La Grazia pedagogica “Il carattere si forma sotto l'influsso della grazia di Cristo. L'anima riacquista cosi la sua bellezza primitiva. Le doti del carattere di Cristo ci vengono comunicate e l'immagine del divino ritrova il suo splendore (E. G. White). Nel piccolo villaggio dove viveva, Wilfred era noto ai piccoli e ai grandi come il bestemmiatore, lo spergiuro e il picchiatore, e nessuno osava traversargli la strada. Non passava giorno che non litigasse con qualcuno. Il suo temperamento focoso lo portava a picchiare i suoi figli se si comportavano male e a entrare in conflitto con degli estranei nel pub se questi dicevano o facevano qualcosa che non gli andava. Un giorno al villaggio ci fu una riunione di chiesa e Wilfred, per quanto ubriaco, vi partecipò. Anche in quel luogo continuava a bestemmiare, così al termine dell’incontro il pastore gli parlò. Il giorno dopo seguì una visita a casa di Wilfred e, nei giorni successivi, l’uomo frequentò la chiesa e divenne un credente. Le persone non potevano credere al cambiamento che era avvenuto in lui: aveva smesso di imprecare e di bestemmiare. Un giorno la sua stessa moglie gli disse: «Se c’è qualcosa che questa chiesa ha fatto per te, ha almeno eliminato le tue bestemmie e le tue imprecazioni». Al che Wilfred rispose: «Mia cara, non è merito della chiesa; è la grazia trasformatrice di Dio che ha cambiato la mia vita. Gesù ha tolto da me il mio vecchio uomo per darmene uno nuovo.1 Infatti «la grazia di Dio, salvifica per tutti gli uomini, si è manifestata, e ci insegna a rinunziare all’empietà e alle passioni mondane, per vivere in questo mondo moderatamente, giustamente e in modo santo, aspettando la beata speranza e l’apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Cristo Gesù. Egli ha dato se stesso per noi per riscattarci da ogni iniquità e purificarsi un popolo che gli appartenga, zelante nelle opere buone» (Tt 2:11-­‐14). L’opera della grazia non consiste solo nel perdono dei nostri peccati, comprende anche lo sviluppo del carattere o la santificazione.2 Grazia e santificazione sono vincolanti ai fini della salvezza: «impegnatevi a cercare la pace con tutti e la santificazione senza la quale nessuno vedrà il Signore» (Eb 12:14). Un carattere non santificato dalla grazia di Dio, per mezzo dello Spirito Santo, non ci rende idonei per il cielo. La vita dell’apostolo Giovanni, il figlio del tuono (Mc 3:17), è un esempio della vera crescita caratteriale (santificazione). «Durante gli anni vissuti con Gesù, il Salvatore ammonì e consigliò questo suo discepolo, ed egli accettò i suoi rimproveri. Contemplando il carattere del Figlio di Dio, Giovanni comprese i suoi difetti personali e ne fu illuminato. Egli ebbe modo di osservare che la gentilezza, la tolleranza di Gesù, come pure le sue lezioni di umiltà e di pazienza non si accordavano con il suo carattere violento. Giorno dopo giorno il suo cuore fu attratto a Cristo, fino a quando, traboccante di amor per il suo Maestro egli dimenticò se stesso. La potenza, la gentilezza, la maestà, l’umiltà, la forza e la pazienza manifesti nella vita del Salvatore riempirono la sua anima di ammirazione. Egli sottomise il suo carattere vendicativo e ambizioso alla potenza rigeneratrice di Cristo e l’amore divino trasformò il suo carattere».3 1
Settimana di Preghiera, ed. AdV. Falciani – Impruneta , FI -­‐ 2003.
