www.project-ring.com//gennaio 2005
M O N D O S O P I T O
15
SOMMARIO
speciale
speciale
virtual,
real//04
soso
virtual,
soso
real//04
rubriche
rubriche
tesori
sepolti
tesori
sepolti
metal
arms:park//64
glitch in
jojo’s
puzzle
the system//44
game
making era 03
The
ivory
tower
dar
vita
ai pixel//65
//09
arena
20th century
davide
Grand
Theft Auto//20
capitolo
uno//45
The
ivory tower
frames
Two cultures//24
one day
@ san
kakka
banzai
andreas//11
avventure
testuali//26
one night @ thief//12
frames
indepth
i voti di edge//28
il bignami di
indepth
jak & daxter//14
PES-parte
II//29
recensioni
recensioni
half
life
2//18
gta
san
andreas//34
halo 2//22
fable//37
metal
gear solid 3:
wrc
4//40
snake
eater//26
the
chronicles
of
prince of persia 2:
riddick//41
spirito 3//43
guerriero//29
burnout
killzone//31
psi
ops//46
ratchet
& clank 3//32
second
sight//49
jak
&
daxter
3//34
xenosaga II//51
phantom dust//36
doom3//53
dragonv//56
ball z
gradius
budokai damacy//58
3//37
katamary
sid meier’s
panic
maker//60
pirates!//38
zelda
minish cap//62
metroid
prime 2:
pes:
non-recensione//63
echoes//43
«This is Ring. Kept you waiting,
uh?»
Anche questa volta, Ring si
propone al suo matto e disperatissimo pubblico così come
solo le grandi star sanno fare: in
ritardo. Certo, è probabile che
abbiate già giocato alcuni dei
titoli quivi recensiti; ma questo
non toglie il fatto che avete
bisogno di leggere i nostri
articoli per sapere se vi siete
divertiti o meno. La redazione vi
augura quindi buona lettura, in
attesa di bannarvi dal nostro
forum a seguito delle vostre
proteste in sede di feedback…
<2>
C’è un gigante che dorme, sotto di noi.
C’è un gigante che dorme e che potrebbe svegliarsi: meglio non farsi trovare
impreparati alla venuta del Sottomondo, o Mondoaltro. Per noi non è facile, noi delle
console, che solo adesso e solo a bocconi intravediamo i confini del Nuovo Mondo. Ma se ne
distinguono ormai le forme in ogni dove, e occorre prepararsi, stare all’erta.
Il Nuovo Mondo è quello Online, che spiraleggia nella sua Rete e canta melodioso calde
lusinghe. Per i più, ora, è un miraggio informe, confuso e lontano, ma è tempo per il Nuovo
Mondo di svegliarsi e chiamare a sé nuovi sudditi. Da questo numero, Ring comincerà a
interessarsi delle strane e arcane fenomenologie che interessano i mondi digitali persistenti,
indagando fra le pieghe della Rete per eviscerare quanto di più riposto ci sia.
E di ‘tesori sepolti’, pensiamo ce ne siano molti, da dissotterrare.
Il Nuovo Mondo Online è molto più di quello che appare in superficie, non è solo
deathmatch e cooperative. Non è nemmeno l’organizzazione a squadre di un Joint
Operation. O meglio, è tutto questo, ma anche di più.
Quello che pulsa sotto di noi è un cuore sociale, che freme per venire alla luce e trovare
nuovi amici/amanti. L’impatto che può provocare un diffuso online gaming di tipo
persistente (MMORPG, per usarne la sigla cacofonica) è inimmaginabile, eppure meritevole
di indagine preventiva: oggi sono in proporzione pochi, eppure sempre milioni, gli utenti
reali che trascorrono parte del loro tempo in ambienti digitali. Molti gli aspetti peculiari di
questa condizione ludica, ma è nell’impatto delle semplici cose che il ‘gioco sociale online’
promette un brivido capace di scuotere l’industria. Se la semplice azione del parlare è la
norma in un GDR offline, in un gioco online questa azione banale è amplificata dal sapere
che è una persona reale, per quanto distante, quella con cui interagiamo. E se le cose
‘normali’ acquisiscono più valore, a maggior ragione aumenta la rilevanza delle azioni
‘significative’.
La morte di Aeris in Final Fantasy VII è un evento toccante. Commovente. Ma si tratta
di un evento ripetibile (basta caricare l’ultimo salvataggio), e capitato in misura pressoché
identica a molti (milioni). Tante piccole conquiste, tanti piccoli frangenti quotidiani, sono
sempre unici nell’online gaming. Il nostro personaggio è unico. Noi siamo unici.
Sconfiggere il Pincopallino Undead che tormenta le lande fatate in cui viviamo, inietterà
una sferzata di adrenalina con pochi eguali, specie se abbiamo compiuto l’esorcismo sotto
gli occhi di molti spettatori. Assistere ad un gesto di spontanea e disinteressata amicizia è
sempre degno di nota, online. Ricevere udienza da Lord Blackthorn, in quel di Britannia, è
un evento raro e difficile ad avverarsi…ma come dimenticare un seppur breve colloquio con
uno dei character cardine di Ultima Online? Come resistere alla tentazione di strappare un
furtivo printshot che ritragga e testimoni lo storico incontro? Sensazioni tutte ignote al
single gaming da salotto.
Ma se il gigante si scuote e si rigira, è comunque lungi dal destarsi…
Oggi esistono tre ‘classi’ che dominano l’industria del VG, che ne muovono le fila e che
ne dovrebbero/potrebbero condurre i movimenti.
Chi commissiona, chi fa e chi gioca.
Produttori, Creatori e Giocatori di videogiochi.
Ognuno di essi detiene una porzione di potere, e diverte (o rattrista) notare che proprio
i più vicini all’anima del gioco, i Creatori, siano i meno rilevanti nel definire, oggi, forme e
comportamenti della Creatura. Dove un tempo i Creatori erano indissolubilmente legati,
come padri, al frutto delle loro menti, oggi si trovano spesso lontani. Anonimi.
I Produttori plasmano i progetti sui desideri che suppongono animare le voglie
consumistiche dei Giocatori, i quali spesso si lasciano ammaliare da certa propaganda
commerciale, abdicando così alla loro porzione di potere.
I Produttori vincono di quattro lunghezze almeno, sembrerebbe. Ma i MMORPG possono
reggersi sul primario interesse di chi lucra su di essi?
Più ancora che nei giochi offline, l’interesse del Produttore lede la qualità
dell’intrattenimento, che si vede disperdere in andirivieni interminabili, quest e sottoquest
irrisorie, scontri casuali e level up furibondo. È sintomatico dei MMORPG commerciali: più si
gioca, più si paga. Come un tempo gli arcade, che per spremere più gettoni dovevano
durare il meno possibile, oggi i MMORPG spremono abbonamenti protraendosi
innaturalmente, ad libitum se possibile. Ed ecco dunque l’utente sconsolato gettarsi in una
maratona di incontri di scarso interesse, per la sola ragione di acquisire quel minimo di
potere che sappia dar lustro all’esperienza di gioco.
Sono pochi i MMORPG che sfuggono a questa triste considerazione, mentre non sono
pochi gli utenti che, disperati, si gettano sulle aste online e avanzano offerte (talvolta
onerose) per accaparrarsi un personaggio superaccessoriato, con skill al massimo e un pene
lungo così.
www.project-ring.com//gennaio 2005
Gli aggiustamenti cui il MMORPG deve sottoporsi, prima che si apra all’attenzione di
tutti, sono ancora difficili da quantificare. Da una parte un MMORPG gratuito (magari
gestito da volenterosi master) dovrebbe idealmente azzerare la ‘curva lavorativa’,
insistendo da subito sulla piena fruizione del gioco. Niente level up da stacanovista
della tastiera, ma un set completo di capacità, appaganti da subito, da impiegare in
quella particella dell’acronimo spesso trascurata: ‘Ruolo’.
La prossima generazione hardware, in combinazione al potenziamento delle linee
di connessione, porterà poi all’online gaming di massa, diffuso fra l’utenza meno
‘specializzata’ delle console. Se oggi il gioco online persistente è prerogativa del PC
(nonostante significativi precedenti come Final Fantasy XI), domani potrebbe
trasformarsi in una consuetudine da consumare davanti alla TV, anziché al monitor.
Come cambierà la situazione quando basteranno pochi pulsanti, un pad wireless e le
cuffie, per proiettarsi in un mondo parallelo?
E con il Nuovo Mondo, quello ‘vecchio’ cresce e cambia. Non vanno infatti
trascurati i sensazionali fenomeni registrabili già nelle attuali comunità online, in quelle
zone del gioco sociale dove si è concentrato lo zoccolo duro e sperimentatore di chi è
ormai solito passeggiare virtualmente, mouse al guinzaglio. Di Second Life stupisce
non tanto la possibilità di condurre una ‘seconda vita’, per l’appunto, quanto quella per
nulla marginale di generare reddito nella ‘prima’. Così come in altri giochi (Project
Entropia, ad esempio), Second Life offre l’occasione di convertire la moneta fittizia
con quella reale e frusciante: basta svolgere un lavoro virtuale, quale l’offerta di un
servizio, la produzione di beni o la speculazione sugli stessi. Potremmo ritrovarci a
giocare ad un MMORPG per una decine di ore settimanali, un paio delle quali investite
nel lavoro utile a ripagare le spese di abbonamento!
Nel frattempo, sul finire del 2002, una compagnia californiana inaugurava in
Messico una singolare attività. Otto computer, una linea ad alta velocità e manodopera
del luogo inchiodata ai PC, pigiando e martellando sul mouse, abbattendo orchi e troll,
draghi e maghi in Everquest e Dark Age of Camelot. Incrementandone il livello a
suon di vittorie, armi e personaggi erano poi smerciati via eBay in cambio di dollari
americani.
Se Mythic Entertainment, produttore di DAoC, ha provveduto a far chiudere i
battenti all’originale imprenditore, Sony Online Entertainment rispondeva bannando
sistematicamente gli utenti pescati sui ‘mercati neri’ della rete a vendere i propri
personaggi. Microsoft, forse più lungimirante, consente con il suo Asheron’s Call il
commercio umano, salvo tassare il ‘passaggio di proprietà’.
Quale panorama si stia profilando è difficile a dirsi. No. È proprio impossibile. Il
Nuovo Mondo Online è pieno di promesse così come di rischi. L’utenza giocante non è
sempre rispettosa delle leggi e dell’altrui interesse, inoltre ad oggi il potere in mano ai
Produttori schiaccia le possibilità di concreta evoluzione del genere. Il contesto
persistente potrebbe forse trasformarsi in una caotica Kowloon, con noi intenti a
sbrigare affari di poco conto, che nella vita reale odieremmo ma che per gioco ci
sembrano tollerabili, magari appaganti. Potremo trovarci in vetta al mondo, come
regnanti assoluti, dispensando pietà o tirannia a nostro piacimento, godendo della gioia
.
o sofferenza di altri utenti come noi e dei loro poveri avatar digitali. O forse saremo fra
questi ultimi, indignati e arrabbiati per le offese subite, i torti in sospeso, e tutti i
crediti di giustizia accumulati in una vita da sottomessi.
Forse il Nuovo Mondo sarà esattamente come quello Vecchio.
Quello Nostro.
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RING
copertina,
copertina
grafica online e
hiroki lawrence
grafica PDF a cura di
grafica online e
tommaso
grafica
PDF a“gatsu”
cura di
de benetti
tommaso
“gatsu”de benetti
sezioneonline
onlineaacura
cura
sezione
didi
tommaso“musta”collini
“musta”
tommaso
colliniPDF a cura di
sezione
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resa cura di
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cristiano
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redazione
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gianluca “sator” belvisi
gianluca “sator” belvisi
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“lord” bresciani
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tommaso
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cristiano
“amano76”
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paolo “jumpman”
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res
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“jumpman”
giacomo
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talamini
giacomo
“gunny” talamini
hanno
collaborato
hanno
collaborato
il pupazzo
gnawd
fabio “FBS” simonetti
mr. yo
lucio “Lux” sampietro
hob
per collaborare
andrea23
[email protected]
per collaborare
[email protected]
nemesis divina
Ring saluta un amico che se n’è andato. Bruno Fraschini, fulgido amante e
studioso del Videogioco in tutte le sue forme, ha solo incrociato la nostra strada,
lasciandoci tuttavia alcuni ricordi di sé: i suoi scritti, pubblicati qui e altrove, la sua
musica, qualche sorriso davanti a una pizza, e un paio di idee strampalate sul medium
interattivo, di quelle che piacciono a noi. Metal Gear Solid 3 è una forza, Bruno, ti
sarebbe piaciuto. Lo giocheremo pensando anche a te.
Ciao Bruno.
M O N D O S O P I T O
Avvertenza per la
stampa
Il PDF di Ring è pensato come
una vera e propria rivista e
va stampato sfruttando
entrambe le facciate dei
fogli. Per far ciò seguite quattro semplici operazioni:
1) Inserite 25 fogli nella
stampante.
2) Assicuratevi che le dimensioni di stampa siano
impostate sul 100%.
3) Stampate SOLO le pagine dispari selezionando
“pagine dispari” dalla casella in basso a sinistra
della finestra di stampa di
Acrobat Reader.
4) Girate i fogli e stampate
anche le pagine pari. Et
voilà!
La cover di questo mese è di Hiroki Lawrence http://r0x0rtenshi.deviantart.com/
<3>
So Virtual, so Real
Sull’impatto socio-economico dei mondi virtuali
di Gatsu
“Games are not democracies”
Sanya Thomas
Un giorno la rete si riverserà nella realtà, e sarà
un bel casino.
No, non state leggendo una nuova puntata di Vox
Mundi, quello accennato è uno scenario possibile,
probabile e forse perfino inevitabile.
Visto il fioccare di saggi/articoli sull’argomento,
raccogliere una parte delle riflessioni più stimolanti e
discuterle su Ring è stato un passo doveroso. In
particolare, appaiono degni di nota una manciata di
autori fortemente coinvolti nello studio delle comunità virtuali, nello specifico Castulus Kolo, Timo Baur
e, forse il più ardito fra questi pensatori, Edward Castronova. In questa sede, proporremo alcune delle
loro analisi, commentandole quando necessario, inframmezzandole con altro materiale rilevante allo
scopo di questo articolo, e cioè ipotizzare quali potrebbero essere i futuri sviluppi di un fenomeno in
aumento e ricco di peculiarità come quello dei
MMORPG.
I TESTI DI ORIGINE
I saggi che prenderemo in considerazione sono:
Living a Virtual Life: Social Dynamics Of Online Gaming di Kolo/Bair e On Virtual Economies di Castranova, ambedue disponibili in versione integrale al
sito http://www.gamestudies.org. Il primo è uno
studio che si preoccupa di raccogliere dati empirici
sui giocatori di Ultima Online, il secondo propone
teorie e modelli economici ipotetici, relativi ad alcune peculiari fenomenologie che caratterizzano il
giovane mondo dei MMORPG. Purtroppo, come
buona parte degli studi relativi al videogioco, i due
documenti sono fin troppo accademici e difficilmente
digeribili dal giocatore medio, di norma poco propenso a perdersi fra modelli matematici e grafici
statistici prima di trovare qualcosa di interessante
da leggere.
Abbiamo ritenuto opportuno riassumere nei paragrafi seguenti solo quello che può interessare
l’appassionato di videogiochi, ma se siete incuriositi
dall’argomento e volete farvi del male date almeno
un’occhiata alla produzione di Castranova, reperibile
all’indirizzo
http://papers.ssrn.com/sol3/cf_dev/AbsByAuth.cfm?
per_id=277893. Ring si impegna comunque a tornare sull’argomento, in futuro.
L’IMPATTO SOCIALE
.Motivazioni
Quali sono i motivi che spingono gli utenti a giocare online, piuttosto che dedicarsi a partite single
player o alla meravigliosa arte del giardinaggio?
Nelle interviste condotte da Kolo e
<4>
Discendente dalla gloriosa saga epica di Ultima,
l’incarnazione MMORPG ha rappresentato per la comunità
una oasi inusuale, dove il gioco di ruolo in senso più stretto
ha avuto spesso la meglio sul bruto cozzar di spade. Nella
foto, una scena a dir poco leggendaria per gli appassionati…
Baur (relative a Ultima Online, ma valide per
buona parte dei MMORPG) una delle risposte più
frequenti riguardava l’esperienza sociale del gioco,
cioè la possibilità di interagire con migliaia di altri
giocatori in una società virtuale. Sorprendentemente, la possibilità di portare a termine quest o
potenziare il personaggio rivestono una posizione
statistica di secondo piano, anche se i valori cambiano sensibilmente a seconda della fascia di età
considerata e alla tipologia di giocatore: per esempio, quasi 1/3 degli ‘heavy player’ – utenti con più di
dodici sessioni di gioco settimanali della durata variabile fra una e sette ore - ritengono le relazioni
instaurate in UO “più importanti delle loro relazioni
offline”.
Nicolas Ducheneaut, Robert J. Moore e Eric Nickell
(Palo Alto Research Center), nel loro saggio Designing for Sociability in Massively Multiplayer Games:
an Examination of the Third Place of SWG [1], sembrano confermare, citando il lavoro svolto dal team
di Star Wars Galaxies, l’importanza che questo
‘aspetto sociale’ sta assumendo nei MMORPG rispetto ad altre attività: “…sembra opinione comune
nell’industria che i MMORPG abbiano attratto una
circoscritta comunità di giocatori: i cosiddetti ‘hardcore’ o ‘power’ gamers. Questi giocatori si concentrano sull’efficienza e nel raggiungere gli obiettivi del
gioco nel modo più veloce possibile. Nonostante
siano ben distanti dall’essere asociali, […] non contribuiscono realmente all’atmosfera sociale del
gioco. Pertanto i designer hanno provato a integrare
al gameplay l'elemento comunitario: in altre parole,
a strutturare le meccaniche di gioco in modo che i
giocatori abbiano svariate occasioni di incontrarsi e
instaurare relazioni”.
Pare che almeno una parte dell’industria stia prendendo coscienza del reale punto di forza dei
MMORPG, ed evidentemente sfoghi di personaggi
illustri come Richard Bartle (co-autore del primo
MUD – Multi User Dungeon – giochi online amatoriali
e gratuiti) non sono rimasti inascoltati: “I mondi
virtuali sono concepiti da newbies, e non c’è un cavolo da fare a questo proposito. Non dico designers
alle prime armi, intendo giocatori alle prime armi”
[2].
.Relazioni sociali nei mondi virtuali e conseguenze reali
Una volta stabilita, a grandi linee, la motivazione
principale che spinge i giocatori a investire parte
della loro vita reale in un contesto fittizio, vediamo
come sono strutturate le relazioni interpersonali nei
MMORPG. Innanzitutto c’è da fare una distinzione
fra relazioni giocatore/giocatore e avatar/avatar,
visto che questi rapporti avvengono a livelli diversi
e non sempre sovrapponibili. Una cosa è il relazionarsi con una persona che interpreta un ruolo,
un’altra è porsi nei confronti di un personaggio interpretato.
È interessante sapere che la quasi totalità dei
giocatori di UO (88% - ed è ragionevole pensare
che una simile percentuale possa essere estesa anche ad altri MMORPG) rimangono in contatto con i
loro compagni di avventura attraverso programmi
di messaging come ICQ o MSN, che rappresentano
sia una rapida via per organizzarsi all’interno del
gioco, sia un modo concreto per rimanere in contatto con gli altri giocatori ad un livello più alto.
Inoltre, l’84% dei giocatori di UO appartiene ad
una qualche tipo di gilda o associazione in game,
situazione che ovviamente favorisce le conoscenze
a tutti i livelli considerati.
Come fanno notare Kolo e Baur, giocare con un
gruppo stabile e/o conoscere nuova gente è spesso
la ragione principale che spinge gli utenti a giocare,
quindi è facile immaginare che il periodo più problematico sia quello iniziale, quando il giocatore
novello non conosce nessuno e si sente sperduto in
mezzo al caos di un nuovo mondo vivo e pulsante,
che sembra ignorarlo completamente.
E’ quindi logico aspettarsi che le relazioni nate
online abbiano una qualche conseguenza nella vita
offline. Come affermano Taylor e Jackobsson [3] “i
legami offline fra giocatori servono anche come importanti componenti del divertimento del gioco, e
[…] non è inusuale trovare gruppi di amici che si
muovono da un gioco all’altro. In queste situazioni
il gioco diventa semplicemente un nuovo ambiente
da abitare per una rete sociale preesistente”. Questo ci porta ad assumere che i legami sociali fra
giocatori nel mondo online e in quello offline non
siano segregati ad uno solo dei due mondi, ma
piuttosto interconnessi in vario modo e con differenti sfumature a seconda della situazione.
L’altra faccia della medaglia è costituita da alcuni
casi limite, come quelli segnalati da Tim Guest
nella sua colonna di opinione su EDGE [4]. Parlando della situazione coreana, patria della più
grande comunità online del mondo, Guest ci mette
a conoscenza dell’esistenza di una vera e propria
Cyber-Terror Unit attiva contro i giocatori che
commettono, nel mondo reale crimini, (tendenzialmente tentativi di omicidio, o comunque rivalse
fisiche) contro giocatori che nel mondo virtuale
spadroneggiano.
Esemplare il caso di Kyu Nam Choi, regnante assoluto nel mondo di Lineage II (MMORPG diffusissimo in Corea, prodotto da NCsoft), soggetto ritenuto particolarmente a rischio di attacchi concreti
da parte di altri giocatori. Choi, che nella vita reale
è praticamente un fallito, alla domanda “se dovessi
scegliere tra il mondo reale e quello virtuale,
MMORPG di origine coreana, la saga di Lineage si avvantaggia di una grafica sublime, frutto dell’engine di Unreal,
di un design raffinato e di un sistema di gioco incentrato
sui combattimenti e su epiche battaglie. Nell’immagine, un
assedio che coinvolge centinaia di giocatori.
per quale opteresti?” risponde “nella vita reale,
anche se possiedo una mia attività [il suo
ristorante ha chiuso - NdA] sono solo una persona
ordinaria [Choi, alla veneranda età di 32 anni, non
ha mai avuto una ragazza, per sua stessa
ammissione – NdA]. Nella vita all’interno del gioco,
io domino il mondo. Quindi scelgo il gioco”.
Un altro caso che ha suscitato scalpore riguarda la
comunità online del gioco PC Second Life (Linden
Lab.). L’architetto Derek Jones costruì e fece collassare, nell’agosto dell’anno scorso, una replica
esatta delle delle Twin Towers mentre gli avatar di
alcune persone che avevano realmente perso dei
familiari nell’attacco dell’11 settembre si trovavano
all’interno.
Ovviamente le proteste non si sono fatte attendere e a chi difendeva l’azione di Jones con il classico “è solo un gioco” si sono contrapposte altre
voci decisamente indignate (geniale l’utente che ha
chiesto: “Quando esce Third Life, così da scappare
dalla nostra seconda vita?”).
La domanda che a questo punto si pongono Kolo
e Baur, e che vi riproponiamo, è: “Possiamo comprendere meglio le dinamiche sociali offline fra persone reali, partendo dall’insieme dei personaggi
che interagiscono nell’ambiente di gioco?”. La risposta non è facile, e come gli esempi di Choi e
Derek ci suggeriscono, più che arrivare ad una soluzione del problema i MMORPG aprono tutta una
nuova serie di problematiche sociali difficili da interpretare e impossibili da prevedere.
L’IMPATTO ECONOMICO
Per avere un’idea dei punti toccati dal lavoro di Castranova è bene affrontare di petto il punto centrale della questione. La domanda posta all’inizio
della sua interessante analisi è: “Visto l’aumentare
dei giocatori nei mondi online, avremo una parallela crescita di importanza delle economie virtuali?
E se sì, in che modo influenzeranno l’economia del
mondo reale e le sue leggi?”.
Queste le differenze che lo studioso individua fra
l’economia dei MMORPG e quella reale:
1) La scienza economica, nel mondo reale, sostiene che nessun governo dovrebbe tentare di
controllare i prezzi. In una economia online tutta-
<5>
via, il governo (in questo caso il produttore del
gioco) può fissare i prezzi come preferisce senza
nessun problema. Dal momento che i beni prodotti
sono irreali, essi possono essere creati e distrutti
senza alcun costo reale. Dunque il tetto dei prezzi
non crea un eccesso di domanda, e il tetto minimo
non crea surplus. Potrebbe aver senso controllare
alcuni prezzi.
2) La scienza economica, nel mondo reale, assume
che il lavoro causi inefficienza e controproduttività.
In una economia online, è la mancanza di lavoro che
causa controproduttività. Indipendentemente dai
guadagni, la gente che gioca deve avere qualcosa da
fare o si annoierà. Se la struttura di gioco limita
l’abilità di essere costruttivamente coinvolti in una
qualche missione, o attività, i giocatori non saranno
soddisfatti. Lavorare online è cosa buona.
3) La scienza economica, nel mondo reale, crede
che la crescita economica sia sempre vantaggiosa.
In una economia online, tuttavia, l’incremento del
benessere pro-capite – che rende più facile portare
a termine quest e missioni – diminuisce il livello di
difficoltà del gioco, rendendolo potenzialmente meno
interessante. La crescita può essere quindi una caratteristica negativa [e dare luogo a fenomeni di
differenti opportunità a seconda della ricchezza dei
giocatori, facendo perdere al gioco il suo carattere
tendenzialmente meritocratico - NdA].
4) La scienza economica, nel mondo reale, prende
la popolazione umana come costante, e assume anche che i loro gusti e le loro abilità siano pressochè
fissi. In una economia online, però, la gente è libera
di scegliere una significativa parte delle proprie abilità. I giocatori possono inoltre scegliere quando essere vivi (presenti nel gioco) e quando non esserlo
[possono inoltre possedere più avatar contemporaneamente, creando interessanti fenomeni di multipla
identità - NdA].
Particolarmente interessante è, come vedremo,
anche la parte che riguarda i problemi legislativi nel
trattare comportamenti anomali nei mondi online:
chi ha giurisdizione su Ultima OnLine? Chi in
Everquest 2? Chi in Project Entropia?
.Sulle differenze fra le due economie
Molti giocatori non spendono online più tempo di
quello che spendono per i loro altri hobby più tradizionali.
Altri utenti, però, si avvicinano ai mondi virtuali
come a realtà alternative, impiegando una sostanziale porzione del loro tempo nei meandri di questi
universi fantastici. I giocatori vivono, lavorano, consumano e accumulano ricchezze come
fanno/farebbero nel mondo offline.
Ci sono molte somiglianze fra l’economia dei mondi
virtuali e l’economia reale, ma anche sostanziali
differenze: procediamo con una lezione base di economia e prendiamo come esempio la centrale questione del controllo dei prezzi.
Nell’economia reale, controllare i prezzi è sconsigliato, poiché le risorse necessarie per mettere in
pratica una simile politica spesso sono superiori ai
benefici che se ne possono trarre. Inoltre, il costo
viene spesso sopportato da quelle persone che invece ne dovrebbero beneficiare. La ragione di questo effetto perverso è che ogni tentativo di controllare i prezzi crea un eccesso di
beni o un eccesso di domanda, che a turno generano ogni tipo di costo socale. I beni in più
<6>
InMMORPG
Project Entropia
è possibile
acquistare
crediti
(PED) nel
Un
caratterizzato
da una
peculiarità
distintiva:
comprandoli
in dollari
Viceversa,
i PED
possono
mondo
di gioco esiste
unaveri.
moneta
corrente
(il PED)
che può
essere
successivamente
riconvertiti
un di
tasso
di
essere
comprata
con il denaro
reale, alad
fine
acquistare
scambio
nemmeno
malvagio
equipaggiamenti
e abilità.
D’altra parte,
è possibile convertire i PED guadagnati nel gioco in dollari americani REALI.
devono quindi essere distrutti, quelli che scarseggiano devono essere distribuiti attraverso un meccanismo che solitamente risulta essere costoso e
poco efficiente.
Ma, si chiede Castranova, cosa succederebbe se il
costo per i governi fosse nullo? Se comprare e distruggere il surplus di beni fosse gratuito? Se produrre qualsiasi quantità richiesta di un certo bene
non costasse alcunché?
Se ciò fosse possibile, allora il controllo dei prezzi
sarebbe realizzabile. Nei MMORPG, l’autorità del
caso ha sempre il potere di creare e distruggere
qualsiasi ammontare di qualsiasi bene, ad un costo
virtuale pari a zero. Quindi, essendo l’autorità responsabile del gioco equiparabile ad un governo,
otteniamo che nei MMORPG il controllo dei prezzi è
possibile.
L’esempio, poco significativo in se stesso, ci suggerisce però che le differenze fra i due tipi di economia sono palpabili e potrebbero iniziare ad avere
un certo impatto sulla vita delle persone con il migrare di alcune attività dal mondo reale a quello di
gioco.
.Sulla necessità del ‘lavoro’ online e altri
aspetti economici
L’economia ci insegna che il valore di un oggetto
non dipende dalle sue caratteristiche o dai suoi
componenti, quanto piuttosto dal contributo che
quell’oggetto dà al benessere delle persone che lo
utilizzano. Quindi, se alcune persone spendono
tempo e soldi per vivere in un mondo virtuale, gli
economisti riterranno quella locazione redditizia, indipendentemente dal fatto che esista realmente o
meno.
La volontà di pagare, di sacrificare tempo e fatica
per esse, è il segnale definitivo che associa a queste
entità un valore economico effettivo.
Sempre seguendo le classiche teorie economiche,
che in questo contesto iniziano a mostrare seri limiti, se vogliamo rendere la gente più felice, dobbiamo rimuovere loro più restrizioni possibili. Castranova, per dimostrare il paradosso di questa teoria, si rifà in all’esempio dei puzzle: secondo quanto
detto, per rendere felice un solutore di puzzle, dovremmo progettarne di meno impegnativi, poiché
nessuno è in grado di completare puzzle da tre mi-
lioni di pezzi. Ne deriva, dunque, che un puzzle di
due pezzi sia la migliore soluzione possibile, affermazione che come sappiamo non corrisponde alla
verità: nessuno ama i giochi troppo facili.
Possiamo quindi assumere, per far quadrare le
cose, che:
a) il benessere emozionale è sempre una meta del
comportamento umano.
b) sfide ragionevoli rendono la gente felice.
Ne consegue che, poiché i giocatori cercando la
sfida e il confronto, il ‘lavoro’ che devono compiere
on line, non è solo necessario, ma anche ben accolto se ben calibrato.
Collegata a questo tema c’è un’altra tematica che
Castranova mette in evidenza, quella dei giocatori
che vedono i MMORPG come una seconda, o addirittura prima, fonte di guadagno reale. Dai precedenti studi dell’autore, scopriamo che molti individui investono più tempo giocando con EverQuest
che nel proprio lavoro. Alcuni rilievi, forse discutibili
in quanto generalizzanti e ipotetici, sembrano correlare i giocatori più assidui ai lavoratori meno retribuiti, poiché spendere tempo giocando significa
sacrificare entrate modeste. Del resto, anche chi
nella vita reale ha uno stipendio alto sembra passare molto tempo online, poiché la vantaggiosa
condizione finanziaria permette a queste persone di
affrontare con comodo ogni tipo di attività senza
assilli economici. Gli unici ad avere dei problemi, in
questo senso, sembrano i lavoratori con stipendio
medio, probabilmente più sensibili all’impatto che
un tempo di gioco troppo prolungato potrebbe
avere sui loro guadagni, prima ancora che sulla
propria vita.
Assumendo per buone le informazioni che Castranova riporta, giungiamo al punto focale: fare soldi
reali vendendo item digitali prodotti durante il
tempo di gioco non solo è possibile, ma è un fenomeno in larga espansione. Sembra quasi, citando
l’autore stesso, che ci sia una “migrazione di lavoratori che passa dal mondo reale a Norrath”.
Questo tipo di possibilità, comune anche ad altri
MMORPG, ha dato il via a certi fenomeni difficili da
gestire persino per i produttori ed i gestori del
gioco stesso, come la vendita su ebay di oggetti,
item o avatar che di fatto esistono solo in forma
digitale.
Per alcuni, quindi, l’attività svolta nei MMORPG
non è più gioco, ma lavoro.
Come dovrebbe avvicinarsi l’economia a questo
tipo di eventi, visto che non ci sono precedenti?
Inoltre, poiché attività del genere risiedono attualmente in un limbo giuridico e le case di produzione sono divise fra la necessità di regolamentare i
loro giochi e quella di lasciare comunque ampia libertà ai giocatori, risulta praticamente inevitabile
porsi delle domande su quello che ci aspetta.
Cosa succederebbe se una sostanziale parte delle
attività economiche/forza lavoro decidesse di migrare sui lidi virtuali dei MMORPG, dove al momento non vige alcuna giurisdizione ‘terrestre’, né
tassazione dei beni? Quali saranno gli impatti sociali? Quali quelli economici? E queste nuove forme
di mercato, non rischiano di riproporre ancora una
volta dei problemi di ordine etico e morale? I giocatori con più soldi, non saranno sempre e
comunque avvantaggiati rispetto ai
giocatori che non possono permettersi di
acquistare item/avatar all’ingrosso?
Per iniziare con il piede giusto (...), negli Stati
L’atteso seguito di uno dei MMORPG più giocati e amati al
mondo che, nonstante le indiscusse qualità estetiche, ha
fatto storcere il naso ai patiti della serie ambientata in
Norrath. Di recente, è stato commercializzato anche uno
spin-off per PS2, giocabile sempre online.
