sono.»
«Cerca di riprenderti, ma guarda che
ti capisco. Vent’anni fa ho deposto come
teste in una causa per frode. Non è stato
per niente piacevole.»
Piacevole! Che bella parola, pensò
Nina mentre ascoltava Grant che le
diceva quanto ansioso fosse di vederla e
le augurava buon viaggio.
Bevve un lungo sorso di vodka dal
bicchiere di fianco al piatto della cena.
Magari se prometto a mia madre di
regalarle tutti soldi che mi avanzeranno
dopo aver pagato Josh, sarà soddisfatta,
pensò. Specialmente se le dico anche
che uno dei più grandi produttori di
Hollywood mi sta corteggiando!
80
AL Mount Sinai Hospital, le occhiate
che Leo lanciava all’orologio erano
sempre più impazienti. Erano le otto
meno venti e Laurie non era ancora
arrivata. Ma proprio quando era ormai
certo che avrebbe ricevuto in macchina
la telefonata di Timmy, la vide
materializzarsi nel riquadro della porta.
Nell’imponente individuo alle sue spalle
riconobbe all’istante il celebre Alex
Buckley.
Laurie corse ad abbracciarlo.
«Scusami tanto, papà. Dovrebbero
prendere l’East River Drive e buttarlo a
mare.
All’altezza
della
Centoventicinquesima eravamo tutti
imbottigliati. Nemmeno un attacco
terroristico potrebbe creare un ingorgo
simile.»
«Calma, calma», l’ammonì Leo, «o
mi finisci ricoverata anche tu qui dentro
per un attacco di fibrillazioni.» Alzò gli
occhi verso Alex. «Non crede anche lei,
avvocato?»
«Credo che sua figlia sia sotto una
pressione notevole», rispose con
prudenza Alex mentre avvicinava una
seggiola al capezzale di Leo Farley.
«Ma le posso giurare che con questo
programma sta andando veramente
forte.»
«Adesso, prima che tu me lo chieda
di nuovo, Laurie, la risposta è sì, mi
sento bene, e sì, domani esco», dichiarò
Leo Farley. «A che ora metti la parola
fine a questa tua caccia alle streghe?»
«Ehi, papà», protestò Laurie, «vedi
di non mancare di rispetto al mio
lavoro.»
«Io ho il massimo rispetto per il tuo
lavoro», ribatté lui. «Ma se fossi
riuscito a farla in barba a tutti per
vent’anni
dopo aver
ammazzato
qualcuno e adesso mi trovassi sotto i
riflettori dove ogni parola che dico di
fronte a una platea come minimo
nazionale di telespettatori verrà studiata
al microscopio da tutti gli investigatori
da strapazzo del Paese, potrei essere
indotto a fare quello che è necessario
per coprire le mie tracce.»
Alex notò che entrambi i suoi
visitatori continuavano a consultare
l’orologio. Mancavano cinque minuti
alle otto.
«Timmy sta tardando», constatò Leo.
«Meglio che chiami di nuovo l’ufficio su
al campo e senta se non è successo
qualcosa.»
«Papà», esclamò Laurie, «non dirmi
che hai telefonato alla direzione del
campo?»
«Certo che sì. Così li tengo sul chi va
là e mi assicuro che non abbassino la
guardia. Cosa gliene pare, Alex?»
«Nella sua situazione, se io fossi il
genitore o il nonno, farei esattamente lo
stesso», lo confortò Alex.
La suoneria del telefono di Laurie
suscitò un sospiro di sollievo collettivo.
Laurie non lasciò che il suo cellulare
squillasse a lungo. «Ciao, Timmy»,
salutò in tono brioso, all’unisono con
Leo.
«Ciao, mamma», rispose una giovane
voce gioiosa. «Avevo paura che non
arrivassi in tempo a casa perché ci fosse
anche il nonno con te quando
chiamavo.»
«Be’, siamo qui tutti e due», lo
tranquillizzò Laurie.
Alex ascoltò Timmy descrivere
quello che aveva fatto durante il giorno.
Era nella squadra «A» di nuoto. Andava
perfettamente d’accordo con i tre ragazzi
nella sua tenda. Il campeggio era la cosa
più bella del mondo. Solo alla fine della
conversazione il suo tono si fece
malinconico. «Mi mancate, sai? Siete
sicuri, sicuri che verrete a trovarmi il
giorno di visite?»
«Siamo sicuri, sicuri di venirti a
trovare il giorno di visite», promise
Laurie.
«Puoi scommetterci che ci saremo»,
fece eco Leo. «Ho mai mancato a una
promessa, giovanotto?»
«No, nonno.»
«Credi che comincerei a farlo
adesso?» domandò Leo con finta
severità.
Il tono malinconico scomparve.
«No, nonno», rispose Timmy ridendo.
Dopo che si furono salutati, Laurie si
rivolse ad Alex. «Sentito il mio
ometto?» chiese con orgoglio.
«A sentirlo direi che questo è un
ragazzo in gamba», la complimentò
Alex.
«E adesso voglio che voi due ve ne
andiate da qualche parte a mangiare
qualcosa prima di tornare dal nostro
Powell», intervenne Leo. «È già
abbastanza tardi. Laurie, spero che dopo
che avrai chiuso questo programma ti
prenderai un paio di giorni.»
«È l’ultima cosa che ho intenzione di
fare, papà. Anzi, è quasi buffo ma la
postproduzione può essere la fase più
faticosa. Però devo darti ragione, questo
è stato veramente estenuante sul piano
emotivo. Ti confesso che spero di non
essere mai sospettata d’aver commesso
un delitto.»
«Non temere», si fece sentire Alex.
«Ti difendo io, con il dieci percento di
sconto sull’onorario.» Risero tutti
assieme e nel salutare Leo, Alex
aggiunse d’impulso: «Mi capita di
difendere certi imputati sui quali mi
piacerebbe avere la sua opinione. Le va
di pranzare assieme qualche volta?»
«Molto volentieri», rispose Leo.
«Posso venire anch’io?» chiese
Laurie ridendo.
«Va da sé», disse Alex, questa volta
più serio.
Dopo un ultimo giro di saluti, Alex e
Laurie lasciarono l’ospedale.
«Adoro Manhattan», sospirò Laurie
quando furono in strada. «Per me è casa
dolce casa.»
«Anche per me», annuì Alex. «Senti,
non ci aspettano di ritorno al mausoleo
prima delle undici e sono solo le otto e
mezzo. Perché non ce la prendiamo
comoda?»
«Si era parlato di un hamburger, no?»
«Dimentichiamocelo. Il Marea sulla
Central Park Sud è uno dei migliori
ristoranti di New York. È sempre pieno,
ma a quest’ora quelli che vanno a teatro
hanno già finito. Ti va?»
«Potrebbe non andarmi?» ribatté
Laurie. Ora che si sentiva tranquilla
d’aver visto che Leo stava bene e d’aver
sentito Timmy così felice, sapeva di
potersi godere la serata in compagnia di
Alex.
In quello stesso istante Bruno stava
percorrendo il Tappan Zee Bridge
diretto al campeggio di Timmy.
81
IN un ristorante altrettanto elegante della
contea di Westchester, a una quarantina
di chilometri da quello scelto da Alex e
Laurie, Robert Powell e Muriel Craig
sorseggiavano champagne. «Al nostro
nuovo incontro», mormorò lui a bassa
voce.
«Rob, caro, mi sei mancato. Oh, non
sai quanto.» Muriel allungò la mano
verso la sua. «Perché in tutti questi anni
non mi hai mai chiamata?»