Dal gr. Hagiasmos da hagiazò = consacrare, mettere da parte e dal latino sanctus. 3
E. G. White, “Gli uomini che Vinsero un Impero”, ed. AdV, Falaciani Impruneta (Fi), p. 350
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1 \ Il Nuovo Testamento chiarisce molto bene che la volontà di Dio per ogni credente è la maturità caratteriale. Egli desidera che ciascuno dei suoi figli acquisisca una personalità equilibrata, responsabile, gentile e paziente. Paolo, in Efesini 4:12-­‐15 ne evidenzia l’importanza, affermando che lo Spirito Santo elargisce i suoi doni: per il perfezionamento dei santi […] affinché non siamo più come bambini sballottati e portati qua e là da ogni vento di dottrina [...], ma, seguendo la verità nell'amore, cresciamo in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo». Nella sua seconda lettera a Timoteo parla dell’importanza della sacra scrittura nello sviluppo della personalità: «ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tim 3:17). Il fine ultimo della nostra crescita caratteriale è diventare simili a Gesù. Il piano di Dio per noi sin dall'inizio è stato di farci diventare come suo Figlio: «Perché quelli che ha preconosciuti, li ha pure predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8:29). Dio vuole che ogni credente sviluppi il carattere di Cristo» (Ef 4:12). La grazia pedagogica Nella lettera a Tito Paolo rileva che la grazia di Dio, nella vita del credente, ha una funzione pedagogica,4 didattica e/o formativa in vista nella beata speranza del ritorno di Cristo (Ti 2: 11-­‐13). Essa promuove in colui che è giustificato (Ti 3:4-­‐7) uno stile di vita secondo i frutti dello Spirito che sono: «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo» (Gal 5:22). Ciò significa che la grazia, manifestatasi in Gesù Cristo offre all’uomo nuove possibilità ed esigenze. Gli aspetti che contraddistinguono quest’opera meravigliosa della grazia sono tre: la fase destrutturante, subliminale e ristrutturante.5 La prima e l’ultima evidenziano due stili di vita contrapposti: il primo rivela una personalità impietosa, insensibile, distaccata, irreligiosa; l’ultima un carattere equilibrato, premuroso, gentile, riservato, spirituale.6 Quest’ultimo aspetto non ha nulla a che fare con la beatificazione tipica, nel mondo cattolico, degli eroi cristiani che sono in paradiso, ma con il presente: «in questo mondo». Non si tratta di una possibilità che la grazia promuove, ma di un presupposto per colui che l’ha accettata nella persona di Gesù Cristo. Paolo esplicita questo pensiero con le seguenti parole: «non son più io ma è Cristo che vive in me» (Gal 2:20). In altre parole, la vita del credente non è solo la risposta alla grazia di Dio, ma grazia vissuta: egli testimonia dell’epifania della grazia nella sua vita al mondo. A. Fase destrutturante La grazia ci insegna «a rinunziare all'empietà e alle passioni mondane». Si tratta di una fase molto delicata perché per costruire un sereno rapporto con Dio bisogna essere disposti a far prima un'opera di smantellamento (Ger 4:3-­‐4). Destrutturare significa buttar giù le fondamenta, far dunque un intervento radicale; non accontentarsi del vino nuovo in otri vecchi e neppure intestardirsi a rammendare, tutta la vita, abiti sdruciti e logori (Lc 5: 36-­‐38). La destrutturazione è il contrario del compromesso e delle mezze misure e implica, innanzitutto, il coraggio di liberarsi dalle false idee che abbiamo su Dio e sul rapporto con lui, per poi cominciare a convertirsi davvero, ma anche l’audacia di prendere le distanze da noi stessi, «dalle 4
La funzione educatrice della grazia va vista in relazione con la comunicazione della conoscenza della verità e della sana dottrina,di cui le lettere pastorali tornano sempre a ribadire che non solo richiedono, ma comportano l’atteggiamento conforme del cristiano (N. Brox, “Le lettere pastorali”, p. 440, ed. Morcelliana – Brescia, 1970).
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Per l’approfondimento di queste tre fasi consultare: "A. Cencini, Amerai il Signore Dio tuo, “Psicologia dell’incontro con Dio”, ed Dehoniane, Bologna, 1989 6
Cfr. Galati 5: 19-­‐23
2 \ passioni mondane e dall’empietà»7; in parole povere dal nostro io gravato dell’egoismo, dall’orgoglio, dalla sensualità, da uno stile di vita disordinato, disumanizzato.8 La grazia pone il credente di fronte a se stesso, al suo io «povero, cieco e nudo» (Ap 3: 17), al suo fallimento come uomo e lo induce ad esclamare: «me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (Rm 7:24). Poi occorre intraprendere la strada dello Spirito (Rm 8), che favorisce la ristrutturazione del carattere deformato dal peccato.9 Molti credenti oggi sono alla ricerca di un Salvatore che non ponga condizioni. Desiderano una liberazione senza requisiti, priva di ogni riferimento morale assoluto, inalienabile;10 pur professandosi cristiani finiscono per inventarsi un salvatore a propria misura, dimentichi che la grazia di Dio, in primo luogo, favorisce la consapevolezza di quel che si è in rapporto non a se stessi o al prossimo, ma a Dio che è santo. L’apostolo Pietro era un uomo dalla natura impulsiva, ambizioso e pieno di sé, ma quando la grazia di Dio si manifestò nella sua vita nella persona di Gesù Cristo, quando si confrontò con la natura divina, si sentì indegno e mentre i suoi compagni vuotavano le reti, Pietro cadde ai piedi del Salvatore esclamando: «Signore, dipartiti da me, perché son uomo peccatore» (Lc 5: 8). «La stessa presenza della santità divina aveva fatto cadere il profeta Daniele come morto ai piedi dell’angelo di Dio. Il profeta disse: «In me non rimase più forza; il mio viso mutò colore fino a rimanere sfigurato» (Dan 10:8). E Isaia, quando contemplò la gloria del signore, esclamò: «Ahi, lasso me, ch’io son perduto! Poiché io sono un uomo dalle labbra impure, e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure; e gli occhi miei han veduto il Re, l’Eterno degli eserciti!» (Is 6:5). L’umanità, con le sue debolezze e i suoi peccati, si trovò di fronte alla perfezione divina e Pietro si sentì limitato e indegno. Questo è il sentimento che provano tutti coloro che hanno il privilegio di vedere in visione la grandezza e la maestà di Dio. Pietro esclamò: «Signore, dipartiti da me, perché son uomo peccatore».11 Due sono gli aspetti che dissentono dalla grazia pedagogica: l’empietà e i desideri mondani.12 Il primo si contrappone alla pietà, alla bontà, alla comprensione, alla carità, all’affabilità e alla misericordia; il secondo rievoca il decimo comandamento: «Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo» (Es 20:17).13 Questo comandamento è l’unico che colloca la persona e il suo stile di vita nell’ambito incontrollabile dei sentimenti. Non riguarda un’azione concreta, ma un’attitudine mentale, emozionale; basata sul principio che prima di una cattiva azione c’è un cattivo pensiero (Mc 7:22-­‐23).14 É il più intrigante di tutti, nel senso 7
Il concupiscente, colui che non sa accontentarsi di quello che riesce a ottenere, non è felice, sereno. Non ha la pace interiore.