Uniti alcune sentenze hanno sancito che le corti
‘terrestri’ non hanno giurisdizione su ciò che accade
online [5]. Una posizione rivelatasi vincente durante un processo, sosteneva che i videogames
sono una forma di linguaggio, e che sono quindi
protetti dalla costituzione americana; di fatto questa conclusione legittima le compagnie che creano i
giochi ad essere i ‘governi’ dei loro mondi [6]. Ovviamente, i giocatori rimangono comunque cittadini
di nazioni reali con tutte le relative implicazioni del
caso.
In futuro le corti reali potrebbero essere le autorità competenti, con i governi che di certo dovranno svolgere almeno un ruolo di supporto (a
meno di non immaginare, come predetto in Vox
Mundi, una scissione definitiva fra i due mondi con
amministrazione interna, ma qui ci lanciamo nella
fantascienza più sfrenata). Resta però il fatto che
attualmente i proprietari legali del gioco già svolgono questa funzione, con delle implicazioni interessanti.
Il potere che detengono deriva dal fatto che ogni
giocatore iscritto accetta delle condizioni (End User
Licensing Agreement) che limitano fortemente i
diritti dell’utente e che non prevedono, ad esempio,
alcun tipo di rimborso per i cambiamenti alle meccaniche di gioco, o ai suoi contenuti, che possono
essere fatti in qualsiasi momento e senza autorizzazione preventiva da parte dell’utenza.
Dice Castranova, concludendo sull’argomento:
“Se anche l’emergenza dei mondi virtuali richiedesse una qualche reazione da parte dei governi,
non è ben chiaro quali amministrazioni dovrebbero
essere coinvolte. I mondi virtuali, al momento,
sembrano esistere come entità politiche separate, e
questo alza senza dubbio nuove questioni di carattere costituzionale”.
CONCLUSIONI
Come avete visto gli argomenti da trattare, spesso
profondamente interconnessi (eventuali
cambiamenti economici avranno sicuramente ricadute sociali, e viceversa), sono complessi e ricchi di
sfumature. Molti spunti offerti dai documenti presi
in considerazione sono stati tralasciati in questa
sede per non aprire troppe questioni (per esempio
la necessità, secondo Castranova, di connettere fra
di loro i vari mondi online, in maniera da creare un
<7>
vero e proprio ‘universo digitale’) ma altri articoli di
approfondimento appariranno fra queste pagine in
futuro.
Ring sa che nel frattempo continuerete a
imperversare nei campi di battaglia di Britannia o
nelle foreste di Norrath, ma da adesso in poi,
magari, guarderete gli avatar dei vostri ‘concittadini’
con occhi un po’ diversi…
NOTE
[1]
http://www.itu.dk/op/papers/ducheneaut_moore_nickell.pd
f
[2] Sound Bytes – EDGE#144
[3] The Sopranos Meets EverQuest. Social Networking in
Massively Multiplayer Online Games
[4] The Guest Column – EDGE#143/144
[5] Kaplan, Carl S. (2001), "Florida Community Can't Shut
Down 'Voyeur Dorm", New York Times, 5 ottobre
[6] Au, Wagner James (2002), "Playing Games With Free
Speech", Technology and Business, salon.com, 6 maggio
In Second Life ogni giocatore può personalizzare il
suo avatar come meglio crede. Eventi e discussioni
sono all'ordine del giorno: come è facile intuire
dall'esempio riportato da Tim Guest, altrettanto facile
è far incazzare gli altri giocatori trattando nel gioco
tematiche "reali" scottanti.
IL BESTIARIO DAVIDIANO
Caro Davide,
vorrei segnalarti un curioso bug in cui sono
incappato giocando a Snake Eater. Cercherò di
tenere lo spoiler sotto i livelli di guardia.
Hai presente il boss The Fear, che ti attacca
lanciandoti quelle fastidiosissime frecce? Ebbene,
dopo averlo sconfitto, ho salvato in tutta fretta
perché dovevo uscire e mi sono dimenticato di
accedere al survival viewer per togliermi questi
dardi conficcati un po’ ovunque nel mio corpo.
Quando, giorni dopo, ho ripreso la partita in
mano, mi sono reso conto che Snake era guarito
da solo dalle ferite provocate, ma che tali frecce
continuavano ad essere conficcate nelle carni del
nostro, e non c’era modo di toglierle, perché il
sistema non le riconosceva più come ferite da
curare!
Pertanto mi sono dovuto fare il resto del
(bellissimo) gioco in modalità puntaspilli, con
Snake che sembrava un bambolotto voodoo.
L’effetto è stato a dir poco surreale, soprattutto
durante la cut-scene del confronto finale con The
Boss. Sai, in questo poeticissimo prato fiorito,
con quella brezza leggera e una musica
struggente, vedere il futuro Big Boss parlare con
il suo mentore avendo una sorta di steccolo
infilato nel sedere non è stato il massimo del
lirismo. Non so se rendo l’idea…
Il fratello di Sator
che lo avevo intuito!
Cid
Grazie per la segnalazione. In effetti confermi i
miei sospetti sul comportamento di Big Boss nei
confronti di Eva: il ragazzo aveva veramente una
scopa nel c…
Caro Teok, credo che
sia sufficiente osservare
questa immagine leggermente ritoccata per
capire che la persona a
cui stai pensando è
nientepopodimeno che…
Capitan Findus!
Davide,
qual è secondo te il colpo di scena più
telefonato mai apparso in un videogame? Io voto
per il vero motivo del viaggio di Yuna in Final
Fantasy X. Era da quando lessi le prime preview
<8>
Io invece voto per la morte di Aeris in Final
Fantasy VII. Quella ragazza era come se
gridasse “ammazzami” ad ogni persona che
incontrava…
Caro Davide Videoludico,
nonostante i miei ripetuti sforzi, non riesco a
trovare una ragazza che mi apprezzi per quello
che sono. Secondo te devo abbandonare ogni
speranza di farmi una famiglia e tornare a
videogiocare?
Disperato79
Premettendo che per questo genere di domande
dovresti rivolgerti al dottor Nemesis, secondo
me sì: devi abbandonare ogni speranza.
Davide,
sono giorni che mi gira in testa questa
domanda e se qualcuno non mi risponderà credo
che perderò il senno. Che è in realtà The End?
Sono sicuro di averlo già visto da qualche parte.
Teokrazia
EDWARD CASTRONOVA // dalla terra di mezzo ad arden
Edward Castronova, l’ospite di questo mese,
è Associate professor of Telecomunications
presso la Indiana University, e contribuisce al
blog TerraNova (terranova.blogs.com), che si
occupa di giochi in multiplayer e mondi virtuali.
E proprio lo studio dei synthetic worlds, spazi
virtuali dove più utenti si incontrano, è al centro
dell’attenzione di Castronova, sia da un punto di
vista economico che sociale. In questa colonna
analizza come due degli scrittori più grandi della
letteratura mondiale, Tolkien e Shakespeare,
siano stati trascinati di peso nei giochi di ruolo
fantasy, e con quali conseguenze. Ma,
dopotutto, è davvero possibile ricreare lo spirito
della Terra di Mezzo in un mondo online? E
possiamo chiedere di interpretare Amleto al
primo newbie che passa?
DALLA TERRA DI MEZZO AD ARDEN
di Edward Castronova
Più penso alla vita e alle opere di J.R.R.
Tolkien, più rimango impressionato dalla
durata dei loro effetti. I suoi scritti hanno influenzato per una intera generazione opere
letterarie, film e videogiochi, in particolare il
genere MMORPG.
Quest’ultimo passaggio mi crea ancora
qualche perplessità, perché non mi pare aver
funzionato alla perfezione. Ho incontrato
parecchi elfi giocando online, e pochissimi
erano in grado di comportarsi come elfi tolkieniani, intesi come umani prima della Caduta. La Terra di Mezzo è così ricca di eroi
senza macchia e acerrimi nemici che non
può che essere un pessimo modello per un
gioco con migliaia di persone caratterizzate
in modo casuale.
La naturalità e l’immersione nella parte
auspicati dal role-playing comportano che le
personali convinzioni e il modo di essere di
ciascuno vengano necessariamente a galla.
Fortunatamente, esiste un autore di miti che
parla della gente esattamente in questi termini, e che rimane imbattuto da qualunque
mondo virtuale mai creato: William Shakespeare.
Troppo banale e pedante, direte voi. Con
la marea di titoli imbottiti di azione disponibili oggigiorno non venderebbe mai.
Io non direi. C’è più violenza nel Riccardo
III che in DOOM III; durante la rappresentazione la scena si tinge di rosso, due bambini vengono soffocati vivi, e verso la fine
una schiera di non morti fa la sua comparsa
solo per rimarcare la fatalità dell’epilogo. Sir
John Falstaff (EnricoIV) potrebbe tranquillamente batterti in una gara di bevute, rubarti
tutto ciò che possiedi, e persino riuscire a
farsi amare per tutto questo. Buona parte
delle rappresentazioni si concludono con una
grande battaglia. Tragedia, storia, commedia: Shakespeare è più violento, popolare, e
a conti fatti più brutalmente genuino, di
qualunque altro gioco in vendita al Wal Mart
sotto casa. Semmai, bisognerebbe morigerare il livello generale di crudezza per venire
incontro agli standard moderni. In ogni caso,
non c’è dubbio che sarebbe divertente.
E il coinvolgimento? Tolkien sosteneva
(On Fairy Stories,1939) che il dramma non
era il genere più indicato per il fantasy: devi
poter credere nel protagonista, prima di poter credere al mondo in cui vive, e questo
secondo livello di incredulità, non presente in
letteratura, previene l’immersione del giocatore. E di certo, se il giocatore medio non
è in grado di interpretare un elfo, figuriamoci
Se sarà in grado di interpretare Amleto.
<9>
Certo non prende in considerazione la possibilità che siano gli spettatori, ovvero una
intera società, a diventare (gioc)attori. Non
molti scrittori hanno considerato questa
eventualità, non prima delle reti informatiche. Ma Shakespeare sì.
Esattamente, molte sue rappresentazioni
invocano deliberatamente il concetto di virtuale: in Come vi piace, dei tipi scappano
dalla foresta di Arden per cambiare il loro
status sociale, i loro nomi, persino il loro
sesso, e così facendo conducono Jacques, il
filosofo della foresta, alla presa di coscienza
secondo cui “tutto il mondo è un palcoscenico, e gli uomini e le donne sono semplici
(gioc)attori”. Nel frattempo, La Tempesta fa
approdare abitanti del mondo reale in
un’isola governata dalla magia, dove tutto è
diverso, e il cui proprietario dichiara che
tutto è un’immagine: “noi siamo della materia di cui son fatti i sogni” (corsivo mio). MacBeth riassume l’assurdità della sua situazione dicendo che “la vita non è che
un’ombra che cammina; un povero
(gioc)attore che si pavoneggia e si agita,
sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi
non se ne parla più”. Dal canto suo, Enrico V
nel prologo dell’omonimo dramma vorrebbe
far salire un intero regno su di un palcoscenico a ingaggiare finte battaglie. E il povero
Principe Amleto spende buona parte del suo
tempo lavorando con degli attori che interpreteranno le stesse parti degli attori realmente in scena, in un effetto a incastro che
come suggerisce lo studioso Horald Bloom
(Shakespeare: The Invention of Human, capitolo 23) suscita la sconcertante impressione che il principale motivo di struggimento per Amleto non siano i suoi strampalati parenti, ma il fatto che egli sia una persona vera intrappolata in una rappresentazione.
Tutte queste interpretazioni mi fanno
pensare agli avatar. Quel “ragazzo-vero-inun-gioco” è l’essenza dell’online gaming. Essere online ci rende tutti degli Amleto: non
realizziamo quanto il mondo virtuale sembri
vero, ma piuttosto quanto quello vero sembri virtuale, e la distinzione si annulla. Voilà:
immersione.
Shakespeare non invoca semplicemente il
virtuale, ma lo comprende in una caratteristica
che accomuna tutti gli uomini. Il role-playing,
dice, è naturale, qualcosa che facciamo senza
neanche pensarci. Nessuno è davvero un eroe o
un cattivo. Pertanto quando andiamo sul palcoscenico del mondo virtuale, non dobbiamo
aspettarci di interpretare Amleto, ma piuttosto di
essere Amleto, se è questo ciò che siamo.
Chiunque sia inconsciamente un giocatore di
ruolo, può essere inserito in una storia o un intreccio shakespeariano, che sono tra i più appassionanti della letteratura mondiale. Ne sono testimoni le centinaia di adattamenti di storie di
Shakespeare, da West Side Story a Ran di Kurosawa. Possono essere inseriti anche in un mondo
di magia, uno molto più semplice da realizzare
ordinatamente rispetto a quelli cui siamo abituati. Niente palle di fuoco, solo allucinazioni, indovini, evocazioni e pozioni. Ci sono streghe,
fantasmi, spiriti e fate. Ma sono reali, o il frutto
dell’immaginazione iperattiva di qualcuno? Il
punto è che non ha alcuna importanza. Sia che
MacBeth abbia veduto o sognato streghe, ha
comunque descritto alla propria moglie una corona, e tutto il resto vien da sé.
In quanto miglior scrittore della storia del
mondo, Shakespeare merita attenzione. Deve
essere letto, anche se molti non ne capiscono il
linguaggio. E siccome la tecnologia ci obbliga a
leggere per stabilire una forma di interazione,
c’è il rischio che il corpus delle sue opere vada
cancellato dalle nostre coscienze.
I mondi virtuali sono le risposte ad entrambi i
problemi. Immergi delle persone in un mondo
virtuale shakespeariano, e il linguaggio cesserà
di essere un problema. Fornisci un valore alla
comprensione di Shakespeare in quel mondo – e
ciò è possibile perché in un mondo virtuale puoi
creare del valore dal nulla e assegnarlo a qualsiasi cosa – e la conservazione delle sue opere
sarà assicurata.
Se un mondo virtuale shakespeariano servisse ad ampliare la comprensione su scala
mondiale della figura del Bardo, allora varrebbe
ogni singolo centesimo dei suoi costi di produzione. Inserito in un ambiente universitario,
questo mondo potrebbe offrire anche qualcosa di
più. Potrebbe aiutare gli studenti nell’arduo percorso della propria crescita individuale. E potrebbe fornire agli insegnanti e ai ricercatori una
società cuscinetto dove poter svolgere ogni tipo
di esperimento, relativo all’economia, alle attività di governo, alla sanità pubblica, e molto altro.
L’ipotesi non è poi così assurda, vero? Aspettiamo solo che si concretizzi.
Arden: The World of William Shakespeare.
Coming soon, unless fate o’er rules.
Ogni mese un membro della DiGRA (Digital Games Research Association), una associazione che riunisce studiosi e
critici del videogioco, esprimerà in questo spazio i suoi pensieri, le sue riflessioni, le sue scoperte. Gli sguardi di queste
persone, coinvolte in modo diverso nel mondo dei game studies o nell'industria del videogioco propriamente detta, saranno uno spunto per arricchire i nostri dibattiti e per crearne di nuovi.
La IGDA (www.igda.org) (International Game Developers Association), da sempre impegnata nello studio del videogame e proprietaria degli scritti degli uomini della DiGRA, ha acconsentito alla pubblicazione in lingua italiana su
Ring di questi articoli. Ringraziandoli ancora una volta, ci auguriamo che le nostre pagine siano degne della passione
che la IGDA nutre per il proprio lavoro.
Al fine di stimolare la curiosità di chi volesse approfondire l’argomento, abbiamo deciso di conservare i riferimenti
e i link presenti nei testi originali.
<10>
ONE DAY @ SAN ANDREAS
di Cryu
PARENTAL ADVISORY: EXPLICIT CONTENT
Questo articolo contiene linguaggio scurrile. Se ritenete che
volgarità e turpiloquio possano offendere la vostra
sensibilità, il consiglio è quello di voltare pagina, ma anche
di tenervi alla larga da GTA: San Andreas, in confronto al
cui copione questo pezzo sembra un estratto del galateo per
educande ottocentesche.
Pomeriggio inquinato nel più fatiscente dei quartieri di
San Fierro.
Due sbirri si presentano a casa mia. Vogliono farmi
cecchinare previo pedinamento un giornalista liberal e il suo
informatore. No problema, rispondo io.
Il giornalista sta prendendo un treno alla stazione a due
passi da casa. Direzione Los Santos. Mentre mi scervello
amletico sul da farsi piove a video un suggerimento
provvidenziale:
"SEGUI IL TRENO"
Va bon, ciulo una macchina, mi piazzo sulle rotaie del
treno e prendo a pedinarlo da distanza utile a odorarne le
chiappe. Dopo aver attraversato metà stato in questo modo
(yawn), giungiamo a destinazione.
"IL GIORNALISTA STA PER SCENDERE. SEGUILO MA
NON FARTI VEDERE"
Va bon, lo tengo a distanza di sicurezza e gli sto dietro
procedendo a passo d’uomo zoppo (yaaawn).
"IL GIORNALISTA STA ASPETTANDO UN TAXI.
PROCURATI UN VEICOLO PER SEGUIRLO”
Va bon, ciulo la prima macchina che passa e lo tengo
d’occhio mentre il tassista, evidentemente imbroglione, fa
compiere al giornalista una crociera à la Monkey Island 2,
girando a cazzo piuttosto che prendere la strada più
prossima alla linea d'aria verso la meta.
E va bon, gli sto dietro mentre se ne va a zonzo a
velocità lumaca (YA-A-A-AWN!). Alla fine si ferma davanti
alla ruota panoramica sul molo. Io da bravo killer cecchino
lui e l'informatore non appena questi si presenta.
Ok, missione compiuta, sono un giocatore abile e
felice...
...ma santa merda, mi trovo dall'altra parte dello stato
rispetto a casa mia, mo' per fare la prossima missione devo
rifarmi un viaggio!
Calma e gesso. Mi intrufolo nell'aeroporto, ciulo un
aereo e in 5-10 minuti se va bene sono a casina bella
davanti alla TV in pantofole di pelo.
Squilla il cellulare. È Denise, la mia fidanzata: "Andiamo
a far baldoria?"
Manco per il cazzo. Già devo farmi i chilometri per
tornare dove iniziare la prima missione utile, figuriamoci se
perdo un quarto d'ora a scarrozzare in giro una psicolabile
che si diverte a sparare ai passanti.
Vado all'aeroporto, ci metto un po' a ciulare le macchine
adatte a formare una scalinata di fortuna davanti alla rete di
sicurezza, e ci metto un po' a stipulare un patto di non
belligeranza con il sistema di rilevazione delle collisioni, che
mi fa incastrare in ogni possibile poligono delle auto mentre
salto dall'una all'altra. Dopo un po' ce la fo, zompo dentro
l'aeroporto e ciulo un biplano dopo essermi fatto mezza
pista di decollo a piedi (YAAAAAAAAAAAAAAAAAAAWN).
Decollo fuggendo dalla pula (che nel frattempo non ha
gradito la mia combo di reati) e faccio rotta per San Fierro.
Ora, siccome viaggiare in aereo è palloso esattamente come
navigare nel mare aperto di The Wind Waker, prendo a
volare un po' a bassa quota per godere meglio del
panorama urbano (sai che roba) e provare l'ebbrezza della
velocità, che a 2000 piedi è logicamente nulla. Peccato che
mentre sorvolo un boschetto (che dall'alto sembrava il
deserto di Gobi) mi appare in pop-up selvaggio un pino
quando gli sto a cinque metri di distanza. L'impatto è
inevitabile.
Picchiata con l'aereo in fiamme, mi butto da un’altezza
di una decina di metri e sopravvivo. PHEW!
Culo vuole che di lì stia proprio passando una volante
ancora incazzata con me per i furti di prima. Come al solito,
quando serve un'auto per scappare, non ne passa manco
mezza. Corro un po' in giro rischiando l’infarto finché
dall'oscurità (ormai è notte) spunta una jeep.
Bella lì, faccio per aprire la portiera... ed esce un
poliziotto. Ma puttana miseria lercia! Al buio si vedevano
solo i fari…
Il poliziotto mi legge i miei diritti di morire crivellato da
una raffica di mitra.
“ANNIENTATO”
…
Ora, non so bene come, ma in un angolo recondito del
mio animo trovo la pazienza giobbico-certosina per
ricaricare il salvataggio precedente e rifarmi tutta la
missione.
Flash forward di un quarto d'ora.
Ammazzato il giornalista di PSM e il suo informatore
(apparentemente Il_Simon), decido che è cosa saggia
andare a salvare nella mia casa di San Fierro. Non è proprio
dietro l'angolo, ma vabé, piuttosto che rischiare l'inculata di
prima...
Mi dirigo verso casa quando squilla al telefono quella
mentecatta della mia fidanzata. "Andiamo a far baldoria?"
Va bon dai, abita di fianco a casa mia, già che passo di
lì la rimorchio. In più devo sfogare quanto represso
nell'ultima mezzora, e se non me la dà è la volta che
l'ammazzo.
Siccome in fondo ci tengo a far bella figura con la mia
ragazza, mi metto pure a cercare una macchina di lusso, di
modo che, vedendomi scendere da essa, la pulzella mi si
sciolga addosso.
Ciulo una specie di Chevrolet e imbocco la via dove
abita Denise.
Arrivo di fronte a casa sua, sosto nel cortiletto e smonto
dalla macchina con fare da gran divo. Mano che sistema i
capelli, sguardo da figo e cazzo già durissimo.
Quando a video mi appare la seguente scritta:
"LA TUA FIDANZATA NON È A CASA. RIPASSA PIÙ
TARDI"
…
Mentre eseguo la conta dei nervi a fior di pelle, un
interrogativo si affaccia alla mia coscienza: con che coraggio
d’ora in avanti potrò continuare a sostenere che GTA non
istighi alla violenza?
<11>
ONE NIGHT @ THIEF
di Cryu
PARENTAL ADVISORY: EXPLICIT
CONTENT
In seguito a un attento esame della
commissione PEGI, il seguente articolo è
stato classificato nella fascia 18+. Qualche termine un po’ troppo colorito e le
mie kingiane doti di cantastorie
dell’orrore hanno convinto la commissione della sconsigliabilità di questo
scritto a un pubblico di minori. Sorprende
invece che a Thief: Deadly Shadows,
una delle più inquietanti avventure digitali
di sempre, sia stato accordato l’ingresso
nella fascia 12+. Per contro, si segnala il
bollino relativo alla presenza di linguaggio
scurrile, non apposto sulla confezione di
GTA: San Andreas, ma qui evocato da
inaccettabili epiteti medievali del tenore
di “codardo” e “manigoldo”.
Non disponendo di una PS2 modificata, in questi giorni sto cercando di distrarre la fame da Metal Gear Solid 3,
quindi ho ripreso quel Thief: Deadly
Shadows che avevo colpevolmente interrotto.
Acclimatatomi di nuovo con le sue
atmosfere di lugubre perdizione, realizzo
di essere rientrato nello spirito di gioco da
un particolare sintomatico: mi duole la
cervicale. È l'effetto collaterale del gotico,
che ti tiene con il naso all'insù, a cercare
il confine di spazi ostinatamente verticali,
a pedinare con lo sguardo le traiettorie
paraboliche delle volte, le stelle di nervature in cui convergono gli absidi, i fasci
di luce sprigionati dalle sagome oblunghe
di finestre lanceolate.
Completato lo stage in questione e
accondiscesa la peristalsi narrativa con un
paio delle solite baggianate (vai a parlare
con questo tizio e poi cerca questo posto
vicino a quest'altro), intraprendo quella
che credo sia l'ottava missione su dieci,
ambientata in un ex-manicomio/ex-orfanatrofio abbandonato, infestato e ipotetica sede di una fattucchiera che ce l'ha a
morte con me: il luogo della sfiga definitiva.
Quando qualcuno me lo aveva descritto come il livello più terrorizzante che
avesse mai risolto in un VG gli avevo creduto solo a metà, consapevole dell'effettiva stringiculaggine di certe situazioni già
affrontate, ma anche dei liquidi organici
che saghe quali Silent Hill e Resident
Evil mi hanno fatto evacuare a ettolitri.
Mentre scrivo, una paperella naviga
beata nel laghetto marrone che ho testé
prodotto intorno alla mia postazione di
gioco.
<12>
Mi sento quasi raggirato. No, peggio:
violentato. Mai fidarsi di un ladro: io
compro uno stealth game che quatto
quatto si trasforma nel più raggelante dei
survival horror. È incredibile come i quick
save, il bug che mi costringe a giocare a
livello mentecatto, e la mia dotazione
formato famiglia di pozioni e armi magiche non siano un conforto sufficiente a
farmi procedere con tranquillità.
Avete presente l'albergo di SH2?
Ecco, siamo lì. Solo, molto più grande, e
io deriso da una mappa che è solo un
vago schizzo a matita disegnato dal più
inaffidabile dei topografi. In più: illuminazione quasi assente (si procede a passo di
lumaca con il visore notturno in bianco e
nero, che conferisce all'immagine un malinconico fotorealismo d'epoca), un sonoro bastardo esattamente come quello
di SH2 e, summa della paura mortale:
nessuno.
Non c’è nessuno! Ma avete idea di che
cosa significhi? Sappiamo bene che nei
survival horror la paura è paura dell'ignoto, e pertanto regge fino alla comparsa - liberatoria - del "mostro". E il mostro in SH arriva.
Qui no.
Ho giocato per più di un'ora strisciando tra fatiscenti corridoi semi-bui,
sotto la tortura dell'audio che riproduceva
ogni genere di SFX terroristico (non solo
lamenti di anime prave in remota lontananza, ma anche rimbombi di indecifrabile provenienza, e soprattutto stillicidi
tic-tac di orologio! La killer-application di
Capitan Uncino, in senso letterale). Non
avete idea di che pressione, di che tormento il continuo quick-salvare e lo sporgersi ossessivo da ogni angolo, attivando
il visore dell’occhio artificiale per addomesticare l'oscurità e conquistare la percezione di spazi più in là di un palmo.
Quando raggiungo la zona delle celle
degli ex-internati, imbocco un dedalo di
corridoi continuando a guardarmi le
spalle, e mi domando se sia più saggio
richiudere le porte che apro (così da impedire a eventuali inseguitori di sorprendermi alla maniera dei sodomiti), oppure
lasciarle aperte come stratagemma à la
Pollicino, utile al ritorno per fugare ogni
dubbio su quali porte abbia varcato
all’andata. Mentre cerco di venire a capo
di tale sragionamento, mi volto per l'ennesima volta a guardarmi le terga, attivo
il visore, zoomo (roba da paranoia, ormai, chi vuoi che ci sia?)… e un paio di
sale più indietro scorgo una sagoma che
incede tremebonda. Si dirige verso ovest
rispetto alla mia posizione. Quindi scompare dietro
un angolo.
Peggio di così si muore (le ultime parole famose…). Non solo il mostro non ha fatto la sua bella
comparsa davanti a me liberandomi dall'angoscia
all’accettabilissimo prezzo di un arresto cardiaco;
non solo devo proseguire nella mia azione tingimutande, ma ora ho la certezza che le mie paranoie
sono del tutto fondate.
Ho finito Thief. O forse è Thief che ha finito me.
Eppure no, non lo vendo. Lo tengo lì, sullo scaffale, insieme a quella manciata di giochi Xbox che
resisteranno al Giudizio Universale.
Il suo posto, se l'è guadagnato alla grande.
Che diavolo faccio? Torno sui miei passi a caccia
del sinistro inquilino raddoppiando il coefficiente di
cacca addosso? Oppure, confidando che da quella
distanza non possa né avermi visto, né tanto meno
essersi messo sulle mie tracce, cerco di mettere tra
me e lui più passi che riesco? Anche perché va bene
la sospensione dell'incredulità, ma l'intelligenza artificiale ha fatto schifo per le passate 15 ore, proprio
adesso dovrà implementare le routine di clearing di
MGS2?
Ma figurati, dai. Mi lascio alle spalle quella
lugubre apparizione di un istante, e avanzo di un
altro paio di mezzi corridoi. Quando mi sorge un
dubbio: ma allora che cosa ho fatto? Le porte le ho
lasciate aperte o chiuse?
Mi volto, e dall'ultima grata che ho varcato si
allunga un'ombra.
Tuttavia, non è abbastanza per dire addio
all’abituale condotta idraulica delle mie coronarie.
Sin qui di ombre sospette ne ho viste a dozzine, mai
hanno rivelato una minaccia effettiva, e ormai ci ho
quasi fatto il callo.
Questa però si muove.
MERDAAAAAAAAAA!!!
Due braccia tese spuntano dalla porta che io pirla - ho lasciato aperta.
Niente panico, ero preparato da un'ora e mezza
all’eventualità. Incocco una freccia elementale al
fuoco e la conficco nel petto del sodomita. La
creatura accusa il colpo, ma poi, denotando un
pessimo temperamento, se la prende tantissimo
(pensa te), reagendo alla maniera degli zombie
centometristi di Resident Evil su GameCube, e
scatta in avanti mostrandosi nelle sue orrende
fattezze frankensteiniane. Una seconda freccia nel
petto, e poi una terza! Roba da stendere un
Olifante, visto che per i non-morti incontrati qua e
là nel resto del gioco ne bastava e avanzava una.
Ma niente da fare, mi è capitato lo zombie ex-internato (o ex-orfano?) più cazzodurico della
galassia. E in barba ai tre fuochi magici che gli
ardono in petto si avventa su di me.
Sì, uccidendomi.
Un'ora e mezza consumata a dialogare con la
madre di tutte le paure, per poi prostrarmi alla sua
ineludibile esattezza. Non c'era nessuno là dentro.
Nessuno, per la miseria. Ma sapevo che qualcuno mi
avrebbe ucciso.
Non importa che il codice software preveda altre
due missioni. Questa è la fine di Thief: Deadly
Shadows. Perché non c'è quick save o arsenale da
Van Helsing che tenga. Io là dentro non ci torno più.
Neanche se mi pagano.
<13>
IL BIGNAMI DI JAK & DAXTER
di Sator & Daxter
S
iamo tutti molto indaffarati: il lavoro, lo studio,
la palestra, la religione… È pertanto molto
difficile riuscire a giocare tutto ciò che il mercato –
questo gigante insensibile – ci propone. Va a finire
che ci troviamo in un circolo del bridge o in una sala
da the della Londra vittoriana e non siamo in grado
di partecipare alle dottissime discussioni sul gioco
del momento perché, ahinoi, non lo abbiamo
nemmeno provato di sfuggita!
A questo servono gli indepth: a scoprire tutti i
segreti di un videogame, senza l’onere di giocarci.
Questo mese raccogliamo l’eredità del professor Bignami per proporvi una plot analysis di una delle
saghe simbolo di PlayStation 2 (e questo non è necessariamente un complimento), che tanto ha contribuito a fare di Jason Rubin un’icona di un qualsivoglia mestiere (esclusi quelli di game-designer,
narratore, umorista...): Jak & Daxter.
JAK & DAXTER (2001)
Jak e Daxter, due amiconi dalle orecchie a manubrio di bicicletta, sono convocati da Samos, un
anziano stregone sulle orme dell’antica civiltà Precursor. I Precursor, al pari dei Chozo e dei Numenoreani, erano una popolazione tanto avanzata,
culturalmente e tecnologicamente, che diventò un
avanzo, finendo per estinguersi. Samos sta lavorando insieme alla nipote Keira ad una pozza di terribile Analcolico Moro – un prodotto anche denominato Eco Oscuro, su antica ricetta Precursor – nel
tentativo di invadere il più che saturo mercato degli
aperitaviti. Purtroppo, a causa dell’attacco di due
sgherri cattivi di cui non vogliamo ricordarci il nome,
l’amico Catobleppa-Daxter cade nell’analcolico e subisce un’orrenda trasformazione in una specie di
opossum. I cattivi per fortuna battono in ritirata, ma
lanciano una vaga promessa di fare ritorno.
Nessuno prende seriamente questa minaccia.
Samos assegna a Jak l’incarico di far tornare l’amico
al suo aspetto originale recandosi da Gol, un saggio
studioso dell’Eco Oscuro che naturalmente abita
molto lontano da lì. Il compito di Daxter è invece di
sostare sulla spalla destra di Jak, provocando in lui
scoliosi e fornendo una dose accettabile di battute
per alleggerire la situazione. Sì perché la metamorfosi kafkiana a cui Daxter è stato sottoposto non gli
ha tolto il dono della parola, e ciò è un bene, perché
Jak non parla mai, e c’era il rischio di percorrere
tutto il gioco più in silenzio che durante
un’interrogazione di matematica.
Il (più vostro che) nostro vinavilico duo raccoglie
un centinaio di batterie per i più disparati motivi,
trova il tempo di sconfiggere diversi mostri che stavano sostando in uno spazio dedicato ai soli residenti e arriva alle battute finali dell’avventura senza
incontrare nemmeno una finestra di caricamento.
Durante il climax, i nostri trovano (il) Go(a)l, ma
questi si rivela essere uno dei cattivi del gioco, insieme alla sorella Maia.
Come tutti i malvagi che si rispettino, Gol e Maia
rivelano a Samos le loro intenzioni di liberare l’Eco
Oscuro nel mondo per motivi inerenti la malvagità,
appunto. Per far ciò, precisano che a breve si recheranno sottoterra in una specie di tempio Precursor a bordo di un gigantesco robot.
<14>
«Perché proprio un robot?» chiede Samos.
«Be’, visto che abbiamo un motore grafico piuttosto performante, vogliamo sfruttarlo al meglio!»
rispondono essi prima di andarsene con la tipica risata del villain.
A questo punto Samos rivolge a Jak e Daxter
una frase che può essere considerata il messaggio
fondamentale della serie…
«Ragazzi, dovete recarvi nel sottosuolo!»