«Avevo paura a farlo. Quando ci
siamo separati sono stato molto ingiusto
con te. So che avevi rinunciato a quel
serial televisivo che poi è stato un
grande successo. L’avevi fatto per me e
io non sapevo da che parte cominciare
per farmi perdonare.»
«Ma io ti ho chiamato e ti ho scritto»,
gli rammentò Muriel.
«Cosa che mi ha fatto sentire ancora
più in colpa», confessò Robert Powell.
«E ancora non ti ho detto come questa
sera
ti
trovo
assolutamente
irresistibile.»
Muriel
sapeva
che
era
un
complimento sincero. Aveva diretto lei
Meg e Courtney nella scelta del trucco e
dell’acconciatura e in una boutique
esclusiva di Bedford aveva trovato un
fantastico coordinato da sera. Nessun
problema se aveva già acquistato un
bellissimo completo elegante con tanto
di accessori intonati all’abito in Rodeo
Drive a Hollywood. Aveva sempre con
sé la carta di credito di Nina.
«Penso che dovremmo ordinare»,
stava dicendo Robert.
Durante
la
cena
alternò
furbescamente complimenti a subdole
domande. «Non sapevo che tu non
avessi mai perdonato Nina per aver
chiamato Claire e Betsy al nostro tavolo,
quel giorno, Muriel.»
«Avrei potuto ucciderla», confidò lei
in un tono rabbioso e a un volume un po’
troppo alto. «Ero così innamorata di te.»
«E io spesso ti ho pensato e mi sono
rimproverato per essermi invaghito così
scioccamente per poi rimpiangerlo.»
Fece una pausa. «E dopo, quando la
buona sorte mi ha liberato di Betsy, mi è
spiaciuto di non aver saputo chi
ringraziare.»
Muriel parve momentaneamente
sconcertata, poi si guardò intorno per
assicurarsi che gli avventori ai tavoli
più vicini fossero tutti assorti nelle loro
conversazioni. Soddisfatta, si protese il
più possibile verso Powell, finendo per
sporcare di burro il risvolto della giacca
nuova.
«Robbie, mi stai dicendo che eri
contento che qualcuno avesse soffocato
Betsy?»
«Giurami di non dirlo a nessuno»,
bisbigliò lui.
«Puoi contarci, è il nostro segreto.
Però tu sai che io e mia figlia Nina
siamo sempre state molto unite, vero?»
«Certo che lo so.»
«Ebbene, era così infuriata per quello
che Betsy aveva scritto sul mio biglietto
d’invito, sai, che voleva che vedessi
quanto voi due eravate felici e come era
grata a Nina per avertela presentata...»
«Tutto questo l’ho saputo solo in un
secondo tempo ed è stato uno choc.»
«Io ho sofferto, ma Nina era fuori di
sé. Sapeva che ti amavo con tutto il
cuore. Rob, io credo che a uccidere
Betsy sia stata Nina. Lo ha fatto per me,
lo ha fatto perché potessi avere un’altra
possibilità con te.»
«Ne sei sicura o è una tua ipotesi,
Muriel?» Gli occhi di Robert Powell si
fecero improvvisamente attenti, il tono
della sua voce tagliente.
Benché a non più di due spanne da
lui, Muriel Craig non si accorse della
trasformazione nel suo atteggiamento.
«Sì che sono sicura, Robbie. Mi
telefonò. Se ti ricordi io ero a
Hollywood e lei piangeva al telefono.
Mi ha detto: ‘Mamma, ho paura. Mi
stanno facendo un sacco di domande.
Mamma... io l’ho fatto per te’.»
82
JANE controllò le stanze per l’ultima
volta prima dell’arrivo degli ospiti.
Nello studio aveva aperto il bar e
allestito un buffet come aveva fatto la
sera in cui Betsy era stata uccisa. Oh,
pensava, non vedo l’ora di togliermele
tutte dai piedi!
Dopo quei giorni di confusione, non
ricordava più quanto piacevole fosse
sentire la casa dominata dal silenzio. Il
signor Rob aveva portato a cena
quell’essere impossibile di Muriel
Craig. D’accordo, era molto attraente,
ma si capiva che aveva già mandato giù
due o tre drink.
E in bagno era rimasto quel vago
odore di fumo.
Il signor Rob provava il massimo
disprezzo per chi beveva troppo o
fumava.
Con Muriel stava giocando, Jane ne
riconosceva i segnali. Era lo stesso
modo in cui Betsy si era presa gioco del
padre di Regina, riuscendo alla fine a
spingerlo a buttare nel fondo
d’investimento di suo marito tutti i suoi
averi fino all’ultimo centesimo.
Ah, quanto a frodare il prossimo quei
due erano dei veri geni, pensò con
ammirazione. Betsy poi era due volte
ingannatrice. Era stata abilissima nel
nascondere al signor Rob le sue
scappatelle.
Per questo mi faceva tutti quei
regalini, ricordò Jane, mi teneva buona
perché non la smascherassi.
Non la lasciava tranquilla però non
essersi accorta dei maneggi di Josh che
ora stava ricattando le persone di cui
aveva intercettato le conversazioni in
macchina.
Se il signor Rob avesse scoperto che
lei aveva aiutato Betsy a tradirlo,
l’avrebbe licenziata in tronco. Guai se
fosse venuto a saperlo. Ma chi avrebbe
potuto dirglielo? Josh no di certo,
perché avrebbe perso il posto anche lui.
Ho ancora i gioielli che George
Curtis aveva regalato a Betsy, pensò
mentre preparava i letti per le ospiti e
abbassava gli scuri nelle stanze,
un’azione che non faceva più da
vent’anni, a eccezione del signor Rob,
naturalmente. Per lui qualche volta
metteva anche un cioccolatino sul
guanciale, come facevano negli alberghi.
Il signor Curtis era stato lì nel
pomeriggio. E chissà come gli si
torcevano le viscere, rifletté, a dover
parlare con Alex Buckley della sera del
Gala.
Dopo il ricevimento Jane aveva
preparato il buffet per le ragazze ed era
stata lei a indirizzarle nello studio. Per
la prima mezz’ora era andata avanti e
indietro e aveva ascoltato tutto quello
che si erano dette finché non avevano
cominciato a parlare di Betsy fuori dei
denti. A un certo punto si erano rese
conto della sua presenza e Jane aveva
pensato bene di augurare loro la
buonanotte ed eclissarsi.
Ma se la situazione dovesse
diventare spinosa per me, disse tra sé,
avrei qualcosa su ciascuna di loro con
cui difendermi.
Posò la testa sul guanciale del signor
Rob, solo per un istante. Poi si rialzò e
lo sprimacciò con qualche rapido
colpetto delle dita.
L’indomani a quell’ora lei e il signor
Rob sarebbero stati nuovamente soli.
83
«È ORA di rientrare», disse con aria
riluttante Alex. Per un’ora e mezzo, tra
un convenevole e l’altro e i commenti
sull’ottima cena, Alex si era ritrovato a
raccontare a Laurie particolari del
proprio passato, che aveva perso prima
sua madre e poi suo padre quando era
ancora al college e che a ventun anni era
stato nominato tutore del fratello
diciassettenne.
«Diventò il mio ‘ometto’», disse e
subito ebbe voglia di rimangiarselo.
«Scusami,
Laurie»,
aggiunse
precipitosamente. «Non intendevo fare
riferimenti alla tua situazione.»