Il profeta Geremia scrive:«Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno; chi potrà conoscerlo?» (Ger 17:9). Nel cuore si annidano i nostri peccati occulti: «Tu metti le nostre colpe davanti a te, i nostri peccati occulti alla luce del tuo volto» (Sl 90:8). 9
La natura umana è stata corrotta nel profondo di se stessa ed in essa alberga un’ostilità istintiva verso Dio (Ro 8:7): è debole e soffre di un'inclinazione, quasi incosciente, al peccato. Questa natura, dominata dal peccato, governa la razza umana (Ro 8:9) e a causa di questa schiavitù è impossibile agli uomini divenire fedeli amministratori di Dio.
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I sentimenti specifici della moralità sono il senso del dovere, il senso di colpa, il pentimento e il rimorso. Invece il moralista (colui che predica la morale, ma non la mette in pratica), condanna, s’indigna, protesta, stigmatizza, chiede giustizia, punizioni esemplari. Guarda sempre gli altri, mai se stesso. 11
E.G.White, “La Speranza dell’uomo”, p. 175,ed. AdV –Falciani Impruneta (Fi), 1998
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Cfr. 1 Giovanni 2:16 – “ Mondano”ha inequivocabilmente un significato peggiorativo.
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La concupiscenza attenta contro la fraternità, presupponendo la mancanza d’amore. 14
Il desiderio è come il motore di un’automobile, esso dà movimento a tutto l’essere. Nasce dal cuore e si manifesta in atti concreti, tali da afferrare l’adeguata soddisfazione.
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3 \ che esso ci pone soli davanti a Dio e che la sua osservanza sfugge al controllo degli altri. Pertanto, controllare i propri pensieri, le idee, i sentimenti, i desideri e gli sguardi ambigui è di vitale importanza. “Beati quelli che sono integri nelle loro vie, che camminano secondo la legge del SIGNORE” (Sl 119:1; cfr. Sl 119: 97-­‐104). B. Fase Subliminale o inter-­‐fase Il termine sub-­‐liminale -­‐ letteralmente: innalzare, superare -­‐ significa superamento d'una certa soglia, limite. Spontaneamente poniamo questo limite al nostro cammino spirituale, ma che in una autentica esperienza con Dio siamo continuamente costretti a oltrepassare. Questa soglia è la nostra intelligenza, la nostra pretesa di capire sempre tutto, di avere il controllo della situazione e di muoverci solo quando sappiamo dove mettere il piede, senza dubbi, né rischi. Bisogna superare il limite della nostra resistenza o della nostra disponibilità «ragionevole» al sacrificio e alla rinuncia, per lasciarsi coinvolgere pienamente dal nuovo. Un’illustrazione convincente di questa delicata fase della conversione e quindi dell’accettazione della grazia di Dio, la possiamo cogliere nella condotta di Anania e Saffira. «Queste due persone che si professavano discepoli, avevano avuto, insieme ad altri, il privilegio di udire il Vangelo predicato dagli apostoli. Erano insieme ad altri credenti quando, dopo la preghiera degli apostoli, “il luogo dov’erano radunati tremò; e furon tutti ripieni dello Spirito Santo” (Atti 4:31). Tutti i presenti furono profondamente convinti e sotto l’influsso dello Spirito di Dio, Anania e Saffira fecero voto di dare al Signore il ricavato della vendita di una certa proprietà. Poi, Anania e Saffira rattristarono lo Spirito Santo cedendo a sentimenti di avidità. Cominciarono a rimpiangere la loro promessa, e presto persero il gentile influsso che aveva dato ai loro cuori il desiderio di fare grandi cose per l’opera di Cristo. Pensarono che erano stati troppo frettolosi e che dovevano riconsiderare la loro decisione. Discussero su questo soggetto e decisero di non mantenere fede alla loro promessa. Essi videro, comunque, che chi donava i propri beni a fratelli più poveri acquistava la stima di tutta la comunità. Pur vergognandosi di rivelare ai fratelli il loro egoismo, desideravano quello che avevano solennemente consacrato a Dio; decisero deliberatamente di vendere la proprietà e pretendere di mettere tutto il ricavato nella cassa comune, mentre in realtà avrebbero trattenuto per sé buona parte della somma. In questo modo si sarebbero assicurati i viveri attingendo dalla cassa comune, e allo stesso tempo avrebbero ottenuto la stima dei fratelli».15 Il vero problema, nella fase subliminale, è che i valori e i criteri di prima sono passati, si sono dimostrati pseuodo-­‐valori, ingannevoli e traditori, ma i nuovi valori non si sono ancora pienamente manifestati al cuore del credente. Egli li avverte e li intravede, ma ancora non se li sente suoi. Capisce che Dio gli chiede qualcosa o molto di più, ma gli fa paura pensare d'essere del tutto povero, rinunciando radicalmente agli affetti che lo tenevano lontano dalla grazia di Dio. La fase subliminale richiama alla nostra attenzione l'esperienza della conversione dell'apostolo Paolo (Atti 9: 3-­‐10). La luce che viene dall'alto e avvolge la nostra vita dandoci una