Accadono altre cose su cui preferiamo non scucirci, quindi i nostri giungono alla cittadella di Gol e
Maia per lo scontro finale. Il malvagico duo attacca i
buoni con il gigantesco robot in grado di macinare
poligoni come un mulino le olive. E quando tutto
sembra andare a ramengo, quattro saggi di cui non
vi avevamo parlato perché… ehi… non vi parliamo di
tante cose, plagiano Zelda emettendo quattro raggi
colorati che, unitisi, formano un fascio di luce
bianca. Avete capito bene, si tratta dell’Eco Chiaro,
o Analcolico Biondo che dir si voglia.
Daxter si trova pertanto ad affrontare un drammatico dilemma morale: deve usare tale Eco per
riottenere le sue sembianze originali da Smeagol
rincoglionito, salvo poi perire per mano del robot,
oppure deve adoperare l’Analcolico Biondo per sconfiggere quest’ultimo? Non si sa perché non possa
scegliere entrambi: queste opere occidentali di
bassa lega amano troppo i dilemmi scespiriani.
Naturalmente il furetto opta per la seconda ipotesi, salvando la situazione e rivelandosi il vero eroe
del gioco. Il gran finalone morbidone vede Jak e Daxter attraversare un mistico anello di teletrasporto –
citando uno dei film più merdosi di sempre – che, si
teme, li condurrà direttamente nei mondi del sequel.
Un bad ending, insomma.
Interpretazione della trama
La raccolta delle batterie a cui il gioco ci sottopone è un po’ la metafora della perdita
dell’innocenza, con uno spruzzo di critica al capitalismo. Che cos’è la vita se non una continua ricerca di
nuove batterie?
Ricorderemo questo gioco perché…
Finalmente si può entrare in un’abitazione senza
prima attendere il caricamento degli interni. Non c’è
nemmeno uno stacco di montaggio: la macchina da
presa virtuale segue Jak che entra nelle case per
mezzo di un piano sequenza depalmiano. Yu-hu!
Dimenticheremo questo gioco perché…
Il doppio salto faceva un attimo schifo.
JAK II: RENEGADE (2003)
Come minacciato nel prequel, Jak e il cane della
prateria attraversano lo stargate e giungono
nell’unico posto dove si possa giungere quando si
intraprende un viaggio interdimensionale: in un
mondo apocalittico. Jak non ha nemmeno il tempo
di seguire il tutorial: viene catturato e sottoposto a
torture a base di programmazione Mediaset del
primo pomeriggio. Daxter invece riesce a chiamarsi
fuori, e dopo due anni salva l’amico. Tuttavia Jak,
un tempo taciturno e docilissimo ragazzo, diventa
adesso più malvagio di Previti, inoltre conosce a
memoria tutte le puntate di Forum. Segnaliamo poi
che le torture a cui è stato sottoposto affinché parlasse, hanno sortito il loro effetto, e Jak adesso
parla!
Come da consuetudine, Jak si deve vendicare di
tutte le saponette che è stato costretto a raccogliere
in questo biennio. Il colpevole del fattaccio è
quell’invertito del Barone Praxis, leader della città di
Haven City e indagato tra l’altro per concorso
esterno in associazione con le teste di metallo, esseri particolarmente malvagi che minacciano la città.
Per compiere questa vendetta, non si sa perché ma
Jak deve prima completare una serie di missioni
ambientate nel sottobosco della resistenza, dei disobbedienti, dei girotondini e altra feccia simile.
Qualche attentato dopo, il noglobalico duo riesce ad
entrare nel correntone dei DS sotto il comando di
Torn, una sorta di Che Guevara privo di sigaro, carisma, fascino etc.
Durante una manifestazione di spesa proletaria,
Jak e la palla di pelo incontrano Ashelin, una rivoluzionaria molto calda, se non fosse per quella espressione del volto come una che non va di corpo da
settimane. Ashelin racconta ai nostri la storia di Mar,
il mitologico fondatore di Haven City, nell’evidente
tentativo di piantare una tematica che sarà approfondita in seguito. Poi suggerisce a Jak di visitare
l’Oracolo, e tutti coloro che hanno visto i tre Matrix
cominciano a sbattere la testa nel muro.
Succedono un bel po' di cose; Jak conosce un
sacco di persone e ne ammazza molte altre. Quindi
verso metà gioco i nostri eroi si accorgono che
quello in cui sono giunti non è un altro pianeta/dimensione/località balneare: si tratta bensì
dello stesso mondo del prequel, però un casino di
anni nel futuro. Oltretutto incontrano di nuovo il vegliardo Samos. Che culo.
Quando non sanno più che pesci pigliare, J&D si
recano dall’oracolo. Questi propone loro un subgame che ricorda un po’ Fantavision e che è di
gran lunga la missione più divertente del gioco, poi
racconta alcune vaccate tramite il pappagallo Pecker. Ve le risparmiamo. L’importante è sapere che
bisogna trovare la tomba di Mar prima che lo faccia
il Barone, perché si dà il caso che contenga un potentissimo artefatto. Le tombe, si sa, nascondono
sempre robe del genere. Ci sarebbero inoltre da raccontare alcune vicende inerenti lo strano rapporto di
sottomissione che lega il Barone Praxis al misterioso
leader delle teste di metallo, ma passiamo oltre. Ah,
vi riveliamo almeno che Ashelin è la figlia di Praxis.
Questo ve lo dobbiamo.
Le battute finali si avvicinano. Jak scorta un
bambino predestinato ad essere una sorta di messia
lungo vari luoghi, la tomba di Mar viene scoperta e
una sedicente Pietra dei Precursor diventa d’un
tratto un grosso oggetto del contendere. Tuttavia,
tra pietre, artefatti, ingranaggi, uova e tessere della
metro, Jak II si è troppo sputtanato, e nessuno
presta più attenzione a queste cose.
Siamo alle ultime cut scene, dove scopriamo che
il Barone Praxis, nonostante una stronzaggine oseremmo dire genetica, non è il vero stronzo del gioco.
Quel ruolo spetta infatti a Kor! Questi era a tutta
apparenza un tipo mite e saggio. Talmente mite e
saggio che non vi abbiamo mai parlato di lui. Scusate. Kor era tra l’altro il custode del bambino-messia ed ha aiutato Jak in molte occasioni. Però adesso
scopriamo che è addirittura il leader delle teste di
metallo. Shock!
La città si unisce contro Kor in una sorta di cavalcata dei rohirrim finita tragicamente. Il destino
del mondo poggia ora sulle spalle di Jak, la cui scoliosi non può che aggravarsi. Il confronto con Kor è
drammatico. Si fa per dire. Questi rivela a Jak che il
bambino-messia in realtà è… Jak stesso da piccolo!
Sì perché Jak-grande è stato nascosto nel passato
dall’Oracolo in modo che guadagnasse le abilità per
contrastate Kor nel presente. Cioè nel futuro. Però
Jak è stato contaminato dall’Analcolico Moro, e questo può pregiudicare la riuscita del piano
dell’Oracolo, quindi bisogna fare affidamento sui
poteri latenti di Jak-bimbo, che però è svenuto. Allora tutto è perduto, omioddio!
E mentre Jak cerca di riprendersi da tutti questi
plot twist, Kor fa la sua mossa attaccando la Kamchakta con tre dadi. Jak sceglie di difendersi con tre
e totalizza 6, 6, 6. Jak vince, e riceve da un coso
Precursor il potere dell’Analcolico Biondo, bilanciando quindi la sua metà oscura in una bevanda
destinata a rivoluzionare la cultura occidentale. Kor
è sconfitto su tutta la linea e si suicida in un bunker
sotto il reichstag di Haven City.
Siamo quasi ai titoli di coda. Ashelin diventa il
nuovo sindaco della città e instaura una forma di
governo basata sul comunismo fondamentalista e
sulla coltivazione della barbabietola da zucca. Tutti i
personaggi festeggiano. Keira sta per infilare la lingua nella bocca di Jak, ma sul più bello viene interrotta da qualche stupida gag. E con un sottofondo di
cori ubriachi, Samos intona un discorso volto a giustificare un sequel ed il cui pezzo forte è: «Forse un
giorno incontreremo Mar. Potrebbe essere più vicino
di quanto pensiamo!», di fatto spoilerando il finale
del terzo episodio.
Interpretazione della trama…
La tortura può essere un ottimo modo per curare
il mutismo psicosomatico.
Ricorderemo questo gioco perché…
Il voto dato a Jak II dalle varie riviste mondiali
è un’eccellente cartina di tornasole per saggiare la
qualità delle stesse.
Dimenticheremo questo gioco perché…
Il doppio salto faceva un attimo schifo.
JAK 3 (2004)
I festeggiamenti e le orgette del finale
dell’episodio due non fanno in tempo a concludersi,
che Jak si ritrova nel guano fino al collo. Lo scandalo scoppia quando numerosi testimoni denunciano
l’eroe per una condotta troppo simile a quella di un
GTA a caso.
«L’ho fatto solo per vendere qualche milione di
copie in più!» confessa Jak in lacrime alle telecamere.
Al termine di un processo lampo, segnato dalle
veementi proteste di Daxter contro l’accanimento
della magistratura, motivata a suo dire da fini politici, la sentenza è emessa. La sindaca Ashelin, che
non ha fatto in tempo a varare un decreto salva-Jak
in quanto è stata sfiduciata da un certo Conte Veger, si vede costretta ad accettare la condanna: Jak
sarà esiliato nel deserto finché morte non sopraggiunga!
Nonostante le speranze di molti, un gioco non
può terminare alla fine della sua introduzione, quindi
Jak si salva: viene condotto da alcuni esuli puzzoni
nella città desertica di Spargus, al cospetto del
leader Damas.
<15>
Lentamente, Jak diventa una figura carismatica in
questa comunità di desperados. Le sue mansioni
riguardano soprattutto la caccia al predone del
deserto e il ritrovamento di artefatti. È incredibile
come questi antichissimi artefatti popolino il deserto
in quantità tanto elevate. Roba che nemmeno in
Martin Mystere.
Le settimane passano, e Damas finisce col
prendere Jak in simpatia, anche perché ha perduto
un figlio di nome Mar quando era piccolo. Un figlio
che se fosse ancora vivo avrebbe la stessa età di Jak.
(Fermi, non iniziate con le teorie, sennò vi
spoilerate il finale.)
L’avventura prosegue a suon di missioni sabbiose.
Jak colleziona un numero impressionante di amuleti,
pezzi di armatura, medaglie e via discorrendo. Poi
quello che temevamo maggiormente si avvera: Jak è
chiamato a fare ritorno ad Haven City!
La metropoli è adesso nel caos: le teste di metallo
hanno colonizzato un quartiere e muovono attacchi
continui al resto della città, che è un turbinio di
focolai di battaglia e congressi di Forza Italia. Jak
irrompe con il suo caratteristico tocco di distruzione e
scopre che una specie di meteora sta per schiantarsi
contro il pianeta (luogo comune da videogioco n°11).
Gli unici che possono dare una mano ai buoni sono i
Precursor. Saranno anche estinti, ma questi Precursor
sono comunque dappertutto! Vuoi vedere che…
Jak teletrasporta la sua mente all’interno della
meteora – scoprendo che in realtà meteora non è,
trattasi invece di astronave malefica (luogo comune
da videogioco n°11 comma 17) – e nei panni di
Arbiter compie alcuni atti di vandalismo. Che però
non sortiscono alcun effetto. Onin allora prende Jak e
il marsupiale da parte e dice loro alcune parole
narrativamente devastanti…
«Ragazzi, dovete recarvi nel sottosuolo!»
Si tratta di un incarico vagamente suicida nelle
catacombe. I due eroi obbediscono, ma la missione è
veramente troooppo difficile. Quando tutto sembra
perduto, Jak e Daxter stanno quasi per pomiciare ma
sono interrotti dall’arrivo di pa… di Damas!, a bordo
del macchinone a forma di rinoceronte che non
vedevamo l’ora di sbloccare. Il party appena
formatosi completa una missione di una qualche
importanza, quando sul più bello un muro crolla
addosso al povero Damas, che si trova ad un
monologo di distanza dalla morte. Questi spende il
suo gettone per parlare di eroi, di redenzione e cose
varie, poi chiede a Jak di trovare suo figlio, che
sicuramente è vivo da qualche parte. Lo riconoscerà
perché ha un medaglione tipo ques… Argh. Credito
esaurito: siete appena deceduto!
Jak riconosce il medaglione mostratogli da
Damas, anche perché ne ha uno uguale uguale.
«Padre!» dice Jak in lacrime.
Ebbene sì: Jak in realtà è Mar, della stessa stirpe
del fondatore di Haven City, la cui tomba è stata
razziata da Jak stesso. Il Conte Veger appare dal
nulla e conferma la storia: Jak è stato sottratto a
Damas quando era piccolo perché reagiva piuttosto
bene all’Analcolico Moro. Poi però è stato perduto da
qualche parte nel tempo. Cose che capitano. Ma non
è il momento per piangere o incazzarsi: bisogna
rincorrere Veger che sta fuggendo verso il gran
finale. Questi con l’inganno si era fatto aprire il
portale dei Precursor dall’idiotico duo, e adesso vuole
attraversarlo per incontrare la non tanto estinta
popolazione e digi-evolvere in un Precursor. Cosa che
gli garantirà soldi, fama e un certo numero di
groupies “barely eighteen”.
<16>
State attenti perché il momento è piuttosto
topico. Al cospetto dei Precursor scopriamo che non si
tratta di creature mitologiche tipo Nemesis Divina.
Sono infatti dei ratti schifosi uguali Daxter, a parte un
paio di simpatici pantaloni da surfista! Pertanto
quando cadde nell'Analcolico Moro, Daxter non fu
umiliato con una trasformazione retrograda, bensì
premiato con l'evoluzione alla superna razza dei
Precursor, che guida l’universo tipo la Philosopher’s
Legacy (ops, spoiler!).
Daxter è contento per questa notizia, ma protesta
per non aver ancora incontrato alcuna groupie. Poi
affronta con Jak un mega-boss comandato da Errol,
un personaggio di cui – ci rendiamo conto solo
adesso – non vi abbiamo mai parlato. Tutto è bene
ciò che finisce in fretta. Il male è vinto. Errol muore.
Veger viene trasformato in Precursor e preso come
animale domestico da un personaggio minore con
l’alito pesante. Jak si becca un bacio ad alto
coefficiente di saliva da Ashelin, la quale continua ad
avere la tipica espressione sul volto di una che non
caga da mesi e mesi. Daxter invece seduce la bionda
ingegnera Tess (opportunamente trasformata in
opossum), ma soprattutto si accaparra uno
stilosissimo paio di pantaloni da surfista.
Tutti ballano e cantano sulle note dei Righeira.
Alcuni piangono per la bellissima avventura che va a
concludersi. Samos ci prova con Onin. Sig ci prova
con Torn. Keira, che voleva trombarsi Jak da almeno
tre episodi, per la delusione si fa sbattere da Pecker,
per poi abbandonarsi alle meta-amfetamine. Jason
Rubin approfitta del fatto che sono tutti collassati per
il post-rave e ruba un paio di bottiglie di Martini, poi
toglie le tende sgommando con la sua Maserati.
The End.
Applausi in sala.
Interpretazione della trama
Quando tutto ti sembra perduto, non ti abbattere,
c’è sempre una via d’uscita. Devi solo cercarla nel
sottosuolo!
Ricorderemo questo gioco perché…
Il doppio salto è stato migliorato.
Dimenticheremo questo gioco perché…
Uhm… che cos’è che dobbiamo dimenticare?
INTERPRETAZIONE DELLA SAGA: L’ANGOLO DELLA MASTURBAZIONE MENTALE.
È molto facile bollare i tre contributi di Naughty Dog alla generazione hardware corrente come prodotti scialbi,
tecnicamente ottimi ma assolutamente privi di fascino. Questa è solo l’impressione superficiale di un prodotto
che, se analizzato con gli strumenti della semiotica e i ricettari della trasmissione Mezzogiorno di cuoco, può
rilasciare una quantità di significati non da meno di un film di Bergman.
Dopo svariate sessioni mental-masturbatorie al gabinetto, siamo stati in grado di tracciare un ardito ma
vistosissimo parallelo tra la serie di Jak & Daxter e quella di Metroid.
Siamo pazzi? Osservate i numerosi punti in comune… e stupitevi!
Metroid
(serie)
Metroid
(serie)
& Daxter
(serie)
Jak &Jak
Daxter
(serie)
Samus
Samos
Samus
Samos
I Chozo
I Precursor
I Chozo
I Precursor
I pirati
spaziali
Le teste
di metallo
I pirati
spaziali
Le teste
di metallo
Il metroid
Il metroid
addomesticato
addomesticato
Daxter
Daxter
Poteri
abbinati
luce
e all’oscurità
e Light
Poteri
abbinati
allaalla
luce
e all’oscurità
Dark Dark
e Light
Jak Jak
Caricamenti
assenti,
oppure
mascherati
da da
scene
Idem Idem
Caricamenti
assenti,
oppure
mascherati
scene di
di porte
porte che
che si
si aprono,
aprono, ascensori
ascensori etc.
etc.
Possibilità
di scegliere
tratra
quattro
armi
Possibilità
di scegliere
tra quattro
armi armi
Possibilità
di scegliere
quattro
armi intervenendo
Possibilità
di scegliere
tra quattro
intervenendo
intervenendo
sul D-pad
sul C-stick sul C-stick
intervenendo
sul D-pad
Morph
ballball
È unaÈpalla
di gioco
Morph
una palla
di gioco
Si èSisoli
perper
tutta
l’avventura
Ci sono
tanti di
quei
antipatici
che che
è soli
tutta
l’avventura
Ci sono
tanti
di personaggi
quei personaggi
antipatici
vorremmo
essere
soli soli
vorremmo
essere
La La
ricerca
deidei
sigilli/chiavi
Jak non
chefaraccogliere
amuleti
dalle dalle
formeforme
più più
ricerca
sigilli/chiavi
Jakfanon
che raccogliere
amuleti
stranestrane
Fondato
sulsul
backtracking
Fondato
sul riciclaggio
degli degli
ambienti
Fondato
backtracking
Fondato
sul riciclaggio
ambienti
Inizialmente
può
sembrare
un
FPS,
ma
in
realtà
è
Inizialmente
può
sembrare
un
platform,
ma inma in
Inizialmente può sembrare un FPS, ma in realtà è
Inizialmente può sembrare
un platform,
un’avventura
in prima
persona
realtàrealtà
è unaèschifezza
un’avventura
in prima
persona
una schifezza
Ecco quindi il segreto della produzione Naughty Dog a 128 bit: il riuscitissimo tentativo di realizzare un seguito
dei vecchi Metroid facendo utilizzo della terza persona, mostrando così a Retro Studios che la sua versione FPS
della serie è del tutto apocrifa. Non ne siete ancora convinti? Date un’occhiata a questa immagine di Jak 3…
e poi confrontatela con queste, prese da Metroid Prime 2: Echoes…
Avete notato l’affinità di cromatismi? Avete notato che i nemici sono praticamente identici?
Scoop!
<17>
SISTEMA PC VERSIONE ITA SVILUPPATORE VALVE ETICHETTA SIERRA MULTIPLAYER 1-16 ONLINE
BIRTH OF AN AGE <half life 2>
di Gunny
È
trascorso un anno da quando, sulle pagine di
Ring, affrontavo la particolare struttura, il
particolare ‘concetto’ di Half-Life parlando di
qualcosa che definivo finzione integrale. Ne parlavo
soprattutto come di un espediente di
immedesimazione, una scelta di coerenza, uno
sviluppo di ciò che i videogiochi un giorno saranno e
che null’altra cosa potrà mai ambire di essere. Un
mondo generato, tradotto in geometria e colori
tramite una mediazione tra la mente di un pensatore
e uno strumento di programmazione, può essere
vissuto come ogni altro mondo, suggeriva Valve:
vissuto di persona. Fintanto che quel mondo deve
sottostare a leggi semplificate e limitate, tuttavia,
anche la vita fittizia ivi condotta sarà semplificata e
limitata: c’è una porta rossa, c’è una chiave rossa;
c’è un nemico più grosso, c’è un’arma più grossa. A
nulla, ad esempio, varrà la capacità di scrivere qualcosa su un muro, se nessuno dei PNG è in grado di
leggere o pensare.
Se le velleità espressive del videogioco trascendono questo limitato rapporto di mutuo scambio, la
soluzione è affidarsi ad altri linguaggi: il filmato, il
testo a video, la scritta su una parete, la chiamata
codec. Si rinuncia a qualcosa della purezza del videogioco, ma si raggiungono altri importanti risultati in
materia di comunicazione.
Analogamente, un surplus di offerta ricreativa
comporta sacrifici di qualche sorta. Esistono interazioni lineari e guidate che riescono a intrattenere grazie a un sistema di gioco vario, reattivo, coerente e
divertente (da Prince of Persia a Zoe2, passando
per Ikaruga o Rez), ma anche interazioni che allargano il campo, ingigantiscono la scala, ampliano il
respiro, piegandosi tuttavia a inevitabili discese di
ritmo, affinamento e compattezza (Morrowind, GTA,
ecc.).
Stiamo parlando, per essere chiari, di mondi. Per
vasti (in una direzione) o raffinati (in un’altra) che
siano, sono e restano oggetto di limitazioni ben precise, che contengono le idee degli sviluppatori di videogiochi entro un numero finito di possibilità creative. Questo accade perché, banalmente, le regole
impediscono che accada diversamente. Lo sviluppo
‘orizzontale’ di un certo ventaglio di possibilità,
quindi, trae prodigiosi benefici dai rari eventi che
consentono di sfondare il limite ‘verticale’: mondi migliori, mondi più duttili, nuove possibilità, nuovi ‘ora
si può’.
Half-Life2 è, per rispettare l’ordine dei sensi
coinvolti, innanzitutto vedere: Valve propone
all’avventuriero (non al fragger) uno spettacolo sublime, elegante, avvolgente, pulsante di vita. È il figlio evidente di un lavoro di design che deve aver generato tonnellate di bozzetti, disegni preparatori,
schizzi, opere a tutta parete, fotografie comparative
(vedere a questo proposito il box riguardante il libro
Half-Life2: Dietro le quinte). Pur nel suo sbalorditivo
fotorealismo, Half-Life 2 non ha nulla di asettico o
poco fantasioso. L’immagine di City 17, con i suoi
viali da Vecchia Europa divorata dalle asimettriche
strutture metalliche della Combine, richiama in modo
reale e attuale gli incubi di una Varsavia occupata
dalle truppe naziste, oppure, badando alla cosmesi
senza ombra di tragedie storiche, lo slancio con cui i
grattacieli della Defence sorgono a due passi dagli
ampi viali di pietra di Parigi.
<18>
Il metallo divora la pietra: la tecnologia Combine avanza
lentamente, facendosi strada tra le vecchie mura dei palazzi
di City 17
Naturalmente Half-Life 2 utilizza gli ultimi ritrovati tecnologiche in materia di texturing, modellazione 3d e illuminazione, ma è la cura infusa in ogni
vicolo, in ogni ciuffo d’erba, in ogni palo telegrafico a
farne uno spettacolo ai limiti dello svenimento. Al
contempo, Half-Life 2 mantiene saldo il ‘patto di reciproca convivenza’ con il portafoglio degli appassionati, palesando il consueto, mastodontico lavoro di
ottimizzazione e concedendo a piene mani la sua
bellezza a computer sfiancati dalla brutale orgia effettistica dell’oberante DOOM III. Il risultato è uno
spettacolo di complessità tecnica parimenti impressionate. Solo, molto più vasto. Solo, molto più raffinato. Perché una texture disegnata da un artista con
un solo effetto di superficie colpirà comunque di più
di una texture disegnata da un tecnico, per quante
dozzine di passaggi effettistici vi si possano contare.
Allo stesso modo, uno stormo di corvi gracchianti che
si leva vorticoso attorno a una torre che sembra
estrapolata dalla fantasia di Isaac Asimov, fino a raggiungere il punto in cui essa trafigge la cappa di nubi
di cui si riveste la città prostrata, ha un valore estetico drammaticamente superiore a una massa di corridoietti bumpmappati le cui dimensioni spaziano dal
metroXtre al metroXsei. In entrambi i giochi,
l’obiettivo conseguito è quello di rendere a schermo
percezioni visive avvicinabili a quelle dell’esperienza
comune, nondimeno qualunque persona di media intelligenza saprebbe distinguere tra le memorie fotografiche di Robert Capa e il depliant di un’industria di
laterizi. Rappresentare è un’arte, e non lo si scopre
oggi, fa tuttavia piacere che anche nel mondo dei videogiochi qualcuno sappia ricordarlo.
In secondo luogo, Half-Life 2 è certamente sentire: Il sonoro si compone di un azzeccato assortimento di rumori inquietanti (agghiaccianti le nuove
urla degli umani vittime di headcrabs), stridii, ronzii
da elettricità statica, e di saltuari e ansiogeni accompagnamenti musicali. Il doppiaggio inglese (per
quello italiano consultare il box dedicato) è studiato,
curato, sentito. I personaggi sanno sottolineare le
situazioni d’ansia più delicate e sanno far sorridere
quando la tensione si smorza (chiedere a Lamarr e al
suo affezionatissimo padrone). L’ottima prova degli
attori è poi accompagnata da un minuzioso lavoro
ITALIANS DO IT BETTER…
ITALIANS DO IT BETTER...
…quando non si parla di doppiaggio.
Evitate, se potete. Fatevi un favore. Alla voce
…quando
non si parla
di doppiaggio.
‘setting’
della vostra
(obbligatoria)
sottoscrizione
Evitate, se potete. Fatevi un favore. Alla voce
Steam, selezionate la lingua inglese. Non comporta
‘setting’ della vostra (obbligatoria) sottoscrizione
nessun
problema
tecnico
edinglese.
è usufruibile
senza proSteam,
selezionate
la lingua
Non comporta
blemi
anche
con latecnico
versione
delsenza
gioco.
Unico
nessun
problema
ed è italiana
usufruibile
proneo:
è impossibile
audio
e
blemi
anche con la selezionare
versione italiana
del originale
gioco. Unico
neo: è impossibile
selezionare
audio
sottotitoli
in italiano.
Chiunque
nonoriginale
tolleri oe non cosottotitoli
in italiano.
non tolleri
o non co- dei
nosca
affatto
l’ingleseChiunque
è avvisato:
la recitazione
nosca affatto
l’inglese
è avvisato:
doppiatori
italiani
di Half-Life
2 laè recitazione
la peggiordei
viodoppiatori italiani di Half-Life 2 è la peggior violenza
lenza perpetrata al comparto audio di un videogioco
perpetrata al comparto audio di un videogioco dai
daitempi
tempi
Metal
Gear
per PSone.
di di
Metal
Gear
SolidSolid
per PSone.
Alyx e il suo bellissimo sorriso. Le animazioni facciali valgono lunghi minuti di contemplazione.
sull’animazione delle loro movenze e soprattutto dei
loro volti, di un’espressività trascinante.
Vista e udito non mentono, e a poco vale un riesame
a freddo dopo un periodo di decompressione
all’insegna del ‘non può essere vero’ o del ’basta
Jack Daniel’s prima di giocare’: Half-Life2 vanta la
cornice visiva e sonora più bella della storia dei videogiochi.
Negli sparatutto solitamente si spara, e HalfLife 2 non fa eccezione. Una vasta scelta di armi, in
parte storici attrezzi della prima spedizione a Black
Mesa, in parte new entries, accompagna il giocatore
in un’esperienza di combattimento che costituisce
solo una parte (benché dominante) dell’esperienza
complessiva. L’intelligenza dei nemici si attesta inizialmente su livelli convenzionali, in parte per ragioni inerenti alla trama (si ha a che fare con ordinaria ‘polizia di quartiere’ della Combine o alieni
Xen), in parte per consentire all’utente un graduale
approccio alle più ardue sfide successive. L’arrivo
delle truppe Overwatch e degli Antlions, a partire dal
livello costiero, cambierà le carte in tavola preparando all’apogeo finale, quando la guerriglia urbana
tra la resistenza e la Combine (supportata dai micidiali Strider) si farà convulsa, assordante e ludicamente ubriacante.
Le dinamiche dei combattimenti si classificano
generalmente su livelli eccellenti, e tuttavia non rivoluzionari. Halo 2, ad esempio, vanta maggiore
varietà e situazioni mediamente più adrenaliniche,
per via di un’intelligenza artificiale più aggressiva e
di un’impostazione più ‘militaresca’. La noia ad ogni
modo non si fa mai viva, né il desiderio della scoperta è mai placato.
La trama si dipana senza mai risultare invadente, vivendo di continue informazioni sussurrate
più che di colpi di scena cinematografici. La profondità è da ricercarsi nella definizione e nella plausibilità del contesto, più che nelle complessità del plot.
Così percepiamo i propositi di fusione ‘passiva’ con
la tecnologia Combine esposti da un orwelliano
Dottor Breen attraverso megaschermi, reti televisive, stazioni radio e cartelloni di propaganda, mentre la presenza di alieni Xen tra i membri della resistenza rivela che la dittatura vigente ha poco a che
fare con gli alieni combattuti nella vecchia Black
Mesa. Gli esempi di questa ‘deduzione suggerita’
abbondano. Non mancano comunque le lacune e gli
sprechi, a partire dal finale, troppo simile a quello
del primo Half-Life ed eccessivamente sintetico.
È pertanto appurato che Half-Life 2 sia un gioco
di inedita bellezza estetica, suggestivo nel comprato
sonoro, intrigante e mai noioso, risultato di un progetto condotto da artisti competenti e da programmatori eccezionali. Ciò di cui ancora non si è parlato
è il fuoco rivoluzionario, le regole infrante, il perché
Half-Life2 apporta una significativa spinta evolutiva
al mondo dei videogiochi, il perché Half-Life2 è il
primo videogioco a guadagnarsi la S di Ring.
Half-Life, a suo tempo, si era distinto anche
per la naturalezza con cui alternava fasi blastatorie e
sezioni platform, assalto frontale ed esplorazione
silente, esulando spesso e volentieri dalla classica
concezione di FPS e adagiandosi in una più ampia
definizione di ‘avventura in prima persona’. In HalfLife2 il concetto non è abbandonato. Valve in questi
anni si è probabilmente interrogata su che cosa
mancasse a questo concetto di ‘avventura’. Esaurito
il brainstorming, si è messa al lavoro in due direzioni, entrambe finalizzate a rendere ancora più
‘vivo’ il mondo del loro nuovo progetto. Degli sforzi
artistici, cioè di una di queste due direzioni, già si è
detto. Dell’altra ci troviamo a parlare ora: la fisica,
ovvero la riproduzione delle leggi che regolano la
natura e il comportamento dei corpi.
Iniziando una partita ci si perde nelle consuete
azioni che gli FPS hanno insegnato a ripetere meccanicamente: trova la porta>premi tasto ‘usa’ per
parlare>trova nemico>spara. Nel fare questo, e assistendo alle inusuali reazioni del mondo circostante,
il dubbio si insinua: ma di solito questo succede?
Bastano pochi minuti, ed eccoci impegnati a interagire con un mondo finalmente liberato, dopo troppi
anni in cui è stato paralizzato, penalizzato, costretto
in posa su un piedistallo come un manichino da vetrina dalla frenetica corsa al potenziamento grafico.
Gli oggetti, prima di Half-Life2, o si distruggevano
o si lasciavano sul posto immutati, indipendentemente da quanti colpi di cannone vi si rovesciassero
addosso. Half-Life2 afferra il ‘manuale della simulazione mutilata’, lo sfoglia con un sorrisino di
scherno e lo lascia cadere nel cestino
dell’immondizia. Perché in questo mondo così incredibile nella sua credibilità, si possono accatastare
casse e bidoni per raggiungere locazioni sopraelevate, improvvisare ponti di travi e lamiere per abbreviare il proprio peregrinare, farsi scudo dalle
pallottole altrui reggendo tavoli e caloriferi, innescare cedimenti strutturali sotto i piedi dei propri
nemici, ostruire porte per bloccare inseguitori. La
Gravity Gun, arma simbolo del gioco, permette invece di compiere azioni che violano le regole della
fisica. Nella rappresentazione dell’elemento fisico,
infatti, Half-Life2 non è solo il primo gioco a contemplarne le regole: pretende di essere anche il
primo gioco a contemplare le eccezioni alle regole. Il
<19>
HALF-LIFE: HALF-BOOK
di Nemesis Divina
La ‘cura dei dettagli’ e la ‘credibilità del mondo’ significano
anche questo. Un ribelle è appena morto in azione, i suoi
compagni passeggiando con un’espressione stanca e triste,
alcuni si appoggiano ad un muro e singhiozzano in silenzio.
WE’RE IN
WE’RE IN...