«Non ce ne sono», lo tranquillizzò
lei. «Mentre non mi piace che quando
parlano con me le persone misurino ogni
parola. La situazione in cui vivo per me
è diventata ordinaria. Ma tuo fratello ha
preso la laurea di avvocato e ha fatto
una brillante carriera, mentre Occhi Blu
prima o poi verrà catturato e noi non
dovremo più portare questo terribile
fardello. La mia sola consolazione è che
Occhi Blu ha giurato di prendersela
prima con me.» Bevve un sorso di
champagne. «E questo meriterebbe
anche un brindisi!» esclamò poi.
«Posa quel bicchiere», ribatté in tono
autoritario Alex. «Beviamo alla cattura
di Occhi Blu e che marcisca in prigione
per il resto dei suoi giorni.»
Solo in cuor suo aggiunse: «O che
finisca ammazzato con una pallottola
tra gli occhi sparata a sangue freddo
come ha fatto lui con tuo marito».
Poi, per quanto malvolentieri, Alex
alzò la mano per farsi portare il conto.
Un quarto d’ora dopo erano sulla
Henry Hudson Parkway diretti a
Westchester.
Alex si accorse che Laurie faticava a
tenersi sveglia. «Perché non chiudi gli
occhi?» la esortò. «Mi hai detto che la
notte scorsa non hai dormito perché eri
troppo preoccupata per tuo padre e
dubito che potrai dormire molto anche
questa notte.»
«Hai assolutamente ragione», sospirò
Laurie. Chiuse gli occhi e in meno di un
minuto Alex sentì il suo respiro
rallentare a un ritmo regolare e
sommesso.
Di tanto in tanto le lanciava uno
sguardo. Nelle luci dell’autostrada
osservò il suo profilo finché, quasi in
risposta a un suo desiderio segreto,
Laurie si girò verso di lui nel sonno.
Alex ripensò alla preoccupazione
espressa da Leo Farley nel saperla sotto
lo stesso tetto in compagnia di un gruppo
di persone tra le quali si celava
sicuramente un omicida. Ma chi di loro?
E poi c’era quel giardiniere che gli
solleticava la memoria. Perché? Il
giorno prima, quando lo aveva trovato
nel patio, gli aveva scattato una foto che
aveva inviato al suo investigatore.
Aveva chiamato anche la Perfect Estates.
Alla persona che aveva risposto al
telefono aveva spiegato che, per motivi
di sicurezza, stava verificando i
nominativi di tutte le persone che si
trovavano alla villa.
Il discorso che aveva tenuto loro
Robert Powell a pranzo era chiaramente
un tentativo di spaventare uno del
gruppo inducendolo a fare una mossa,
rifletté Alex, e chiunque fosse quella
persona era possibile che attuasse un
ultimo disperato tentativo di fermarlo.
Mezz’ora dopo, toccò il braccio di
Laurie.
«Ci
siamo,
Bella
Addormentata», le annunciò con la
giusta delicatezza. «Ora di svegliarsi.
Siamo arrivati.»
84
BRUNO era nell’ufficio del campeggio.
Stava aspettando che il sorvegliante di
turno, avvertito della sua presenza,
arrivasse dal suo bungalow.
Toby Barber aveva ventisei anni, un
giovane dal sonno profondo abituato ad
andare a letto con le galline. Entrò in
ufficio strofinandosi gli occhi e si trovò
al cospetto di un uomo dall’aria
autorevole in divisa da poliziotto, in
preda a una certa trepidazione. «Mi
spiace averla disturbata, signor Barber»,
disse Bruno a Toby, «ma è molto, molto
importante. Il vicecommissario Farley
ha avuto una grave crisi cardiaca.
Potrebbe non farcela. Vuole vedere
subito suo nipote.»
Bruno era un bravo attore. Parlò
guardando
sempre
il
giovane
sorvegliante dritto negli occhi.
«Ci è stato chiesto di avere attenzioni
particolari per Timmy», rispose Toby,
che ancora non si era svegliato del tutto,
«ma so che oggi il nonno del ragazzo ha
chiamato il direttore del campo e gli ha
detto che era stato ricoverato in
ospedale per un problema di cuore.
Chiamo subito il mio superiore al
cellulare
per
farmi
dare
l’autorizzazione. È a una festa di
compleanno.»
«Il vicecommissario Farley sta
morendo», insisté Bruno in un tono più
pressante. «Vuole vedere suo nipote.»
«Capisco, certo», rispose nervoso
Toby. «Solo una telefonata.»
Non ottenne risposta.
«Probabilmente
non
sente»,
commentò sempre più a disagio Toby.
«Riprovo fra qualche minuto.»
«Non aspetterò qualche minuto»,
tuonò Bruno. «Il vicecommissario è un
uomo in fin di vita che esige di vedere
suo nipote.»
«Vado a prendere Timmy», balbettò
Barber intimidito. «Mi dia solo il tempo
di aiutarlo a cambiarsi.»
«Che non si cambi. Gli faccia mettere
l’accappatoio e le ciabatte!» ordinò
Bruno. «Ha tutti i vestiti che gli servono
a casa.»
«Sì, naturalmente. Ha ragione. Vado a
prenderlo.»
Dieci minuti dopo Bruno andava alla
macchina tenendo per mano un Timmy
mezzo addormentato e lo sollevava di
peso
per
metterlo
a
sedere
nell’abitacolo.
La sua mente era un tumulto di trionfo
e pregustazione.
85
ROBERT Powell arrivò a casa in tempo
per accogliere il primo degli ospiti.
Muriel corse di sopra a cambiarsi la
giacca. Disgustata di quello che vide
guardandosi allo specchio, si rifece il
trucco e ripettinò i capelli. Tornò di
sotto cercando di non far vedere quanto
fosse instabile sulle gambe. Entrata
nello studio, si accorse che dopo di lei
era già arrivata anche Nina. Notò
l’espressione di disprezzo negli occhi
della figlia. Aspetta e vedrai, pensò
mentre andava a baciare Rob sulla
guancia. Lui le passò con tenerezza un
braccio intorno alla vita.
Nel
giro
di
pochi
minuti
sopraggiunsero anche Claire, Regina,
Alison e Rod. Gli ultimi furono Laurie e
Alex, ma nell’arco di dieci minuti erano
tutti riuniti nello studio.
Jane si appostò al bar e cominciò a
distribuire bicchieri di vino o liquori.
Robert Powell levò in alto il suo.
«Non saprò mai ringraziarvi abbastanza
di essere qui con me e mi scuso se avete
dovuto subire per vent’anni questa
condizione di disagio. Come sapete,
anch’io sono vissuto sotto la terribile
ombra del sospetto. Sono però felice di
comunicarvi che domani mattina, durante
la mia intervista, annuncerò al mondo
intero che so chi ha ucciso la mia amata
Betsy... e farò il nome di quella persona.
Facciamo dunque un ultimo brindisi alla
liberazione finalmente conquistata e
auguriamoci l’un l’altro la buonanotte.»
Il silenzio fu totale. I piatti con i cibi
del buffet, preparati con cura da Jane,
furono ignorati.
Tutti posarono i propri bicchieri
senza aprire bocca e cominciarono a
lasciare la stanza. In corridoio c’era
Josh in attesa di assistere Jane nel ritiro
di piatti e bicchieri prima di spegnere le
luci.
Prima di salutare Robert Powell,
Laurie e Alex aspettarono che gli altri
fossero saliti al piano di sopra.
«Una dichiarazione molto forte la
sua, signor Powell», commentò a quel
punto Alex. «E molto provocatoria.
Davvero ritiene che fosse necessaria?»
«Ritengo che fosse assolutamente
necessaria», ribadì Robert Powell. «Ho
passato molti anni a studiare ciascuna di
quelle quattro giovani donne cercando di
immaginare chi fosse salita a soffocare
mia moglie nel sonno. So che Betsy
aveva i suoi difetti, ma era la donna
giusta per me e in questi vent’anni non
ho mai potuto rassegnarmi ad averla
persa. Secondo voi perché non mi sono
risposato?