percezione diversa di noi stessi e della nostra idolatria, è una luce abbagliante, fa cadere a terra e toglie addirittura la vista. É forse la fase più delicata d'un processo di conversione, ma anche la più sofferta e per certi versi, innaturale, come quella di Abrahamo, lungo il deserto fino al monte Moria, luogo in cui doveva per ordine, irrazionale, divino sacrificare l'unico figlio: Isacco. Se prima bastava essere furbi, ora è necessario essere credenti; se prima era importante essere ragionevoli e logici e saper constatare la realtà, ora bisogna imparare a lasciarsi condurre dal mistero e dall'inconoscibile. La conversione inizia il giorno in cui accettiamo che Dio sia diverso dai nostri schemi, ma diventa effettiva solo quando lasciamo che questo Dio ci conduca dove lui solo sa e vuole (Os 2:16; Gn 22:1). 15
E. G. White, “Gli uomini che vinsero un impero”, cap. 7, ed. AdV, Falciani Impruneta (Fi)
4 \ C. Fase ristrutturante La grazia ci insegna a vivere, in questo mondo, «moderatamente, giustamente e in modo santo».16 Quella della ristrutturazione indica il tempo della costruzione dell'uomo nuovo o della rinascita, del ritorno alla vita «...era morto, ed è tornato a vita» (Lc 15:32), che suppone una riorganizzazione generale delle strutture portanti della personalità, del rapporto con Dio e con la famiglia divina, la chiesa, e con il mondo. É lavoro che deve andare alle radici, sfruttando naturalmente quel terreno già dissodato e purificato dalle fasi destrutturante e subliminale. Si tratterrà -­‐ in sostanza -­‐ di costruire e ricostruire continuamente un rapporto con Dio che non conduca alle illusioni dello spirito, ma ad una esperienza di quella passione con la quale Dio non cessa di cercare l'uomo. É proprio il sentirsi cercati da Dio che dà forza di rendere effettiva la conversione e cambiare vita (Ap 2:17). Quest’opera meravigliosa della grazia è possibile grazie allo Spirito Santo (2 Tess. 2:13). Quando il credente studia la vita di Cristo, lo Spirito Santo agisce sulla sua mente e sulla coscienza rigenerando le facoltà fisiche, mentali e spirituali (Ti 3:5; 1Tess 5:23). Di fatto lo Spirito Santo non rivela soltanto il Cristo all’uomo, ma nella sua qualità di sostituto di Cristo in noi, ci trasforma alla sua immagine, determinando il rinnovamento radicale nella vita del credente (Rm 8: 1-­‐10). Gli strumenti a disposizione dello Spirito Santo sono la Parola di Dio (di verità) (Gv 17: 17-­‐19), la preghiera (Rm 8: 26,27) e la testimonianza, ma tocca all’uomo, nell’esercizio della libertà, far ricorso a questi strumenti di ristrutturazione. Questa fase riguarda tutti gli aspetti della vita e non soltanto quelli morali e spirituali, ma anche quelli relazionali (1Tess. 5:23). Come le offerte di animali nell’A.T. dovevano essere «perfette», cioè la bestia doveva essere sana, senza difetti (Mal 1: 6-­‐8), così pure deve essere l’offerta della nostra persona (Rm. 12:1), per cui è indispensabile dare un taglio netto con «l’empietà e i desideri mondani» e decidere di vivere nella grazia Dio, con serenità e «in questo mondo moderatamente, giustamente e in modo santo».17 c1 . Moderatamente Essere sobri o moderati18 non significa essere austeri e tristi; non è sacrificio, rinuncia, pauperismo.19 É, invece, capacità di acquisire un nuovo stile di vita personale e comunitario. La sobrietà è più un modo di essere che di avere, uno stile di vita che sa distinguere tra i bisogni reali e quelli imposti o superflui. É la capacità di dare alle nostre esigenze il giusto peso senza dimenticare quelle spirituali, affettive, intellettuali, sociali. Un modo del tutto nuovo di organizzare la vita. Se l’essere istintivo caratterizza l’homo concupiscente, sensuale, la sobrietà evidenzia l’homo spiritualis «e ben preparato per ogni opera buona» (2 Tim 3:17). Il credente dunque è invitato a concedere spazio “affettivo” alla grazia affinché promuova un autocontrollo, che non sia di facciata, ma autentico, capace di un nuovo orientamento che coinvolga tutti gli aspetti della vita, quali la spiritualità, le relazione sociali, la salute del corpo, l’economia, l’attività fisica, ecc. 16
La cei: « con sobrietà, giustizia e pietà» Le tre parole qui scelte per descrivere la vita cristiana sono mutuate dall’etica greca: riguardo al proprio io, si tratta di una vita sobria; riguardo agli altri uomini, di una vita giusta; riguardo a Dio, di una vita pia (Jeremias, Tito, p. 122)
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Greco: Sôfronôs -­‐ Altri traduce: temperatamente che significa “ con autocontrollo”. Altri ancora: sobriamente 19
Il pauperismo, o meglio il depauperamento, è un fenomeno economico e sociale caratterizzato dalla presenza di larghi strati di popolazione, o anche di intere aree, in condizioni di profonda miseria dovuta a fattori economici e strutturali (mancanza di capitali o di risorse) o a fattori eccezionali (guerre, calamità naturali, carestia ecc.).