Diversamente dal suo predecessore, il multiplayer
di Diversamente
Half-Life 2 beneficia
già da subito della
dal suo predecessore, il multiplayer di
validissima
accoppiata
Counter-Strike:
Source /
Half-Life 2
beneficia già
da subito della validissima
Half-Life
2 Counter-Strike:
Deathmatch. IlSource
sottobosco
dei modders,
accoppiata
/ Half-Life
2
Deathmatch.
dei modders,
cresciuto
grazieIlalsottobosco
flessibilissimo
editor cresciuto
Worldcraft del
grazie
al flessibilissimo
editori motori,
Worldcraft
del ’98,
sta
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sta tuttavia
scaldando
e già
si prospetta
tuttavia scaldando
i motori, efenomeno
già si prospetta
il diversi
il ripetersi
di quel delizioso
che per
ripetersi di quel delizioso fenomeno che per diversi anni
anni
produsse decine e decine di versioni custom,
produsse decine e decine di versioni custom,
rivisitazioni,
bellissimi giochi online e realizzazioni
rivisitazioni, bellissimi giochi online e realizzazioni
umoristiche.
propriouniverso
universo
umoristiche.Un
Un vero
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cheche
probabilmente
Half-Life2
come
la spina
probabilmente imporrà
imporrà Half-Life2
come
la spina
dorsaledel
delmultiplayer
multiplayer su
lunghi
anni
ancora.
dorsale
suPC
PCper
per
lunghi
anni
ancora.
medikit che sta lassù a 15 metri d’altezza, momentaneamente irraggiungibile, può essere risucchiato e
utilizzato, la sbarra metallica da 300 chili lunga 5
metri attratta e riconvertita in micidiale arma contundente. Le sabbie infestate dagli Antlions, sensibili
alle vibrazioni del terreno, possono essere superate
disponendo passerelle costituite da oggetti risucchiati
da ogni direzione, oppure strappati da veri e propri
edifici. Nella battute finali, una versione potenziata
della Gravity Gun consentirà di afferrare anche i
nemici, precipitandoli nel vuoto, scaraventandoli sui
loro colleghi o incenerendoli nel vicino giunto
energetico. L’avventura diventa ‘vera’, la varietà
diventa limitata solo dal cervello di chi ne fa uso. I
limiti convenzionali dei mondi castrati, costretti al
ruolo di teatrini scenici o nel migliore dei casi
interessati da circoscritti fenomeni di demolizione,
vengono spazzati via dall’Havock, e da un level
design che invita alla sperimentazione e alla creatività. La quarta dimensione, la nuova traiettoria
evolutiva, il Nuovo Mondo dei videogiochi è scoperto,
e Half-Life 2 è il Colombo del caso. La S di Ring,
qualora servissero delucidazioni, è il premio a un
videogioco che oltre a vantare evidenti qualità di
serie A, ha l’ardire di fare qualcosa di mai fatto, di
guardare più il là degli altri, di camminare con passo
sicuro dove altri hanno paura di avventurarsi.
Laddove le promesse di rivoluzione disattese da
Fable aggiungevano una delusione in più ad un gioco
di per sé già traballante, Half-Life 2 parte da una
base d’assoluta eccellenza in ogni comparto, e da
questo trampolino spicca un balzo che lo distanzia da
qualunque altro videogioco esistente e lo rende unico.
<20>
Edito da Multiplayer.it, unitamente al gioco troveremo
sugli scaffali anche il volume Half-Life 2: Dietro le Quinte,
poco ispirata traduzione dell’originale ‘Raising the Bar’. Ma
sottotitolo a parte, la sostanza non cambia. Purtroppo.
Il tomo dedicato all’evento PC dell’anno appare subito di
brillante fattura, con carta patinata di qualità superba e
copertina cartonata. 29,00€ l’esborso per cotanto splendore
editoriale.
Il libro prende in esame le origini della serie, fino a
svelare segreti e piccole confidenze sulla realizzazione di
Half-Life 2. Molte le notizie disseminate nelle pagine: fra
idee scartate, iter produttivi singolari, raccontini, speranze e
obiettivi, il volume indaga pressoché ogni iniziativa creativa
poi confluita nel gioco. Purtroppo, si diceva, il tutto è relegato
alle didascalie di un mare di illustrazioni. Half-Life 2: Dietro le
Quinte è infatti soprattutto un volume illustrato, che riporta
su carta concept design e screenshot particolarmente
significativi. La porzione di testo dedicata al fenomeno HalfLife 2 è invece confinata in poco spazio, tanto da ridursi alla
stregua di un breviario o di una raccolta di citazioni
disorganiche.
Lungi dal non dir nulla, il volume tralascia di approfondire
gli aspetti tecnici della produzione, calcando piuttosto la
mano sull’aneddotica. Non brutto, il volume è più
semplicemente un’occasione sprecata di aumentare le nozioni
che l’utenza ha dell’industria. Contando la realizzazione
mediocre di molti artwork, la sottigliezza delle informazioni
fornite e il costo notevole, consigliamo il volume solo a
fanatici e collezionisti.
In atri casi si direbbe ‘diverso’. In questo caso si
può tranquillamente usare il termine ‘superiore’.
La scintilla rivoluzionaria è sprigionata: alterna
sarà la bontà dell’uso che ne verrà fatto in futuro, ma
ciò che conta è che un vincolo è stato spezzato, una
barriera alla fantasia di chi crea forzata. L’esperienza
di chi verrà e giocherà i titoli post-Half-Life 2 ne
uscirà arricchita. Una nuova era del modo di
concepire l’ambiente di gioco ha inizio, e prima che
un mondo di giocatori entusiasti vi si getti a capofitto
è giusto che il dovuto tributo venga rivolto a chi ha
fatto registrare il cambiamento. Lode ai pionieri.
I cittadini, nella fase finale del gioco, abbattono il proiettore
da cui ogni (triste) mattina il Dottor Breen li invitava alla
passività e all’obbedienza.
VOTO:
SABCD
COMBAT EVALVED
secondo commento di Cryu
Half-Life 2 srotola un lungo tappeto rosso che in
tutta solennità conduce il videogioco verso nuovi
orizzonti. Curioso è scoprire come buona parte di
questo percorso solchi territori che appartengono alla
tradizione più antica del genere FPS. Senza troppi giri
di parole, Half-Life 2 è in larga misura lo sparatutto
più comune del mondo: armi trasportabili senza limiti
di numero e utilizzabili una sola alla volta; cura
istantanea delle ferite a mezzo medi-pack disseminati
ovunque; sviluppo lineare che poco concede all'interpretazione strategica della mappa; intelligenza artificiale ordinaria, con PNG che si espongono al fuoco
nemico con preoccupante leggerezza. Eppure HalfLife 2 fa il vuoto, e lascia la pur agguerrita concorrenza di genere a spartirsi la geografia ludica del
Vecchio Mondo, mentre su quel regale tappeto rosso
procede di gran carriera verso l'America del videogaming contemporaneo. Perché se Half-Life 2 non
prende le distanze dai cliché di genere, preferendo
rivisitarli con stile in tutto rispetto della tradizione che
lo precede, dall'altra asservisce ai contenuti di cui è
fiero medium il suo intero apparato: gameplay, level
design, story-telling, prospettiva registica. Le tematiche esposte si traducono pertanto in situazioni di
battaglia, puzzle, ellissi e capovolgimenti narrativi,
edifici monumentali, prospettive di camera sapientemente forzate. Non mancheranno futuri approfondimenti su queste pagine.
A segnare la rivoluzione è però quella fisica Havock intorno alla quale sono costruite soluzioni di
gioco spettacolari, inedite, raffinate, ma soprattutto
divertentissime. Sia chiaro, non necessariamente
deve considerarsi il miglior FPS di sempre, e tanto
meno un gioco perfetto. Tuttavia, attingendo alla
propria cultura e producendo un risultato tecnologico
senza precedenti, con Half-Life 2 l'occidente ha prodotto il suo Metal Gear Solid 2, e ha indicato nella
fisica simulata la quarta dimensione del videogioco.
In Ring ne prendiamo atto rallegrandoci.
Voto:
SABCD
<21>
SISTEMA XBOX VERSIONE PAL SVILUPPATORE BUNGIE ETICHETTA MICROSOFT MULTIPLAYER 2-4,2-16 LAN, ONLINE
DEATH OF AN AGE <halo 2>
di Gunny
A
vvolgente profumo di plastica fresca, metallico
riflettersi dell’illustrazione in retrocopertina,
manuali e manualetti da sorvolare con lo sguardo.
Soprattutto, due dischi che presto, poverini, patiranno l’utilizzo fino ad arroventarsi. Sono le 15.35
dell’11 novembre 2004, e ho tra le mani la bellissima
Limited Collector’s Edition del gioco più atteso sulla
piattaforma più pesante, esteticamente brutta e dal
nome più idiota della storia dei videogiochi. Ma il piacere di accenderla oggi è notevole, accidenti se lo è.
Atteso con religiosa pazienza da legioni di appassionati, million-seller predestinato, il profeta del combattimento in soggettiva su console si sfracella
(again) con il suo immane peso sul mondo dei videogiochi, rispettando la data tatuata sul bicipite di Peter
Moore.
L’antenato, nell’ormai lontano 2001, aveva polverizzato diverse delle ragioni per le quali gli FPS consolistici davanti ad un personal computer erano soliti
abbassare lo sguardo. Su tutte l’impianto tecnico,
semplicemente abbagliante. Sotto altri aspetti, pur
con risultati meno incredibili, l’avvicinamento era comunque stato cospicuo: l’inattaccabile binomio tastiera-mouse era stato emulato da un sistema di
controllo che, vuoi per la bontà del pad, vuoi per un
attento lavoro di adattamento, risultava miracolosamente aderente al contesto ludico. Fu un rumoroso
successo, testimoniato dalla perseveranza con cui il
gioco Bungie stazionava nelle classifiche di vendita
della sua piattaforma, anche a due anni dal lancio sul
mercato.
Una volta collegata alla rete elettrica, come in
ognuno dei 1065 giorni trascorsi dalla data del lancio,
la console mi sta chiedendo se oggi è davvero il 15
novembre 2001. Un po’ mi ricorda Goodbye Lenin.
Prima di bestemmiare sanguinosamente e di confermare alla console che sì, nonostante siano trascorsi
1065 giorni, oggi è il 15 novembre 2001, mi fermo a
pensare.
Che cosa voglio?
La prima cosa che voglio è un gioco bello quanto il
primo Halo. Voglio delle ambientazioni ariose e lussureggianti, delle strutture imponenti e ricoperte di
textures meravigliose, voglio un combattimento vario
e appassionate, voglio picchiare con un Banshee sulla
testa di un manipolo di Covenant atterriti, voglio giocare in LAN con una mezza dozzina di amici e perdere
il senso del tempo. È poco? No, non lo è. Ciononostante, le chiamerò richieste di base. Alle richieste di
base aggiungo delle richieste accessorie dettate dai
feedback più ricorrenti o dal mio personale gusto.
Voglio la morte dei livelli basati sul cut&paste, voglio
una trama e una cura artistica degna del grandissimo
gameplay e voglio, voglio, fortissimamente voglio
giocare sulla grande rete. Sono finalmente pronto a
giocare Halo 2, ora che lo so: sì, questo è ciò che
voglio. E sì, oggi è il 15 novembre del 2001.
Ed è un bel partire: si diceva poc’anzi della cura
artistica, ed ecco fare la sua comparsa un elegantissimo menù raffigurante una città del futuro, in similwireframe monocromatico. Il tema musicale è il solito, opportunamente riarrangiato. Tutto come prima,
tutto meglio di prima. New game: si disegna sullo
schermo una schermata di caricamento di
grande finezza, dolce premessa al miglior esordio
narrativo che si potesse sperare: il processo al gerarca Covenant sconfitto da Chief nel prequel. Fine
<22>
“Halo è qui. Lo Scorpion è con lui.”
stra sulla società e sul credo Covenant, arricchimento
di quelli che finora non erano stati altro che nemici
buffamente colorati e ridicolmente doppiati, introduzione all’inaspettato co-protagonista della trama della
campagna in singolo.
Halo 2 inizia così, divincolandosi con furia dai limiti narrativi e di design che facevano assomigliare il
primo ad un goffo giocattolone. Alla disgrazia e
all’onta che cadono sul Comandante Elite si contrappone un sereno Master Chief, accolto con acclamazione e premiato per il valore dimostrato su Halo. Alla
memoria si affacciano illustri precedenti di mortali
rivali ascesi e decaduti dal trono dei vittoriosi: Solid e
Liquid, Raziel e Kain, Dingo e Nohman. Paragoni impegnativi, ma l’incipit di Halo 2 sembra una dichiarazione di intenti in tal senso. Dopo alcuni minuti di
piacevole contemplazione, si passa al gioco giocato, e
con esso alla valutazione dei due fattori che aveva
decretato il trionfo del prequel: tecnica e gameplay.
Beneficiato da un corposo arricchimento poligonale e da un’eccellente stabilizzazione del frame rate,
il motore grafico di Halo 2 è la ragionevole ottimizzazione di quanto visto nel 2001. La qualità delle texture è grossomodo analoga, mentre il massiccio
multitexturing che ammantava le superfici metalliche
del primo Halo pare inizialmente assente. La vera
differenza è la cura riposta negli effetti speciali e nelle
animazioni, che spazzano via gran parte di quella
sensazione di ‘legnosità’ che talvolta si avvertiva nel
prequel. Conquiste estranee all’innovazione tecnica, e
attribuibili semmai a un rilanciato interesse di Bungie
per i particolari. La sensazione è quella di un Halo
meno opulento nel dettaglio ravvicinato, ma più
fluido, dinamico, rapido. Un Halo con qualche spruzzatina di Ninja Gaiden, volendo avventurarsi in paragoni. Non certo innovazioni in grado di colmare il
grosso gap che lo separa dall’ultima generazione di
FPS PCistici, ma senz’altro sufficienti a garantirgli un
posto d’onore tra i videogiochi visivamente più appaganti del panorama console, insieme a titoli come
The Chronicles of Riddick e Metroid Prime 2 (su
PS2 non pare invece esserci nulla, né mai ci sarà, che
possa raggiungerne gli standard).
Il gameplay risponde ‘presente’: solido,
appagante come era lecito aspettarsi, arricchito da
un’ottima IA e impreziosito da una varietà di chicche
assenti nel prequel: il danneggiamento progressivo
dei mezzi con tanto di deliziose sub-esplosioni, le
nuove armi, i compagni che finalmente si rivelano
utili, la facoltà di disarcionare dai mezzi gli avversari. La mischia è frenetica, a livello Eroico addirittura furibonda. L’ormai celebre dual wielding torna
utile in meno situazioni di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi, basandosi sull’uso di armi principalmente a corto raggio o dal rinculo difficilmente controllabile: roba da assalto all’arma bianca. L’ingaggio
medio-lungo, dal canto suo, privilegia l’uso sapiente
del BR55, del fucile di precisione o della carabina
Covenant. Il parco veicoli risulta arricchito dal
Wraith, in passato inutilizzabile, da una nuova variante di Warthog (dotato di un cannone Gauss da
25mm ad accelerazione magnetica dal suono delizioso e schioccante) e da uno Scorpion ottimizzato
(modificata l’assurda e vulnerabilissima posizione
del guidatore e l’imprecisione della mitragliatrice coassiale, che nel primo gioco ne riducevano la letalità).
I livelli si lasciano attraversano con piacere, proponendo sfide sempre nuove, ma senza eguagliare
l’impatto, né il respiro esplorativo, degli scenari di
Halo: Combat Evolved. Se si eccettua la sezione
del lago (eccezionale), si registrano ambienti meno
incisivi e caratterizzati. La progressione è incanalata,
convogliata, non più suggerita ma imposta. Fortunatamente, si è troppo distratti dai ferocissimi avversari per risentirne sul serio. Si è troppo coinvolti
dalla granata appena affrancatasi sulla schiena di un
Elite, che nella deflagrazione proietta un paio di
Grunt sulla parete e ne innesca le granate per una
devastante catena di fiammate. Si è troppo impegnati ad esultare per il colpo da 90mm appena piazzato sulla cabina di un fastidioso Banshee in picchiata. Troppo, davvero troppo appagante questo
nostro combattere e vomitare fiamme, per dare eccessivo peso a imperfezioni grafiche come il pop-up
delle texture o al design non geniale delle ambientazioni.
Insomma, le richieste di base di cui sopra sono
soddisfatte magna cum laude. Halo 2 è un Halo
rilucidato, pompato, arricchito, bilanciato, equilibrato come una vettura da corsa. È una base di
partenza, e fottutamente buona. Tanto buona che
da sola gli permetterebbe di lasciarci ansimanti alle
spalle i vari Medal of Honor, Shellshock e Timesplitters. Un tale Killzone potrebbe opporre i suoi
pregi (superiorità di design e atmosfera) per candidarsi come concorrente diretto. Di fronte a
quest’insidia, Halo 2 per ora rimane fermo ad osservare, come un grosso e bonario gattone.
Vi sono ragioni di lamentela per quanto riguarda
il comparto giocabilità, l’aspetto grafico, la cura tecnica, il bilanciamento e in generale il divertimento?
No, per quanto si possa essere pignoli, Halo 2 è
semplicemente il massimo risultato mai ottenuto su
console in quanto a combattimento in prima persona.
Vi sono ragioni di lamentela circa altri aspetti, cui
magari Bungie Studios ha attribuito minore rilevanza? A parere di chi scrive sì, ve ne sono. Procedendo alla riscossione delle richieste accessorie,
delude una linea narrativa originata nel migliore dei
modi, ma che non tarda a scemare di pregnanza e
interesse. Fanno la loro comparsa personaggi trascurabili, sui quali la narrazione edifica situazioni
clamorose nelle intenzioni, ma che di fatto faticano
addirittura a destare attenzione (difficile ricordarsi
un personaggio quando pronuncia nell’arco
dell’intera avventura due frasi, delle quali una è
‘forza marines, muovete il culo’ e l’altra è ‘premi il
bottone a destra’). Bungie perde l’occasione
Sul sito di Bungie è posibile accedere a tutta una serie di
piacevoli concept art che dimostrano la cura riposta nel suo
nuovo kolossal.
di far convergere le avventure dei due protagonisti
in modo convincente, preferendo affidarsi alle macchinazioni del Parassita (uno dei principali colpi di
scena verte su un doppio gioco orchestrato da questa buffa creatura tentacolare ai danni di Chief e
Cortana. Sorprendente: io in effetti solitamente mi
fiderei ciecamente di un’enorme pianta carnivora
radioattiva con una voce presa in prestito da Sauron).
Sorvolando su queste trascurabili digressioni
della storia, ci si cerca di concentrare sulla resa dei
conti con il nemico vero e ultimo: il profeta Verità.
Sciaguratamente, nel momento in cui la battaglia
sembra pronta a guadagnare un più ampio respiro,
ci si imbatte nei titoli di coda. La prima volta pensi
ad uno scherzo. Ci riprovi. Nulla da fare, il gioco è
finito. Il ‘boss finale’ di Halo 2 era quella specie di
pallido orsetto Gummi. Come si chiamava? Ah, si:
Tartarus. Nessuna traccia dei ventilati livelli a gravità zero, nessun segno di quel bellissimo livello mostrato a Los Angeles in occasione dell’E3 di due anni
fa. Difficile nascondere la delusione per il mancato
apocalittico confronto finale, penoso doversi rassegnare a vedere cestinate tutte quelle potenzialità di
approfondimento sul mondo dei Covenant, triste vedere ridotto il rapporto Chief-Arbiter ad un semplice
pretesto per alternare diverse locazioni. La trama di
Halo 2 è superiore a quella di Halo? Senz’altro (ebbeh). La trama di Halo 2 è all’altezza della giocabilità che la accompagna? No, purtroppo non lo è ancora.
Di fronte a questi difetti, Killzone potrebbe alzare la voce, rinfrancato nelle sue velleità di nemesi
del titolo Bungie. Un infastidito Halo 2 si vede
<23>
Secondo Commento
La Guerra dei 100.000 anni
di Cryu
Halo 2, l’esperienza di combattimento multiplayer definitiva.
quindi costretto a dare una accelerata pigiando la
nitro, ovvero un grosso pulsante verde con sopra
scritto Xbox Live!
Se i difetti prima elencati minacciavano di far
retrocedere Halo 2 verso la linea di demarcazione
che in Ring separa la A dalla B, il comparto online
vibra un poderoso calcio nel deretano all’intero pacchetto ludico, proiettandolo lungo disteso sul settore
che, nella pista da bowling delle valutazioni ringhiche, contraddistingue la A più piena, e minacciando
per lunghi istanti con un colpo di naso l’equilibrio del
birillo che, capitolando, gli garantirebbe la S. Inutile
spendere parole sull’accurata progettazione di ogni
singola arena, sul superbo bilanciamento/piazzamento di armi e power-up, sulle mille
opzioni customizzazione del proprio avatar così
come del proprio clan, sulla solidità del servizio
Live!, sulle decine di ore che passerete in preda
all’euforia impallinando tutto e tutti. Halo 2 è la più
superba esperienza multiplayer mai esistita su console. Taluni RPG online lo possono forse superarlo
sulla lunga distanza, ma i livelli di adrenalina toccabili con il titolo Bungie rimangono superiori e per ora
ineguagliabili.
Concludendo, ci troviamo di fronte a un titolo
fuori dal comune, risultato di uno sforzo produttivo
titanico, capace di offrire un’esperienza multiplayer
del tutto travolgente. Con Halo 2 e Half-Life2 si
può dichiarare conclusa la grande battaglia degli
FPS, e tirare i bilanci di quello che forse è stato il
periodo più incredibile di sempre per gli amanti del
genere. Possiamo relegare chi di dovere nell’angolo
degli sconfitti (DOOM III per la sua rozzezza ludica,
Killzone per la sua evidente incompletezza), e celebrare con i dovuti allori i giochi che hanno saputo
farci sudare dalla tensione, urlare dall’eccitazione,
sogghignare di piacere. Ad Halo 2, come al suo
predecessore, il merito di aver saputo sintetizzare in
sé il fuoco sacro del genere, il furore della battaglia,
e di averlo irrorato sulla grande rete, accendendo i
segnali di guerra di una comunità in continua espansione e che probabilmente continuerà la lotta per
diversi anni. Onore a lui, per aver parificato in
buona sostanza il combattimento online su console,
tramutandolo da qualcosa di meno (rispetto al netplaying su PC) a qualcosa di semplicemente ‘diverso’. Onore a lui per aver riassunto in sé due decenni di tradizione, e aver chiuso alla grande un’era
nel modo di concepire gli sparatutto in prima persona.
VOTO:
<24>
SABCD
Se io fossi uno sviluppatore Bungie, quello stupido tatuaggio a Peter Moore gliel’avrei staccato a
morsi.
Perché? Perché rilasciare a tutti i costi Halo 2 il
9/11?
Per assicurarsi che durante il periodo natalizio
Xbox rimanesse sprovvista di qualsiasi esclusiva del
benché minimo rilievo? Per allegare all’edizione limitata un DVD in cui gli sviluppatori non fanno altro
che lamentarsi delle scadenze imposte da Microsoft
ed enumerare i contenuti che hanno dovuto giocoforza scremare?
Perché specifichiamolo, il finale di Halo 2 non
può definirsi deludente o inappagante, quanto semplicemente assente, così come l’intero livello designato per la resa dei conti conclusiva. Gli stage della
seconda metà di gioco, dal canto loro, tornano a patire di quella progettazione modulare dapprima
esorcizzata e cui infine è stato obbligatorio ricorrere
per ragioni di deadline. Non è un caso che questi
ambienti si scoprano altrettanto carenti sotto il profilo ricreativo: complice la scarsa illuminazione, più
che una condotta bellica ragionata viene incoraggiata la scellerata rincorsa della fine del livello, evitando in slalom legioni di avversari poco reattivi a
neutralizzare questo approccio. Halo come Silent
Hill… brrrrrr.
La trama, benché afflitta da cliché sci-fi di serie
B, ha il merito di intessere un’epica interplanetaria
coinvolgendo quattro razze in un conflitto di proporzioni sconosciute al genere; eppure risulta menomata, oltre che di un degno epilogo, di tanti passaggi che ne avrebbero lenito la pretestuosità. E ancora, i livelli di difficoltà Eroico e Leggendario sono
resi ostici piuttosto esasperando la resistenza dei
nemici e la letalità dei loro colpi, che inculcando loro
evolute strategie militari. Infine, per esaurire il campionario di lamentele, come non citare il mediocre
adattamento italiano viziato da toni recitativi estemporanei, interpretazioni mediocri (l’eccellente Cortana esclusa) e battute Covenant del tenore di
“Siete una razza di barboni!” (sic).
Il dovere di critica impone di annotare queste significative lacune, ma con il malincuore di chi si
sente esporre da un preside antipatico le marachelle
di un figlio amato. Perché sì, a tratti si butta via, ma
se parliamo di tecnica, di combattimento, di prima
persona e di console, Halo 2 delimita con una vigorosa pisciata un territorio che presiede da incontrastato dominatore.
Irriverentemente criticato da molti, il motore
grafico macina geografie, schieramenti e volumi di
fuoco enormi senza mai dare segno di incertezza. Il
fenomenale normal mapping che ammanta veicoli e
personaggi è responsabile del vistoso avvicendamento che le texture soffrono sulla media distanza;
ma si tratta di un problema che affligge tutti i titoli
di genere, Riddick e Killzone compresi, e che in
casi come quest’ultimo balzano meno all’occhio solo
per via di una resa da vicino comunque non entusiasmante. Il pop-up che si verifica durante le cutscene, è invece il risultato di una discutibile scelta
tesa ad annullare ogni pausa di caricamento tra
gioco e narrazione, realizzata con l’avvio di animazioni lo streaming dei cui dati non è ancora completo. Ironico che il problema si risolva installando il
gioco su hard disk, possibilità concessa solo ai possessori di console modificate, e quindi esiliati dal
gioco in rete.
Circa la caratterizzazione stilistica degli scenari,
semplicemente non concordo con il mio collega.
Senza scomodare il paradisiaco stage lacustre,
nessuno degli scenari del primo Halo offriva scorci
più suggestivi della città terrestre di Halo 2, dello
stage apocalittico della Guerra dei 100.000 anni, di
Alta Opera con le sue superfici curve e i suoi cieli
solcati da terrificanti incrociatori, della verdeggiante
zona costiera percorsa dal fiume e ingioiellata da
strabilianti architetture. Certo, il primo stage è un
mezzo schifo… esattamente come lo fu l’esordio di
Combat Evolved a bordo della Pillar of Autumn.
È comunque nella muscolosità del gameplay che
Halo 2 non ha eguali. Superficiale relegarne i meriti
al prevedibilmente stratosferico multiplayer.
Impossibile isolarlo dall’immenso sostrato
tecnologico su cui si fonda. La solidità dell’insieme è
espressa dalla perfezione dei controlli, dalla
puntualità delle collisioni, dal peso delle animazioni,
dalla stabilità del frame rate, dai risvolti della mai
abbastanza apprezzata combinazione di granate e
arma in uso, ora affiancata alle possibilità introdotte
dal dual wielding in fatto di frequenza, continuità e
abbinamenti di fuoco. Il tutto sorretto da sofisticati
equilibri figli di un testing certosino, mirato ad
assegnare a ciascuna arma un ruolo e un’efficacia
ponderati come parte di un più ampio e organico
arsenale. E da questo punto di vista non c’è HalfLife 2 che tenga, Halo 2 è la traduzione in
videogioco della più selvaggia e xenofoba cultura
americana del piombo: pressoché assente nei
messaggi, pressoché inarrivabile nelle sensazioni.
VOTO:
SABCD
<25>
SISTEMA PS2 VERSIONE NTSC/USA SVILUPPATORE KONAMI JPN ETICHETTA KONAMI MULTIPLAYER NO
REPTILE CRESCENDO <metal gear solid 3: snake eater>
di Nemesis Divina
L
’essere controverso sembra ormai caratteristica
propria dell’uomo che di nome fa Hideo.
La controversia calza il designer come un vestito
su misura, e non stupisce, perché l’abito è frutto
della premiata sartoria Kojima e perché lui nemmeno ci prova, ad essere ‘normale’.
Kojima Uomo, prima ancora di Kojima Director,
gioca e gioisce con Metal Gear Solid 3, dove a suo
tempo aveva giocato e gioito con Metal Gear Solid
2. Prende il videogioco, Kojima, lo plasma, lo fa a
pezzi e lo ricompone in forme nuove e belle. E noi
con lui, durante il gioco cerchiamo di rimettere insieme i pezzi del puzzle sparpagliato a video, un
rompicapo fatto di rimandi, citazioni, segreti, intuizioni, e poi regole e azioni, che sono corpo e cuore
del giocare.
Con MGS2: Sons of Liberty Kojima proseguiva
un discorso creativo che nella sua carriera appare
ininterrotto e ascendente, intraprendendo un sentiero mentale arrovellato, un’ammucchiata di temi e
strumenti narrativi culminante dei Patriots, nel GW e
in Raiden. Indimenticabile Raiden.
Chi scrive ora, sosteneva e sostiene che arrivati
a MGS2 si possa solo scendere, dopo. L’invalicabilità
della perfezione è un legaccio logico che nemmeno
gli dèi sanno sciogliere, ma Kojima è figlio di una
cultura tanto apparentemente statica in superficie,
quanto tumultuosa nelle viscere. E così è dietro
l’angolo il ‘ribaltone’, e dove prima trovava posto
una poderosa sega mentale, oggi assistiamo ad una
sontuosa fellatio ludica. Con ingoio.
MGS3, è bene anticiparlo, è un calcio in bocca a
chi “Kojima dovrebbe fare (solo) i film”, perché con
questo titolo lo schermo è invaso dal piacere giocoso
della scoperta di nuovi modi di confrontarsi con
l’avversario, tanto umano quanto ambientale.
Da quanto anticipato negli interminabili video di
presentazione, le premesse di un nuovo modo di
intendere lo stealth game c’erano tutte: nuova ambientazione, nuove azioni, nuovi scopi. La rinnovata
dimensione ludica, fatta di distese boschive, è un
palcoscenico perfetto per un stealth game hardcore,
dove ogni passo va pianificato e mosso con perizia.
L’improvvisazione è sconsigliabile, l’approssimazione
sempre punita.
Al contesto verdeggiante, si sposano soluzioni
ispirate, per quanto in primo luogo impopolari.
L’ampiezza delle locazioni, ben più spaziose degli
angusti anfratti del Tanker di MGS2 o della Shadow
Moses di MGS, produce una vertigine sensoriale che
rende spaesati, insicuri. La gestione della telecamere, a tutta prima cervellotica e inadeguata, non
fa che trasmettere al giocatore il dubbio e la tensione del non sapere dove sbattere il naso. Con la
pratica, però, si inizia a padroneggiare la funzione
dello stick destro, che orienta l’inquadratura verso
uno dei punti cardinali, e ancor di più si apprezza il
ruolo del tasto R3, che congela la visuale nella posizione prescelta. In questo modo è possibile muoversi, sempre guardinghi, dirigendo l’attenzione
verso la zona in cui si prevede il massimo rischio.
L’inusuale regia manuale, unitamente all’assenza
dello storico radar, rende indispensabile la strumentazione in dotazione. Il rilevatore di movimento
è in questo senso una manna dal Cielo Tecnologico,
una manna che però non indennizza dalle incognite
e dagli abbagli: una sentinella ferma
<26>
Nonostante filmati e screenshot diffusi abbiano privilegiato il
contesto arboreo, MGS3 offre diversi interni di edifici da
ripulire a suon di piombo o bypassare nel silenzio delle ombre. Non mancano gli elementi interagibili: le trappole, gli
immancabili bidoni esplosivi e persino interruttori
dell’allarme generale. Per veri masochisti.
sul posto non sarà segnalata, al contrario di un animale che striscia nei paraggi (o cammina, o vola).
L’uso combinato degli strumenti di rilevazione si fa
dunque necessità, non opzione. Il sonar individua
tutti gli ostacoli all’onda sonora, anche se fissi, ma il
suono emesso può destare il sospetto di unità nemiche limitrofe. Il rilevatore di battiti cardiaci segnala
l’inconfondibile avvicinamento di un soldato (ma non
la sua posizione), mentre il visore termico può evidenziare una sentinella appostata nel fogliame. Le
soluzioni sono numerose e vanno prese sempre in
attenta considerazione dacché la principale innovazione del gioco, il Camo Index, permette di confondersi nell’ambiente circostante ma non impedisce
certo ai nemici di fare altrettanto.
Nei boschi, i soldati si confondono fra il verde, le
loro divise olivastre si perdono nei contorni erbosi e
non è mai prudente buttarsi a testa bassa lungo i
sentieri nemici. Il Camo Index, in relazione alla divisa mimetica selezionata, segnala la percentuale di
mimetizzazione e invita a nascondersi sullo sfondo,
naturale o artificiale che sia. Tutt’altro che accessoria, una buona scelta cromatica può consentire di
passare inosservati anche a pochi metri di distanza,
o di infiltrarsi non visti fra le file nemiche, magari
usufruendo di un travestimento appropriato…
La noia dell’andirivieni fra i vari menu per la selezione delle divise, è purtroppo concreta e solo relativamente lenita dalla concomitante necessità di
risistemare l’equipaggiamento, curarsi e rifocillarsi a
cadenze periodiche. MGS3 introduce sostanziali novità nella saga, come appunto l’alimentazione e la
cura delle ferite. Senza scendere in dettagli superflui, va detto che troppo spesso si ha la sensazione
che queste caratteristiche appesantiscano eccessivamente il tono ludico, obbligati come siamo a ricorrere a periodici spuntini (pena un rumoroso
brontolio di stomaco) e alla cure delle ferite riportate
in battaglia (pena il progressivo decremento
dell’energia). Cura e nutrimento assumono identità
quasi proprie, con caratteristiche da mini-gioco che
stridono e gravano su di un ritmo di gioco già volutamente lento, riflessivo. Non che si tratti di istanze
del tutto pretestuose, solo non rappresentano
l’evoluzione in direzione realistica che qualcuno auspicava, dato che Snake si rimpinza ogni dieci minuti e può assestare una costola incrinata, o estrarre
un proiettile nella coscia, nel bel mezzo di un furente
scontro a fuoco. D’altronde è noto che il realismo a
tutti i costi non sia mai stato obiettivo o prerogativa
della serie.
La mole di strumenti che Kojima offre al giocatore ha pochi eguali, e saranno necessari numerosi
replay per farsi solo un’idea delle possibilità offerte.