Perché
Betsy
era
insostituibile.»
E allora che ci dici di Muriel Craig?
si chiese Laurie.
«E adesso vi auguro una splendida
notte», concluse in tono deciso Powell.
Alex accompagnò Laurie alla porta
della sua stanza. «Chiuditi a chiave», le
raccomandò. «Se Powell ha ragione, c’è
qualcuno che in questo momento sta
cercando di decidere cosa fare. Per
quanto folle possa sembrarti, qualcuno
potrebbe prendersela con te per aver
organizzato questo show.»
«O prendersela con te per aver spinto
ciascuno di loro ad ammettere di aver
odiato Betsy, Alex.»
«Io non sono preoccupato», rispose
lui sereno. «Vai a dormire ma chiudi la
porta a chiave.»
86
REGINA sedeva sulla sponda del letto.
So che parlava di me, pensava. Josh
deve avergli dato il messaggio suicida.
Chissà se verrò pagata lo stesso. I soldi
mi serviranno per difendermi. Per
vent’anni ho voluto che questa storia si
concludesse. Be’, adesso è fatta.
Muovendosi come un automa, si
infilò il pigiama, poi andò in bagno, si
gettò dell’acqua in faccia, spense la luce
e andò a letto. Incapace di dormire, fissò
il buio.
87
SOTTO la coperta leggera Alison e Rod
si tenevano stretti per mano.
«L’ho fatto sul serio», mormorò
Alison. «So di essere stata nella stanza
di Betsy e guardavo dalla cabina
armadio.»
«Guardavi cosa?» chiese Rod.
«Qualcuno che premeva un cuscino
sulla faccia di Betsy. Ma non era
qualcuno, Rod, ero io.»
«Non dirlo neppure!»
«So che è vero, Rod. Io so che è
vero.»
«No che non sai che è vero.
Finiscila.»
«Rod, finirò in prigione.»
«Neanche per sogno. E per un buon
motivo: che non potrei vivere senza di
te.»
Con gli occhi fissi nell’oscurità,
Alison prese atto della verità che l’ira le
aveva sempre nascosto. «Rod», disse,
«so che hai sempre pensato che ti avessi
sposato per farmi pagare da te la scuola
di medicina. Può anche darsi che abbia
finito per crederci anch’io. Ma tu non
sei stato il solo a innamorarti fin dal
primo giorno dell’asilo. Perché mi sono
innamorata anch’io. So che è terribile,
ma la verità è che ho buttato via
vent’anni della mia vita consumandoli
nel mio odio per Betsy Powell.»
Fece una risatina amara. «Se solo
avessi avuto la soddisfazione di sapere
che cosa stavo facendo mentre la
uccidevo.»
88
SEDUTA sul divano in camera sua,
Claire non tentava nemmeno di dormire.
Dunque amava veramente mia madre,
pensò. Ma meno di un mese dopo che ci
eravamo trasferite qui, ha cominciato a
venire nella mia stanza e io gliel’ho
permesso per il bene che volevo a lei.
Avevo visto com’era felice e volevo che
continuasse a esserlo. Ero sicura che se
glielo avessi confessato, ce ne saremmo
andate, ma poi che cosa sarebbe stato di
noi?
Di nuovo in un buco di appartamento.
Con quanti uomini era uscita sempre a
caccia di quello che Robert Powell
finalmente le aveva dato. Ci volevamo
così bene quando ero piccola. Mi
sembrava di doverglielo. Era il mio
grande segreto, il sacrificio che facevo
volentieri per mia madre. Vivendo come
una benedizione tutte le notti in cui lui
non veniva. Poi c’è stata quella volta
che li ho sentiti parlare. Ho sentito lui
che le raccontava della notte prima e lei
che gli diceva quant’era contenta che io
fossi così disponibile.
Maledetta, maledetta, maledetta.
Ho cominciato a soffocarla con la
forza della mente fin da quando avevo
tredici anni. Se sono stata io a farlo sul
serio quella notte fatidica e qualcuno
dichiara ora di avermi visto, accetterò a
testa alta il mio destino.
89
NINA non cercò di mettersi a letto.
Restò invece seduta a gambe incrociate
a ripercorrere nella mente i momenti
della giornata trascorsa. Possibile che
sua madre avesse messo in atto la sua
minaccia? È una brava attrice, pensò,
chi non le avrebbe creduto?
Non sapevo che Robert Powell fosse
così sopraffatto da Betsy da non vederla
per quello che era. Ma forse mi sbaglio,
forse la vedeva per quello che era e lo
trovava eccitante.
Se mia madre in questi ultimi due
giorni si è lasciata prendere in giro da
Rob, peggio per lei se è stata tanto
stupida da cascarci. Se gli ha riferito
che ho confessato di aver ucciso Betsy,
le chiuderà la porta in faccia. Ma
quando domani sarà scaricata da Rob,
potrebbe andare a reclamare la
ricompensa dal capo della polizia. E io?
Come posso difendermi io?
90
QUANDO nella villa si spense anche
l’ultima luce, Bruno scese dalla
macchina. Aveva somministrato un
sonnifero a Timmy, che ora trasportava
caricato su una spalla. Scavalcò la
recinzione muovendosi con lentezza per
non disturbarlo. Lo portò nella pool
house e aprì la porta del locale tecnico.
Lo adagiò sul giaciglio di coperte che
aveva preparato per lui e gli legò non
troppo strettamente mani e piedi.
Quando Bruno lo imbavagliò, Timmy
si mosse e farfugliò una protesta, ma
ricadde subito in un sonno profondo.
L’indomani mattina sarebbero passati
a prendere Bruno con il furgone e, se
non si fosse fatto trovare, avrebbe avuto
difficoltà a giustificare la sua assenza.
Ma il ragazzo se ne sarebbe stato
tranquillo fino al suo ritorno, pensava. E
anche se si fosse svegliato, non avrebbe
potuto uscire e non avrebbe potuto
togliersi il bavaglio. Gli aveva legato le
mani dietro la schiena.
Ora che era vicino alla fine, non solo
si sentiva perfettamente calmo, ma
sapeva che così sarebbe rimasto.
Osservò Timmy che dormiva. C’era la
luna piena ed entrava abbastanza luce
perché potesse vederlo con chiarezza.
«Un
giorno
saresti
somigliato
moltissimo al tuo papà», disse, «e la tua
mamma è là dietro, in quella casa, e non
sa che tu sei qui. Aspetta che scopra che
sei sparito.»
Sapeva di doversene andare, ma non
resistette al tentativo di togliersi di tasca
un piccolo astuccio. Lo aprì e ne
estrasse due lenti a contatto di un
azzurro brillante. Erano quelle che si era
applicato quel giorno perché erano così
vistose e sarebbero state ricordate da
chiunque gli si fosse trovato abbastanza
vicino da darne una descrizione.
Ricordò che cosa aveva sentito strillare
a Timmy: «Occhi Blu ha ucciso il mio
papà».
E già, pensò. Sì, ho ucciso il tuo
papà.
Chiuse l’astuccio e se lo mise in
tasca. Le lenti gli sarebbero servite
l’indomani.
91
LEO Farley non riusciva a prendere
sonno. Il suo istinto di poliziotto aveva
lanciato un allarme. Non riusciva a
spegnerlo.
Laurie è a posto, ricordò a se stesso.