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5 \ Nel capitolo 12 ai Romani abbiamo un riflesso di questa sobrietà che è anche saggezza, l’antica prudentia latina. San Bernardo, commentando Tito 2:12 scriveva: sobrie erga nos, juste erga proximum, pie erga Deum. «La sobrietà ha cioè come particolare zona d’influenza l’atteggiamento davanti a se stesso mentre la giustizia implica sempre la presenza di altri e la pietà si rivolge verso Dio».20 Infine «la sobrietà non è un concetto chiuso che ha in sé il suo senso. Invece è un segno, è l’atteggiamento di chi attende. Tanto in Tito 2: 12-­‐14 quanto in 1 Pietro 4:2 l’esortazione alla sobrietà è connessa con l’attesa del regno di Dio. Il Cristiano vive nella tensione escatologica e non della contemplazione delle sue virtù. La sobrietà diventa quasi sinonimo della vigilanza».21 c2. Giustamente Vivere in modo giusto22 o secondo giustizia nel mondo in cui viviamo, fortemente modificato, nei valori, rispetto al passato anche recente, richiede coraggio e uno stile di vita che abbia come unico riferimento morale e relazionale la persona di Gesù: l’artista della comunicazione.23 Egli è l’espressione ultima della volontà di Dio che ci da la possibilità di muoverci nei meandri delle relazioni umane24 con integrità, rettitudine e/o trasparenza. La trasparenza è una parola attraente e dall’ampio significato, si lega alla franchezza, all’integrità, all’onestà, alla correttezza, alla rettitudine, alla chiarezza, all’apertura, al rispetto, al senso di responsabilità e a tante altre cose che ci permettono di rapportarci correttamente agli altri. Pertanto, la trasparenza non ha nulla a che fare con l’omertà, l’oscurità, l’opacità, la segretezza, la disonestà, l’immoralità, con il nascosto. Ma, essere trasparenti, non significa essere maleducati, parlare a sproposito, essere vendicativi, ma esprimersi correttamente offrendo la propria valutazione senza esprimere giudizi di condanna; promuovendo una sana dialettica tesa a consolidare i rapporti umani e a trovare soluzioni adeguate a fatti e aspetti della vita familiare, ecclesiale che hanno bisogno di essere migliorati o qualificati. 20
Dizionario delle dottrine bibliche a cura di G. Miegge, Voce: Sobrietà, Feltrinelli editore
Idem -­‐ Cfr. Luca 21:36 22
Greco: dikaiôs -­‐ 17 volte nel N.T. Può essere tradotto: giustamente; propriamente; come è giusto; con integrità; piacevole alla legge della rettitudine.
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Gesù era un uomo che si muoveva fra la gente cercando il contatto personale. Non aveva stabilito un centro socio spirituale e sanitario, aspettando che la gente andasse da Lui, ma percorreva a piedi città e villaggi. Ciò significa che era un uomo fisicamente robusto, aperto, sensibile, ed entrava in contatto con le persone prendendo coscienza dei loro bisogni. Conosceva gli esseri umani perché riusciva ad entrare in sintonia con la loro vita interiore, ascoltando, condividendo e osservando e pregando per e con loro. Gesù non fu un uomo superficiale, ma profondo e di una sensibilità ineguagliabile. Fu un uomo con una vita interiore profonda, integra e con eccellenti capacità espositive. Sapeva parlare al cuore perché, stando ai suoi stessi nemici: «Nessun uomo parlò mai come quest'uomo!» (Gv 7:46). Le sue emozioni sono tutte dense e forti e non vi è in esse nulla di esteriore. La sua straordinaria sensibilità ha un’intensità distintamente soprannaturale quando, ormai consumato dal tradimento, cerca ancora di salvare l’anima del traditore e quando, sulla croce, perdona coloro che lo hanno condotto sul patibolo: «perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23:34). In un articolo dal titolo «Crescita nella grazia», Ellen G. White condivise la seguente convinzione: «Per vivere da cristiani, dobbiamo stabilire un collegamento vitale con Cristo. Il vero credente può dire: “Io so che il mio Redentore vive”. Questa comunione personale con il Salvatore metterà da parte ogni desiderio di gratificazioni umane e terrene» Review and Herald, 30 maggio 1882. 24
I rapporti importanti della nostra vita sono per noi fonte di gioia e dolore. Costituiscono fonte di gioia e risorse insostituibili in quanto ci permettono di esprimere le nostre emozioni, di avere e fornire sostegno e comprensione, di provare il piacere della collaborazione, dello scambio di idee, di crescere. Ma spesso questi stessi rapporti, siano essi di amicizia, di parentela o di lavoro, diventano per noi fonte di tormento e sofferenza continua: ci sentiamo incompresi, feriti, finiamo per provare rabbia e risentimento nei confronti di persone per cui in passato abbiamo provato sentimenti positivi. 21