Una granata fumogena si rivela incredibilmente utile
per depistare avversari e boss (ma attenti, se vi
buttate in mezzo alle volute di fumo tossirete, rivelando la vostra posizione), sono ancora presenti le
riviste per adulti e i caricatori vuoti per distrarre le
guardie, è possibile picchiettare sui muri così come
avvalersi di cibi avvelenati (o marci, poiché rimasti
troppo a lungo nello zaino) per danneggiare gli avversari. Ma è solo l’inizio, perché MGS3 trabocca di
eventualità inusuali e non, dettagli messi per il fan
più esigente o per il giocatore che ama ‘forzare il
gioco’, senza trascurare chi vuole solo divertirsi.
Il più grande pregio di MGS3, e il più grande
pregio di questo nuovo Kojima, è probabilmente la
capacità di sintetizzare l’opera del designer senza
gravare sul giocatore. In MGS3 è presente una cifra
ludica inedita alla serie, c’è tutto quello che c’è sempre stato e di più. Chi vuole affrontare il gioco come
un tiro a segno può farlo, chi vuole concludere la
missione con meno di dieci morti sulla coscienza può
farlo. Chi vuole puntare dritto al filmato finale trova
via libera, chi preferisce trascorrere un paio d’ore
nello scontro con un solo boss, può fare anche questo.
MGS3 è l’amplificazione del primo glorioso MGS
per PSone. Ma ancora, il nuovo Kojima, così come il
nuovo Metal Gear, cresce anche sotto il profilo narrativo: dove MGS2 affrontava il giocatore con una
struttura ipertrofica, indigesta ai più, MGS3 è la
sintesi della narrazione. Come per la parte giocata,
la storia si piega ai voleri e alle necessità di chi
gioca. Introduzione ed epilogo esclusi, i filmati sono
rari e tutt’altro che asfissianti, spesso farciti di galvanizzanti scene d’azione; i dialoghi via radio perdono l’ossessiva cadenza di MGS2, trasformandosi
in opzionale occasione di indagine per gli interessati,
e saltuaria occorrenza per chi si trova arenato in un
determinato frangente di gioco. Ma è soprattutto
l’intreccio a stupire per la propria versatilità. Per chi
non cerca nulla più che intrattenimento, MGS3 offre
solo quello, con una spy-story canonica, degna di
uno 007 al pari del sublime tema musicale che accompagna i titoli di testa. Tradimenti accennati,
complotti mai troppo imprevedibili, cattivi totali e
buoni alla morte.
Per quanti invece desiderano andare a fondo e
conoscono la timeline della saga come le proprie tasche sdrucite… per questi, MGS3 spalanca una serie
di interpretazioni e prospettive interessanti, che non
esauriremo certo in un singolo approfondimento (su
Ring, dopo l’uscita dell’edizione PAL).
L’indagine di ulteriori dettagli narrativi, è la scintilla che impone una seconda tornata di gioco, peraltro incentivata dalla qualità dell’impianto ludico e
dall’obesa offerta di contenuti ulteriormente investigabili. L’approfondimento delle tecniche CQC (close
quarter combat - il combattimento corpo a corpo)
spalanca una serie di nuove opportunità, come immobilizzare i soldati per usarli come scudo umano,
oppure interrogarli per sbloccare alcuni dei
tanti segreti sparsi per il gioco. La superiore conoscenza dei luoghi e delle tecniche di infiltrazione
L’elusione della sorveglianza passa dallo studio paziente
dei pattern di pattugliamento all’applicazione di manovre
ardite. È sempre importante tenere conto dei rumori prodotti, innanzitutto strisciando anziché correndo, cosa che
rende indispensabile il ricorso al pad digitale in luogo dello
stick analogico.
Sorprendere, immobilizzare e nascondere i corpi dei
nemici è ancora esigenza di gioco, ma ancor più di prima,
l’essere scoperti si rivela un pericolo. Una volta avvistati,
l’Alert Mode scatta implacabile, ed il seguente Caution Mode
mantiene le guardie in allerta, spesso sino alla loro
completa neutralizzazione.
rende più fluente il ritmo di gioco e ammanta le
pause di appostamento, talvolta interminabili, di una
tensione tutta particolare che solo l’amante della
saga può apprezzare.
Per godere appieno di MGS3, purtroppo, è imperativo affrontarlo con il senno di poi. In questo,
Kojima fallisce un obiettivo importante per un
designer: offrire al giocatore gli strumenti necessari
a divertirsi e padroneggiare il gioco. La porzione iniziale è assolutamente incapace di assolvere esaustivamente la sua funzione di tutorial, e di fatto ci si
ritrova presto calati in una giungla ostile, in balìa di
un sistema di controllo schizofrenico illustrato solo
parzialmente (certo, esiste il manuale… ma chi mai
lo legge?). Certo, per via di una resistenza fisica di
Snake artificiosamente ingigantita, a livello normal il
gioco risulta accessibile anche all’utenza più fiacca,
ma proprio per questa ragione è buona cosa che il
giocatore esperto e l’appassionato facciano un po’ di
pratica con la difficoltà base e poi affrontino direttamente l’Hard Mode, più severo ed appagante.
Questo a patto che non apparteniate a quella tipologia di giocatori che rigiocano volentieri un titolo.
Ed è proprio la mancanza di pratica e l’ignoranza
delle molteplici forme di infiltrazione/attacco/difesa
che rendono il primo giro incompleto. Per questo
<27>
sante, e non si alleggerirà con i titoli di coda, perché
riteniamo che almeno un replay di MGS3 non sia
riteniamo
chesolo
almeno
un replay
di MGS3
fa- vorrete
conancora.
i titoli di
coda, più
perché
ne evorrete
ancora. Vorrete
Vorrete
gioco,
per questo
facoltativo,
in quanto
alla seconda
tornata
si non sia ne
coltativo, in quanto
allaalla
seconda
tornata si svela
più gioco,il esalvataggio
per questoofferto
basterà
riprende
salvatagbasterà riprende
alla
fine, e ilpiù
svela completamente
il geniosolo
dietro
macchina.
completamente
il genio
dietro alla macchina.
D’altra
fine, e più
storia,oealle
per nostre
questa ricorstoria, e gio
perofferto
questaalla
ricorrerete
ai forum
D’altra parte,
questi sintomi
di incompiutezza
posparte, questi
sintomidell’approfondimento,
di incompiutezza possono infarerete ai forum o alle nostre future disamine.
future disamine.
sono infastidire
i non amanti
stidire
i noncolpo
amanti
è un capolavoro,
Un capolavoro
che,
MGS3 è MGS3
un capolavoro,
vero. Unvero.
capolavoro
che,
assestando
un duro
alladell’approfondimento,
generale apprezzabi- assestando un duro colpo alla generale apprezzabilità comunque,
del
comunque,
può di
sperare
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sperare
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titolo.
prezzato
da Un
tutti.
Un capolavoro
a cui avvicinarsi con
apprezzato
da tutti.
capolavoro
a cui avvicinarsi
Parlare
oltre di MGS3 senza rovinare il gusto
Parlare
oltre di MGS3
senzadirvi
rovinare
il gusto della
riverenza
ma anche
decisione,
perché MGS3 è
con riverenza
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perché
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è impossibile.
Possiamo
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che affronteMGS3 è un
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che necessita
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d’essere domato
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probabile
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sé.
MGS3
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MGS3
nella categoria
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Design, del
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che potremmo
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severo,
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uno deglicategoria
stage piùBoss
poetici,
commoventi
edcalcherete
ispirati di uno degli
stage
più poetici,
commoventi
ed ispirati
di sempre,
che ameremo
quando saremo
noi
a dover raccocapire inma
principio
ma che ameremo
quando
saremo
sempre, vi
troverete
imprigionati
in un incubo
videtroverete
imprigionati
in un incubodivideoludico
a
gliere
la sua eredità
esperienze.
E di cui certanoi a dover
raccogliere
la suadieredità
di esperienze.
oludico avi
tutti
gli effetti,
farete la conoscenza
pertutti gli effetti,
farete
la conoscenza
personaggiE di cui certamente
mente piangeremo
la ‘morte’.
piangeremo
la ‘morte’.
sonaggi memorabili
e forse
piangerete
anche.diSul
memorabili
forse piangerete
finire, statene
certi, ile vostro
cuore saràanche.
un po’ Sul
pe- finire, statene certi, il vostro cuore sarà un po’ pesante, e non
si alleggerirà
VOTO:
SABCD
SMS RECENSIONI
DOES WATHEVER A SPIDER CAN
<spider-man 2>
LITTLE ANIMAL PEOPLE
<animal crossing>
Il prossimo sarà molto bello.
Ottimo per chi si diverte con niente.
VOTO:
SABCD
VOTO:
~
~
SECONDO GIOVANNI <viewtiful joe 2>
-_-‘
Same of the same.
Abbastanza rotfl, nella sua inconsistenza.
VOTO:
SABCD
<leisure suit larry: magna cum laude>
VOTO:
~
SABCD
~
ALIEN SLUG <alien hominid>
YO BRO! <def jam: fight for ny>
Più che riflessi, ci vuole memoria.
Consigliato, anche se non siete neri.
VOTO:
SABCD
~
VOTO:
SABCD
~
DEJA VU <blinx 2: masters of time and space>
AZZ! <otogi 2: immortal warriors>
Una perdita di tempo (e spazio).
Premi un tasto ed esplode l’universo.
VOTO:
<28>
SABCD
SABCD
VOTO:
SABCD
SISTEMA PS2, XBOX VERSIONE PAL SVILUPPATORE UBISOFT MONTRÈAL ETICHETTA UBISOFT MULTIPLAYER NO
PRINCE AND PREJUDICE <POP: spirito guerriero>
di Cryu
S
trano destino quello del Principe a 128 bit.
L’esordio è stato valido, ma ampiamente
sopravvalutato, complice la magra stagione natalizia
2003, quando era facile spiccare in un panorama
software privato dei grandi nomi dell’industria, quasi
tutti impegnati nello sviluppo dei titoli da pubblicarsi
l’anno seguente. Eppure la critica, affascinata
dall’atmosfera esotica, dalla fluidità dell’azione e
dalle invenzioni ludiche e narrative legate alle Sabbie del Tempo, sorvolò su vistose lacune, quali un
sistema di combattimento banale e intollerabile già
nel brevissimo periodo, un level design che solo
nell’ultimo terzo di gioco prendeva coscienza delle
proprie possibilità, una regia inadeguata alle dinamiche degli scontri e una battaglia finale così scialba
come non se ne ricordano a memoria di videogiocatore.
Archiviato il successo di critica e le dignitose
vendite del primo episodio, Spirito Guerriero si
profilava sotto i migliori auspici, forte del know how
maturato dal suo team nello sviluppo de Le Sabbie
del Tempo. Questo fino al giorno in cui furono diffusi i primi dettagli sul rinnovato look che avrebbe
assunto il Principe per meglio allinearsi ai trend del
mercato attuale. Ambientazione dark, rifornita dose
di gore, character design maschile ispirato al cliché
del bel tenebroso e femminile all’insegna della curva
pericolosa. Tanto è bastato a molti sedicenti appassionati per bollare subito il tutto come il risultato
della prostituzione al mass market di uno dei titoli
più genuini di questa generazione. “I am the architect of my own destruction”, recita un affranto Principe a metà della sua nuova avventura. I prevenuti
annuiscono maliziosi.
E in effetti sì, molte scelte di stile paiono piegate
in una direzione forzatamente diversa da quella seguita in Le Sabbie del Tempo: schermate di caricamento grondanti sangue, linguaggio “adulto” e
improbabili schitarrate metal a incorniciare l’azione.
Tuttavia, appurata la gratuità di questi dettagli nonché la superficialità di altri (si può bere l’acqua di
mare…), è sufficiente scostare il velo del pregiudizio
per scoprire la verità che in fondo era lecito aspettarsi sin dal principio: Spirito Guerriero risolve
quasi ogni lacuna del primo gioco e si impone come
il miglior action/platform sulla piazza.
In apparenza rimpolpato nelle opzioni ma non
nella sostanza, con la pratica il sistema di combattimento si scopre dopato da una galvanizzante iniezione stylish. Sottrarre le armi agli avversari (sconfitti e non) per impugnarne due alla volta spalanca
le porte a un nutrito repertorio di combo, che in abbinamento alle prese e alle tecniche volanti propiziate dal wall running soddisfa a più riprese la fantasia marziale del giocatore. Ora scavalcare in volo un
avversario può risolversi con una proiezione da
judoka a scaraventarlo in un baratro, con un imprevedibile furto di arma con cui procedere alla sua
eliminazione, con una decapitazione mediante
l’utilizzo a forbice di entrambe le lame brandite. La
lezione di Ninja Gaiden e Soul Calibur II, benché
non ancora assimilata nella resa dei pesi in gioco, è
stata senz’altro recepita in Ubisoft, che ha implementato contrattacchi sulla falsariga delle contromosse di Ryo Hayabusa, decisivi nei ripetuti confronti con quella che pare una sosia di Ivy imbevuta
di tecniche Cervantine. In odore di titoli di coda, i
Alcune già splendide architetture traggono ulteriore fascino da un sapiente uso del colore e della luce solare simulata. Anche la loro posizione geografica sull’Isola del
Tempo sembra rispondere a precise esigenze scenografiche.
XBOX VS PS2
Più solida nel frame rate, più compatta nella resa
solida nel
frame rate,
più compatta
nella resa
di di
diPiù
contorni
e superfici,
graziata
da esclusivi
effetti
contorni erendering:
superfici, graziata
da esclusivi
effettiil di
multipass
la versione
Xbox vince
conmultipass rendering: la versione Xbox vince il confronto
senza tuttavia stravincerlo. L’impressione è
fronto senza tuttavia stravincerlo. L’impressione è
quella di un’immagine più naturale e cinematica, ma
quella di un’immagine più naturale e cinematica, ma
leggermente meno contrastata rispetto alla controleggermente meno contrastata rispetto alla controparte
decifrazionedegli
degliscenari
scenari
più
teneparte PS2.
PS2. La
La decifrazione
più
tenebrosi
brosi
risulta
pertanto
immediata,
quella frarisulta
pertanto
meno meno
immediata,
e quellaefrazione
di
zione
di secondo
in più
spesa nell’individuazione
di
secondo
in più spesa
nell’individuazione
di un
un
appiglio
nella
penombra
talvolta
costare
la
appiglio
nella
penombra
può può
talvolta
costare
la
ripetizione
una lunga
lungaporzione
porzionedidistage.
stage.
Xbox
ripetizione di una
SuSu
Xbox
figurano
due trascurabili
trascurabilimodalità
modalità
online
figurano anche
anche due
online
di di
time attack,
attack, l’una
l’una finalizzata
centotime
finalizzataalalsuperamento
superamento
centometristico di percorsi
sterminio
metristico
percorsi platform,
platform,l'altra
l'altraallo
allo
sterminio
orde di
di avversari.
avversari. II tempi
giocatori
didiorde
tempiottenuti
ottenutidai
dai
giocatori
connessi al
al servizio
servizio Live
in in
una
connessi
Livesono
sonopoi
poiraccolti
raccolti
una
classifica. Non
Non chiamatelo
per
favore.
classifica.
chiamatelo'multiplayer',
'multiplayer',
per
favore.
poteri dalle Sabbie regalano anche momenti di sudata onnipotenza, con i già noti rewind del tempo e
slow down dei nemici completati da un'inedita abilità
berserk, entro la quale governare il Principe a velocità flash mentre lo schermo è invaso da un abbaglio
cremisi. Viewtiful Prince.
Pur senza eguagliare i risultati conseguiti dai
mostri sacri del genere, le battaglie di Spirito
Guerriero hanno guadagnato in spessore e valore
ricreativo, esorcizzando lo sconforto che ne Le Sabbie del Tempo faceva capolino ogniqualvolta
l’esplorazione venisse interrotta dall’ennesimo scontro insapore. Menzione d’onore per i boss, praticamente assenti in passato e qui introdotti con successo, battendo sul tempo Wanda and the Colossus nell’inaugurazione dello spettacolare sport del
“boss climbing”. Non solo: il Dahaka, la tentacolare
creatura ombra che dà la caccia al Principe sin dal
FMV d’apertura, arricchisce le sezioni platform più
istintive di un adrenalinico senso di urgenza, obbligando a dare continuità alle acrobazie necessarie a
raggiungere ogni zona franca.
In ambito di level design, Le Sabbie del Tempo
aveva suscitato l’impressione che la divisione
canadese di Ubisoft avesse appreso nel corso dello
<29>
sviluppo le cognizioni necessarie a esprimere il
proprio talento. Non per nulla la scalata della Torre
Aurora nelle ultime battute entusiasmava assai più
delle prime posticce location, la cui architettura denunciava un’estetica incerta e una progettazione
pretestuosamente asservita alla risoluzione di suggeriti puzzle ambientali. Spirito Guerriero, dal
canto suo, si comporta quasi al contrario, mostrando subito i muscoli per poi arrivare sfiatato
alla seconda metà di gioco. Esaurito da pochi minuti un tutorial dalla dubbia efficacia (come palesa
il duello con cui si conclude), la monumentale facciata della fortezza in cui furono create le Sabbie
del Tempo si impone a video da una vertiginosa
prospettiva dal basso: di qui in avanti sarà
un’altalena di vedute dimenticabili e panorami
sbalorditivi, tra i quali rifulgono i piani alti della
Torre Giardino, che meriterebbe di venire ricordata
insieme alle Rovine Chozo di Metroid Prime come
il documento di level design più preciso di questa
generazione hardware.
Parlando di stile, le forme e le tinte dell’arte
islamica si sono sposate a elementi gotici arcaici,
steampunk, romani e delle fortificazioni del medioevo europeo, producendo abbinamenti arditi,
dall’esito estetico alterno nonché significativamente
più cupo e occidentale rispetto al persianissimo
predecessore. Conforta però che alle cadute di stile
architettonico non corrispondano altrettanto banali
fasi platform, che da parte loro si mantengono
sempre su buoni livelli.
Rispetto al gioco dell’anno passato l’architettura
meglio dissimula la propria sottomissione al game
design, ricercando dignità e credibilità autonome.
Gli architetti all’ascolto storceranno il naso di fronte
a edifici i cui muri portanti sono inutilmente spalleggiati da archi rampanti, per di più poggiati su
colonnine anziché contrafforti, ma piace che ora gli
ambienti all’aperto siano più ampi, asimmetrici,
addirittura selvatici a una prima occhiata, e meraviglia scoprire gli intuitivi pattern di risoluzione attorno ai quali sono stati eretti.
Al contrario del palazzo de Le Sabbie del
Tempo, ideato per la percorrenza lineare degli
spazi compresi tra il piano terra e la sommità, il
seguito si svolge su di un'isola edificata in maniera
più organica, collegandone le parti con una fitta
rete di arterie. Ciò non vuole tradursi in una maggiore libertà di esplorazione, che in ambienti di simili dimensioni e complessità si sarebbe risolta nel
disorientamento, quanto nella rivisitabilità degli
stessi luoghi mantenendo il backtracking entro i
limiti di guardia. I detrattori della retro-esplorazione lamenteranno comunque, e a ragione, minuti
di intrattenimento riciclato, ma in difesa di Ubisoft
Montréal depongono la continua integrazione dei
segmenti di strada già percorsi ad altri insondati, e
lo stupore mentale per la comprensione del mosaico geografico ogni volta che una lunga peregrinazione si conclude con il riaffacciarsi a panorami
noti, ma da prospettive opposte e vie traverse. La
fluidità della deambulazione beneficia poi di due
novità: i drappi aggrappati ai quali scivolare verticalmente a mo’ di pertica, e l’intelligente riconsiderazione delle funi, ora collocate a ridosso delle
pareti così da oscillare in due sole direzioni, lungo
le quali prodursi in tarzaneschi wall run.
La bellezza dei complessi più indovinati è valorizzata da una regia che da Le Sabbie del Tempo
ha compiuto passi da gigante. Le disfunzioni che
affliggevano le riprese dei combattimenti sono
state risolte, ed essi risultano ora godibili sia dalla
<30>
visuale dinamica standard che dalle inquadrature
predefinite regolabili nello zoom. È in questi scorci
che la perfezionata regia virtuale dà il massimo,
prendendo le distanze dai dettami di ripresa cinematografica per accostarsi a quelli della fotografia
vera e propria. Le inquadrature fisse, spesso adottabili durante il movimento oltre che nello studio
ambientale, colgono sempre la prospettiva più suggestiva ammiccando al contempo alla direzione in
cui proseguire. Si tratta di un lavoro encomiabile, i
cui germogli erano già ravvisabili nel gioco dello
scorso anno, ma che solo ora può dirsi emancipato
rispetto alla regia artistica di quell’Ico che ne
aveva gettato i semi.
Dove Spirito Guerriero fallisce è
nell’accompagnamento audio. Al di là dell’opinabile
gusto dei temi musicali e dei ricorrenti bug nella
riproduzione di tracce ed effetti, è il puro sound
design a dimostrarsi inadeguato. A seconda della
situazione, la CPU si limita a riprodurre un certo
brano, mentre durante i combattimenti vengono
ripetute estemporanee (e in italiano molto mal recitate) battute di sfida, difficili da credersi pronunciate dai personaggi in scena. Più in generale, è
sempre immediatamente percepibile l’ingresso
della componente audio nel giocato, laddove i migliori interpreti dell’audio legato ai VG hanno insegnato a incorporare il sonoro in modo da farne un
elemento invisibile, inseparabile dall’esperienza ludica complessiva.
La narrazione è imperniata su due colpi di
scena, telefonato il primo ma brillante il secondo,
responsabile di gradevoli incastri spazio-temporali;
sono molto migliorate la regia e la qualità dei FMV,
peccato che lo storytelling non benefici più di raffinatezze quali gli ingannevoli flashback che ne Le
Sabbie del Tempo prefiguravano avvenimenti
nefasti poi mai verificatisi. In compenso prima della
fine ci sarà tempo per un'irriverente citazione tolkieniana. La duplicità dello stesso scenario da percorrere in epoche diverse aggiunge invece una consistenza tutta Zeldiana all’avventura, la cui longevità risulta artificiosamente dilatata dall’avara distribuzione dei checkpoint nella fase centrale
dell’esperienza. Avremmo barattato volentieri due
ore di gioco con una mezzora di frustrazione in
meno. Il computo delle ore necessarie ad arrivare
in fondo si arresta comunque poco sopra le dodici;
giova pertanto la presenza di un più gratificante
finale alternativo, senza una guida difficilmente imboccabile alla prima tornata.
A tratti superbo, complessivamente all’altezza e
dozzinale in aspetti perlopiù marginali, Prince of
Persia è ancora un gioco dal sapore onirico, magico. Solo, questa volta si tratta di magia nera. I
primi dati di vendita stanno dando ragione a Ubisoft, eppure qualche fan de Le Sabbie del Tempo
potrebbe non riuscire a gradire quello che è
senz’altro un prodotto migliore del suo predecessore.
Strano destino quello del Principe a 128 bit.
Non c’è da sorprendersi che in Spirito Guerriero voglia tornare indietro nel tempo per cambiarlo.
VOTO:
SABCD
SISTEMA PS2 SVILUPPATORE GUERRILLA ETICHETTA SCEI VERSIONE PAL MULTIPLAYER 2-16 ONLINE
HELGHASTBUSTERS <killzone>
di Cryu
K
illzone è qualcosa di nuovo ma non troppo.
Non è l’FPS acrobatico del frag propiziato da
una manovra di clearing con salto mortale all’indietro,
e non costituisce nemmeno l’ennesimo risultato della
deriva tattico-simulativa del genere shooter (vedi
Operation Flashpoint e Rainbow Six).
Killzone è un FPS di trincea, perlomeno a patto
che si fuggano gli inconsistenti livelli di difficoltà facile
e normale. Loro di là, e noantri deqquà, questo il leit
motiv situazionale proposto. Se memori dei livelli di
Alta Opera in Halo 2 provate ad abbandonare una
posizione sicura per rincorrere a perdifiato l’uscita del
livello, una trapunta di piombo cucita da ogni dove vi
si ricamerà addosso. Se forti della sicurezza maturata
in anni di shooting in multiplayer tenterete la via
dell’incursione agile e selvaggia, saranno l’assenza
del salto e il frame rate a tratti imbarazzante a imbrigliare la vostra azione, limitando drasticamente lo
spettro di manovre evasive e le percentuali di colpi a
bersaglio.
No, Killzone, non si gioca né correndo né saltando. Si gioca da accucciati. Saranno i vostri tre
compagni di squadra a darvi per primi l’esempio. È
una prova di nervi, vissuta nell’attesa che l’AI del
nemico si dimentichi un braccio o una testa fuori da
un riparo, nel silenzioso incedere attraverso fitte
mangrovie con i polpacci immersi nell’acquitrino che
le alimenta, nella continua ricerca di un nuovo scudo
ambientale dal fuoco rettilineo nemico… nella speranza di non venire stanati dalla traiettoria parabolica
di una granata. Giocandosi in un clima ricreativo così
delicato, Killzone regge finché sorretto dalla varietà
di situazioni, dalla sua schiacciante atmosfera plumbea, dall’immedesimazione innescata dai trascorsi dei
suoi protagonisti. Ma laddove abbassa la guardia con
situazioni di battaglia poco stimolanti, interni poco
ispirati, frangenti narrativi più blandi, Killzone (e con
lui il giocatore) esce dalla trincea, sopraffatto dalla
pulsione di bruciare le tappe verso la fine di una missione poco gradita. E allora Killzone crolla, sotto i
colpi del nemico, certo, ma soprattutto di un motore
grafico e di un gameplay che non sanno prescindere
da tempi e modi all’insegna della calma. Poco sorprende la scarsa godibilità del multiplayer, forzatamente accelerato dai tipici ritmi del deathmatch. La
campagna in single player, dal canto suo, si gioca
invece lungo il pericoloso confine tra l’intrigo innescato da una suggestiva guerra di nervi e il suo degenerare nella routine del trial and error. Vive della
pazienza che incoraggia generando tensione e muore
nell’istante in cui l’istinto annoiato prevale sul buon
senso militare. Fuori dalla trincea Killzone cessa di
essere quell’esperienza coinvolgente, spettacolare e
inedita che si vanta a ragione di saper regalare, per
scoprirsi nudo in quello che è ma fa di tutto per non
sembrare: un FPS molto lineare innervosito dai bug
dell’AI e oppresso da un motore grafico da codice
beta.
Perché parallelamente alla guerra tra i terrestri e
gli spettrali Helghast, Killzone ne racconta un’altra,
combattuta fra tutt’altri schieramenti. Da una parte
un design senza pari, che scava imponenti spaccati
urbani futuristici e ricalca la fotografia più toccante
delle guerre del secolo andato. Al suo fianco una
narrazione convenzionale che si liquida in un finale
tiepido come pochi, ma interpretata dai volti giusti,
NAZISTI ARTIFICIALI
Chiaramente ispirati alle milizie del Terzo Reich, gli
Helghast obbediscono a routine di AI che riproducono
sofisticati comportamenti tattici, come l’ossessiva ricerca di un riparo in condizioni di inferiorità di fuoco,
disorientanti scambi di posizione e pazienti attese
che da dietro la barricata sia il giocatore a fare la
prima mossa. Tuttavia il realismo è messo alle corde
da qualche bug di troppo e dalle concessioni a una
giocabilità altrimenti impossibile. Gli Helghast si
preoccupano più di aderire all’elemento ambientale
che offrirà loro protezione che di verificare
l’impenetrabilità della linea d’aria che ne collega ogni
arto ai fucili avversari. Con la scusa di avvisare i
commilitoni, allertano il giocatore ogniqualvolta lo
facciano bersaglio di una granata. Frequentemente,
capiterà di fissarli negli occhi per qualche pigro secondo prima che si decidano a esplodere il colpo in
canna. Più di rado è possibile sorprendere un Helghast in trincea rivolto nella direzione opposta rispetto alla squadra condotta dal giocatore,
instillando il dubbio che stia in realtà giocando con
qualcun altro.
Per sperimentare la massima reattività dei soldati
governati dalla CPU provate invece a riempire di bot
una delle favolose arene della modalità ‘Campi di
battaglia’ settando il livello di difficoltà difficile. E il
multiplayer online diventa single player offline.
che ad eccezione degli stereotipati Rico e Adams incorniciano la storia in una dimensione umana concretissima. E ancora il sonoro, che pur patendo le ripetitive cantilene dei PNG esplode i colpi più terrificanti
mai prodotti dal chip audio di una console (provate la
prima missione con cuffia e volume al massimo).
Dall’altro lato della barricata incalzano però un gioco
fatto più di momenti che di meccaniche, quell’hype da
Halo-killer che da mesi riecheggia nell’ambiente e
che alla prova dei fatti ha motivato i facili umorismi
dell’utenza Xbox, e infine una realizzazione tecnica
con picchiate di performance tali da sollevare preoccupazione per la frequenza con cui i publisher tendono ormai a rilasciare prodotti vistosamente incompleti. E se da una parte in Ring non possiamo che
plaudire lo stile e il carattere che Guerrilla ha saputo
infondere nella sua personalissima epica sci-fi,
dall’altro iniziamo a provare rigetto per la dilagante
moda della commercializzazione dei preview code.
VOTO:
SABCD
<31>
SISTEMA PS2 VERSIONE PAL SVILUPPATORE INSOMNIAC ETICHETTA SCEI MULTIPLAYER 2-4 S.C., 2-16 ONLINE
MASTER CHIEF IN WONDERLAND <ratchet & clank 3>
di Cryu
I
l platform e lo sparatutto sono due generi diversi.
Insomniac se n’è accorta con un gioco di ritardo.
Il secondo capitolo delle avventure di Ratchet e
Clank aveva già preso le distanze dalla formula del
primo episodio, circoscrivendone la vena piattaformica a tutto vantaggio dell’azione blastatoria. Tuttavia, al di là di ulteriori limiti intrinseci che non interessa rammentare in questa sede, Ratchet &
Clank: Fuoco a Volontà non risolveva una contraddizione di fondo: si giocava come uno shooter
ma si controllava come il platform che non era più.
Ora, esistono ulteriori pregi di Ratchet & Clank
3 che non mancheremo di sottolineare in questa
sede, ma l’autentica rivoluzione che questo gioco
apporta alla serie non emergerà scandagliando ogni
anfratto dei 15 e più stage che lo compongono,
quanto accedendo alla schermata delle opzioni, e
selezionando tra i sistemi di controllo non quello
predefinito, non quello con visuale in prima persona
(consigliabile al più in un’eventuale seconda tornata), bensì quello indicato dalla criptica dicitura
“BLOCCO SPOSTAMENTO”. Di che si tratta? Controlli
FPS e visuale in terza persona inchiodata sul coppino
di Ratchet. Un altro gioco.
Laddove la pigra regia dei precedenti episodi faticava sempre a rincorrere le terga del nostro Lombax preferito, la nuova inquadratura non mancherà
mai di riprendere ciò che gli sta di fronte. Laddove
puntare bersagli posizionati ad altezze diverse aveva
sempre comportato l’affidarsi alle incertezze del
lock-on, ora un rapido colpetto allo stick destro
porterà nel mirino anche il nemico più imboscato. E
tutto senza nessuna routine di puntamento assistito
a sminuire i propri meriti balistici.
Iniziare l’avventura con i controlli standard e
cambiare in corsa dopo qualche livello rende manifesto il divario di performance conseguibili. Come
disfarsi dei tacchi a spillo solo al secondo set di una
partita di beach volley. Solo così R&C3 sarà libero di
svelarsi come lo sparatutto quasi perfetto che è, e
voi di sentirvi come Master Chief nel Paese dei Balocchi: sommersi in un oceano di nemici che esplodono come palloncini colorati punzecchiati da un ago
incandescente. POF, POF, POF.
R&C3 è distruzione soffice.
L’azione viene incanalata in due principali tipologie di livelli: quelli tradizionali, dalla meticolosa progettazione topografica e progressione suppergiù lineare, e le vaste arene in cui hanno luogo vere e
proprie battaglie, con Ratchet alla testa di un manipolo di buffi droidi pusillanimi incalzati da goffe armate mutanti. L’obiettivo in questi casi può spaziare
dalla protezione dei propri inetti commilitoni
all’annientamento di specifiche unità avversarie,
dalla distruzione di infrastrutture alla completa obliterazione dell’esercito nemico. Tutte situazioni che si
susseguono a completare una tavolozza di scenari
bellici con il gusto zuccherino dell’epica cartooneggiante.
L’anima del gameplay risiede ancora una volta
nel folle arsenale di Ratchet, rinnovato negli elementi, mutuabile dalle partite salvate nei precedenti
episodi, soggetto a tre upgrade evolutivi mediante
l’(ab)uso dell’arma interessata, e come sempre
completo, equilibrato, calibrato alla perfezione con
l’impennarsi della curva di difficoltà al prosieguo
dell’avventura. I fan apprezzeranno la ribadita car
<32>
La critica statunitense sembra impazzita per il
multiplayer online di R&C3. Benché forte di prestazioni
tecniche a 60fps del tutto esenti da lag, ci è parso invece
orfano dell’equazione alla base del grande divertimento che
regna nel single player, ovvero l’equilibrio tra la netta
(nettissima!) superiorità di fuoco del giocatore e la netta
(nettissima!!!) superiorità numerica degli avversari. Per far
fronte a esigenze di ordine, il multiplayer si trova costretto
a ridimensionare di molto il potenziale dell’arsenale in
dotazione, riducendo altresì i combattenti a un massimo di
otto, seppur sporadicamente supportati da coppie di BOT.
Abbiate pazienza, ma senza quel continuo “POF POF POF”,
Ratchet & Clank non è più la stessa cosa.
dinalità del cannone a risucchio, nonché il respawn
delle casse già aspirate qualora una sconfitta costringa alla ripetizione di una fase di gioco.