Grazie al cielo in quella casa c’è anche
Alex Buckley. È evidente che Laurie gli
piace, ma soprattutto sa bene che questa
notte, con quel branco chiuso nella
stessa casa, Laurie è esposta a una
situazione possibilmente esplosiva.
Timmy mi è sembrato in gran forma e
lo vedrò comunque domenica. Allora
perché sono così dannatamente sicuro
che c’è qualcosa di molto grave che non
sta andando per il verso giusto? Forse è
colpa di tutti questi monitor che mi
hanno attaccato. Farebbero ammattire
chiunque.
L’infermiere gli aveva lasciato sul
comodino una pillola di sonnifero. «Non
è forte, commissario», gli aveva detto,
«ma servirà a rilassarla e l’aiuterà a
dormire un po’.»
Leo la prese, poi la lasciò ricadere
sul comodino. Non ho intenzione di
svegliarmi mezzo rimbambito, pensò.
E comunque so che non mi aiuterà
affatto a dormire.
92
ALLE tre di notte, Jane si alzò
silenziosamente da letto, aprì la porta
della sua camera e a piedi nudi
raggiunse la stanza dove dormiva Muriel
Craig.
Muriel russava rumorosamente a
evidente riprova di aver ecceduto nel
bere. In punta di piedi Jane si avvicinò
al letto, si chinò e sollevò il cuscino che
stringeva tra le mani. Poi, con un
movimento rapido e improvviso, lo
calcò sulla faccia di Muriel.
Un
gemito
strozzato
sostituì
bruscamente il russamento di poco
prima. Le mani muscolose di Jane
tenevano il cuscino bloccato come una
lastra di marmo. Muriel cominciò ad
ansimare.
Prese a gesticolare invano cercando
di liberare bocca e naso. «È inutile che
ti sforzi», sentì sibilare.
Le nebbie dell’alcol che le
ovattavano il cervello si dissolsero
completamente.
Non voglio morire, pensò Muriel.
Non voglio morire.
Conficcò in profondità le lunghe
unghie nel dorso delle mani della donna
che l’aggrediva e per un momento la
pressione si allentò. Muriel spinse via il
cuscino e urlò. Ma subito dopo fu
sopraffatta di nuovo, con più violenza di
prima. «Non ti sarai illusa che ti avrei
permesso di portarmelo via», ringhiò
Jane premendo con tutto il peso del
corpo il cuscino sulla faccia di Muriel.
«Forse sanno che sono stata io a
uccidere Betsy, ma tu puoi scordarti di
portarmelo via. È mio. È mio.»
Da un’estremità all’altra del primo
piano tutti udirono il grido. Nello
sgomento generale, il più veloce a
reagire fu Alex.
Arrivò per primo, si lanciò su Jane e
la scaraventò per terra. Quando accese
la luce, vide che Muriel era cianotica.
Non respirava. La sollevò dal letto,
l’adagiò sul pavimento e cominciò a
praticarle la respirazione artificiale.
In corridoio Robert Powell emergeva
dalla sua stanza da una parte mentre
dall’altra arrivavano di corsa le quattro
donne seguite da Rod. Dalla stanza di
Muriel sbucò Jane, guardò invasata a
destra e a sinistra e partì di corsa in
direzione delle scale sempre stringendo
il cuscino.
«Tu!» urlò Powell gettandosi
all’inseguimento. «Sei stata tu?»
Jane scese di corsa le scale
respirando a fatica, rischiando ogni
momento di precipitare. Attraversò di
slancio la cucina, spinse con forza la
portafinestra, uscì nell’oscurità senza
sapere dove stesse andando. Era
arrivata alla piscina quando Robert
Powell la raggiunse.
«Sei stata tu», l’accusò di nuovo.
«Per vent’anni ti ho avuto in casa, ti ho
vista tutti i giorni senza mai sospettare
per un solo istante che fossi stata tu a
uccidere la mia Betsy.»
«Io ti amo, Rob», gemette lei. «Ti
amo, ti amo, ti amo.»
«Tu non sai nuotare, vero? Hai paura
dell’acqua,
vero?»
La
spinse
all’improvviso cogliendola totalmente
di sorpresa, poi soffocò le sue
invocazioni d’aiuto mettendosi a urlare:
«Jane, Jane, non aver paura! Ti aiutiamo
noi! Jane, aspetta! Ma dove sei?»
Quando fu sicuro che stesse
annegando, riprese a correre, oltrepassò
la pool house, arrivò al viale d’accesso
della villa e lì, sfinito, si accasciò a
terra. Lì fu trovato dai poliziotti della
volante che piombò attraverso il
cancello. Un agente si inginocchiò su di
lui. «È tutto sotto controllo, signor
Powell. Mi dica, sa da che parte è
andata?»
«No.» Robert Powell respirava a
fatica. Era bianco come un lenzuolo. In
quel momento si accesero tutte le luci
all’esterno della villa e ogni angolo del
giardino diventò visibile. «Forse nella
pool house», annaspò. «Forse si è
nascosta là dentro.»
A sirene spiegate arrivarono altre
volanti che invasero il viale d’accesso.
Su una di esse c’era Ed Penn.
«Controllate nella pool house», gridò
l’agente che stava soccorrendo Powell.
Uno dei suoi colleghi corse ad aprire
la porta della casetta e proprio in
quell’istante un altro agente gridò: «È
quaggiù».
Era in piedi sul bordo della vasca a
guardare l’acqua. Jane giaceva sul fondo
a faccia in su. Aveva gli occhi sbarrati e
le mani ancora contratte sul cuscino che
stringeva contro di sé. L’agente si tuffò e
la riportò in superficie. Altri poliziotti
lo aiutarono a issarla fuori e a stenderla
sul bordo della vasca. Le pomparono il
torace e le applicarono la respirazione
bocca a bocca. Dopo qualche minuto
rinunciarono all’inutile tentativo di
resuscitarla.
In casa Alex era riuscito a far
ripartire il cuore di Muriel. Intorno a lui,
come paralizzati, c’erano Rod e le
quattro ex neolaureate. Mentre lottava
per riprendere conoscenza, Muriel
cominciò a mormorare: «Rob, Rob...»
Le risa isteriche di Nina risuonarono
in tutta la grande casa.
93
QUANDO
Dave
Cappo
arrivò
puntualmente alle otto al volante del
furgone della ditta, Bruno lo stava già
aspettando in strada da un quarto d’ora.
Dave era elettrizzato.
«Hai sentito cos’è successo?» chiese
mentre ripartiva alla volta della villa di
Powell.
«Cosa?» chiese Bruno a cui
sinceramente non importava niente.
«Ieri notte alla villa di Powell
qualcuno ha cercato di uccidere
qualcuno.»
«Cosa?»
«È stata la governante. È stata lei a
uccidere la moglie di Powell vent’anni
fa», continuò senza prendere fiato Dave.
«E ieri notte ha cercato di rifarlo con
qualcun altro, ma l’hanno beccata. Ha
cercato di scappare ed è caduta nella
piscina. Purtroppo per lei non sapeva
nuotare.»
Hanno trovato Timmy? si chiese
terrorizzato Bruno.
«Non è pazzesco?» stava dicendo
Dave. «Dico io, per vent’anni quelle
quattro sono state sospettate del delitto e
salta fuori che non era nessuna di loro.»
«Cosa sta succedendo adesso?»
cercò di sapere Bruno. Se hanno trovato
Timmy, posso farmi riportare a casa
immediatamente. Dirò a Dave che non
mi sento bene. Posso sparire da qui in
pochi minuti. Timmy non sa chi lo ha
prelevato dal campo, ma non ci vorrà
molto prima che vengano a cercarmi...