6 \ Maggiore è la trasparenza, meno probabilità ci sono che disinformazione, pettegolezzi, ecc. “riempiano il vuoto”. In altre parole quando non c’è trasparenza si crea un vuoto che viene riempito dai pregiudizi e dall’opinione personale. Parlare chiaro, con giustizia, è un esercizio particolarmente audace perché implica riconoscere i propri sbagli con le relative conseguenze. Molti preferiscono tacere, rimanere nell’opacità, piuttosto che essere trasparenti assumendosi le proprie responsabilità. Altri vivono nel silenzio per paura di essere censurati, isolati, emarginati; oppure si assoggettano facendo finta di essere d’accordo pur di essere tra quelli che detengono una certa autorità. Altri ancora parlano di nascosto, dietro le quinte, perché non hanno il coraggio di esprimere il loro pensiero o le loro idee per paura di non essere presi in considerazione. Ci sono anche quelli che parlano di nascosto, con l’uno o con l’altro, senza mai assumersi apertamente le proprie responsabilità. Ed infine, forse i più pericolosi, quelli che complottano, congiurano ai danni altrui, pensando e illudendosi di farlo in buona fede. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la trasparenza, con la sincerità, l’onestà e con il senso di responsabilità. Dio disse ad Aronne e Maria sua sorella: «Con lui io parlo a tu per tu, con chiarezza, e non per via di enigmi; egli vede la sembianza del SIGNORE. Perché dunque non avete temuto di parlare contro il mio servo, contro Mosè?» (Nm 12:8). In breve, tutti vorremo avere delle relazioni cordiali e sane con il nostro prossimo, ma non sempre è facile conseguirle. Siamo tutti peccatori e imperfetti; esseri dai tratti caratteriali per i quali non sempre è facile andare d’accordo. Ma determinante, nell’ottica dei rapporti con gli altri, è la trasparenza e soprattutto la nostra relazione personale con Dio. Solo rafforzando uno stretto legame con il Signore potremo stabilire con il prossimo quel rapporto ideale che dovremmo avere. c3. Piamente La spiritualità passa attraverso molte vie. Una di esse è la pietà cristiana. 25 Un primo significato è quello di misericordia e di empatia. Indica la disposizione dell'animo a sentire compassione verso l'infelicità altrui e ad operare di conseguenza (Pr 19:17; Sl 51:1). Un secondo significato, più corrispondente all'etimologia della parola è quello di «disposizione a sentire devozione26 verso Dio. Questo senso lo troviamo nelle epistole pastorali di Paolo a Timoteo e in quelle di Pietro (2Tim 2:2; 2Pt 1:6; Ti 2:12). Di conseguenza, la pietà è un concetto teologico che descrive l'affetto, il rispetto e l'obbedienza che il credente ha per Dio.27 Essa è costituita da quei sentimenti che non sono dovuti alla paura del credente per 25
Ebr: hesed; gr: eusebeia; lat: pietas, a sua volta derivante da pius: devoto, religioso. Pietà’ o ‘religiosità’ genuina convergono la giusta relazione con Dio e i corretti rapporti con gli uomini.” La Nuova riveduta traduce “in modo santo»; la Cei «Pietà». L a radice «seb» significa originariamente ritirarsi davanti a qualcuno o qualcosa, stabilire una distanza nello spazio, soprattutto nei confronti di una entità superiore, maestosa. 26
Essere pio, devoto non è più una qualità stimata e ricercata. L’associazione di questi termini con l’idea di «bigottismo» non è soltanto del linguaggio comune; anche la predicazione ecclesiastica sembra preoccupata di evitare l’espressione, appunto perché ingenera equivoci, indirizza il pensiero in una falsa direzione. 27
Cfr. Gv 14:15; Rm 5:19; 16:19; 1 Pt 1:22 7 \ la santità e onnipotenza della divinità, ma quale esigenza interiore dovuta alla gratitudine per l'amore che il fedele sente di ricevere dal suo Dio.28 Secondo il Cardinale Martini, «La pietà è la tenerezza per Dio, l'essere innamorati di lui e il desiderare di rendergli gloria in ogni cosa. La misericordia del Signore è stata talmente grande con noi che egli desidera il nostro amore verso di lui! Grazie alla pietà il cristiano non cerca solo le consolazioni di Dio, ma desidera fargli compagnia nella sua gioia e nel suo dolore per il peccato del mondo».29 La pietà è una di quelle disposizioni abituali che qualificano il rapporto del credente con Dio rendendolo capace di desiderare quello che Dio desidera, e raggiungere quella confidenza che gli permette di rivolgersi alla divinità chiamandolo «Abbà» Padre (Mc 14:36; Rm 8:15; Gal 4:6).30 Il dono della pietà31 qualifica il rapporto con Dio e di riflesso, però, essa lo dispone anche ad un atteggiamento di delicatezza e di rispetto verso il prossimo come un riverbero del sentirsi figli dello stesso padre. In altre