Preme sottolineare che i diversi sistemi di controllo e regia comportano riconsiderazioni negli usi
ed effetti delle singole armi, ponderati per massimizzarne l’efficacia a seconda della prospettiva e dei
comandi adottati. Se agitando la frusta energetica in
terza persona Ratchet compirà tre giri su sé stesso,
in visuale FPS la userà come un micidiale boomerang, cautelando il giocatore dal mal di mare che
innescherebbero le giravolte, e sopperendo con la
superiore gittata frontale alla mancata neutralizzazione degli avversari circostanti. Dettagli come questo forniscono indizi inequivocabili circa l’accuratezza
del testing che ha seguito l’inserimento delle nuove
opzioni di interfaccia.
Poco riuscita è invece l’implementazione dei
mezzi: l’astronave, capace di strafe e retromarcia,
non trasmette alcuna sensazione di volo, mentre la
buggy risulta sottosfruttata, in quanto ridotta a
compressore dei tempi di attraversamento delle
arene più vaste.
Di piacevolezza altalenante i sottogiochi che inframmezzano gli stage di shooting puro: spettacolari
i due pianeti-sfera, solo simpatico il mini-game del
Capitano Quark che scimmiotta i platform 2D
dell’era 16 bit, deprimenti le fasi alle redini di Clank
e banalmente stupida la ricerca dei cristalli di fogna.
Riguadagnate le sue proporzioni originali, inappropriatamente smagrite un anno fa, Ratchet si ripresenta in gran forma: il motore grafico è stato
perfezionato per non patire più la sporcizia che in
passato affliggeva i profili delle figure, e sfoggia ora
quel multipass rendering di cui si soffriva la mancanza osservando le opache superfici metalliche dei
precedenti episodi. La generalmente apprezzabile
qualità delle texture, l’impressionante estensione
verticale di certi ambienti, e la plasticità delle ani
mazioni di avversari anche di grossa taglia chiudono
la lista dei benefici tecnici di cui gode l’estetica di
R&C3. Ma la tecnologia a poco servirebbe se non
fosse supportata dall’estro, dalla fantasia e
dall’ispirata verve cromatica di cui in Fuoco a Volontà si erano perse le tracce, e che qui riaffiorano
in buona parte degli stage. Tra questi spiccano la
suggestiva foresta secolare di Florana e il “Luogo
dell’impatto”, con le sue delicate scelte cromatiche
all’insegna del violetto. Vistoso neo del comparto
grafico è invece l’approssimativa modellazione dei
personaggi comprimari, tra cui la volpina innamorata di Ratchet.
In ultima analisi, è con nostalgia che si ripensa
alle avventurose sezioni esplorative, ai vertiginosi
livelli su rotaia, ai gratificanti stage con protagonista
Clank, alle riuscite parentesi racing dei primi due
giochi. E in effetti è vero: ironia della sorte vuole
che questo, tra i tre capitoli della serie, sia forse il
meno vario e completo. Ma il più divertente.
Difficile lamentarsi.
VOTO:
Dopo un esordio di tutto rispetto, lo humour che
permea gli intermezzi narrativi subisce un progressivo
riallineamento con la trama, dal sapore decisamente
infantile. Fortuna vuole che il Capitano Quark si confermi un
mattatore della scena comica digitale, ricordando a più
riprese lo Zapp Brannigam di Futurama.
SABCD
ARTWORK!
Torna la rubrica tappabuchi più amata dagli
effeminati per segnalare “can’t HUE website”,
un ottimo sito di fan art dedicato ad uno dei
videogames più amati dai giocatori fondamentalisti e dagli esperti della cabbalah:
Ikaruga.
(Il link lo trovate a fondo pagina.)
http://www.aa.alpha-net.ne.jp/h8195/ikaruga.html
<33>
SISTEMA PS2 SVILUPPATORE NAUGHTY DOG ETICHETTA SCEE VERSIONE PAL MULTIPLAYER NO
PER UN PUGNO DI SABBIA <jak & daxter 3>
di Sator & Daxter
«J
ak, ragazzo mio, il futuro ci attende!»
Samos
Con queste parole il vegliardo Samos concludeva
il controverso Jak II: Renegade, mentre i fuochi
artificiali di un inevitabile lieto fine facevano da
sfondo ai titoli di coda. Un seguito era quindi
nell’aria, e non solo per le parole del nano ipertricotico, ma anche per i numerosi nodi narrativi rimasti
ancora da sciogliere, come la “questione Mar” (cfr.
indepth a pag.14). Certo è che non ci si aspettava
un periodo di sviluppo così breve, anche considerato
che Jak II era un prodotto ben lungi dalla perfezione…
«A questo punto sarebbe ora di parlare dei difetti
di Jak II: Renegade, ma sfortunatamente il titolo
Naughty Dog ne è quasi privo…»
Alberto Torgano, Nextgame
Alberto Torgano ha ragione: Jak II non aveva
grossi difetti. Il problema nasceva quando, andando
a controllare nel paniere dei pregi, si notava come
pure quest’ultimo fosse vuoto. Sembrava quasi che
Naughty Dog avesse fatto scendere in campo una
squadra di calcio fermamente determinata nella ricerca dello zero a zero. Un titolo che scorreva via
agile come un bicchiere di Ferrarelle, ma che non
lasciava niente di frizzante nella bocca del giocatore.
Ciononostante, Jak II è stato apprezzato da
molti. Del resto viviamo in un’epoca di passaggio, in
cui ci lasciamo impressionare fin troppo dal polygon
count e non guardiamo a ciò che questi benedetti
poligoni vanno a rappresentare. Ci beiamo dello
streaming dei dati e non capiamo che se gli ambienti
sono noiosi da percorrere, lo saranno anche eliminando i caricamenti tra una sezione e l’altra.
Fortunatamente non tutti caddero nella trappola
tesa dal cane arrabbiato, e un manipolo di recensori
con un minimo sindacale di gusto si resero conto
che…
«Jak II takes the best graphics engine on the
PS2 and makes it look ugly 70 percent of the time.»
Benjamin Turner, Gamespy
Ecco, la stessa cosa si può dire di Jak 3, che con
i suoi chilometri di fogne, le città costruite con il copia-incolla e i templi di una cultura architettonicamente antitetica ai Chozo, non fa niente per trapiantare nel giocatore il pollice dell’esploratore. No,
il mondo di Jak 3 non lo si esplora: lo si percorre. E
solo perché si è costretti a farlo. Del resto il gioco
sembra avere molta voglia di distoglierci dal continuo peregrinare da un punto A ad un punto B. In
pratica possiamo unicamente scegliere se soffermarci in alcuni punti C per eseguire delle missioncine simili alle ricerche delle monete blu di Super
Mario Sunshine. Esatto: prima Rubin critica
l’ultimo episodio di Mario, poi copia da esso il suo
aspetto più tedioso!
Tecnicamente, il motore grafico di Jak 3 fa bene
ciò che bene faceva il predecessore, con particolare
menzione per la resa delle superfici metalliche. Gli
effetti studiati appositamente per questo capitolo,
invece, lasciano un po’ a desiderare, come la tempesta di sabbia, realizzata piuttosto rozzamente.
<34>
Il tearing è diminuito, ma anche il frame rate si è
fatto più instabile in particolari momenti del gioco.
Ad esempio non si capisce se le fasi di corsa su degli
animali concettualmente simili agli Yoshi siano riprodotte a frame rate dimezzato o se si tratta soltanto di un effetto tremolante conferito alla macchina da presa virtuale. Certo è che il tutto è fastidioso.
Tolta l’esplorazione, non rimangono che le missioni. Il trend iniziato con Jak II è in questa sede
ribadito: le piattaforme sono sempre di meno, sacrificate sull’altare dell’action game duro & puro. Oh,
niente di male in tutto ciò. Basti pensare a quel
gioiellino di Ratchet & Clank 3. Il problema è che
contrariamente a Insomniac e al suo delicato lavoro
di tuning, Naughty Dog ha lavorato di quantità, ma
non di qualità. Se un armamentario di dodici armi
piuttosto diversificate tra loro può all’apparenza garantire una discreta profondità di gioco, una volta
scesi in campo ci renderemo conto che questa varietà serve a ben poco, visto che sono tutte identicamente letali e che i nemici non hanno risorse per
contrastare il nostro volume di fuoco, qualunque
esso sia. Finiremo con il passare da un’arma all’altra
solo una volta esauriti i caricatori, e non perché una
particolare situazione lo impone.
L’inutilità di Dark Jak nell’episodio precedente
trova qui la sua drammatica conferma. Certo, Dark
Jak può adesso lanciare una sfera di energia in
grado di abbattere i muri, ed è quindi fondamentale
in alcune missioni. Paradossalmente, però, è il gioco
a suggerire con un messaggio a schermo quando
usare tale tecnica, pertanto il tutto si riduce ad un
“aziona la leva/apri la porta”. Fatta salva questa didascalica operazione, vi ritroverete ad attivare il
Dark Jak solo per errore, quando invece volevate
richiamare la versione Light.
Novità di questo episodio, il Light Jak si rivela
senz’altro più utile. Purtroppo una delle abilità garantite da questa condizione è il ripristino della barra
di salute, e ciò va a completare l’opera di demolizione della difficoltà di gioco iniziata
dall’armamentario fuori scala.
Per fortuna, Jak non sarà sempre un pedone armato fino ai denti alle prese con un sistema fognario
più incasinato di Moria. Le critiche rivolte telefonicamente a Jason Rubin in uno dei precedenti numeri
di Ring hanno infatti sortito qualche effetto…
«[…] Spiegami piuttosto con quale dei tuoi due
piedi hai partorito il sistema di guida. Sai perché
guidare per le strade di Vice City è divertente, mentre volare per Haven City non lo è? Per la forza
d’attrito.»
«La che?»
«La forza d’attrito. È ciò che fa muovere i veicoli
e che ti fa compiere tutte quelle cose ganze come le
sgommate, i testacoda etc. Ora, tu con queste carriole volanti sostituisci l’attrito con l’inerzia. Ti sembra di aver fatto un’operazione intelligente? Hai mai
sentito qualcuno entusiasmarsi per il sistema di
guida di Asteroids?»
Dalla recensione di Jak II: Renegade, apparsa su Ring#09
Udite udite: Jak 3 ambienta una considerevole
parte delle sue missioni su mezzi dotati di ruote,
mossi da una signora forza d’attrito e più genericamente da una fisica molto ben realizzata! Il pretesto
narrativo per giustificare un simile cambiamento è
nell’incipit del gioco: Jak è stato esiliato da Haven
City, condannato a perire di stenti nel deserto. Sì,
col cavolo. Jak si risveglierà in un avamposto abitato
da altri esuli e diverrà ben presto una sorta di Mad
Max: formidabile pilota di dune buggy, indefesso
oppositore dei predoni del deserto (anch’essi motorizzati) e pronto a puntarti il coltello alla gola se gli
mancano mille lire dal borsello.
Naturalmente non si tratta di un cambiamento
radicale: i personaggi e la storia sono tutti mutuati
dal lavoro precedente, però l’ambientazione ha un
suo fascino e invoglia il giocatore a “vedere che cosa
c’è dopo”. Questo almeno fino al 40%
dell’avventura, punto in cui, nonostante le molte
dune buggy ancora da sbloccare, Jak sarà chiamato
ad esplorare un tunnel sotterraneo (e già qui moccoli) che conduce direttamente a… Haven City. E
l’incubo ritorna!
Certo, alcuni eventi hanno mutato in parte la geografia della metropoli: la cittadella sospesa è crollata, le teste di metallo hanno colonizzato un intero
quartiere, l’antica foresta ha adesso i colori
dell’autunno, ma la sensazione di riciclaggio di ambienti è nettissima, e chi di voi credeva che mai
nella vita avrebbe dovuto ripercorrere le banchine
del porto di Haven City, dovrà tenersi ad almeno
250 metri di distanza da Jak 3.
A livello di trama il ritorno alla Contea… pardon…
alla Città, non fa certo bene al titolo Naughty Dog,
che è infatti costretto a riprendere in mano le redini
della storia lasciate alla fine del prequel. Anche le
sottotrame più inutili. Nel corso dell’avventura Jak
non farà altro che incontrare vecchie conoscenze:
«Ehi, ciao Jak! Sono Sig/Torn/Tess. Ci siamo conosciuti in Jak II. Ti ricordi?» diranno questi volenterosi caratteristi.
«Er… Certo! Come hai detto che ti chiami?» risponderemo noi imbarazzati, visto che ovviamente
non possiamo ricordare personaggi tutti uguali e
narrativamente irrilevanti. Ma è proprio lo stile con
cui è raccontata la storia a risultare stucchevole:
Daxter è irritante nel suo continuo tentativo di alleggerire la situazione con smorfie e battute telefonate; Pecker è addirittura insopportabile, mentre Jak
si sputtana nello stereotipo del personaggio
cool/grunge a tal punto che nel finale, quando gli
eventi lo chiameranno ad una recitazione drammatica, non risulterà per niente credibile. E, badate,
non è marginale il fatto che personaggi e trama si
siano risolti in completi buchi nell’acqua. Prendiamo
ad esempio Conker’s Bad Fur Day. Il titolo Rare è
concettualmente molto simile agli ultimi
due Jak, soprattutto nella scelta di proporre un
enorme quantitativo di stili di gioco diversi. Ora,
Conker sarà ricordato negli anni per i suoi personaggi fuori di testa nonché per una trama geniale e
ricca di idee; Jak invece stiamo già cominciando a
dimenticarlo, nonostante alcuni commenti della
stampa specializzata a dir poco fuori di cavezza…
«If you like games, you'll buy this immediately
or we'll come to your house and beat you to death.»
Ivan Sulic, IGN
Sì, certo Ivan, verrai a casa nostra a picchiarci…
tu e quale esercito? Per fortuna non tutti i recensori
avevano la rata della macchina da pagare…
«Jak 3 isn't torture (that is to say, Blinx), but
there are better and much more cohesive
action/platformer experiences to be had right now.»
Benjamin Turner, Gamespy
Ma ci teniamo a concludere questa sagra delle
citazioni con un estratto di italica saggezza…
«Un passo indietro rispetto Jak II, due passi
indietro rispetto Jak & Daxter: continua la lenta
involuzione della saga realizzata da Naughty Dog. La
buona realizzazione tecnica non basta per tenere
assieme un gameplay disordinato.»
Roberto Corsaro, Punto Informatico
Il Re è nudo!
VOTO:
SABCD
<35>
SISTEMA XBOX SVILUPPATORE MICROSOFT ETICHETTA MICROSOFT VERSIONE JAP MULTIPLAYER 1-2
DUST IN THE WIND <phantom dust>
di Emalord
“Phantom Dust è Power Stone nel mondo di
Akira. Con il design di Panzer Dragoon…”
IL CIELO DI PANZER DRAGOON
S
e per giudicare un videogioco bastassero due
ore di prova su strada, Phantom Dust
avrebbe ricevuto un voto ben più gratificante di
quello posto a sigillo di questa recensione. Perché il
primo impatto, la sua arroganza stilistica, il suo essere sleeper con le palle [1] mi avevano fatto palpitare il cuore, e ritrovare quell’eccitazione che da
tempo i videogiochi non mi davano più.
Dopo due ore avrei urlato al mondo che di giochi
come questo ne vorrei uno al mese, che su giochi
come questo dovrebbero imbastire intere tesi di
laurea.
Alla terza ora di gioco mi sono dato una sana
grattata alle palle [2], mi sono fatto una doccia
bollente, e ho rivisto le mie convinzioni…
Phantom Dust è, per capirci, uno di quei giochi
che ti può restare dentro, oppure funzionare da ordinario riempitivo dell’attesa di qualche novità più
succosa. Questo perché il picchiaduro di Microsoft
Studios è costruito intorno ad una cultura ben specifica che si ama alla follia o si tollera con indifferenza.
Le radici in cui affonda sono quelle degli anime
giapponesi del design più stiloso, dei colori usati con
gusto, delle musiche che non ti aspetti ma che sposano perfettamente l’atmosfera che ti circonda.
La prima mezz’ora di gioco è un prolungato tutorial che da un lato permette un delicato apprendimento delle tecniche di combattimento, mentre
dall’altro introduce trama, personaggi e ambientazioni del caso. Chi ama la cultura pop giapponese
non faticherà a cogliere svariate citazioni: il mondo
post-apocalittico e l’aura combattiva di Ken il Guerriero, i poteri psichici di Akira, la trama memore
dell’anime Il vento dell’Amnesia [vedi box], i combattimenti a suon di bolle energetiche di Dragon
Ball.
Nonostante le svariate fonti, il prodotto finale risulta
omogeneo, coerente, e tutt’altro che banale. Merito
dell’autore Yukio Futatsugi, ex membro Smilebit che
ha messo sul tavolo di lavoro tutto il suo sapere in
fatto di design, colore e personalità maturato in casa
Sega tra un Panzer Dragoon RPG ed un Jet Set
Radio. Lavori criticabili dal punto di vista ludico, ma
rarissimi esempi di stile unico e ispirato, che spazia
dalla cultura tribale a quella cyberpunk, dal fumetto
europeo di Moebius passando per lo stilista Jean
Paul Gaultier (vedi box).
Introdotto da un FMV di pregevole fattura,
Phantom Dust si rivela un picchiaduro alla Power
Stone ambientato in arene cittadine in verosimile
disfacimento durante i furiosi combattimenti. Il gioco
si basa sullo sfruttamento di capsule energetiche
che compaiono in punti fissi delle arene ove hanno
luogo le battaglie. Sta al giocatore comprendere, in
base al briefing della missione in corso e alle potenzialità del nemico, se puntare su skill di difesa e
contrattacco, sull’azzeramento di devastanti capacità
offensive nemiche, oppure sul più classico seek &
destroy all’insegna di rapidi affondi e potenti attacchi.
Con l’avanzare della narrazione farà la sua timida comparsa anche una blanda componente RPG,
grazie alla presenza di una lobby con NPC da
<36>
Se mai Ring dovesse promuovere un ‘Cielo Grande
Cielo Blu Award’ per la migliore rappresentazione
digitale della volta celeste, questo premio andrebbe
ad un’opera qualsiasi, a scelta, di Smilebit (ex Team
Andromeda). Fin dal primo episodio di Panzer Dragoon, il cielo secondo Smilebit non è mai stato una
foto ad alta definizione da piazzare su uno sfondo,
ma un qualcosa di vivo e pulsante. Nei loro videogame il cielo sembra quasi un corpo vivente, e le
nuvole il sangue che scorre vivace e copioso nelle
sue membra. A questo aggiungete un sapente uso di
contrasti cromatici e otterrete un’idea di quanta poesia, forza e vivacità questi programmatori sappiano
infondere nell’etere. Phantom Dust è solo l’ultimo
rappresentante di questa filosofia vincente di pura
arte descrittiva.
consultare per accedere alle missioni e alla possibilità di creare un ‘arsenale’ di capsule personalizzato attingendo alle 300 acquistabili con i punti
esperienza maturati.
Tuttavia, privato del suo esoscheletro di contenuti anime e di design, ciò che resta è un picchiaduro che mette in mostra tanta lodevole voglia di
fare, eppure incapace di reggere sulla lunga distanza, proprio come altri lavori del passato di Futatsugi. Esaltante e carismatico al suo debutto nel
lettore Xbox, si rivela presto guastato da una regia
virtuale deficitaria e solo parzialmente stabilizzata
dal sistema di lock-on, da una IA nemica a tratti
inesistente e da un ritmo troppo incostante. Un prodotto stilisticamente interessante ma ludicamente
fallato, ridondante e pretenzioso, forse vittima delle
sue incontrollate ambizioni. Un’occasione persa per
coniugare forma e contenuto, la cui mancata pubblicazione in Occidente non è il caso di piangere.
[1] Esatto, proprio come l’antifurto
[2] Sempre quelle dell’antifurto. In Ring la volgarità non è ammessa in nessuna forma…
VOTO:
SABCD
SISTEMA PS2 SVILUPPATORE DIMPS ETICHETTA ATARI VERSIONE PAL MULTIPLAYER 1-2
HO UN VEGETA NEL FREEZER <dragon ball z budokai 3>
di Emalord
“Kame-Hame-Ah!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!”
Q
uando all’alba del nuovo millennio una Bandai
sorprendentemente ispirata lanciò sul mercato
Hokuto no Ken Seiki Suesuku Seishi Densetsu, il
Popolo del Videogioco si produsse in una ola che pettinò il pianeta. Finalmente era stata resa giustizia ad
una saga, quella di Ken il Guerriero, che si era ormai appellata alla Convenzione di Ginevra per i continui maltrattamenti cui era stata sottoposta in sede di
trasposizione videoludica.
In realtà il giubilo su scala mondiale traeva forza
non tanto dalla qualità intrinseca del prodotto, quanto
dalle privazioni a cui erano stati sottoposti i fan della
saga negli anni precedenti, acquirenti di prodotti limitati nella sostanza così come nell’apparenza. Fino a
quel momento aveva sempre piovuto sul bagnato,
per i fan di un anime dove non si era mai vista una
goccia di pioggia.
L’impronunciabile titolo di cui sopra, volendo essere obiettivi, non era certo un capolavoro di gameplay. Si trattava di un’essenziale picchiaduro poligonale a scorrimento, condito però dalla possibilità di
eseguire periodicamente le famose tecniche Hokuto,
innescabili dalla fulminea impartizione di insidiose
sequenze di comandi. Ciò che fece la differenza fu
l’impareggiabile cura nel riportare in un videogioco
tutti i personaggi, le ambientazioni, i doppiatori e le
musiche originali della tanto amata serie TV. A ogni
sezione action seguiva infatti un’altrettanto estesa
sezione di story-telling con grafica in tempo reale,
che ripercorreva tutta la prima serie televisiva fino
allo scontro con il titanico Raoul. E ai fan adoranti,
tanto bastò per consacrare quel CD per PSone come il
miglior tie-in di Hokuto mai realizzato.
“Maledetto Kakaroth, sei sempre un passo
avanti a me”
Oggi, a quattro anni di distanza, sembra di rivedere lo stesso identico film. È cambiata la generazione hardware, cambia il protagonista del gioco, ma
nuovamente mamma Bandai si scrolla di dosso
l’etichetta di softco rovina-licenze per proporci un tiein che, seppur con qualche magagna, farà felice una
buona fetta di pubblico giocante.
Narrativamente Dragon Ball Z Budokai 3 copre
tutta la seconda parte del manga, con Goku ormai
guerriero adulto e in continua crescita grazie agli
scontri con avversari sempre più potenti. Il piatto
forte del gioco è infatti un goloso story mode che ripercorre le avventure di Vegeta e compagni, fondamentale per sbloccare nuovi personaggi giocabili nella
modalità ‘duello’, per aumentare il proprio livello di
potere, e per guadagnare soldi da investire in colpi
speciali, in vendita nell’apposito bazar gestito dalla
schizofrenica Lunch.
A livello sensoriale l’intera esperienza si attesta su
ottimi livelli: un gradevole cel-shading riproduce fedelmente un amplissimo parco personaggi, e le arene
sono una replica commovente dei panorami più caratteristici del manga e della serie animata. Anche il
sonoro strilla la sua importanza strategica, riproducendo tutti gli effetti di onde energetiche, teletrasporti e super-velocità che caratterizzavano gli episodi TV. Con una sorpresa nella lista dei collaboratori
al soundtrack (vedi box).
Tutte queste premesse non fanno altro che au
mentare le analogie tra il prodotto esaminato in
apertura e quello sotto esame, analogie purtroppo
riscontrabili anche alla voce gameplay.
“Sento un’aura potentissima in avvicinamento”
[1]
È bene precisare che il voto assegnato, per i fan
della saga di Toriyama, potrebbe addirittura valere
una ‘A’. Tuttavia, per fare un buon picchiaduro, non
bastano un nutrito ventaglio di personaggi selezionabili e un’iconografia fedele al manga di riferimento.
Occorre fantasia nelle meccaniche, nei controlli, nelle
soluzioni di combattimento concesse. Nel prodotto
Bandai è invece sufficiente affidarsi a una singola tattica generale per vincere tutti gli incontri più avanzati: ingrandire l'aura, schivare/attaccare, ingrandire
ulteriormente l'aura, trasformarsi in Super Saiyan/aumentare il proprio potere, schivare/attaccare,
andare in modalità ultra, vincere con una supermossa. Inibendosi questa (intuitiva) strategia, battere avversari come Cell o Majin Bu sarebbe quasi
impossibile.
Questo buco di game design, condannabile a prescindere, è però paradossalmente coerente con le
normali dinamiche dei duelli nel mondo di Dragon
Ball, ed è per questo che il voto finale non va a punire oltremisura l’operato di Dimps, pregevole anche
alla luce delle ragionevoli novità implementate in
questo terzo episodio: inquadrature più cinematiche,
nuove pirotecniche mosse in modalità ultra, ma soprattutto il teletrasporto, vera e propria counter difensiva.
Ribadiamolo, l’acquisto è sostanzialmente obbligato per tutti gli estimatori della saga, considerando
oltretutto la ridotta incidenza dei limiti di gameplay
evidenziati qualora si intenda dedicarsi soprattutto al
multiplayer.
VOTO:
SABCD
[1] Questa battuta viene pronunciata in continuazione
dall’inizio della serie Z fino alla sua conclusione. Considerando la crescita esponenziale del potere di chi la pronuncia,
e la persistenza della stessa nei dialoghi, qualcosa non torna.
Poi capisci: suona come il “così bianco che più bianco non si
può” del Dixan (o era il Dash?) che ci propinano da 25 anni a
questa parte. Ora: se il bianco di 25 anni fa era così bianco
che più bianco non si può, com’è possibile che ogni anno migliorino la qualità del bianco stesso medesimo? Poi capisci:
anche il Dixan (o era il Dash?!?) è un detersivo che continua
a superare il proprio livello di potenza. Per ora siamo arrivati
a Bianco-Saiyan di 14° livello..
<37>
SISTEMA PC SVILUPPATORE FIRAXIS ETICHETTA ATARI VERSIONE ITA MULTIPLAYER NO
TREASURE ISLAND? <sid meier’s pirates>
di Lux
Q
uando lo sviluppo di un progetto coinvolge un
centinaio di persone e si protrae per diversi
anni tra imprevisti e contrattempi, ha veramente
senso parlare del prodotto finito come della creazione di un singolo soggetto? Quei vecchi bucanieri
del reparto marketing di Atari devono propendere
per una risposta affermativa, vista la loro determinazione nell’issare, a mo’ di jolly roger, il nome del
grande Sid Meier direttamente sull’albero più alto: il
titolo del gioco.
In Sid Meier’s Pirates! il giocatore ha la possibilità di vivere avventurose giornate da filibustiere,
beandosi della notevole libertà decisionale concessagli e lasciandosi guidare unicamente dalla propria
fame di gloria ed esplorazione. Esotica cornice degli
avvenimenti è un Mar dei Caraibi conteso fra quattro
potenze europee il cui unico scopo è di aggiudicarsi
le migliori rotte commerciali ed il conseguente controllo sulla maggiore fetta di risorse locali. In un
contesto di equilibri di forza mutevoli, il giocatore
farà la parte dell’ago della bilancia, influendo decisivamente sull’esito dello scontro tra le bandiere in
lotta. Lo sforzo necessario a garantire l’egemonia
alla propria fazione e ad affermarsi come terrore dei
sette mari, dipenderà in primis dal vessillo sotto cui
si è scelto di iniziare a navigare. Questo perché i
quattro soggetti belligeranti si differenziano essenzialmente per il grado di penetrazione sul territorio e
per il controllo esercitato sui punti strategici della
mappa.
La videata di gioco, pur presentando un
pregevole livello di dettaglio, consente di tenere
sotto controllo tutti gli accadimenti in corso nella
mappa, e di pianificare col giusto anticipo eventuali
cambi di rotta.
Ereditata dall’illustre avo del 1987 una struttura
di gioco semplice ed avvincente, SM’sP! mette subito in mostra i suoi lati migliori: iniziare a giocare è
molto facile e immediatamente coinvolgente, grazie
all’agilità con cui si avvicendano i tre momenti cardine del gameplay: navigazione, battaglia e gestione
delle risorse previo sbarco cittadino.
L’esplorazione navale, oltre a costituire il prevedibile cuore di un titolo ad ambientazione piratesca,
si avvale della cura con cui meccaniche assodate
sono ravvivate da invenzioni più moderne e originali.
Errato sarebbe inquadrare la navigazione come una
fase di transizione tra fasi di gioco più vero, magari
esposta al rischio di tediosi incontri casuali in stile
Final Fantasy. In Pirates! è il giocatore a incar-
<38>
nare l’incontro casuale per la CPU. Raccolte le informazioni circa la rotta del cargo da assaltare, il
novello Francis Drake pianifica il percorso ideale,
individua il punto di abbordaggio e quindi passa
all’azione, tenendo in debito conto alcune variabili
fondamentali. Il successo di ogni arrembaggio è infatti subordinato all’adozione della più idonea tipologia di vele (la cui conformazione modifica la posizione da tenere rispetto alla direzione del vento),
nonché al corretto sfruttamento delle correnti d’aria
e delle tempeste. I fortunali, gradevolmente rappresentati sulla mappa, possono spingere la nave (o
l’eventuale flotta) alla massima velocità a patto di
riuscire a tenerseli a poppa, o altresì danneggiare le
vele e lo scafo compromettendone le performance
qualora raggiungano le imbarcazioni.
Veleggiare per le acque dei Caraibi è
un’esperienza così piacevole ed esotica che spesso ci
si scopre impegnati in lunghe e rilassate circumnavigazioni, appagati dalla riproduzione grafica del
moto ondoso e rapiti dai tanti piccoli particolari,
come i delfini che seguono la scia delle navi, gli scogli e i promontori dall’aspetto fiabesco, o il canto
festoso dei propri marinai. Autentica chicca: il cannocchiale in dotazione. La pressione prolungata del
tasto destro del mouse trasforma il puntatore in una
sorta di lente di ingrandimento, e aziona un azzeccato effetto slow motion che libera momentaneamente il giocatore dalle incombenze di timoniere. Il
risultato è uno strumento che non solo appaga la
voglia del giocatore di godere appieno della ricercata
iconografia, ma al contempo presenta rilevanza ludica, consentendo l’avvistamento di navi nemiche
altrimenti non visibili o lo screening dell’area di
gioco alla ricerca dei punti di riferimento riportati
nella laconica mappa del tesoro.
Una volta agganciato un nemico ha inizio il combattimento, sia esso navale o terrestre. Sfortunatamente, la fasi di battaglia non sembrano aver beneficiato della medesima cura profusa nel progettare la
navigazione, e risultano generalmente meno interessanti a causa dell’eccessiva elementarità delle
meccaniche sottese. Questo comporta che ogni fase
di scontro sia praticamente sempre risolvibile senza
far ricorso ad un approccio strategico degno di questo nome. La battaglia navale “a cannonate”, per
esempio, si riduce a poco più di una variante di
Asteroids, con il giocatore impegnato nella manovra di avvicinamento amministrando la pesante
inerzia del veliero e cercando di evitare i proiettili
nemici. L’arrembaggio consiste invece in un intuitivo
duello all’arma bianca contro il capitano avversario.
Un maggiore svecchiamento di queste fasi sarebbe
stato gradito. Avuta la meglio sul proprio rivale e
raccolto il bottino, non resta che indirizzare la prua
verso un porto amico ove riparare danni, vendere e
acquistare risorse (siano esse navi, cibo o marinai)
ed infine parlare con il governatore locale e con gli
avventori dell’immancabile taverna per sbloccare
nuove subquest. La natura di queste ultime spazia
dal bellico (assalto ad un cargo/porto nemico) al
mercantile (apertura di una nuova rotta commerciale con un porto lontano) fino all’avventuroso
(sconfiggere un altro pirata, ritrovare un tesoro o un
parente scomparso).
In conclusione, la semplicità dell’impianto di
gioco rappresenta allo stesso tempo il principale
MATER SEMPER CERTA EST,
PATER NON SEMPER
L’essenzialità delle meccaniche su cui si
imperniano gli scontri navali non garantisce il
divertimento a medio/lungo termine.
È davvero credibile il contributo di un
nome storico come Sid Meier allo
sviluppo di un videogioco moderno?
Oppure la citazione del grande game
designer è da considerarsi un mero
espediente di marketing per far
abboccare i fan? Crediamo sia pacifica
una riflessione sulle dinamiche fondanti
dell’industria dei videogames che
sottolinei quanto sia ormai distante la
dimensione amatoriale e ampiamente
mitizzata dei garage coder attivi negli
anni ’70 e ’80. Riteniamo archiviato il
contesto in cui un singolo soggetto
poteva realizzare un gioco commerciale
in perfetta solitudine, instillandovi la
propria “visione” di game design e
rivendicandone l’assoluta paternità.
Crediamo sia altrettanto palese che in un
contesto odierno caratterizzato da costi
milionari, tempi di realizzazione
pluriennali ed una gestione progettuale
che richiede l’impiego di articolati team di
professionisti, non sia più ipotizzabile un
legame creatore-prodotto tanto stretto
quanto poteva esserlo venti anni fa.
SM’sP! sembra confermare tale
scetticismo. Da un lato, infatti, ci ha
piacevolmente sorpreso come il “nuovo”
Pirates! tratteggi un’esperienza
sostanzialmente rispettosa del gioco
originale, cosa che sembrerebbe avallare
l’ipotesi di un effettivo coinvolgimento in
sede registica dell’autore. D’altro canto si
riscontra altrettanto evidentemente una
limitata carica innovatrice rispetto al
titolo del 1987, nonché l’assenza dei
perfetti equilibri che hanno sempre
contraddistinto i grandi classici legati al
nome Sid Meier. I dubbi sulla reale
paternità dell’opera restano.
pregio e difetto del luna park caraibico allestito da
Firaxis, che in un eccesso di severità qualcuno potrebbe definire uno screen saver di super lusso. La
struttura modulare basata sull’alternanza di momenti-tipo, si dimostra in principio sufficientemente
aperta da garantire humus fertile all’innesto delle
mille subquest. Per contro, dopo una decina scarsa di
ore, all’ennesima proposta ludica basata sulla ricombinazione degli elementi navigazione-battagliacittà l’interesse non può che andare a picco. In questo senso, sono di ben poco aiuto altre caratteristiche
interessanti sulla carta ma ancora una volta poco
approfondite, come i corteggiamenti in stile rhythm
game e le infiltrazioni stealth in una città nemica.