«Oh, solita roba», rispose Dave. «Il
medico legale ha portato via il corpo.
Da quel che ho sentito la governante
stava cercando di soffocare con un
cuscino la madre di una di quelle
quattro. Si chiama Muriel Craig. Fa
l’attrice.»
Bruno sentì il dovere di contribuire.
«Ah, sì, ho sentito parlare di lei.» Non
hanno perquisito la pool house, pensò. E
non avevano motivo di farlo ora. Potrò
andare fino in fondo.
Dave lo lasciò come al solito nel
viale d’accesso. «Non so se ti
lasceranno entrare, ma tentar non nuoce.
Poi ci racconterai.»
Furono fermati da un agente. «Devo
sentire cosa mi dicono», spiegò loro e
telefonò alla villa.
«Il signor Powell dice di lasciarlo
entrare», annunciò poi. «Può cominciare
a lavorare intorno alla zona che la
polizia ha recintato.»
Bruno scese dal furgone e si avviò
con aria indifferente. Raggiunse
camminando adagio l’area della piscina,
notò che il corpo della governante non
c’era più, entrò nella pool house,
richiuse la porta e corse nel locale
tecnico. Timmy era sveglio. Si
contorceva sopra le coperte. Aveva le
guance rigate di lacrime. Bruno si chinò
su di lui. «Non piangere, Timmy», lo
incalzò. «Adesso arriva la mamma. Ti
do qualcosa da mangiare e ti lascio
andare in bagno. Poi la mamma ti
porterà dal nonno. Capito?»
Timmy annuì.
«Ora mi devi promettere che quando
ti faccio mangiare non ti metti a gridare.
Me lo prometti?»
Timmy annuì di nuovo.
Accanto al locale tecnico c’era anche
una piccola toilette a disposizione di chi
usava la piscina. Bruno vi portò Timmy
e si fermò lì con lui. «Falla, da bravo»,
lo esortò e sarà la tua ultima volta,
pensò intanto.
Ricondusse Timmy al suo giaciglio di
coperte, andò in cucina e prese le
merendine, il latte e il succo d’arancia.
«Ti tirerò giù il bavaglio», lo
informò. «Ti darò il tempo di mangiare,
ma tu sbrigati.»
Con gli occhi sgranati dal terrore,
Timmy ubbidì.
Quand’ebbe
finito,
Bruno
lo
imbavagliò di nuovo assicurandosi
anche questa volta di non stringere
troppo. Poi spinse Timmy a distendersi.
«Se cerchi di fare rumore, non servirà a
niente perché non ti sentirà nessuno», lo
avvertì. «Se te ne stai buono, zitto zitto,
ti prometto che verrà la tua mamma a
prenderti.»
Bruno prese un rastrello, uscì dal
locale e chiuse la porta a chiave.
All’esterno cominciò a rastrellare
l’erba intorno al piccolo campo da golf.
94
PRIMA che la polizia rispondesse alla
chiamata, Josh si era precipitato
nell’alloggio di Jane, dove aveva
perquisito la camera da letto e trovato il
nascondiglio in cui la governante
custodiva i gioielli che George Curtis
aveva regalato a Betsy. Ora erano al
sicuro nelle sue tasche e nessuno ne
sapeva niente. Era stata una sorpresa per
lui venire a sapere che Jane aveva
ucciso Betsy, per quanto avesse sempre
sospettato che fosse morbosamente
infatuata del suo datore di lavoro.
Alle nove tutti quelli che erano
rimasti a dormire alla villa scesero per
fare colazione. Tutti laconici, tutti
taciturni. Nessuno aveva ancora
assimilato del tutto il fatto di essere
finalmente liberi dal sospetto di aver
assassinato la moglie del padrone di
casa.
Muriel aveva rifiutato di farsi
ricoverare in ospedale ed era rimasta a
letto finché il medico legale non se n’era
andato portando via il corpo di Jane.
Con la gola gonfia e la voce roca, aveva
già cominciato a riflettere sul fatto che
ora Robert era rimasto solo e che ormai
sapeva che gli aveva mentito sulla
presunta confessione ricevuta da Nina.
Ma forse, sperava, capirà che ho mentito
solo perché gli voglio troppo bene. A
questo scopo finalmente si decise ad
alzarsi, fece la doccia, si truccò e
pettinò
con
particolare
cura.
Quand’ebbe finito, uscì dalla stanza in
pullover, pantaloni e sandali. Sperava
che i lividi che le stavano affiorando
rapidamente sulla gola dimostrassero a
Rob quanto le fosse costato l’amore che
provava per lui.
Nel frattempo, coadiuvato da altri
detective, il capo della polizia Ed Penn
aveva interrogato tutte le persone che si
trovavano nella villa. I loro racconti
erano risultati coerenti. Almeno a un
primo sguardo, risultava apparente che,
nel tentativo di uccidere Muriel, Jane
avesse agito da sola. Tutto faceva
pensare che fosse caduta per caso nella
piscina mentre scappava.
Date le circostanze, accettò suo
malgrado l’insistente richiesta di Laurie
e Alex di finire il loro programma.
«L’indagine è ancora in corso», disse
loro con fermezza. «Tutti dovranno
venire in sede a sottoscrivere una
deposizione formale. Ma credo di
potervi permettere di andare avanti,
basta che nessuno entri nella zona
interdetta.»
Laurie e Alex lo ringraziarono e si
trasferirono nello studio dove avrebbe
avuto luogo l’ultima intervista, quella a
Robert Powell.
Gli altri furono invitati ad assistere.
Ormai erano tutti vestiti e pronti ad
andarsene al più presto possibile.
Ancora increduli che il loro incubo
fosse finito, entrarono in fila indiana
nello studio e presero posto dietro le
telecamere in attesa che facesse il suo
ingresso Robert Powell.
95
MARK Garret, il direttore del campeggio
di Mountainside, fissò Toby Barber a
bocca aperta. «Mi stai dicendo che hai
lasciato che ieri sera uno sconosciuto
portasse via Timmy Moran?» domandò
costernato.
«Suo nonno è in fin di vita», si
giustificò Toby. «È venuto un agente di
polizia a prenderlo.»
«Perché non mi hai chiamato?»
«L’ho fatto, signore, ma lei non ha
risposto al telefono.»
Garret provò una stretta al cuore
rendendosi conto che Toby aveva
ragione. Si era tolto la giacca e nel
fracasso della festa non avrebbe mai
potuto sentire la suoneria del cellulare.
Ho parlato con Leo Farley solo ieri,
cercò di rassicurarsi, quando mi ha detto
che era in ospedale.
Ma mi ha anche avvertito che la
persona che ha ucciso il padre di Timmy
aveva minacciato anche il bambino e sua
madre. E se è stato lui a condurlo via?
Ora in preda a una viva apprensione,
Garret si mise al telefono. Aveva il
numero di Leo Farley sempre a portata
di mano nel caso si fosse materializzata
una minaccia nei confronti di Timmy.
Ora poteva solo sperare e pregare che
Leo Farley fosse davvero in condizioni
critiche.
Farley gli rispose al primo squillo.
«Salve, Mark», lo salutò. «Come
va?»
Garret dovette deglutire a vuoto.
«Come sta, commissario?» s’informò.
«Oh, adesso bene. Anzi, stamattina
mi fanno uscire. Ieri sera ho sentito
Timmy. Dice che si sta divertendo un
mondo lì da voi.»
«Allora non è stato lei a mandare qui
un poliziotto ieri sera?» fu costretto a
chiedergli apertamente Mark Garret.