parole, la pietà ha il suo risvolto nella vita, sia privata che pubblica come ad esempio nell’incontro quotidiano con il Risorto, mediante l’evangelo, la preghiera e in uno stile di vita empatico verso il dolore altrui; in un desiderio attivo di alleviare la sofferenza dell’altro. E. G. White, scriveva: «Una pietà vera, vivente... si deve riflettere nella condotta e nel carattere».32 Pertanto «la pietà è utile in ogni cosa» (1 Tm 4:8). Essa è una caratteristica inalienabile nella personalità dell'uomo di Dio (1 Tm 6:11). L’apostolo Paolo, in 2 Timoteo 3:5 afferma che gli ultimi giorni, prima del ritorno di Cristo, saranno caratterizzati da ogni immoralità ma sotto le apparenze di pietà tali da ingannare i più incauti. «Quando la Bibbia afferma che negli ultimi tempi gli uomini avranno «le forme o le apparenze della pietà» si riferisce anche a una religione formalistica che si esaurisce in una serie di gesti meccanici senza una vera cognizione delle cose della fede. Oppure a una religione che si limita alla lettura della Scrittura, legalistica, basata sulle opere meritorie che l'apostolo Paolo definisce «opere della legge» (Rom 3:28). L'uomo è salvato per grazia, mediante la fede (Ef 2:8-­‐10), le opere che egli compie non sono quindi meritorie, ma l'espressione della sua gratitudine per essere stato salvato. Un'obbedienza spontanea, non un mezzo di salvezza».33 «L'apparenza di pietà non salverà nessuno. Ci vuole un'esperienza profonda, reale, l'unica che ci permetterà di attraversare i tempi difficili».34 Aspettando la beata speranza «L’opera cominciata dalla grazia giustificante nel battesimo, si continua nella grazia edificante nella vita quotidiana dei cristiani» (Jeremias), «aspettando la beata speranza e l’apparizione della gloria del nostro 28
Il contrario della pietà è l’empietà, vista come sclerocardia, durezza di cuore, una situazione in cui il credente può cadere, come ha avvertito più volte Gesù, rimproverando addirittura ai Dodici questa patologia: «Ma non capite? Avete il cuore indurito?» (Mc 8,17-­‐21). Cuore indurito o cuore calloso è il cuore che ha perso la sensibilità, che non sente più, non vibra più alla voce di Dio, tenue come una brezza. È il cuore che ha perso slancio, motivazioni, che è diventato cinico, insensibile. 29
Carlo Maria Martini: Tre racconti dello Spirito, 1997-­‐98. 30
Quando pregate, dite Abbà…" (Lc 11: 2) 31
«la sua potenza divina ci ha fatto dono di ogni bene per quanto riguarda la pietà» (2 Pt 1,3)
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Review and Herald, 8 apr. 1890. 33
Dizionario delle dottrine bibliche, voce: Pietà. Ed. Adv. Falciani .-­‐ Impruneta (Fi)
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E.G.White, Test., vol I, p 491.
8 \ grande Dio e Salvatore Cristo Gesù» (Ti 2:13). «La vita nel mondo è dunque per il cristiano un unico distendersi nell’attesa della speranza».35 Aspettando – Non si tratta solo di un’attesa storico-­‐escatologica, implicante il tenersi pronti annunciando questo ritorno al mondo, ma significa anche «un’attesa esistenziale e personale rivolta a quell’evento indipendentemente da quando storicamente si debba verificare. Questo per l’individuo ha un’importanza relativa, forse minima se non nulla. Infatti deve essere sempre pronto, perché se non sarà il ritorno di Gesù a coglierlo potrà essere la morte inaspettatamente, “come un ladro”; quindi, per il singolo il ritorno di Gesù è sempre vicino, anche se dovesse verificarsi fra mille anni. Dopo duemila anni dalla morte di Paolo non è ancora avvenuto, ma quando l’apostolo si risveglierà dal sonno della morte e vedrà Gesù gli sembrerà di essersi appena addormentato. Così potrà essere per ognuno di noi. Se poi ritornerà mentre siamo in vita, dal punto di vista del tempo di attesa farà ben poca differenza. In questo aspettando è racchiusa tutta l’enorme importanza della seconda venuta di Cristo, senza la quale quanto fatto da Gesù precedentemente sarebbe inutile. La sua incarnazione con la morte in croce sono la semina; il suo ritorno, come lui stesso ha detto e come ce lo rappresenta l’Apocalisse (Ap 14: 14-­‐20), equivalgono alla mietitura. Quanto sarebbe stolto un agricoltore che seminasse senza andare mai a raccogliere!».36 La beata speranza37 – indica il ritorno di Cristo. Giorno in cui il nostro Signore inaugurerà per sempre il suo regno di pace, di giustizia e di amore; dove «il lupo e l'agnello pascoleranno assieme, il leone mangerà il foraggio come il bue, e il serpente si nutrirà di polvere» (Is 65.25) e «allora si apriranno gli occhi dei ciechi e saranno sturati gli orecchi dei sordi, lo zoppo salterà come un cervo e la lingua del