L’operazione di ammodernamento del classico
Pirates! può dirsi solo parzialmente riuscita.
VOTO:
SABCD
<39>
SISTEMA XBOX SVILUPPATORE ODDWORLD INHABITANTS ETICHETTA EA VERSIONE USA MULTIPLAYER NO
QUALCOSA DI STRANO <oddworld: stranger’s wrath>
di Nemesis Divina
Strano.
Gli estremi, talvolta, coincidono.
Lorne Lanning, Cofondatore, Presidente e
Direttore Artistico di Oddworld Inhabitants, si è
sempre distinto per il suo piglio polemico,
insofferente verso le major e pronto alla bagarre
dialettica. Non è nato per caso quel Abe’s
Oddyssey che trascinava su PSone una pungente
satira sociale, e che denunciava, con saporita
allegoria, lo strapotere delle multinazionali e dei
ricchi poli industriali che schiacciano, sfruttano ed
infine mercificano i loro stessi lavoratori. Quel Lorne
Lanning dal sorriso affilato, di chi la sa un po’ più
lunga di te, e che davanti a un microfono non esita a
scoccare strali propagandistici. E poi c’era il più
acceso dei suoi rivali: Jason Rubin, ex-Presidente di
Naughty Dog: capello corto, sorriso sbiancato a
trentasei denti, abbronzatura da fotomodello.
Gli estremi, talvolta, coincidono. Ed è così che
Lanning, no-logo dell’industria digitale, trasloca
gioiosamente sotto l’ala protettrice di Electronic
Arts, la Nestlè del Videogioco, la madre di tutti i
loghi. E Rubin, in apparenza poco più che un
belloccio da copertina, abbandona uno dei fidati
second party di Sony, lanciandosi nell’avventura
dello sviluppo indipendente in un momento
economico che davvero non gradisce i pesci piccoli.
Parallelamente, e qui si comincia a parlare di
Oddworld: Stranger’s Wrath, Lorne vira tanto il
suo orientamento politico quanto la propria visione
del ‘far gioco’. Ben lontano dal concept enigmistico e
sagace dei precedenti Oddworld, oggi plasma un
prodotto teso all’azione pura, seppur graziata da
varianti di certo interesse. Eppure, dove Lanning
spergiurava come i proiettili viventi fossero solo ‘una
delle tante innovazioni presenti’, si scopre che è
comunque l’unica novità rilevante. Ma neanche
troppo.
Riscuotendo tutte le taglie disponibili in ogni nucleo
cittadino, Stranger si guadagna l’accesso a nuove
città con relativi ‘poco di buono’ da sistemare. Il
Cattivone Numero Uno compare solo alla fine, il
resto sono schermaglie prive di buone ragioni
narrative, che proprio per questa ragione
coinvolgono solo in parte.
<40>
E gli estremi si toccano ancora: il contesto
tecnico/scenografico che ospita questa nuova
interazione dell’Oddworld annovera diverse analogie
con quel Jak & Daxter del summenzionato Rubin.
Streaming dei dati, orizzonti obesi, mondo
liberamente esplorabile. Ma è nel mood di gioco,
spensierato e frenetico, che si ritrova l’impronta
commerciale distintiva dei prodotti Naughty Dog.
Persino la presenza dello spin attack, figlio di quel
Crash Bandicoot e replicato da Jak, pare una
citazione dal lavoro di Rubin.
Estraneo alle pretese satiriche dei primi episodi,
Oddworld: SW procede con fare distruttivo
vagamente immotivato, sebbene i cattivi siano
effettivamente tali e, dunque, passibili di giusta
morte. La trama accenna al tema della diversità, ma
tutto passa in secondo piano a favore del
sistematico smantellamento delle postazioni
nemiche, l’abbattimento di boss più o meno coriacei,
la scoperta di questa o quella variante del proprio
arsenale, via via sino al pirotecnico finale, senza che
il cervello s’ammazzi di fatica, senza che il cuore
consumi ingranaggi emotivi.
Ma non va letta come menomazione, questa
mancanza di un più alto uso delle potenzialità
espressive del videogioco: solo non aspettatevi la
sottile ironia/critica/poesia dei primi episodi.
Oddworld: SW è un prodotto che lavora di grilletto
e punta al quid più immediato e viscerale del
videogaming. Inteso questo episodio come lo spinoff che è, tutto scorre più coeso, benché senza
sussulti eclatanti.
Indubbiamente, con questo titolo, il team di
Oddworld Inhabitants raggiunge la maturità
tridimensionale, che tanto latitava nel maldestro
Munch’s Oddyssey. Le tre dimensioni non sono più
un surplus ingombrante, ma uno strumento ludico e
una forma naturale dello Stranomondo. Stranger, il
protagonista, si lascia condurre con dolcezza e
reattività, assecondando i morbidi tocchi sullo stick e
reagendo con prontezza ai cambi di inquadratura,
delegati allo stick sinistro o efficacemente gestiti in
automatico. L’azione scorre fluida, senza che il codice
ceda mai alle esose richieste della materia poligonale
a video, negando l’imputazione di ogni prematura
dipartita ad eventuali inciampi tecnologici.
Anche il lavoro di finitura sui controlli è esemplare:
benché concepito come action in prima persona,
Oddworld: SW ingrana la terza con un’intuitiva
pressione di stick. La deambulazione con ripresa di
spalle comporta l’ampliamento della visione delle
pertinenze di gioco, una superiore cognizione delle
minacce nei paraggi, una più diretta trasmissione del
senso di movimento, la messa in risalto delle vie di
fuga e dei rifugi dove recuperare energia. La terza
persona, poi, veste con precisione elementari fasi
platform, inibendo però l’uso delle armi a lunga
gittata e imponendo l’uso delle sole tecniche corpo a
corpo.
Da questa stessa visuale si attiva inoltre la
modalità ‘tour’: muovendo poche falcate con lo stick
alla sua massima inclinazione, Stranger prende a
correre a quattro zampe consentendo la copertura di
lunghe distanze in pochi secondi. Inaugurata da
Tranformers, questa soluzione accorcia l’andirivieni
fra gli stage; tuttavia, diversamente che nel gioco di
Melbourne House, Oddworld: SW non offre battaglie
campali o inseguimenti mozzafiato attraverso le sue
pur ampie distese erbose. Quasi un’abilità inutile, non
fosse che sconfitto un boss, il ritorno alla città/hub
sia generalmente lungo e altrimenti tedioso. Inoltre
non esistono obiettivi secondari che motivino la retroesplorazione di zone già ripulite, dunque poco
importa il potersi muovere con agilità fra mappe
ormai morte.
È comunque nella soggettiva che il gioco vive per
la maggior parte dell’esperienza, mettendo in luce la
peculiarità di design che lo contraddistingue: i
proiettili viventi. Sono scoiattoli, puzzole, bestiole
litigiose o placidi insettoni elettrici, tutti ben
caratterizzati e superbamente doppiati nel loro buffo
copione di versi e incitazioni alla battaglia. Otto
tipologie di fuoco incarnate da altrettante specie
animali, potenziabili ad un livello superiore che ne
amplifica, senza stravolgerne, le proprietà. A
differenza di quanto era lecito aspettarsi, però, i bioproiettili risultano sottosfruttati: dove la
combinazione di animaletti differenti poteva
incoraggiare una ragionata risoluzione degli scontri, ci
si trova più spesso a sparare a zero, ricorrendo
raramente e senza esito decisivo alle tecniche non
letali (il gas stordente della puzzola, il richiamo dello
scoiattolo…) cui spetterebbe invece il ruolo di
diversivo e ispessimento dello shooting brado.
Questo nelle ricorrenti situazioni ad alto tasso di
piombo.
Quando la superiorità numerica del nemico viene
meno si possono invece adottare strategie più
pacate, tese alla cattura piuttosto che
all’eliminazione. In qualità di cacciatore di taglie,
Stranger può procedere a un’aspirazione degli
avversari a mo’ di anime di Onimusha o Soul
Reaver. L’assimilazione di un avversario stordito
(dunque vivo) è più lenta rispetto al recupero di un
cadavere, ma nel pieno rispetto della tradizione del
Dead or Alive, una preda viva rende di più.
Purtroppo, un altro potenziale stimolante del ritmo di
gioco e della materia grigia si accoda alla lista delle
idee parzialmente inespresse, dal momento che a
fronte della scarsa offerta di potenziamenti
acquistabili capita assai di rado di restare al verde.
Perché, dunque, arrischiarsi a stordire i tapini,
anziché imbottirli di sano e rapido piombo? Lanning
nicchia e non risponde.
I proiettili viventi sono i protagonisti morali del gioco.
Sulla balestra è possibile posizionare due tipologie di
animali, i cui effetti e tempi di ricarica variano da
specie a specie. Come in Halo 2 è dunque
auspicabile una buona accoppiata di munizionamenti.
Peccato solo che la sostituzione dei proiettili avvenga
via menu, appesantendo il ritmo di gioco.
<41>
SPEAKIN’ ODD
Il lavoro di doppiaggio svolto per
Oddworld: SW è letteralmente
mastodontico. Non tanto per il numero di
linee registrate, quanto per la qualità
della recitazione delle stesse, specie in
considerazione del fatto che sono tutte
opera della stessa persona: manco a
dirlo, Lorne Lanning. Un’interpretazione
magistrale che stupisce per versatilità e
varietà di intonazioni (sebbene i filtri
vocali abbondino). Nella speranza che il
doppiaggio italiano suoni bene almeno la
metà di questo…
La rivalità Lanning/Rubin nasce e cresce nel periodo
immediatamente successivo al lancio di PS2. Rubin si
pone subito a fiero difensore ed esaltatore della
macchina Sony, assicurando la qualità dei risultati
tecnici ottenibili. Da parte sua, gli strali di Lanning
all’indirizzo della console verticale culminano nel
trasferimento del progetto Munch’s Oddyssey
(secondo capitolo della maxi saga oddworldiana) su
Xbox, unica piattaforma ritenuta in grado di farlo
girare. Rubin attacca esplicitamente la scarsa
esperienza di Inhabitants in ambiente 3D ed elargisce
promesse che effettivamente manterrà con Jak &
Daxter. Di suo, Lanning sforna un gioco deludente,
tanto sotto i profilo ludico che quello tecnico, dando
insitamente ragione a quelli che, a tutta prima,
parevano solo strilli propagandistici di uno stipendiato
Sony. Con Oddworld: Starnger’s Wrath, Lanning
rialza finalmente la testa (laddove Rubin l’ha
abbassata con JakII…).
THE ART OF…
La saga di Oddworld si è sempre mossa
un poco oltre il videogioco. Al di là degli
intenti sociali, all’inno alla libertà e alla
dignità dell’individuo, il lavoro artistico
dietro la serie è sempre stato enorme e
valido. Oggi, il materiale visivo che ha
costituito le fondamenta dei quattro titoli
sinora pubblicati, trova una veste
elegante nel volume The Art of Oddworld
Inhabitants: The First Ten Years 1994 –
2004. Una panoramica completa ed
esaustiva sui vari processi produttivi, con
note a margine e centinaia di
illustrazioni, frame dai FMV e screenshot
di rilievo. Il libro è edito in Australia, da
http://www.ballisticpublishing.com, ma è
disponibile anche presso importatori
europei e americani.
<42>
Delude infine il climax che precede l’epilogo, il quale
richiama la rocambolesca fuga finale del primo Halo
senza tuttavia restituirne il coinvolgimento. Una corsa
a rotta di collo fra strutture collassanti, fuoco nemico
incessante e ostacoli da schivare, ma dopo
l’esaltazione e l’ansia dei primi tentativi, la testa cala
sconfortata fra le spalle, oberata da richieste di
precisione chirurgica e da nessuna concessione
all’utente frustrato (ad esempio sfoltendo qualche
nemico ad ogni nuovo tentativo). Davvero un delitto
di design, perpetrato dove fa più male, ossia alla fine,
con il giocatore che, uno per uno, maledice tutti i
beta tester nominati nei titoli di coda…
Senza dubbio, Oddworld: SW riserva ottimi
momenti, scorci visivi fra i più fotogenici su Xbox, un
mondo affascinante e graditi tocchi di classe. Eppure,
a fronte dei lodevoli progressi in ambito
tridimensionale e delle buone intuizioni del team
Inhabitants, qualcosa manca. Al carismatico
protagonista si contrappone una marmaglia di boss
zotici un po’ tutti uguali e dai pattern mai
entusiasmanti; all’originalità dell’armamento male si
abbina la scarsa varietà di applicazioni possibili; al
mondo ricco e originale si specchia una trama vuota,
frammentata e poco appagante.
Alla fine, come insegna Jason Rubin, tutto sta nel
bicchiere.
E qui, il bicchiere è mezzo vuoto.
VOTO:
SABCD
SISTEMA GC VERSIONE PAL SVILUPPATORE RETRO STUDIOS ETICHETTA NINTENDO MULTIPLAYER 1-4 S.C.
RETRO GONE PRIME<metroid prime 2: echoes>
di Federico Res
L’impatto con Echoes è spiazzante. L’universo di
Samus Aran comincia ad essere osservato attraverso
occhi estranei: Echoes segna l’apertura della serie a
quelle istanze cinematografiche tanto care al VG
contemporaneo, mettendo in campo velleità narrative che mal si adattano al feeling peculiare della serie. Parallelamente, un soundtrack per la prima volta
sottotono e un impatto grafico che troppo deve al
primo MP, segnano il peggior preludio possibile per
un episodio di Metroid...
Ma il preludio di un’opera difficilmente ne ritrae
l’autentico valore. E bastano poche ore per rendersi
conto che, dopo quasi vent’anni, Metroid è ancora
Metroid. Quando la delusione per il mancato aggiornamento tecnico cede allo stupore per l’altissima iconografia, quando flashback e cut scene lasciano il
passo al solo visore di Samus, quando l’ambient
music di Kenji Yamamoto ritorna ai fasti di un tempo
(citando perfino il brano abbinato ai Maridia in Super
Metroid), quando tutto ciò accade, staccarsi dallo
schermo non è più un’opzione contemplata. Perché il
fascino è l’unicità della serie scorrono in Echoes
come nel suo diretto predecessore. E sebbene la
formula di gioco non sia più fresca, sebbene MP2
non emerga dal limbo del more of the same, ma anzi
soffra i limiti di un gameplay a rischio
d’obsolescenza, il suo DNA è sempre in grado di offrire quelle emozioni per cui ancora oggi migliaia di
fan venerano la Cacciatrice e le sue avventure...
L’aspetto che più stupisce di Echoes è la concezione estetico-architettonica dei suoi mondi virtuali.
Chi ha avuto modo di sperimentare la magnificenza
delle Chozo Ruins ha un’idea di cosa lo aspetti in
Echoes: senza giri di parole, uno dei più eccezionali
capolavori di level design che il VG ricordi. V’è del
genio, dell’assoluta eccellenza nel modo in cui gli artisti di Retro Studios disegnano e trasportano su
schermo i panorami alieni di Agon, le umide paludi di
Torvus o gli anfratti ipertecnologici della Fortezza del
Cielo. In Echoes non c’è traccia di bump mapping,
ma ogni sua più piccola cavità sembra “pulsare” di
vera vita. Spiare i mille meccanismi lucenti e brulicanti incastonati nelle pareti della Fortezza lascia basiti. Ammirare le costruzioni asimmetriche, la
compenetrazione di tecnologia e natura, gli annichilenti spazi aperti di Agon è quasi un’esperienza mistica, oltre che una minaccia all’integrità delle
propria mandibola. Quando si va a scrutare da vicino
i tanti strati di pietra scolpita, ferro battuto (!), legno
intagliato e quant’altro sia riprodotto ad arte dal
team texano, si scopre un crogiolo di tecniche e stili
artistici che si fondono e si compenetrano dando vita
all’universo alieno più bello (nonché architettonicamente credibile) che mente umana ricordi. Unica
nota di rammarico va alle texture in low res inspiegabilmente poste a rappresentare alcuni panorami.
Ubriachi della bellezza di Aether, imbattersi in scorci
fissi e impastati dalla bassa risoluzione è
l’equivalente emotivo di una randellata sui denti.
Fortunatamente accade di rado, e lo shock si supera
presto, ma il perché di tale scempio resta un mistero...
Al di là dello splendore estetico, il level design si
conferma eccellente per la sua estrema funzionalità
al gameplay. I presupposti di Echoes sono i
medesimi del predecessore: la concezione dei livelli
Sebbene nessuna testata specialistica ne abbia parlato, alla
prova dei fatti il lock-on di MP2 dimostra un’occasionale
imprecisione che può incidere negativamente sull’esito
degli scontri a fuoco. Considerata l’importanza del prodotto
e l’assenza di tale difetto in Metroid Prime, vien da
riflettere sulla sempre meno rigorosa fase di testing a cui
Nintendo sottopone i suoi prodotti...
prevede varie letture di ogni “stanza”, che si rendono
possibili con la graduale acquisizione dei vari item.
Ogni anfratto del gioco, come da tradizione, offre
percorsi molteplici che premiano e gratificano con
oggetti e locazioni inedite ogni qualvolta si trovi il
modo giusto per superarli, sia esso un tunnel da percorrere in modalità morfosfera o una serie di ganci
sul soffitto cui appendersi con il raggio gancio. Tutto
questo è accademia. Ma Echoes supera il diretto
precursore (e per certi versi anche gli avi bidimensionali) grazie ad una distribuzione più intelligente
dei potenziamenti, atta a scongiurare interminabili
peregrinazioni da un capo all’altro della mappa di
gioco. Salvo alcune eccezioni quel che serve per
continuare, in Echoes, si trova sempre nelle vicinanze del prossimo obiettivo. Ciò non si traduce in
un’alterazione ai canoni della saga, nell’eliminazione
del backtracking, ma nella riduzione sensibile dei
suoi inutili eccessi. Ci si ritrova ancora a tornare varie volte sui propri passi, ma questa volta lo si fa non
per recuperare artefatti utili dalla parte opposta del
pianeta, ma certi di seguire (quasi) sempre un percorso rivolto ad un reale progresso.
Come al solito, la progressiva dominazione sul
mondo di Aether si attua nell’uso delle abilità di Samus. Ad item classici rimasti immutati (Raggio Ricarica, Visore Combat, Astrosalto) si affiancano abilità
nuove (Visore Echo, Visore Dark) o riprese dagli episodi passati (Screw Attack), nonché una versione
riveduta e corretta del Visore Scan (ora in grado di
mostrare in tre colori diversi – rosso blu e verde –
oggetti ed elementi ambientali, informando immediatamente sulla necessità/utilità di eseguire ogni
nuova scansione). Aggiunte e modifiche che, se nel
caso del Visore Scan portano grossi benefici al gameplay, per oggetti quali il Visore Echo o lo Screw
Attack tradiscono un lavoro di pianificazione poco
accurato. Sebbene entrambi gli oggetti siano realizzati alla perfezione, il loro impiego è limitato a pochi
momenti cruciali, sul finale dell’avventura, e al rinvenimento di alcuni potenziamenti di importanza secondaria. Peccato.
Ma la novità maggiore di MP2 è quella “dimen-
<43>
dimensione parallela” più volte annunciata in sede di
press release. “Aether Oscuro”, costituendo circa il
quaranta per cento dell’estensione totale del gioco, si
compone di locazioni speculari alla sua controparte
“luminosa”, sapientemente distorti nella morfologia e
nell’impatto estetico. Sebbene il suo funzionamento
sia analogo a quello dei mondi alternativi già presenti
in Link to the Past e Soul Reaver, e il suo apporto
diversificante all’esperienza ludica non sia irresistibile, Aether Oscuro rende più affascinante
l’esplorazione ed offre momenti di riflessione senza
dubbio più profondi di quanto sperimentato nel prequel. Purtroppo l’idea alla base delle “bolle di luce”,
le zone franche attraverso cui è necessario muoversi
affinché l’aria velenosa di Aether Oscuro non danneggi Samus, è mal concretizzata. Se all’inizio del
gioco spostarsi da una bolla all’altra aggiunge pepe e
strategia agli scontri, considerata l’energia persa tra
uno spostamento e l’altro, con l’acquisizione degli
item necessari a proteggersi dall’aria malsana la situazione si ribalta. Le bolle di luce ricaricano incessantemente l’energia, che i già fiacchi attacchi dei
nemici non sembrano in grado di minacciare seriamente: questo è uno dei difetti maggiori di Echoes,
la facilità. Facilità che si accompagna, purtroppo, a
dinamiche di battaglia oramai obsolete...
Metroid non è mai stato uno shooter, non c’era
motivo di aspettarsi che Echoes spezzasse la tradizione inseguendo le gesta di Master Chief e compagni. Ma è pur vero che il peso lordo dei
combattimenti ha sempre rivestito una certa importanza nell’alchimia metroidiana, non solo per ciò che
concerne i boss. Eppure le fasi di combattimento tra
un boss-fight e l’altro, in Echoes come nel prequel,
non brillano per dinamicità ed inventiva. Il sistema di
controllo non costituisce in sé un ostacolo al particolare ritmo degli scontri, né il (comunque tutt’altro
che ben ritrovato) respawn dei nemici è primo responsabile della ripetitività dell’azione: da un lato le
dimensioni ridotte degli ambienti riducono le esigenze di mobilità comuni a molti giochi in prima persona, dall’altro un efficace script di aggiornamento
dei nemici, unito ad una progettazione dei livelli che
non costringe quasi mai allo scontro, fa sì che il continuo approvvigionamento di nemici non infastidisca
come in passato. Il problema di fondo sta nel puro e
semplice enemy design. Dispiace ritrovare in Echoes
insipide meccaniche basate sul semplice aggiramento
dei nemici volto alla ricerca dei loro punti deboli, o
momenti in cui non si ha altro da fare che caricare il
charge beam e attendere il palesarsi del nemico per
rilasciare il colpo. L’uso dei due beam di polarità opposta (Raggio Luce e Raggio Oscurità), con le loro
scorte limitate di munizioni, pur introducendo un
elemento strategico non aggiunge valore ludico agli
scontri. L’arma bianca è efficace su Aether Oscuro,
l’arma nera su Aether “luminoso”, ma quasi mai si ha
necessità di utilizzarle insieme in un unico scontro.
Discorso simile per molti degli item inediti, come il
seeker launcher (che permette di sparare in un colpo
solo cinque homing missile diretti a cinque bersagli
diversi), indispensabile per aprire alcune porte ma
inutile in battaglia, o il Raggio Eclissi, anch’esso essenziale per l’apertura di taluni passaggi ma ininfluente durante gli scontri.
In materia di boss, d’altro canto, Echoes non
delude. Il numero degli antagonisti eccellenti risulta
sensibilmente aumentato (ora ve ne sono circa quindici), e l’inventiva alla base della loro concezione
diverte e appaga quanto in passato. La riduzione del
livello di sfida (un giocatore smaliziato vincerà
<44>
la maggior parte degli scontri al primo tentativo)
rende giocoforza meno gratificanti le vittorie, ma
trovarsi di fronte a capolavori di enemy design quali
Anophelia, Amorbis, il colossale Quadraxis o il cervellotico guardiano della morfosfera è un’esperienza
difficilmente dimenticabile. Oltre ad un maggior
sfruttamento della morfosfera e dei suoi upgrade, il
boss design di Echoes si distingue per una minore
complessità concettuale, quando le meccaniche
chiamano in causa solo alcune delle abilità di Samus,
ma anche per l’assenza del senso di frustrazione che
pervadeva alcuni degli scontri del prequel. Deludente, infine, il boss-doppelganger identificato come
Samus Oscura: antagonista totalmente privo di carisma, sia a livello di narrazione sia per quanto riguarda il contenuto ludico dei tre scontri dei quali è
primo attore. Un peccato: la “X-Samus” di Metroid
Fusion era di ben altra pasta...
Metroid Prime 2: Echoes è un imperituro monumento di game design, ma al tempo stesso un
raffinato esempio di more of the same. Ci si aspettava che Nintendo svecchiasse il concept limando le
imperfezioni e gli anacronismi che la serie ha palesato nel passaggio dalle due alle tre dimensioni, ma
tali attese sono state ripagate solo in parte. Il level
design ha guadagnato in profondità strutturale e
bellezza estetica, il backtracking ha perso pretestuosità e ottenuto un senso in più in virtù di Aether
Oscuro; parallelamente, la narrazione non si è evoluta (se si escludono gli “scivoloni” della prima parte
del gioco), i combattimenti ordinari non hanno acquisito spessore e i nuovi item, pur ottimamente concepiti, non hanno trovato un impiego all’altezza delle
loro possibilità. Ciononostante, Metroid Prime 2:
Echoes è uno dei più grandi esempi di game e level
design che questa generazione ricordi. Non solo per
le motivazioni ludiche/estetiche già esposte, ma per
questioni inerenti il lato prettamente tecnico del
game design. Il modo migliore per superare un ostacolo non è tentare di scavalcarlo, ma aggirarlo: Retro
Studios ha fornito la prova più eccezionale di come i
limiti hardware possano essere aggirati affinché le
volontà espressive degli artisti non debbano scendere a compromessi. Echoes è spettacolo da vedere
e da giocare, e questo non lo si deve né ad un motore grafico ultra-pompato né a tecniche “alternative” come quella del cel shading. E allora in alto i
power beam, in onore di Samus Aran e dei suoi
nuovi “genitori”...
VOTO:
SABCD
SISTEMA PS2, XBOX, GC VERSIONE PAL SVILUPPATORE SWINGIN’ APE STUDIOS ETICHETTA SIERRA MULTIPLAYER 1-4 ANNO 2003
ROCK’n ROLL ROBOT!<metal arms: glitch in the system>
di Federico Res
M
etal Arms è una sorta di “corollario” alla storia
degli action game destinato – pare – a restare
ignoto ai più. Pubblicato circa un anno fa, adombrato da
blasoni quali Ratchet & Clank 2 o Jak II e non supportato da una efficace campagna promozionale, il titolo
di Sierra ha marcato presenza su ognuna delle attuali
console a 128 bit senza lasciare il segno su nessuna di
esse. Eppure nei suoi 42 livelli c’è passione, inventiva,
originalità e ironia, c’è un piccolo grande manuale di
game design che aspetta soltanto di essere sfogliato.
Il robottino Glitch, dimentico del proprio passato per
via di una non meglio specificata amnesia robotica, si
trova coinvolto nella lotta dei ribelli di Stella di Ferro
contro il regime tirannico instaurato dal Generale Corrosive, un droide tanto letale quanto furbo. Il suo ruolo è
presto chiaro: unirsi ai ribelli, imparare a combattere
(magari diventando il droide-soldato più eroico di sempre) e smantellare a furia di raffiche di plasma e cariche
di carotaggio la crapa metallica del colossale Corrosive...
Metal Arms non è un ibrido, sebbene custodisca al
suo interno tonnellate di piattaforme (peraltro ingegnosamente disposte). Metal Arms è uno sparatutto, violento, aggressivo, ostico a ognuno dei quattro livelli di
difficoltà (il primo, tutt’altro che “easy”, è un ottimo
punto di partenza per i giocatori meno avvezzi al genere). Uno sparatutto al tritolo: comandi in stile FPS,
con entrambe le leve analogiche chiamate a muovere
l’avatar e ad indirizzarne i colpi, e i tasti dorsali a fare
da grilletti per le oltre quindici armi disponibili. Telecamera, ovviamente, incassata alle spalle del piccolo
protagonista. Tutto intorno centinaia di bot nemici che
vomitano piombo, corrono ai ripari ed eventualmente
saltano in aria in gioiose deflagrazioni di rondelle e bulloni. L’armamentario si rivela subito molto ampio, annoverando fucili laser, mitragliatori, lanciarazzi e una
larga serie di smart bomb e accrocchi tecnologici (come
il mirino telescopico o il “guinzaglio”), ma è la sua capacità di evolvere grazie a semplici upgrade, recuperabili
in giro o presso appositi punti vendita, a lasciare un
sorriso di compiacimento sul volto di chi gioca. Un semplice sparachiodi, opportunamente potenziato, acquista
la capacità di sparare punteruoli esplosivi da conficcare
nelle carni metalliche dei nemici. Il già temibile lanciarazzi, upgradato al suo terzo livello, erutterà in un colpo
solo quattro missili a ricerca più un poderoso razzo
centrale. Quel che più sorprende è il certosino bilanciamento in prospettiva del quale Swinging Ape Studios ha
progettato ogni arma: non c’è fucile o granata che non
trovi il suo impiego, non c’è situazione bellica che non
richieda il ricorso strategico a tutti i pezzi d’artiglieria
nella saccoccia di zinco di Glitch.
Una tale potenza di fuoco non potrebbe esprimersi
appieno senza un robusto enemy design e una intelligente progettazione dei livelli. Fortunatamente, Metal
Arms incorpora esempi eccellenti in entrambi i campi.
Se l’IA avversaria dà talvolta segni di ebetismo, con bot
che dando le spalle a Glitch non si accorgono del suo
roboante incedere su pavimenti metallici, è innegabile
che tali disfunzioni rispondano a precise scelte di game
design piuttosto che a sviste di programmazione. Metal
Arms concede infatti largo spazio alla pianificazione di
condotte belliche personalizzate. Un gruppo di Grunt
avvistato da un’altura diventa facile bersaglio di lanciarazzi e smart bomb, da vomitare in sicurezza senza timore d’essere scorti. Nulla vieta però di compiere un
balzo, atterrare alle spalle dei nemici e scatenare una
carneficina in puro stile Rambo. Il droide ai comandi di
una torretta nemica, qualche centinaio di metri più in là,
sarà facilmente vaporizzato dalla combo lanciarazzi+mirino telescopico; tuttavia, un’incursione all’
Oltre al single player, Metal Arms propone una sezione
multigiocatore forte di numerose arene dedicate (sbloccabili
racimolando particolari “chip” nella Campagna), nonché
suddivisa in modalità classiche (“Rissa tra bot”) e modellate
su alcune particolari abilità di Glitch (“Mischia di possesso”).
Sono tutte giocabili anche in singolo, un plusvalore non da
poco per chi sa profilarsi una fruizione 1 player only.
ombra delle trincee seguita dal lancio di una granata
non sarà meno letale. E così via: l’intelligenza artificiale
sacrifica qualcosa in termini di credibilità per consentire
di giocare nel modo che si preferisce. Tuttavia, non per
questo i nemici lesinano in vivide iniziative di strategia e
amor proprio (cercare un riparo, aggirare il giocatore o
rispedire a calci una granata inesplosa), che anzi
tendono a farsi via via più sottili.
Il level design vede Glitch attraversare miniere sotterranee, deserti popolati da Mil (i soldati-robot agli ordini di Corrosive) erranti, appostamenti nemici ed
enormi città: ognuna di queste ambientazioni non stupisce sotto il profilo estetico, ma gratifica sotto quello
strutturale. A labirinti e sezioni più lineari si avvicendano arene e spazi aperti. A scontri contro boss di taglia
più o meno oversize (ostici ed esaltanti da sconfiggere)
si susseguono vere e proprie sezioni di corsa o ai comandi di mezzi corazzati, quali navette volanti o micidiali carri armati. La varietà non manca, ma è l’assoluta
bontà di ogni singolo momento a stregare
l’appassionato di shooter e ubriacare l’utente a digiuno
di action game.
Metal Arms si fregia di una eccellente localizzazione italiana. La folle collezione di personaggi trova nel
doppiaggio diretto da Viviana Guglielmi una deliziosa
serie di voci, ciascuna con la propria intonazione e il
proprio timbro, affettati a dovere per ripassare il colore
di ogni personalità in scena. Il lavoro svolto sui testi è
ugualmente eccellente: l’ironia dello script originale è
mantenuta grazie a un’intelligente traduzione, che nonostante qualche “sedere di latta”, “rottura di coglioni”
o “droide del cazzo” (ovattati però dal classico BIP), non
scade mai nella volgarità. Inspiegabilmente la versione
GameCube è priva di traduzione e doppiaggio: chi
avesse problemi con l’inglese, o non volesse perdersi
l’ottimo adattamento italiano, dovrebbe ovviamente rivolgersi alle versioni per Xbox e PS2.
C’è un lavoro sopraffino, dietro lo chassis cromato di
Glitch. Il lavoro di un team talentuoso, che certo meriterebbe tanta attenzione in più: al giocatore giusto, in
grado di comprendere e apprezzare l’opera di valore, il
compito di giocare Metal Arms e decantarne le lodi ai
propri compagni di giochi...
<45>
CAPITOLO 1
di Gianluca “Sator” Belvisi
IERI
1982
All’improvviso pensai che qualcosa stesse per cambiare.
Quel… – non sapevo ancora come chiamarlo – quel dispositivo si trovava a pochi metri
da me, luminoso. Avevo otto anni. Mi avvicinai con cautela e, in punta di piedi, scrutai
dentro il grande occhio squadrato di quella meraviglia tecnologica. Vidi un’imponente
catena montuosa sotto un cielo nero alieno. Vidi un veicolo a sei ruote percorrere un accidentato terreno rossastro con la naturalezza di un ferro da stiro su una camicia. Mi
sentii Alice davanti allo specchio, e Dio sa quanto ne avessi avuto bisogno, in quei giorni,
di uno specchio dentro cui perdermi.