Leo impiegò qualche secondo per
riprendersi dal colpo. L’incubo si stava
avverando. Ad andare a prendere Timmy
poteva essere stato solo Occhi Blu.
«Vuol dirmi che dopo tutti i miei
avvertimenti ha lasciato che uno
sconosciuto portasse via mio nipote?
Che aspetto aveva?»
Garret chiese a Toby di descrivergli
il poliziotto.
Con un nodo in gola Leo ascoltò una
descrizione che corrispondeva a quella
che aveva dato Margy Bless alla polizia
cinque anni prima dell’assassino di
Greg: non molto alto, tarchiato...
«Aveva gli occhi blu?» domandò.
«Ho chiesto a Toby. Non lo ha notato.
Era molto stanco.»
«Imbecilli!» ruggì Leo Farley
interrompendo la comunicazione.
Strappò via i cavi con cui le
macchine gli monitoravano il cuore. Gli
echeggiavano nella mente le parole che
Occhi Blu aveva gridato a Timmy: «Di’
a tua madre che adesso tocca a lei. Poi
sarà il tuo turno».
Digitò in fretta e furia il numero di
Ed Penn. Se avesse tenuto fede alla sua
minaccia, Occhi Blu avrebbe ucciso
dapprima Laurie. Era sicuramente già
diretto alla villa... e Dio volesse che
Timmy fosse ancora vivo!
96
CON la faccia tirata e l’aria stanca, ma
impeccabile in giacca estiva, camicia e
cravatta, Robert Powell ascoltò in
silenzio il benvenuto di Alex. Le quattro
donne in onore delle quali aveva dato
una grande festa vent’anni prima erano
dietro di lui.
«Signor Powell, non è certo così che
prevedevo
di
chiudere
questo
programma. Lei ha mai saputo o
sospettato che a uccidere sua moglie
fosse stata Jane Novak?»
«Assolutamente no», rispose con
voce stanca Robert Powell. «Ho sempre
sospettato che fosse stata una delle
ragazze. Non sapevo decidere quale e
volevo avere una risposta. Volevo la
soluzione del mistero. Avevo bisogno di
una soluzione. Io non sto bene, ho i
giorni contati. Ho appena appreso che
oltre ai miei altri acciacchi, ho un
cancro al pancreas che si sta
sviluppando molto velocemente. Tra non
molto raggiungerò la mia amata Betsy o
in cielo o all’inferno.»
Ci fu una lunga pausa di silenzio.
«Ho intenzione di lasciare a ciascuna
delle ragazze di allora cinque milioni di
dollari. So che in diverso modo io e
Betsy abbiamo fatto del male a noi stessi
e a ciascuna di loro.»
Si girò a guardarle aspettandosi
espressioni di gratitudine.
Si trovò invece a contemplare
identiche espressioni di disprezzo e
disgusto.
97
«È ORA », decise Bruno. «Adesso chiami
la tua mamma.» Si era messo
nuovamente sugli occhi le lenti a
contatto azzurre.
Timmy guardò gli occhi blu che lo
avevano perseguitato per più di cinque
anni della sua giovane vita. «Tu hai
ucciso il mio papà», disse.
«Proprio così, Timmy, e lascia che ti
spieghi perché. Io non volevo diventare
un delinquente. Io volevo mollare le
cattive
compagnie.
Avevo
solo
diciannove anni. Avrei potuto fare una
vita completamente diversa. Ma quello
sbirro tutto d’un pezzo di tuo nonno mi
ha beccato che guidavo ubriaco. Io l’ho
supplicato di lasciarmi andare e gli ho
detto che l’indomani mi dovevo
presentare per entrare nell’esercito.
Invece lui mi ha arrestato. Dopodiché
l’esercito non mi ha più voluto e io sono
tornato nella mia gang. E una notte sono
entrato in una casa a rubare e quando mi
ha visto la vecchia che ci abitava ha
avuto un infarto. È morta. Io mi sono
buscato trent’anni.»
La faccia di Bruno si contrasse in una
maschera di furore. «Avrei potuto fare
qualsiasi cosa. So costruire computer.
So entrare in qualsiasi computer,
intercettare qualunque telefono. E ho
pensato a come pareggiare i conti con
Leo Farley. Avrei ucciso le persone a
cui voleva bene, suo genero, sua figlia e
te. Ho fatto fuori tuo padre, ma mi hanno
rispedito in prigione per altri cinque
anni per una stupida violazione della
libertà vigilata. Adesso lo sai anche tu,
Timmy, ed è ora di chiamare la
mamma.»
Laurie e Alex guardarono le ex
neolaureate
sfilare
dalla
stanza
lasciando Robert Powell solo, seduto al
tavolo. Con un cenno del capo, Laurie
indicò alla troupe che potevano
sbaraccare. Non c’era altro da
aggiungere.
Alex sentì il cellulare che gli vibrava
nella tasca. Era il suo ufficio,
l’investigatore a cui aveva assegnato il
compito di scoprire qualcosa sul
giardiniere. «Alex», si sentì dire con un
certo affanno, «quel giardiniere di cui
mi avevi chiesto. Non si chiama Bruno
Hoffa. È Rusty Tillman, che ha scontato
trent’anni di galera. È uscito cinque anni
e mezzo fa, una settimana prima che
venisse ucciso il dottore. Poi è tornato
in prigione per aver violato la libertà
vigilata ed è uscito di nuovo cinque mesi
fa. Ci siamo fatti mandare la scheda
segnaletica...»
Alex lasciò cadere il cellulare.
Guardava incredulo Laurie. Stava
uscendo nel patio. Sentì squillare il suo
telefono mentre le urlava: «Laurie,
aspetta!»
Ma lei era già fuori e si stava
portando il telefono all’orecchio.
«Timmy, non ti è permesso chiamare
durante il giorno», disse. «Cosa c’è,
tesoro?» E poi alzò di scatto gli occhi.
La porta della pool house si stava
aprendo e ne usciva Timmy, in pigiama e
accappatoio, tenuto per mano dal
giardiniere. Il quale gli puntava un fucile
alla testa.
Laurie lanciò un grido e partì di
corsa attraverso il prato.
La volante su cui viaggiava il capo
della polizia Ed Penn stava piombando a
tutta velocità verso la villa. «Niente
sirena!» aveva ordinato Penn al
conducente. «Non vogliamo farci
annunciare. Fai convogliare tutte le altre
unità sulla casa di Powell.»
La comunicazione urgente arrivò
anche all’auto di pattuglia appostata
dietro la tenuta. Il poliziotto che la
occupava attraversò correndo la zona
alberata e scavalcò di slancio la
recinzione. Per quanto fosse un tiratore
esperto, l’agente Ron Teski non aveva
mai usato l’arma in servizio. Mentre
correva verso la villa, pensava che forse
quello era il giorno in cui avrebbe
messo alla prova le tante ore di pratica
al poligono. Occhi Blu lasciò andare la
mano di Timmy e ridendo lasciò che si
precipitasse verso Laurie, che a sua
volta correva verso di loro, ancora
distante qualche decina di metri.
La volante sbucò dalla curva del
viale davanti alla villa e dal finestrino
Penn si sporse puntando la pistola su
Occhi Blu. Fece fuoco, ma mancò il
bersaglio.
Ormai Laurie aveva raggiunto Timmy
e si stava chinando per prenderlo in
braccio. Occhi Blu mirò alla testa di
Laurie attendendo che finisse di rialzarsi
come aveva fantasticato per il gran
finale che aveva scritto nella sua mente.