muto canterà di gioia; perché delle acque sgorgheranno nel deserto e dei torrenti nei luoghi solitari» (Isa 10:5-­‐6) e «i morti in Cristo risusciteranno poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nell'aria; e così saremo sempre con il Signore» (1 Tess 4:17). Ed «Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21:4). La triade dell’esistenza umana: la sofferenza, la colpa e la morte sono aperti alla speranza e «la speranza è un essere pronti in ogni momento a ciò che nasce, a ciò che ancora non è; è un’attività intensa, ma non ancora spesa. Ad essa si ricollega la fede come convinzione della possibilità non ancora dimostrata di ciò che ancora non è, come certezza dell’incerto».38 La fede, scrive l’apostolo Paolo, «è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono» (Ebrei 11:1). In altre parole, la fede è l'assoluta certezza che si sviluppa nel credente e che lo induce a considerare come già realizzate fatti e azioni che non si sono ancora avverati, nei confronti dei quali non si ha il minimo dubbio sulla loro realizzazione. La fede va oltre l’evidenza dei fatti. Il credente accetta quello che Dio afferma benché la mente umana non lo capisca e benché tutto il mondo lo neghi. Ciò non significa che la fede sia cieca. È piuttosto una chiara visione spirituale della vita. Quando Abramo fu chiamato da Dio, senza vacillare, senza porre alcuna domanda, per fede ubbidì ed uscì senza sapere dove andava. Aveva piena fiducia in Dio. Per lui, gli esseri umani potevano fallire, ma Dio no. La sua non fu una fede cieca, ma una fede sensata, giudiziosa, basata nell'esperienza della presenza di Dio nella sua vita. 35
N. Brox, “Le lettere pastorali”, p. 443, ed. Morcelliana – Brescia, 1970
G. Fantoni, “Lettera a Tito”, Anno accademico 2001 – 2002 -­‐ Istituto Avventista di Cultura Biblica Villa Aurora -­‐ Firenze 37
Speranza, nella lingua greca, vuol dire attesa gioiosa, attesa di una cosa desiderabile. Nella speranza, detta in greco, non vi è mai un dubbio circa il verificarsi dell’evento, come invece accade nella lingua italiana. Il fatto che, per di più, detta speranza venga definita beata incentiva l’aspetto gioioso dell’attesa, lo fa diventare superlativo: gioiosissimo. -­‐ G. Fantoni, Idem. 38
Roberto Zavalloni, “Psicologia della speranza”, p. 16
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9 \ In occasione dell’ultima cena, Gesù parlò a lungo, come se i gesti che aveva compiuto39 in silenzio avessero aperto la porta alla parola. Dopo aver mostrato loro la sua visione dell’umiltà, della condivisione, dell’amore e del perdono, lascerà loro in eredità una serie di principi essenziali di vita. Delle chiavi della felicità. Le chiavi che permettono l’accesso al suo Regno. Prima di tutto parlò loro di serenità, di fiducia e di speranza. “Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me! (...) Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà. Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti” (Gv 14:1,27). Per i primi cristiani la speranza era collegata all'attesa della parusia -­‐ cioè del ritorno -­‐ del Signore. Questo dà l'idea di come non si potesse parlare di speranza di salvezza al di fuori della speranza nel secondo avvento del Cristo. La croce di Cristo rappresenta il culmine dell'amore di Dio. Ma senza la risurrezione essa sarebbe segno di un amore impotente, che commuove ma non salva. Senza il ritorno di Cristo, la croce diventa segno di un amore dimentico. Però così non è: com'è vero che Cristo è risorto dimostrando che l'amore di Dio è potente, così egli ritornerà mostrando che Dio ha la volontà di portare veramente a compimento il progetto del suo amore. Alcuni «...diranno: Dov'è la promessa della sua venuta?... Ma voi, diletti, non dimenticate quest'unica cosa, che per il Signore, un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. Il Signore non ritarda l'adempimento della sua promessa... ma egli è paziente verso voi, non volendo che alcuni periscano, ma che tutti giungano a ravvedersi» (2Pt 3:4,8,9).40 Il grande amore di Dio che si è manifestato, nella persona di Gesù, la Grazia, ci insegna e ci induce a mutare il nostro rapporto con lui in vista della beata speranza. L’empietà è un cattivo o inesistente rapporto con lui. Pertanto, il presente dell’esistenza cristiana sta dunque tra il passato e il futuro dell’epifania di Cristo Gesù. «Beati quelli che sono invitati alla cena delle nozze dell'Agnello"». Poi aggiunse: «Queste sono le parole veritiere di Dio» (Ap 19:9). 39
La lavanda dei piedi – Giovanni 13
Giovanni Leonardi, “Il ritorno annunciato”, ed. AdV, Impruneta (Fi)
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