Figlio unico, i miei genitori erano sempre una stanza più in là di dove mi trovavo io.
Così impegnati nell’ignorarsi a vicenda che si dimenticarono di insegnarmi come trovare
degli amici. Stavo quasi sempre da solo, anche se ogni tanto Donkey veniva a farmi visita. Trascorrevo le giornate a leggere fumetti e a vedere i cartoni in tv. A volte rimanevo in silenzio per così a lungo che una crosticina di saliva mi sigillava le labbra.
I momenti più felici della mia infanzia li ho trascorsi con mio nonno, un signore molto
anziano ma ancora in gamba. Veniva a prendermi con la sua vecchia lambretta scalcagnata, la vernice impreziosita da venature di ruggine, il sedile in finta pelle con vere
screpolature e una natica deformata da un marciapiede troppo alto. Insieme andavamo
in un sacco di posti bellissimi. Il mio preferito era la casa del popolo. Là mio nonno iniziava interminabili partite a tresette, beveva vino rosso e parlava male del governo. Io
ne approfittavo per esplorare l’edificio. Fingevo di essere un agente segreto all’interno
della fortezza dei cattivi, e le numerose fotografie di uomini baffuti, appese ai muri della
casa del popolo, contribuivano molto all’immedesimazione.
Fu durante una di queste operazioni di spionaggio che mi avventurai in una stanza
fumosa e lo vidi.
Moon Patrol.
Che nome stupendo!
Capii subito che la levetta e i due pulsanti servivano a comandare quel portentoso veicolo lunare, ed ero abbastanza grandicello per sapere che una simile esperienza non
sarebbe stata gratuita. Guardai in basso e notai due buchette per le monete. Recavano
la scritta: 2x100. Duecento lire. Ammazza quanti soldi!
Tornai di corsa al tavolo del tresette e feci pat-pat sulla spalla di mio nonno. Questi,
dall’espressione timida ma decisa del mio volto, capì che doveva seguirmi. Lo condussi al
cospetto di Moon Patrol. Mio nonno lo osservò attentamente. Vide che si trovava vicino
ai flipper, perciò intuì che doveva trattarsi di qualcosa di analogo, solo più avveniristico.
Lesse l’importo da inserire: 2x100. Svuotò il portamonete sulla sua manona ma ne uscì
solamente una monetina da 200 lire. Andò al bancone del bar per cambiarla con due
pezzi da cento. Io stavo già esultando per l’epifania che stava per compiersi: presto
avrei esplorato la Luna!
<46>
(Anche se la Luna mica era rossa.)
Mio nonno fece ritorno, si inginocchiò, inserì una moneta nella fessura di sinistra,
l’altra in quella di destra, si rialzò, premette qualche bottone ma… non accadde niente.
Capii allora che le monete dovevano essere inserite nello stesso foro. Lo feci presente
a mio nonno: questi rimase un attimo in silenzio, poi strinse le spalle e mi disse che la
prossima volta avrebbe portato altri spiccioli. Quindi tornò al tavolo del tresette.
Non potevo crederci. La prossima volta… e quando? Come faceva mio nonno a non capire? Io non potevo attendere una prossima volta: lo dovevo provare subito Moon Patrol!
Mi feci coraggio e raggiunsi il tavolo da gioco con l’intenzione di domandare molto educatamente se uno di quei signori avesse cento lire da regalarmi. Mi bastava un misero
pezzo da cento! Nessuno negherebbe una monetina ad un bimbo così silenzioso! Ma
prima di poter formulare la mia richiesta, mio nonno pronunciò delle parole che mi ancora mi tormentano…
«Accuso napoletana a fiori e tre assi mancante picche.»
Le bestemmie che fecero seguito a quella frase sibillina chetarono ogni mio tentativo
di elemosina.
Avevo pensato che qualcosa stesse per cambiare, e invece non cambiò un bel nulla.
Fu allora che cominciai a progettare l’eliminazione di mio nonno.
DAL PROFEZIARIO
OGGI
2005
Il neon singhiozzò un poco, prima di accendersi.
L’uomo con i gradi di Generale dette un’ultima scorsa agli appunti, fece la conchetta
con la mano per controllarsi l’alito e attese i primi commenti da parte dei convocati, che
non tardarono ad arrivare.
«Posso sapere per quale motivo ci troviamo nella war room del Dottor Stranamore?»
chiese una voce maschile.
«Già, e io posso sapere dove cavolo è Peter Sell…» aggiunse una voce femminile,
interrotta da un nervoso: «Chi siete? Perché ci avete condotti in questo posto?»
«La mia testa! La mia preziosissima testa!» disse una quarta dolorante voce.
L’illuminazione ormai a regime rivelava una sala grande, grigia, priva di finestre. I
muri erano ricoperti da monitor, mappe e orologi dai diversi fusi orari. Un ampio neon
circolare scendeva dal soffitto fino quasi a toccare un tavolo di pari diametro. Quattro
persone sedevano su sgabelli posti in modo che dessero le spalle all’uscita.
«Signori, vi prego di non allarmarvi» disse una quinta persona sistemata alla parte
opposta del tavolo. «Sono il Generale Nick Fury, direttore dello S.H.I.E.L.D. C’è un’ottima ragione per cui vi trovate qui e ne sarete subito informati. Tuttavia, prima di iniziare
con le spiegazioni, gradirei che ognuno di voi si presentasse.»
Vi fu qualche istante di scettico silenzio.
«Che faccio, comincio io? Mi chiamo Alessandra C e sono una scrittrice donna: anche
se mi rendo conto che possa sembrare assurdo.»
«Sono Nemesis Divina, redattore di una rivista di videogiochi geniale, alternativa, rivoluzionaria. Si chiama Gameplus.»
«Jason Rubin. Game designer.»
«Shigeru Miyamoto… uh… Scorpione!»
«Perfetto. Vi ringrazio di aver accettato quello che, per ragioni di sicurezza, è stato un
invito alquanto vago» disse Fury.
«Invito?!» protestò Jason Rubin. «Volete dire che sono stato l’unico ad essere preso a
manganellate in testa, infilato in un sacco e riempito di pizzicotti lungo tutto il viaggio in
macchina?»
«Perdoni il comportamento dei miei agenti, signor Rubin: conducono una vita povera
di soddisfazioni» si scusò Fury. «Ebbene, so che in questo momento vorreste essere a
casa a consultare siti pornografici, ma la situazione è della massima gravità, e il vostro
aiuto sarà fondamentale. Non ho problemi ad affermare che il futuro del mondo potrebbe dipendere dall’operato di voi cinque.»
«Noi cinque?» obiettò Alessandra C dopo un rapido calcolo. «Veramente siamo in
quattro!»
«Gunny, a questo punto credo tu possa manifestarti. So che sei qui da qualche parte»
disse Fury guardandosi intorno.
Alessandra C iniziò a tremare in maniera via via più intensa: «C-che sta succedendo?»
«Oh mio Dio, la ragazza sta per esplodere!» gridò Miyamoto tuffandosi a terra e coprendosi le orecchie con i sandali.
Alessandra si alzò dallo sgabello assolutamente senza esplodere: la fonte della vibrazione era lo sgabello stesso. Tutti si avvicinarono incuriositi, osservarono attentamente
l’oggetto e, dopo alcuni secondi, si resero conto che si trattava di una persona travestita
da sgabello e accovacciata in posizione fetale.
«Un camo index del 105%. I miei complimenti, Gunny.»
<47>
«Grazie Generale» disse Gunny alzandosi in piedi e riattivando la circolazione. Poi, rivolto ad Alessandra C: «È stato bellissimo, beibe. Incontriamoci di nuovo al prossimo
briefing.»
Le parole di Nemesis Divina coprirono in parte gli insulti di Alessandra C: «Adesso dovremmo esserci tutti, potrebbe dunque spoilerarci il motivo di questa convocazione?»
«Senz’altro. Come potete leggere a pagina due del memorandum posto sul tavolo di
fronte a voi, negli ultimi dieci giorni le questure del Paese hanno registrato la sparizione
di numerose persone in circostanze molto poco chiare. In nessuno dei casi è stato riscontrato un motivo valido che potesse giustificare la scomparsa, né vi sono tracce di
sorta su dove queste persone possano al momento trovarsi.
«Ora, di norma lo S.H.I.E.L.D. non si occupa di fatti del genere, ma alcuni particolari ci
hanno messi in allerta. Dopo una verifica incrociata degli indizi, siamo riusciti a isolare
due elementi in comune a tutti i casi. Il primo riguarda la categoria sociale di appartenenza degli scomparsi: si tratta infatti di appassionati di videogames in una maniera che
gli esperti qui alla base definiscono ‘molesta’. Per la lista completa dei soggetti andate a
pagina tre…»
Nemesis Divina scorse l’elenco: «Vediamo… Bobbyzeta, Giobbi, Inki, Foxtrone, Snowball, Baggins, Castelli, Avecone, Fogman, Papero, Morgul, Sicumera…»
«Floyd, M@ster, Giampi, Capasso, Scirio, Sephirot, GuK, Esorciccio, Zer∅, Forrest,
l’intero forum di Gameplus, e la lista continua per pagine e pagine!» proseguì Miyamoto.
«Insomma stiamo parlando di lamer, di fanboy, di trollazzi vari» commentò Gunny.
Fury annuì. «Nel giro di pochi giorni, i maggiori fondamentalisti videoludici sono come
svaniti dalla faccia della terra. E questa, converrete, non può essere una coincidenza.»
«E qual è il secondo elemento in comune?» domandò Jason Rubin.
«Il secondo elemento in comune ha una classificazione di segretezza di livello alfa,
pertanto la notizia non dovrà uscire da questa stanza. Vedete, negli appartamenti degli
scomparsi abbiamo rinvenuto, scarabocchiato da qualche parte, il simbolo che potete
trovare a pagina venticinque…»
Un umidiccio silenzio scese nella sala briefing.
«Be’, non mi dice nulla. Che cosa dovrebbe rappresentare?» chiese Alessandra C.
«A giudicare dalla reazione dei suoi colleghi» disse Fury, «lei signorina C è l’unica a
non aver mai sentito parlare del Davide Videoludico. Questo simbolo è il suo marchio di
riconoscimento. Le basterà per ora sapere che il Davide Videoludico è considerato il più
pericoloso terrorista di tutti i tempi. E questa è solo una riduzione della portata dei suoi
crimini.
«Nel dicembre del 1995 il Davide rapi la figlia del Presidente, chiedendo come riscatto
la cancellazione del Natale dal calendario. Nel 1998 tentò invece di assassinare il Papa
con un miliardo di cavallette ammaestrate, ma il suo colpo più audace è il cosiddetto Capodanno di Sangue, quando la notte del 31 dicembre del 1999 l’umanità come oggi la
conosciamo fu a un passo dall’estinzione…»
«Ma di che diavolo sta parlando? Non è successo niente di tutto ciò!» protestò Alessandra.
«Questo perché noi dello S.H.I.E.L.D. abbiamo deciso che non doveva essere accaduto. Abbiamo insabbiato la cosa, signorina C. Lo abbiamo fatto perché lei e i suoi simili
continuaste il vostro quieto vivere. La popolazione non doveva sapere di essere stata
sull’orlo del collasso. Si fanno le cose più assurde quando si ritiene di essere sull’orlo del
collasso, come smettere di andare lavorare oppure annullare tutti quegli inutili acquisti
su Internet.»
«Dunque è tutto vero» pensò a voce alta Nemesis Divina. «Avevo letto un sacco di
mezze verità in rete, ma devo ammettere che non ci avevo creduto fino in fondo. Il furto
del Natale, l’attentato al Papa: niente di tutto questo aveva riscontri attendibili. E l’atto
più eclatante, il Capodanno di Sangue, è stato l’unico ad essersi guadagnato qualche titolo di giornale, anche se ridotto a quella bufala del millennium bug.»
«Ma allora come sono andate veramente le cose?» domandò un Miyamoto pallido in
volto.
«Adesso non c’è tempo per i flashback» tagliò corto Fury. «Vi basti sapere che lo
S.H.I.E.L.D. è riuscito a debellare ogni minaccia allestita da questo genio del male.
<48>
Abbiamo organizzato una caccia al Davide a livello mondiale, finendo per scovarlo
nascosto nelle montagne del Gennargentu.
«Dopo averlo tratto in arresto, abbiamo sottoposto il Davide ad alcune sessioni di lavaggio del cervello con lo scopo di renderlo inoffensivo: docile come un nintendaro. Per
quattro anni il Davide Videoludico ha trascorso una vita di insignificante routine al fianco
di un nostro agente dormiente, e nel fratt… »
« …e nel frattempo voi dello S.H.I.E.L.D. lo studiavate» lo anticipò Gunny, furioso.
«Ammetto di sì. Il Davide ci serviva vivo. Dovevamo capire alcune cose… alcuni poteri
di cui sembrava disporre e che…»
«… e che volevate trovare il modo di replicare.»
Fury annuì grave. «Tuttavia, alcuni incidenti accaduti ultimamente, come il furto del
codice di Half Life 2 e gli errori di battitura nella rivista Videogiochi, ci hanno fatto temere per un graduale risveglio della diabolica mente davidiana: assopita da tutto quel
candeggio mentale, ma non del tutto cancellata.
«Lo confesso, abbiamo avuto paura, e io personalmente ho dato l’ordine di ‘rottura dei
rapporti’ all’agente dormiente incaricato di sorvegliarlo. L’ordine è stato eseguito con apparente successo, ma in qualche modo – e questi casi di sparizione lo confermano – il
Davide sembra essere riuscito a soprav…»
«Non ci credo» obiettò fermamente Nemesis Divina. «Il Davide è morto. Ne sono sicuro. Io stesso ne ho avuto conferma. Ne ho anche riportato un resoconto ufficioso su
Ring. È stato assassinato da Liquid Davide alcuni mesi fa.»
«A questo posso rispondere io» disse una figura femminile apparsa su un monitor alle
spalle del Generale Fury.
«Ma tu sei Silvia! La moglie del Davide!» gridò Nemesis Divina, incominciando a capire.
«Vedo che mi conosci di fama, caro Nemesis. Silvia è uno dei tanti nomi che ho adottato in questi anni. Sono io l’agente dormiente assegnato alla sorveglianza del Davide
Videoludico.»
«Devi essere molto ligia al dovere, considerando che lo hai sposato.»
«Fa parte del mio addestramento: sono completamente devota alla Missione; quale
essa sia. E se la Missione lo prevede, posso persino innamorarmi. Anche se non è stato
questo il caso.
«Quando ho ricevuto l’ordine di rompere i rapporti, sono passata da agente dormiente
con nome in codice ‘Silvia’, ad agente sul campo, con nome in codice ‘Liquid Davide’.»
«Liquid Davide…» ripetè Gunny con un filo di voce. «Deriva dal fatto che il tuo compito
era di liquidare il Davide Videoludico, vero?»
«Esattamente. Purtroppo prima di morire il Davide mi ha teso un tranello che non
sono stata in grado di prevedere: mi ha chiesto come ultimo desiderio di poter scaricare
la posta. Acconsentii, e poi lo tolsi di mezzo. Tuttavia, dalla ricostruzione fatta in seguito
dallo S.H.I.E.L.D., l’ipotesi più verosimile è che il Davide non impiegò quei pochi minuti
per controllare le e-mail, bensì per fare un’immagine del suo cervello e spedirla su una
casella postale sconosciuta.»
«Fermi tutti, mi state dicendo che è possibile masterizzare un cervello? E quale
account potrebbe contenerne l’immagine, gmail?» disse sarcastico Rubin.
«Veramente la iso della mente del Davide, compressa e splittata con Winrar, sta su
dodici floppy dell’Amiga» puntualizzò la donna.
«Ma come fate ad essere certi di questa ricostruzione? In fondo le vostre non sono che
congetture. Chiunque potrebbe aver rubato il codice di Half Life 2, incasinato i testi di
Videogiochi e rapito quei deficienti, magari facendo poi ricadere la colpa sulla buonanima
del Davide» commentò Nemesis Divina.
«A supporto della nostra teoria abbiamo alcune prove che consideriamo inconfutabili»
replicò Fury: «cose come tracce genetiche davidiane lasciate sui layer inferiori del modello tcp-ip e piccole variazioni di tensione ai capi di alcuni condensatori nei modem adsl.
Ma l’indizio principale che ci fa ritenere senza ombra di dubbio che il Davide sia ancora
vivo, è che egli sta attualmente tenendo una rubrica tappabuchi sul pdf di Ring.»
«Oh, quello» disse Nemesis picchiandosi in fronte.
«Perfetto. Ammettiamo pure che questo Davide Videolucido sia vivo, vegeto e colpevole di quei crimini là» disse Alessandra C. «Posso sapere che cosa abbiamo a che fare
noi con la vicenda? Non ci crederà mica coinvolti in qualche modo…»
«Niente di tutto questo. La vostra estraneità ai fatti non è in discussione. Tuttavia è
mio dovere avvertirvi che, in seguito alla presunta eliminazione del Davide, siamo entrati
in possesso della sua rubrica telefonica personale, e in essa abbiamo trovato solo cinque
numeri di telefono. Numeri che corrispondono alle abitazioni di voi cinque.»
Nick Fury piazzò a questo punto una pausa strategica, cercando di interpretare le
espressioni dei diretti interessati in reazione alla notizia. «Ora, dagli appunti lasciati sulla
rubrica, sappiamo che la presenza dei numeri dei signori Rubin e Miyamoto deriva dal
fatto che si tratta del game designer più amato e di quello più odiato dal Davide Videoludico.»
«E ti pareva» commentò Rubin demoralizzato. «Scommetto quindi che era lui a mandarmi tutti quei topi morti per posta…»
«Esatto, è proprio così!» si affrettò a precisare Gunny.
«Forse non ci siamo capiti» disse Fury. «Lei Rubin è il game designer preferito del Davide, mentre Miyamoto è il più detestato.»
<49>
«Oh!» fece Rubin lusingato, lanciando un’occhiata di scherno al collega giapponese.
«Per quanto riguarda i vostri numeri telefonici, Nemesis e Gunny, immagino si tratti di
una prassi standard per i collaboratori di Ring.»
I due annuirono. «Inoltre il Davide voleva interpretare Otacon nel film Metal Gear Solid: Philanthropy» aggiunse Gunny. «Ma durante il provino andò completamente fuori
parte, tirando fuori un’interpretazione a metà strada tra il Marlon Brando de Il Padrino e
Frodo in versione Monte Fato; per poi tentare di gettare il regista in una bacinella di lava
portata per l’occasione.»
Fury si appuntò l’aneddoto. «Signorina C, non le nascondo un certo stupore per aver
trovato il numero di una donna nella rubrica del Davide.»
«Lo stupore è assolutamente reciproco, visto che non lo conosco e… Oh mio Dio! Stai
a vedere che era lui il maniaco che mi faceva tutte quelle telefonate porno alle tre di
notte!»
«Esatto, è proprio così!» si affrettò a precisare Gunny.
Nemesis Divina si alzò in piedi per assumere una posa maggiormente cool: «Bene signor Generale, ci ha illustrato lo scenario e ci ha subdolamente avvertito che, se non
obbediamo ai suoi ordini, può incastrarci con questa storia della rubrica…»
«Signor Divina, lei vede complotti ovunque» commentò Fury a mani giunte.
«Certo, certo. Ci dica una volta per tutte che cosa vuole che facciamo.»
«Bene. Dovete recarvi nella Matrice e iniziare una quest di ricerca del Davide Videoludico, o meglio della sua mente. E quando lo avrete trovato, dovrete ucciderlo.»
«Glom» fece Miyamoto. «Io in vita mia ho assassinato solamente tartarughe!»
«Frena frena frena. Mi spiegate perché volete mandare noi a compiere una missione
del genere?» domandò Alessandra C. «Dove sono i vostri supersoldati d’elite nel momento del bisogno? Perché non chiamate Capitan America?»
«Cap al momento è in Iraq a infilare un po’ di democrazia nel sedere della popolazione
locale» disse Fury.
«Perché allora non mandate Batman?»
«Batman raramente abbandona Gotham.»
«E Babbo Natale?»
«Uhm, Babbo Natale non esiste.»
«Okay, okay, cercavo solo di delineare i confini della narrazione!»
«Generale Fury» si intromise Jason Rubin. «La ragazza ha ragione: noi non siamo i più
indicati a svolgere questo incarico. Prenda ad esempio Miyamoto: le sembra che una responsabilità del genere possa gravare su questo nippo-effeminato? E quel tipo che imita
Snake? Al primo segnale si pericolo si camufferà da cartello stradale e ci lascerà da soli.
Io poi ammetto che sono anni che non sollevo niente di più pesante di un Martini…»
«Signor Rubin, questa non sarà una prova di forza, giacché nella Matrice la forza è un
concetto che non ha senso. Questa sarà una prova d’astuzia. Ci saranno enigmi, ci saranno prove di abilità, di bullet-dodging, di path-finding. Ma soprattutto sarà necessario
un certo know-how dell’ambiente. Vedete, voi tutti avete una cosa in comune con il Davide…»
Sicuramente non il sesso, pensò Alessandra C riferendosi ovviamente a se stessa… e
in una certa misura a Shigeru Miyamoto.
« …voi condividete con il Davide gran parte della configurazione cerebrale, e questo
per noi è di fondamentale importanza. Ci serve gente che pensi come lui, ci serve gente
in grado di risolvere i suoi puzzle perversi, ci serve gente che sappia anticipare ogni suo
pattern e quindi batterlo. Voi, come dicevo, condividete con il Davide il fatto di essere…
nerd.»
Il silenzio scoppiò nella war room.
«Che cos’è, uno di quei giochi ‘trova l’intruso’?» domandò Nemesis Divina un po’ risentito. «Posso capire gli altri qui presenti, ma la parola ‘nerd’ è quanto di più lontano
dalla mia persona vi sia…»
«Nemesis, ti voglio ricordare che in questo momento sei vestito come Alucard, il protagonista di Symphony of the night…» disse Jason Rubin.
«Uhm, touche.»
«Signor Generale» domandò Gunny. «Non essendo nuovo a questo tipo di operazioni,
ho sviluppato una certa esperienza sul campo, e so bene come voi governativi amiate
mandare i soldati in missione per cause apparentemente nobili, salvo poi scoprire che è
tutto un complotto e che le vostre motivazioni sono tutt’altro che nobili, se capisce cosa
intendo. Per cui evitiamo la solita tiritera e diteci subito che diavolo state tramando alle
nostre spalle.»
Stupito dalla richiesta, Nick Fury prese ad allentarsi il colletto dell’uniforme con l’indice, non sapendo che rispondere. Una fioca lampada da tavolo si accese all’angolo più
remoto della war room, rivelando una figura in ombra che, gomiti sulla scrivania, aveva
assistito in silenzio fino a quel momento: «Signor Gunny, questo non è un atteggiamento corretto da parte sua: cerchi per cortesia di non uscire dal ruolo che le compete.
E comunque il solo aver ipotizzato una condotta doppiogiochista da parte nostra, dovrebbe rassicurarla sul fatto che non ci saranno colpi di scena in tal senso. Altrimenti che
colpi di scena sarebbero?»
«Be’, anche questo è vero.»
«Ho sentito abbastanza. Se un uomo misterioso celato nell’oscurità mi dice che non
c’è niente da temere, non vedo perché non dovrei fidarmi!» aggiunse Nemesis Divina.
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I cinque accettarono l’incarico con entusiasmo e si scambiarono vari abbracci camerateschi. Alcuni agenti dello S.H.I.E.L.D. entrarono nella war room con l’incarico di condurli nella virtual room (passando per la corridor room). Il Generale Fury si sentì
sollevato.
«Gunny aveva quasi scoperto le nostre intenzioni» disse Fury all’uomo in ombra una
volta rimasti soli.
«È in gamba. Lo abbiamo scelto per questo.»
«Temo però che in futuro potrà darci delle noie.»
«Abbiamo preso contromisure anche in previsione di ciò. Non è il caso di preoccuparsi.»
«Okay. Partitina a Risiko?»
«Certo. Io tengo le armate nere.»
«Vuoi sempre tenere le armate nere. Hai veramente rotto le palle con queste armate
nere. Era da tanto che volevo dirtelo.»
I tecnici della virtual room svuotarono la vescica dei cinque con delle enormi siringhe,
poi dettero loro delle tute in lattice da indossare e alcune girelle Motta per merenda.
«Signori» esordì Nick Fury entrando nella stanza a preparativi ultimati. «Voi tutti vivete nell’ambiente dei videogames, quindi conoscerete senz’altro la Matrice e il suo funzionamento…»
«Veramente è la prima volta che ne sento parlare!» disse Miyamoto sorridendo, mentre una nipponica gocciolina di sudore calava dalla sua fronte. Jason Rubin scosse la testa.
«Miyamotosan, deve sapere che, contrariamente a quanto si crede, i videogiochi non
vengono realizzati da programmatori obesi dopo anni di progettazione. Questa è una
diceria che abbiamo messo in giro per giustificarne i prezzi esorbitanti. Anni fa, i governi
di Stati Uniti, Giappone e Cina crearono un mondo virtuale che può essere considerato in
tutto e per tutto una dimensione parallela. Questo mondo, chiamato ‘Matrice’, contiene
tutti quegli elementi di distrazione oppiacea per le masse universalmente noti con il termine ‘intrattenimento’. Stiamo parlando non solo di Internet e della telefonia cellulare,
ma anche di mondi immaginari come l’universo Disney o l’Italia raccontata dal TG1. Uno
di questi mondi si chiama Videogamia ed è la terra in cui vengono filmati i videogiochi.
Esatto: filmati con una macchina da presa da registi tutt’altro che obesi, e non progettati
in C++. Linguaggio che nemmeno esiste.»
«Fico! Quindi Mario, Luigi e compagnia bella sono personaggi che vivono in questa Videogamia…» disse Miyamoto con una diversa luce negli occhi.
«Ed è là che credete si nasconda la mente del Davide Videoludico?» aggiunse Gunny.
«È assai probabile. Le e-mail contenenti le rubriche tappabuchi che il Davide scrive per
Ring provengono infatti da lì. Più precisamente dai sotterranei della città di San d’Oria, a
Vana Diel.»
«Sta cercando di dirci che il Davide Videoludico ha trovato rifugio nel mondo di Final
Fantasy XI? Quasi quasi preferirei l’oblio» commentò Nemesis Divina.
«Non necessariamente. Riteniamo infatti che tali e-mail vengano spedite non dal Davide, ma dal suo unico e migliore amico: Donkey. Il vostro compito è quindi di trovarlo e
seguirlo fino al nascondiglio del Davide. Ma dovrete fare molta attenzione: Donkey ha un
curriculum di omicidi alle spalle che farebbe impallidire un contadino del nord-est…»
«C-chi viene ucciso nella Matrice, muore anche nella realtà?» domandò Miyamoto. I
suoi quattro compagni non furono in grado di dargli una risposta.
«Signor Miyamoto, per caso lei muore dopo aver fatto game over ad un videogioco?
Per caso lei muore se, mentre sta parlando al cellulare, la linea cade? Non si può morire
nella Matrice: si tratta pur sempre di una realtà illusoria creata dall’Uomo. Non preoccupatevi per queste vaccate da film di serie zeta.»
Tutti tirarono un sospiro di sollievo.
«Ciononostante, per motivarvi e accrescere la suspense» proseguì Fury, «coloro che
moriranno all’interno della Matrice saranno sottoposti al loro ritorno ad un trattamento
ipnotico punitivo. Dopo questo trattamento, chiamato Cura Ludovico, sarete costretti a
rinunciare alla vostra più grande passione, giacché il solo pensarci vi farà venire una
fortissima nausea.»
«Sta dicendo che non potrò più fracassare dei Nintendo 64 con il corpo cosparso di
nutella?» domandò Nemesis Divina.
«Ehi, credevo di essere l’unico a farlo!» commentò Miyamoto.
«Tutt’a un tratto mi rendo conto che un party di cinque elementi può non essere sufficiente» disse Alessandra C. «Non potremmo avere qualche rinforzo?»
«Niente da fare. Non mi piacciono i gruppi troppo numerosi: non fai in tempo a caratterizzare tutti i personaggi. Forse tra un po’ vi manderò qualcuno» rispose Fury.
«Sentite, visto che il nostro gruppo non ha ancora un nome, che ne dite se ci chiamiamo X-Men?» domandò Jason Rubin. «Da piccolo non facevo che leggere fumetti, e ho
sempre desiderato far parte degli X-Men!»
«Spiacente ma quel nome non è disponibile» disse il Generale. «È stato opzionato dai
giocatori dell’Inter.»
«Oh, basta, mi sono rotto i coglioni di tutti questi discorsi» disse Nemesis Divina inforcando degli occhialini trendy. «Ce ne stiamo qui seduti a parlare da così tanto tempo che
mi sembra d’essere in un fumetto Bonelli. I need some action!»
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Il Generale Fury sorrise divertito: «Non vedevo l’ora di sentirlo dire! Bene, accomodatevi sui lettini, indossate il casco-visore e connettete alle vostre tute quei cavi che non
servono a niente ma che fanno scena, quindi passate rapidamente le prime opzioni…»
«Ci vediamo dall’altra parte gente!» disse Nemesis Divina. «Ah, una cortesia: cercate
di non essere troppo nerdish…»
«Omioddio! È possibile vestire il nostro avatar come vogliamo!» cinguettò Miyamoto.
«Hurrà!» fece Rubin.
«Signor Fury, il motore poligonale della Matrice ha anche il fur-shading?» domandò
Alessandra C. «No perché in caso contrario mi posso mettere la minigonna…»
Nick Fury alzò gli occhi al cielo.
Sei ore dopo i salvatori del mondo erano pronti a partire.
DOMANI
2047
Il Messico non era mai stato così brullo.
Da ore il veicolo a sei ruote percorreva una superficie irta di buche e dossi, lungo un
paesaggio desolato, privo di vegetazione e con montagne troppo lontane per sembrare
raggiungibili.
«Fermati!» disse l’uomo seduto al lato del passeggero.
«Che c’è, l’hai trovato?»
«Non ne sono sicuro, ma mi sembra di vedere un albero in direzione 2-1-1. E in questa zona non ne avevamo ancora trovato uno.»
L’autista arrestò il veicolo, aprì la portiera, scese a terra e trasse di tasca il binocolo
elettronico.
«Hai ragione, è lui. Riesco a vederlo appollaiato su quella pianta.»
Anche il passeggero uscì dal mezzo. Entrambi indossavano un’uniforme militare che
recava sulla schiena la scritta ‘Pattuglia Lunare’. Guardò nella stessa direzione e vide
una figura anziana e sorridente, vestita con una tunica bianca e seduta sul ramo di un
albero privo di foglie.»
«Siamo stati fortunati a trovarlo» disse il guidatore. «E se fosse successo qualcosa in
nostra assenza? Come possono pretendere che facciamo da guardie del corpo al Papa
quando questo se ne va in giro senza dirci nulla?»
«Il Papa non si sta certo divertendo. Sono settimane che è impegnato a terraformare
la zona e, anche se il risultato non mi piace molto, tutto ciò fa parte del suo disegno divino, quindi è cosa buona e giusta. Ed è un lavoro duro, puoi scommetterci. Chi siamo
noi per criticarlo?»
«Sto solo dicendo che un po’ di collabor… Ehi, hai visto qualcosa muoversi?»
«Dove?»
«Trentacinque gradi alla destra dell’albero. Mi è sembrato di… eccolo di nuovo!»
Una figura umana compariva e scompariva alla vista dei due militari a causa del terreno fortemente ondulato. La sua direzione tuttavia era chiara: stava correndo verso il
Pontefice.
«Codice viola. Attentato in corso!» Gridò l’autista, poi estrasse la pistola di ordinanza e
iniziò a correre in direzione del Papa. Il passeggero prese dal veicolo il fucile da cecchino
e si buttò a terra. Il primo e il secondo colpo andarono a vuoto. Il terzo colpo partì proprio mentre l’autista, ormai piuttosto vicino all’albero, osservò meglio il sospetto attentatore ed esclamò: «Ma… è un bambino!»
Il proiettile andò a segno e il bambino rotolò a terra a pochi metri dal Pontefice.
«Era veramente un bambino, accidenti» disse il passeggero una volta giunto ai piedi
dell’albero con il fucile ancora fumante. «Ma non dovrebbero essere a scuola a studiare i
classici?»
«Mi sa che questo qui non imparerà mai la quinta stagione dei Simpson. Che razza di
spreco. Comunque abbiamo fatto il nostro dovere e non possiamo essere biasimati. I civili sanno bene che non devono avvicinarsi al Papa per nessuna ragione…»
«Ehi, si è mosso!»
«Viva la realtà!» disse il bambino con un filo di voce, prima di spingere il pulsante che
attivava l’esplosivo legato al torace.
La deflagrazione fu terribile.
«Vaff… Ehi, che cazz… vaff… Allora era veramente un terrorista!» gridò il passeggero,
sconvolto dall’accaduto.
«Ehi, perché non siamo diventati sordi? Ma soprattutto: perché non siamo morti
nell’esplosione?»
«Il Papa deve aver esteso il suo AT Field per proteggerci.»
I due si inginocchiarono in lacrime. Il Papa sorrise, li benedì con la mano, poi dispiegò
le sue tre paia d’ali e volò via. L’albero su cui sostava si polverizzò.
«Che bello, non lo avevo mai visto così da vicino!» disse l’autista commosso, mentre
decine di piume roteavano verso terra.
«Sai, credo che il Papa ti abbia cagato di striscio sulla spalla.»
[Prossimamente: le miniere di San d’Oria e… Donkey.]
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nEXT iSSUE…
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Ring 015 - Parliamo Di Videogiochi