Mentre stava per premere il grilletto, il
primo colpo dell’agente Teski lo
raggiunse alla spalla. Barcollando,
Occhi Blu rialzò il fucile che aveva
inavvertitamente abbassato nel momento
in cui veniva ferito e cercò di prendere
nuovamente la mira su Laurie.
Nell’istante in cui schiacciava il
grilletto avvertì un’esplosione nel petto.
Stramazzò
per
terra
contemporaneamente a uno schianto di
vetri infranti. Il proiettile che aveva
sparato aveva sfondato la portafinestra
dello studio in cui Robert Powell era
ancora seduto al tavolo. Con
un’espressione perplessa, Powell si
portò una mano a quel che restava della
sua fronte e precipitò dalla sedia.
Pochi secondi dopo Alex Buckley
stringeva tra le braccia Laurie e Timmy.
Epilogo
SEI mesi più tardi le ex neolaureate si
ritrovarono insieme, questa volta in
un’atmosfera molto più lieta.
Era stato Alex a proporre loro di
passare la sera di Capodanno a casa sua.
L’esistenza di ciascuna di loro aveva
subito una svolta clamorosa e Alex
riteneva
che
fosse
ora
che
condividessero le loro esperienze.
Così ciascuna raccontò di sé alle
vecchie amiche mentre bevevano un
aperitivo in attesa della cena preparata
da Ramon.
Claire si era rivolta a un terapeuta ed
era finalmente riuscita a parlare di
quello che le aveva fatto Robert Powell.
«Non fu colpa mia», era ora in grado di
sostenere con convinzione. Aveva
ripreso a truccarsi e aveva accettato di
buon grado di somigliare a sua madre.
Adesso, attraente come era stata Betsy
prima di lei, rideva serena raccontando
alle vecchie amiche della sua ritrovata
disinvoltura in società.
La prima cosa che aveva fatto Regina
nel ricevere i soldi del programma era
stata restituire a Bridget Whiting la
provvigione che le aveva pagato. Il
mercato immobiliare aveva ripreso a
tirare e ora poteva permettersi una casa
più spaziosa con annesso l’ufficio per la
sua agenzia. Enorme piacere le aveva
dato venire a sapere che il suo ex e la
sua moglie rock star erano nel mezzo di
un
divorzio
burrascoso.
Zach
trascorreva con lei praticamente tutto il
suo tempo libero.
Nina si era fidanzata con Grant
Richmond. Aveva volentieri ceduto a
sua madre la sua parte di compenso
ricevuta da Powell e dallo studio
televisivo con l’impegno da parte di lei
di non farsi sentire mai più.
Naturalmente
Muriel
andava
a
raccontare in giro che Robert era
innamorato pazzo di lei e che avevano
avuto intenzione di sposarsi prima del
terribile incidente in cui aveva perso la
vita.
Alison si era iscritta alla facoltà di
medicina di Cleveland, ma rientrava a
casa tutti i pomeriggi. Scherzava su
quanto le fosse difficile tener testa ai
suoi compagni ventenni. A rallegrare
ulteriormente la sua vita giunse la
notizia che era incinta di tre mesi. Rod
l’aveva sorpresa annunciandole che le
avrebbe fatto compagnia negli studi. Si
era scoperto che da anni anche lui aveva
desiderato diventare farmacista.
Commentarono il fatto che Robert
Powell era rimasto ucciso prima di
portare a termine il suo ultimo tentativo
di rimediare ai suoi torti. Si
domandarono se, nel caso avesse
lasciato loro tutti quei soldi, li
avrebbero mai accettati, alla fine
conclusero tutte e quattro che li
avrebbero considerati
un giusto
risarcimento per tutto quello che
avevano patito.
Alla riunione era stato invitato anche
George Curtis. Mentre le ascoltava,
ringraziava la sua buona stella. Robert
Powell non aveva mai sospettato della
sua relazione segreta con Betsy. Isabelle
lo aveva perdonato. Si sarebbe potuto
risparmiare vent’anni di angoscia, ma se
non era andata così era solo colpa sua e
della sua vigliaccheria.
A cena sorrise tra sé pensando
all’annuncio che si accingeva a fare.
Robert Powell aveva promesso di
donare alle ex neolaureate cinque
milioni di dollari ma era morto prima di
poter cambiare il testamento. Sarebbe
stato lui a regalare alle quattro donne i
cinque milioni che avrebbero dovuto
ricevere da Powell. Sapeva che stava
solo cercando di perdonare a se stesso il
danno che aveva inflitto loro con il suo
silenzio durato due decenni.
Tre delle quattro amiche avevano
consegnato al capo della polizia Penn i
nastri con cui Josh le aveva minacciate e
adesso lo chauffeur di Robert Powell
era in libertà dietro cauzione in attesa
del processo. Perquisendo il suo
appartamento erano stati ritrovati i
gioielli rubati da Jane. Poiché Jane li
aveva sottratti a Betsy, tornavano a far
parte del patrimonio della defunta. Dopo
che si fosse compiuta la trafila
giudiziaria di Josh, i gioielli sarebbero
stati consegnati a Claire affinché ne
facesse ciò che voleva.
Ascoltando le quattro donne, Alex
ammirò la loro forza d’animo. Si girò a
guardare Laurie. Per la prima volta nei
quasi sei anni da quando era morto
Greg, Laurie e Leo avevano lasciato
Timmy in compagnia di una ragazza
figlia di certi loro vicini di casa. Quanto
la loro vita fosse cambiata si capiva dal
modo spensierato in cui scherzavano e
ridevano con gli altri. Per tutti era stato
difficile accettare che un arresto di
ordinaria amministrazione come quello
effettuato da Leo da giovane agente di
polizia, quando aveva fermato Occhi
Blu al volante di un’automobile in stato
di ubriachezza, fosse stato vissuto da
quest’ultimo come l’evento che gli
aveva rovinato la vita, al punto da
spingerlo ad assassinare Greg e a
costringere la sua famiglia a vivere per
tanti anni nell’incubo di una condanna a
morte.
La serie intitolata Under Suspicion
era decollata come Laurie aveva
previsto.
Alex sapeva che era troppo presto
per farle sapere quanto si sentisse
innamorato di lei. Laurie aveva ancora
bisogno di tempo per riprendersi del
tutto.
Ma io posso aspettare, pensò, tutto il
tempo che ci vorrà. Per quanto lungo sia.
Della stessa
autrice
Nella notte un grido
La culla vuota
Incubo
Non piangere più, signora
Mentre la mia piccola dorme
La Sindrome di Anastasia
Le piace la musica, le piace
ballare
In giro per la città
Un giorno ti vedrò
Ricordatevi di me
Domani vincerò
Un colpo al cuore
Una notte, all’improvviso
Bella al chiaro di luna
Testimone allo specchio
Sarai solo mia
Accadde tutto in una notte
Ci incontreremo ancora
Uno sconosciuto nell’ombra*
Prima di dirti addio
Sapevo tutto di lei
La figlia prediletta
Dove sono i bambini?*
Una luce nella notte
La seconda volta
Quattro volte domenica
La notte mi appartiene
Casa dolce casa
Due bambine in blu
Ho già sentito questa canzone
Dimmi dove sei
Prendimi il cuore
L’ombra del tuo sorriso*
Nessuno mi crede*
La lettera scomparsa*
Sei tornato, papà?*
La notte ritorna*
Con Carol
Higgins Clark
L’appuntamento mancato
Ti ho guardato dormire
Furto al Rockefeller Center (Il
ladro di Natale)
Una crociera pericolosa
Il biglietto vincente
* Di questi libri è disponibile la versione
ebook
Indice
Il libro
L’autrice
La notte ritorna
Ringraziamenti
Prologo
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Epilogo
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